Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

177
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE FACOLTÀ DI ECONOMIA CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA AZIENDALE LAUREA IN ECONOMIA E GESTIONE DELLE IMPRESE II Relatore Candidato Prof. Vincenzo Zampi Lorenzo Paccosi A.A. 2011/2012

description

tesi di laurea triennale in economia aziendale

Transcript of Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Page 1: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE

FACOLTÀ DI ECONOMIA

CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA AZIENDALE

LAUREA IN

ECONOMIA E GESTIONE DELLE IMPRESE II

Relatore Candidato

Prof. Vincenzo Zampi Lorenzo Paccosi

A.A. 2011/2012

Page 2: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

2

Page 3: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

INDICE

INTRODUZIONE 9

CAPITOLO I Teoria e pratica della Corporate social responsibility 14

I.1 La Corporate social responsibility nella teoria 15

I.1.1 Premessa 15

I.1.2 L'evoluzione del concetto di “responsabilità sociale” di un’impresa

nella storia del pensiero economico 16

I.1.2.1 L'era pre-globale 16

I.1.2.2 L'era della globalizzazione 18

I.1.3 Il contesto normativo 20

I.1.4 La definizione 21

I.1.5 Lo Stakeholder based approach 22

I.1.6 Differenze interpretative sulla Csr: da modello di business

a cuore dell'identità di un'azienda 24

I.2 Strumenti per la messa in atto della Csr 26

I.2.1 Il codice etico 26

I.2.2 Welfare aziendale 29

I.2.2.1 Panoramica 29

I.2.2.2 Uno sguardo ravvicinato 30

I.2.3 Le certificazioni e gli standard 33

I.2.3.1 Panoramica 33

I.2.3.2 ISO, OHSAS e SA 35

I.2.3.3 Certificazioni tra confrontabilità e omologazione 37

I.2.4 Il Corporate giving 39

I.2.4.1 Panoramica 39

I.2.4.2 Cause related marketing e simili 40

I.2.4.3 Filantropia aziendale 43

I.2.5 Sostenibilità ambientale 44

I.2.5.1 L'avvento di un problema 44

I.2.5.2 Le soluzioni adottate 47

I.2.6 Il bilancio sociale 50

I.2.6.1 La Triple bottom line 50

I.2.6.2 Il rapporto tra Csr e rendicontazione sociale 52

I.2.6.3 Finalità del bilancio sociale 53

I.2.6.4 I modelli di riferimento 54

CAPITOLO II Responsabilità della Olivetti Spa dell'ingegner Adriano 60

II.1 Introduzione 61

II.1.1 Storia della Olivetti Spa e biografia di Adriano Olivetti in breve 61

II.1.1.1 Gli inizi 61

3

Page 4: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.1.1.2 L'ascesa di Adriano Olivetti 62

II.1.1.3 La fine di un'era 65

II.1.2 La persona e le idee di Adriano Olivetti 69

II.1.2.1 L'uomo 69

II.1.2.2 La finalità del mezzo economico secondo Adriano 73

II.2 Principi e pratiche dell’etica Olivetti 80

II.2.1 Essere un olivettiano 80

II.2.2 I principi guida 85

II.2.2.1 Introduzione 85

II.2.2.2 Lavoratori in quanto uomini 87

II.2.2.3 L'estetica 95

II.2.2.4 Il valore delle comunità locali 101

II.3 Le opere 110

II.3.1 Una panoramica sui servizi 110

II.3.1.1 Introduzione 110

II.3.1.2 I destinatari 111

II.3.1.3 La qualità 112

II.3.1.4 Il Consiglio di Gestione 113

II.3.1.5 Le scienze sociali 115

II.3.1.6 Uffici e figure professionali al servizio della responsabilità aziendale 117

II.3.2 Le iniziative concrete 121

II.3.2.1 Sanità 121

II.3.2.2 Maternità 122

II.3.2.3 Infanzia 123

II.3.2.4 Formazione professionale 128

II.3.2.5 Mensa 134

II.3.2.6 Trasporti 135

II.3.2.7 Architettura e politica edilizia 136

II.3.2.8 Le iniziative artistico-culturali 142

CAPITOLO III Confronto e conclusioni 150

III.1 Comparazione 151

III.1.1 Il codice etico 151

III.1.2 Welfare aziendale 155

III.1.3 Le certificazioni e gli standard 157

III.1.4 Il Corporate giving 161

III.1.5 Sostenibilità ambientale 163

III.1.6 Il bilancio sociale 165

III.1.7 Osservazioni finali 169

III.1.8 Conclusione 172

Bibliografia e sitografia 175

4

Page 5: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

5

Page 6: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Secondo me si potrebbe, essere tanti, ma tanti, diciamoche ci sono stati degli sbagli, la prima volta, si sa,

che non ne ha colpa nessuno, è andata così,e ricominciare tutto da capo.

Raffaello Baldini, IL MONDO, Ad Nòta

6

Page 7: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

7

Page 8: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

ADRIANO OLIVETTI: UN PRECURSORE

DELLA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY?

8

Page 9: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

9

Page 10: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

INTRODUZIONE

«Il mondo degli affari è diventato l'istituzione più potente del pianeta. L'istituzione domi-

nante in qualsiasi società necessita di prendersi la responsabilità per il tutto [for the whole].

Ma il mondo degli affari non ha una tradizione del genere. Questo è un nuovo ruolo, non

ben compreso o accettato. Costruita fin da principio sul concetto di capitalismo e libera ini-

ziativa, era la convinzione che le azioni di molte unità di imprese individuali, rispondendo

alle forze del mercato e guidate dalla "mano invisibile" di Adam Smith, avrebbero in qualche

modo condotto a esiti desiderabili. Ma nell'ultima decade del ventesimo secolo, è diventato

chiaro che la "mano invisibile" è tremante. Ciò è dipeso da un consenso verso significati e

valori fuorvianti, non più presente. Dunque il mondo degli affari deve adottare una tradizio-

ne che non ha mai avuto nell'intera storia del capitalismo: condividere la responsabilità per

il tutto. Ogni decisione che si prende, ogni azione che si compie, deve essere vista alla luce

di quella responsabilità».

Willis Harman, cofondatore della World Business Academy.

Ecco, a me, nel leggere un brano del genere, la prima cosa che vien da pensare, è che Willis

Harman ha ragione. In effetti, non c’è dubbio che le multinazionali o le grandi imprese multi-

business, tramite le scelte operate dal management e le linee guida prescritte per indirizzare

i comportamenti dei suoi dipendenti, contribuiscano a plasmare non solo i mercati, ma anche

i valori dominanti della società, le condizioni di lavoro, l’equilibrio ecologico, i rapporti di ric-

chezza tra le nazioni. È quindi ovvio che esse abbiano un peso non indifferente nel dare un

volto alla civiltà umana. Avere la responsabilità di come quel volto appare in un dato periodo

storico, è la naturale conseguenza del loro potere di influenzare e imprimere un cambiamen-

to sul cotesto dove operano. Ma le vicende del passato, come ribadisce il professor Harman,

ci insegnano che, tra avere una responsabilità ed essere responsabili, c’è una bella differenza.

Perché la responsabilità è una cosa presente sempre e comunque, indifferentemente dal fatto

che se ne abbia o meno coscienza e dal fatto che si contribuisca a trasformare il contesto in

meglio o in peggio o a lasciarlo immutato. Mentre invece essere responsabili significa un co-

stante impegno nella direzione del miglioramento. Quindi, mentre è scontato dire che una

grande impresa abbia responsabilità non indifferenti, non lo è per niente dire che allo stesso

tempo essa sia responsabile, perché il primo aspetto non comporta necessariamente il secon-

do. È evidente allora che l’essere responsabili possa derivare soltanto da una personale forza

di volontà, una tensione morale che trascini i comportamenti verso un positivo cambiamento

e contrasti la tendenza all’irresponsabilità. Per questo «ogni decisione che si prende, ogni

azione che si compie, deve essere vista alla luce di quella responsabilità».

10

Page 11: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Inoltre, ripensando al percorso di studi che ho compiuto durante questa laurea triennale,

beh, se dovessi basarmi solo su quello, non potrei far altro che ammettere anch’io che una

tradizione del genere, nel mondo degli affari, non ci sia mai stata. È soltanto verso la fine de-

gli anni Novanta che le imprese, in particolare multinazionali, (spinte da nascenti problemati-

che di notevole entità come i disastri ambientali e gli scompensi dovuti alla globalizzazione)

sembrano aver seriamente accettato di allargare il loro ambito di responsabilità. Hanno rico-

nosciuto di esercitare un profondo influsso non solo sul contesto economico, ma anche su

quello civile. A una tale presa di coscienza sono poi seguite le azioni, e da queste è nata la

Corporate social responsibility. Grazie alla Csr le imprese socialmente responsabili non costi-

tuiscono più un’eccezione alla regola, sono finalmente una realtà diffusa, e stanno diventan-

do esse stesse la norma. Con la Csr la responsabilità sociale d’impresa è stata definitivamente

riconosciuta come un modo di fare affari valido quanto tutti gli altri e resa applicabile ad

ogni azienda. Ma le pratiche di Csr sono storia recente, rappresentano “una risposta ai segni

dei tempi”, non fanno parte della tradizione del mondo degli affari. La teoria economica inve-

ce, quella sì che sono decine di anni che riflette sulla questione. Ad esempio, tra i primissimi

contributi si ricorda Can Business Afford to Ignore Social Responsibilities? di K. Davis. Era il

1960. Ma l’articolo di Davis apparso sul Californian Management Review, è soltanto uno dei

primi vagiti di una nuova presa di coscienza destinata a spaccare in due il pensiero economi -

co. Rappresentano quel momento storico, fondamentale, in cui si cominciò a dubitare, ci si

iniziò a chiedere se fosse possibile che il mondo degli affari ignorasse le responsabilità socia-

li. A cinquant’anni di distanza da quella prima domanda, il pensiero economico sembrerebbe

giunto a una risposta univoca, ed è una risposta negativa: no, non le può più ignorare.

Però, a questo punto mi sorge un dubbio. Ma è mai possibile che nella storia della tradizio -

ne imprenditoriale, mai un’impresa abbia osato rispondere “no” in modo autonomo a una do-

manda del genere, senza aspettare la definitiva presa di posizione degli economisti? Ecco che

quando leggo quel brano del professor Harman, mentre penso che abbia ragione, allo stesso

tempo mi vien da pensare che, probabilmente, ha anche un po’ torto. Ha torto quando dice

che il mondo degli affari non ha mai avuto “una tradizione del genere”, quella di prendersi

“la responsabilità per il tutto”. Ed io, in questi 24 anni di vita, forse almeno un esempio che

contraddica il professor Harman, mi è capitato di trovarlo. L’esempio di un’impresa che è ri-

masto sotto gli occhi di tutti per cinquant’anni e passa; coinciso con l’esempio dato dal suo

proprietario e manager. Un esempio tutto italiano ma esportato in 19 nazioni. Un esempio

tangibile per almeno 47000 persone in tutto il mondo (a tanto ammontavano i dipendenti nel

‘61). Un esempio che però, per quanto troppo evidente da ignorare, sembrerebbe non essere

11

Page 12: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

riuscito a cambiare i paradigmi del sistema economico in cui agiva, a rivoluzionare il mondo

degli affari. Proprio da questo, al contrario, sembrerebbe essere stato spazzato via e

condannato all’oblio.

Adriano Olivetti morì proprio nel 1960. Alla sua morte, nella sua azienda, quella volontà di

assumersi la “responsabilità per il tutto” era una realtà, e lo era già da decine di anni. Quello

dell’Olivetti di Adriano è l’esempio di una grande impresa multinazionale, guidata da un

uomo che quella “necessita di prendersi la responsabilità per il tutto” la sentiva dentro di sé

e che in 59 anni di vita cercò di farsene degnamente carico e di esserne all’altezza. Ma, ap-

punto, un esempio che non ha fatto “tradizione”, non ha cambiato la storia dell’economia. Per

quale motivo? Uno che lo conosceva bene, Luciano Gallino, ha suggerito che i motivi sarebbe-

ro da individuarsi ne «i tempi, la sproporzione delle forze in campo, la stessa crudele brevità

della sua vita». Ma può anche darsi che sia semplicemente successa quella cosa che Winston

Churchill sovente notava, ovvero che «A volte l'uomo inciampa nella verità, ma nella maggior

parte dei casi si rialzerà e continuerà per la sua strada».

L’esempio dell’esperienza imprenditoriale di Adriano è sopravvissuto alla sua assenza e, an-

cora a distanza di tanti anni, continua ad apparire come qualcosa di lapalissiano, inoppugna-

bile. Nonostante si tratti di un esempio ormai appartenente alla storia, ho cercato comunque

di renderlo il più possibile un qualcosa di tangibile riportando le numerose testimonianze, i

ricordi di una vita di coloro che vissero quell’esperienza in prima persona e videro l’agire di

Adriano con i propri occhi.

Oggetto di questa tesi non è esprimere un giudizio di merito. Né sulla Csr, né sull’opera di

Adriano. Qui nessuna delle due verrà elevata a parametro ideale oppure messa in discussio-

ne. Perché oggetto della trattazione non è determinare quale sia meglio o peggio. Ma entram-

be verranno messe a confronto, saranno l’una metro dell’altra, per misurare la distanza che le

separa e individuarne le affinità. Per scoprire, infine, se davvero l’homo oeconomicus, a un

certo punto della sua storia, sia inciampato nella verità e abbia perso una grande occasione.

L’occasione di prendere, con due generazioni di anticipo, una via, quella dell’essere responsa-

bilità, sulla quale, ad oggi, volente o nolente, sembrerebbe essersi avviato. L’attualità, nei con-

fronti della moderna Corporate social responsibility, del pensiero e dell’agire imprenditoriale

di Adriano Olivetti è l’oggetto di questa tesi, per vedere se davvero possa rientrare nel novero

di quelle «opere che – come diceva Calvino – non finiscono mai di dirci quello che hanno da

dire».

12

Page 13: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

13

Page 14: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

CAPITOLO I

TEORIA E PRATICA DELLA

CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY

14

Page 15: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.1 La Corporate social responsibility nella teoria

I.1.1 Premessa

La Csr è una dottrina economica, intesa come un complesso di principi, nozioni e criteri ac-

quisiti tramite lo studio approfondito di un fenomeno economico. Nel nostro caso, si tratta di

un fenomeno relativamente nuovo, di una serie di comportamenti imprenditoriali affini, inno-

vativi rispetto a quella che in passato era considerata la norma, i quali si sono diffusi a tal

punto da non poter più passare per casi isolati, eccezioni. Questi comportamenti sono stati

quindi studiati come un insieme omogeneo a cui è stato dato un nome. È l'insieme delle poli-

tiche imprenditoriali di responsabilità sociale. Le imprese hanno cominciato ad essere defini -

te sostenibili, ambientalmente e socialmente sostenibili. Ma di che tipo di azioni stiamo par-

lando. Si tratta di comportamenti che apportano un beneficio o, più spesso, semplicemente

riducono gli effetti negativi dell'attività d'impresa nei confronti della società, di una comunità

o dell'ambiente. Insomma per dirla in "economichese" soddisfano o semplicemente non com-

promettono gli interessi di un ventaglio allargato di stakeholder che nutrono delle aspettative

verso l'ente economico privato. Col tempo, lentamente, nelle imprese si è cominciata a diffon-

dere, in modo più o meno volontario, l'abitudine, nel prendere decisioni relative ai loro affari,

di non decidere più solo in base a quello che sarebbe stato meglio per gli affari e per gli azio-

nisti e per i finanziatori, ma di tenere conto anche di altri interessi, interessi di gruppi che

non hanno potere decisionale, cioè il potere di influire direttamente sulle scelte imprendito-

riali, ma da queste sono comunque direttamente influenzati nel bene e nel male. La Csr è con-

siderata quasi unanimemente un modello di business, e, in quanto tale, non formula un giudi-

zio di merito su questo tipo di scelte, ma si limita a fornire una serie di criteri, affinché in

teoria chiunque possa rendere etica la propria impresa. La Csr si occupa di definire che tipo

di scelte manageriali siano necessarie ai fini della trasformazione, di indicare i valori a cui de-

vono ispirarsi e gli obiettivi a cui tendere, i processi e strumenti per l’implementazione delle

scelte effettuate, gli effetti che possono avere sugli affari, i sistemi necessari per controllare e

comunicare il tutto. La Csr è uno strumento di descrizione, delimitazione, catalogazione di

un fenomeno, e come tale indaga i principi che accomunano un certo tipo di scelte imprendi -

15

Page 16: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

toriali, lasciando la questione del perché di tali scelte all'acceso dibattito degli studiosi di eco-

nomia. Così, negli anni, una gran quantità di letteratura economica è stata prodotta chieden -

dosi se le imprese abbiano o meno il dovere di essere socialmente responsabili e per quale

motivo. Il continuo evolversi degli eventi ha però portato a uno spontaneo superamento della

questione in senso affermativo, in conseguenza non solo della sempre maggior diffusione

spontanea di comportamenti etici, ma anche alla contemporanea introduzione, e accettazio-

ne, di normative, carte di diritti, certificazioni, protocolli e raccomandazioni di organismi na-

zionali e sovranazionali che premono in quella direzione.

Oggi, che le pratiche socialmente responsabili stanno piano piano diventando la norma, l'at-

tenzione del mondo degli affari si è per forza di cose spostata dal perché farlo al come farlo.

I.1.2 L'evoluzione del concetto di “responsabilità sociale” di un’impresa nella storia

del pensiero economico

I.1.2.1 L’era pre-globale

Storicamente, le radici del dibattito ideologico da cui è poi scaturita la moderna Csr, sono

vecchie quanto il capitalismo stesso. L'economia e il diritto «classici» si basano sulla netta di-

visione di due poli opposti, fra l'«interesse individuale» e l'«interesse sociale», fra la proprie-

tà/impresa privata e lo Stato. Secondo detta teoria, in breve, il massimo perseguimento del-

l'interesse privato avrebbe automaticamente condotto al massimo benessere collettivo. Sicché

compito dello Stato sarebbe semplicemente quello di stabilire le «leggi generali», come Smith

ha scritto, vale a dire le norme volte a fissare le condizioni generali per assicurare la libera

concorrenza fra le imprese private e il buon funzionamento del mercato. La storia ci dimo-

stra che tutto il secolo ventesimo può essere interpretato come un processo di graduale ero-

sione di questi due poli, un ammorbidimento del loro esasperato estremismo che ha portato

alla nascita di un nuovo scenario economico e giuridico. Volendo indicare con maggior preci-

sione un punto di partenza della problematica qui esaminata, possiamo identificarlo con la

nascita della moderna società per azioni. L'introduzione della logica assembleare (con la for-

16

Page 17: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

mazione di maggioranza e minoranze) produce sia una differenziazione di interessi e di posi -

zioni tra gli azionisti-proprietari, sia una separazione fra la "proprietà" e il "controllo" della

impresa privata. L'accertamento dell'esistenza di tali processi risale agli inizi del XIX secolo

ed è opera principalmente di Karl Marx, che con la sua profonda disamina, in pratica ha get-

tato i semi di ogni altra futura analisi, anche se svolta al di fuori, o addirittura in polemica,

con la sua teoria politica. Dopo aver constatato che, nelle grandi imprese capitalistiche, il

«controllo» dei manager diventa autonomo rispetto alla proprietà, tanto che «va per conto

suo» e non di rado finisce «per depredare gli azionisti» e arricchire gli stessi manager, Marx

sottolineava che il potere dei manager, separato dalla proprietà azionaria, che pur lo legitti -

ma, era ormai divenuto una «funzione sociale», nel senso che operava in una relazione co-

stante con diverse figure sociali oltre a quella degli azionisti (banchieri, creditori, fornitori,

ecc.) entro un contesto di attività e di responsabilità nel quale l'azionista-proprietario «scom-

pare [...] come personaggio superfluo».

L'impatto dell'analisi marxiana sulla cultura formatasi a cavallo dei secoli XIX-XX è stato

così forte che qualche decennio dopo, all'indomani del «grande crollo» del 1929, quando il fe-

nomeno della separazione fra «proprietà» e «controllo» è emerso con l'evidenza di una cor-

posa e incontestabile massa di dati, la preoccupazione maggiore dei sostenitori del sistema

capitalistico (lo ha sottolineato più di trent'anni dopo Adolf A. Berle) era quella di dimostrare

che non fosse necessario far fronte alla «socializzazione» della responsabilità dei manager

privati con la soppressione del capitalismo e della impresa privata, ma appariva sufficiente,

al fine di «governare» il fenomeno, prevedere adeguati controlli esterni da parte dello Stato

sulla gestione delle imprese private.

È sulla base di questa analisi, corroborata dalle teorie di politica economica di John M. Key-

nes, che ha preso avvio il ciclo dell'economia mista. Iniziato in Europa già verso la fine del XIX

secolo, esso ha avuto la sua consacrazione mondiale con il New Deal rooseveltiano, ed è dura-

to fino agli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. Nel successivo ventennio, infatti, anche il

sistema misto è giunto al termine del suo ciclo storico attraverso un apparente ritorno alla

più pura teoria «classica», al «liberismo» sulle ali del progressivo inasprimento della dicoto-

mia capitalismo-comunismo. In realtà, nei paesi industrialmente più evoluti era già emersa

una teoria dell'impresa privata che sottolineava nettamente il lato della «responsabilità socia-

le» del management. Essa è stata delineata già, nei primi decenni del secolo XX da Walther Ra-

thenau in Germania e da Merrick Dodd in America, i quali sono giunti in quegli anni alle stes -

17

Page 18: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

se conclusioni cui era giunto Marx qualche decennio prima osservando l'economia inglese. Sia

Rathenau sia Dodd, infatti, hanno sostenuto che, l'impresa privata, o meglio la grande società

per azioni, era divenuta ormai una istituzione, ossia un insieme organizzato di relazioni so-

ciali, né più né meno «dello Stato, della Chiesa o dei Municipi»; un'istituzione di cui i mana -

ger, resi autonomi dalla proprietà azionaria, erano l'elemento direttivo, ma che tuttavia inte-

ragiva con una molteplicità di altre «componenti sociali», quali gli stessi azionisti di maggio-

ranza, gli azionisti di minoranza, i dipendenti, i fornitori, i consumatori e la comunità locale.

Quale punto di riferimento di un complesso di relazioni sociali, l'impresa privata era concepi-

ta essenzialmente come un attore sociale che, pertanto, si muoveva in un ambito sociale e ri -

spondeva della sua azione alla società. E ovviamente, nei confronti di quest'ultima, risponde-

va non già dei ricavi o dei guadagni ottenuti, ma della «correttezza» della propria azione e,

come ha ammesso lo stesso Berle (negli anni Cinquanta), persino della «onestà», ossia dell'eti -

cità dei comportamenti tenuti. Tirando le somme del pluridecennale dibattito sulla responsa-

bilità sociale dell'impresa privata nell'epoca pre-globale, occorre notare che, oltre ad apparire

di carattere essenzialmente teorico e privo di ricadute pratiche, esso non è riuscito ad aprire

orizzonti realmente nuovi.

I.1.2.2 L'era della globalizzazione

L'avvento della globalizzazione (con i profondi mutamenti che ha provocato nella vita socia-

le e, quindi, agli ordinamenti politici, economici e giuridici) ha innovato profondamente il

contesto entro il quale era stato sempre posto il problema della responsabilità sociale dell'im-

presa privata e, in un certo senso, ha agevolato l'uscita del dibattito dalle secche dei principi

astratti, favorendo un approccio molto più pragmatico. Si può dire, anzi, che le condizioni

create dalla globalizzazione hanno costituito, ora in positivo, ora in negativo, un potente in-

centivo per le imprese private a “prendere sul serio” il problema della responsabilità sociale e

a dare ad esso soluzioni concrete.

L'irreversibile processo di globalizzazione, se da un lato apre grandi opportunità per la

creazione di nuova ricchezza, dall'altro suscita il motivato timore di allargare il divario esi -

stente tra aree ricche e povere del mondo. Di qui la necessità di un attento governo del feno-

meno, nel quale le imprese, soprattutto le multinazionali di grandi dimensioni, sono chiama-

18

Page 19: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

te a un ruolo primario in virtù del crescente potere assunto. Nell'epoca globale si crea una si-

tuazione grazie alla quale il campo della responsabilità sociale dell'impresa tende a perdere

ogni riferimento locale e finisce per estendersi all'intera societas hominum, a un'umanità co-

smopolita, privata dei suoi caratteri distintivi e di qualsiasi ancoraggio spaziale e temporale.

Dato un tale contesto, la Csr viene a connotarsi principalmente come responsabilità etica, os-

sia come rispondenza dei comportamenti imprenditoriali a principi di umanità e di onestà a

carattere universale, la cui eventuale violazione produce effetti potenzialmente ricadenti su

tutti.

È dall'esperienza aziendale di questi ultimi decenni, più che dal dibattito teorico, che sono

venute le novità più interessanti che hanno aperto originali prospettive al tema qui discusso.

Certo, a conferire concretezza alla “scoperta” che nelle grandi imprese l'attività manageriale

si configura essenzialmente come «funzione sociale» ha contribuito non poco il dissolvimen-

to del fantasma del socialismo/comunismo, che, come ha lasciato intendere la testimonianza

di Berle degli anni Sessanta, ha frenato per lungo tempo l'evoluzione della tematica. Tuttavia,

molto più importante perché strutturale, è stato il ruolo giocato dalla globalizzazione, non

solo per il mutamento dello scenario reale, ma anche per l'apertura di un nuovo orizzonte

culturale, il quale non è più delineato dall'antitesi impresa privata/Stato come sinonimo del-

l'antitesi fra libertà (anche egoistica e distruttiva) e controllo a fini etico-sociali. Oggi, ambe-

due queste valenze, quella della libertà e quella della responsabilità, sono attive a livello delle

condizioni che fanno funzionare correttamente il mercato (un livello accettabile di legalità, di

sicurezza, di, fiducia reciproca, di professionalità, di certezza ecc.) e entrambe trovano un

punto d'incontro a livello delle imprese nella Corporate social responsibility.

19

Page 20: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.1.3 Il contesto normativo

In tutto il mondo i tentativi di standardizzazione dei modelli di responsabilità sociale si

sono moltiplicati negli ultimi anni. Essi, comunque, trovano in alcuni chiari principi di fondo

enunciati in patti, dichiarazioni, carte di orientamento emanati da istituzioni sovranazionali,

una cornice normativa molto valida come minimo comune denominatore e fonte di ispirazio-

ne. Questo tipo di documenti contiene enunciazioni di portata più o meno generale, ispirate a

convenzioni di valenza universale come la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del

1984, la Dichiarazione sui principi e diritti fondamentali nel lavoro del 1998, la Dichiarazione

di Rio sull'ambiente e lo sviluppo del 1992 e la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1959.

A livello internazionale assumono particolare importanza:

gli assunti dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) di luglio del 2000: il patto

globale (Global Compat) per gli obiettivi di sviluppo del millennio;

le linee guida destinate alle imprese multinazionali dell'Organizzazione per la Coope-

razione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e la dichiarazione tripartita di principi sulle

imprese multinazionali e la politica sociale dell'Organizzazione Internazionale del La-

voro (OIL).

Calandosi nel contesto europeo, si osserva come lo sviluppo sostenibile sia da tempo un

obiettivo chiave della politica europea sancito in primis nel 1993, con il Libro Bianco della

Commissione europea e, più recentemente, riconfermato dalla Dichiarazione sui principi di-

rettori delle sviluppo sostenibile del giugno 2005. Ma le principali iniziative che a livello euro-

peo hanno incoraggiato il dibattito e stimolato la riflessione sul concetto di Csr sono:

la cosiddetta Strategia di Lisbona definita durante il Consiglio europeo straordinario

tenutosi nel marzo del 2000 e l'Alleanza europea per la Csr del giugno 2006 tra la

Commissione europea e i rappresentanti del mondo delle imprese;

l'emanazione nel 2001, sempre da parte della Commissione europea, di un documen-

to, il Libro verde, intitolato Promuovere un quadro per la responsabilità sociale delle

imprese;

20

Page 21: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

l'istituzione dell'European Multi-Stakeholder Forum on Corporate social responsibility,

volto a promuovere la trasparenza e la convergenza delle prassi e degli strumenti so-

cialmente responsabili.

I.1.4 La definizione

Per comprendere appieno di cosa si parla quando incontriamo l'acronimo Csr o, talvolta,

Rsi, è bene partire dalla più importante tra le numerose definizioni elaborate nel tempo da

economisti, imprenditori e istituzioni: quella che la Commissione Europea ha fornito nel Li-

bro Verde del 2001, definendola come "l'integrazione, su base volontaria, da parte delle im-

prese delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei loro

rapporti con le parti interessate �� gli stakeholder". Questa breve ma esaustiva definizione

mette in risalto tre aspetti della Csr.

Il primo consiste nel fatto che non si tratti di una pratica obbligatoria. Non ci sono leggi che

impongono alle imprese di adottare un certo tipo di comportamenti eticamente virtuosi per-

ché il diritto, come ha scritto tempo fa George Jellinek, non stabilisce altro che un «minimo

etico». Anzi la Csr esiste proprio per il fatto che un'impresa può liberamente scegliere di an-

dare oltre gli obblighi legislativi, rendendosi in questo modo compartecipe del miglioramento

sociale.

Il secondo assunto risiede nella considerazione che la beneficenza disinteressata sia un'a-

zione che esula dal campo della Corporate social responsibility. La Csr, infatti, dovrebbe coin-

volgere l'impresa nel profondo, mutarne l'essenza. Di conseguenza una sua corretta applica-

zione non può non manifestarsi proprio nello svolgimento delle attività caratteristiche di

ogni organizzazione economica (vendita o fornitura di beni o servizi). È solo nello svolgimen-

to degli affari che il fine economico e il fine etico possono e devono trovare un punto d'in-

contro, un mutuo sostegno e un'equa soddisfazione. Proprio il raggiungimento di tale punto,

in una prospettiva di lungo termine, è il fine ultimo che dà un senso alle iniziative socialmen-

te responsabili.

Il terzo, e più importante, riguarda la centralità delle parti interessate. Il più importante in

quanto, se l'impresa è determinata a ottenere un consenso diffuso all'interno dell'ambiente

21

Page 22: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

che la circonda, se si propone di essere sensibile alle istanze provenienti da soggetti che non

rientrano nella cerchia ristretta proprietà-management-finanziatori, non può prescindere dal-

l'instaurazione di un dialogo con chi è portatore di tali istanze, con chi in pratica dovrebbe

porgerle quel consenso. Per passare alla fase concreta di contribuzione alla soluzione di pro-

blemi sociali e ambientali, è necessario che prima ne prenda coscienza e li analizzi. E questo

sarà possibile unicamente mettendo chi è toccato da tali problemi, al centro dell'attenzione

durante lo svolgimento dei processi decisionali.

I.1.5 Lo Stakeholder based approach

Il concetto di stakeholder è stato teorizzato per la prima volta nel 1963 dallo Stanford Re-

search Institute e originariamente facevano parte di questa categoria solo i soggetti aventi un

interesse diretto nella vita dell'impresa: azionisti, dipendenti, clienti, fornitori. Tuttavia nel

corso degli anni il concetto si ampliò notevolmente con la definizione fornita da Edward Free -

man nel suo saggio del 1984 Strategic Management: a stakeholder approach, secondo la quale

stakeholder è ogni individuo ben identificabile che può influenzare o essere influenzato dal-

l'attività dell'organizzazione in termini di prodotti, politiche e processi lavorativi. In base a

questa definizione, anche lobby, movimenti di protesta, comunità locali, enti di governo, as-

sociazioni imprenditoriali e non, concorrenti, sindacati e la stampa sono tutti da considerarsi

stakeholders. Traducendo alla lettera, Freeman individua gli stakeholder in quei «soggetti

senza il cui supporto l'impresa non è in grado di sopravvivere», rendendo bene l'idea della

loro fondamentale rilevanza. Se un'impresa in genere non può prescindere dal dar loro ascol -

to, tanto meno può farlo un'impresa socialmente responsabile.

Da questa logica nasce lo Stakeholder based approach, un efficace modello per affrontare il

problema di integrazione della Csr nella corporate strategy, rendendo sistematico l'orienta-

mento all'etica della propria impresa. Per capire meglio questo modello bisogna adottare una

particolare chiave di lettura dell'azienda, un approccio di tipo teleologico: la visione per sog-

getti. Il sistema impresa, come qualsiasi altro nucleo sociale, può essere rappresentato quale

manifestazione concreta dell'interazione tra gli scopi (finalità, interessi) dei suoi stakeholders

(insieme dei soggetti interessati all'attività d'impresa). L'importanza di questa visione "sog-

22

Page 23: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

gettiva" è del resto facilmente intuibile riflettendo sul peso che tali soggetti assumono nella

nascita e nel fisiologico funzionamento del sistema aziendale all'interno del tessuto socio-

economico in cui tale sistema è inserito. Condizione essenziale per la nascita e la soprav-

vivenza dell'impresa è infatti l'esistenza di una domanda, e quindi di una clientela alla quale

destinare il prodotto o il servizio attivando un rapporto di scambio, e di un'offerta, cioè di

fornitori di risorse, tangibili e intangibili, necessarie per la creazione e la strutturazione del

sistema operativo, nonché per la sua crescita e per la sua corrente alimentazione, anche in

questo caso il tutto tramite rapporti di scambio. A questi due gruppi di interlocutori si affian-

cano altre categorie di soggetti che, seppur con diverse finalità, attivano fisiologicamente rap-

porti diretti con l'impresa. Lo Stato, ad esempio, che da un lato procede alla riscossione di

imposte e dall'altro dovrebbe garantire la presenza di infrastrutture e servizi strumentali al-

l'esercizio dell'attività d'impresa. Ma anche gli organismi sovranazionali che codificano stan-

dard qualitativi di processo e di prodotto; gli istituti di credito che forniscono le risorse ener-

getiche finanziarie necessarie; i concorrenti attuali e potenziali; le agenzie di rating; i gruppi

di pressione esterni (si pensi a fenomeni quali il consumierismo, l'ambientalismo, ecc.) o in-

terni (sindacati), tutti portatori di certe esigenze sociali e politiche che possono creare vincoli

e/o imporre orientamenti più o meno espliciti, direttamente e indirettamente, all'attività del-

l'impresa. È facile intuire come l'attività imprenditoriale di strutturazione e di guida dell'im-

presa debba necessariamente essere effettuata tenendo ben presenti le problematiche scatu-

renti dalla gestione simultanea di tutti i rapporti tra il sistema impresa e i soggetti esterni. È

questa l'esigenza alla base dell'approccio teleologico all'impresa. Messa in questa prospettiva,

l'azienda si può considerare come il centro su cui gravitano tutta una serie di interessi, scopi

e aspettative del più vario genere cui sono portatori una pluralità di soggetti (interni ed ester-

ni all'impresa) che vedono nei risultati dell'attività aziendale un mezzo di appagamento; cen-

tro la cui sopravvivenza dipende proprio dalla capacità che ha di soddisfarli. Riassumendo

possiamo dire che la possibilità dell'impresa di sopravvivere nel tempo è strettamente con-

nessa alla sua capacità di attirare intorno alla sua attività più consensi che dissensi, o, ancora

meglio, di fare in modo che la forza di coloro che hanno interesse a far sì che l'impresa conti-

nui ad esistere sia superiore rispetto a quella di coloro che invece perseguono l'interesse op-

posto.

23

Page 24: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.1.6 Differenze interpretative sulla Csr: da modello di business a cuore dell'identità

di un'azienda

Porre l'accento sulla questione degli stakeholder e dei loro interessi, fondamento di una se -

ria Csr, implica una riflessione che arriva a toccare la stessa ragion d'essere di un'impresa. Se

per un verso ha ragione Milton Friedman a dire che l'unico fattore di legittimazione dell'im-

presa privata è il profitto, per altro verso è evidente che quest'ultimo non può essere ottenu-

to senza il "consenso" ad agire dell'ambiente in cui opera. Nella società ci sono operatori eco-

nomici che indirizzano le loro scelte fondamentali sulla base dei motivi della più diversa na-

tura, la cui determinazione dipende in gran parte dall'ambiente culturale, dagli stili di vita,

dalle convinzioni più profonde. E, se l'ambiente circostante dà valore all'eticità delle scelte

imprenditoriali, queste ultime, ove non vogliano essere delegittimate, non hanno altra via che

adeguarvisi. L'unica condizione che in tal caso debbono osservare è il rispetto del vincolo

economico (profitto o creazione di ricchezza).

Ma che dire allora delle numerose imprese che si sono date come obiettivo quello della crea-

zione di valore per gli azionisti? sono esse costituzionalmente disallineate rispetto alla logica

della responsabilità sociale e farebbero dunque bene a tenersene alla larga, salvo un ripensa-

mento radicale della loro impostazione? La risposta è “dipende. Dipende da come esse di fat -

to interpretano l'obiettivo di creazione di valore per gli azionisti. Se questo obiettivo viene as-

solutizzato e perseguito a tutti i costi con dissennate strategie di crescita o con una esaspera-

ta ricerca dell'efficienza, sacrificando le esigenze di uno sviluppo duraturo e i valori di inte-

grità e di rispetto per le persone e per l'ambiente che sono il fondamento su cui si costruisco-

no relazioni di fiducia con tutti gli interlocutori, è chiaro che si è in presenza di orientamenti

strategici inconciliabili con le logiche soggiacenti ad una seria e feconda responsabilizzazione

sociale e che proprio da tali orientamenti di fondo bisogna ripartire. Dall'etica degli affari agli

affari dell'etica, il passo è davvero breve e il rischio è che tutto venga letto come un'occasione

per le imprese per fare opportunisticamente “vetrina” dei risultati conseguiti in campo socio-

ambientale. La Csr, infatti, non è semplicemente una pratica manageriale molto in voga a cui

conformarsi per non perdere terreno rispetto alla concorrenza. Si tratta invece di una vera e

propria nuova filosofia di gestione delle aziende, quasi un movimento culturale che non è di

destra, di sinistra o di centro, che non è né global né anti global, ma semplicemente di buon

senso e al passo coi tempi. La Csr ha veramente senso solo quando le imprese perseguono l'o -

24

Page 25: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

biettivo di una creazione di valore di lungo periodo tramite una lungimirante strategia di svi-

luppo, nella quale sia conciliata l'apparente conflittualità tra responsabilità socio-ambientali e

responsabilità economiche, in modo che si integrino generando delle sinergie necessarie al

loro simultaneo conseguimento.

25

Page 26: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.2 Strumenti per la messa in atto della Csr

I.2.1 Il codice etico

Il codice etico è un documento di cui si dotano le imprese, una carta dei diritti e dei doveri

morali che definisce la responsabilità etico-sociale di ogni partecipante all'organizzazione im-

prenditoriale. Si tratta di uno strumento che assolve a una duplice funzione.

Prima di tutto è un codice di autodisciplina, un corpus di norme proprio dell'azienda, che

definisce una serie di standard etici di comportamento a cui i dipendenti devono conformar-

si, al fine di tenere alta l'integrità morale dell'azienda nella conduzione degli affari. Dando co-

scienza ai dipendenti delle proprie responsabilità etiche e sociali permette di prevenire com-

portamenti irresponsabili o illeciti da parte di chi opera in nome e per conto dell'azienda. Sot-

to questo aspetto è quindi rivolto a soggetti interni all'impresa, con lo scopo di diffondere

omogeneamente una cultura aziendale forte e precisa, nella quale tutti i dipendenti possano

riconoscersi e sentirsi uniti e di creare consapevolezza su quali siano le migliori pratiche da

adottare. Il codice etico è, in questo senso, anche fonte di motivazione per il personale al ri-

spetto delle regole di qualità e stimola azioni correttive nell'ottica di un miglioramento dei

rapporti con gli interlocutori. Esso è quindi uno strumento basilare per l'integrazione dell'eti-

ca nei processi decisionali che si svolgono all'interno dell'azienda.

In secondo luogo è anche uno strumento d'informazione rivolto a soggetti esterni, di divul-

gazione dei principi fondanti che ispirano le operazioni e le negoziazioni compiute e, in gene-

re, i comportamenti posti in essere dai propri dirigenti, quadri, dipendenti e spesso anche

fornitori, verso i diversi gruppi di stakeholder. Principi che riguardano sia il rispetto delle leg-

gi, cosa che evidentemente non può darsi per scontata, sia il rispetto dei valori morali. Dif-

fondendo all'esterno consapevolezza sui valori alla base di ogni azione intrapresa, l'azienda

crea un consenso favorevole intorno al suo operato, ottenendo una legittimazione sociale a

fare ciò che fa. Legittimazione, va sottolineato, tanto più necessaria quanto più l'impresa ope-

ra in business con forti implicazioni sia sociali che ambientali. Le imprese proclamandosi re-

sponsabili dovrebbero di conseguenza essere ritenute affidabili.

26

Page 27: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Possiamo quindi dire che il codice etico ha tanto una funzione operativa, indirizzando in-

ternamente i comportamenti, quanto una funzione di creazione di fiducia, costruendo un'im-

magine aziendale che possa ricevere il consenso dell'ambiente in cui opera. Numerosi sono i

valori di cui sono solite fregiarsi le imprese, alcuni più generici, valori di base per ogni etica

aziendale che si rispetti, come la trasparenza, la professionalità, l'onestà, l'osservanza della

legge, dei regolamenti e delle disposizioni statutarie, la salvaguardia dei diritti umani, della

dignità, della libertà e dell'uguaglianza delle persone, la tutela dell'ecosistema, la proibizione

di pratiche di corruzione, collusione e di comportamenti discriminatori e opportunistici.

Altri principi sono invece più specifici in relazione all'ambito o agli stakeholder verso cui si

applicano. Così nel campo dei rapporti con gli azionisti e col mercato si è soliti porre enfasi

sulla completezza, tempestività e trasparenza dei dati diffusi, sulla chiarezza e veridicità dei

documenti contabili, sulla conoscibilità da parte del mercato delle decisioni gestionali, sulla

corretta gestione di informazioni privilegiate al fine di scongiurare iniziative di market abuse

e insider trading.

Relativamente ai rapporti con le espressioni organizzate della società civile, quali autorità,

istituzioni pubbliche, organizzazioni culturali, enti non profit e comunità locali, le imprese

solitamente si impegnano a promuovere il dialogo, l'interazione e la cooperazione, a prendere

in considerazione le loro legittime aspettative e a sostenerne, ove possibile, la realizzazione

di interessi diffusi inerenti la qualità della vita di queste comunità.

Nei confronti di clienti e consumatori le imprese si impegnano ad offrire prodotti e servizi

di qualità a condizioni competitive e nel rispetto delle norme poste a tutela della leale con-

correnza. Prodotti e servizi che soddisfino le loro ragionevoli necessità e aspettative, attenen-

dosi inoltre alla verità nelle comunicazioni pubblicitarie e fornendo accurate ed esaurienti in-

formazioni, in modo che i clienti possano assumere decisioni consapevoli.

Per quanto riguarda i rapporti con fornitori e collaboratori esterni, è importante che questi

soggetti siano idonei per professionalità e condivisione dei principi del codice etico azienda-

le, e che vengano selezionati adottando esclusivamente criteri di valutazione oggettivi secon-

do modalità dichiarate e trasparenti, senza precludere a alcuno di loro, in possesso dei requi-

siti richiesti, la possibilità di competere. È inoltre richiesto di mantenere coi fornitori un dia-

logo franco e aperto, impegnarsi nella costruzione di rapporti duraturi per il progressivo mi-

glioramento dell'applicazione dei contenuti del codice, ricercando la loro collaborazione per

assicurare costantemente il soddisfacimento delle esigenze dei clienti.

27

Page 28: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

In materia di lavoro e Risorse Umane le imprese si obbligano a offrire a tutti i lavoratori le

medesime opportunità di lavoro, nel pieno rispetto della normativa di legge e contrattuale in

materia, facendo in modo che tutti possano godere di un trattamento normativo e retributivo

equo basato esclusivamente su criteri di merito e di competenza, senza nessun tipo di discri -

minazione o favoritismo. Rimarcano inoltre la loro attenzione nello sviluppare le capacità e le

competenze di ogni dipendente, così che le loro potenzialità trovino piena espressione per la

realizzazione personale tramite adeguate opportunità di carriera. Non meno rilevante è la

creazione di un ambiente di lavoro che sia, da un lato sicuro per la salute fisica e psicologica

del dipendente, rispettando la normativa vigente, dall'altro sano e fecondo, promuovendo il

dialogo, il reciproco rispetto, la collaborazione e una sana competitività.

Relativamente all'ambiente sono posti in primo piano obiettivi di sviluppo sostenibile. Le

imprese sono quindi disposte a riconoscere e ad assumersi la propria responsabilità nei con-

fronti dei territori in cui operano, tutelando la ricchezza della biodiversità e la qualità del

suolo, delle acque, dell'aria e del paesaggio, prevenendo e limitando il più possibile il loro ne-

gativo impatto ambientale con particolare attenzione ai livelli d'inquinamento. Infine, laddove

non sia stato possibile evitare un danno ambientale, intervenendo con azioni di ripristino del-

le condizioni precedenti.

Ogni codice etico si conclude con una serie di norme di attuazione che impongono ai dipen-

denti di conoscere e applicare il codice, di segnalare eventuali violazioni a un comitato etico o

a un organo di vigilanza. Quest'ultimo funge da garante dell'applicazione delle norme, ne

promuove la diffusione e l'attuazione, comunica agli uffici competenti i risultati delle verifi-

che per l'adozione di eventuali provvedimenti correttivi e sanzionatori.

28

Page 29: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.2.2 Welfare aziendale

I.2.2.1 Panoramica

Sotto la denominazione di Welfare aziendale ricadono innumerevoli prestazioni e servizi

molto diversi tra loro, vari sia per ambito di applicazione sia per complessità di attuazione,

ma tra loro omogenei sotto il profilo delle finalità e dei destinatari. Così, consideriamo una

misura assistenziale d'impresa ogni azione o servizio offerto o semplicemente incentivato

dall'impresa al fine di contribuire al benessere dei propri dipendenti migliorandone la qualità

della vita o, al limite, facendo sì che l'impiego non la peggiori. Si tratta di politiche per la con-

ciliazione tra il lavoro e la vita, tra impegni professionali e privati, che talvolta arrivano a es -

sere vere e proprie iniziative di solidarietà verso i dipendenti e le rispettive famiglie. Renden -

do compatibile la sfera lavorativa con la sfera familiare e aiutando le tipologie di personale

più disagiate, tali politiche forniscono strumenti che consentono a ciascun individuo di vivere

al meglio i molteplici ruoli che gioca all'interno di società complesse. In tal modo fungono an-

che da fattore di innovazione degli attuali modelli sociali, economici e culturali.

Dato il notevole dispendio di energie messo in campo dalle imprese, non si può sottacere

quanto queste a loro volta ne traggano beneficio. Difatti, risolvere i naturali conflitti vita-lavo-

ro si ripercuote positivamente sul clima generale dell'impresa, che vede i suoi lavoratori pren-

dere parte alla vita aziendale con più serenità e quindi con più motivazione. Ciò, sommato a

una migliore gestione del carico di lavoro, genera un aumento della produttività dei singoli

con ovvi vantaggi sulla competitività dell'azienda stessa. La soddisfazione del dipendente ge-

nera inoltre fidelizzazione verso l'azienda con conseguente abbassamento dei tassi di turn

over e assenteismo. Infine, in questo modo, l'azienda riesce ad ottenere un rafforzamento

della propria reputazione grazie sia alla comunicazione rivolta al mercato dei risultati rag-

giunti (tramite ad esempio un bilancio sociale), sia alle iniziative intraprese da vari tipi di or-

ganizzazioni volte a individuare e premiare (non solo grazie al ritorno d'immagine ma anche

economicamente) i "campioni" del Welfare. Una su tutte il Great Place To Work Institute che

annualmente stilla per la rivista FORTUNE's la lista 100 Best Companies to Work For e classifi-

ca i migliori ambienti di lavoro sia su base nazionale che internazionale selezionando oltre

5500 aziende.

29

Page 30: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Considerato nel contesto sociale, il Welfare aziendale è oggi un “tassello” che integra risor -

se, prestazioni e servizi che il Welfare state pubblico non può assicurare. Per questo motivo

si riscontra un forte supporto alle politiche di Welfare aziendale anche da parte dello Stato,

con la diffusione di bandi a livello regionale per l'erogazione di contributi a fondo perduto

alle imprese e soggetti assimilati. Tali bandi rappresentano un sostegno fondamentale per lo

sviluppo dell'impegno imprenditoriale in specifici ambiti di interesse diffuso a cui lo Stato è

particolarmente sensibile come la riduzione della disoccupazione e del precariato, la promo-

zione del diritto al lavoro dei neogenitori, la protezione del potere d'acquisto delle famiglie.

Condizione determinante per un Welfare aziendale di successo è quella di partire dai biso-

gni individuali dei singoli lavoratori e non da soluzioni preconfezionate e calate dall'alto. Poi -

ché variabili come l'età, il genere e le condizioni familiari in questo caso fanno davvero la dif-

ferenza, l'impresa deve essere in grado di conoscere con precisione le loro necessità ed esi-

genze e di dispiegare le proprie politiche assistenziali in quegli ambiti che, alla luce delle ana -

lisi condotte, risultano maggiormente critici e urgenti.

I.2.2.2 Uno sguardo ravvicinato

Data l'ampia varietà delle esigenze di conciliazione dei lavoratori, innumerevoli, come già

ho anticipato all'inizio, sono le pratiche messe in atto dalle imprese al fine di soddisfarle. Per

questo motivo, andando a elencare quali sono nella pratica le prestazioni di Welfare azienda-

le maggiormente diffuse, conviene anche procedere a una, seppur semplice, suddivisione in

base agli ambiti di applicazione, per inquadrarle meglio.

Partendo da quelle rivolte alla salute del dipendente, vanno innanzitutto ricordate le inizia-

tive di assistenza sanitaria con check up e visite mediche gratuite o a condizioni vantaggiose

fruibili presso strutture convenzionate con l'azienda o in alcuni casi nell'azienda stessa; se-

minari di formazione sui rischi per la salute e sul valore della prevenzione; prelievi in azien -

da; assicurazioni sanitarie e previdenziali integrative per il dipendente e i suoi familiari; ser-

vizi di consulenza psicologica on line; contributi economici straordinari a fronte di eventi che

incidono sulla capacità lavorativa, causando gravi patologie invalidanti.

Per quanto riguarda l'ambito del benessere psico-fisico, le più diffuse comprendono zone

relax attrezzate, palestre in cui seguire corsi o svolgere attività fisica assistiti da personal

30

Page 31: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

trainer e nutrizionisti, saune e centri massaggio. Quando le dimensioni dell'azienda non per-

mettono l'integrazione di questi servizi all'interno dell'organizzazione, vengono stipulate

convenzioni con strutture indipendenti che permettono di accedere a centri sportivi, ginnici,

termali, SPA e simili a condizioni agevolate. Ma le attività rivolte al benessere della persona

del dipendente possono essere le più svariate. Così rientrano in questa categoria servizi di

time saving quali lavanderia e stireria, l'integrazione in azienda di sportelli ATM, attività di

biglietteria e prenotazione viaggi e il cosiddetto "servizio maggiordomo", personale dedicato

al disbrigo di pratiche e piccole commissioni per conto dei dipendenti, che consente loro di

evitare inutili perdite di tempo presso uffici amministrativi e sportelli vari ad esempio pagan-

do le bollette, l'abbonamento tv e le multe dell'auto, ma anche prenotando i posti a teatro o

per i concerti; servizi inerenti il trasporto, con convenzioni e iniziative per l'agevolazione del-

la mobilità sostenibile, il trasporto dei figli e la riduzione del disagio del pendolarismo; servi-

zi di consulenza professionale online in materia legale e fiscale, realizzati in collaborazione

con un network di professionisti per fornire pareri su tematiche specifiche relative alla sfera

personale, tipo famiglia e condominio, o ad aspetti fiscali come tasse, tributi e dichiarazione

dei redditi; servizi di organizzazione e promozione di eventi culturali e di intrattenimento

quali ad esempio mostre, concerti, cinema e spettacoli teatrali o agevolazioni alla loro parte-

cipazione.

Una posizione di notevole rilievo è occupata dalle prestazioni rivolte alla famiglia. Tra que-

ste la maggior parte è rivolta ai dipendenti con figli: assistenza pediatrica; asili nido aziendali

o convenzionati; servizi di baby sitting; ludoteche pomeridiane e centri ricreativi aperti nei

periodi di chiusura delle scuole; campus estivi e invernali per ragazzi; supporto all'istruzione

con rimborsi per l'acquisto di libri e materiale didattico e l'erogazione di borse di studio uni-

versitarie; accesso gratuito a uno o più corsi online come corsi di lingue straniere, patente in-

formatica europea ECDL, patente automobilistica e patentino per ciclomotori. Sempre a favo-

re delle famiglie sono le azioni a sostegno del risparmio e del loro potere di acquisto. Tra

queste si annoverano i finanziamenti e i mutui sulla prima casa a tasso agevolato, l'offerta di

una spesa di tot valore in generi alimentari o l'opportunità di acquisto di beni e servizi a con-

dizioni particolarmente vantaggiose attraverso un network di partner ed esercizi convenzio-

nati distribuiti sul territorio. Infine rientrano in questa categoria facilitazioni legate alla ma-

ternità come corsi di reinserimento, sportelli di supporto psicologico, parcheggi dedicati,

31

Page 32: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

flessibilità e riduzione dell'orario, telelavoro e tutto ciò che può agevolare dopo una lunga

pausa dai ritmi lavorativi.

Al fine di conciliare gli impegni professionali con le esigenze personali e familiari, aumenta

costantemente l'utilizzo di contratti che prevedono flessibilità sia sugli orari che sulle retri-

buzioni. Partendo dai primi, gli interventi più blandi riguardano la previsione contrattuale di

permessi e orari elastici per accompagnare i bambini a scuola o per assistere parenti anziani

o invalidi. Un gradino sopra troviamo chi offre una più o meno ampia gamma di orari di lavo-

ro diversi tra cui il dipendente può scegliere; oppure chi destina una linea di produzione ad

avere un orario differenziato rispetto alle altre, ad esempio privo di turni, creata apposita-

mente e con accesso limitato a chi ne ha necessità. Ci sono poi aziende che arrivano a smette -

re di registrare l'entrata e l'uscita dall'ufficio del loro personale, il quale viene valutato solo in

base agli obiettivi raggiunti. Altre offrono la possibilità di lavorare in remoto, tramite una

connessione di rete, replicando a casa del lavoratore la postazione presente in ufficio. Si trat-

ta del cosiddetto telelavoro, grazie al quale il dipendente può svolgere le sue mansioni ge-

stendo autonomamente le proprie necessità durante la giornata ed evitando sprechi di tempo

come, ad esempio, quello necessario a raggiungere l'ufficio. Riguardo l'elasticità delle retribu-

zioni troviamo i flexible benefits. Con la previsione contrattuale di flexible benefits, una parte

variabile dello stipendio può essere "spesa" in servizi offerti al dipendente, che normalmente

egli dovrebbe comprati all'esterno e che invece, in questo modo, gli vengono offerti attraver-

so l'azienda. Grazie a questa tecnica, il costo del lavoro per l'azienda diminuisce e il potere

d'acquisto del dipendente aumenta perché la parte accessoria dello stipendio non è soggetta

a tassazione. Nelle organizzazioni più evolute ogni dipendente può accedere online a un'area

riservata del portale aziendale per confezionare la componente del proprio pacchetto retribu-

tivo variabile, scegliendo tra i benefit disponibili negli ambiti più svariati.

32

Page 33: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.2.3 Le certificazioni e gli standard

I.2.3.1 Panoramica

Le certificazioni sono il risultato di una riflessione sull'opportunità di uno strumento che

regolamenti e faciliti l'applicazione del poliedrico concetto di Csr alla, altrettanto varia, realtà

delle imprese. Una riflessione imposta dalle condizioni in cui si presenta il contesto interna-

zionale, attualmente destabilizzato da pericolosi fenomeni macro-economici come, tra i prin-

cipali, durature crisi economiche, elevato indebitamento pubblico, globalizzazione. Proprio

conseguentemente agli effetti negativi di simili macro-fenomeni, sono oggi tornati oggetto di

dibattito alcuni “difetti” di tipo sistemico, accusati di essere il motivo per cui imprese «fatte

per durare come piramidi, sono ora poco più che dei tentativi», come afferma T.H. Harris nel

suo The post-capitalist executive: an interview with Peter F. Drucker.

I diversi modi di interpretare e di approcciarsi a questo tipo di problema sono sostanzial-

mente riunibili in due filoni di pensiero contrapposti. Riconosciuta la diffusione di pratiche

di Csr come il modo migliore per correggere questa difettosità a livello di sistema agendo di-

rettamente sui soggetti che più lo influenzano (le imprese), le certificazioni, volte a rendere

più agevole l’implementazione di tali pratiche e la loro valutazione, rappresentano una solu-

zione di compromesso che cerca di contemperare le opposte esigenze su cui pongono l'ac-

cento le due correnti di pensiero.

Secondo gli assertori della prima, la libera e illimitata circolazione dei beni vanno conside-

rate la chiave di un diffuso benessere economico. Essi sono convinti, in poche parole, che la

creazione di un «villaggio globale» sia in grado di garantire a tutti i membri della società una

forma di partecipazione universale, la quale farebbe crescere economicamente i paesi in via

di sviluppo, fornendo nuove opportunità occupazionali. È una visione che concorda col mo-

dus operandi delle grandi imprese multinazionali. Questo loro modello si ispira, infatti, al

classico principio liberista del laissez-faire, il quale, detto in parole povere, basa lo sviluppo

economico sulla libera iniziativa e sul libero mercato, limitando l'intervento dello Stato nell'e-

conomia alla costruzione di adeguate infrastrutture che possano favorire il mercato stesso. In

questo contesto l'azione individualistica del singolo nella ricerca del proprio benessere, do-

33

Page 34: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

vrebbe creare soddisfazione a lungo termine ed essere sufficiente a garantire la prosperità

economica della società nel tempo.

Al contrario, dall'altra parte, vi sono le tesi addotte dai detrattori della globalizzazione, le

quali, semplificando, ruotano attorno alla convinzione che tale fenomeno costringa molti

paesi a concentrarsi soltanto su alcune aree di business e ad abbandonare interi settori di at -

tività; paesi in cui il patrimonio ambientale verrebbe sistematicamente distrutto e le

opportunità di lavoro eliminate, con l'effetto finale di accrescere la disuguaglianza tra bene-

stanti e disagiati e causare danni irreversibili al pianeta per via dello sfruttamento improprio

e disordinato delle risorse naturali.

La scissione, nell'opinione pubblica, tra supporters e opposers della globalizzazione è il sin-

tomo di una frattura nel sistema economico che si è tradotta in una forte crisi tra consumato-

ri e aziende, imponendo una riflessione da parte degli operatori economici e degli studiosi

circa la necessità di intervenire, dal punto di vista normativo, sulla promozione e regolamen-

tazione di comportamenti imprenditoriali socialmente responsabili, considerati il motore del-

lo “sviluppo sostenibile”. La questione, lungi ancora dall'essere affrontata in maniera sistema-

tica e univoca, ha comunque focalizzato l'attenzione di dottrina e prassi sulle inevitabili con-

seguenze di ordine sociale e ambientale che, direttamente e indirettamente, sono conseguen-

za dei comportamenti delle imprese nel contesto economico allargato. Peraltro, occorre ricor-

dare come la volontarietà dell'adozione di pratiche socialmente responsabili, statuita nella

definizione stessa di Csr, sia dovuta anche alla constatazione che, in alcuni ambiti, l'imposi-

zione di norme è estremamente difficile per svariate ragioni, tra cui soprattutto la consapevo-

lezza che determinate pratiche sono frutto della lunga maturazione, all'interno di un'impre-

sa, di una cultura aziendale caratteristica, la quale non può essere semplicemente prescritta.

Ci si interroga, dunque, sulle opportunità che una normativa ad hoc, a livello internazionale,

potrebbe offrire nel prevedere, tra i principi del nuovo management, anche obblighi etici nei

confronti della collettività, come elementi fondamentali nell'ordinaria gestione di un'organiz-

zazione.

34

Page 35: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.2.3.2 ISO, OHSAS e SA

Ecco che a metà strada tra la totale assenza di prescrizioni e l'imposizione legislativa, si tro-

vano le certificazioni. Queste prescrivono, ognuna nel suo ambito specifico, linee guida e

prassi standardizzate, a cui facoltativamente un'impresa può conformarsi. Una volta fatto,

entra in possesso di una certificazione riconosciuta in tutto il mondo, che le attesta l'uso di

validi sistemi per la corretta gestione di quei comportamenti afferenti tematiche particolar-

mente delicate, come ad esempio l'impatto ambiente o la sicurezza sul luogo di lavoro, che la

renderebbero virtuosa sotto quei punti di vista. In questa direzione, ruolo fondamentale è

svolto dall'ISO, l'International Organization for Standardization, la più importante organizza-

zione non governativa per la definizione e l'armonizzazione a livello mondiale di codici di

comportamento certificabili e norme tecniche in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Fondata

il 13 febbraio del 1947, con sede a Ginevra, è costituita dagli organismi nazionali di standar-

dizzazione di 157 paesi del mondo. In Italia, le norme ISO vengono recepite, armonizzate e

diffuse dall'UNI, il membro che partecipa in rappresentanza del nostro Paese all'attività nor-

mativa dell'ISO. Un notevole contribuito alla crescita economica sostenibile si è ad esempio

registrato grazie all'approvazione ed implementazione della serie di norme ISO 9000 sulla ge-

stione della qualità e ISO 14000 in materia di tutela ambientale.

Recentemente, altri enti preposti alla regolamentazione hanno elaborato norme afferenti al-

tri ambiti di interesse sociale, complementari ai sistemi ISO. Nel campo della gestione della

salute e della sicurezza sul posto di lavoro, il più importante è lo standard internazionale

emanato per la prima volta nel 1999 dal BSI, il British Standards Institution, primo ente di

normazione al mondo fondato nel 1901 in Inghilterra. Stiamo parlando dell'OHSAS (Occupa-

tional Health and Safety Assessment Series), nella recente versione 18001:2007. Un ulteriore

e fondamentale standard internazionale di certificazione è la norma SA 8000, dove SA sta per

Social Accountability, redatta nel 1997 dal CEPAA, il Council of Economical Priorities Accredi-

tation Agency, successivamente trasformatosi nell'organizzazione non profit SAI (Social Ac-

countability International). SA 8000 si propone di migliorare le condizioni lavorative a livello

mondiale, fornendo garanzie sul rispetto di un insieme molto più esteso di diritti rispetto al -

l'OHSAS che si intessa solo di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro. L'SA 8000, assicuran -

do contemporaneamente il rispetto dei diritti dei lavoratori (statuiti nella Convenzioni ILO,

l'Organizzazione Internazionale del Lavoro), dei diritti umani (contenuti nella Dichiarazione

35

Page 36: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Universale dei Diritti Umani), della Convenzione delle Nazioni Unite per eliminare tutte le for -

me di discriminazione contro le donne e della Convenzione Internazionale sui Diritti dell'In -

fanzia contro lo sfruttamento dei minori, certifica la condotta etica “a tutto tondo” dell'im-

presa. Nello specifico, si tratta regole che un datore di lavoro deve rispettare, le quali interes-

sano nove campi diversi: lavoro infantile; lavoro obbligato; salute e sicurezza (integrandosi

con la OHSAS 18001); libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva; discrimi -

nazione; procedure disciplinari; orario di lavoro e retribuzione; sistemi di gestione e controllo

inerenti questi ambiti. Una delle fondamentali innovazioni di SA 8000 è la previsione di una

procedura di selezione di fornitori e sub-fornitori basata, tra l'altro, anche sul rispetto delle

norme SA 8000 da parte di questi. L'ampliamento della supervisione all'intera catena di forni-

tura è quanto mai fondamentale, in quanto l'impresa che adotta un simile protocollo influen-

za la filiera produttiva nella sua interezza al di là del singolo soggetto economico, ponendo

implicitamente le basi per un più ampio miglioramento sociale.

ISO 9000, ISO 14000, OHSAS 18001 e SA 8000 formano oggi un insieme di standard che, se

correttamente rispettati insieme, permettono la gestione integrata delle politiche aziendali in

materia di qualità, ambiente, sicurezza ed etica. Questi quattro ambiti risultano complemen-

tari tra loro e indispensabili per la completa implementazione della Csr all'interno dell'impre-

sa. Proprio secondo l'ISO, l'uso integrato di tali norme implicherebbe, inevitabilmente, una ri-

flessione sull'opportunità di una convergenza normativa sul tema della responsabilità socia-

le, potendo sfociare in futuro in un sistema unificato di standard. Ipotizzando un sistema di

regole comportamentali vincolanti che coinvolgano ogni aspetto dell'organizzazione, dalla

qualità del prodotto o del servizio alla sicurezza sul posto di lavoro, dalla tutela dell’ambien-

te al benessere della collettività, sarà poi compito della singola organizzazione, attraverso la

previsione di un codice etico interno, definire i propri valori nei rapporti con le varie catego-

rie di stakeholder, interni ed esterni.

In questo senso, è allo studio dal 2005 un documento specifico sulla Csr, ISO 26000, con

l'obiettivo di realizzare una linea guida più che uno standard certificabile. Per ora, nelle in-

tenzioni degli autori, tale norma si dovrebbe affiancare, più che sostituire, agli standard esi -

stenti, perseguendo molteplici finalità generali tra le quali si segnalano le seguenti:

assistere le organizzazioni nell'ottemperare alle proprie responsabilità sociali nel ri-

spetto delle differenze culturali, sociali, ambientali, economiche e legali;

36

Page 37: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

rendere disponibili linee guida per una traduzione operativa e concreta della respon-

sabilità sociale;

enfatizzare l'attenzione ai risultati e ai miglioramenti;

accrescere la fiducia nelle organizzazioni da parte di clienti e altri stakeholder;

diffondere una maggiore consapevolezza in merito alla responsabilità sociale.

I.2.3.3 Certificazioni tra confrontabilità e omologazione

Corollario dell'armonizzazione delle strategie e programmi adottati da imprese diverse in

materia di tutela dell'ambiente, valorizzazione del capitale umano, relazioni con fornitori e

clienti, è la loro accresciuta comparabilità. Standardizzare una prassi comporta renderla con-

frontabile. E la confrontabilità è essenziale per il buon funzionamento di una certificazione,

perché confrontabilità significa poter valutare come un'impresa implementa quella data pras-

si mettendola a paragone con un benchmark, poterne stimare l'efficienza e l'efficacia, render-

la trasparente e giudicabile. I vantaggi pratici sono la crescente concorrenza tra imprese an-

che sul piano della responsabilità e la più efficace azione di denuncia da parte dei watch dog

(e quindi minori possibilità di green, social ed ethical washing). Tutto ciò contribuisce a gene-

rare un clima di fiducia sul funzionamento delle certificazioni, fiducia che automaticamente

si estende alle imprese che le applicano correttamente, con un conseguente miglioramento

della loro immagine aziendale.

Proprio la propagazione a livello mondiale della Csr è stata favorita dalla confrontabilità

che le caratterizza gli standard: senza di essa infatti non si sarebbe potuta creare quella posi-

tiva esternalità di rete che ha messo le ali alla sua diffusione. In breve, l'esternalità di rete

consiste nei vantaggi che le imprese traggono dall'adozione, da parte di altre imprese, dei

medesimi protocolli. È un meccanismo semi-spontaneo, basato sul principio secondo il quale

l'importanza, soprattutto a livello reputazionale, di un'accreditazione, cresce all'aumentare

della sua diffusione. In pratica, più imprese adottano una data certificazione, maggiori sono

gli enti di accreditamento che la riconoscono, maggiori sono le aziende che selezionano i for-

nitori e i consumatori che scelgono i prodotti sulla base di tale requisito, attivando così circo-

li virtuosi grazie ai quali la Csr si diffonde spontaneamente senza la necessità di imporla per

legge. Ad esempio, attualmente, la diffusione della ISO 9001 afferente la qualità è talmente

37

Page 38: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

ampia che in Italia e in Europa, per alcuni settori, è diventato un requisito indispensabile per

accedere a concorsi pubblici (appalti e bandi).

Se i vantaggi della confrontabilità sono innegabili, vi è però anche un rovescio della meda-

glia. Nelle azioni di Csr standardizzate fin qui viste, risulta preminente la volontà di garantire

ai vari soggetti implicati con la vita aziendale un livello di tutela dei diritti più elevato di quel-

lo imposto dalle norme vigenti. In tal modo però la Csr si attua solo in “negativo”, nel senso

di rappresentare un mero vincolo morale alle decisioni imprenditoriali, un divieto ad operare

arrecando un danno diretto o indiretto ai soggetti interni o esterni meno tutelati. Questa

omologazione delle pratiche etiche va stretta al concetto di Csr, lo appiattisce e svilisce. La

conseguenza è la diffusione di una responsabilità senza passione e senza valore, una respon-

sabilità globalizzata e spersonalizzata. Ma la Csr può spingersi al di là degli obblighi di non

fare. Dovrebbe, anzi, essere sostenuta da una creatività socio-competitiva, dovrebbe cioè con-

centrare i suoi sforzi nella ricerca di soluzioni innovative atte a soddisfare in misura sempre

maggiore le attese di uno o più gruppi di portatori di interessi, creando valore condiviso. Un

simile modus operandi è stato definito Creating Shared Value (CSV) dal Michael E. Porter in

alcuni articoli apparsi sulla Harvard Business Review, in particolare quello di gennaio 2011

intitolato Creating Shared Value: Redefining Capitalism and the Role of the Corporation in So-

ciety. Negli esempi che Porter cita, troviamo imprese che, operando in settori molto diversi,

interpretano la Csr con progettualità originali, la contestualizzano, la adattano in modo crea-

tivo alle particolari esigenze del proprio business. Ciò che le accomuna è soltanto la valoriz-

zazione del know-how dell'impresa e la riconfigurazione delle relazioni lungo la catena del

valore con il sostegno all'imprenditorialità e allo sviluppo economico locale.

Confrontabilità e contestualizzazione sembrerebbero all'apparenza due strade opposte per

il perseguimento dell'eticità ma, in realtà, sono tra loro conciliabili, in quanto rappresentano

esigenze complementari e da soddisfare in contemporanea per garantire il successo di una

strategia di Corporate social responsibility. Sembrerebbe quindi che l'unica strada praticabile

sia pensare una Csr “a due velocità”, per tenere assieme innovazione e confrontabilità. La pri-

ma velocità, Csr Risk Mitigation, è quella che tramite forme di certificazione volontaria deve

assicurare la riduzione e il controllo dei rischi: violazione delle leggi, offesa della dignità del-

le persone, disinformazione per i consumatori, etc. È una Csr minimale ma fondamentale, che

richiede presidi organizzativi e processi tipici delle funzioni di controllo. La seconda velocità,

Csr Shared Value, è quella che crea occasioni di sviluppo per l'impresa e i suoi stakeholder,

38

Page 39: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

che permette di aumentare tanto la sensibilità nei loro confronti, quanto la competitività e la

velocità dei processi di innovazione. È una Csr più creativa, che coinvolge le funzioni di stra -

tegia e sviluppo, opera per macro progetti e richiede risorse dedicate e originalità.

I.2.4 Il Corporate giving

I.2.4.1 Panoramica

Il Corporate giving, che in italiano suona come “elargizioni d'impresa”, è un sistema di stru-

menti socialmente responsabili che consistono nelle più svariate forme di liberalità e dona-

zione attivabili da un'impresa, tramite le quali sono raccolti ed erogati fondi a favore di orga-

nizzazioni e iniziative a favore di una causa sociale o ambientale. Il termine Corporate giving

è talvolta utilizzato in letteratura anche come sinonimo di Corporate philanthropy. In questa

sede, per maggiore chiarezza, riteniamo opportuno utilizzarlo come concetto comprendente

tutte le forme di donazione aziendale, facendo riferimento a quanto espresso da D. Burlinga-

me, direttore esecutivo del Center on Philanthropy dell'Università dell'Indiana, nell'editoriale

della rivista International Journal of Nonprofit and Voluntary Sector Marketing : «This new pa-

radigm of corporate giving recognizes multiple forms of giving by companies as vehicles for

both business goals and social goals». Le iniziative di Corporate giving sono state accolte con

estremo favore da parte delle ONLUS, le quali possono ricavarne numerosi vantaggi quali:

possibilità di attivare programmi di raccolta fondi caratterizzati da costi di realizza-

zione ridotti;

possibilità di sfruttare nuovi canali di comunicazione;

per quanto riguarda le organizzazioni non profit poco note, le iniziative di co-marke-

ting con le aziende consentono di incrementare la brand awarness e promuovere la

propria causa sociale;

relativamente invece alle organizzazioni non profit che godono di un ampia notorie-

tà, si presenta il vantaggio di creare partnership attraverso iniziative di licensing, ot-

tenendo un contributo per la concessione del logo;

39

Page 40: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

consente di incrementare il database dei donatori e dei potenziali donatori;

consente di raggiungere nuovi target (soggetti normalmente meno sensibili alle tema-

tiche sociali e meno propensi ad effettuare donazioni);

possibilità di utilizzare le competenze manageriali di gestione del settore profit ed

acquisirne le metodologie.

I primi programmi di “marketing sociale” furono realizzati negli Stati Uniti negli anni Cin-

quanta. Da allora si è assistito ad un'evoluzione continua di tale concetto, riguardo tanto alle

modalità di intervento a sostegno di una causa sociale, quanto alle motivazioni all'origine di

tali azioni. Oggigiorno esistono numerosi sistemi con cui un'azienda può contribuire ad una

causa sociale, e il Corporate giving ha assunto molteplici sfumature al fine di consentire sem-

pre l'efficace integrazione tra obiettivi etici e imprenditoriali. Di seguito sono descritte breve-

mente le principali espressioni di Corporate giving.

I.2.4.2 Cause related marketing e simili

Il Cause related marketing, o Crm, è un sistema di attività a sfondo etico imperniato sulla

funzione marketing, atto alla realizzazione di campagne promozionali facendo leva sul paral-

lelo sostegno a una causa di interesse collettivo. La maggior parte della letteratura internazio-

nale lo definisce come quell'attività imprenditoriale etica in cui la donazione, da parte dell'a-

zienda verso un ente non profit, è subordinata all'acquisto di un prodotto o servizio da parte

del consumatore. È inoltre necessario che la causa sociale prescelta sia coerente con le finali -

tà di tipo etico-socio-ambientale di cui l'impresa si fa carico, essendo, il Crm, uno strumento

pensato come parte integrante di un piano strategico atto al loro perseguimento. Bisogna fare

attenzione a tenerlo ben distinto dal cosiddetto social marketing che, come definito da Philip

Kotler, l'inventore di tale espressione, consiste nell'impiego dei principi e degli strumenti del

marketing al servizio di cambiamenti sociali che migliorino la qualità della vita, diffondendo

e promuovendo idee e soluzioni per problematiche collettive.

Il contributo alla causa può avvenire secondo modalità differenti, riconducibili a due ap-

procci fondamentali: il sostegno fornito a uno o più enti non profit, la cui missione abbia va-

lenza sociale, o un'azione volta a intervenire direttamente in merito a determinati

40

Page 41: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

problemi/bisogni, mobilitando risorse di varia natura (più spesso somme di denaro, ma an-

che prodotti/servizi, conoscenze, tempo dei propri collaboratori, ecc.). Data la virtuosità dei

suoi scopi e valori fondanti, il Crm rientra di diritto nel novero degli strumenti di impegno

etico a disposizione di un'impresa per implementare una moderna Corporate social responsi-

bility e, tra questi, si rivela quello di gran lunga più utilizzato. Due sono i motivi che più di

tutti hanno favorito la sua elevata diffusione. Innanzitutto è lo strumento di Csr a cui i bene-

fici che ne trae l'impresa in termini di redditività dell'investimento, sono maggiormente cor-

relati, prevedibili e misurabili, essendo direttamente deducibili dalle previsioni di vendita del

servizio o prodotto oggetto di Crm. Secondo fattore che gioca a favore di questa pratica è la

diffusione del cosiddetto consumo responsabile. L'accresciuta sensibilità delle persone verso

questioni etiche, la maggiore consapevolezza nei consumatori del peso che le loro scelte d'ac-

quisto hanno sulla società e sull'ambiente, li spinge a orientare le loro scelte d'acquisto in

base all'impegno sociale e ambientale dell'azienda produttrice. Esempi emblematici delle con-

seguenze di tale fenomeno sono l'incremento dei casi di boicottaggio nei confronti di imprese

accusate di comportamenti lesivi nei confronti di un qualche tema sociale o ecologico e la dif-

fusione del commercio equo e solidale. Se, da una parte, questo nuovo atteggiamento comune

a un numero crescente di persone funge da incentivo naturale all'adozione di comportamenti

imprenditoriali più corretti, dall'altra però si insinua il sospetto gli utenti siano affetti da una

tendenza al facile coinvolgimento, con conseguente eccessiva manipolabilità nei comporta-

menti di acquisto. I consumatori appaiono propensi a premiare ogni impresa che sviluppi una

qualsiasi campagna di Crm, senza avere la capacità di distinguere tra quelle che le adottano

in quanto strumento strategico di supporto al serio perseguimento di finalità etiche, e quelle

che usano il Crm in modo blando e opportunistico, rendendolo un espediente di facciata atto

al quasi esclusivo perseguimento di obiettivi di natura commerciale. Così sovente assistiamo

ad un abuso di campagne promozionali a sfondo sociale a causa di imprese che le impiegano

come mere operazione di marketing di breve periodo non integrate in una più ampia strate-

gia imprenditoriale con obiettivi etici. Quando usato in questo modo tattico e strumentale, il

Crm ne risulta banalizzato e svilito, esponendo la Csr stessa alle facili critiche di chi la osteg-

gia considerandola un comportamento "alla moda", superficiale e ipocrita, ben lontano dal-

l'essere un efficace strumento per un positivo cambiamento sociale.

In una valida campagna di Crm dovrebbero infatti essere compresenti ed equivalersi sia uno

o più obiettivi di natura commerciale (ad esempio il miglioramento della reputazione azien-

41

Page 42: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

dale, il posizionamento della marca, l'incremento della quota di mercato e lo sviluppo delle

vendite), sia l'obiettivo di fornire un serio contributo e sincero aiuto a una causa di interesse

collettivo. Per questo, volendo inquadrare in un contesto più ampio la natura, l'essenza del

Crm, possiamo affermare che si tratta di uno strumento posizionato a metà strada tra due

pratiche diametralmente opposte tra loro: la filantropia aziendale da una parte, dove i benefi -

ci sono del tutto sbilanciati a vantaggio di chi riceve la donazione, e la normale attività di

promozione delle vendite dall'altra, dove il valore creato è esclusivo appannaggio

dell'impresa. Il Crm rappresenta quindi una sorta di ibridazione tra questi due modelli. La

logica di fondo di una campagna di Crm consiste, in pratica, nell'approccio win-win, per cui

tutte le parti coinvolte nell'iniziativa godono equamente di un muto beneficio in termini di

pari valore creato a loro favore.

Della stessa famiglia del Crm sono altri tre tipi di iniziative di Corporate giving: il licensing,

la joint promotion e il joint fund raising. Il licensing, o concessione del logo, consiste nel per-

messo accordato dall'organizzazione non profit per l'utilizzazione del proprio marchio in

cambio di un corrispettivo. In questo caso, la donazione non è connessa al volume delle ven -

dite, così come avviene nelle iniziative di Crm. In genere, prevede un accordo tra le parti in

cui si stabilisce l'importo della donazione e le conseguenti modalità di utilizzo del logo. La

joint promotion è, invece, un'operazione che si incentra sull'utilizzo del prodotto come mez-

zo per la trasmissione del messaggio o della causa sostenuta dall'ente non profit. In questo

tipo di partnership, dunque, l'azienda non sostiene la causa attraverso un contributo econo-

mico diretto, ma offre la sua disponibilità a veicolare il messaggio per la raccolta fondi. L'a-

zienda può scegliere se contribuire esclusivamente con la diffusione del messaggio o parteci -

pare anche ai costi di produzione del materiale necessario (stampa pieghevoli, pubblicità

ecc.). Infine, mancante di una correlazione col volume delle vendite è anche il joint fund rai -

sing, mediante il quale l'azienda sostiene la raccolta fondi per la causa dell'organizzazione

non profit ponendosi come intermediario tra i propri utenti e l'ente. Questa tipologia di atti-

vità è realizzata principalmente da aziende fornitrici di servizi, come ad esempio gli istituti

di credito, che per loro natura di intermediatori finanziari si prestano alla raccolta di fondi.

42

Page 43: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.2.4.3 Filantropia aziendale

La Filantropia aziendale è la forma più semplice di Corporate giving, non necessitando di

un previo accordo tra le parti. Inizialmente, per Filantropia d'impresa si intendeva "una dona-

zione di pura beneficenza da parte di un'azienda, generalmente a favore di un'organizzazio-

ne non profit, eseguita senza alcun tornaconto per l'impresa" (Ireland & Johnson, 1970). In

passato, infatti, soprattutto nella realtà economica degli Stati Uniti, molte aziende contribui-

vano in modo significativo al benessere della loro comunità supportando e finanziando pro-

getti di organizzazioni senza scopo di lucro, prescindendo da fini imprenditoriali. Oggi, inve-

ce, la donazione effettuata da un'azienda è, nella maggior parte dei casi, parte integrante di

una più ampia strategia imprenditoriale e l'obiettivo dell'azienda è quello di bilanciare offerte

altruistiche e donazioni strategiche. Per identificare questa nuova forma di Filantropia azien-

dale, sono stati introdotti termini come Strategic corporate philanthropy o Global corporate

philanthropy (Collins, 1993). Con tali espressioni ci si riferisce al supporto offerto da parte di

un'azienda ad una causa sociale o ad un ente non profit attraverso un puro contributo mone -

tario diretto, perseguendo, in parallelo, un obiettivo economico come l'accreditamento della

propria eticità e il miglioramento della propria reputazione verso gli stakeholders e il merca-

to.

Sovente, alcune aziende, soprattutto multinazionali, che raggiungono elevati livelli di Cor-

porate social responsibility, piuttosto che sostenere organizzazioni non profit indipendenti,

preferiscono istituire una propria fondazione, a cui trasferire sia risorse finanziarie che l'e-

ventuale know-how acquisito in materia. Tali enti nascono, quindi, quando l'impresa decide

di “esternalizzare” il proprio agire filantropico attraverso la creazione di quelle che vengono

chiamate fondazioni di origine imprenditoriale, o, con termine anglofilo, corporate founda-

tions. La funzione primaria di questo tipo di enti è quello di effettuare una ridistribuzione so-

ciale di una parte del valore economico-finanziario prodotto dall'impresa che le fonda, assol-

vendo così a quello che è il compito principale e fine ultimo della Csr quale mezzo per ridefi -

nire il ruolo dell'impresa, da soggetto creatore di profitto a soggetto creatore, in senso allar-

gato, di ricchezza.

43

Page 44: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.2.5 Sostenibilità ambientale

I.2.5.1 L'avvento di un problema

La Commissione Mondiale per l'Ambiente e lo Sviluppo, all'interno de Il futuro di noi tutti,

ha definito lo sviluppo sostenibile come «uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente

senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri». La tematica

ambientale, per quanto siano evidenti fin da ora gli effetti disastrosi dovuti all'averla trascu-

rata, è quella dove la preoccupazione per l'evoluzione futura delle attuali circostanze occupa

un posto predominante.

Ipotizzando di poter separare del tutto la questione sociale da quella ambientale e di poter-

le paragonare, emerge tra loro una differenza sostanziale: mentre la prima è vecchia quanto

la civiltà umana, la seconda è storia recente. Questo perché differente è il loro modo di evol-

versi nel corso della storia. La società civile è un fenomeno umano che, fin dagli albori, pre -

senta enormi problemi congeniti, difetti sistemici e innati; ma al contempo, osservando la sua

evoluzione cronologica, sembrerebbe presentare anche una, seppur molto debole, tendenza

al miglioramento. Essendo quindi la nostra civiltà storicamente e fisiologicamente problema-

tica (passibile anche di peggiorare indeterminatamente), il comportamento etico ottimo nei

confronti della società umana è quello che si batte per il suo miglioramento continuo, in vista

del raggiungimento di uno stato di armonia e benessere superiore a quello immediatamente

precedente.

Al contrario, gli ecosistemi di tutto il mondo, che in aggregato formano l'ecosistema terre-

stre, cioè la biosfera, hanno sempre funzionato e mutato nel tempo senza correre il rischio di

autodistruggersi; attraversando sì periodi di sconquasso, ma riuscendo volta a ritrovare un

funzionale equilibrio sia tra loro che al loro interno, un equilibrio né meglio né peggio di

quello del periodo che l'ha preceduto. Quindi, l'attuale degrado ambientale non è qualcosa di

intrinseco alla natura ma si tratta di una situazione artificiale, prodotta dall'uomo, in partico-

lare dall'avvento dell'era industriale in poi.

Per questo motivo le azioni responsabili in campo ambientale si contraddistinguono non

per il loro mettere in moto un miglioramento costante, ma per il loro mirare al ripristino di

una situazione che, di per sé, non era problematica, puntando al raggiungimento nel futuro

44

Page 45: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

dell'equilibrio andato perso. Esse rappresentando perciò l'esempio più calzante del termine

sostenibile. Termine costantemente affiancato dalle espressioni a impatto zero e rinnovabile.

In questo senso la cosa più virtuosa che un'impresa possa fare, ecologicamente parlando, è

non lasciare sul mondo nessuna traccia del suo passaggio. Anche se si tratta di un proposito

utopistico, le imprese oggi hanno comunque validi strumenti per incidere positivamente in

materia ecologica.

La storia della questione ecologica con i suoi protagonisti, la complessità degli ambiti in cui

si articola (cambiamenti climatici, inquinamento e salute, biodiversità, distruzione delle risor-

se naturali), sono temi troppo vasti per poter essere adeguatamente argomentati in questa

sede e una rappresentazione schematica comunque non renderebbe giustizia alla loro ric-

chezza. D'altronde, ai fini della presente trattazione, non preme tanto addentrarsi tra le varie

sfaccettature del problema ambientale quanto concentrarsi su: la dinamica sociale del suo af-

fioramento; gli strumenti che un'impresa ha a disposizione per arginarlo.

Riguardo al primo punto è utile cominciare rimarcando l'immane rilevanza che il problema

ha assunto oggigiorno. Per rendersene conto basti pensare quanto l'attenzione (ormai quasi

maniacale) all'impatto ambientale influenzi le nostre scelte in ogni ambito della vita quotidia-

na fin nelle sue manifestazioni più elementari. Tanto più ne è pervasa, per le pesanti conse-

guenze che comportano le loro azioni, la vita delle istituzioni, e delle imprese, quest'ultime

sovente additate dall'opinione pubblica e da chi la fomenta come le uniche responsabili del

degrado. Per quanto sia deprecabile l'abitudine a usarle come capro espiatorio di tutti i mali

del mondo, non si può negare quanto esse svolgano un ruolo predominante nel contribuire al

progressivo inasprimento delle problematiche ambientale. Gli enti economici, infatti, quando

non pongono deliberatamente in atto azioni che, in modo più o meno diretto, provocano un

danno ecologico, rimangono comunque fautori e rappresentanti simbolici dell'attuale sistema

economico dominante; e quest'ultimo è ritenuto colpevole di aver strutturato l'odierna socie-

tà civile sull'imperativo di una crescita continua il cui motore è una cultura produttivistica e

consumistica (che concepita in modo fondamentalista si rivela deleteria per l'uomo e la natu-

ra), rinunciando alla quale però, ormai la nostra stessa civiltà entrerebbe in crisi collassando

su di sé. Tale sistema ha basato il funzionamento della società tutta sul classico ciclo produt-

tivo (estrazione delle materie prime – loro trasformazione per la realizzazione del bene – di-

stribuzione – consumo – smaltimento) ipotizzandolo come un modello replicabile all'infinito

e con intensità sempre crescente. La storia recente dimostra come tale modello nel lungo pe-

45

Page 46: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

riodo tenda invece a entrare in cortocircuito se usato in modo sregolato. Ciò è dovuto a vari

motivi tra cui i più rilevanti, in tema di ambiente, sono la scarsità delle materie prime e delle

fonti energetiche tradizionali (petrolio, gas, carbone); l'incapacità del mondo, in quanto siste-

ma finito, di assorbire all'infinito le tipiche esternalità negative dei processi produttivi come i

vari tipi di inquinamento; l'insostenibilità di una illimitata accumulazione dei residui dei beni

consumati, cioè i rifiuti, per loro natura né stoccabili, né del tutto eliminabili senza che si

producano danni non indifferenti a noi e all'ambiente, né completamente reimmettibili nel

ciclo produttivo sotto forma di materia prima riciclata. Il sistema economico-civile, lungi

comunque dall'essere a rischio di un imminente collasso, una volta presa coscienza della

propria insostenibilità sistemica nel lungo termine, volente o nolente ha dovuto cercare di

rimediare, ripensando i paradigmi di riferimento della cultura economica e ideando soluzioni

per invertire la tendenza e non soccombere a se stesso.

Dato un simile contesto, i movimenti ecologisti cominciarono a diffondersi dopo il '68, sten-

tando tuttavia a raccogliere il consenso di massa dell'opinione pubblica e non riuscendo a ot -

tenere una rappresentanza politica autonoma. A livello mondiale è solo negli anni Settanta

che il problema dell'inquinamento prodotto dallo sviluppo industriale assunse una notevole

rilevanza politica e sociale. Contribuì notevolmente a richiamare l'attenzione su questo tema

il Rapporto sui limiti dello sviluppo, pubblicato dal Club di Roma nel 1972 e accolto dovunque

con grande interesse. Nello stesso anno vide la luce in Australia il primo "partito verde", il cui

esempio sarà seguito l'anno dopo da un partito britannico e quindi da altri partiti nel Nord

Europa (in Italia il primo partito verde è del 1985).

Così, a partire dagli anni Settanta, man mano che i problemi ecologici riconducibili all'agire

economico hanno cominciato a manifestarsi in tutta la loro drammaticità, la tutela dell'am-

biente è diventata un tema ricorrente del dibattito politico ed economico anche a livello par-

lamentare. Al contempo abbiamo assistito all'incontrollato aumento della pressione mediati-

ca sul tema e al proliferare di lobby, associazioni dei consumatori, organizzazioni non gover -

native, enti pubblici, consigli e organi sovranazionali, tutti intenti a sviscerare il problema e a

legiferare, cercando di creare una regolamentazione per la sua corretta gestione. Il mondo

dell'economia, sull'onda di questi cambiamenti, non ha potuto far altro che adeguarsi, riu-

scendo talvolta, come nel caso delle imprese che attuano la Csr, a farsi egli stesso promotore

della sostenibilità ambientale e a non essere più solamente follower, arrivando fino al punto

46

Page 47: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

di trovare il modo di fare affari con l'ambientalismo tramite la creazione di un nuovo busi -

ness (la cosiddetta green economy).

I.2.5.2 Le soluzioni adottate

La Corporate social responsibility applicata all'ambiente implica un vero e proprio percorso

dell'impresa attraverso l'eco-consapevolezza e verso l'eco-compatibilità. In sintesi, il processo

di autoregolamentazione che un'impresa deve seguire se vuole definirsi “verde”, parte dal

controllo e dal monitoraggio del proprio impatto ambientale; prosegue con l'attuazione di so-

luzioni di compatibilità ecologica; si chiude, e si autoalimenta, con la valutazione dei traguar-

di ecologici raggiunti e la loro valorizzazione nei confronti del pubblico. Ecco, dal punto di vi -

sta operativo, tramite quali strumenti un'azienda può definirsi ecologicamente sostenibile:

l’audit ambientale, l’EMAS, il bilancio ambientale, il rapporto ambientale, i marchi di qualità e

gli accordi ambientali.

Per un'azienda che voglia conoscere e controllare le implicazioni di tipo ambientale legate

alla propria attività, l'audit ambientale costituisce uno degli strumenti più efficaci per indivi-

duare in modo puntale le criticità esistenti e per stimare la tipologia degli interventi migliora-

tivi da realizzare. Il processo di verifica, sistematica e documentata, implicito nell'attività di

auditing, ha difatti lo scopo di valutare, attraverso la raccolta di dati oggettivi, se le attività

imprenditoriali siano conformi a predeterminati requisiti, fissati a monte del processo. L'au-

dit ambientale non è soltanto lo strumento principale per verificare il funzionamento e l'ade-

guatezza dei sistemi di gestione ambientale dell'impresa, potendo difatti rivelarsi utile anche

per applicazioni più generali come la valutazione del livello di applicazione da parte di un'a-

zienda della normativa vigente (compliance audit); per la richiesta di coperture assicurative

(audit di rischio); per la valutazione dell'affidabilità di fornitori o partner strategici (audit dei

fornitori). L'audit ambientale trova nella norma ISO 14001 un ottimo modello standard di ri-

ferimento e un mezzo di attestazione della sua qualità.

L'EMAS (Eco Management and Audit Scheme), istituito con regolamento della Comunità Eu-

ropea, è un'iniziativa ad adesione volontaria mirante a migliorare la performance ambientale

delle imprese chiedendo loro di andare oltre i requisiti minimi legali in un'ottica di costante

ottimizzazione. Più precisamente, il sistema EMAS si propone di stimolare il miglioramento

47

Page 48: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

delle prestazioni ambientali delle imprese tramite la diffusione al pubblico di informazioni

sulla loro eco-sostenibilità e sulla valutazione periodica dell'efficacia dei loro sistemi di ge-

stione ambientale. La comunicazione funge sia da meccanismo incentivante, premiando chi si

dimostra virtuoso su quel fronte, nonché da mezzo di dialogo con gli stakeholder e di parte-

cipazione attiva dei dipendenti. È proprio la pubblicazione volontaria dell'informativa ecolo-

gica, denominata Dichiarazione ambientale, che dà ad EMAS ed alle imprese che partecipano

credibilità e reputazione sul mercato.

Il bilancio ambientale, o ecobalance, è uno strumento di rendicontazione sociale. Solitamen-

te è la parte di bilancio sociale incaricata di rappresentare, in maniera organica, le interrela -

zioni tra l'impresa e l'ambiente, attraverso una rappresentazione quantitativa e qualitativa

dell'impatto ambientale, delle sue attività caratteristiche e dello sforzo economico sostenuto

per la sua gestione e riduzione. L'ecobalance è uno strumento fondamentale per la gestione

della responsabilità sociale di un'impresa, perché mette in luce in materia organica il suo gra-

do di attenzione ecologica. Ciò vale in particolare per le cosiddette passività ambientali “oc-

culte” che possono così emergere sul piano formale, rendendo effettiva e trasparente la situa-

zione dell'impresa e l'eventuale responsabilità degli amministratori.

Il rapporto ambientale, da non confondere col bilancio, è un altro strumento volontario di

estremo rilievo ai fini di una seria attuazione della Csr. Si tratta, in sostanza, di una comuni -

cazione, libera nella forma e nel contenuto, con cui l'impresa decide di trasmettere all'esterno

le proprie politiche ambientali. Il rapporto ambientale rappresenta la testimonianza concreta

dell'impegno dell'impresa e offre l'opportunità di comunicare a tutti gli stakeholder di riferi-

mento i valori che ispirano i suo agire ecologico, i progressi e i risultati raggiunti, e le pro -

spettive future dell'impegno ambientale della singola impresa.

L'informazione ai consumatori sui risvolti ecologici dei processi produttivi costituisce non

solo uno strumento di Csr, ma anche, e soprattutto, un diritto degli utenti che trova fonda-

mento negli articoli del Trattato CE (artt. 3, comma 1, lettera f, e 153 del Trattato). La discipli-

na del sistema comunitario di assegnazione di un marchio di qualità ecologica è dettata, in

particolare, dal regolamento 1980/2000/CE e dal regolamento del Consiglio (CEE) n. 1836/93,

riguardante il sistema comunitario di ecogestione ed audit EMAS. Esemplare è l'iniziativa

Ecolabel, il primo strumento informativo predisposto dalla Comunità Europea per influenza-

re il comportamento dei consumatori e dei produttori. Si tratta di un marchio di qualità eco-

48

Page 49: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

logica, assegnato ai prodotti migliori dal punto di vista della compatibilità ambientale, traspa-

rente e credibile, in quanto verificato in maniera indipendente.

Appare d'altro canto evidente la differenza tra la certificazione EMAS o ISO ed i marchi di

qualità ecologica. Mentre la certificazione ambientale ha l'obiettivo immediato di migliorare

la gestione delle imprese, il marchio ecologico, pur basandosi sulla premessa che la produzio-

ne sia perfettamente coerente alle norme ambientali, ha lo scopo principale di incidere diret-

tamente sui comportamenti dei consumatori e sulla consapevolezza di quest'ultimi.

L'accordo ambientale rappresenta un contratto stipulato tra un soggetto economico e uno o

più soggetti pubblici istituzionali (Commissione Europea, Ministeri dell'Ambiente o dell'Indu-

stria, Regioni, Province, Comuni, Camere di Commercio, Università, ecc.), al fine di tutelare

l'ambiente. Integra la normativa vigente fissando obiettivi più ambiziosi legati alle particolari

condizioni di un'impresa ed è, per questo, uno strumento innovativo di politica ambientale.

Gli accordi ambientali, oggetto della specifica comunicazione della Commissione Europea del

17 luglio 2002 Gli accordi ambientali a livello di Comunità nel quadro del piano d'azione

"Semplificare e migliorare la regolamentazione", sono pratiche di autoregolazione di carattere

sussidiario, non vincolanti. Solitamente l'iniziativa dell'accordo è lasciata alle parti stesse. La

Commissione europea, nella propria comunicazione, è chiara nell'affermare che gli accordi

volontari devono offrire un effettivo valore aggiunto circa il livello di tutela dell'ambiente.

L'accordo volontario in materia ambientale è quindi una pratica di Csr di stampo creativo. Ol -

tre ai benefici ecologici, numerosi sono anche i vantaggi che l'utilizzo degli accordi volontari

può comportare per le imprese: la possibilità di evitare o ritardare una regolamentazione

coercitiva; l'opportunità di influenzare lo sviluppo della regolamentazione; il miglioramento

dell'immagine e della posizione competitiva; l'individuazione di soluzione tecnologiche inno-

vative; la motivazione del personale.

49

Page 50: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.2.6 Il bilancio sociale

I.2.6.1 La Triple bottom line

Mario Viviani, nel suo libro Specchio magico del 1996 offre una definizione di bilancio so-

ciale tanto suggestiva quanto azzeccata, presentandolo «come lo specchio che riflette una si -

tuazione e fa riflettere sulla stessa». Tecnicamente, il bilancio di responsabilità sociale è un

documento, frutto sempre di una scelta volontaria, contenente informazioni quali-quantitati-

ve sulle operazioni svolte dall'organizzazione. Documento che aziende ed enti decidono di

pubblicare a beneficio di tutti i propri stakeholder per renderli consapevoli dell'impatto che

l'azienda e le sue iniziative hanno sul piano ambientale e sociale. Il bilancio sociale si ispira

infatti al criterio detto Triple bottom line, secondo il quale al classico bilancio d'esercizio che

fornisce una rappresentazione dell'impresa limitatamente alla sua sostenibilità finanziaria ed

economica (capacità di adempiere agli obblighi finanziari, di generare fatturato, profitto e la-

voro), è necessario affiancarne uno che renda conto delle azioni dell'ente in materia di soste-

nibilità sociale (capacità di garantire condizioni di benessere e di crescita equamente distri-

buite nel rispetto dei diritti umani e dei lavoratori) e di sostenibilità ambientale (capacità di

salvaguardare le risorse naturali e di minimizzare gli impatti sull'ecosistema).

Dietro a questa elementare definizione, si nasconde però una realtà assai composita e com-

plessa, che rivela quanto il bilancio sociale sia molto di più di un semplice strumento contabi -

le. In questo senso, a ben vedere, le due stesse parole, "bilancio" da una parte e "sociale" dal -

l'altra, esprimono due concetti che in teoria non potrebbero stare insieme. La prima parola è

figlia della quantità, del razionalismo, della ragioneria; la seconda, invece, è figlia della quali-

tà, dei sentimenti, della creatività. L'accostamento stesso dei due termini dà vita come a un

impulso, a un'immagine astratta fonte di slancio culturale. Solo in un secondo momento as-

sume anche una valenza tecnica. Molto spesso, purtroppo, è presente solo il secondo elemen-

to senza che in parallelo sia realizzato anche quel salto culturale necessario. Il bilancio socia-

le, infatti, se osservato in una prospettiva dinamica, si può definire anche come un processo,

o, più precisamente, come l'ultimo atto di un processo non solo di rendicontazione dove, pas-

so dopo passo, si costruiscono gli strumenti di rilevazione e si innescano i cambiamenti orga-

50

Page 51: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

nizzativi necessari alla costruzione di una dialettica continua con gli stakeholder interni ed

esterni. Andiamo ora ad analizzare meglio questo concetto.

Le aziende, davanti al Codice Civile, ai principi contabili di rendicontazione e ai modelli

standard di bilancio, appaiono tutte formalmente uguali. Ma ciò che le davvero le differenzia

è nella la sostanza di quelle imprese, sono cioè i valori che le ispirano, la cultura aziendale

che hanno accumulato, i risultati ottenuti, quest'ultimi letti non solo con il "pallottoliere" del-

l'azionista, ma con la contabilità della felicità, della sicurezza, della fiducia dei tanti attori di -

versi che sono parte integrante del tessuto sociale ed economico cui le aziende stesse appart-

engono: clienti, fornitori, dipendenti, comunità locali, sindacati, ONLUS, enti pubblici. Tutte

rispettano, o almeno si spera, le leggi, tutte pubblicano i bilanci fatti secondo gli stessi princi -

pi, tutte ricevono dalla società e contribuiscono alla società in cui operano, ma tutte contabi-

lizzano di fatto la sola quantità. E la qualità, i sentimenti, l'etica? La maggior parte delle im-

prese, e non solo le aziende di know-how, dichiarano che il patrimonio più grande di cui di-

spongono è il personale, i dipendenti e i manager con le rispettive competenze, le attitudini,

l'attaccamento e la partecipazione, la creatività, le capacità e le conoscenze; ma stranamente

continuano a contabilizzarlo in conto economico come si contabilizza la cancelleria o l'ener-

gia elettrica: come materiale di consumo, ovvero un semplice costo e non come un reale inve -

stimento. Nell'attivo delle imprese esiste un asset indispensabile e intangibile senza il quale

l'impresa non può operare: la fiducia creata, che aumenta e diminuisce di anno in anno, di

giorno in giorno, ma della quale si legge l'effetto solo alla fine dell'esercizio, nell'ultima linea

del conto economico, ovvero la bottom line. Il manager di un'azienda si dimette e la quotazio-

ne del titolo in borsa scende; un nuovo manager arriva in azienda e il titolo, contabilizzando

la fiducia e le aspettative, sale; uno scandalo coinvolge un prodotto e il titolo dell'azienda che

lo produce crolla. Reazioni isteriche e nervose dei mercati oppure è l'effetto di un calcolo ra -

zionale degli operatori? È, più semplicemente, il frutto della contabilizzazione che avviene

"fuori dall'impresa", la contabilizzazione della responsabilità sociale che, nel caso in cui non

venga realizzata e gestita all'interno dell'organizzazione e, successivamente, proposta e co-

municata all'esterno, finisce per essere solo subita dall'azienda in un drammatico effetto

leva.

51

Page 52: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.2.6.2 Il rapporto tra Csr e rendicontazione sociale

Quella di avviarsi sulla strada di una rendicontazione aggiuntiva e integrativa dei consueti

bilanci di esercizio, focalizzata su responsabilità diverse da quella del presidio degli equilibri

economico-finanziari della gestione, non è tuttavia decisione da prendersi alla leggera sulla

spinta di mode o dell'ansia di colmare un deficit di consenso sociale. Ciò che viene chiamato

in causa, infatti, è nientemeno che il ruolo (o missione) che la singola organizzazione econo-

mica è chiamata a svolgere responsabilmente nella sfera di autonomia sua propria. Il proble-

ma della definizione puntuale di tale ruolo o missione e, ancor più, quello della sua traduzio-

ne in decisioni e comportamenti coerenti da parte dei vertici aziendali e di tutti i componenti

dell'organizzazione, è tutt'altro che banale, implicando una presa di coscienza profonda delle

finalità costituenti la ragione d'essere dell'impresa, del suo posizionamento (attuale e deside-

rato) nel sistema economico-sociale, dei valori etici ed economici cui esso vuole essere e rima-

nere saldamente ancorato, dei modelli e politiche atti ad indirizzare i comportamenti concreti

in coerenza con strategie e valori prescelti in vista di una piena realizzazione delle finalità.

Poiché molte delle aziende che si sono orientate alla responsabilità sociale pubblicano un bi-

lancio sociale, molte altre sono indotte a pensare che sia sufficiente il bilancio sociale per es-

sere socialmente responsabili. Di conseguenza, l'errore che spesso si commette è quello di ac-

quistare lo strumento credendo di "acquistare" anche la responsabilità sociale, elemento que-

sto che invece non si può comprare, ma che si crea e si interiorizza attraverso un processo

che va al di là della semplice funzione di rendicontazione. Senza precise e convinte scelte di

campo nella direzione di un orientamento strategico aperto ad una creazione di valore per

tutti gli stakeholder, ad una assunzione di responsabilità al di là di quanto le leggi prescrivo-

no, ad una piena comprensione del mandato sociale che fa delle imprese (capaci di soddisfare

le attese sia economiche che umaniste che ad esse si rivolgono) dei beni quanto mai preziosi

per la società tutta e non per i soli azionisti, senza tutto ciò non avrebbe molto senso intra -

prendere volontariamente la strada di una rendicontazione sociale. Questa, infatti, priva di

un ancoraggio forte a strategie lungimiranti, perseguite con determinazione, ben difficilmen-

te sfuggirebbe ai rischi di una comunicazione frammentaria e, come tale, scarsamente utile e,

quel che è peggio, anche tendenziosa e manipolativa, indirizzata ad accreditare un'immagine

aziendale che non trova pieno riscontro nei comportamenti reali.

52

Page 53: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Comincia quindi a delinearsi la vera natura della rendicontazione sociale. Essa infatti può

costituire un'importante occasione non solo per «divulgare» all'interno e all'esterno la pro-

pria responsabilità di impresa, ma per gestire le relazioni con gli stakeholders con importanti

benefici in termini di definizione e implementazione delle strategie, di ri-allineamento tra va-

lori aziendali e valori etico-sociali e di correzione della miopia dei tradizionali strumenti di ri -

levazione aziendale. Solo se usato in questo modo, il bilancio sociale può entrare a pieno tito -

lo nel novero degli strumenti di Corporate social responsibility.

I.2.6.3 Finalità del bilancio sociale

Concettualmente il tema della rendicontazione sociale può essere collocato all'interno del

più ampio e complesso problema dell'accountability, termine traducibile alla lettera come

rendicontabilità, indicante quell'insieme di azioni che svolgono la funzione sociale di “dar

conto” (giving accounts) da parte di un individuo o organizzazione a un altro/a. Il termine ac-

countability quindi richiama almeno due accezioni fondamentali: da un lato, il dovere di dar

conto all'esterno e in particolare al complesso degli stakeholders, in modo esaustivo e com-

prensibile, del corretto utilizzo delle risorse e della produzione di risultati in linea con gli

scopi istituzionali (accountability esterna); dall'altro, l'esigenza di introdurre logiche e mecca-

nismi di maggiore responsabilizzazione interna alle aziende e alle reti di aziende relativa-

mente all'impiego di tali risorse e alla produzione dei correlati risultati (accountability inter-

na). Inserito in questo contesto, anche il bilancio sociale è dunque chiamato ad assurgere a

due funzioni di base. Internamente all'impresa ha come scopo quello di supportare le decisio-

ni di allocazione e impiego delle risorse con riferimento alle scelte strategiche in ambito so-

cio-ecologico, di favorire l'apprendimento organizzativo e lo sviluppo di sistemi informativi

integrati, di individuare e definire spazi di autonomia dei soggetti e di loro responsabilizza-

zione sui risultati. Esternamente invece ha come scopo quello di garantire la trasparenza dei

risultati, supportare il controllo "sociale" della collettività sulle decisioni di allocazione e im-

piego delle risorse, sul livello dei risultati economici e non raggiunti, sulla coerenza di questi

elementi rispetto alla missione aziendale, migliorando sistematicamente il dialogo con le par-

ti interessate e la loro opinione nei confronti dell'impresa.

53

Page 54: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

I.2.6.4 I modelli di riferimento

Non esistono, a differenza di quando si può affermare per il bilancio d'esercizio, dei model -

li giuridicamente sanciti ed universalmente riconosciuti per la rendicontazione sociale. Allo

stato attuale, lo sforzo sia delle istituzioni pubbliche che delle organizzazioni a matrice pri-

vata, come associazioni di imprese o consumatori, si incentra sulla possibilità di elaborare

degli standard rendicontativi condivisi e come tali applicabili a livello internazionale. Infatti,

quanto più il documento segue delle logiche di redazione formalizzate ed uniformi, tanto

maggiore è la possibilità di replicare lo strumento nel corso degli anni, sottoporlo a validazio-

ni esterne da parte di organismi certificatori, effettuare confronti nel tempo e nello spazio,

esprimere pareri sul livello di informativa e sulle performance sociali illustrate. Il processo di

standardizzazione non è però esente da rischi. Il principale è quello che l'applicazione dello

standard diventi un'operazione meccanicistica con l'effetto di allontanare la rappresentazio-

ne offerta dal bilancio sociale rispetto alla realtà che per suo mezzo si intende evidenziare. In

altri termini con un uso nozionistico degli standard, il documento assume una rigidità che

con il tempo si trasforma nella freddezza di un rito di cui si perde la motivazione e il signifi-

cato originario del processo di rendicontazione. Un ulteriore rischio è che col tempo si giunga

a una sorta di deresponsabilizzazione, essendo l'utilizzo di uno standard generalmente ac-

cettato come una sorta di garanzia ostentabile di obiettività anche se poi nella sostanza ci si

è allontanati dalla rappresentazione della realtà aziendale.

L'obiettivo e l'impostazione degli standard differisce notevolmente a seconda dell'organiz-

zazione che li ha elaborati, del contesto in cui sono maturati e delle finalità per le quali sono

stati emanati. Alcuni di essi si concentrano sulla standardizzazione del processo di redazio-

ne, altri, invece, anche sulla standardizzazione del documento. In particolare l'obiettivo di

questi ultimi non è solo quello di rendere comparabili i bilanci riferiti a periodi differenti e ad

aziende diverse, ma soprattutto quello di garantire attendibilità, trasparenza e pubblicità, per

consentire a chi legge di comprenderli e di maturare fondati giudizi.

Al fine di offrire una panoramica dei vari modelli censiti a livello nazionale e internaziona -

le, la seguente tabella descrive brevemente gli standard nazionali e internazionali più diffusi.

54

Page 55: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Standard di ren-

dicontazioneBreve descrizione

Principi di

redazione del

bilancio sociale

(GBS)

Presentati a Roma nel maggio 2001 da un gruppo interdisciplinare composto da

esponenti del mondo accademico, professionale e consulenziale, il Gruppo di stu-

dio per il bilancio sociale (GBS). Il Gruppo di studio ha individuato una serie di

principi di redazione da rispettare nella formazione del bilancio sociale: respon-

sabilità; identificazione; trasparenza; inclusione; coerenza; neutralità; competen-

za di periodo; prudenza; comparabilità; comprensibilità, chiarezza e intelligibili-

tà; periodicità e ricorrenza; omogeneità; utilità; significatività e rilevanza; verifica-

bilità dell'informazione; attendibilità e fedele rappresentazione; autonomia delle

terze parti.

I principi GBS si caratterizzano come uno standard che sintetizza modelli ed

esperienze nazionali e internazionali. Lo standard di bilancio sociale proposto

dal GBS prevede che il documento di rendicontazione sia articolato in tre parti

fondamentali: identità distintiva dell'ente; rendiconto (determinazione e distribu-

zione del valore aggiunto); relazione sociale.

Standard

IBS

Proposto nel 1988 dall'Istituto europeo per il bilancio sociale (IBS), lo standard

di bilancio sociale IBS ha ispirato lo standard del GBS e ha subito nel corso degli

anni subito numerose evoluzioni e integrazioni. Ad oggi l'attuale schema prevede

che il documento di rendicontazione sia articolato nei seguenti punti:

1. Introduzione metodologica

2. Identità

3. Rendiconto di valore

4. Relazione sociale

5. Sistema di rilevazione

6. Proposta di miglioramento

7. Attestazione di conformità procedurale

55

Page 56: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Standard di ren-

dicontazioneBreve descrizione

Standard di

redazione del

bilancio sociale

di Comunità e

Impresa

Il modello di bilancio sociale di Comunità e Impresa pone al centro di tutta l'a-

nalisi gli aspetti che riguardano i flussi di risorse e prestazioni scambiati tra im-

presa e stakeholders. Lo standard prevede che il documento di rendicontazione

sia articolato in cinque sezioni:

1. La prima sezione si compone dell'analisi del tessuto economico e sociale in

cui si colloca l'impresa e dei valori di fondo che ne guidano la missione.

2. La seconda sezione comprende il prospetto di raccordo tra bilancio civili-

stico e bilancio sociale.

3. La terza sezione è la principale di tutto il bilancio sociale: si tratta di una

dettagliata analisi di tutti gli stakeholders.

4. La quarta sezione riguarda il budget sociale, un documento di previsione in

cui si delineano gli impegni e gli investimenti che l'impresa intende attuare

in ambito sociale.

5. La quinta sezione contiene l'autovalutazione della qualità sociale dell'im-

presa, attraverso degli indici di sintesi.

Sustainability

Reporting

Guidelines

(GRI)

Pubblicate nel 2000 dalla Global Reporting Initiative (GRI), le linee guida sono

rivolte ad aziende private e pubbliche e contengono i principi alla base del bilan-

cio e il contenuto specifico per guidarne la preparazione. Per quanto riguarda i

contenuti del documento di rendicontazione sociale, lo standard del GRI indivi-

dua cinque sezioni:

1. Visione e strategia

2. Profilo dell'organizzazione

3. Governance e sistema di gestione

4. Indice dei contenuti GRI

5. Indicatori di performance

56

Page 57: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Standard di ren-

dicontazioneBreve descrizione

Accountabì1ity

1000

Elaborato nel 1999 dall'International Council of the Institute of Social and Ethi-

cal Accountability (ISSA) e aggiornato nel 2002, lo standard AA 1000 opera una

standardizzazione del processo di rendicontazione, definendo i principi e le ca-

ratteristiche del sistema di rendicontazione sociale. Alla base di tutto il sistema

c'è il principio di inclusione che prevede di considerare le aspirazioni e le necessi-

tà degli stakeholders, in tutti i livelli del sistema di rendicontazione, controllo e

reporting sociale. Lo standard AA 1000 prevede le seguenti fasi:

1. Pianificazione

2. Rendicontazione

3. Controllo e reporting

4. Integrazione

5. Coinvolgimento degli stakeholders

Copenhagen

Charter

Presentato per la prima volta nel 1999 al "Building Stakeholder Relations – The

Third International Conferente on Social and Ethical Accounting, Auditing and

Reporting" costituisce un tentativo particolarmente risuscito di standardizzare il

processo per la costruzione di una solida relazione con gli stakeholders e un pro-

cesso di rendicontazione sociale. La Copenhagen Charter si articola in otto fasi

distinte:

1. Decisione dell'Alta Direzione di creare una relazione con gli stakeholders

2. Identificazione degli stakeholders chiave

3. Costruzione di un dialogo permanente

4. Individuazione degli indicatori

5. Monitoraggio

6. Identificazione di azioni di miglioramento

7. Predisposizione, verifica e pubblicazione del resoconto

8. Consultazione degli stakeholders

57

Page 58: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Una volta scelto lo standard a cui attenersi e identificati tutti gli stakeholder in gioco, nella

rappresentazione dei risultati raggiunti assume particolare rilievo l'individuazione di oppor-

tuni indicatori di efficacia necessari alla corretta misurazione degli impatti delle attività da ri -

proporre in chiave sociale. Nello specifico, la valutazione dell'efficacia avviene prendendo in

esame sia i risultati dell'attività quantificati attraverso l'osservazione diretta degli esiti pro-

dotti (output), sia gli impatti generati dalle decisioni dell'organizzazione nel contesto sociale

ed ambientale di riferimento (outcome). Secondo questa impostazione, gli outcome, principa-

le oggetto di attenzione in questa sede, rappresentano dunque trend misurabili solo nel me-

dio-lungo periodo, che sono rilevati avvalendosi dell'osservazione degli esiti indirettamente

prodotti su variabili anche eterodipendenti (quali il tasso di disoccupazione, il tasso di inqui-

namento, il tasso di natalità, ecc.). Dato che talvolta gli argomenti trattati mal si prestano ad

essere quantificati, sono stati elaborati anche molteplici indicatori di natura qualitativa e,

spesso, descrittiva. Spetta insomma a ciascuna organizzazione il difficile compito di indivi-

duare il set di indicatori in grado di rappresentare al meglio i risultati ottenuti e gli impatti

sociali e ambientali prodotti in ciascuna delle macro-aree di intervento oggetto di rendiconta-

zione, al fine di attenersi al percorso di standardizzazione del modello di misurazione pre-

scelto nel rispetto delle peculiarità insite in ogni realtà imprenditoriale.

58

Page 59: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

59

Page 60: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

CAPITOLO II

RESPONSABILITÀ DELLA OLIVETTI

DELL’INGEGNER ADRIANO

60

Page 61: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.1 Introduzione

II.1.1 Storia della Olivetti Spa e biografia di Adriano Olivetti in breve

II.1.1.1 Gli inizi

Nel 1868, il 13 agosto nasce a Ivrea Camillo Olivetti. Laureatosi in ingegneria elettronica,

dopo due viaggi studio negli Stati Uniti, torna in Italia e fonda a Ivrea una piccola ditta deno-

minata “C.G.S.” (Centimetro, Grammo, Secondo), per la costruzione di strumenti elettrici di

misurazione, che in parte lui stesso disegna e brevetta; anche la fabbrica in mattoni rossi co-

struita per ospitare l'officina è frutto di un suo progetto. L'11 aprile del 1901 viene alla luce,

sempre a Ivrea, Adriano Olivetti. Il 29 ottobre 1908 Camillo, utilizzando la piccola fabbrica in

mattoni rossi, fonda a Ivrea la "Ing. C. Olivetti & C.". Dopo quasi tre anni di studi e progetti,

presenta il primo modello di macchina da scrivere, la M1, all'Esposizione Universale di Torino

del 1911. Inizia così la grande avventura della prima fabbrica nazionale di macchine per scri -

vere. Camillo Olivetti affronta il mercato aprendo filiali (le prime, nel 1913, a Milano, Genova,

Roma e Napoli) e affidando la grafica pubblicitaria ad artisti affermati. Dopo un rallentamen-

to negli anni della Guerra del ‘15-‘18 (in cui l'Olivetti produce anche materiale bellico sofi-

sticato), si propongono nuovi modelli di macchine per scrivere e crescono anche le esporta-

zioni.

Finita la guerra, Adriano frequenta il Politecnico di Torino laureandosi in chimica indu -

striale. Nel 1924 inizia un breve apprendistato nella ditta paterna come operaio. L'anno se -

guente, accompagnato dal Direttore Tecnico dell’azienda, l’ex operaio Domenico Burzio,

compie un viaggio di studi negli Stati Uniti, dove conosce la letteratura economica statuni -

tense e visita numerose fabbriche. Al ritorno, propone un vasto programma di interventi

per modernizzare l'attività della Olivetti: organizzazione decentrata, direzione per funzio-

ni, razionalizzazione dei tempi e metodi di montaggio, sviluppo della rete commerciale in

Italia e all'estero e più tardi, nel 1931, creazione di un Servizio Pubblicità, che fin dagli inizi

61

Page 62: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

si avvale del contributo di importanti artisti e designer. La nuova organizzazione

contribuisce ad aumentare in modo significativo la produttività della fabbrica e le vendite

dei prodotti. Adriano Olivetti avvia anche il progetto della prima macchina per scrivere

portatile che esce nel 1932 con il nome di MP1. Alla fine di quell’anno (lo stesso in cui la

Olivetti diventa società anonima) è nominato Direttore Generale e nel 1938 diventa

Presidente, subentrando al padre Camillo.

Gli anni trenta vedono l'estensione delle filiali in Italia e l'internazionalizzazione dell'impre-

sa, che crea fabbriche e sedi commerciali in Europa, America Latina, Medio Oriente, Africa:

alla fine del decennio, un terzo del fatturato è realizzato all'estero.

II.1.1.2 L’ascesa di Adriano Olivetti

L'azienda regge bene alle traversie della seconda guerra mondiale, durante la quale muore il

suo fondatore il 4 dicembre del 1943. Nello stesso anno Adriano, dopo essere stato a luglio

arrestato a Roma per via di contatti avuti con i servizi segreti americani circa la prospettiva

di una pace separata con gli Alleati, viene scarcerato l’8 settembre ma è costretto all'esilio

svizzero mentre l'azienda è guidata da Gino Martinoli, Giuseppe Pero e Giovanni Enriques.

Nel dopoguerra compaiono prodotti di grande successo che sostengono l'espansione. L'Uffi-

cio Progetti e Studi, avviato già nel 1929, nel 1945 diviene il Centro Studi ed Esperienze e nel

1966 il Gruppo Ricerca & Sviluppo. Riguardo al Centro Studi ed Esperienze, merita ricordare

l'impulso che a questo dà l'ingegner Adriano: la forza lavoro salirà fino a 1500 persone, ossia

a più del 10% dei 14200 dipendenti italiani dell'azienda (nel 1958 ammontano a 24200,

10000 dei quali nelle 17 consociate estere). Tra il 1945 e il 1959 si progettano 21 modelli di

macchine per scrivere e da calcolo. Si collabora attivamente con centri di ricerca avanzata, in

particolare statunitensi.

Se nel 1933 i prodotti Olivetti sono già presenti nei mercati di Egitto, Tunisia, Argentina,

Brasile, Bolivia, Cile, Ecuador, Siria, Grecia, Albania, Austria, Belgio, Cecoslovacchia, Danimar-

ca, Francia, Jugoslavia, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Turchia e Ungheria, Spagna, con il

1946 viene stabilita una prima base commerciale a New York, dove nel 1950 si costituisce la

Olivetti Corporation of America, la quale aprirà, nel 1954 a New York, il prestigioso negozio

della Fifth Avenue. L'edificazione di stabilimenti italiani si estende. Si ricostruisce lo stabili-

62

Page 63: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

mento di Massa Carrara distrutto dalla guerra. Nel 1950 si edifica a Ivrea la fabbrica a pareti

di vetro, disegnata da Figini e Pollini, alla quale si congiungerà l'estensione del 1957. Nel

1955 s'inaugurano lo stabilimento di Pozzuoli, disegnato da Luigi Cosenza, il Palazzo Olivetti

di via Clerici a Milano, il Centro Studi a Ivrea, e si amplia lo stabilimento di Aglié. A Ivrea nel

1956 si apre lo stabilimento di San Bernardo e l'anno successivo quello di San Lorenzo.

L’incremento di produttività subisce un arresto nel 1953, quando il mercato diminuisce la

velocità di assorbimento dei prodotti e si genera una crisi di sovrapproduzione. All’ingegner

Adriano un direttore generale suggerisce di licenziare 500 operai ma lui fa una scelta lungi -

mirante e controcorrente e, in questo modo, la crisi si rivela come un’opportunità, essendo

l’occasione giusta per penetrare maggiormente il mercato. La validità dei prodotti consente di

rispondere alla crisi di sovrapproduzione con l’espansione. Infatti, nel decennio 1950-60 le

macchine per ufficio Olivetti non hanno concorrenti alla loro altezza in Europa. Non solamen-

te sono le più tecnologicamente avanzate. Sono anche esteticamente senza paragoni. Inoltre,

ai clienti attentamente seguiti in un mercato conosciuto in modo capillare, si vende non solo

un prodotto ma un vero e proprio servizio. Un contratto di assistenza e permuta del prodotto

assicura al cliente le prestazioni del Servizio Tecnico Assistenza Clienti (STAC), nato nel

1922. Negli anni Ottanta poi, all'assistenza postvendita si sommerà la vendita di servizi, affi-

data a Oliservice, che offre manutenzione anche per i prodotti della concorrenza. Adriano

Olivetti dunque non chiude le fabbriche come tutti si sarebbero aspettati ma, al contrario, li -

cenzia il direttore che aveva proposto i licenziamenti e fa crescere la struttura commerciale:

costituisce nuove consociate estere e raddoppia la forza di vendita in Italia con l’assunzione

di 700 venditori, puntando in modo particolare sulla loro formazione. Cogliendo l'importan-

za strategica di queste figure professionali fino ad allora dequalificate, nel 1955 dedica alla

loro formazione una meravigliosa villa nei pressi di Firenze per ospitare il neonato CISV, Cen-

tro Istruzione e Specializzazione Vendite. Così nel 1958, su una forza lavoro di più di 14000

persone, in totale gli addetti all'organizzazione commerciale raggiungono quota 3150, oltre il

20%. Un rapporto osservabile in pochissime aziende dell'epoca, anche nelle maggiori aziende

straniere del medesimo comparto. Va aggiunto inoltre che sul totale degli addetti italiani gli

impiegati erano ben 4700, cioè il 30%. Un'azienda manifatturiera che avesse il 30% di impiega-

ti allora non esisteva.

In Italia, in tredici anni (1946-58) gli addetti vengono quasi triplicati, la produttività in unità

equiparate sale del 580%, la produzione aumenta addirittura del 1300%, ossia sale di 13 volte,

63

Page 64: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

fino a che, nel settembre del 1958, la produzione italiana, attraverso le fabbriche di Ivrea,

Agliè, Torino, Massa e Pozzuoli, ed estera, grazie agli stabilimenti di Barcellona, Glasgow,

Buenos Aires, San Paolo e Johannesburg, raggiunge il traguardo di 6,2 unità al minuto. L’Oli-

vetti arriva a conquistare il 27% del mercato mondiale delle macchine per scrivere e il 33% di

quello delle macchine da calcolo. Tra il 1947 e il 1949 il capitale sociale passa da 120 milioni

a 1 miliardo e 200 milioni di lire: nel 1953 viene raddoppiato, nel 1955 portato a 5 miliardi e

400 milioni, nel 1956 a 7 miliardi e 800 milioni e nel 1957 a 10 miliardi e 800 milioni di lire.

Un'azienda che cresce crea i mezzi per investire in ricerca e sviluppo. Adriano Olivetti riuscì

a costruire un simile circolo virtuoso: impresse alla sua azienda un fortissimo tasso di cresci -

ta, e più questa cresceva, più poteva investire in tale settore vitale. Nel 1955 inizia la sua atti -

vità a Pisa, in collaborazione con l’Università, il gruppo di ricerca chiamato Laboratorio Ricer-

che Elettroniche, affidato all'ingegner Mario Tchou per lo sviluppo di un calcolatore elettroni-

co con applicazioni commerciali. In seguito verrà trasferito a Borgo Lombardo, dove nel 1959

comincia la produzione di calcolatori elettronici. Nello stesso anno, ad Agrate Brianza è attiva

la fabbrica della Società Generale Semiconduttori, nata con l'intento previdente di disporre

dei componenti avanzati, cuore della competenza elettronica e dell'hardware dei prodotti e

componente massima del costo di questi.

Mentre gli investimenti nell’elettronica cominciano a portare risultati concreti, Adriano Oli-

vetti nel 1958 conclude un accordo per l'acquisizione della Underwood, storica azienda ame-

ricana di macchine per scrivere con quasi 11000 dipendenti. Valerio Castronovo commenterà

la vicenda riconoscendo che «Mai l’industria italiana era stata in grado di realizzare un’inizia -

tiva così rilevante a livello internazionale, ossia la scalata a uno dei massimi “santuari” del-

l’imprenditoria americana, quello stesso che aveva tenuto a battesimo a fine Ottocento [1896]

il prototipo della macchina da scrivere e monopolizzato, per tanti decenni, uno dei campi più

esclusivi della meccanica di precisione. Qualcosa come la Singer fra le macchine da cucire o

come la Ford fra le automobili». Anche se la fabbrica di Hartford non era più quella di una

volta, obsoleta e compromessa da una grave situazione finanziaria in parte ignorata prima di

concludere l'acquisto, la sua fama e la sua rete commerciale avrebbero potuto agevolare la

penetrazione dei prodotti Olivetti soprattutto negli Stati Uniti d'America.

Ma, nel mentre fa l’imprenditore, Adriano non manca mai di dedicarsi con pari passione alle

sue attività di intellettuale a tutto campo che negli anni lo porteranno ad essere ora urbani -

sta, ora politico, ora editore e scrittore. Sotto il Regime avvia uno studio preparatorio per un

64

Page 65: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

piano regolatore della Val d’Aosta (in quegli anni Ivrea fa parte di questa provincia). Dopo

aver aderito fin dal 1938 all'Istituto Nazionale di Urbanistica, nel 1950 ne diventa presidente

e nel 1951 assume l’incarico di predisporre il piano regolatore della città di Ivrea. Nel 1949 fa

rinascere, finanziandola personalmente, la rivista Urbanistica; collabora attivamente con

l’UNRRA Casas e si impegna in vari progetti per la riqualificazione e ricostruzione edilizia in

diverse aree del Mezzogiorno, tra cui quella di Matera. Nel 1937 fonda la rivista Tecnica e Or-

ganizzazione, dove pubblica numerosi saggi di tecnologia, economia, sociologia industriale.

Poco dopo, assieme a un gruppo di giovani intellettuali, crea una casa editrice, la NEI (Nuove

Edizioni Ivrea). Nel 1946 fonda la rivista Comunità, che nell’Italia del dopoguerra ben presto

diviene uno dei più qualificati luoghi del dibattito culturale, politico e sociale. Tra le riviste da

lui fondate si ricordano anche seleArte (1952), una finestra sul mondo dell’arte internaziona-

le, e l’Espresso (1955). La NEI si trasforma di fatto nelle Edizioni di Comunità nel 1946. Con

un intenso programma editoriale, pubblica importanti opere mai tradotte prima, afferenti i

più vari campi della cultura, dal pensiero politico alla sociologia, dalla filosofia all'organizza-

zione del lavoro, facendo così conoscere autori d'avanguardia o di grande prestigio all'estero,

ma ancora sconosciuti in Italia. Tra le prime opere pubblicate vi è anche L'ordine politico delle

comunità (1945), completato da Adriano durante l’esilio in Svizzera. Nel libro sono già

espresse le idee alla base del Movimento Comunità, che fonda nel 1947 a Torino, con una se-

rie di radicali proposte intese a istituire nuovi equilibri politici, sociali, economici tra i poteri

centrali e le autonomie locali. Nel 1956 Comunità si presenterà alle elezioni amministrative e

Adriano Olivetti verrà eletto sindaco di Ivrea. Presenterà la lista del Movimento Comunità an-

che alle elezioni politiche del 1958 ma, ottenendo un unico seggio, lui soltanto risulterà elet-

to senatore.

II.1.1.3 La fine di un’era

Proprio in un momento di forte espansione dell’azienda, ma anche di profonde rivoluzioni

e delicati impegni derivanti dallo sviluppo dell’elettronica e dall’acquisizione della Under-

wood, Adriano Olivetti muore improvvisamente nei pressi di Aglié in Svizzera per trombosi cere-

brale, sul treno diretto da Milano a Losanna: è il 27 febbraio 1960, un sabato. A Ivrea, nel mentre

si aprivano le danze per il festeggiamento dello Storico Carnevale cittadino, in un attimo la ri-

correnza si trasforma in lutto cittadino. Nel 1961 poi muore anche l'ingegner Mario Tchou,

65

Page 66: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

direttore del Laboratorio Ricerche Elettroniche che nel 1962 verrà trasferito da Borgo Lom-

bardo a Pregnana Milanese diventando la Divisione Elettronica dedicata alla realizzazione de-

gli Elea, avanzatissimi calcolatori mainframe. Nel 1964, per fronteggiare la difficile situazione

finanziaria (aggravata anche dalla fallimentare campagna elettorale di Adriano), un "Gruppo

d'intervento" formato da Fiat, Pirelli, Mediobanca, IMI e la Centrale entra nel capitale Olivetti.

Bruno Visentini è nominato presidente e, d’accordo con la nuova compagine azionaria, avvia la

cessione della Divisione Elettronica alla General Electric. All’Olivetti è concesso di continuare

a operare nell’informatica, limitatamente a campo dei calcolatori “da tavolo”, ancora inesplo-

rato. Lo fa investendo in un progetto tenuto a galla unicamente dalla volontà di Roberto, fi -

glio di Adriano, che nel 1965 sforna la Programma 101, ideata da Pier Giorgio Perotto, tardi-

vamente riconosciuta come l’antesignana degli attuali personal computer. Le caratteristiche

potenzialmente rivoluzionarie della macchina non furono però, per scelta o per miopia, ade-

guatamente apprezzate dai vertici aziendali, ancora orientati alla promozione della tecnolo-

gia meccanica.

Comunque l'espansione continua per tutti gli anni Sessanta e Settanta. Nel 1963 è inaugura-

to a Ivrea il Palazzo Uffici e nel 1964 il complesso industriale di Scarmagno. Nel 1965 è attivo

lo stabilimento di Città del Messico, nel 1969 quello di Harrisburg in Pennsylvania e si avvia

quello di Marcianise. Nel 1970 gli stabilimenti italiani sono 10, quelli all'estero 11. Dal 1966 le

azioni ordinarie Olivetti sono quotate in borsa. A metà anni Sessanta, in Italia le filiali sono

72, i concessionari 335. Le consociate estere sono diventate 18. I dipendenti, che nel 1961

erano circa 22.00O in Italia e 25.000 all'estero, nel 1972 sono quasi 74.000, dei quali circa

40.000 all'estero. Nel 1976 le consociate estere diventano 30, le filiali italiane 90.

Le macchine con tecnologia meccanica vanno scomparendo sostituite da quelle interamente

elettroniche, rendendosi necessario riconvertire la produzione all’elettronica. La riconversio-

ne è un successo, in breve tempo operai, capisquadra, capireparto, commerciali e quadri, in-

vece di essere sostituiti con nuovo personale ad hoc, vengono “aggiornati” con un’imponente

attività formativa. Nel 1972, ai prodotti di tecnologia elettronica è dovuto il 50% del fatturato

totale del Gruppo, il 68% di quello della capogruppo. Oltre 2.000 persone lavorano in Ricerca

& Sviluppo. Dal 1972 al 1976 l'azienda ha investito in ricerca 107 miliardi di lire, anche se,

sotto la presidenza Visentini, il capitale sociale ristagna dal 1964 a 60 miliardi di lire.

L’elettronica è anche l’occasione per la scomparsa della catena di montaggio, progressiva-

mente sostituita a partire dal 1971, dalle UMI, le Unità di Montaggio Integrate. Ognuna consi-

66

Page 67: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

ste in un gruppo di operai (dai 10 ai 30 in genere) che lavora in modo autonomo in un’area

definita dello stabilimento, l’“isola di montaggio”. Al loro interno i vari componenti di una

macchina vengono realizzati e subito collaudati, poi si montano a formare un gruppo o la

macchina stessa (a seconda della complessità) che a sua volta è collaudata e, se possibile, ri -

parata. All’operaio, diventato responsabile anche per i problemi della qualità, viene quindi as-

segnato un lavoro di senso compiuto, che gli consente di avere una chiara visione del risulta-

to finale e che lo responsabilizza maggiormente.

Dal 1978 l'ingegner Carlo De Benedetti acquisisce il controllo dell'impresa in qualità di am-

ministratore delegato e ne assumerà la presidenza nel 1983. Il capitale sociale viene portato a

100 miliardi e l'anno successivo a 200 miliardi, consentendo d'immettere in produzione e di-

stribuzione, con grande successo, nuovi prodotti elettronici progettati negli anni precedenti.

Intanto, mentre si fanno acquisizioni e alleanze strategiche (rilevante quella con la AT&T), l'a-

zienda viene spaccata in unità indipendenti (rompendo l'unità di ricerca e sviluppo dei pro-

dotti). Le aree funzionali sono trasformate in divisioni, passando così da centri di costo a cen-

tri di profitto che, talvolta, per l’enfasi posta dalla dirigenza sui risultati di breve periodo, en-

trano in conflitto tra loro. L’azienda viene ristrutturata più volte, con avvicendamento dei re-

sponsabili nei ruoli direttivi, affidati infine a uomini di provenienza esterna. In questo modo

lo stile e cultura imprenditoriale dell’Olivetti di Adriano, che era riuscita a sopravvivere alla

sua morte tramandandosi tra i capi olivettiani, viene irrimediabilmente spazzata via. Su que-

sta definitiva rottura culturale, in un'intervista concessa a Marco Borsa e apparsa nel Sole 24

Ore del 27 maggio 1984, lo stesso Carlo De Benedetti si pronuncia in questo modo:

«Al management erano state date in pasto delle cose alternative rispetto ai valori, a mio pa-

rere fondamentali soprattutto per il top management, che sono le responsabilità di far fun-

zionare quella macchina che ho definito un insieme di uomini e mezzi per produrre ricchez-

za. Poi magari gli dici che l'azienda esprime una cultura, ma queste sono normalmente delle

palle che vengono raccontate per dare un contenuto sostitutivo all'assenza dei messaggi

fondamentali. Sia ben chiaro, io ritengo che queste cose sono delle magnifiche cose e che se

un'azienda può anche farle, deve farle. Ma è una specie di piacere aggiuntivo che, personal-

mente, voglio togliermi nei limiti in cui lo posso fare».

Nella stessa intervista, afferma di non aver conosciuto Adriano Olivetti ma di pensare che

fra di loro «non ci fosse niente in comune».

67

Page 68: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Nel mondo dell’industria informatica l’Olivetti è molto presente, limitandosi però ad adotta-

re una strategia da follower nei confronti dei big come l’IBM. Questa scelta sarà la principale

causa che determinerà l’entrata in crisi di quel settore nei primi anni Novanta, portando alla

dismissione di diverse attività, chiusura di stabilimenti, drastica riduzione dei dirigenti e

massicce espulsioni di dipendenti. Mentre l'Olivetti subisce forti perdite nel mercato informa-

tico, diventa attiva nel mercato della telefonia mobile creando Omnitel (1990), quindi nelle te-

lecomunicazioni e della multimedialità con Telemedia (1994) e nella telecomunicazione su

rete fissa con Infostrada (1995).

Nel 1996, dopo 18 anni, Carlo De Benedetti lascia la presidenza e Roberto Colaninno diven-

ta amministratore delegato. La sua finanziaria diventerà maggiore azionista (17,5%) nel 1999.

Vengono ceduti i personal computer e la Divisione Sistemi, peculiare e preziosa core compe-

tence dell'impresa, uscendo così dall'informatica, mentre si mantengono ancora i prodotti

per l'ufficio. Nel 1997 l'Olivetti stipula per le telecomunicazioni un accordo con la Manne-

smann, arrivando, nel 1999, a cederle completamente Omnitel e Infostrada. Nel medesimo

anno l’Olivetti di Colaninno acquisisce tramite OPAS (offerta pubblica di acquisto e scambio),

il controllo di Telecom Italia. Da questo momento l’Olivetti diventa un’appendice del gruppo

Telecom e non ha più una storia autonoma. Nel 2001, quando nel giro di un anno la perdita

netta d’esercizio passa da 940 a 3090 milioni, l’Olivetti-Telecom viene ceduta a un gruppo di

finanzieri guidato da Marco Tronchetti Provera mediante OPA. Il 12 marzo 2003 si conclude il

declino dell’azienda, evidente nelle travagliate vicissitudini degli anni precedenti, con la can-

cellazione del titolo Olivetti dal listino della Borsa italiana. Ad oggi, anche se il nome soprav-

vive nella Olivetti Tecnost, una società del Gruppo Telecom Italia che produce fax e stampan-

ti in Val d’Aosta ed è attiva nel settore dei prodotti e servizi per l'Information technology,

come affermato da Oddone Camerana, l'Olivetti è ormai una realtà “andata per sempre come

una delle tante civiltà scomparse”.

L’ascesa dell'impresa di Camillo e Adriano (e Roberto, cui si deve il perseverare nella con-

versione all'elettronica) e la sua successiva decadenza, sono stati sincroni con lo sviluppo e il

dileguamento dell'Italia industriale, ossia della grande impresa, della sua prospettiva strategi-

ca e della sua capacità d'innovazione in settori di tecnologia avanzata.

68

Page 69: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.1.2 La persona e le idee di Adriano Olivetti

II.1.2.1 L'uomo

Adriano Olivetti è stato sovente descritto come un uomo curioso, goffo e timido, amante

dei dolci. Ma chi fu veramente Adriano Olivetti? Per tentare di descriverne la personalità è ne-

cessario prima inquadrarla con chiarezza. Ma ecco che appare subito la prima caratteristica

della persona di Adriano: non era inquadrabile. Possedeva una personalità troppo eclettica e

poliedrica, impossibile da circoscrivere univocamente. Sia perché formatasi sotto le influenze

ideologiche più svariate e, per forza di cose, anche contraddittorie tra loro, inconciliabili in

apparenza, che hanno reso irrequieta la sua natura, come in perenne evoluzione, inesausto

fermento. Sia perché durante la sua vita ebbe interessi e svolse attività in talmente tanti am-

biti che non si può affermare con certezza quale lo avesse attratto maggiormente. Ovvio che

fu, prima di tutto, un imprenditore di grande successo. “Imprenditore suo malgrado” avrebbe

detto Davide Cadeddu, docente di materie storiche all’Università degli Studi di Milano. Im-

prenditore a modo suo questo è sicuro, “eccezionale nella sua solitudine” a detta di De Bene-

detti, concreto e visionario, un “costruttore di futuro”. Proprio in quanto tale, osava dire «Io

non ho passato in me. In me non vi è che futuro». Rendere quel futuro un po' più presente, si

può dire che sia stata la missione di tutta la sua vita. L'ingegner Adriano cercava di realizzar-

lo attraverso una continua e avveduta “distruzione creativa”, secondo la quale “ad ogni op-

portuna dismissione di attività deve corrispondere l'avvio di iniziative di pari valore, più ade -

guate alla situazione e all'avvenire”. La sua azienda rinnovava costantemente i prodotti e i

processi produttivi, sviluppa competenze tecnologiche d'avanguardia, adoprandosi per capire

i cambiamenti del mercato, per influenzarli positivamente o reagirvi tempestivamente. L'Oli-

vetti era proiettata nel mondo. Adriano sapeva che non vi può essere continuità senza cam-

biamento. Certo la conduzione della fabbrica è quella a cui dedicò la maggior parte dei suoi

sforzi.

Ma la Ing. Olivetti & Co. di certo non fu mai la sua unica ragione di vita, tendeva anzi ad al -

lontanarsene, a intraprendere nuove strade, a mettere in campo altri mezzi per realizzare le

sue idee. La fabbrica la considerava infatti alla stregua di un semplice mezzo, anche se tra

tutti il più importante, lo strumento principe, quello ereditato dal padre, quello che rese pos-

69

Page 70: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

sibile il concreto tentativo di dare il suo personale contributo al raggiungimento del fine. Di

quale fine stiamo parlando, quale scopo aveva in mente? A questa domanda, tanto quanto a

quella iniziale, non c'è una risposta precisa. Rispondere il progresso economico-sociale, op-

pure di miglioramento delle nostre condizioni di vita è dare sì delle risposte, ma con concetti

fumosi, che vogliono dire tutto e nulla. Potremmo addirittura rispondere la felicità di tutti e

altrettanto non ci allontaneremmo di molto dal centro del bersaglio, ma altrettanto rimarrem-

mo nel vago. D'altronde lui stesso nel rivolgersi ai suoi lavoratori, cercando di ispirare in loro

la consapevolezza dei fini del lavoro che svolgevano, era solito esprimersi in questi termini:

«Noi tutti crediamo nel potere illimitato delle forze spirituali e crediamo che la sola soluzio-

ne alla presente crisi politica e sociale del mondo occidentale consista nel dare alle forze spi-

rituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo. Parlando di forze spirituali, cerco di

essere chiaro con me stesso e di riassumere con una semplice formula le quattro forze essen -

ziali dello spirito: Verità, Giustizia, Bellezza e, soprattutto, Amore!». Lui stesso, anche proprio

quando cercava “di essere chiaro”, non poteva non rimanere nell'indefinito. Il fine, sviluppare

il genio creativo delle forze spirituali, non può essere un preciso obiettivo da realizzare ma

un ideale a cui ispirarsi, una rotta da seguire. D'altronde «L'utopia è come l'orizzonte, fai due

passi e si allontana di due passi, ne fai dieci e si allontana di dieci. Ma allora a che cosa serve?

A camminare», suggerisce il giornalista Eduardo Galeano. Peraltro bisogna riconoscere quan-

to quelle stesse quattro forze (Verità, Giustizia, Bellezza e Amore) erano idee che a quei tem-

pi possedevano ancora un senso, erano capaci di far sognare e ispirare le persone, a differen-

za dei giorni d'oggi dove tali concetti, non essendo sopravvissuti alle “macerie lessicali del

'68”, delle religioni new age, hanno un significato ambiguo, o peggio ci appaiono ormai come

parole vacue, talmente abusate da essere prive di ogni carica simbolica ispiratrice.

Per tutti questi motivi, personalmente non me la sento di cristallizzare la sua personalità in

una definizione. D'altronde non penso che ne esista una in grado di “rendergli giustizia”. Tra

i tantissimi appellativi che la lingua italiana mette a disposizione (ingegnere chimico, indu-

striale, intellettuale, urbanista, editore, politico, sindaco, senatore, saggista, eccetera, eccete-

ra) non ce n'è uno che da solo basti a comprenderlo. Tuttavia posso cercare di “renderne l'i -

dea”. E per farlo ritengo più opportuno cominciare riportando quelle definizioni che nel cor-

so degli anni sono state date di lui e del suo operato. Natalia Ginzburg in Lessico famigliare

racconta l'impressione che ne ebbe incontrandolo «a Roma per la strada, un giorno, durante

l'occupazione tedesca. [...] Era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendic-

70

Page 71: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

ante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava». Ferruccio Parri

disse di lui che era un “utopista concreto”. “Imprenditore rosso” sono le velenose parole di

Angelo Costa, l'allora presidente di Confindustria. Giorgio De Santillana, fisico e storico italia-

no, lo ha chiamato “un Proudhon [noto anarchico francese] che ti compra la Undrewood”. La

forma organizzativa propria della catena produttiva della sua fabbrica ha ricevuto il celebre

appellativo di “taylorismo dal volto umano”. Tutte queste definizioni non sono altro che dei

veri e propri ossimori. È come se Adriano Olivetti, per la varietà di interessi, di ideologiche a

cui si ispirò, per numero di attività diverse intraprese, fosse una specie di paradosso vivente.

Una miscellanea di antinomie che invece di dividerlo e straziarlo internamente, in qualche

modo, rappresentano il segreto del suo successo. Un successo personale legato indissolubil-

mente a quello dell'azienda ereditata dal padre, la quale, c'era da aspettarselo, non meno di

lui conteneva al suo interno non poche contraddizioni e paradossi che, secondo Luciano Gal-

lino, sociologo italiano ex direttore del Servizio di Ricerche Sociologiche e di Studi sull'Orga-

nizzazione Olivetti, sono sintetizzabili nella figura di

«Paolo Volponi. Uno scrittore che scriveva romanzi in cui la drammaticità della transizione

dalla condizione contadina alla civiltà industriale erano messi in risalto con inusuale forza

descrittiva, oltre che con rimarchevoli risultati letterari. Nei romanzi egli distillava i suoi

umori anticapitalistici anche nei confronti di un'impresa tipo la Olivetti, che di tale transi-

zione era stata una delle protagoniste. Intanto che scriveva quei romanzi, Volponi fu per

molti anni un efficiente direttore dei Servizi sociali dell'azienda, capace quando la situazio-

ne lo richiedeva di adottare misure drastiche; per diventare infine, tempo dopo la scompar-

sa dell'ingegner Adriano, responsabile di tutto il settore del Personale. Paradossi aziendali

della Olivetti, non meno che paradossi personali di molti uomini portati a Ivrea da Adriano:

ruoli cardine in un'impresa capitalistica, affidati a persone di dichiarate convinzioni di si-

nistra, per di più svolti da loro con successo.»

Un successo talmente fuori dagli schemi da suscitare le antipatie di entrambi gli schiera-

menti in cui il mondo nel dopoguerra si divideva. D'altronde l'essere una persona estrema-

mente complessa lo rese inevitabilmente un personaggio assai controverso. Così, da una par-

te Adriano Olivetti fu duramente avversato dalla sinistra politica: CGIL e PCI, che era allora il

fratello maggiore, tutore politico della prima, tacciavano di nuovo paternalismo padronale il

suo riformismo d'impresa, che su Il Contemporaneo (settimanale di ispirazione marxista), nel

1954, Fabrizio Onofri arrivò a definire “patronalsocialismo”, accusandolo di proporre “sotto

71

Page 72: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

un'etichetta ancora più sporca” la mercanzia già venduta da Adolf Hitler. Ma Adriano ben sa-

peva che non la sua azienda, ma «i partiti politici, semmai, sono paternalisti, assegnano ruoli

chiave della vita pubblica a persone impreparate ma fedeli, persone allo stesso tempo

innocue e pericolose».

E ancor più paternaliste erano le grandi industrie italiane di quei tempi. Loro sì che perse -

guivano l'integrazione passiva della forza-lavoro in una città-fabbrica, sostenendo l'attività la-

vorativa parcellizzata e una manodopera sempre più intercambiabile, tramite la doppia arma

di un sottile e dosato paternalismo nelle pieghe di un'ideologia solidaristica di stampo azien-

dale (premi particolari di produzione o collaborazione, sicurezza del posto di lavoro, una fa-

scia salariale e d'indennità più elevata della media industriale definita dai contratti nazionali,

miglioramento dei servizi assistenziali), e di un inflessibile autoritarismo volto a comprimere

qualsiasi forma di autonomia politica e sindacale (licenziamenti collettivi, trasferimenti arbi-

trari, promozione di sindacati corporativi). Adriano non celò affatto la sua avversione nei

confronti di certe misure politiche e discriminazioni vessatorie praticate da alcune grandi im-

prese in quegli anni, a cominciare dalla FIAT di Valletta. In tal modo attirò su di sé anche le

antipatie di quella parte di mondo diametralmente opposta ai suoi detrattori di sinistra. Ven-

ne cioè osteggiato dall'establishment industriale di stampo capitalista rappresentato dalla

Confederazione Generale dell'Industria Italiana, conosciuta come Confindustria, la quale arri-

vò al punto di boicottarne i prodotti. Valerio Ochetto ha ricostruito questa vicenda a partire

da due interventi di Adriano, apparsi nel 1954 sulla rivista Comunità, che attaccavano l'uso

fatto in Italia dei fondi dell'European Recovery Program (il famoso Piano Marshall) distorcen-

done l'intento keynesiano; critica che concludeva: «In Italia si potrà avere una società demo-

cratica solo quando il potere di questi capitani d'industria sarà spezzato; gli aiuti americani

lo hanno paradossalmente aumentato». Interventi cui Costa aveva reagito. Ochetto riporta, a

partire da alcune testimonianze e dalla corrispondenza privata di Adriano, che alla polemica

sarebbe seguita una circolare di Confindustria, firmata da Costa e riservata alle diverse unio-

ni industriali: «Di certo la Montecatini blocca una grossa ordinazione della Olivetti». Alle ri-

mostranze di Piero Rollino, direttore dell'Olivetti Synthesis di Massa, Costa rispose dicendo

che si tratterà di “un caso isolato” ed escluse un intervento discriminatorio della Confindu-

stria verso l'azienda Olivetti, pur ribadendo che la polemica l'aveva coinvolto non come sin-

golo ma come «presidente della Confederazione in rappresentanza della categoria degli indu-

striali che dall'articolo dell'ing. Olivetti si è sentita offesa». La discriminazione non codificata

72

Page 73: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

continuerà, se Galassi ricorda di aver letto una circolare di Giorgio Valeria alle dipendenze

Edison per un embargo degli acquisti Olivetti, e se ancora nel 1958 lo stesso Galassia appren-

derà da due funzionari del servizio approvvigionamento della Montecatini di un nuovo

embargo, che Adriano cercherà di revocare con un incontro diretto con il conte Carlo Faina.

Faina e Valeria non erano solo alla testa di due grandi industrie, ma influenti membri degli

organi dirigenti di Confindustria.

II.1.2.2 Le finalità del mezzo economico secondo Adriano

L'Olivetti era dunque qualcosa di anomalo, che dava fastidio. Per questo Sandro Sartor, che

per 14 anni ha selezionato il personale tecnico all'Olivetti, è convinto che la crisi dell'impresa

del 1964-63 sia stata motivo di grande compiacimento per l'ambiente politico, sindacale e in-

dustriale del Paese. E ritiene anche che il Gruppo d'Intervento sia stato fatto, in parte, nell'in-

tento di normalizzare un'azienda diversa. Ma in cosa essa si differenziava a tal punto? La ri -

sposta è ad un tempo semplice ed estrema: nei suoi fini. Ed ecco il punto cruciale: che tipo

fini? Questa domanda è lui a porla, tanto a se stesso quanto ai suoi dipendenti, per la prima

volta nel giugno del 1945, rivolgendosi agli operai di Ivrea, mentre l'Italia si trovava coinvolta

in una generale crisi di civiltà: «Voi dovete essere messi in grado di conoscere dove la fabbri -

ca va e perché va. È quello che in termini sociologici si potrebbe chiamare dare consapevolez-

za di fini al lavoro. Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo?

Cosa è la fabbrica nel mondo di domani?». Olivetti non sapeva ancora “rispondere esauriente-

mente all'interrogativo”. Ma ecco che il quesito viene riproposto nove anni dopo nel discorso

senza tempo pronunciato in occasione dell'apertura del nuovo stabilimento di Pozzuoli nel-

l’aprile del 1955. «Può l'industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell'indice

dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazio -

ne, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?». E finalmente, stavolta alla domanda

«Possiamo rispondere: c'è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea, come a Poz-

zuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell'opera

che abbiamo intrapresa. Perché una trama, una trama ideale al di là dei principi della organiz -

zazione aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del suo fondatore, l'ope-

ra della nostra Società. Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a

73

Page 74: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

dire ancor del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un'impresa di tipo nuo-

vo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle

forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l'uno contro l'altro, non

riescono a risolvere i problemi dell'uomo e della società moderna. La fabbrica di Ivrea, pur

agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue mag-

giori preoccupazioni all'elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad

operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza

sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per

giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta.

La nostra società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori

dell'arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano es-

sere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nel-

l'uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto.»

Secondo Adriano, il fine di un'impresa si identifica, quindi, in un “tentativo sociale” di “ele -

vazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare” al fine di “garanti -

re ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta”. Un'impresa deve sì

funzionare secondo criteri economici di efficienza ed efficacia, ma tali criteri non devono sot-

tomettere la sua parte “umana”, nel senso buono del termine. Al contrario, «Abbiamo voluto

ricordare nel suo rigore razionalista, nella sua organizzazione, nella ripetizione esatta dei

suoi servizi culturali ed assistenziali, l'assoluta indissolubile unità che la lega [...] ad una tec-

nica che noi vogliamo al servizio dell'uomo onde questi, lungi dall'esserne schiavo, ne sia ac-

compagnato verso mete più alte». E i primi a doversi impegnare in questo tentativo sociale, a

farsi carico di una tale responsabilità sono i dirigenti; proprio a loro «spetta quasi tutta la re -

sponsabilità di farla divenire a poco a poco una cellula operante rivolta alla giustizia di ognu-

no, sollecita del bene delle famiglie, pensosa dell'avvenire dei figli e partecipe infine della vita

stessa del luogo che trarrà dal nostro stesso progresso alimento economico e incentivo di ele -

vamento sociale», fino a quando «un giorno questa fabbrica, se le premesse materiali e morali

intorno ai fini del nostro lavoro saranno mantenute, farà parte di una nuova e autentica civil -

tà indirizzata ad una più libera, felice e consapevole esplicazione della persona umana».

Quelle parole rimangono un segno di scandalo, tanto per quell'epoca quanto per la nostra.

Parole definite da Giuseppe Lupo nell’articolo La politica nel sogno di Olivetti come «un'incur-

sione corsara nella mentalità degli imprenditori, una scommessa eretica, ma è attraverso que-

74

Page 75: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

ste forme di eresie che si cambia la faccia della terra». D’altronde la parola “eresia” trova il

suo etimo in quella greca hairèō, la quale nient’altro significa che "scegliere". E come ogni

vera scelta autonoma comincia mettendo in dubbio le certezze calate dall’alto, i dogmi,

Adriano Olivetti avvia la sua riflessione sui fini dell'impresa mettendo in dubbio i due modelli

economici (socialismo e capitalismo) che, ai suoi tempi, sembravano, o l'uno o l'altro, l'unica

via per portare avanti il progresso della società. E il suo giudizio fu lucido e impietoso.

Da una parte, essendo in contatto con gli ambienti trozkisti, con gli ambienti della sinistra

socialista che avevano già dato un giudizio estremamente critico dell'URSS, si rendeva conto

di come il socialismo di Stato fosse un sistema già fallito nell'Unione Sovietica.

Dall'altra, fu ugualmente molto critico verso il liberalismo economico pienamente dispiega-

to, il quale pone come unica ragion d'essere il profitto e fine primario la massimizzazione del

valore azionario, dando adito a rendite parassitarie e superprofitti, in un'accumulazione infi-

nita che, mercificando il lavoro e il capitale, mortifica il lavoro dell'uomo e inasprisce la di-

stanza tra le classi sociali. Rispondendo a un'inchiesta sulle relazioni industriali realizzata da

Selezione del Reader's Digest, Adriano aveva infatti affermato che, secondo lui, «la principale

causa di attrito tra operai e imprenditori in Italia [è] la fallace e limitata logica del profitto». Si

può ben dire che Adriano Olivetti avesse anticipato il rischio (ricordiamo quel suo “giacché i

tempi avvertono con urgenza”), e in una certa misura cercasse di impedire, nei limiti in cui

potesse farlo un singolo individuo seppur dotato di notevole potere economico, che il merca-

to con la sua logica utilitaristica venisse applicato a ogni sfera della vita, all'educazione, alla

sanità, alle arti, alla vita familiare, al tempo libero, come attualmente alcuni mirano a ottene-

re.

Olivetti arrivò perciò alla conclusione che entrambi i modelli economici non sarebbero in

grado di fare in modo che «le gigantesche forze materiali alle quali esso [il mondo moderno]

sta rapidamente dando vita, non solo non lo travolgano, ma siano rese al servizio dell'uomo,

del suo progresso, del suo operoso benessere», con la conseguenza che, mentre «il lavoro do-

vrebbe essere una gioia, è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di

fare un lavoro che non serva e non giovi a un nobile scopo». Invece, il modo in cui egli diresse

la sua impresa rientrava in «un tentativo di indicare completamente una terza via che rispon-

da alle molteplici esigenze di ordine materiale e morale lasciate finora insoddisfatte»; il suo

agire da imprenditore andava a inquadrarsi in un progetto di più ampio respiro, in un «piano

di riforme [alla cui base] vi è la concezione di una nuova società che per il suo orientamento

75

Page 76: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

sarà essenzialmente socialista, ma che non dovrà mai ignorare i due fondamenti della società

che l'ha preceduta: democrazia politica e libertà individuale». Secondo Gallino, Adriano con

queste parole affermava che né lo Stato da solo né l'individuo da solo, fossero in grado di

rispondere ai grandi problemi del mondo industrializzato che stava nascendo dalle rovine

della guerra. Olivetti condivideva quindi la polemica di Emmanuel Mounier contro i due «mali

del secolo [...] lo sfrenato individualismo e l'idolatria dello Stato».

Sostanzialmente però, per Adriano, non fu mai una questione di schieramenti politico-eco-

nomici, di destra e sinistra, di socialismo e capitalismo; per lui non fu tanto una questione di

"etichetta" (lui per primo a non è etichettabile) perché il problema vero era fare in modo che

l'impresa cessasse di essere fatta «non d'uomini, ma di denaro e di carta», rendendola una

volta per tutte uno strumento al servizio della civiltà umana, che trasferisse le abilità e cono-

scenze tecnico-scientifiche acquisite in prodotti e servizi socialmente utili. Ciò che conta, in-

somma, è che la razionalità tecnica e organizzativa e il progresso scientifico, grazie all’”im-

mensa forza spirituale” del lavoro, siano un efficace mezzo per “dare un nuovo corso alla

vita e al lavoro dell'uomo”. «La razionalità e l'efficienza sono ciò che ci permette di dedicarci

alle cose che veramente ci interessano», diceva Theodor W. Adorno. «Quando i problemi tec-

nici che si presentavano nel mio lavoro furono risolti e il successo finanziario che ne fu la

principale conseguenza lo permise, fui tratto ad occuparmi della vita di relazione fra gli ope-

rai e la fabbrica», scrisse Adriano Olivetti sulla rivista Il Ponte nell'agosto-settembre 1949. In-

vestire in tecnologia, innovare i mezzi di produzione, accrescere per tal via la produttività

pro capite, per lui significava dotarsi della capacità di creare ricchezza per investire in pro-

getti sociali e culturali, trasformandola in una migliore qualità della vita di tutti. Significava

anche liberare il lavoro di una parte almeno dei suoi costi umani, anzitutto di una quota rile -

vante di fatica. In tal modo, chi produce utilizzando tecnologie all’avanguardia, poteva recu-

perare il tempo e l'energia che occorrono per utilizzare, ai fini del proprio benessere, le risor-

se economiche divenute disponibili.

In questa chiave si comprende come il tempo libero dei lavoratori fosse una preoccupazio-

ne costante e prioritaria per Adriano Olivetti. D’altronde, lui stesso imparò «ben presto a co-

noscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle

ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina», quando ancora tredi -

cenne, nell'agosto del 1914, iniziò l'apprendistato nell'azienda paterna come operaio. In un

documentario del 1961, Ritratti contemporanei, raccontava di aver faticato molto a lavorare

76

Page 77: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

con le macchine perché il lavoro non lo attraeva e soprattutto non fissava la sua attenzione,

«la mente poteva vagare e si stancava». Ma proprio perché «sono stato con voi nella fabbrica,

conosco la monotonia dei gesti ripetuti, la stanchezza dei lavori difficili, l'ansia di ritrovare

nelle pause del lavoro la luce, il sole, e poi a casa il sorriso di una donna e di un bimbo, il

cuore di una madre. Perciò sono stato io a lanciare l'idea di arrivare qui nella nostra fabbrica

per primi a ridurre l'orario». Ancora, quando l'azienda era già un colosso internazionale, dirà

al giovane Furio Colombo: «Io voglio che lei capisca il nero di un lunedì nella vita di un opera-

io. Altrimenti non si può fare il mestiere di manager, non si può dirigere se non si sa che cosa

fanno gli altri». Il valore della comprensione reciproca, sapere cosa fanno gli altri: sembrereb-

be il più banale dei principi ma, forse, proprio per questo sovente viene dimenticato o messo

da parte. Olivetti, conscio di questo pericolo, quando confidò ai suoi dipendenti di temere

che la fabbrica potesse “perdere la sua umanità”, si premurò anche di aggiungere che questa

è fatta “di conoscenza e di comprensione”. Una comprensione che, per avere un “vero valore”,

non può essere a senso unico: tanto il manager deve capire cosa vuol dire essere un operaio,

altrettanto i dipendenti devono comprendere le scelte della dirigenza, insomma «essere mes-

si in grado di conoscere dove la fabbrica va e perché va». Non a caso la libera condivisione

delle conoscenze fu un elemento caratteristico dell'Olivetti. E, per estirpare dall’azienda l’in-

comprensibilità e l’incomunicabilità, prime nemiche a una libera circolazione delle informa-

zioni tra i diversi livelli gerarchici su cui sono distribuiti i dipendenti, secondo Adriano in-

nanzitutto bisognava evitare di riprodurre, in quella gerarchia, la spaccatura esistente tra

classi sociali. Adriano, infatti, era a conoscenza del fatto che allora pochi figli di operai si di -

plomavano e pochi figli di piccola borghesia si laureavano. Di conseguenza, se l'azienda aves-

se assunto tutti o quasi laureati (figli di borghesia medio alta) per la carriera direttiva, diplo-

mati per le funzioni di livello intermedio e ragazzi di formazione inferiore per mantenerli nel

lavori esecutivi, si sarebbero riprodotte nella sua gerarchia interna tre strati sociali di diversa

estrazione e mentalità, inibendo la conoscenza e la comprensione reciproca. Tenendo presen-

te questo, per ottenere una cultura aziendale omogenea, l'Olivetti cercò quindi di mettere in

valore tutte le competenze interne: dal livello intermedio si formavano persone per il lavoro

direttivo e gli operai diventavano tecnici e capi (tutti i capisquadra e molti capireparto erano

di provenienza operaia). Come il famoso Natale Cappellaro, che progettò alcuni dei modelli

meglio riusciti di macchine Olivetti, la Elettrosumma lanciata nel 1945, tanto da essere anni

dopo proclamato ingegnere honoris causa. Anche in questo Adriano seguiva le orme del

77

Page 78: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

padre Camillo. Il primo capo officina della neonata società Olivetti era stato, nel 1909, Dome-

nica Burzio, un operaio di Ivrea, lo stesso a cui in seguito venne intitolata nel 1932 l’omonima

Fondazione.

Inoltre, ai laureati in ingresso nell'area della produzione veniva per lo più chiesto di fare

un'esperienza iniziale in mansioni operaie. In modo analogo, dai venditori provenivano i qua-

dri commerciali e da questi i responsabili delle filiali. Su una tale pratica, l’ex responsabile

dell'Ufficio Relazioni Sindacali Umberto Chapperon che l’ha vissuta in prima persona, si è

espresso in questi termini: «Io stesso, per inciso, appena assunto all'Olivetti, fui mandato per

circa sei mesi a lavorare al montaggio dell'MC24, la calcolatrice meccanica, e la ritenni un'e-

sperienza fondamentale. Tutto si svolse nella maniera più rispettosa e cordiale possibile: in

piemontese, io ero el dutùr: “E come va el dutùr?” chiedevano di me; in quei sei mesi non riu-

scii mai a fare il cottimo, che invece gli altri facevano con una certa facilità, non riuscii mai a

raggiungere il rendimento degli altri. Fu un'esperienza preziosissima». È proprio grazie a que-

sto tipo di accorgimenti che persone come Alessandro Graciotti, perito radiotecnico che lavo-

rò nell'ambito della Ricerca & Sviluppo, hanno potuto pronunciare parole di questo tenore:

«Beh, in Olivetti il lavoro operaio non mi appariva affatto una cosa così tremenda. Ammetto

che non so che cosa accadesse all'Alfa di Arese o alla Pirelli della Bicocca: forse lì sì c'erano

condizioni di lavoro tali da scatenare il tipo di reazione che hanno scatenato. Però in Olivetti

sicuramente tutto questo non si percepiva: non si percepiva la fatica del lavoro e l'azienda

non era un luogo brutto, dove non si andava volentieri. Io, perlomeno, ci andavo con la sen -

sazione di fare un lavoro strano ma meraviglioso, addirittura da pioniere, e quindi ci andavo

volentierissimo».

Quest’impresa dove “non si percepiva la fatica del lavoro” fu possibile perché all'Olivetti l'a-

nima dello sviluppo non fu mai, almeno finché è rimasto in vita Adriano, l'avidità di guada-

gno. L'ingegnere aveva ereditato dal padre una «religiosa ripulsa per il danaro che viene non

dal lavoro, ma da altro danaro», e i dividendi accordati agli azionisti non superano mai i divi -

dendi riconosciuti in conto corrente aziendale ai dipendenti. Possiamo affermare che Adriano

Olivetti ribaltò il principio dell'autonomia dell'economico, secondo il quale, come espresso da

Karl Polanyi, «non è più l'economia a essere embédded nelle relazioni sociali, ma queste ulti-

me a essere incastrate nella prima». Esempio solare di un tale ribaltamento è la risposta alla

crisi di sovrapproduzione del 1953. In quell’occasione, Adriano invece di licenziare 500 di-

78

Page 79: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

pendenti come gli era stato suggerito, reagì al contrario, raddoppiando il personale commer-

ciale affinché si potessero mantenere i volumi di produzione e con essi i posti di lavoro della

fabbrica. D’altronde l’ingegnere per tutta la vita non venne mai meno alla consegna del padre:

«Nell'affidarmi allora la riorganizzazione delle officine, mio Padre mi aveva conferito grandi

poteri, ma mi aveva pure avvisato e ammonito con precise indicazioni e in questi termini

perentori: "Tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno a motivo dell'in-

troduzione dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che

affligge la classe operaia."».

L'unicità dell’idea olivettiana di responsabilità dell'attività economica è tanta, che non trova

riscontro nemmeno nelle due accezioni che si succedettero nel corso dell'era industriale. L'e-

tica Olivetti non s'ispira all'“ascesi intramondana” nel lavoro (salvifica, nelle sue origini reli -

giose) identificata da Max Weber, per la quale la borghesia imprenditrice giustificava la deten-

zione del patrimonio mediante l'uso socialmente responsabile del potere economico. Per lui

non era una questione di doversi giustificare o discolpare per il possesso di ricchezza.

E la responsabilità imprenditoriale adrianea non può ravvisarsi neppure nella subordinazio-

ne collettiva (siglata nei "regolamenti d'officina" delle fabbriche dell'Ottocento) al "razionali -

smo produttivo", subordinazione resa necessaria dalla cultura evoluzionista del "progresso".

L'etica d'impresa di Adriano s'ispira invece a una visione di radice aristotelica, secondo la

quale l'agire economico è inserito nella catena teleologica che lo finalizza al bene comune: l'a-

gire economico è una forma dell'agire etico ed è incluso in questo. Perciò l'impresa nasce, im-

pegnando risorse appropriate, al fine di costruire prodotti e servizi utili per il mondo in cui

opera. L'impresa vive mantenendo la propria autosufficienza con il profitto e distribuendo

ricchezza affinché quella di tutti possa finalmente essere «una vita più degna di essere vissu-

ta».

79

Page 80: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.2 Principi e pratiche dell’etica Olivetti

II.2.1 Essere un olivettiano

Per capire quali valori etici fossero diffusi all'Olivetti e, soprattutto, come fossero arrivati a

permeare radicalmente tutta la struttura aziendale, ritengo che il modo migliore sia iniziare

parlando delle personalità dei dipendenti Olivetti, e in particolare dello stile di dirigenti e

capi (rapportando il tutto, quando possibile, al contesto imprenditoriale italiano di quel pe-

riodo). Perché l’Olivetti, ovviamente, non era un’impresa in cui Adriano facesse tutto. Era

però un’impresa in cui Adriano Olivetti selezionava personalmente molti degli uomini da col -

locare in posizioni chiave.

Appena un candidato si presentava nel Palazzo Uffici di Ivrea per svolgere il colloquio di as -

sunzione, poteva leggere la seguente scritta: «Qui nessuno vi chiederà mai la vostra fede reli-

giosa, il vostro credo politico o la vostra razza». Questo era il primo approccio verso chi sa-

rebbe stato accolto in azienda. Un’accoglienza che, già di per sé, bastava a segnare una diffe-

renza abissale con la politica delle Risorse Umane tipica della grande industria italiana di al-

lora. Chapperon ricorda come proprio la suddetta scritta fu la prima cosa che lo lasciò felice -

mente sorpreso al suo arrivo a Ivrea e, col seguente aneddoto, esprime a meraviglia…

«quale fosse l'atmosfera di quegli anni in Italia e quanto fosse distante il clima dell'Olivetti

da quello del resto del Paese. Alla metà degli anni cinquanta, la rivista Nuovi argomenti, al-

lora diretta da Alberto Carocci, uscì con un numero monografico che fece un certo scalpore

e che s'intitolava Inchiesta alla FIAT. Alberto Carocci aveva un figlio, più o meno mio coeta-

neo, il quale venne a Torino per fare delle interviste agli operai FIAT. Io lo accompagnai e lo

aiutai per una parte di queste interviste: l'immagine che ricavai di quel mondo industriale fu

terrificante. Basti pensare che la gente, per partecipare, voleva che gli incontri si tenessero

in luoghi lontanissimi dagli stabilimenti: avevano paura di essere riconosciuti o seguiti; ci

trovavamo in qualche bar o in qualche osteria, in cui entravano da porte secondarie; quegli

operai raccontavano delle incredibili storie di discriminazioni, di epurazioni, di agenti pro-

vocatori. Questi agenti provocatori erano persone che magari t'incontravano in un corrido-

80

Page 81: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

io della fabbrica, ti davano una spintonata oppure un calcio, e se tu reagivi urlavano: “Ris-

sa!”, cosicché si veniva licenziati tutti e due, ma il punto è che uno dei due era stato assunto

proprio per far cacciare l'altro. Certamente in quegli anni nessuno veniva assunto se le sue

referenze non certificavano che era una persona che non aveva niente a che fare con la sini -

stra italiana. Agli altri, a quelli assunti prima del 1948, ci pensavano appunto gli agenti pro-

vocatori.»

E Sandro Sartor aggiunge che, quando faceva selezione all'Olivetti, era solito ripetere al suo

superiore Nicola Tufarelli: «Se ci si mettesse d'accordo con la FIAT, l'IBM e con voi potreste

pagarmi un terzo dello stipendio; oppure, se foste generosi, io potrei avere tre stipendi inve-

ce di uno; perché le persone che assumiamo noi la FIAT non le assumerà mai e l'IBM neppure,

e viceversa. Per cui, se contemporaneamente facessi anche le selezioni per la FIAT, la mia pre-

stazione nei confronti dell'Olivetti non verrebbe a perderci nulla: infatti si scelgono persone

con caratteristiche assolutamente diverse».

Questa unicità delle assunzioni Olivetti non era dovuta soltanto all'assenza di pregiudizi,

ma soprattutto ai metodi di svolgimento del colloquio e ai criteri di selezione. A tal proposito

la testimonianza resaci da Umberto Gribaudo è illuminante:

«Il peggior colloquio, il più drammatico, è stato quello della FIAT: una cosa orribile. Immagi -

ni un tavolo tondo, e intorno un giro di sedie: una sedia vuota, una sedia occupata, sedia

vuota, sedia piena... Nelle sedie occupate c'erano tutti i maggiorenti della FIAT di quel mo-

mento, ciascuno per la sua materia: ufficio legale, ufficio personale, ufficio tecnico, progetti-

sti. E si entrava così, in fila indiana: c'erano questi assumendi, e gli esaminandi che si spo -

stavano da una sedia all'altra. C'era un foglio, c'era un aggeggio che faceva clock: era una

sorta di "linea di assunzione". Scattava il clock, e il dirigente incaricato le chiedeva: “Lei,

cosa fa? Ah questo! Mi parli del tale argomento”. Si completava questo giro, che durava an-

che due ore. Tra i candidati c'erano nomi già noti: con me c'erano figli di dirigenti; c'era uno

che aveva il padre lì, in quella stessa "catena di montaggio". Alla fine uno usciva e poi, dopo

due o tre giorni, gli dicevano: è andata bene, è andata male. Era un'organizzazione per ren-

dere al massimo dell'efficienza. Come dicevo, per questo giro potevano volerci due ore. La

prova di assunzione si svolgeva come un esame: con esercizi da risolvere entro un tempo

determinato. All'Olivetti, invece, di colloqui ne ho avuti due. Uno a Torino con l'allora capo

del Personale, che poi è diventato il mio capo in Produzione, l'ingegner Nicola Tufarelli, e ne

sono uscito perplesso: "Questo che cosa voleva da me? Mi ha chiesto cosa facevo nel tempo

libero, l'ultimo libro che avevo letto, l'ultimo film, come avrei programmato le mie vacanze,

81

Page 82: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

cosa avrei desiderato fare all'Olivetti" mi sono detto; "Di me questo ha la fotografia che gli

ho dato, ma che cosa ne ha preso?". I colloqui di selezione all'Olivetti erano fatti così, erano

fatti per scavare attorno alla persona. Può darsi che avessero su di noi tutte le conoscenze

relative alla preparazione tecnica (io m'immaginavo) e il voto di laurea: in realtà, non mi

hanno chiesto di allegare il diploma di laurea, io potevo anche non essere laureato. Era mol-

to informale. Poi ce ne fu un secondo, a Ivrea. Adriano Olivetti in queste cose era ancora più

profondo: credeva molto nella sua capacità di guardar oltre. Dai colloqui uno poteva uscire

fuori dicendo: “Mah..., che strana azienda!”. Anni dopo, ho interrogato Tufarelli: “Adesso

puoi dirmelo: quando mi hai assunto, perché mi hai assunto?”. Mi lasciò i dossier di questi

colloqui: era tutto abbastanza curioso: per esempio, davano importanza alla perizia grafolo-

gica, un tentativo di leggere l'individuo al di là di quello che lui voleva manifestare.»

Non si può certo dire che Adriano Olivetti si basasse sui titoli accademici. Nei colloqui cui

personalmente si dedicava con piacere, insisteva in particolar modo affinché il candidato gli

raccontasse le sue vicende, i suoi interessi e la sua storia. Vero è che, trattandosi in generale

di intellettuali o di tecnici assai giovani, le esperienze precedenti o il curriculum erano decisa-

mente smilzi. Egli sembrava piuttosto intuire, le capacità di crescita, le potenzialità di forma-

zione, di sviluppo e autosviluppo critico d'una personalità. Sulla base della sua intuizione de-

cideva quindi se la persona gli interessava o no. L'unico limite imposto dall'ingegnere per le

assunzioni era quello di attenersi a un modello secondo il quale la crescita delle risorse

umane dovesse sviluppandosi contemporaneamente in tre campi culturali: bisognava assu-

mere umanisti, economisti e tecnici in egual numero in modo che formassero delle terne.

La terna costituiva l'unico criterio di selezione dell'azienda e gli assunti venivano appunto

chiamati "ternisti". Tutto ciò aveva il suo senso perché un neo-assunto laureato in giuri -

sprudenza veniva visto come portatore di una cultura diversa da quella tecnologica e da

quella economica, ma non meno necessaria per l'impresa.

All'Olivetti i test psicoattitudinali erano utilizzati esclusivamente per selezionale il gran nu-

mero di candidati diplomati e per la moltitudine di candidati a mansioni operaie, mentre si ri-

teneva superfluo l'impiego di test nell'assunzione di laureati, poiché il percorso e gli esiti de-

gli studi in teoria garantivano per il livello delle conoscenze di base. Assumendo ci si aprire

all'ingresso di una persona dalla quale ci si attende una prestazione professionale e l'esito

degli studi ed eventuali precedenti lavorativi attestavano la sua possibilità di riuscire, ma la

persona poteva attuarla correttamente solo se aperta ad acquisire la consapevolezza dei fini

del lavoro comune. Il risultato di una simile filosofia fu che i colloqui erano sempre molto li -

82

Page 83: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

beri, più simili a una chiacchierata, e non venne mai chiesto il certificato di laurea a nessuno.

Tra l'altro, poteva anche capitare che qualcuno se ne approfittasse, come successe a San-

dro Sartor, il quale solo dopo parecchi anni si accorse di aver assunto un tale che diceva di

essere ingegnere ma non lo era. Questo però nel frattempo aveva vinto alcuni tra i premi più

importanti per il mestiere che stava facendo, per cui si dissero “Pazienza se non è ingegnere”.

Al contrario poteva capitare che si presentassero degli ingegneri eccellenti, dei centodieci e

lode, i quali però ad alcune domande-chiave come il tipo di letture, gli interessi culturali,

l'esperienza politica nell'università o gli hobby, spesso rispondevano dando del loro me-

stiere una visione molto "fiattista", tecnica, squared, limitata. L'ingegnere centodieci e lode

che aveva questo tipo di visione del mondo veniva pregato di accomodarsi fuori.

Assurdo come, nonostante non fossero state formalizzate delle vere e proprie linee guida

per la valutazione e la cernita dei candidati, tutti i selezionatori sapevano molto bene quali

criteri adottare. Così sempre Sartor racconta che quando venne adibito alla selezione del per-

sonale tecnico tutto quello che Tufarelli gli disse fu soltanto: “Lei giri, e se trova uno intel-

ligente lo prenda”. E Maggio ci offre un'altra conferma di questa autonomia: «Senza che

nessuno di noi facesse professione di politica, i nostri criteri nell'assunzione dei laureati

applicavano di fatto uno spartiacque sostanzialmente ideologico: passavano i progressisti,

e non i reazionari; questo nessuno ce l'ha mai prescritto, ma era così ». L’unica spiegazione

a che una tale autonomia decisionale non producesse conseguenze negative, risultando

anzi molto efficace, va probabilmente individuata nel fatto che i selezionatori, i quali a

loro volta erano stati attentamente scelti dallo stesso Adriano Olivetti, fossero tutta gente

che possedeva, impressi nel proprio DNA culturale, i principi di quel codice etico olivettia -

no e riuscisse, con una semplice conversazione, a capire se il candidato gli fosse affine o

meno. Olivettiani che riconoscevano altri olivettiani e li introducevano in azienda. Chi as-

sumeva personale, sapeva da sé che suo compito non era acquisire un'anonima capacità di

prestazione (una "risorsa umana" come si dice oggi) ma conoscere "la persona", le sue

esperienze e le sue aspirazioni, qualunque fosse la destinazione lavorativa prevista. Nei

laureati in particolare si intendeva ravvisare un'autonomia di giudizio e un orizzonte di

interessi (l'apertura culturale poteva voler dire attitudine a cogliere la complessità della

vita lavorativa) che eludevano il gretto carrierismo e, peggio, il conformismo acritico e op-

portunistico. Ben lungi dal volere degli “yesman”, erano richieste ampiezza di orizzonti, cu-

riosità, senso critico, si cercavano ragazzi capaci di porsi la domanda: "Si fa così? Bene. Ma

83

Page 84: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

perché non si può fare anche cosà?", persone in grado di porsi in termini critici (mai ipercriti-

ci), che non accettassero supinamente le istruzioni ricevute. Perché l'Olivetti era un'azienda

in cui chiunque, anche chi vi era entrato per ultimo, poteva (e doveva) dare suggerimenti e

questi suggerimenti venivano sempre valutati, se non accettati.

Il sistema funzionava e i risultati erano percepibili nella qualità delle persone che entra -

vano in azienda. Persone di spirito libero, di giudizio autonomo, aperte a interessi sociali

e culturali (“l'ingegnere non solo ingegnere”), persone con la mente idonea al confronto e

al dialogo, l'atteggiamento propenso a condividere l'esperienza della vita lavorativa (“la

fabbrica come comunità di spiriti liberi”). L'impresa, lungi dal chiedere obbedienza e fedel -

tà incondizionata, contava sulla libertà, dando spazio allo spirito d'iniziativa e di propo -

sta; in cambio otteneva leali espressioni di consenso e di dissenso a tutti i livelli e la spon -

tanea fiducia dei suoi dipendenti. Vi era una certa “leggerezza dei rapporti e delle proce -

dure” che generava un rapporto aperto, creativo tra le persone. E gli effetti prodotti da

questo ambiente aziendale particolarmente umano tornavano a vantaggio tanto delle per -

sone quanto dell'azienda stessa. Ad esempio, Maggio, parlando del successo che ebbe la ri -

conversione della fabbrica dalla meccanica all'elettronica, è convinto che «Questi miracoli

avvengono quando a un capo visionario corrisponde una struttura anch'essa poco orto-

dossa, per cui se uno chiede una cosa strana non viene subito guardato con sospetto».

L'Olivetti era una comunità di apprendimento continuo che consentiva alle persone di con -

frontare conoscenze e riflessioni sulle esperienze vissute: esse imparavano dalle conver -

genze e dalle divergenze, costruivano prospettive e significati, si aprivano a sperimentare

il nuovo. Tutt’oggi nelle aziende è difficile trovare un tale livello di condivisione: nello sti -

le più diffuso del management l'informazione è parcellizzata, arriva da un principe che ne

passa solo una piccola parte e solo a pochi. All'epoca, invece, era del tutto condivisa: l'in-

gegnere, il perito, i giovani quadri che erano a conoscenza di un progetto o di un obiettivo

trasmettevano un'informazione completa fino al livello di caposquadra. Adriano Olivetti

ampliò, dunque, il concetto di direzione d'impresa, poiché secondo lui «essa doveva fondar-

si sulla cooperazione e quindi sulla socializzazione delle conoscenze dei collaboratori».

«La capacità direttiva – osservava Olivetti – diventa una combinazione di qualità soprattut-

to psicologiche e morali, per mezzo delle quali il dirigente diventa capace di promuovere

l'attività e l'azione dei dipendenti, principalmente perché mediante la sua influenza su di

essi sorge la volontà di compiere tali azioni». Questa capacità si rivelava “veramente crea -

84

Page 85: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

trice” e si distingueva da quella «comune caratterizzata dal comando per autorità e non

per trasmissione di volontà».

II.2.2 I principi guida

II.2.3.1 Introduzione

La precedente ampia descrizione del tipo di persone presenti all'Olivetti e dell'ambiente la-

vorativo, è premessa necessaria alla comprensione di quanto sia difficile, nel nostro caso, sti-

lare un elenco di precisi principi etici di riferimento come potrebbe essere l'onestà, la traspa -

renza, l'uguaglianza, la buona fede. Perché all'Olivetti, ancor più che nella fissazione di regole

comportamentali “giuste”, si credeva nella creazione di un ambiente di lavoro permeato da

un clima di giustizia, dal quale il comportamenti eticamente corretti sarebbe spontaneamente

derivati. E per creare un ambiente del genere, si scommetteva tutto sulle persone che doveva -

no essere dei “giusti” (Ottorino Beltrami ha definito Adriano Olivetti semplicemente “un giu-

sto”). Non si credeva nella divisione del mondo tra buoni o cattivi, si credeva nella divisione

del mondo tra persone che sanno ascoltare l’opinione di tutti e persone troppo presuntuose

per cambiare idea, tra persone che ragionano come uomini e quelle che ragionano come mac-

chine. Finora abbiamo parlato soltanto di leggerezza procedurale, ampiezza culturale, spon-

taneità nei rapporti, struttura poco ortodossa, indipendenza di giudizio, mentalità aperta;

mai di essere buoni, gentili con tutti e rispettosi dei diritti umani. Una volta che nell'ambiente

di fabbrica fossero state presenti le suddette caratteristiche, l’onestà, la gentilezza e il rispet -

to erano qualcosa che si ottenevano da tutti senza bisogno di imporre.

Insomma, il famoso moral hazard, all’Olivetti era pressoché uno sconosciuto. I dipendenti

non si approfittavano del potere conferitogli, evitavano di perseguire scopi egoistici senza

che qualcuno li dovesse costringere per mezzo di norme codificate, incentivi e correttivi. Ose-

rei anzi dire che la minore presenza di regole, una certa componente di “anarchia” struttura-

le, fosse la chiave di questo comportamento etico diffuso. E all'Olivetti, infatti, il primo degli

“anarchici” era proprio lo stesso Adriano. Lui per primo usava contravvenire alle regole.

85

Page 86: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Giammai per ottenere un vantaggio personale o concedere un favoritismo, ma soltanto nel

caso in cui lo ritenesse giusto. Ad esempio, quando gli riferirono di un dipendente che di na-

scosto si aumentava la busta paga, prima di decidere come intervenire, incaricò un assistente

sociale di scoprire se quel dipendente si trovasse in difficoltà economiche tali da averlo in-

dotto a rubare. Si scoprì che effettivamente così era e il dipendente, non solo non fu punito,

ma gli aumentarono lo stipendio della giunta che era solito farsi. Quando poi gli chiesero che

provvedimenti prendere per impedire agli operai di portarsi a casa i martelli dall’officina, ri-

spose semplicemente che dal momento in cui tutti avessero avuto il loro attrezzo di lavoro in

casa, avrebbero anche smesso da soli di toglierli alla fabbrica. E in occasione del furto di un

libro della biblioteca, Adriano Olivetti anziché arrabbiarsi ne fu felice perché così, chi aveva

sottratto il libro, finalmente avrebbe potuto leggerlo con tranquillità a casa. Umberto

Chapperon ci racconta un altro curioso aneddoto sul tema: «Un certo giorno, l'ingegner

Adriano mise a fuoco che poteva capitare che al mattino un dipendente entrasse in fabbrica

con il sole ma quando alla sera usciva piovesse a dirotto. Allora fece acquistare una quantità

di ombrelli: se all'uscita pioveva, le guardie dello stabilimento distribuivano a ciascuno gli

ombrelli. Questo fatto che le guardie venissero impiegate a distribuire ombrelli mi è sempre

sembrata una cosa straordinaria». E ancora Chapperon ricorda che in una delle rare occasioni

in cui incontrò l'Ingegner Adriano, questi gli disse: «Nella nostra fabbrica deve esserci libertà:

non soltanto perché nella libertà ci crediamo, ma perché noi siamo un'azienda d'inventori e

l'invenzione ha bisogno di libertà». Nel pronunciare quelle parole, probabilmente

all’ingegnere veniva in mente il “mito” di Natale Cappellaro, l’operaio con la licenza

elementare che, armato soltanto della propria curiosità e voglia di fare, grazie alla fiducia

riposta nelle sue capacità, arrivò a progettare, riuscendo anche a risolvere problemi tecnici su

cui veri e propri ingegneri avevano fallito, le due calcolatrici che per almeno un decennio

hanno fatto la fortuna della Olivetti e le hanno dato la leadership mondiale nel calcolo

meccanico: la Divisumma 24 e la Tetractys, entrambe uscite nel 1956.

Nonostante la fisiologica indeterminatezza che abbiamo appena visto essere propria del

modello organizzativo dell'Olivetti, ritengo comunque possibile osare un tentativo di dedurre

quali fossero i predominanti valori a carattere etico, atti a ispirare e guidare i comportamenti

di ognuno all'interno dell'azienda.

86

Page 87: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.2.2.2 Lavoratori in quanto uomini

Valeva in Olivetti un principio fondamentale: un profondo rispetto dell'uomo. La prima cosa

di cui si preoccupavano all'Olivetti era che la gente fosse, se non felice, almeno soddisfatta il

più possibile. Gobbi racconta, infatti, che una volta

«Uno dei colleghi con cui parlai prima di andare a Pozzuoli, il dottor Chapperon, mi disse:

"Questa qui sarà alla fine un'azienda dove tutti saranno felici... Ma di macchine non ne usci-

rà più una». A forza di correre dietro alle aspettative della gente, c'era il rischio, appunto,

che non si badasse più alle macchine da produrre perché la preoccupazione era: «Guarda

che se hai fatto meno produzione del previsto non te lo rimprovereranno mai, ma ti rimpro-

vereranno se c'è stato uno sciopero». Lo sciopero era sintomo d'insoddisfazione, un cattivo

segno di qualcosa che non funzionava nei rapporti tra l'azienda e i suoi dipendenti: questa

era l'atmosfera di allora. Certo, Umberto Chapperon è un personaggio che ama la boutade

(se trova il modo di dire qualche cosa di paradossale, lo fa: è più forte di lui); ma, per quan -

to paradossale, quella battuta aveva un fondo di verità: la preoccupazione per il benessere

dei dipendenti era tale che c'era il rischio che le esigenze della produzione passassero in se-

condo piano».

Potrà apparire paradossale che in una fase in cui la voce degli individui era destinata a

smorzarsi dinanzi al vociare scolorito delle masse si cercasse di ridare valore alla singola per-

sona. Ma ciò rientra nella paradossalità del pensiero di Adriano. Questa era la filosofia azien-

dale di allora: che la soddisfazione delle aspettative delle persone fosse massima, compatibil-

mente con le esigenze di un'azienda che doveva fare un certo tipo di prodotti.

I Servizi del Personale

Se in altre aziende l'operaio si confondeva in una massa indifferenziata, l'attenzione alla

persona del lavoratore era un'impronta distintiva dell'Olivetti. Un tale rispetto si manifestava

innanzitutto nella politica di risoluzione dei conflitti capitale-lavoro. La ditta di Ivrea, infatti,

non condivise mai l'ideologia delle human relations di moda in quel periodo, cioè l'idea che in

fondo azienda e dipendenti sono su una stessa barca, che i conflitti sono il più delle volte

frutto di incomprensioni, di mancanza di comunicazione e così via. Per quanto ciò in parte

fosse vero, in Olivetti fu sempre fermissima la convinzione che il conflitto nelle aziende è

una condizione fisiologica, e ciò per due motivi fondamentali: primo, perché quello che per il

87

Page 88: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

dipendente è un reddito, per l'azienda è un costo; secondo, perché in un'organizzazione c'è

chi ha potere e chi non ha potere o, perlomeno, chi ha più potere e chi ne ha meno, e questo

non può non generare conflitti. Questo riconoscimento del carattere fisiologico del conflitto

comportava tre corollari: una scrupolosa correttezza nei rapporti sindacali; un costante impe-

gno a essere credibili; una ricerca di canali, di procedure, di regole che in un certo qual modo

istituzionalizzassero i conflitti e ne agevolassero di conseguenza la composizione. Umberto

Chapperon ci offre un esempio di cosa volesse dire correttezza e impegno a essere credibili

raccontando che allora l'Olivetti aveva un trattamento di maternità per le lavoratrici che era

molto più generoso del trattamento contrattuale collettivo. Le lavoratrici stavano a casa, a sti-

pendio pieno, tre mesi prima e sei mesi dopo il parto, più del doppio rispetto alle altre azien-

de. Durante una crisi aziendale, l'Olivetti chiese al sindacato di ridurre questo trattamento

perché era diventato troppo oneroso per l'impresa; il sindacato rispose: «Sì, siamo d'accordo,

ma a condizione che quando l'Olivetti uscirà dalla crisi si ritorna a questo standard». Dopo

un anno, prima che fossero i sindacati a chiedere di ripristinare il vecchio sistema, l'azienda

stessa li convocò e disse che la crisi era superata e potevano ritornare al sistema precedente.

Il canale principale per la risoluzione dei conflitti era rappresentato dai Servizi del Persona-

le. Così in ogni articolazione aziendale, il responsabile del Personale era tenuto a conoscere

individualmente tutti i dipendenti. La storia lavorativa di ciascuno era documentata e tenuta

di conto per spostamenti congruenti con l'esperienza della persona, interventi formativi, pro-

mozioni. Il dipendente trovava sempre aperta la porta del responsabile del Personale per par-

lare di problemi, interessi e aspirazioni attinenti alla sua situazione lavorativa e alla sua con-

dizione personale. I Servizi del Personale si avvalevano della collaborazione delle Assistenti

Sociali e del Centro di Psicologia. La persona che in Olivetti faceva la gestione del personale,

al mattino si trovava sulla scrivania una serie di cartelle di dipendenti che avevano chiesto di

parlargli, e lui li vedeva, uno per uno, e in quelle stesse cartelle segnava con grande precisio-

ne tutto quello che nel colloquio era stato detto, da una parte e dall'altra. Questi colloqui do-

vevano tendere a far coincidere i desideri del dipendente con le necessità dell'azienda. Co-

munque, la persona aveva la soddisfazione di essere ascoltata da qualcuno che con scrupolo

cercava di fare per lei quello che poteva. Le cartelle del personale dell'Olivetti erano delle car-

telle "cliniche" parlanti: chi apriva la cartella di una persona ci trovava le tracce dei tanti col-

loqui avvenuti, poteva ricostruirne la storia lavorativa, i bisogni, le ansie, le aspirazioni, le

qualità, i difetti.

88

Page 89: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Una politica di questo genere implica che la funzione del Personale non sia il mero braccio

operativo della linea produttiva, ma un canale parallelo. Sandro Sartor ci offre un bellissimo

esempio per spiegare nella pratica cosa si intende per canale parallelo:

«Il reparto era costituito da questi macchinoni in cui le donne dovevano mettere i pezzi, e

teoricamente tenere premuti due pulsanti: la pressa scendeva e faceva le operazioni di pie -

gatura o foratura eccetera. Novara aveva studiato il problema del lavoro alle presse dal pun-

to di vista del ricercatore sociale. Un tecnico, invece, nel frattempo aveva inventato un mar-

chingegno che posizionava automaticamente i pezzi sotto la pressa; quindi la donna lavora-

va senza pericolo. Sembrava la soluzione a tutti i problemi. Se non che, in tutte le aziende

ogni investimento richiede certe procedure di valorizzazione economica: si deve calcolare il

ROI. Fatti questi calcoli, si era deciso che non valeva la pena d'investire nel braccio meccani-

co, prevedendo grosse perdite secondo il normale controllo di gestione. Un giorno stava-

mo commentando con molta delusione questo fatto, e c'era con noi anche questo giova-

ne cronometrista, Gianfranco Righi, e ho detto: «Senti, tu che sai fare questi conti, prova

un po' a valorizzare i fenomeni sociali che ha evidenziato Novara, e vediamo se il ROI non

cambia». E questo ragazzo si è messo a valutare tutta una serie di fenomeni, che andava-

no dai maggiori indici dell'infortunistica a indici più elevati di malattia (a parità di popola-

zione, tra le lavoratrici alle presse c'era persino una maggiore assenza per maternità). Valo-

rizzando questi dati, il ROI cambiò e infine questo marchingegno fu adottato. È un esempio

che cito sempre, perché, secondo me, è emblematico dell'approccio Olivetti alla gestione del

personale. Righi passò al Personale ed ebbe molto successo; lo ha ancora oggi, eppure ha

una formazione tecnica».

Organizzazione scientifica del lavoro

Uno dei più importanti riflessi della considerazione olivettiana dei dipendenti e della loro

centralità in quanto uomini, era il metodo di definizione dei tempi di lavoro. In un'azienda

meccanica si tratta un problema centrale. Adriano Olivetti, al ritorno dal lungo viaggio negli

Stati Uniti del 1925, nel quale egli si era interessato all'organizzazione scientifica del lavoro

nei complessi industriali, introduce in azienda i principi organizzativi di tipo tayloristico che

nel corso degli anni Trenta vengono continuamente perfezionati. Dal 1927 compaiono linee

di montaggio con cicli razionalizzati e abbreviati, nel 1950 s'introduce la linea continua, nel

89

Page 90: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

1956 il cottimo collettivo. Introducendo la catena di montaggio, suddividendo le mansioni e

razionalizzando i processi, la produzione ha un aumento esponenziale ed è resa più efficien-

te. Il lavoro operaio viene completamente ridisegnato, anche se l'ingegner Camillo continua a

ripetere “I miei operai sono più intelligenti dei vostri cronometri”. E il suggerimento del pa-

dre dev’essere rimasto ben impressa nella mente di Adriano, visto che la rivoluzione organiz-

zativa avvenuta all'Olivetti fu, neanche a dirlo, unica nel suo genere. Normalmente, infatti,

nelle aziende i tempi di lavorazione venivano stabiliti dai cronometristi, secondo le cosiddet-

te tabelle MTM (Methods Time Measurement); si suddividevano i movimenti in gesti elementa-

ri e si sceglieva a tavolino la sequenza che dava il tempo totale minore. All'Olivetti, questo si-

stema non venne mai adottato: i tempi di lavorazione non venivano determinati a tavolino,

ma rilevati su un operaio di abilità media, il cosiddetto "allenatore". Ciascun operaio aveva

poi il diritto di chiedere la "dimostrazione": l'allenatore, alla presenza del collega che ne

aveva fatto richiesta, doveva dimostrare che la fase di lavoro contestata poteva essere ese -

guita nel tempo stabilito. In altre parole, la definizione dei tempi non era il frutto di una

contabilità analitica astratta, ma di una rilevazione concreta sull'uomo, che veniva sempre

considerato al centro del lavoro. Si era inoltre consapevoli degli ineliminabili limiti della

certezza nei criteri di stabilizzazione dei procedimenti e della differenza tra le condizioni

semplificate di laboratorio e le condizioni di lavoro nei reparti (nei quali si possono trova -

re tempi equilibrati accanto a tempi "larghi" e a tempi "stretti", da riequilibrare). Si ricono -

sceva che con l'esperienza l'operaio può adattare il compito ai propri caratteri psicofisio-

logici e variare la modalità operativa. A tal proposito, una Commissione Paritetica Tempi,

istituita nel 1956, aveva potere consultivo per il controllo e la correzione di ritmi e carichi

di lavoro.

In pratica, l'introduzione dello scientific management all'Olivetti venne effettuata in modo

più reale e consapevole che nella maggior parte delle aziende italiane dell'epoca. L'azienda,

diretta dall'autore di un ambizioso progetto di umanizzazione della condizione operaia, si

prestava comunque alle critiche che la sociologia del lavoro allora formulava nei confronti di

tale metodologia organizzativa a cominciare da uno dei maggiori esponenti di tale disciplina,

il sociologo Georges Friedmann, che Adriano Olivetti conosceva di persona. In sintesi dette

critiche erano incentrate sulla frantumazione del lavoro in parcelle prive di significato, sulla

ripetitività delle mansioni, sulle costrizioni dei ritmi di esecuzione predeterminati e della re-

tribuzione a cottimo. Tuttavia, da parte sua, proprio il sociologo francese riteneva che la Oli-

90

Page 91: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

vetti di Ivrea fosse in Europa una delle fabbriche tutto sommato meno alienanti, meno co-

strittive del lavoro operaio, che lui avesse avuto modo di conoscere. Bisogna quindi ricono-

scere che quello della Olivetti era un taylorismo dal volto un po' più umano di quello che

il medesimo presentava in altre aziende dell'epoca.

Condizioni generali di lavoro nei reparti

C'è da dire che le migliori condizioni di lavoro di cui godevano gli operai Olivetti erano

dovute anche a fattori indipendenti dalle scelte in materia di politica del lavoro. I fattori

indipendenti erano da vedersi soprattutto nel fatto che le macchine prodotte nelle officine

di Ivrea erano relativamente piccole e di peso limitato. Quindi le operaie o gli operai pote -

vano assemblarle stando seduti in una posizione relativamente confortevole; una posizio -

ne impossibile da tenere, oggi come allora, nel caso di grossi manufatti come, per dire, le

automobili. Alla relativa piccolezza del prodotto va aggiunto il fatto che era un prodotto

pulito, che non aveva bisogno di particolari trattamenti chimici, o di una verniciatura par -

ticolarmente gravosa per il lavoratore. In realtà già negli anni Cinquanta la verniciatura

delle carrozzerie di macchine per scrivere e calcolatrici era interamente automatizzata.

Quando venivano a Ivrea dei funzionari sindacali che seguivano la FIAT, dicevano: «L'offi -

cina H, il reparto peggiore che c'è in Olivetti, è un ambiente che in FIAT sembrerebbe la di -

rezione». L'Olivetti non era la FIAT, era una fabbrica di precisione: le migliaia di pezzi che

c'erano dentro l’MC 24 erano tutti concatenati, il martelletto alla fine doveva battere ri -

spondendo all'ordine che veniva impresso sul tasto. L'Olivetti era una tolleranza di mecca-

nica fine, non c'erano produzioni grossolane: era tutta una faccenda di centesimi, al mas-

simo di decimi, di millimetro. Proprio da qui, nell’operaio nasceva la consapevolezza della

propria professionalità. C'era il riconoscimento di fare un lavoro diverso che, tutto somma-

to, era in qualche modo professionale anche nei luoghi in cui di professionalità ce n'era

poca, perché sempre doveva esserci il cervello, sempre doveva esserci la capacità di piega -

re il pezzettino giusto nel modo giusto affinché la macchina potesse funzionare. L'inter -

vento umano era indispensabile.

Tutto ciò faceva sì che lavorare, sia alla produzione dei componenti meccanici, sia al loro

assemblaggio, fosse di per sé fisicamente meno usurante e meno alienante, più “soddisfa -

cente” diciamo, di molte altre produzioni che andavano dai grandi elettrodomestici alle

91

Page 92: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

automobili. L'operaio Olivetti si sentiva diverso prima di tutto perché lavorava in una con -

dizione diversa, perché era radicalmente diverso il suo lavoro di fabbrica.

Comunque numerosi accorgimenti erano stati presi per rendere più disteso il clima delle

officine. Nelle linee di montaggio gli operai lavorano su postazioni ferme (la macchina non

si muoveva davanti a loro mentre vi operavano) e nel mentre veniva diffusa musica classi -

ca, non essendoci macchinari rumorosi. Tra i banchi di lavoro della catena vi erano i cosid -

detti "polmoni", spazi in cui potevano “sostare” tre o quattro macchine in corso di lavora -

zione pronte per la fase successiva, consentendo una relativa libertà delle cadenze indivi-

duali, oltre che una conveniente elasticità per la linea. E ogni operaio aveva una discreta au-

tonomia nel suo lavoro, nonostante vigesse una disciplina di fabbrica ferrea. Ciascuno poteva

fare le sue soste, non c'era nessuno che gli diceva niente se si fermava un quarto d'ora; basta-

va che non parlasse col vicino se non per motivi strettamente legati al lavoro. Chi sgarrava

veniva redarguito dal caporeparto con parole del tipo: «Mi va bene che stiate dieci minuti a

far niente, che vi riposiate, ma non che andiate a disturbare gli altri. Nessuno deve disturbare

gli altri» come ricorda Cossavella. Sempre lui, ex operaio e sindacalista della FIOM, ci confes-

sa che

«i ritmi di lavoro erano (oggi possiamo dirlo francamente), tutto sommato, anche se con dei

tempi tirati in certe situazioni, accettabili: un'ora al giorno era di riposo, cioè la produzione

di 8 ore si riusciva a farla in 7, e la discussione girava sempre intorno alla questione se le

ore di lavoro dovevano essere 7, 6:40 o 7:10. Però la mezz'ora alla fine al mattino e la mez-

z'ora al pomeriggio c'erano: in produzione era normale che gli operai finissero di lavorare

mezz'ora prima, poi leggevano il giornale. Già questo particolare dava il senso delle cose: si

leggeva il giornale, è un fatto importante leggere il giornale.»

E Francesco Baicchi racconta della volta in cui accompagnò

«una delegazione dei sindacati dei paesi dell'Europa dell'Est, che rimase abbastanza sorpre-

sa perché questo metodo di organizzazione dava molta libertà anche di movimento alle per-

sone che potevano interrompere, fare soste durante la giornata di lavoro. Entrati nello stabi-

limento ci chiesero se era un giorno di sciopero e noi dovemmo spiegargli che no, era un

normale giorno di lavoro e uno dei dirigenti Olivetti che ci accompagnava rincarò la dose di -

cendo che quel tipo di organizzazione del lavoro che dava così tanta liberà aveva anche por-

tato a un incremento di produttività di quasi il 15%. Devo dire che la delegazione sovietica

rimase molto sorpresa e, credo, forse non ci ha mai creduto a quello che dicevamo.»

92

Page 93: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Politica salariale

Nel perseguire la felicità dei propri dipendenti, un altro fattore su cui all’Olivetti intervenne-

ro efficacemente sono le retribuzioni. I salari olivettiani erano in media più alti dell'80% in

confronto al resto del tessuto industriale della zona, che negli anni Cinquanta era ancora rile-

vante. È un dato confermato, tra l'altro, da una ricerca sui bilanci familiari condotta personal-

mente da Gallino nel 1958. Nel Canavese si contavano infatti importanti aziende produttrici

di materie plastiche, una fitta rete di aziende tessili di antica tradizione, un numero non tra-

scurabile di aziende del settore metalmeccanico. Con le loro buste paga che al netto pesavano

mediamente 100, di contro alle buste olivettiane che pesavano 180, chi lavorava in tali azien-

de guardava con invidia ai dipendenti della Olivetti, e questi erano ben consci della loro situa-

zione salariale privilegiata. Salvatore Sgueglia, ex operaio, ricorda: «Noi qui all'Olivetti già nel

1960, si prevedevano 70000 lire al mese di paga media; a cento metri dall'Olivetti c'erano

molte fabbriche: la Varzi, la Chatillon, che prendevano 35000 lire al mese quando prendeva-

no tanto, ma operai già di vecchia… altrimenti…».

Tutti godevano di benefici speciali, indennità aziendali che superavano quelle previste dai

contratti sindacali: indennità di anzianità, integrazione della pensione. Anche le retribuzioni

degli operai erano allora soggette ad aumenti di stipendio discrezionali. Non erano, come

adesso, retribuzioni uniformi, fissate in base alle norme sindacali, ai contratti nazionali di ca -

tegoria. Sì, c'era la retribuzione minima contrattuale, ma l'Olivetti applicava allora anche agli

operai quelli che si chiamavano gli "aumenti di merito", gratificava cioè gli operai in base a

valutazioni espresse dai loro diretti superiori, con aumenti di paga oraria che tenevano conto

delle capacità, dei rendimenti, dell'assiduità di presenza al lavoro e in generale anche dei

comportamenti sul luogo di lavoro. A questi aumenti discrezionali, si aggiungevano, sempre

per gli operai, delle altre differenze di retribuzione: certi lavori particolarmente disagiati era -

no compensati con maggiorazioni di paga oraria, chiamate "indennità di posto". Queste in-

dennità di posto dipendevano da molti fattori. Per esempio, alla verniciatura c'erano le ema-

nazioni di solventi e ci s'imbrattava anche; alle tempere c'erano i disagi dovuti al calore dei

forni; alle presse c'era la rumorosità. Purtroppo è stato riscontrato che, sia gli aumenti discre-

zionali di merito, sia le indennità di posto, dando luogo a differenze di retribuzione tra gli

operai, venivano da loro interpretati come elementi discriminatori. Invece di produrre soddi-

sfazione per la maggiore capacità d'acquisto conferita ai lavoratori, l'elargizione di questi au-

93

Page 94: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

menti di merito da parte del caporeparto creava malcontento, introduceva elementi di

divisione, di baruffa; baruffe che infatti succedevano.

«Noi, per esempio, quando facevano gli aumenti di merito ci alzavamo tutti in piedi e riusci-

vamo a bloccare completamente il reparto, tutti in piedi a guardare di brutto, senza muover-

si, il caporeparto. Aumenti di merito significava aumenti a qualche individuo, per cui faceva-

no delle discriminanti, magari davano l'aumento a cinque persone su oltre duecento; allora

quando sapevamo che erano stati dati questi cinque aumenti è logico: si bloccava, si diceva

di no, che qui l'aumento andava fatto per tutti, non ci sono discriminanti»

ci racconta ancora Salvatore Sgueglia. Probabilmente siamo di fronte al primo e unico caso al

mondo in cui gli incentivi (che secondo la Teoria dell'agenzia rientrerebbero tra i costi di

agenzia, un male necessario per l’azienda rappresentando la risposta a un problema teorica-

mente ineliminabile, quello dell’opportunismo del suo personale dipendente) produssero di-

saffezione nei confronti dell’impresa e andarono eliminati. Bisogna quindi ammettere che,

nonostante il supporto del Centro di Psicologia, nonostante le intenzioni fossero delle miglio-

ri, la parte motivazionale della politica salariale fu sostanzialmente un fallimento.

Ma, per un errore commesso, tante furono le pratiche che invece ebbero successo. Prima fra

tutte la definizione del cottimo. La curva della retribuzione a cottimo era fatta in modo che

tendesse abbastanza rapidamente a diventare orizzontale. In altre parole nessuno era incenti-

vato a tenere un ritmo produttivo massacrante, lavorando sempre più velocemente per gua-

dagnare di più, perché oltre un certo limite la velocità non produceva alcun aumento di retri -

buzione. Altre scelte rappresentano delle vere e proprie innovazioni di valenza storica perché

in anticipo sui tempi e in controtendenza rispetto alle pratiche “auspicate” allora da Confin-

dustria. In questo senso la Olivetti fu la prima grande azienda italiana, e una delle primissime

in Europa, a introdurre il sabato interamente festivo. Già nel 1956 aveva ridotto l'orario di la-

voro da 48 a 45 ore settimanali, a parità di salario, ma un anno dopo, nel 1957, arriva alla de -

cisione di ridurre la settimana lavorativa a 5 giorni, sempre a parità di salario. Proprio in oc -

casione della prima riduzione, Adriano pronunciò queste parole davanti alla fabbrica: «Sia

ben chiaro che è radicato in noi il pensiero che queste mete importanti [la messa in funzione

dei servizi sociali] non sostituiscono né il pane, né il vino, né il combustibile e non ci sottrag -

gono quindi al dovere di lottare strenuamente alla ricerca di un livello salariale più alto, quel-

lo che concederà finalmente ad ognuno la prima libertà, che consiste nel poter spendere qual-

cosa di più del minimo di sussistenza vitale».

94

Page 95: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Possiamo affermare, in conclusione, che Adriano Olivetti, grazie alla sua abitudine di

non considerare mai il lavoratore alla stregua di un mero fattore produttivo, abbia inse-

gnato a un'intera generazione quanto fosse giusto, da parte di tutti, attendersi un lavoro

dignitoso, un'occupazione stabile e buoni salari, in armonia con le ragioni dell'economia,

del lavoro e della tecnica.

II.2.2.3 L'estetica

Il sodalizio tra industria e arte

Secondo Paolo Bricco, «è proprio questa la peculiarità di Adriano Olivetti: l'idea che si possa

fare industria, non conciliando l'industria con la bellezza, ma che si possa fare industria at-

traverso la bellezza e si possa fare bellezza attraverso l'industria». All'Olivetti l'estetica la fa

da padrone. Oggi sono più numerose di allora le aziende che curano il design, la qualità della

grafica, l'immagine. Ma è una cura quasi sempre, estrinseca, frutto della costruzione a freddo

di un'identità volta a distinguere, per fini commerciali, il proprio marchio da quelli della con -

correnza. Nel caso della Olivetti questa cura era, per contro, la risultante di processi che, pur

commercialmente orientati, scaturivano da una matrice culturale fondamentalmente indipen-

dente da fini utilitari. Dunque, ancor prima di rispondere, come avverrebbe oggi, a un obietti -

vo commerciale (il prodotto bello che vende di più) l'integrazione tra arte e tecnica faceva

parte della concezione che Olivetti aveva del mondo, della natura e della tecnologia. Una con-

cezione che Paolo Ceri sintetizzerebbe in una parola: armonia. Per l'imprenditore eporediese

funzionalità e bellezza erano intimamente inseparabili.

L'aspetto dei prodotti veniva considerato di fondamentale importanza già dal fondatore Ca-

millo Olivetti, che nel 1912 scriveva: «la macchina per scrivere non deve essere un gingillo da

salotto, con ornamenti di gusto discutibile, ma deve avere un aspetto serio ed elegante nello

stesso tempo». Negli anni Trenta, con Adriano Olivetti, l'attenzione al design acquistò un po-

sto più rilevante ed esplicito nella gestione della società, raggiungendo in breve tempo punte

di eccellenza. Nel 1935, per la prima volta venne realizzata una macchina da scrivere affian-

cando artisti e ingegneri, la Studio 42. Nella progettazione, affidata all'ingegnere Ottavio Luz-

zati, diedero il loro contributo il pittore Xanti Schawinsky (proveniente dal Bauhaus) e gli ar-

95

Page 96: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

chitetti Figini e Pollini: è la nascita del design industriale italiano. Il Museum of Modern Art

(MOMA) di New York nel 1952 organizzò per la prima volta una mostra di prodotti industriali

il cui titolo era “Olivetti: design in industry”. Dalla Lexikon 80, alla Lettera 22, alla Programma

101, sono una decina gli articoli Olivetti che entreranno a far parte delle collezioni permanen-

ti del MOMA. Il confine tra prodotto e opera d'arte si stava assottigliando fino a non essere

più percepibile.

Quando in Italia ancora non esistevano scuole di design industriale, in Olivetti i designer

erano già al lavoro. Designer che non si limitano a ricercare “un bel vestito” per una nuova

macchina, ma che lavorano a stretto contatto con i progettisti per dare un senso e una giusti-

ficazione a ogni forma dal punto di vista comunicativo, funzionale, ergonomico.

Nel 1931 Adriano Olivetti crea l'Ufficio Sviluppo e Pubblicità inizialmente diretto da Renato

Zvetermich. Vi collaborano artisti e architetti d'avanguardia come Schavinsky, Persico, Nizzo-

li, Figini e Pollini, Munari, Veronesi, Modiano, Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers, Pintoci, e

successivamente Bonfante, Sottsass, Bellini, Ballmer, Bassi, De Lucchi. Dal 1937 al 1940 l'uffi -

cio è diretto da Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere. Nel 1947 viene assunto Franco Fortini,

l'intellettuale che si occupa, fino al 1960, delle pubblicazioni aziendali, delle campagne pub-

blicitarie e dei nomi dei prodotti (suoi i nomi scelti per la Lexikon, la Tetractys e la Lettera

22). Un ruolo primario è svolto da Marcello Nizzoli, architetto eclettico, che fin dal 1938 ha

uno stretto rapporto di collaborazione con l'Olivetti, prima in qualità di pubblicitario e in se-

guito di designer. Tra i prodotti disegnati da Nizzoli si ricordano le calcolatrici MC4 Summa,

Divisumma 24 e Tetractys; le macchine per scrivere Lexikon 80 e Lettera 22. In particolare la

Lexikon 80 rappresenta un punto di riferimento nella storia internazionale del design per le

soluzioni rivoluzionarie adottate che integrano innovazione tecnologica ed eccellenza forma-

le: i due pezzi del coperchio e della copertura combaciano perfettamente con linee morbide,

realizzate grazie al nuovo processo di pressofusione, per cui la carrozzeria può essere stu-

diata come un unico involucro da modellare. Anche la Lettera 22 entra molto presto nel mito

della storia Olivetti. Giovanni Pintori, pittore e designer, approda all'azienda eporediese nel

1936, quando Adriano Olivetti lo chiama a far parte dell'Ufficio Tecnico di Pubblicità, del qua-

le diventerà responsabile nel 1940 e dove lavorerà come art director fino al 1967. Durante la

sua carriera Pintori elabora alcuni tra i più famosi manifesti Olivetti, accompagnati da una

larga serie di campagne pubblicitarie e copertine per depliant. Le sue creazioni fanno il giro

del mondo e spingono i maggiori musei del mondo ad ospitare mostre in suo onore. Nel 1958

96

Page 97: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

inizia l'attività di redattore pubblicitario, proseguita fino al 1980, il poeta Giovanni Giudici,

che già dal 1956 si occupava della mitica biblioteca aziendale. Dal 1956 in Olivetti lavora

Giorgio Soavi, scrittore e designer, che contribuisce all'organizzazione di eventi culturali, pro-

muove la produzione di raffinati libri strenna, litografie, agende, calendari e oggetti promo-

zionali che diventano occasione per collaborazioni con grandi artisti (Folon, Munari, Botero,

ecc.) e per rafforzare l'immagine dell'Olivetti come azienda sensibile all'arte e alla cultura.

Numerosi sono i riconoscimenti sia nazionali che internazionali al design dei prodotti e alla

pubblicità. Adriano Olivetti riceve per la prima volta a Milano il 24 settembre 1955 il Compas-

so d'Oro, premio istituito nel 1954 da un'idea di Giò Ponti che ha lo scopo di valorizzare la

qualità del design italiano, per i meriti conseguiti nel campo dell'estetica industriale. Questo

riconoscimento verrà conferito all'Olivetti altre sei volte.

Se tutto ciò non bastasse a farci rendere ancora conto della portata rivoluzionaria dell'impe-

gno Olivetti nel design, ecco una parte dell'intervista fatta da H. Levinson e S. Rosenthal a

Thomas J. Watson Jr., fondatore e presidente dell'IBM, dove descriveva il risvegliarsi del suo

interesse per l'immagine dell'azienda:

«Vorrei tanto potervi raccontare che una notte, mentre me ne stavo a letto, mi colpì una

grandiosa ispirazione. Ma in verità a colpirmi fu una grossa busta inviatami dal direttore ge-

nerale dell'IBM olandese, che conteneva del materiale quanto mai esplicito. Egli mi scriveva:

"Caro Tom, eccoti qui l'immagine complessiva dell'Olivetti e quella dell'IBM. Prova a fare un

confronto". Lo feci, e mi resi conto che le nostre sembravano istruzioni per fare il bicarbona-

to di soda, mentre le loro erano vivacissime, eleganti, adatte a colpire l'immaginazione del

cliente. A quel punto, decisi che avremmo fatto lavorare i migliori architetti, i migliori esper-

ti del colore, i migliori designer che fossimo riusciti a trovare. Avremmo fatto una vera e

propria opera d'arte moderna». Questa conversione fruttò a Watson il Premio Kaufmann per

il design. Ricevendolo, in una cerimonia a New York, egli dichiarò: «È un premio che prendo

per conto di altri, per uno che ci ha insegnato ad amare il bello nell'industria: per conto di

Adriano Olivetti.»

Ma non dobbiamo pensare che per Adriano la ricerca della bellezza estetica si esaurisse nel-

l'aspetto di un prodotto o di un cartellone pubblicitario. Come lui stesso ebbe a dire in un di-

scorso milanese «sarebbe un errore drammatico il credere che soltanto il prodotto finito, de-

stinato direttamente al pubblico, debba rivestirsi di nuova dignità formale. L'estetica indu-

striale deve improntare di sé ogni strumento, ogni espressione, ogni momento dell'attività

97

Page 98: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

produttiva e affermarsi, nella più completa espressione, nell'edificio della fabbrica che

l'architetto deve disegnare alla scala dell'uomo e della sua misura, il felice contatto con la na-

tura, perché la fabbrica è per l'uomo, non l'uomo per la fabbrica». La cura formale è totaliz -

zante, imprescindibile nella definizione di ogni singolo aspetto dell'impresa. Qualsiasi cosa

va disegnata in modo da risultare tanto funzionale (a misura d'uomo), quanto un piacere per

gli occhi. A riprova di quanto detto è possibile citare un piccolo ma significativo episodio. So-

lamente dopo la scomparsa di Adriano Olivetti alcuni ingegneri, pressati dalle nuove esigenze

di controllo dei costi di produzione, cominciarono a chiedersi se era il caso di continuare a

fabbricare tutti quei particolari interni delle macchine, in specie delle calcolatrici, in modo

così bello e rifinito, dato che nessuno li vedeva. Per decenni si erano prodotti componenti in-

terni alle macchine che nessuno, tranne chi le costruiva, o qualche tecnico che anni dopo

avesse dovuto ripararle, avrebbe mai visto. Componenti particolarmente ben disegnati, passa-

ti alla rettifica benché non fosse necessario, cromati con cura, e per sempre invisibili nel cuo-

re di una calcolatrice o di una macchina per scrivere. Tutti insieme essi facevano dell'interno

della macchina un ambiente non meno bello a confronto del suo design esterno. Ovviamente

l'ingegner Adriano non era arrivato al punto di richiedere che il tale albero rotante di una cal-

colatrice dovesse essere confezionato in modo superlativo. Piuttosto era accaduto che tutta la

fabbrica aveva assorbito l'imperativo per cui produzione ed estetica, efficienza e design, ra-

zionalità e bellezza dovevano essere due aspetti di una medesima composizione. Doveva

scomparire lui perché qualcuno cominciasse a chiedersi se era davvero il caso di badare all'e-

stetica di una serie di dettagli, sia interni ai prodotti sia esterni, che non parevano avere nes-

suna giustificazione in termini né di efficienza né di costo.

Così come non pareva avere nessuna giustificazione la presenza di intellettuali e artisti

chiamati a ricoprire comuni ruoli impiegatizi e dirigenziali. Ma, a ben vedere, una fabbrica

talmente intrisa di valori estetici, probabilmente non sarebbe stata nemmeno ipotizzabile

senza che artisti, letterati e uomini di cultura fossero presenti a ogni livello della struttura

aziendale, venissero insomma adibiti a occuparsi tanto di marketing e di design, quanto di

contabilità o gestione del personale. Qui s'inserisce il problema dei rapporti fra l'Olivetti e la

cultura, tra l'Olivetti e gli intellettuali. Può darsi che in parte ci sia anche stato un rappor-

to di mecenatismo, ma quello che caratterizzava tali rapporti era il fatto che gli intellettuali

fossero organici all'azienda e rappresentassero un elemento chiave del processo produttivo.

L'intellettuale, di solito, è inteso come colui che elabora idee e non produce merci. Nell'Olivet -

98

Page 99: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

ti esisteva invece interconnessione tra i due ambiti: merci e idee. Franco Tatò, allievo del filo-

sofo Enzo Paci, gestiva le ragioniere della Contabilità; Tiziano Ternani, poi giornalista e saggi-

sta, sovrintendeva al personale delle consociate estere; Giancarlo Lunati, che veniva dall'Isti-

tuto Storico di Napoli, dirigeva il personale di Pozzuoli e il sociologo Federico Butera quello

di Agliè; il pedagogista Antonio Carbonaro si occupava di formazione; Roberto Guiducci, poli-

tologo, dirigeva i cantieri edili; Michele Ranchetti, storico delle religioni, lavorava al Personale;

alla Segreteria generale c'era Marco Forti, che ha scritto importanti saggi su Montale; il critico

letterario Geno Pampaloni era il responsabile della Segreteria della Presidenza. Ottiero Ottieri,

laureato in lettere, nel 1955 entrò in Olivetti come addetto alla selezione del personale. Proprio la

sua esperienza di selezione degli operai per la nuova fabbrica di Pozzuoli gli diede l'ispirazione

per il suo romanzo più famoso, Donnarumma all'assalto. Paolo Volponi, romanziere grande

amico di Pier Paolo Pasolini, nel 1956 è chiamato da Adriano Olivetti a Ivrea per dirigere i Servizi

Sociali aziendali.

È evidente che mentre in altre imprese il letterato e l'artista interviene soprattutto nei rapporti

aziendali verso l'esterno, lo "stile Olivetti" comincia dall'interno e il letterato è chiamato a contri-

buire anche alla qualità delle relazioni con i dipendenti e della proposta culturale rivolta al mondo

del lavoro. Insomma all'Olivetti il connubio tra industria e arte non era un processo a senso unico:

tanto quanto l'industria sconfinava nell'arte (merci nei musei), altrettanto l'arte sconfinava nell'in-

dustria (intellettuali nel ruolo di impiegati).

La rilevanza sociale della bellezza

Per comprendere appieno quanto contasse l'estetica per Adriano Olivetti, manca un ultimo, fon-

damentale tassello. Se è vero che le scelte estetiche in tutte le aree di attività fossero considera-

te non meno importanti delle scelte tecnologiche o gestionali, è altrettanto vero che all'Olivet-

ti la rifinitura esterna dei prodotti, la ricercatezza delle forme architettoniche, la bellezza dei

poster e dei messaggi pubblicitari, non fu mai soltanto comunicazione d'impresa. Certo lo

stesso Adriano una volta disse che “dobbiamo far bene le cose e farlo sapere”, intendendo

che l'impresa, oltre a ricercare l'eccellenza in tutte le attività, deve anche saper comunicare i

suoi valori e costruire un'immagine che sia l'espressione veritiera della realtà aziendale. La

bellezza della forma comunica l'essenza dell'azienda, secondo il principio che la qualità este-

riore deve essere coerente, allineata con quella interna. Ma, all’Olivetti, la sua funzione non si

esauriva qui. La ricerca estetica, infatti, veniva caricata di uno scopo superiore, uno scopo di

99

Page 100: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

tipo etico; uno scopo che si andava a intrecciare con quelli che, secondo Adriano, erano i fini

ultimi dell'impresa, facendo di lei una delle principali vie di realizzazione di detti fini. L'assi-

dua ricerca dell'armonia tra forma e funzione, tra utile e umano, tra ordine e libertà, s'ispira

in Adriano all'idea platonica della bellezza. In Città dell'uomo egli riporta estesamente il se-

guente passo del Simposio:

«E quando l'uomo si è elevato prendendo la buona via dell'amore delle cose del mondo sino

a intendere la Bellezza, egli non è lontano dal fine. Colui che prende il giusto cammino deve

cominciare ad amare le bellezze della terra e progredire, incessantemente, verso l'idea della

Bellezza stessa: dall'armonia delle forme a quella delle azioni, dalla perfezione delle azioni

a quella delle conoscenze, per raggiungere infine quell'ultima conoscenza che è la Bellezza

in sé.»

Dal momento in cui ci si convince che l'armonia delle azioni non sia perseguibile separata -

mente da quella delle forme, la bellezza diventa automaticamente un fattore di creazione di

giustizia sociale. Ancora una citazione, questa volta tratta dal discorso inaugurale della fab-

brica di Pozzuoli, ci aiuta per comprendere meglio: «Di fronte al golfo più singolare del mon-

do, questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fos-

se di conforto nel lavoro di ogni giorno». Nella bellezza, fosse quella degli edifici o delle mac-

chine che la sua fabbrica produceva, scorgeva anche il vantaggio recato alla persona che ci vi-

veva a stretto contatto e le adoperava. La macchina bella, la macchina esteticamente a misura

d'uomo, era al tempo stesso una macchina in grado di far lavorare meglio, di far risparmiare

fatica, di rendere insomma la vita migliore, anche se di poco. Ai designer si chiede di disegna-

re forme capaci di comunicare in modo immediato la funzione del prodotto, di facilitarne l'u-

so e di mettere l'utilizzatore a proprio agio, eliminando tutto ciò che è superfluo o ambiguo.

Le macchine non sono oggetti di piacere o di evasione, né di uso breve o saltuario. Sono con-

cepite come strumenti di lavoro, utilizzate per molte ore al giorno da persone che per buona

parte del loro tempo lavorativo vi stanno sedute di fronte. Perciò si deve poter stabilire con

esse un rapporto non sgradevole, di tensione allentata, di evidenza e semplicità d'uso. Ettore

Sottsass, architetto italiano di fama internazionale impegnato all'Olivetti in qualità di desi-

gner, sapeva bene che il business da una parte e la bellezza e l'arte dall'altra, non sono cose

per definizione inconciliabili, ma anzi hanno un gran bisogno l'uno dell'altra per l'equilibrio

della società.

100

Page 101: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

A tal proposito disse:

«Non dimenticare mai che la tua attività di industriale ti dà una grande responsabilità, che è

anche di natura culturale. Magari non ve ne rendete conto, ma per il fatto di riempire il

mondo con milioni, decine di milioni, centinaia di milioni, milioni di milioni di oggetti, voi

tutti industriali avete una enorme influenza, nel bene e nel male, sul nostro sviluppo cultu-

rale perché contribuite in modo determinante a "dare una forma" alla nostra società, a de-

terminare la qualità della nostra vita».

Tutto questo era chiaro ad Adriano a tal punto che costruì un'estetica che era allo stesso

tempo anche una morale.

II.2.2.4 Il valore comunità locali

Il pensiero

Per Adriano Olivetti la responsabilità di un'impresa non può esaurirsi relativamente al solo

ambito dei suoi clienti o dei suoi dipendenti perché l'industria non è potenzialmente creatri -

ce di disagi soltanto per chi vi lavora o per chi compra le sue merci. La fabbrica, che va a inse-

rirsi in un determinato contesto territoriale, può determinare l'insorgere di numerose proble -

matiche per tutti gli abitanti di quel luogo. Oggi, in generale, si tende a porre la questione del-

l'impatto negativo di un’industra sul territorio in termini di inquinamento e degrado ambien-

tale. Ma bisogna tenere presente che a quei tempi il nostro era un Paese sempre in corso di

industrializzazione. Nel 1948 l'economia italiana era sempre a carattere prevalentemente

agricolo, tanto che l'industria occupava solo il 17% dei lavoratori; ma in poco meno di tren-

t'anni essa si sviluppò e arrivò ad occupare il 32% dei lavoratori, mentre l'agricoltura perse il

30% degli addetti ai lavori. Nella prima metà del secolo scorso quindi, quando all'Italia man-

cavano ancora diversi anni prima di raggiungere l'apice del suo boom economico, le industrie

erano in piena fase di insediamento e, non essendo ancora così numerose da causare evidenti

danni dovuti all'inquinamento, ponevano come problema principale lo sconvolgimento delle

comunità locali dove andavano a installarsi. Comunità di tipo quasi esclusivamente rurale, es-

sendo le province (luoghi prediletti dalle imprese per i loro insediamenti) a quei tempi molto

più arretrate rispetto ai grandi centri abitati di quanto non lo siano oggi. Il contrasto tra due

101

Page 102: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

mondi diametralmente opposti (da una parte le persone legate alla terra, ai ritmi della natura

e alle loro tradizioni, dall'altra il simbolo per antonomasia della modernità, dell'inarrestabile

progresso scientifico e tecnologico) rischiava di provocare traumi insanabili se non preso se-

riamente in considerazione come una delle prime responsabilità di un'impresa e da questa

opportunamente gestito.

Adriano Olivetti, ben consapevole di tutto ciò, era fermamente convinto della necessità di

non stravolgere paesaggi, culture, modelli secolari di insediamento a causa dell'industrializ-

zazione. Credeva anzi profondamente nella necessaria simbiosi (usava precisamente questo

termine) tra industria e territorio, tra azienda e comunità locale, e si adoperava per mettere la

sua credenza in pratica. Per questo la sua fu una grande impresa, mondializzata come poche,

ma rispettosa della sua regione come nessuna. Riteneva che fosse un dovere dell'azienda, ma

anche un suo interesse, risultare radicata in una data collettività al pari, di altre istituzioni.

Essere radicata in essa, per dire, come il municipio, o la scuola, o la Chiesa; come elemento

caratteristico di una storia, di una identità culturale, di un paesaggio. Olivetti voleva che la

popolazione delle valli e delle pianure circostanti andasse a lavorare in fabbrica, senza però

abbandonare la terra. Quello di Adriano non è un nostalgico amore per un'idilliaca civiltà bu-

colica avviatasi ormai verso il tramonto, ma è il sincero riconoscimento dell'importanza, so-

prattutto nella fredda civiltà industriale nascente, di quei valori genuinamente umani di cui la

cultura contadina è l'ultima custode. Le sue stesse, parole pronunciate in occasione del di-

scorso inaugurale della fabbrica di Pozzuoli, non potrebbero esprimere più chiaramente una

tale filosofia:

«L'uomo, strappato alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine, ha sofferto nel pro-

fondo del suo animo e non sappiamo nemmeno quante e profonde incisioni, quante doloro-

se ferite, quanti irreparabili danni siano occorsi nel segreto del suo inconscio. Abbiamo la -

sciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini e di pescatori. Per

questa civiltà, che è ancora la civiltà presente nel Mezzogiorno, l'illuminazione di Dio era

reale ed importante, la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini, erano importanti; gli alberi, la

terra, il sole, il mare, le stelle erano importanti. L'uomo operava con le sue mani, esercitando

i suoi muscoli, traendo direttamente dalla terra e dal mare i mezzi di vita. Lo sconvolgimen-

to di due guerre ha spinto l'uomo definitivamente verso l'industria e l'urbanesimo. Esso ha

strappato il contadino alla terra e lo ha racchiuso nelle fabbriche, spinto non solo dall'indi-

genza e dalla miseria, ma dall'ansia di una cultura che una falsa civiltà aveva confinato nelle

metropoli. Nacque così il mondo operaio del Nord in cui la luce dello spirito appare talvolta

102

Page 103: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

attenuata, in cui la spinta per la conquista di beni materiali ha in qualche modo corrotto

l'uomo vero, figlio di Dio, ricco del dono di amare la natura e la vita, che usava contemplare

lo scintillio delle stelle e amava il verde degli alberi, amico delle rocce e delle onde, ove, tra

silenzi e ritmi, le forze misteriose dello spirito penetrano nell'anima per la presenza di Dio.

Abbiamo lottato e lotteremo sempre contro questo immenso pericolo; l'uomo del Sud ha ab-

bandonato soltanto ieri la civiltà della terra: egli ha perciò in sé una immensa riserva dì in-

tenso calore umano. Questo calore umano l'emigrante meridionale lo ha portato e donato in

tutti i paesi del mondo ed è un segno inconfondibile del contributo che l'Italia ha dato alle

civiltà d'Oltreoceano fecondate con un sacrificio in gran parte misconosciuto».

Tradizionalmente il lavoratore viene, in pratica, considerato quasi come un oggetto materia-

le, al quale si può naturalmente chiedere, come si conviene alla natura degli oggetti, di fletter -

si per adattarsi all'andamento dei mercati, di adattare la propria esistenza, i propri ritmi di

vita e di lavoro, la propria organizzazione familiare, le proprie relazioni sociali, perfino la

propria personalità o i propri ritmi biologici, agli andamenti della produzione, dei quali sola -

mente l'impresa è giudice. Adriano ripudia una tale concezione del lavoratore, la ribalta com-

pletamente, ponendo la fabbrica in una posizione di sottomissione rispetto alle esigenze del-

l'uomo. Alla presa di coscienza dell'importanza di quei valori civili che, insieme ai territori in

cui erano secolarmente radicati, rischiavano di scomparire, travolti dall'industrializzazione,

si accompagna l'azione, gli interventi posti in atto per il loro rispetto, protezione e concilia-

zione con la vita di fabbrica.

«Abbiamo voluto anche che la natura accompagnasse la vita della fabbrica. La natura ri-

schiava di essere ripudiata da un edificio troppo grande, nel quale le chiuse muraglie, l'aria

condizionata, la luce artificiale, avrebbero tentato di trasformare giorno per giorno l'uomo

in un essere diverso da quello che vi era entrato, pur pieno di speranza. La fabbrica fu quin-

di concepita alla misura dell'uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro

uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza. Per questo abbiamo voluto le fi -

nestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere definitivamente l'idea di

una costrizione e di una chiusura ostile. Ed ecco perché in questa fabbrica meridionale ri-

spettando, nei limiti delle nostre forze, la natura e la bellezza, abbiamo voluto rispettare

l'uomo che doveva, entrando qui, trovare per lunghi anni tra queste pareti e queste finestre,

tra questi scorci visivi, un qualcosa che avrebbe pesato, pur senza avvertirlo, sul suo

animo.»

103

Page 104: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

La fabbrica ha la precisa responsabilità di non provocare la rottura del contatto che i dipen-

denti hanno con la loro terra. Far progredire senza traumatizzare, senza spazzar via. Cambia-

re senza scordarsi mai chi si è e da dove si viene. Rispettare il lavoratore in quanto uomo de-

positario di preziosi valori legati alla tradizione e al suo territorio di appartenenza. Far sì che

non esca dalla fabbrica troppo cambiato da come vi era entrato.

«Ed è altrettanto importante – afferma lui stesso nel 1955, il giorno della vigilia di natale du-

rante un discorso ai dipendenti – adoperarsi per far sì che la potenza e il potere della fabbri-

ca raggiunti in virtù della dinamica del mondo moderno, siano rivolti oltre che ai fini del vo-

stro benessere, al civile progresso dei luoghi ove siete nati e in cui vivete. Poiché a nessuno

di noi deve sfuggire un solo istante che non è possibile creare un'isola di civiltà più elevata e

trovarsi a noi tutt'intorno e ignoranza e miseria e disoccupazione.»

Ammorbidire il più possibile lo strappo culturale che l’industria si trascina dietro come un

peccato originale. Armonizzare i due mondi, lasciando entrare l’umanità delle comunità locali

e la naturale bellezza dei territori dentro la fabbrica, e spargendo un “civile progresso”, con-

dividendo con essi la capacità che ha di creare benessere. Diffondere innovazioni sul territo-

rio conservando però le ricchezze, soprattutto morali, proprie di quei luoghi. Ecco in sintesi

qual è, secondo Adriano, la vera responsabilità sociale di un'impresa verso il suo territorio.

Le iniziative

Il problema dello strappo culturale tra fabbriche e comunità locali, nel dopoguerra, fu forte-

mente aggravato da una altro fenomeno, quello dell'immigrazione interna, ovvero il massic-

cio afflusso di persone provenienti da varie zone del Paese attratte dalle zone industrializza-

te. L'avvento dell'industrializzazione richiese infatti forti contingenti di lavoratori provocan-

do un grosso movimento migratorio che ebbe come effetto un gigantesco mescolamento di

popolazione. Dal 1946 ad oggi circa 17 milioni di italiani hanno cambiato residenza, trasfe-

rendosi per motivi di lavoro da una parte all'altra del Paese, in particolare dal Sud verso le

città industriali del Centro-Nord. Ma fu soprattutto nel corso degli anni Sessanta che un im-

ponente flusso migratorio portò molti lavoratori dalle aree agricole del Mezzogiorno verso le

regioni del Nord Italia che potevano garantire posti di lavoro nelle loro fabbriche. Tipico è il

caso di Torino dove gli stabilimenti FIAT assorbirono grandi quantità di manodopera, al pun-

to che in alcuni reparti più dell'80% degli operai era di origine meridionale.

104

Page 105: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Nacque così il fenomeno dell'inurbamento, consistente nel più o meno accentuato sposta-

mento e successivo insediamento di persone dalla campagna alle città. La conseguenza di ciò

può essere l'evolversi, spesso incontrollato o incontrollabile, delle aree urbane col rapido in-

tensificarsi della densità abitativa, dando vita ad agglomerati estesissimi che oggi chiamiamo

megalopoli, dal termine usato da J. Gottmann per la prima volta nel 1970 per indicare tale fe-

nomeno. Nel caso in cui questo non venga gestito in modo tempestivo e opportuno dalle isti-

tuzioni, la rapidità con cui queste aree urbane crescono, provoca inevitabilmente la nascita di

non lievi disagi a chi vi si trasferisce come la penuria di abitazioni o l'insufficienza dei servizi

pubblici, arrivando a determinare, nei casi più estremi, l'insorgere di vaste aree suburbane di

povertà con condizioni di vita miserevoli.

In un tale contesto la responsabilità dell'Olivetti, secondo Adriano, era quella di fungere da

elemento di incentivazione alla rovescia dei movimenti migratori, a cominciare da quelli a

scala subregionale, che la sua crescita poteva indurre. E allo stesso tempo farsi carico dell'or-

dinata gestione delle conseguenze di tale crescita. In che modo? Investendo direttamente al

Sud; agendo sulla politica delle assunzioni; regolando ordinatamente lo sviluppo dei nascenti

quartieri operai e sostenendo la messa in atto di servizi pubblici adeguati.

Adriano affermò sempre con chiarezza quanto vi fosse la necessità di «portare i capitali

dove c'è forza-lavoro e non viceversa» per utilizzare solo la forza lavoro degli abitanti del

luogo in cui sorgono le imprese. Non è un caso quindi se lui fu il primo industriale della sto -

ria italiana a intraprendere “la via del Sud”. Quando nel 1951 dovette decidere dove collocare

un nuovo stabilimento di macchine calcolatrici, ancora una volta Adriano Olivetti fece una

scelta controcorrente. Invece di utilizzare la sovrabbondante manodopera rappresentata da-

gli immigrati, decise di costruire uno stabilimento proprio là dove l'industria ha sempre lati -

tato. Ed ecco nascere in Campania un altro gioiello olivettiano.

«Questa fabbrica – raccontava il giornalista Ugo Zatterin nel documentario Viaggio nell'Italia

che cambia del 1963 – è la prima che sorse a Pozzuoli dopo il gran piazza pulita della guer-

ra. L'economia e la società di Pozzuoli cominciarono a rinascere 10 anni fa quando la Olivet-

ti decise di costruire uno stabilimento per la produzione di macchine calcolatrici. Chi entri

oggi in questo stabilimento non riesce a immaginare lo shock, il clima da animatissimo we-

stern, provocati 10 anni fa dal solo annunzio che alcuni signori venuti da Ivrea cercavano

manodopera per una nuova fabbrica. Pozzuoli tutta e non poche località vicine, scattarono

all'arrembaggio. In pochi giorni sui tavoli dell'ufficio assunzioni si ammonticchiarono 15000

105

Page 106: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

domande, corredate ciascuna in media da 8 o 10 raccomandazioni tutte autorevolissime. La

Olivetti dovette alloggiare i suoi dirigenti a parecchi chilometri di distanza per non vederli

sopraffatti dai postulanti. Ci furono episodi di violenza culminati con l'esplosione, per for-

tuna senza vittime, di una bomba lanciata da un disoccupato inferocito.»

È a dir poco evidente l'estremo bisogno di occupazione e di investimenti che affliggeva il

Meridione. Ma il coraggio della decisione di rompere finalmente gli indugi venne ampiamente

ripagata. Come, ce lo spiega Ottorino Beltrami, ex vicepresidente Olivetti: «Io mi ricordo che il

clima di Pozzuoli era un vanto dell'Olivetti. In particolare la produzione di Pozzuoli era supe-

riore come qualità e quantità alla produzione delle stesse macchine a Ivrea. Erano tutti disoc-

cupati e la voglia di lavorare in una grande azienda che forniva dei pasti ben fatti, che assiste-

va le mogli e i bambini con un asilo, era una cosa mai esistita nella zona di Napoli». L'idea di

investire nel Mezzogiorno maturò nell'ambito delle politiche territoriali ed economiche pro-

mosse dall'UNRRA-Casas (United Nations Relief and Rehabilitation Administration – Comitato

Amministrativo Soccorso ai Senzatetto), ente costituito per gestire i fondi ERP (European Re-

covery Program) e in cui Adriano Olivetti era coinvolto dal 1949 al 1951. La scelta della loca-

lizzazione dello stabilimento di Pozzuoli, inaugurato nel 1955, non fu quindi motivata dalla

prospettiva di sgravi fiscali o di altri incentivi pubblici, ma è frutto delle politiche di sviluppo

economico e sociale che in quegli anni Adriano Olivetti tenta di promuovere nel Sud di Italia.

Sempre con l’intento di scongiurare l'immigrazione, decise di assumere, nel nuovo insedia-

mento di Scarmagno a 10 km da Ivrea, esclusivamente persone residenti da almeno tre anni

nel Canavese, dove la disoccupazione era ancora alta. La massiccia immigrazione che l’aper-

tura del nuovo stabilimento poteva provocare, secondo le sue parole, «nell'inadeguatezza di

case, scuole, strutture sanitarie, sconvolgerebbe l'equilibrio economico e sociale: noi ne pa-

gheremmo le conseguenze, ma ne saremmo i responsabili».

Ma le scelte a sostegno della comunità locale, in materia di politica delle assunzioni non fi -

niscono qui. Infatti, un'altra fonte di problemi era data dal fatto che i dipendenti erano quasi

tutti a capo di famiglie numerose, e con il solo stipendio spesso facevano fatica a far fronte

alle spese della famiglia. Si rendeva necessaria la creazione, nel tessuto antropologico della

comunità circostante la fabbrica, di nuclei economici abbastanza forti, che in qualche modo

potessero dare un contributo propulsivo all'economia locale; alternativa migliore, nell'opinio-

ne di Adriano Olivetti, rispetto al disperdere gli interventi a pioggia su tutta la popolazione.

106

Page 107: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Così l'Olivetti cercò sempre di assumere per ogni famiglia più di un membro della medesima,

in modo che nello stesso nucleo familiare ci fossero più apporti retributivi. L'accertamento e

la graduazione delle condizioni di bisogno vennero affidate al Servizio Assistenti Sociali. Me-

rita ricordare a tal proposito un promemoria inviato dall'ingegner Adriano alla Direzione Re-

lazioni Interne l'11 maggio 1953:

«Il colonnello Pomo [allora Capo Servizio Personale Operaio] mi ha rapidamente informato

di un sistema di punteggio ideato per creare ordine nelle assunzioni. Io sono favorevole al

punteggio purché sia fatto entro tre gruppi, che potrebbero essere: A) operai da prendersi in

virtù di eccezionali qualità: ad esempio, 4 su 10; B) operai da prendersi in virtù di assoluta

necessità familiare, con un minimo di attitudine professionale: ad esempio, 3 su 10; c) ope-

rai da assumersi in ordine di capacità professionale, ma a complemento dei nuclei familiari

esistenti: ad esempio, 3 su 10. Ho anche notato che spesso si parla di fratelli, cugini, cognati

e altre cose che non rappresentano l'essenzialità che è la convivenza continua, senza la qua-

le le ragioni familiari dovrebbero cadere».

Sempre per evitare che i dipendenti abbandonino la casa nel paese natio per inurbarsi in

Ivrea, assicura anche, fin dal 1937, servizi di pullman aziendali che, in assenza di trasporti

pubblici, provvedono agli spostamenti tra casa e lavoro. Ma per quanto l'immigrazione e l'i-

nurbamento potessero essere mitigati, l'ingegnere ben sapeva che in nessun modo si sarebbe -

ro potuti azzerare. Quindi successiva questione di cui preoccuparsi era la prevenzione di una

possibile “inadeguatezza di case, scuole, strutture sanitarie” dovuta al loro non parallelo

adattamento alle esigenze di una comunità in crescita. Per risolvere il problema delle case,

nel 1937 Adriano avvia costruzione dei numerosi quartieri progettati dai migliori architetti

della scena italiana ed europea, in accordo col loro inserimento in un sensato piano regolato -

re. In più ci si proponeva anche che l'ambiente circostante ai propri insediamenti non venisse

deteriorato. Due dirigenti, gli architetti Aventino Tarpino e Ottavio Cascio, avevano il preciso

compito di disegnare gratuitamente i progetti per tutti i dipendenti che volevano costruirsi

una casa nel Canavese, per evitare, sosteneva l'ingegner Adriano, che si mettessero nelle mani

di geometri che avrebbero potuto deturpare il paesaggio.

Riguardo alla fornitura di un'idonea copertura dei servizi per tutta la comunità, l'Olivetti,

cosciente di non potersi sostituire al ruolo spettante agli enti pubblici nonostante l'inadegua -

tezza delle loro iniziative, era comunque determinata a sostenerne lo sviluppo e adeguamen-

to, sia finanziariamente, sia apportandovi quelle conoscenze metodologiche maturate nella

107

Page 108: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

lunga esperienza di espletamento di servizi simili rivolti ai dipendenti. A tal fine nel 1953

istituisce l'Ufficio Studi Relazioni Sociali incaricato di realizzare ricerche e analisi, oltre che

sulle relazioni interne tra i dipendenti, sulle abitudini di vita della popolazione canavesana in

genere, e soprattutto sulle interazioni che la fabbrica aveva con il suo ambiente e sulle riper -

cussioni volute e non volute che si ingeneravano nell'impatto con il territorio circostante e la

sua popolazione. Già dal 1952 aveva avviato, sotto la gestione dei Servizi Sanitari Olivetti, dei

consultori igienico-sanitari nei paesi più sfavoriti delle valli canavesane, aperti gratuitamente

alla popolazione. Inoltre vennero formulate proposte e si offre consulenza ai Comuni per lo

sviluppo di enti educativi, assistenziali ed economici. In seguito, dal 1970, prese avvio un

programma globale di miglioramento delle scuole materne, raggiungendo un'ottantina di pae-

si. Venne portato a termine grazie all'apporto professionale e finanziario dell'Olivetti e alla

stipula, per la formazione degli insegnanti, di una convenzione con il Centro Didattico Nazio-

nale per la Scuola Materna. Man mano che un Comune costruiva una scuola, Olivetti erogava a

quello stesso Comune aiuti aziendali e i prestiti per la costruzione e per l'attrezzatura della

cucina e delle aule. Quando un Comune costruiva una scuola materna che rispondesse (come

orari, e soprattutto come funzionamento) a un livello accettabile, l'azienda cessava di

accogliere i bambini dei residenti per favorire la nuova iniziativa del Comune. Questo lento

passaggio portò più tardi, negli anni Ottanta, alla chiusura delle scuole materne aziendali.

Con i nidi fu più difficile: venne, sì, anche la legge che li costitutiva, ma erano un servizio

molto più costoso e complesso da gestire. Il passaggio dei nidi al settore pubblico avvenne

quando ormai l'Olivetti stava riducendo tutto, e il nido fu l'ultimo servizio aziendale a reg-

gere.

L'importanza di questi servizi non stava soltanto nelle loro realizzazioni ma anche nel mo-

dello che proponevano alle amministrazioni locali. L'Olivetti, avendo sviluppato dei modelli

funzionanti e all'avanguardia, si preoccupava del passaggio di queste preziose conoscenze

alla scuola pubblica.

Va detto, infine, che lo stesso Adriano Olivetti, consapevole dell'importanza di non costitui-

re eccessivi legami di dipendenza del territorio con la sua sola azienda, si proponeva anche di

generare mercati del lavoro locali. Lo fece fondando nel 1954 l'Istituto per il Rinnovamento

Urbano e Rurale (I-Rur). Ente non profit, l'I-Rur era sovvenzionato principalmente dall'azien-

da, ma altresì da donazioni e dalle quote di nuovi soci. Il suo scopo statutario era di favorire

nelle zone depresse d'Italia, non soltanto nel Canavese, l'apertura di piccole fabbriche, la for-

108

Page 109: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

mazione di cooperative agricole moderne, la costruzione di nuove abitazioni. L'I-Rur non ri -

mase sulla carta. In pochi anni, grazie all'impegno e all'abilità dei suoi capi (pochi dirigenti

della Olivetti destinati espressamente a tale incarico) mise in piedi parecchie iniziative. Alcu-

ne esistono ancora oggi, come la cooperativa di Montalenghe nel basso Canavese. Purtroppo,

venuto meno con la scomparsa di Adriano l'appoggio della fabbrica, l'esperienza istituzionale

dell'I-Rur ebbe termine. A detta di Luciano Gallino però, il principale fattore che pesò sul

destino delle aziende I-Rur fu la dipendenza psicologica che in diversi strati sociali del

Canavese si era diffusa nei confronti di Adriano Olivetti. Da lui davvero tutti si aspetta -

vano tutto. Compreso, facendo riferimento all'I-Rur, un fiume ininterrotto di ordinativi

da parte della sua fabbrica. Se i quadri, i tecnici, gli impiegati, gli stessi operai di quelle

aziende avessero distolto più spesso, o più a lungo, lo sguardo dai palazzi e dalle offici -

ne di Ivrea, per rivolgerlo alle opportunità che la regione o il paese potevano offrire alle

loro giovani aziende, queste sarebbero state presumibilmente più longeve. In questa luce

ci si può chiedere chi fosse meno politicamente maturo: se l'ingegner Adriano, oppure i

gruppi sociali che egli cercò, con breve successo, di far camminare con le proprie gambe.

Concluderei ponendo ancora l’accento su come, nell'opinione di Adriano Olivetti, la respon-

sabilità sociale di un'impresa nei confronti delle comunità locali non si esaurisse nell'obietti-

vo di impedire che le persone dei dipendenti della fabbrica non si trasformassero in un esse-

re troppo diverso da quello che vi era entrato. Oltre a ciò, un'impresa dovrebbe contribuire

attivamente (con finanziamenti, oculate scelte organizzative, condivisione di conoscenza) al

progresso socio-economico, migliorando per quanto in suo potere la qualità della vita nelle

comunità che la circondano, affinché diventino il più possibile un ambiente «ordinato e pro-

porzionato alle dimensioni dell'uomo; un luogo più felice dove i campi, le fabbriche, cioè la

natura e la vita ricondotte a unità, ritrovino quella compiuta armonia che alberga soltanto

nella pace e nella libertà».

109

Page 110: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.3 Le opere

II.3.1 Una panoramica sui servizi

II.3.1.1 Introduzione

Negli anni Cinquanta esistevano anche in altre aziende italiane, grandi e meno grandi, varie

forme di mutue aziendali, con le loro colonie, l'assistenza medica e altri tipi di servizio socia-

le. Ma nell'insieme ciò che la Olivetti offriva, in alcuni casi da decenni, era incomparabile per

l'ampiezza della copertura che offriva alle famiglie, la sicurezza della protezione, la qualità

dei servizi. Sebbene i servizi sociali Olivetti raggiunsero il loro massimo sviluppo tra gli anni

Cinquanta e Settanta, la loro storia non ha inizio con l'entrata in fabbrica di Adriano nel 1932

in qualità di Direttore Generale, ma è radicata nella genesi stessa dell'impresa, tant'è vero che

è Camillo Olivetti a creare nel 1909, ad appena un anno dalla fondazione, la prima mutua

aziendale. A questa contribuivano in ugual misura i dipendenti e la direzione. E nel 1919,

anno di disagi e penuria per la guerra, avviò la corresponsione di un'”indennità famigliare”,

trasformandosi poi in un sistema di "assegni famigliari" che integrino la retribuzione. Camillo

diede avvio anche l'assegnazione di case ai dipendenti, facendo costruire nel 1926 il primo

edificio per le loro abitazioni.

La vera e propria espansione dei servizi sociali prende inizio negli anni Trenta, ed è un'e-

spansione dilagante, che arriverà in breve a coprire qualsiasi tipo di rischio e a soddisfare

tutte le principali esigenze che potessero manifestarsi nella famiglia di un dipendente.

«Quando i problemi tecnici che si presentavano nel mio lavoro furono risolti e il successo fi -

nanziario che ne fu la principale conseguenza lo permise, fui tratto ad occuparmi della vita di

relazione fra gli operai e la fabbrica. Le casse mutue funzionavano male, l'accentramento era

disastroso, un operaio tubercolotico per essere ricoverato doveva trasmettere le pratiche al

capoluogo di provincia, di là a Roma». Queste poche righe che Adriano Olivetti scrisse sulla

rivista Il Ponte pubblicata nell'agosto-settembre 1949 ci forniscono una prima idea delle mo-

110

Page 111: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

tivazioni che lo spinsero a istituire servizi di fabbrica ineguagliati nel panorama industriale

italiano. Per ogni tipologia di rischio o di bisogno arrivò a fornire un manto di protezione e di

assistenza ad altissimo livello, tanto che tale sistema organico di servizi talvolta viene ricor -

dato come lo “stato sociale olivettiano”.

II.3.1.2 I destinatari

Per comprendere fino in fondo il perché di una tale profusione di risorse in campo sociale,

c'è bisogno di comprendere prima in che tipo di tessuto sociale si andassero a inserire, sape -

re chi ne fossero i destinatari. Se tali servizi raggiunsero un eccezionale livello di estensione,

non fu infatti dovuto esclusivamente a scelte aziendali di politica sociale, ma anche alla con-

dizione particolarmente bisognosa del popolo canavesano, in cui la benevolenza e lungimi-

ranza dell'ingegnere trovò terreno fertile per mettersi alla prova. Benché la maggior parte di

queste attività fosse rivolta ai dipendenti e alle loro famiglie, di alcune poté usufruirne tutta

la popolazione come ad esempio le iniziative di profilassi medica per la prevenzione della tu-

bercolosi o il servizio di trasporto di fabbrica, l'uso del quale era concesso a tutti agli studen-

ti. In sostanza, come afferma Giannorio Neri, tutte queste iniziative si configuravano più

come un vero e proprio servizio sociale che come un servizio aziendale, proprio per il legame

instauratosi tra l'impresa e il territorio. Egli stesso ci dà testimonianza della situazione pro-

blematica in cui ancora nel 1962 vertevano le genti del Canavese:

«Ho camminato tanto, a piedi, per questi paesi. E la cosa che mi aveva più impressionato era

la miseria. Anche se una certa azione di bonifica sociale era già stata intrapresa, nei paesi

dove c'era ancora, la miseria sembrava proprio senza speranza; mi ricordo certi paesini,

nemmeno tanto lontani da Ivrea: Carema, Settimo Rottaro, Tavagnasco, oppure altri, verso la

Val d'Aosta, oppure ancora i paesi della Valchiusella, dove le famiglie che erano rimaste po-

vere lo erano veramente. I problemi legati a situazioni come queste – dal punto di vista dei

Servizi Sociali – erano assai difficili: pensate alle pressioni per esser assunti.»

Questo diffuso stato di indigenza era aggravato dalla penuria e limitatezza di iniziative as-

sistenziali pubbliche che caratterizzò l'Italia del periodo pre-boom economico. Emblematiche

dell'esigenza di riempimento di un vuoto istituzionale, sono le parole dello statuto della Fon-

dazione Domenico Burzio la quale vide la luce nel 1932, creata appositamente per garantire

111

Page 112: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

all'operaio «una sicurezza sociale al di là del limite delle assicurazioni». I servizi sociali della

Olivetti non mirarono mai a sostituirsi al sistema pubblico, ma semmai a colmarne le nume-

rose lacune e ad anticiparne i tempi. Infatti, con il progressivo rafforzarsi dello stato sociale,

per effetto di nuove leggi e nuovi contratti collettivi di lavoro, il ruolo dei servizi aziendali

tese a ridursi, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, fino alla loro quasi totale scomparsa.

II.3.1.3 La qualità

Una volta chiarite le problematiche alla base della vastità di tali servizi, bisogna poi ricono-

scerne un aspetto fondamentale: l'eccellenza continuamente ricercata nel loro dispiegamento.

I servizi, infatti, non furono concepiti come semplici adempimenti amministrativi, ma come

prestazioni improntate a criteri di qualità e di efficienza. Per ognuna delle numerose iniziati-

ve (la costruzione di un asilo nido, di un nuovo quartiere operaio, di messa in cantiere di una

nuova mensa o altro) i moduli organizzativi, i livelli di prestazione, le forme architettoniche

eccetera, comportavano spesso, se non sempre, ricerche, ricognizioni all'estero, con l'invio di

tecnici, architetti, esperti a osservare, rilevare intervistare, così da selezionare quanto di me-

glio veniva fatto nei casi più esemplari e conosciuti. Insomma offrire una sufficiente copertu-

ra di base non bastava, ogni cosa andava fatta nel migliore dei modi possibili, impiegando gli

strumenti e i metodi più innovativi e all'avanguardia nel panorama internazionale. Quegli

stessi servizi sociali avrebbero potuto essere benissimo erogati in modo più meccanico, stan-

dardizzato, in conformità alla routine amministrativa. Si potevano sicuramente fare compe-

tenti visite mediche ai bambini anche in ambulatori disadorni, oppure inviarli in colonie mon-

tane che non fossero disegnate da famosi architetti. Invece, in tutti i servizi sociali della Oli-

vetti di Adriano, in primo piano era la qualità complessiva che nasce dalla combinazione di

ricerca della bellezza, della componente estetica, e di attenzione per la persona, con il perse-

guimento di un'elevata efficienza. Questo perché le politiche di Welfare, in luogo di essere in-

tese esclusivamente come politiche redistributive, come è stato fino a tutti gli anni Ottanta,

erano uno dei modi in cui l'impresa poteva apportare il suo contributo alla ricerca di una mi -

gliore qualità del lavoro e della vita individuale e collettiva, nell'obiettivo di essere uno dei

principali fattori di mutamento positivo del tessuto sociale.

112

Page 113: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Nella filosofia che ispira questa visione non è però estranea l'idea che un ampio sistema di

assistenza sociale contribuisca a migliorare il rendimento (ovvero la produttività) e il coinvol-

gimento dei lavoratori. Adriano ben sapeva quanto fosse importante per l'azienda avere una

forza lavoro, un insieme di lavoratori i quali, sapendo che il loro personale destino era assi -

curato, le loro famiglie non correvano rischi senza protezione, e i figli erano ben assistiti sin

dall'infanzia, potevano dare alla fabbrica più intelligenza e impegno che non nel caso in cui

invece avessero sentito attorno a sé il vuoto. E, con esso, l'addensarsi di vari tipi di incognite.

È ovvio che la creazione di un ambiente sociale positivo rafforzò la fedeltà del lavoratore e la

sua disponibilità a collaborare attivamente allo sviluppo dell'impresa.

II.3.1.4 Il Consiglio di Gestione

Altra caratteristica distintiva di queste attività fu il loro essere state impostate non a mo’ di

una generosa concessione dell'impresa, ma al contrario come un diritto che giustamente

spetta al dipendente. Non si può tuttavia negare che lo “stato sociale” olivettiano fosse fatto

di concessioni più che di conquiste. Questo è certo vero. Va però detto che il senso di avere

diritto a qualcosa, come il diritto a servizi sociali efficienti e di alta qualità, nasce anche con

l'abitudine, la pratica quotidiana. È difficile immaginarsi, per dire, che dei comitati ad hoc di

lavoratori, andassero a chiedere che la colonia montana in Val d'Aosta fosse disegnata da un

famoso architetto e fosse collocata in uno dei siti più belli della valle. Sarebbe già stato inu-

suale un comitato che a quei tempi avesse chiesto specificamente una colonia montana. Ad

esempio Giovanni Avonto, ingegnere addetto ai brevetti, ammette che «Inizialmente, alcune

cose sono nate per un'iniziativa di stampo paternalistico, e invece altre sono state, successi-

vamente, il frutto della convinzione che bisognava ragionare tra controparti, aventi pari di-

gnità, in modo da riuscire attraverso la contrattazione a trovare un punto d'incontro che fos -

se il risultato delle rispettive esigenze, dei rispettivi interessi». Con le sue concessioni, Adria -

no faceva anche maturare delle aspettative che gradualmente arrivavano a essere percepite

come diritti, come un elemento che fa parte della normale qualità della vita in una società ci-

vile. In fondo lo sviluppo dello stato sociale, in Italia come in altri paesi, ha seguito in grande

proprio un processo del genere. Servizi concessi inizialmente dallo Stato alla maggioranza

della popolazione senza che i singoli membri di questa, in concreto, avessero mai pensato di

113

Page 114: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

domandarli, sono stati via via giustamente percepiti da ciascuno come diritti irrinunciabili. Si

veda quanto è accaduto con il servizio sanitario nazionale. All'interazione quotidiana che si è

stabilita tra quel che le Asl offrono, e quel che i cittadini pretendono ormai come un diritto di

cittadinanza, dobbiamo tutti alcuni anni di vita in più.

Per Adriano era quindi fondamentale fare in modo che l'operaio, sottoponendo un proble -

ma agli assistenti sociali, non avesse l'impressione di andare a chiedere un favore o di riceve-

re un'elargizione paternalistica del padrone. Voleva che lo facesse con la convinzione che ot-

tenere un sostegno fosse una cosa dovuta, spettantegli in base non al volere di un suo supe -

riore ma al possesso di determinati requisiti oggettivamente valutabili da un personale all'al-

tezza. Ciò, sempre per quel discorso di instillare in loro la consapevolezza della dignità del

proprio lavoro, un lavoro che rende naturalmente meritevoli di assistenza, senza che ci sia il

bisogno di convincere qualcuno per ottenerla. A far da garante a una tale filosofia, era l'indi -

pendenza dal vertice aziendale con cui questi servizi erano gestiti essendoci un apposito or-

gano, il Consiglio di Gestione, in cui erano rappresentate tutte le categorie di dipendenti, il

quale aveva potere decisionale assoluto in materia di ripartizione delle risorse destinate dalla

Direzione per i servizi sociali e di assistenza. Proprio l'inizio della Carta Assistenziale, redat -

ta tra il 1949 e il 1950 dal Consiglio di Gestione, sottolinea questo aspetto fondamentale: «Il

servizio sociale ha una funzione di solidarietà. Ogni lavoratore dell'Azienda contribuisce con

il proprio lavoro alla vita dell'Azienda medesima […] e potrà pertanto accedere all'istituto

assistenziale e richiedere i relativi benefici senza che questi possano assumere l'aspetto di

una concessione a carattere personale nei suoi riguardi». Lo stesso ingegner Adriano, in un

discorso ai lavoratori, spiegava loro che il Consiglio di Gestione «sinceramente, cerca di

rendere questa fabbrica, compatibilmente con le situazioni di fatto, un posto più dignitoso,

più libero per vivere e lavorare». Le parole di Cornelia Lombardo rimarcano molto bene

l'importanza di un tale organo, un'importanza storica, non limitata al ristretto ambito della

gestione dei servizi:

«Adriano Olivetti era il presidente del Consiglio di Gestione, nel quale c'erano sia i rappre-

sentanti dell'azienda sia quelli dei lavoratori, e insieme c'era anche il presidente dell'azien-

da. È stato lui a mantenere vivo il Consiglio di Gestione, che altrove scomparve, proprio per-

ché apprezzava questo spirito di maggiore solidarietà negli interventi: così il dipendente sa-

peva di poter accedere liberamente a un proprio diritto, a cui dava un contributo come lavo -

ratore. Questa fu, secondo me, una delle maggiori innovazioni che l'ingegner Adriano portò

114

Page 115: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

nel campo dei servizi sociali. Il Consiglio di Gestione aveva potere sul fondo dei Servizi So -

ciali, deliberava la ripartizione dei vari fondi e controllava ogni intervento: insomma, per noi

che operavamo a contatto, il Consiglio di Gestione rappresentava la voce dei lavoratori e in-

sieme dell'azienda.»

Riassumendo, i servizi sociali della Olivetti si differenziarono da analoghe esperienze di

grandi industrie italiane non solo per la vastità, ma soprattutto per la qualità, l'indipendenza

dall'azienda nella loro gestione e l'apertura verso la comunità locale.

II.3.1.5 Le scienze sociali

Nella sua opera di modernizzazione economica e civile del Paese, Adriano Olivetti ha contri-

buito come pochi altri alla promozione culturale e all'accreditamento professionale di disci -

pline nuove o rinnovate, come l'urbanistica e il disegno industriale. Ma è alle scienze sociali e,

in particolare, della sociologia, al cui non facile decollo, dopo la lunga pausa del fascismo e

della guerra, che egli diede un sostegno determinante. Osteggiata nelle università e avversata

dalle tradizioni culturali allora dominanti, la sociologia italiana postbellica ha avuto nel labo-

ratorio di Ivrea uno dei suoi principali “incubatori”. In particolare, accanto a quello costituito

da circoli e istituzioni del mondo cattolico (dei gesuiti, dell'Università Cattolica di Milano, di

settori della Dc) la Olivetti, il Movimento Comunità e le Edizioni di Comunità sono state per

almeno un quindicennio il motore dello sviluppo della componente laica della sociologia.

Principale motivo per cui Adriano Olivetti ne promosse la diffusione è che si tratta di una di-

sciplina che intende costruire una immagine senza trucco dell'economia, della politica, della

vita sociale, della cultura, ivi compresa la scienza e la tecnologia. Per questo, una volta rico-

nosciutone il valore, la volle a tutti i costi introdurre all'interno dell'azienda e farne un capo -

saldo, insieme alla psicologia, della gestione del personale e dei servizi sociali. La carica inno-

vativa e controcorrente di una tale scelta risulta evidente se pensiamo che la prima facoltà

italiana di sociologia venne aperta soltanto nel 1962 all'Università di Trento, due anni dopo la

scomparsa di Adriano. Anche se quindi, per quei tempi, si trattava di una disciplina del tutto

nuova e vista con diffidenza, l'ingegnere non risparmiò risorse per contribuire a renderla una

scienza a tutti gli effetti, in grado di apportare un contributo alla gestione dell'impresa che

da quel momento in poi divenne indispensabile. La promozione degli studi sociologici effet-

115

Page 116: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

tuata direttamente o indirettamente da Adriano Olivetti si compendia di questo record: il pri-

mo centro di ricerche sociologiche mai istituito entro un'azienda italiana; una decina di pro -

fessori ordinari di sociologia che hanno iniziato la loro carriera scientifica a Ivrea quando i

docenti universitari della materia si contavano sulle dita; centinaia di borsisti e stagisti; una

collana di classici della sociologia, pubblicata a partire dal 1961 dalle Edizioni di Comunità,

che non ha uguali nel panorama dell'editoria mondiale; decine di migliaia di studenti univer-

sitari che hanno studiato e tuttora studiano sociologia sui classici e sui contemporanei pub-

blicati sin dai primi anni Cinquanta dalle medesime Edizioni.

Va comunque detto che la figura del sociologo ebbe bisogno di diverso tempo per superare

le incertezze iniziali affinché la sua introduzione nella vita aziendale risultasse completa ed

efficace, incontrando, come Luciano Gallino ci ricorda, delle resistenze provenienti dall'azien-

da stessa:

«Nei confronti dei sociologi, gli atteggiamenti della maggior parte di tali dirigenti, soprattut-

to dei dirigenti della produzione, furono in genere assai più chiusi, se non anzi ostili, di

quanto non fossero invece nei confronti degli psicologi. Negli psicologi essi scorgevano un

tipo di attività che per diverse vie poteva contribuire a risolvere i quotidiani conflitti tra di-

rezione e dipendenti, intrinseci alla gestione d'una grande azienda in rapido mutamento e in

forte crescita. Per contro i sociologi erano visti, come d'altra parte accadeva un po' dovun-

que nella società italiana, come dei curiosi dalle funzioni imprecisate che pretendevano di

frugare nei classificatori, negli archivi della società, perfino nei cassetti dei dirigenti, senza

avere strumenti operativi da offrire in cambio. Simili difficoltà interne implicarono che, al di

là degli intenti e delle idee di Adriano Olivetti, i sociologi per diversi anni fossero spinti a

occuparsi in prevalenza di aspetti periferici dell'azienda, quali le condizioni sociali del terri-

torio canavesano, il livello di vita dei dipendenti in rapporto ai lavoratori di altre aziende, la

pianificazione di nuovi insediamenti, come Agliè e più tardi Scarmagno. Furono anche fre-

quentemente utilizzati, sin dagli anni Cinquanta, come docenti. Solamente negli anni Ses-

santa i sociologi cominciarono a occuparsi, su richiesta della direzione del personale, di

questioni organizzative.»

116

Page 117: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.3.1.6 Uffici e figure professionali al servizio della responsabilità aziendale

Nel 1957 viene inaugurata di fronte agli stabilimenti principali di Ivrea una nuova sede, la

cosiddetta “fascia dei Servizi Sociali", che accoglie le attività e i coordinamenti centrali dei

servizi sanitari, sociali e culturali. A una delle entrate si leggono ancora parole dette, inaugu-

randola, da Adriano Olivetti: «Questa nuova serie di edifici posta di fronte alla fabbrica sta a

testimoniare, con la diligente efficienza dei suoi molteplici strumenti di azione culturale e so-

ciale, che l'uomo che vive la lunga giornata nell'officina non sigilla la sua umanità nella tuta

da lavoro.»

L'Ufficio Studi Relazioni Sociali nacque nel 1954 sotto la guida di Alessandro Pizzorno. Suc-

cessivamente diventa Servizio Ricerche Sociologiche e Studi sull'Organizzazione. Ha sviluppa-

to la sua attività soprattutto sotto la guida di Luciano Gallino, e in seguito di Federico Butera.

Si è occupato in particolare di sociologia economica e organizzativa, come ha testimoniato

più di ogni altra l'attività di ricerca dello stesso Gallino e le sue pubblicazioni.

Finita la guerra a Ivrea nasce il Laboratorio Psicotecnico, che poi nel 1955 evolve nel Centro

di Psicologia. Questo si occupa della selezione esterna per l'assunzione di personale, e della

selezione interna per le promozioni; collabora all'attività di formazione; conduce ricerche sul-

l'organizzazione del lavoro (insieme agli enti interessati), ricerche che aprono le trasforma-

zioni degli anni settanta; fornisce appoggio alla gestione, insieme ai Servizi Sanitari e ai Servi -

zi Sociali, per il supporto e la soluzione dei casi personali difficili; assume la responsabilità

del Centro di Riqualificazione Operai (meglio noto come Centro R). Gli psicologi, rispetto agli

assistenti sociali, furono utilizzati in attività connesse più da vicino al funzionamento degli

stabilimenti. Diversamente dai sociologi, essi intrattenevano regolarmente un dialogo serrato

con l'Ufficio Tempi e Metodi (UTM). Seppure nell'insieme l'organizzazione del lavoro alla Oli-

vetti fosse da definire sostanzialmente tayloristica, essa configurava una qualità del lavoro

migliore di quanto non si potesse osservare in altre aziende italiane del tempo. Questo risul-

tato ha avuto tra le sue componenti anche l'interazione dialettica che ebbe luogo per anni tra

gli ingegneri, i capi reparto, gli esperti dell'UTM, e le istanze d'ordine psicofisiologico avanza-

te dagli psicologi. Diverse durezze del modello tayloristico furono, a quanto si può ricostrui-

re, attenuate dal confronto con questi professionisti. Si può infine notare che gli psicologi ve -

117

Page 118: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

nivano normalmente utilizzati anche per la selezione del personale, al fine di stabilire chi era

più adatto per andare al montaggio, alle presse, o in altri reparti. Il Centro di Psicologia colla -

borava particolarmente bene con l'Ufficio Assistenti Sociali. Su richiesta di questo, una volta

ad esempio, gli psicologi misero a punto un dossier, una cartella per la selezione delle pueri-

cultrici, che venne affinata con un profilo psicologico.

Il Centro di Riqualificazione venne creato appositamente per i casi di disadattamento al la-

voro. Si rivolgeva a persone con handicap fisici e mentali permanenti oppure transitori (as-

sunti per quota di legge, infortunati, convalescenti da malattie debilitanti), lavoratori ai quali

veniva consentito di acquisire un salario e di rimanere nella dignità del posto di lavoro sino al

pensionamento. Vi era un'assistente sociale che seguiva con lo psicologo questi operai che in

questo piccolo reparto si dedicavano a lavori meno impegnativi e di vario tipo. Il Centro R era

affidato a un responsabile affiancato da capisquadra e da analisti del lavoro, che adeguavano

tanto il posto quanto gli attrezzi di lavoro alle disabilità individuali; essi istruivano e seguiva -

no personalmente i progressi dei soggetti sino a ricollocarne la maggior parte in normali re-

parti di lavoro. A volte l'assistente segnalava all'azienda un rendimento insufficiente che ve-

niva dopo lunghi periodi di malattia; un esempio tipico è quello degli operai che riprendevan-

o il lavoro dopo una lunga assenza per malattia tubercolare e avevano difficoltà nell'inserim-

ento in cottimo. L'azienda concedeva loro un'introduzione lenta al cottimo prevedendo man-

sioni più leggere, facilitando molto il loro rientro ed evitando le ricadute. Dal Centro R sono

passate centinaia di persone, con una media di 30/40 nei singoli periodi.

L'Ufficio Assistenti Sociali è istituito nel 1936 e il suo sviluppo accompagna quello dell'a-

zienda. In Olivetti le assistenti sociali non erano solo raccoglitrici di documenti ed esecutrici

di pratiche previdenziali: avevano il compito di agire per i casi di scompensi economici e so-

ciali che possono sempre sorgere anche nella più efficiente organizzazione industriale, per

individuare, vagliare e rimuovere fattori esterni e interni che potessero influire negativamen-

te sulla capacità del lavoratore e sulla sua capacità consapevole di integrazione. Intervenendo

nelle situazioni dei dipendenti, l'assistente sociale ne acquisisce una conoscenza che trasmet-

te alla Direzione e ai Servizi interessati (il Personale, i medici, i quadri delle unità produttive).

Compito delle assistenti sociali era quindi, da un lato, agire praticamente verso i dipendenti

e, dall'altro, segnalare all'azienda la necessità di modificare via via gli interventi stessi. Con il

suo giudizio professionale autonomo, l'assistente sociale operava come un vero servizio di

118

Page 119: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

fabbrica in collaborazione con gli uffici del personale, contribuendo alle attività di assunzio-

ne, di gestione, di sostegno delle persone e delle famiglie. Conducevano inoltre esami su

gruppi lavorativi, s'interessavano dell'orientamento scolastico dei figli dei dipendenti, e par-

tecipavano a varie commissioni aziendali, quali la Commissione Indennità di Posto e la Com-

missione per lo Studio degli Infortuni del Lavoro. L'Ufficio Assistenti Sociali intrattenne buoni

rapporti anche coi sindacati, i quali lo consideravano su un piano professionale, e collaborò

attivamente con il Consiglio di Gestione. Questo si faceva vivo con le sue segnalazioni per di -

scuterne con gli assistenti e ascoltare la loro voce professionale; quando, per esempio, soste-

neva le necessità di una particolare persona, prima chiedeva il loro parere. Nessuno toglieva

al sindacato questo ruolo; era anzi un elemento di forza.

Per quanto riguarda i casi d'assunzione, fornivano consulenza in duplice modo: o l'Ufficio

del Personale richiedeva all'assistente sociale lo studio di un caso di assunzione oppure era la

stessa assistente sociale a segnalare all'Ufficio del Personale casi di grave scompenso econo-

mico richiedenti la necessità dell'assunzione di un membro della famiglia. Di solito

l'assistente, su richiesta dell'Ufficio del Personale, svolgeva un'indagine familiare e poi tra-

smetteva, con indipendenza di giudizio, il suo parere sia sulla necessità d'assunzione sia,

eventualmente, sulle attitudini che questa persona poteva avere per un certo lavoro; anche se

poi naturalmente questa selezione veniva compiuta dal Centro di Psicologia. L'importanza del

loro ruolo nello svolgimento delle assunzioni è resa bene dalle parole di Giannorio Neri, il

quale ricorda come a quei tempi, nel canavese,

«gli uffici di collocamento erano praticamente inesistenti e riuscire a capire chi, davvero,

aveva più bisogno di entrare in fabbrica non era facile; fare poi il match tra il bisogno delle

persone e le esigenze dell'azienda era ancora più difficile. Il gruppo di assistenti sociali del-

l'Olivetti era ben preparato e aveva una funzione insostituibile nell'apportare informazioni

significative non solo sulla situazione sociale ed economica del territorio ma anche sulla

mentalità e sulle reali condizioni famigliari. Le assistenti sociali, inoltre, continuavano a se-

guire i loro casi all'interno dell'azienda anche dopo l'assunzione. Questo era un punto molto

importante: qualsiasi persona, di fronte ai casi concreti e delicati che le vengono presentati,

si commuove, non è così? Però non è detto che proprio quello sia realmente il caso di mag-

gior bisogno. Le assistenti sociali avevano la pazienza, invece, di andare a fondo, per capire

se davvero quel caso poteva essere considerato prioritario rispetto ad altri. Successivamen-

te, in Olivetti ho fatto esperienza di selezione del personale operaio: beh, se confronto l'at-

teggiamento che avevano le assistenti sociali con quello dei parroci... c'era un abisso. Appe-

119

Page 120: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

na sono stato incaricato dell'assunzione degli operai, li ho visti tutti, i parroci del Canavese,

e ognuno portava i suoi casi. Al secondo incontro, il mio discorso fu questo: «Sentite, io

sono disponibile ad accettare le vostre segnalazioni, ma voglio guardarci dentro. Ogni volta

che mi direte "Questo è un caso umano, un caso di povertà", io chiederò sempre alle assi-

stenti sociali di verificarlo. Se l'assistente sociale non me le conferma, le vostre segnalazioni

rimangono lì, nel calderone generale delle persone che teniamo in vista». Quei parroci spari-

rono. Quando l'assistente sociale mi riferiva su un caso segnalato, io chiamavo il parroco:

«L'assistente sociale mi riferisce che questo è suo nipote... L'assistente sociale mi riferisce

che questo è fratello del tal dei tali... Non è possibile fare così! O queste cose le facciamo

onestamente, e le vostre segnalazioni sono obiettive – e allora avrete ascolto, anzi saremo

tutti interessati – oppure non ne facciamo niente!». Questo tanto per caratterizzare lo stato

di quel problema in quel momento.»

Riguardo alle altre attività di gestione del personale, gli assistenti trattavano i casi di disa-

dattamento al lavoro, trasferimenti e cambi di posto, pensionamenti, i casi di malattia e infor-

tunio e la ripresa del lavoro dopo lunghi periodi di malattia. Quando si presentava un proble -

ma di disadattamento al lavoro oppure di scarso rendimento, allora la segnalazione poteva

venire o dall'Ufficio del Personale o dal caporeparto, con cui le assistenti sociali avevano con-

tinui rapporti. L'assistente sociale vedeva il dipendente, studiava il caso e poi riferiva all'Uffi -

cio del Personale o agli psicologi con i quali collaborava. In questo senso, il lavoro delle assi -

stenti sociali venne sempre più qualificandosi come un intervento chiarificatore nei confronti

del dipendente: non toglieva nulla alla responsabilità di chi organizzava il lavoro né al rap-

porto tra l'operaio e il caporeparto ma, anzi, il loro intervento aggiungeva un giudizio libero,

autonomo, soprattutto professionale, contribuendo significativamente alla gestione azienda-

le. Facevano regolarmente riunioni di gruppo, discutendo i casi insieme per avere anche una

visione unitaria delle cose. Ciò portò in seguito a una suddivisione dei compiti per reparto:

c'era l'assistente sociale di montaggio, quello d'officina, quello dell'attrezzaggio eccetera. Il

fatto che l'assistente sociale svolgesse uno stage in fabbrica per conoscere l'ambiente di lavo-

ro rendeva più facili i rapporti con i capi intermedi, con i capireparto.

120

Page 121: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.3.2 Le iniziative concrete

II.3.2.1 Sanità

La prima mutua aziendale del 1909 si evolse nei vari Fondi di Solidarietà Interna (FSI) isti-

tuiti presso le diverse sedi dell'Azienda a partire dal 1° aprile 1960. Il Fondo definisce i diritti

di dipendenti, pensionati e loro familiari a interventi integrativi di quelli forniti dagli Enti

pubblici di assicurazione e previdenza, quali l'INAM (Istituto Nazionale per l'Assicurazione

contro le Malattie nato intorno alla fine degli anni ‘40), l'INPS e l'INAIL, assicurando loro pre -

stazioni sanitarie e trattamenti ospedalieri di eccellente livello (dipendenti e familiari posso-

no fruire di diagnostica e terapia anche in centri esteri). Questi Fondi hanno quindi lo scopo

principale di integrare le insufficienti o incomplete prestazioni degli enti pubblici, con l'inten-

zione non di sostituirsi ad essi, bensì di affiancarli intervenendo dove l'assistenza risulti

meno adeguata al particolare tipo di lavoro e alle necessità dei dipendenti.

I lavoratori Olivetti alimentavano il Fondo di Solidarietà con un contributo individuale men-

sile (inizialmente pari a 250 lire) che si aggiunge a quello più consistente versato dall'azienda

(750 lire). Il Comitato Amministrativo dell'FSI era composto da due membri della Direzione e

da tre rappresentanti dei lavoratori.

All'inizio degli anni '30 nacquero i Servizi Sanitari di fabbrica, con l'obiettivo di assicurare

adeguate cure mediche a tutti i dipendenti dell'azienda e ai loro familiari. La sua sede si tro-

vava a Ivrea nei pressi dello stabilimento principale e al suo interno si trovavano diverse se-

zioni, ognuna dedicata ad una particolare attività: una piccola biblioteca scientifica a disposi -

zione dei medici, un impianto di aerosolterapia, un gabinetto radiologico, una sala per le inie-

zioni, uno studio dentistico, eccetera.

Nel 1936 s'istituisce il Servizio Sanitario di Fabbrica, che andrà sviluppandosi e articolando-

si con l'espansione dell'impresa, condividendo l'impegno all'eccellenza delle iniziative di que-

sta. L'organico dei Servizi Sanitari garantì un'assistenza medica ad ampio raggio, per cui i di-

pendenti e i loro familiari avevano la possibilità di rivolgersi in ogni momento a medici gene-

rici, odontoiatri, medici specialisti che, in maniera del tutto gratuita, provvedono alle cure ne-

cessarie o indirizzano i pazienti verso strutture sanitarie più adeguate. I medici che lavorava -

121

Page 122: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

no all'Olivetti erano legati all'azienda da un rapporto di consulenza, e non di dipendenza;

questo lasciava loro la più ampia libertà professionale.

Il primo compito dei Servizi Sanitari era rappresentato dalle visite mediche di assunzione

alle quali vengono sottoposti tutti gli aspiranti dipendenti Olivetti. Una volta assunti in azien-

da, i lavoratori potranno usufruire di altri servizi, come le visite periodiche generali oppure

gli esami di controllo per coloro che si sono assentati dal lavoro a causa di una malattia o di

un infortunio. Inoltre, per quegli ammalati che non possono lasciare la loro abitazione, erano

previste visite a domicilio, sempre gratuite. Un altro compito dei Servizi Sanitari, svolto dal

medico di fabbrica, consisteva nel controllare che l'ambiente di lavoro rispettasse tutte le

norme igieniche e prevedesse delle apparecchiature in grado di mantenere le condizioni idea-

li in cui lavorare.

Dei Servizi Sanitari faceva parte anche il Convalescenziario, struttura con una capacità di 22

unità, situata sulla collina di Burolo (TO), sulla Sella d'Ivrea. Questo impianto ospitò tutti quei

dipendenti (e a volte anche i loro familiari) usciti dal sanatorio dopo aver affrontato un rico-

vero, permettendo loro di trascorrere la convalescenza in un ambiente salubre e piacevole,

per un periodo che va da un minimo di 20 giorni a un massimo di 6 mesi.

L'importanza e l'estensione dei servizi sanitari aziendali con il passare degli anni viene len-

tamente ridimensionata, come logica conseguenza delle migliorate condizioni economiche

dei lavoratori e del rafforzamento del Servizio Sanitario Nazionale, che in molti campi rende

superflua l'esigenza di una struttura privata nata proprio per sopperire alle assenze e caren-

ze della sanità pubblica.

II.3.2.2 Maternità

Nel 1941 entrò in vigore del regolamento ALO (Assistenza Lavoratrici Olivetti) che assicura-

va assistenza alle dipendenti nel periodo prenatale, durante la gravidanza e nei mesi di allat-

tamento. L'Olivetti si distingueva per una politica particolarmente all'avanguardia in tema di

maternità. Il regolamento, riadattato con l'evolvere dei contratti nazionali e delle politiche na-

zionali di previdenza sociale, sancì infatti il diritto a una retribuzione pari all'80% dello sti -

pendio per tutto il periodo di stop dal lavoro dovuto alla gravidanza. Periodo che era di 9

mesi e mezzo (sei mesi prima del parto e tre successivamente a questo), 4 e mezzo in più ri -

122

Page 123: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

spetto al minimo stabilito per legge nel 1950. In più era previsto anche un contributo per

ogni nascita in casa di un dipendente, padre o madre.

La gravidanza, tanto quella delle dipendenti quanto delle mogli di dipendenti, veniva segui-

ta dal consultorio prenatale che offriva assistenza ad ampio raggio, tendendo a creare un rap-

porto di fiducia tra la futura madre e il personale che si occuperà del bambino nell'asilo nido.

Lo sviluppo del bambino fin dai suoi primi mesi di vita veniva seguito tramite il consultorio

lattanti aiutandole «ad allevare il piccolo in modo razionale e moderno, non solo dal punto di

vista fisico, ma anche con un preciso criterio educativo», parole del volume Olivetti Servizi e

assistenza sociale di fabbrica pubblicato nel '53. Questa funzione venne svolta fin dagli anni

Trenta dal dispensario per lattanti che, aperto una volta la settimana, dava consigli alle mam-

me e distribuiva medicinali e alimenti per la prima infanzia.

Nel 1952 comincia la creazione, soprattutto nei paesi del Canavese, di consultori gratuiti

aperti a tutta la popolazione, con lo scopo di praticare assistenza ostetrica e profilassi prena-

tale in luoghi dove la cultura igienica è ancora piuttosto arretrata. Uno degli aspetti più im-

portanti del servizio sanitario Olivetti fu proprio la ricaduta del lavoro dei medici sul territo -

rio, in termini di educazione sanitaria e di prevenzione (soprattutto per le malattie veneree e i

casi di tubercolosi). A questo proposito ricordiamo anche la realizzazione di importanti pro-

grammi di prevenzione (vaccinazioni e visite odontoiatriche), come ad esempio la campagna

di vaccinazioni anti-poliomielitiche del 1957, la prima attuata in Italia, quando le autorità sta-

tali non avevano ancora emanato alcuna disposizione al riguardo.

L'ambulatorio pediatrico prestava assistenza medica a tutti i figli dei dipendenti fino ai 14

anni; i medicinali prescritti erano a carico dell'azienda, che forniva rimborsi anche per visite

specialistiche (se consigliate dall'ambulatorio), apparecchi ortopedici, acustici e occhiali.

II.3.2.3 Infanzia

Asili nido e scuole materne occupavano un ruolo centrale nelle politiche della Olivetti per

l'infanzia. Non dimentichiamo che all'esterno, come iniziativa pubblica, i nidi non esistevano.

Le scuole materne erano quelle religiose, che non erano certo sufficienti e la legge che istitui-

sce la scuola materna pubblica in Italia è del 1970 (tali iniziative ebbero infatti grande svilup-

po fino agli anni settanta). Il nido accoglieva i figli delle dipendenti da 6 mesi a 3 anni, men-

123

Page 124: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

tre la scuola materna era per i bambini dai 3 ai 6 anni figli di lavoratori o lavoratrici. La quota

di iscrizione era molto bassa (30 lire al giorno nel 1953, pari a circa 0,43 euro del 2005). Il

primo asilo di fabbrica venne istituito nel 1934, contemporaneamente a un servizio di pedia -

tria. Figini e Pollini progettarono il vasto asilo nido e la scuola materna di Borgo Olivetti,

inaugurato nel 1942. Mentre si destinano ai bambini nuove sedi, come la bellissima Villa Ca-

sana, nel 1954 si apre l'asilo nido dello stabilimento di Barcellona. Su disegno di Mario Ridol -

fi, concepito in modo esemplare come struttura adatta all'attività libera del bambino, un nuo-

vo nido è aperto nel 1964 nel quartiere operaio di Canton Vesco riadattando una vecchia ca -

scina e trasformandola in una scuola dove i bambini facevano anche le prime esperienze di

cura dell'orto e di allevamento degli animali. Lo segue l'asilo nido di Banchette d'Ivrea. Venne-

ro inoltre forniti aiuti ad asili privati e pubblici sia in termini economici che di aggiornamento

delle metodologie pedagogiche. L'apertura verso la comunità locale divenne ancora più evi-

dente nel 1961, con l’istituzione di un doposcuola comunale a pagamento per tutti i bambini

della città: la quota di partecipazione era a carico per 1/3 delle famiglie e per 2/3 dei servizi

sociali Olivetti.

Va sottolineato come gli asili nido e le materne Olivetti, mentre offrono assistenza e solida-

rietà alla lavoratrice madre, non fossero dei semplici baby-parking di custodia dei bambini. Le

iniziative si distinguevano per l'innovazione e la qualità sia sul piano pedagogico, che su

quello delle strutture, pensate “a misura di bambino”. L'originalità della funzione pedagogica

era rappresentata dal fatto che fosse volta a consentire il massimo spazio alle capacità

espressive del bambino e a favorire rapporti intensi tra bambini e con gli adulti. In un am-

biente e fra arredi adeguati, la vita di "piccolo gruppo" veniva accompagnata dalla presenza

continuativa della stessa monitrice. Si vuole creare un ambiente aperto e stimolante: scopo

dell'educazione non è somministrare nozioni, ma piuttosto offrire ai bambini la possibilità di

un armonico sviluppo fisico, intellettuale ed emotivo in un ambiente tollerante e favorevole,

cioè ricco di stimoli adeguati. Per questo l’Olivetti organizzò propri corsi di formazione e ag-

giornamento per puericultrici e maestre. Le maestre e le bambinaie venivano scelte con atten-

zione e poi avviate a seguire, per una durata di tredici settimane, corsi di psicopedagogia,

igiene, dinamica di gruppo, che si concludono con uno stage presso un asilo.

Come ricorda Giannorio Neri, addetto ai Servizi Sociali dello stabilimento di Borgo Lombar-

do, «i nidi e le scuole materne avevano standard di un livello che io non ho più ritrovato da

nessuna parte, nemmeno quando hanno incominciato a istituirli in ambito regionale. L'atten-

124

Page 125: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

zione, la cura, erano molto intense e non si trattava di numeri piccoli: nei nidi c'erano 300 se

non più bambini mentre nelle scuole materne si è arrivati ad averne quasi 600. È un dato che

ricordo perché, per poco tempo, sono stato anche "la direttrice"... Così mi chiamavano i bam-

bini».

Per i bambini e gli adolescenti che hanno terminato il periodo della materna, i servizi sociali

Olivetti si concentravano su colonie e campeggi, per molti anni completamente gratuiti. È lo

stesso Giannorio Neri a raccontarci che

«curate dai Servizi Sociali con la stessa attenzione per gli asili, erano le colonie: quelle esti-

ve, per tutti i figli dei dipendenti, e quelle invernali, per i più piccoli che ne avessero avuto

bisogno. Per questa attività veniva messa in atto una grande capacità di formazione per le

monitrici e i monitori. La selezione era accuratissima, la preparazione era affidata a centri

specializzati di valore. C'era una continua riflessione su quello che era successo durante la

giornata negli atelier e nei giochi, un aspetto che altrove ha assunto spesso un valore pura-

mente rituale o non è stato nemmeno attivato. Per un confronto tra le colonie Olivetti di

quel periodo e le colonie FIAT dello stesso periodo, ci vorrebbe la penna di Augusto Frassi-

neti, che sulla FIAT scrisse tra l'altro un bel libro, intitolato Tre bestemmie uguali e distinte e

fra le tre bestemmie uguali e distinte c'era anche questa: le colonie FIAT.»

Anche in queste attività, dunque, l'aspetto educativo era estremamente curato. Nelle colonie

marine, per quanto riguarda i nidi e le materne, si appoggiarono al Centro Italo-svizzero di

Rimini, che dal punto di vista pedagogico aveva raggiunto un altissimo standard, per cui mol -

te delle loro insegnanti provenivano da lì. In generale non seguivano nessun metodo pedago-

gico particolare ma erano orientati ai movimenti educativi più nuovi, ispirati soprattutto al

metodo ludico del CEMEA (Centre d'Entraìntement aux Méthodes de l'Education Active), nato

in Francia e poi sviluppatosi anche in Italia. I direttori e le monitrici di colonia, dei quali si va-

lutano accuratamente le attitudini, partecipano a uno stage formativo presso una sede italia-

na del CEMEA, dove sono preparati soprattutto sotto il punto di vista delle esperienze di gio -

co e di vita comune. Poi nel lavoro non subiscono imposizioni, sono in grado di condursi libe-

ramente. L'intenzione era fare in modo che i bambini partecipassero a un'esperienza di vita

collettiva godendo di grande autonomia; organizzati in piccoli gruppi che si autoregolano

sotto il controllo di un adulto, svolgono giochi e attività che li stimolano ad esprimere la pro-

pria personalità. Anche l'adolescente doveva anzitutto attivarsi, doveva assumere la sua re-

sponsabilità personale, avere una vita di gruppo che favorisse lo sviluppo individuale. Al vivo

125

Page 126: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

interesse di Adriano Olivetti si deve questo sviluppo innovativo di asili e colonie, e gli stessi

rapporti con i pedagogisti francesi del CEMEA e con i pedagogisti italiani di questo indirizzo.

Le prime colonie estive, un mese di soggiorno al mare o in montagna, sono del 1932. L'im-

portante colonia montana di Saint-Jacques de Champoluc è aperta nel 1939. La colonia mari -

na di Massa è ultimata nel 1951. Negli anni successivi si aprono le colonie di Sarzana e di Do-

noratico. S'inaugura nel 1961 la colonia montana di Brusson, fortemente voluta da Adriano

Olivetti e di nuova concezione, disegnata dagli architetti Conte e Fiori in stretta collaborazio-

ne con gli assistenti sociali, i pedagogisti e la direzione dei Servizi all'Infanzia. Non era più la

colonia tradizionale monoblocco: era articolata in settori, c'erano cinque padiglioni collegati,

in cui il bambino poteva avere un'autonomia di gioco, di scelta, d'interesse. Queste attività

sono anche l'occasione per intraprendere numerosi scambi culturali: figli di dipendenti delle

consociate estere sono accolti nelle colonie italiane, adolescenti italiani sono inviati in cam-

peggi all'estero e loro coetanei stranieri sono ospitati in campeggi italiani. Dagli anni '50 si

svolgono anche i pre-campeggi per ragazzi dai 12 ai 14 anni e i campeggi per giovani dai 15

ai 20 anni, sia figli di dipendenti che dipendenti essi stessi. A Ivrea nel 1953, in una bella

zona collinare vicina ai principali stabilimenti, viene aperta anche una colonia diurna che, nel

periodo di chiusura delle scuole, accoglie i figli dei dipendenti dai 6 ai 14 anni. Importante

per capire la visione che Adriano Olivetti ha della responsabilità sociale è il caso dell'apertura

di questa colonia diurna, citato dalla stessa Lombardo:

«Era arrivata in Presidenza, da un gruppo di operai di un quartiere, la segnalazione che alcu-

ni bambini avevano tirato sassate contro i vetri delle case: “Questi ragazzi ci rompono i ve -

tri: insomma, fate qualcosa voi”. Io fui chiamata in Presidenza, e mentre Geno Pampaloni,

che era allora responsabile della segreteria di Adriano, mi leggeva questa lettera, uscì dal

suo ufficio l'ingegner Adriano; gli fu detto perché ero lì. Mi chiese cosa ne pensassi. Dico:

“Ingegnere, questi ragazzi sono a casa da scuola per le vacanze estive, le madri sono al lavo-

ro, loro sono soli nel quartiere, si annoiano e tirano sassate”. Lui mi disse: “Veda cosa si può

fare”. Senza perder tempo, mi procurai la collaborazione di un maestro elementare: affig-

gemmo un avviso per i ragazzi del quartiere che fossero interessati a passare la giornata

con lui. Al mattino li raccoglieva, li portava nei boschi e poi a mangiare in mensa. Il primo

anno fu così; il secondo anno pensai: "Qui c'è bisogno di una struttura". E allora la famosa

Cascina Vesco, che poi fu trasformata in scuola materna, venne usata come colonia diurna:

ne adattammo i locali (c'era ancora il fienile) e apprestammo delle aule. Da una semplice se -

gnalazione si creò perciò un servizio che l'ingegner Adriano appoggiò con convinzione. La

126

Page 127: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

colonia diurna era molto richiesta, perché cosa possono fare le mamme che lavorano quan-

do i bambini non sono a scuola, soprattutto durante l'estate? Avevamo, già dal 1952, un do-

poscuola in collaborazione col Comune: così la colonia diurna divenne una realtà per chi la-

vorava in azienda. Quest'iniziativa ebbe una forte espansione, tanto che negli anni settanta

venne costruita una seconda colonia diurna, che esiste tuttora: la Cascina Girelli, studiata

con degli spazi soltanto diurni, con dei laboratori, con la mensa. Alla fine, avevamo circa

700 bambini: questo soggiorno prendeva tutta una collina. Anche questo fu un servizio che

nacque da una segnalazione, espressione dei rapporti diretti che vivevamo in questa azien-

da.»

Infine vi erano le attività di pre-colonia per bambini di età fra i 3 e i 6 anni, la cui salute ab-

bisogna di una cura climatica al mare o in montagna. Anche i bimbi di età inferiore ai 3 anni,

per i quali l'ambulatorio pediatrico raccomanda un soggiorno al mare, sono ospitati in colo -

nie dell'azienda, accompagnati dalle madri. Durante questo periodo le madri godevano di un

permesso retribuito, contro il quale nessuna urgenza lavorativa ha la facoltà di opporsi. A tal

proposito merita riportare la significativa testimonianza della Lombardo sull'istituzione di

quest'ultimo tipo di servizio:

«Le assistenti sociali, a un certo punto, si erano trovate a rispondere alla richiesta di molte

donne di poter portare i bambini al mare: in questa zona c'erano molte forme asmatiche e il

Servizio Sanitario segnalava i casi di bambini che avevano bisogno di un periodo al mare. Le

madri, nei primi tempi, venivano a richiedere alle assistenti dei contributi; noi ci siamo tro-

vate a darne molti, dal momento che l'azienda non aveva certo dubbi a usare il Fondo per

questi casi. Suggerimmo allora all'azienda, che accettò, un servizio per cui le madri poteva-

no andare in una nostra colonia, che le ospitava: da qui non si dava più il contributo per an-

dare in un albergo. Era anche una soluzione più controllata dal punto di vista sanitario, e

questo fu uno dei servizi più belli per le madri, che, molte volte ansiose per la salute del

bambino, potevano così stargli vicino in questi venti, ventidue giorni. Questo fu un bisogno

individuato e realizzato dal nostro Servizio.»

A partire dagli anni '80, in seguito alla diminuzione del numero dei dipendenti e allo svilup-

po di strutture e servizi sociali pubblici più evoluti, anche la partecipazione alle colonie Oli -

vetti, così come l'utilizzo degli altri servizi aziendali per l'infanzia, entra in una fase calante.

In particolare, dal 2000 i figli dei dipendenti Olivetti cominciano a usufruire delle colonie

estive di Telecom Italia.

127

Page 128: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.3.2.4 Formazione professionale

Introduzione

L'attitudine olivettiana a mettere in primis il dipendente in quanto persona al centro delle

proprie politiche, considerandolo cioè non soltanto come una risorsa a disposizione dell’a-

zienda ma come un uomo “a tutto tondo”, rese inconfondibili i metodi didattici dei vari isti -

tuti Olivetti e, in particolare, quello adibito alla formazione degli operai, dove la necessità di

dare consapevolezza dei fini del proprio lavoro era maggiormente sentita. Tutta la formazio-

ne professionale e manageriale in Olivetti incluse temi culturali che permettevano la colloca -

zione e l'impiego delle competenze lavorative nel contesto della vita sociale. L'intenzione era

offrire a tutto il lavoro, esecutivo e direttivo, orizzonti di conoscenza e opportunità di rifles -

sione.

Il Centro Formazione Meccanici

Il problema della formazione degli operai si accentua in Olivetti nel corso degli anni '30,

quando la rapida crescita dell'azienda e la complessità del processo produttivo aumentano la

difficoltà di trovare nel territorio canavesano operai con un'adeguata preparazione tecnico-in-

dustriale. Divenuto improponibile il vecchio modello che prevedeva di qualificare l'apprendi -

sta o il manovale comune affiancandolo a un operaio esperto, l'Olivetti comincia a pensare di

organizzare in modo sistematico dei corsi interni di formazione. Il primo nucleo di attività

formativa è del 1934-35: dei quindicenni con licenza elementare, scelti come futuri specialisti

meccanici e fino ad allora addestrati direttamente nel lavoro produttivo, furono posti in un

locale a parte, sotto la guida un operaio esperto. Da lì crebbe a poco a poco una struttura sco-

lastica che appena dopo la guerra, pur continuando sempre a evolversi, prese la forma di cor-

si ad alto contenuto formativo, che proseguirono con il nome di Centro Formazione Meccani-

ci (noto come CFM) per altri trent'anni fino al 1967, qualificando oltre 1.400 giovani operai.

Dopo aver finito la scuola d'avviamento o la media, i giovani affrontavano un concorso,

mentre dalla fine degli anni cinquanta vennero selezionati con prove psicotecniche e un col -

loquio. Moltissimi erano i candidati alle prove per i 30 posti come allievi al corso triennale, il

vero e proprio CFM. C'erano inoltre i 30 posti per un corso di qualificazione meno complesso,

128

Page 129: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

della durata dapprima di tre e poi di due anni, che dava adito alla qualifica operaia. Coloro

che avevano finito il CFM, dopo una certa esperienza in produzione, potevano esser scelti a

tempo pieno per un corso biennale di perfezionamento. Il giovane che superava il concorso

per entrare nel CFM era inquadrato con un contratto speciale stipulato tra l'Olivetti e la Ca-

mera del Lavoro d'Ivrea, e poteva godere delle provvidenze e dei servizi sociali aziendali.

Come studente, e insieme apprendista meccanico, era retribuito con un salario solo legger-

mente inferiore a quello operaio ma superiore a quanto avrebbe potuto guadagnare altrove.

Questo salario contribuiva alla serietà formativa, insieme col valore degli insegnanti (spesso

dirigenti, capireparto, organizzatori) e con le esperienze nella realtà dei reparti (eccetto le fe-

rie, le vacanze scolastiche erano utilizzate lavorando in produzione). Chi non ce la faceva non

veniva espulso dall'azienda ma era immesso nelle lavorazioni di serie.

Il Centro era destinato a formare in prevalenza gli addetti alle officine di attrezzaggio. Nel

CFM ai giovani della zona che aspiravano a entrare in azienda come operai specializzati, o

che volevano diventarlo dopo essere entrati come apprendisti, si insegnavano in primo luogo

le tecniche della meccanica di precisione, della lavorazione con macchine utensili, della rifini -

tura al banco di attrezzi per la produzione, in ultimo della costruzione di stampi (settore fon -

damentale per un'azienda che produceva macchine formate principalmente di particolari

stampati).

Ma, come già è stato accennato, non si insegnavano soltanto materie tecniche nel CFM. I

programmi scolastici erano caratterizzati da un originale stile educativo, in linea con lo stile

imprenditoriale di Adriano. Essi vennero «stabiliti tenendo conto di quelli dei moderni Paesi

industriali»: le materie tecniche (matematica, fisica, meccanica, elettrotecnica, disegno ecc.)

comportavano conoscenze pressoché equivalenti a quelle di un corso per periti, tanto che

non pochi conseguivano poi il diploma all'esterno come studenti serali. Gli orari giornalieri

erano via via quelli della fabbrica di allora, con molte ore dedicate alle esercitazioni nell'ap-

posita officina, in cui si faceva pratica anche sulle macchine utensili, quelle stesse che molti

di quei giovani avrebbero poi costruito nello stabilimento di San Bernardo, un settore in cui la

tecnologia Olivetti era considerata di alto livello mondiale. Notevole peso avevano anche le

materie non tecniche: cultura generale (con una particolare libertà di letture, lasciate anche

alla scelta degli studenti, che usufruivano della biblioteca Olivetti), storia generale, storia del-

l'arte (affidata alla cattedra di storia dell'arte dell'Università degli Studi di Milano). Emerge qui

una figura centrale della formazione olivettiana: si tratta del professor Ferdinando Prat, anti-

129

Page 130: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

fascista e partigiano della Resistenza che subì anche la deportazione, figura culturale di rilie -

vo nel Canavese. Insegnò nelle scuole aziendali Olivetti (Centro Formazione Meccanici, Corso

di Cultura Tecnica e Corso di Perfezionamento, Istituto Tecnico Industriale) dall'inizio degli

anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta. Il suo insegnamento copriva la storia generale,

elementi di cultura politica e costituzionale italiana, la struttura delle istituzioni internazio-

nali del secondo dopoguerra, la cultura sindacale con riferimento alla legislazione del lavoro

(dalla formazione del rapporto di lavoro, agli obblighi reciproci di lavoratore e imprenditore,

alla composizione e alle determinanti della retribuzione, alle cause di risoluzione del contrat-

to di lavoro) e alla legislazione sociale (la previdenza sociale, le assicurazioni sociali) e infine

la cultura economica (nel 1957 introdusse l'argomento delle prospettive economiche e sociali

dell'automazione e dell'elettronica per il Corso di Perfezionamento, e nel 1959 quello dell'e -

conomia pianificata).

Cleto Cossavella ricorda queste parole la propria esperienza formativa al CFM: «Parliamo

del 1956. Si trattava di una cosa avanzatissima, eccezionale per l'epoca, e anche vista adesso.

Infatti, se seguiamo il percorso in Olivetti dei 60 entrati con me, vediamo che la maggior par -

te di loro – diciamo il 90% – sono diventati impiegati di prima categoria superiore o dirigenti.

Le prospettive erano buone: ci venivano forniti tutti gli elementi culturali possibili per cresce-

re». Chiediamoci in quale altra azienda degli anni Cinquanta, epoca di conflitti industriali du-

rissimi, di sindacati, quali la Cgil, legati politicamente all'estrema sinistra e in conflitto per-

manente con le grandi imprese, non senza motivo, si sarebbero potute istituire scuole del ge-

nere. Scuole che apparivano sì deputate primariamente alla formazione di operai meccanici,

ma nelle quali, passavano di regola intellettuali e storici, anche di sinistra, e perfino sindacali -

sti, che venivano a insegnare la storia del movimento operaio e la critica dell'economia politi-

ca. Tutti i frequentanti potevano imparare, e non con una mezz'ora di conferenza ma

con dei veri e propri corsi della durata di varie ore, quali erano stati i conflitti, le tensioni,

i drammi della rivoluzione industriale, come avevano agito e che cosa avevano patito i loro

antenati nel corso dell'industrializzazione. Queste nozioni parallele finivano per diventare

indirettamente un modo attraverso il quale questi giovani si appropriavano culturalmente

della fabbrica, un modo di stabilire con essa un rapporto, se non addirittura una sorta di

identificazione, perché la fabbrica veniva percepita come qualcosa di comprensibile, un si-

stema aspro di rapporti sociali ma razionale e leggibile. In altre imprese dell'epoca si poteva

supporre che il distacco, l'assenza di dialogo tra i lavoratori e la direzione aziendale, na-

130

Page 131: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

scessero appunto dalla incomprensibilità della fabbrica, dall'opacità dell'organizzazione

del lavoro. Termini come “estraneità” o “estraniazione”, e le condizioni reali che tali ter-

mini designano, sono storicamente nati da questa incomprensibilità e opacità della fabbri-

ca dinanzi al lavoro operaio. Per contro ai giovani del CFM erano forniti i mezzi per compren-

dere i metodi di gestione, incluso lo scientific management, mentre si rendevano conto di

accingersi a ereditare un pezzo della storia del lavoro dei loro progenitori.

Insomma, instaurandosi un rapporto critico con la fabbrica, questa non veniva più solamen-

te “subita”. L'intento di Adriano Olivetti, era di garantire in qualche modo che la transizione

dalla tradizione contadina alla fabbrica, dalla cultura delle valli alla cultura industriale, non si

risolvesse in un passaggio brutale del giovane diciottenne forzato a lasciare bruscamente la

vigna o l'aratro e catapultato in una catena di montaggio. Questo passaggio veniva mediato

dalla riflessione, dalla cultura, dallo spirito critico. Tutto ciò conferiva, anche attraverso quel-

lo che i giovani potevano riportarne alle famiglie, il senso di un rapporto vitale con l'impresa

e il suo modo di lavorare, che non escludeva del resto il conflitto, perché di certo tra i genito-

ri di quei giovani apprendisti meccanici non mancavano coloro che erano politicamente o

ideologicamente estranei alle idee di Adriano Olivetti. Tuttavia, articolato com'era attraverso

la scuola dai tratti eterodossi che si diceva, quel senso, che concorreva anche a dare un signi -

ficato alle proprie esistenze, costituiva la base di un dialogo. Su tale base si poteva essere su

posizioni diverse, nel mentre che ci si riconosceva insieme partecipi di una cultura che

rispettava profondamente il lavoro e la persona. Per milioni di italiani dell'epoca le

trasformazioni connesse allo sviluppo economico e al mutamento del lavoro hanno

comportato traumi severi, talora drammatici. Per contro nella Olivetti di Adriano, attraverso

il canale della formazione, questo passaggio avveniva non solo in modo più graduale, più

scalato, ma in un modo che faceva sentire a questi giovani e alle loro famiglie d'esser

diventati cittadini della civiltà industriale. Pur essendo vero che attraverso il CFM passava

soltanto una frazione della forza lavoro operaia.

Nel 1967, una ricerca del Centro di Psicologia documentò che in pochi anni 8 operai su 10

usciti dal CFM erano diventati impiegati, e alcuni dirigenti, a riprova degli alti risultati ottenu-

ti con quel tipo di formazione. Adducendo ragioni di costo, alla metà degli anni Settanta la

scuola fu chiusa. Con le sue iniziative formative, l'Olivetti aveva proposto in anticipo un mo-

dello, non solo tecnico ma anche sociale, di riforma scolastica.

131

Page 132: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Altri istituti

Il Centro Istruzione e Specializzazione Vendite (CISV) nacque nel 1955 nelle bellissime ville

storiche sulle colline fiorentine, che Adriano Olivetti ebbe in locazione da Sir Harold Acton.

L'attenzione di Adriano all'estetica dei luoghi che accolgono il lavoro umano trovò qui un'op-

portunità privilegiata.

Il venditore nei corsi di prima formazione doveva conoscere "nelle più intime fibre" la strut-

tura del prodotto, le sue applicazioni e il modo di dimostrarle, la tipologia dell'utenza, e di

conseguenza le diverse esigenze d'impiego delle macchine. Egli venne anche preparato a en-

trare in rapporto con il cliente, riconoscerne le attese, trattare le obiezioni, ottenere il consen-

so all'acquisto. I corsi erano accompagnati da test di conoscenza del prodotto e da colloqui

valutativi, tenendo di conto il parere dei diversi istruttori. L'introduzione di nuovi prodotti

nel mercato era preceduta da corsi di formazione dei venditori. Altri corsi preparavano i ven-

ditori che diventano capigruppo (riguardano l'organizzazione delle vendite, la gestione eco-

nomica, la guida del personale).

La scuola fiorentina fu il punto di riferimento delle scuole di formazione delle consociate:

quella del Regno Unito (una villa settecentesca nel Sussex, ampliata su disegno di Stirling),

quella statunitense (nell'amena sede di Terrytown, sul fiume Hudson), quella parigina (in Fau-

bourg Saint-Honoré), le scuole in Germania, Austria, Spagna e in altri Paesi. Il Centro di Firen -

ze propose loro metodi e produsse materiale didattico, disegnava processi di addestramento

e formava i formatori. Laureati non brillanti nell'attività commerciale ma motivati a studiare

venivano trasferiti dalla vendita alla scuola, a preparare testi per istruzione programmata,

metodologie di vendita, formazione dei venditori, e atti a diffonderli di persona nelle conso-

ciate.

Per molti anni il CISV è stata la scuola aziendale di formazione commerciale più importante

e meglio strutturata d'Europa. Chi vi imparava le tecniche di vendita, aveva poi mercato assi-

curato. Per questo il turnover dei commerciali era elevatissimo, arrivo sino al 30% annuo. Nes-

suno era per questo sconvolto. Come aveva insegnato Adriano allorché gli avevano segnalato

che molti operai si portavano a casa attrezzi di lavoro (replicò: appena le loro officine di casa

avranno tutti gli attrezzi, smetteranno di prelevarli dall'azienda), quando tutte le aziende

avessero avuto i loro commerciali, avrebbero smesso di "prelevarli" dalla Olivetti. Del resto ai

dirigenti faceva anche piacere pensare alle centinaia di commerciali formati all'Olivetti, amici

132

Page 133: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

dell'Olivetti, portatori della cultura Olivetti e anche buoni canali per i prodotti Olivetti, sparsi

per tutto il tessuto produttivo italiano.

Nel 1943, in assenza di un istituto pubblico, nasceva l'Istituto Tecnico Industriale Olivetti

che resterà attivo fino al 1962, quando l'apertura di un'analoga scuola statale a Ivrea renderà

ridondante l'iniziativa aziendale. In origine riservato ai soli figli dei dipendenti, dal 1948 ven-

ne aperto gratuitamente a tutti, con ammissione per concorso. Era ordinato secondo i pro-

grammi ministeriali, legalmente riconosciuto e sede di esami di Stato. Lo avvantaggiava l'ac-

cesso ai laboratori e alle officine dell'azienda. Erano ammessi a frequentarlo i promossi dal

Centro Formazione Meccanici idonei a seguire studi medi superiori (i quali, non venendo as-

sunti subito in azienda come i loro compagni, ricevevano come borsa di studio l'equivalente

del salario). La maggior parte dei diplomati dell'Istituto era assunta dall'Olivetti. E i migliori

venivano preparati nel corso di un anno a conseguire all'esterno la maturità scientifica, per

poter accedere al Politecnico di Torino o ad altra facoltà universitaria in Italia. Essi fruivano

di borsa di studio (per conservarla fino al termine degli studi, dovevano sostenere ogni anno

tutti gli esami stabiliti dalla Facoltà, riportando una votazione media non inferiore ai 24/30).

Analoghe borse di studio per studi universitari erano concesse, mediante concorso e per

qualsiasi Facoltà, a giovani dipendenti dell'azienda e a giovani nativi o residenti da almeno

cinque anni nel Canavese. Esemplare fu l'episodio di una borsa di studio voluta dall'ingegner

Adriano per un ragazzo che in pre-campeggio aveva manifestato delle doti musicali non co-

muni: le assistenti sociali lo segnalarono al presidente, in quanto il ragazzo avrebbe voluto

andare al Conservatorio, ma essendo figlio di un operaio non poteva permetterselo. La borsa

di studio venne confermata anche negli anni successivi e quel giovane ha potuto diventare un

affermato direttore di orchestra.

La Gestione del Personale accordava inoltre "permessi di studio" agli operai che s'iscriveva-

no a corsi serali per diplomarsi e a impiegati che intendevano laurearsi. I permessi seguivano

un regolamento concordato nel Consiglio di Gestione dei Servizi Sociali. Si concedevano 15

giorni di permesso retribuito per sostenere le interrogazioni di fine anno, 25 giorni per gli

esami di maturità, e molti giorni per ogni esame universitario. Si rimborsavano le tasse d'i-

scrizione ai corsi e l'acquisto dei testi.

133

Page 134: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.3.2.5 Mensa

È del 1936 la prima mensa aziendale, alla quale seguirà in ogni unità lavorativa il servizio

mensa. Pochi mesi prima di morire, Adriano Olivetti inaugura a Ivrea la Nuova Mensa, dise-

gnata da Ignazio Lardella, vincitore, nel 1955, del Premio Nazionale di Urbanistica e Architet-

tura Olivetti. La scelta del luogo in cui realizzare la nuova mensa cadde su una vasta zona

verde ai piedi della collina presso il Convento di Ivrea, antica abitazione della famiglia Olivet-

ti, a poche decina di metri dalla fabbrica. L'Azienda riteneva importante che i dipendenti, ol-

tre a poter godere di un buon pasto, potessero anche distrarre la vista e la mente, ritrovando-

si immersi in un'area ricca di vegetazione, a contatto con la natura. Per rendere ancora più vi -

vibile e rilassante il momento del pranzo, la mensa venne dotata di grandi vetrate da cui po-

ter ammirare il panorama circostante. Inoltre, se a casa i dipendenti potevano mangiare man-

tenendo le abitudini alimentari locali, in mensa veniva proposta un'alimentazione nuova, e

spesso più corretta. Alla mensa potevano accedere a determinate condizioni anche gli stu-

denti, figli dei dipendenti.

In prossimità della mensa erano disponibili vari servizi sociali e culturali, allo scopo di tra-

sformare la pausa pranzo (che durava un paio d'ore) in un'occasione di arricchimento cultu-

rale. Questo modello venne applicato in quasi tutti i siti produttivi Olivetti, in Italia e all'este -

ro, divenendo un aspetto tipico dello “stile Olivetti”.

Altro aspetto tipico è il fatto che, proprio negli anni in cui la divisione fra mense per operai

e mense per impiegati era pressoché uno standard, anche un qualsiasi dirigente dell'Olivetti

o il presidente stesso, si metteva in fila nella mensa del l'azienda e, con il suo vassoio,

aspettava che gli riempissero i piatti, poi si sedeva a un tavolo, magari vicino a qualcuno che

l'aveva accompagnato, ma anche a qualcun altro che poteva non conoscere affatto, con cui

dialogava. In altre aziende, era esattamente il contrario: si ambiva a diventare capo perché il

capo aveva dei privilegi che gli altri non avevano.

La portata storica, per non dire rivoluzionaria, di una tale politica ci viene mostrata dalla te -

stimonianza Umberto Chapperon, l’allora responsabile dell'Ufficio Relazioni Sindacali:

«A proposito delle mense, mi viene in mente un incontro sull'organizzazione delle mense

con il responsabile dei Servizi Sociali della FIAT. Era un signore alto, con un'aria autorevole.

Gli chiedemmo: «Voi, per le mense, quali politiche avete?». Risposta: «Il nostro obiettivo è

eliminarle. Ma prima bisogna arrivare a farle utilizzare da pochi, perché è difficile eliminarle

134

Page 135: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

se ci mangiano tutti. Bisogna eliminarle quando ci mangiano in pochi. Per raggiungere que-

st'obiettivo, peggioriamo ogni settimana il livello del servizio: siamo arrivati a portare la mi-

nestra dentro gli automezzi con cui portiamo la nafta; certo, prima naturalmente li laviamo.

Eppure, lei lo sa che ci sono ancora due o tremila comunisti che mangiano questa minestra

solo per farci rabbia?». Tornammo a Ivrea pensierosi.»

II.3.2.6 Trasporti

Negli anni '30 la Olivetti si trovò a fronteggiare un deciso aumento del personale e un cre-

scente afflusso di dipendenti provenienti anche da paesi lontani da Ivrea. Questa situazione

indusse l'Azienda a ricercare una soluzione per venire incontro alle esigenze dei lavoratori,

che talvolta si trovavano costretti a percorrere anche 30 chilometri con mezzi di fortuna, a

causa della carenza dei trasporti pubblici, per raggiungere il posto di lavoro. Nel 1937, quin-

di, venne istituito il Servizio Automobilistico ad uso esclusivo dei dipendenti dell'azienda;

consisteva in una serie di autobus che, inizialmente, a vari orari percorrevano circa 150 chilo-

metri collegando 15 paesi. Ovviamente, il servizio proposto dalla Società ebbe un buon suc-

cesso e stimolò anche tanti lavoratori impiegati in piccole aziende locali a spostarsi verso

Ivrea per ricoprire i posti vacanti alla Olivetti. Nel 1950 il Servizio Automobilistico, inizial-

mente utilizzato da un centinaio di operai ogni giorno, registrava oltre 500 presenze

giornaliere. Il prezzo del biglietto era molto basso, perché si voleva che il Servizio venisse

considerato quasi un diritto di tutti i lavoratori e non un privilegio accessibile a pochi. Per

questo motivo, la maggior parte delle spese legate a tali trasporti rimasero a carico dell'azien-

da. Il Servizio Automobilistico era costituito di 11 linee: 9 effettuate con autopullman Olivetti

e 2 gestite in convenzione con concessionari di trasporti pubblici.

Accanto al servizio destinato solo ai dipendenti che si recavano al lavoro, venne affiancato

un ulteriore servizio per i figli dei lavoratori Olivetti: a partire dall'inizio fino al termine del-

l'anno scolastico, una serie di linee dedicate portava i bambini di età tra i 6 e i 14 anni alle

scuole e agli asili nido. Questo per consentire ai dipendenti di giungere al lavoro più tranquil -

li e senza preoccupazioni per la propria famiglia.

Con il passare degli anni e lo sviluppo della motorizzazione privata, il Servizio Automobili -

stico venne progressivamente ridimensionato.

135

Page 136: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

II.3.2.7 Architettura e politica edilizia

Nella ditta di Ivrea, talmente tanta era la cura dedicata ad ogni aspetto della vita di fabbrica,

che l'architettura stessa, tanto degli stabilimenti quanto dei palazzi uffici, possedeva una

componente di utilità sociale innegabile. Le costruzioni firmate Olivetti potrebbero entrare di

diritto nel novero delle azioni socialmente responsabili intraprese dall'azienda solo per il

modo in cui erano pensate. Nella costruzione di uffici, laboratori, centri di ricerca, istituti di

formazione, biblioteche, mense, case per i dipendenti, asili nido e colonie, vi è la continua ri-

cerca di apertura degli spazi di vita che sembra incarnare una cultura della fluidità, espri -

mendo un impulso alla trasformazione che, anziché consumare e imprigionare le energie, di -

spiega le potenzialità di divenire insite nelle persone e nelle cose. Lungo gli anni, costruzioni

su progetti di Persico, Nizzoli, Zanuso, Gardella, Vittoria, Fiocchi, Valle, Cascio e, fra gli stra-

nieri, di Kahn, Eíerman, von Klier, Kenzo Tange, Stirling, si sono, nella varietà delle impronte,

caratterizzate per questa ispirazione all'aperto. Tanto più lo erano gli spazi di vendita, fra cui

quello delle Procuratie di piazza San Marco, che è forse l'opera più celebre di Carlo Scarpa,

quello disegnato da una giovanissima Gae Aulenti in Faubourg Saint-Honorè, e quello sulla

Fifth Avenue, affidato a Belgiojoso, Peressutti e Rogers. Viene da chiedersi come sarebbe lo

stabilimento per la produzione di calcolatori elettronici a Pregnana Milanese, affidato al pro-

getto di Le Corbusier, che, scomparsi Adriano e Tchou, non viene edificato per la cessione

della Divisione Elettronica alla General Electric.

Più di tutti gli altri tipi di costruzione, la fabbrica, con la sua forma, deve testimoniare la

centralità dell'uomo e la dignità del lavoro. La bellezza delle forme architettoniche non è

quindi mai soltanto bellezza “formale” in quanto, per il modo in cui si esprime, diventa ele -

mento sostanziale di miglioramento della qualità del lavoro e, inevitabilmente, anche della

vita. L'importanza che l'aspetto di un ambiente ha sulle persone traspare dalle parole di Fio-

renzo Grijuela che ricorda così il suo colloquio all'Olivetti: «La prima cosa che mi colpì en -

trando nel palazzo degli uffici in via Clerici a Milano, fu innanzitutto la bellezza della sede.

Questo mi ha colpito perché allora quando andavi nelle aziende – mi ricordo che avevo fatto

dei colloqui nelle banche – trovavi sempre un mondo così tetro che c'era da fare gli

scongiuri…».

136

Page 137: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

A Ivrea, sotto la direzione di Adriano Olivetti, col notevole sviluppo e modernizzazione del-

la produzione il piccolo edificio di mattoni rossi del 1908 che tutt'oggi esiste all'inizio di via

Jervis, era ormai insufficiente, e si era resa necessaria la realizzazione di nuovi corpi della

fabbrica. Gli stabilimenti costruiti a più riprese a partire dal 1934, furono disegnati dai mi-

gliori architetti dell'epoca con uno stile architettonico decisamente innovativo. Di progettare

gli ampliamenti si occupano i giovanissimi Luigi Figini e Gino Pollini, appartenenti a una nuo-

va generazione di architetti italiani, aperti alle contemporanee esperienze delle avanguardie

internazionali. Gli edifici si affacciano per lo più su spazi verdi attraverso grandi vetrate, belli

esternamente e luminosi all'interno, richiamando, nell'impostazione compositiva e tecnica, i

modelli di architetture per l'industria che stavano maturando negli Stati Uniti e nel resto

d'Europa. La nuova officina di via Jervis, che servirà da modello a tutti gli stabilimenti olivet -

tiani di successiva costruzione, è un grande ambiente, caratterizzato da una struttura portan -

te in cemento armato, che permette di formare grandi luci per lo spazio del lavoro, illuminato

da ampie finestre a nastro. Lo spazio interno segue le logiche della produzione in linea ma

viene pensato in accordo alle analisi e alle ricerche relative alle qualità psicotecniche e illumi-

notecniche degli ambienti di lavoro, condotte fin dagli anni Venti negli Stati Uniti e che, a par-

tire dalla seconda metà degli anni Trenta, non sono estranee agli architetti italiani più attenti

al dibattito sull'architettura industriale. Le notevoli ripercussioni positive della struttura ar-

chitettonica sulla qualità del lavoro erano quindi una realtà effettiva grazie al fatto che, già a

partire dal disegno dello stabilimento, la persona, le sue esigenze, il fatto di non essere co-

stretta a stare otto ore al giorno a guardare soltanto i pezzi che si maneggiano, ma di poter

alzare gli occhi, guardarsi intorno, osservare che tempo fa fuori della finestra, scambiare

qualche battuta con i compagni, tutto questo veniva tenuto presente dagli architetti che lavo-

ravano per la Olivetti. La costruzione di questo blocco è quindi attenta tanto alle esigenze

tecniche della produzione, quanto a quelle psicologiche del lavoro, con costi di investimento

notevolmente elevati, perché progettare e costruire un bello stabilimento con un grande ar-

chitetto, costava, e ovviamente costa, parecchio di più che non realizzare uno stabilimento

secondo i parametri standard dell'ordinaria architettura industriale. Sulla progettazione degli

stabilimenti epodieresi, l'architetto Gino Pollini ha lasciato la seguente testimonianza:

«In me e Figini qualche esitazione di origine tecnico-funzionale accompagnò, nonostante

l'autorevole esempio del Bauhaus, la decisione di adottare una grande vetrata continua [...].

L'intervento di Adriano Olivetti fu decisivo. La vetrata uniforme [...] rappresentava fin dall'e -

137

Page 138: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

sterno l'indipendenza funzionale degli spazi interni, collegata al principio della massima

flessibilità dei processi lavorativi [...]. Adriano e noi con lui abbiamo sempre rifiutato la tipo-

logia dell'officina chiusa da muri verso l'esterno. Ovunque possibile, abbiamo cercato che gli

ambienti si aprissero sulle visuali del paesaggio circostante.»

Anche per lo stabilimento di Pozzuoli Adriano aveva chiesto agli architetti di costruire una

fabbrica ove i lavoratori, che sino al giorno prima avevano lavorato come pescatori o come

contadini o avevano semplicemente passato le loro giornate nelle strade e nelle piazze, non si

trovassero improvvisamente "spaesati", potessero continuare a vedere il mare dai loro posti

di lavoro o dai tavoli della mensa, si potessero muovere in ambenti spaziosi, rispettosi della

loro cultura e delle loro esigenze più che di quelle delle macchine e dei flussi produttivi. L'in-

sediamento di Pozzuoli storicamente rappresenta il primo intervento privato a favore dell'in-

dustrializzazione del Mezzogiorno. Il progetto fu affidato all'architetto napoletano Luigi Co-

senza, docente all'Università di Napoli; il tempo di elaborazione e costruzione dell'edificio è

breve e i lavori si concludono nel 1954. Il 23 aprile 1955 si svolge l'inaugurazione ufficiale,

occasione per uno dei più noti discorsi di Adriano Olivetti, nel quale dichiarerà come «Di

fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza

dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno». La rivista amer-

icana "Horizon" aveva descritto il sito in questa maniera: «From via Dominitia, which passes

the main façade, the building might be taken for an elegant resort hotel or a sanatorium in

the modern style». Anche l'ingegner Alberto Gobbi lo ricorda in modo molto simile:

«Lo stabilimento era in una splendida posizione panoramica, affacciato com'era sul golfo di

Pozzuoli. Era così bello che ogni tanto capitava che qualche turista straniero si fermasse e ci

chiedesse se c'erano camere libere, scambiandolo per un albergo o per un residence. Tra

l'altro, aveva sul davanti un magnifico grande terrazzo di forma leggermente ricurva, dise-

gnata con un raggio amplissimo, che dominava il golfo. Non ho più visto in nessun altro po -

sto i colori dei tramonti che si vedevano lì, da quel terrazzo: il mare davanti si tingeva d'a -

rancione, di viola, d'azzurro intenso, di tutta la gamma dell'arcobaleno; era uno spettacolo

straordinario, che faceva perdere la voglia di tornare in ufficio a lavorare. Ma per fortuna io

avevo un ufficio che non guardava verso il mare. Di lì era meno facile distrarsi».

Il risultato era stato straordinario; architetti di tutto il mondo venivano a vedere questo sta-

bilimento controcorrente. Immerso in una pineta, si affacciava sullo splendido mare del golfo

di Pozzuoli, di fronte a Procida e a Ischia. Dalle grandi vetrate un'intensa luminosità penetra-

138

Page 139: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

va negli ambienti della fabbrica, insieme ai caldi colori del cielo e del mare Mediterraneo.

Adriano Olivetti aveva realizzato un'opera che possedeva i connotati dell'architettura razio-

nalista e allo stesso tempo della grandiosità rinascimentale, che coniuga cultura e bellezza

naturale, in una paradigmatica dimostrazione che lo sviluppo industriale non significa neces-

sariamente degrado e umiliazione dell'ambiente. Gli operai e le operaie partenopee vissero

con grande orgoglio questo straordinario interesse di Olivetti per un originale sviluppo del

Sud. Un noto aneddoto riporta che per ricambiare queste attenzioni le operaie addette al col-

laudo avessero trovato il modo di operare contemporaneamente con due mani, raddoppiando

i risultati produttivi rispetto a quelli delle loro compagne d'Ivrea.

Abitazioni

Tra i servizi offerti ai dipendenti non poteva mancare la costruzione di edifici abitativi.

Adriano Olivetti era ben consapevole dei problemi urbanistici (deturpamento del paesaggio,

sovraffollamento, degrado igienico, inadeguatezza dei servizi, ecc.) che caratterizzavano le

città industriali solitamente a causa di un inurbamento eccessivamente rapido e poco control-

lato, talvolta selvaggio. Negli uffici studio Olivetti si teneva conto scrupolosamente delle pos-

sibilità di assorbimento della manodopera dai bacini territoriali di ciascuna fabbrica e delle

possibilità di un pendolarismo quotidiano accettabile, tenendo conto delle distanze e dei

mezzi di trasporto collettivo. Quando da quei bacini era esaurita la possibilità di assorbimen-

to di mano d'opera, si evitava di crescere ancora nella stessa zona, per impedire squilibri e di-

sagi nelle mobilità territoriali e negli insediamenti abitativi. L'ingegnere, memore anche dell'e-

sempio paterno, si sentiva giustamente responsabile del paesaggio edilizio del territorio e

dell'assetto urbano delle comunità circostanti la fabbrica e non si fece scrupoli a investire in -

genti risorse per risolvere in modo razionale le necessità abitative dei dipendenti. Le case era-

no date in affitto o a riscatto a condizioni decisamente vantaggiose rispetto ai prezzi di mer-

cato; la selezione dei dipendenti che potevano usufruirne era affidata a una commissione,

formata dal Consiglio di Gestione e dai rappresentanti di alcuni enti aziendali, in primis gli

assistenti sociali, sulla base di criteri di priorità quali: il reddito, le condizioni familiari, l'an -

zianità aziendale, ecc.

L'assegnazione di case ai dipendenti era stata avviata da Camillo Olivetti nel 1926. È di

quell'anno il primo edificio di abitazioni costruito. Sono sei case unifamiliari, realizzate in

un'area vicina agli stabilimenti che prenderà il nome di Borgo Olivetti. Il modello stilistico è

139

Page 140: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

di tipo tradizionale; le case dispongono di un orto-giardino, per contribuire all'autosufficien-

za alimentare delle famiglie. Tra il 1926 e il 1976 gli alloggi costruiti dall'Olivetti, direttamen-

te o in collaborazione con enti pubblici, ammontano a 1.213 (973 a Ivrea).

Un deciso cambiamento delle politiche abitative interviene nella seconda parte degli anni

'30, in coincidenza con il maggior ruolo assunto da Adriano Olivetti nella conduzione dell'a -

zienda. L'incarico di progettare nuove abitazioni viene affidato ad architetti di alto profilo

nella cultura architettonica nazionale e le costruzioni, che offrono standard qualitativi di

buon livello, si inseriscono in un progetto urbanistico complessivo che prevede la nascita di

nuovi quartieri residenziali nelle aree prossime agli stabilimenti. La prima realizzazione è de-

gli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, che già hanno lavorato alla progettazione dei nuovi

stabilimenti di Ivrea. Nel 1939-1941 ad opera dei due architetti sorge una casa di tre piani nel

Borgo Olivetti, a ridosso della scuola materna, per ospitare 24 famiglie. Il progetto si ispira ai

canoni dell'architettura moderna internazionale di quegli anni, con volumi riconducibili a fi-

gure geometriche elementari. Tra il 1940 e il 1942 gli stessi Figini e Pollini realizzano non

lontano dal Borgo Olivetti un complesso di sette case per famiglie numerose. È l'inizio del

quartiere di via Jervis, che nel dopoguerra si espande con abitazioni progettate da Marcello

Nizzoli e Gian Mario Oliveri: sei case unifamiliari per dirigenti dell'Olivetti (1948-1952), due

case di 4 alloggi ciascuna (1951) e la cosiddetta “casa a 18 alloggi” (1954-55). Nel 1943, con la

costruzione di un fabbricato di 3 piani da 15 alloggi l'Olivetti avvia i lavori per il quartiere di

Canton Vesco a Ivrea. Il progetto è di Ugo Sissa, che nel 1945-46 insieme a Italo Lauro realiz-

za nella stessa area altri due edifici. Seguono, tra il 1943 e il 1954, altri sette fabbricati, tutti

direttamente finanziati dalla Olivetti. All'ampliamento del quartiere contribuiscono anche

quattro case di Annibale Fiocchi (capo dell'Ufficio Tecnico Olivetti tra il 1947 e il 1954) e Mar -

cello Nizzoli. La collaborazione tra Fiocchi e Nizzoli è determinante anche per l'avvio di nuo -

ve iniziative nel contiguo Canton Vigna. Qui nel 1950-51 si costruiscono tre fabbricati basati

su tre diverse tipologie costruttive (“A”, “B”, e “C”), che nella zona verranno replicate con al-

tre costruzioni. È il primo cantiere aperto dall'Olivetti con i contributi finanziari di Ina-Casa;

in seguito, per il completamento delle abitazioni in quest'area l'Olivetti ricorrerà anche all'I -

stituto Autonomo Case Popolari (IACP) di Torino, fornendo comunque gratuitamente il pro-

getto e l'assistenza tecnica. Il quartiere di Canton Vesco si espande (le ultime costruzioni nel -

le aree ancora libere sono del 1976) secondo un modello, tipicamente britannico o scandina-

vo, che prevede infrastrutture varie, scuole, servizi commerciali e sociali (la chiesa è progetta-

140

Page 141: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

ta da Nizzoli e Oliveri, la scuola materna da Ridolfi e Frankl, quella elementare da Ludovico

Quaroni) capaci di rendere il quartiere semi-autonomo. Per fronteggiare la crescente doman-

da di abitazioni, connessa all'espansione dell'Olivetti, tra il 1958 e il 1962 l'azienda promuove

un altro insediamento residenziale a est di Canton Vesco, nell'area denominata la Sacca (o

Montemarino), dove in seguito sorgeranno varie costruzioni di cooperative di dipendenti Oli-

vetti. A sud di Canton Vesco viene progettato il nuovo quartiere di Bellavista, per 4000 abi -

tanti. La progettazione urbanistica, affidata nel 1957 a Luigi Piccinato, prevede che il com-

plesso, con ampie aree verdi e a bassa densità abitativa, sia delimitato da una strada perime -

trale da cui si dipartono le vie di accesso ai vari edifici; al centro sono posizionati la chiesa, le

scuole e gli edifici per i servizi. Le prime costruzioni sono del 1960-61 con finanziamenti

ottenuti da Ina-Casa; in seguito, accanto alla Olivetti interverranno anche la Gescal e l'IACP.

Anche al di fuori di Ivrea, in altre aree di presenza aziendale come Aglié (TO), Roma e Massa

Carrara, l'Olivetti costruisce case per i dipendenti. Ma il quartiere Olivetti più interessante è

certamente quello di Pozzuoli, posto in prossimità della fabbrica e realizzato in collaborazio-

ne con l'Ina-Casa. Il progetto, contestuale a quello dello stabilimento, è affidato nel 1951 da

Adriano Olivetti a Luigi Cosenza. Tra il 1952 e il 1963 vengono realizzati tre lotti; le case

sono disposte secondo uno schema a corte, in una sequenza continua di fabbricati di due o

tre piani uniti dai corpi scala all'aperto.

La politica abitativa dell'Olivetti si completava con l'assistenza gratuita e il finanziamento

agevolato dei dipendenti interessati alla costruzione o ristrutturazione delle proprie abitazio-

ni. L'ente aziendale incaricato era l'Ufficio Consulenza Case Dipendenti (UCCD). Qualsiasi di-

pendente poteva presentarsi all'Ufficio del Personale e richiedere un mutuo per costruire o ri-

strutturare la casa, un finanziamento nel caso avesse da sostenere una grossa spesa o una fi-

dejussione bancaria. I prestiti venivano accordati senza richiedere particolari informazioni o

garanzie ed erano concessi a un tasso d'interesse più basso del mercato. Nel caso dei mutui

per le case, l'unico vincolo era che gli aspetti tecnici e architettonici del progetto fossero cu-

rati da un architetto messo gratuitamente a disposizione dall'azienda. In particolare due ar-

chitetti Aventino Tarpino e Ottavio Cascio, che erano anche dirigenti interni, avevano il preci-

so compito di disegnare gratuitamente i progetti per tutti i dipendenti, per evitare, sosteneva

l'ingegner Adriano, che si mettessero nelle mani di geometri che avrebbero potuto deturpare

il paesaggio. Grazie alla consulenza e ai prestiti fornita dall'UCCD con architetti di prim'ordi -

141

Page 142: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

ne si è diffuso nel territorio un certo gusto e stile architettonico che ha influito positivamente

sul paesaggio edilizio.

In generale i servizi finanziari erano molto sviluppati all'Olivetti e a tal proposito va ricor -

dato che il dipendente poteva anche accendere un conto corrente aziendale, il quale dava un

rendimento superiore ai conti correnti delle banche. Allora c'erano molti degli operai che vi-

vevano quasi senza bisogno dello stipendio, perché erano piccoli contadini, avevano il campo,

coltivavano l'orto, allevavano le galline e quindi avevano comodità a lasciare il loro salario

quasi intero sui conti correnti Olivetti.

La morte di Adriano Olivetti nel 1960 segna una svolta anche nella politica edilizia della So-

cietà: cambiano i criteri di selezione degli architetti, alcuni progetti sono rallentati o abban-

donati. Mentre i vincoli di bilancio diventano più stringenti, migliorano le condizioni socio-e-

conomiche dei dipendenti, il cui numero a partire dagli anni Settanta inizia a calare. Poco alla

volta sfumano, quindi, le ragioni che avevano giustificato i rilevanti investimenti dell'azienda

per fronteggiare il problema dell'abitazione dei dipendenti.

II.3.2.8 Le iniziative artistico-culturali

Introduzione

La cultura come strumento di arricchimento e crescita personale. Ma anche occasione di ri-

flessione critica, di presa di coscienza e mezzo di emancipazione sociale per le categorie più

disagiate. Sono queste le idee che spingono Adriano Olivetti a promuovere in modo sistemati-

co ogni iniziativa che possa contribuire ad accrescere il livello culturale dei dipendenti e del -

l'ambiente sociale in cui sono inseriti. Tutto ciò era strettamente legato alla convinzione, viva

nell'ingegner Adriano, che quelli che entravano all'Olivetti dovessero uscirne umanamente e

intellettualmente arricchiti. «Organizzando le biblioteche, le borse di studio e i corsi di molta

natura, in una misura che nessuna fabbrica ha mai operato, abbiamo voluto indicare la nostra

fede nella virtù liberatrice della cultura, affinché i lavoratori, ancora troppo sacrificati da mil -

le difficoltà, superassero giorno per giorno una inferiorità di cui è colpevole la società italia-

na», spiegava in un discorso pubblico a Ivrea nel 1955. La sua industria doveva essere un

mondo aperto; chiamava letterati e poeti affinché l'azienda vivesse immersa nel circuito più

vasto possibile delle idee e della elaborazione culturale. La parola "sponsorizzazione", è una

142

Page 143: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

parola che nel vocabolario olivettiano non è mai rientrata. Adriano Olivetti si rendeva conto

che un'azienda, un'industria, aveva una responsabilità nei confronti dell'ambiente in cui veni-

vano installate le sue fabbriche, le quali rappresentavano comunque un fatto traumatico, un

elemento di rottura rispetto al passato. L'azienda aveva degli obblighi nei confronti del terri-

torio. Se l'Olivetti promuoveva un evento culturale, non lo faceva come sponsor, cioè come

colui che si limita a pagare: lo faceva in maniera coinvolgente, per compensare in qualche

modo il cambiamento, la discontinuità introdotti dalla presenza di un'industria nel contesto.

D'altra parte l'interessamento a livello dei dipendenti, nonostante la maggior parte provenis-

se da un ambiente rurale, povero di stimoli culturali, era molto diffuso. Ottorino Beltrami si

rese conto dell'eccezionale livello di coinvolgimento, e non solo di quello, quando una volta

fu

«invitato a una serata in biblioteca. Erano riunioni serali a cui intervenivano personalità di

primo piano, che a quei tempi a me sembravano dei veri mostri sacri. Quella sera c'era Gae-

tano Salvemini e il tema era la ricostruzione del Paese e della democrazia. Dopo un breve in-

tervento dell'ospite, iniziava la discussione che durava fino a tardi. C'erano anche degli ope-

rai che chiedevano d'intervenire, magari passando avanti allo stesso Adriano Olivetti, il qua-

le non diceva niente, anzi, stava lì tutto contento a vedere che gli operai s'interessavano di

cose che apparentemente erano al di là di quello che comportava la loro paga. Mi sorprese

l'estrema libertà e democrazia con cui tutti interloquivano. Adriano parlava come se fosse

uno dei tanti: lo interrompevano anche. Non ho mai visto un simile esempio di democrazia

neppure in America: erano tutti eguali, una cosa emozionante, da far venire i brividi. Mi

sembrava di essere entrato nella città dell'utopia.»

Si trattò quindi di un felice caso di alleanza tra l'industria e la cultura, tra la cultura umani-

stica e il mondo della produzione e dell'impresa? Luciano Gallino è convinto che Adriano Oli -

vetti si sarebbe meravigliato se qualcuno gli avesse parlato, pensando d'interpretare il suo

modo d'agire, di una ricerca di alleanza tra industria e cultura, tra azienda e mondo intellet -

tuale. L'industria e la cultura per lui erano un tutt'uno. Non era pensabile proporre un pro-

dotto, o un'azienda che fosse in sé grigia, opaca, uniforme, e allo stesso tempo poi sovvenzio-

nare mostre d'arte o commissionare cataloghi dalla grafica smagliante. Egli avvertiva vera-

mente una profonda identità tra il costruire, il produrre e il fare cultura, il diffondere valori

estetici. Cultura e arte, dunque, non solo come elementi indispensabili nella vita di una perso-

na ma anche come elementi inseparabile dalla vita di un'impresa. Fare e diffondere cultura

andava incluso negli obiettivi strategici, essendo essa ritenuta una delle forme rivelatrici più

143

Page 144: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

importanti, foriera di creazione e rinnovamento, uno, insomma, dei fondamentali motori del-

l'impresa stessa.

Così sulle pareti dei luoghi di lavoro e di rappresentanza erano distribuiti stampe e dipinti:

Morandi e Mafai, De Chirico e Carrà, Guttuso, Melli, De Pisis, Cadorin, Rosai, Semeghini, Cassi-

nari, Tosi, Santomaso, Morlotti, Dorazio, Nizzoli, Ciarrocchi, Trombadori; tra gli stranieri,

Bonnard, Kandinskij, Vasarely, Klee, Sutherland, Alechinsky, Vuillard. Compaiono sculture di

Emilio Greco, Arnaldo Pomodoro, Carlo Scarpa, Alberto Viani. E il passaggio dei numerosi ar-

tisti lasciava sempre una traccia, come l'anteprima in fabbrica di un concerto di Luigi Nono o

il magnifico affresco di Guttuso alla parete di uno stabilimento industriale. Possiamo farci

un'idea di quanto l'ambiente aziendale fosse permeato dalla cultura, leggendo il ricordo di

Umberto Chapperon del suo arrivo a Ivrea:

«La seconda cosa che mi colpì fu che, mentre in genere in provincia si consuma cultura e

non la si produce, lì invece accadeva esattamente il contrario: Ivrea era una provincia che

produceva cultura. Ricordo che proprio il primo giorno di lavoro andai a cena con un archi-

tetto romano, una delle tante persone che capitavano in Olivetti e che si fermavano per un

certo tempo, in questo caso a occuparsi di piani regolatori o di altre cose. Uscendo dal ri-

storante, m'indicò un signore con un trench verdolino, che passava un po' curvo davanti

alla stazione e che pareva stanco, anche se era giovane; l'architetto mi disse: «Vedi, quello è

un poeta». Era Paolo Volponi. Queste sono le prime immagini dell'Olivetti che mi si sono

impresse nella memoria.»

Le iniziative del Centro Culturale

Dal punto di vista organizzativo, il Centro era sottoposto alla Direzione Relazioni Aziendali

che ne fissava il budget; la sede principale si trovava in via Jervis, negli edifici riservati ai Ser-

vizi Sociali, ma aveva delle sedi decentrate presso i vari stabilimenti. Il Centro era coadiuvato

dal Consiglio di Gestione. Il suo compito sostanzialmente era quello di mettere a disposizio-

ne, non solo dei dipendenti dell'azienda ma anche di quanti abitano nel territorio circostante,

una serie articolata di servizi a sfondo culturale e di organizzare eventi. Gli intenti sono sia di

carattere ricreativo che di carattere formativo e divulgativo, e al tempo stesso di approfondi-

mento di temi di solito trascurati o poco sviluppati dalle usuali fonti e sedi di conoscenza e

d'informazione, mentre sono escluse l'istruzione e la formazione professionale, demandate

entrambe agli appositi istituti.

144

Page 145: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

In 14 anni, tra il 1950 e il 1964, organizza 249 conferenze, 71 concerti di musica da camera,

103 mostre d'arte e altre 52 manifestazioni di vario genere. Non solo letture, proiezioni, mu-

sica, mostre, spettacoli, ma anche corsi, lezioni, discussioni, incontri, cicli di conversazioni,

sempre o spesso correlati a movimenti contemporanei d'idee, al pensiero umanistico, al fare

scientifico, alle realtà tecnologiche, al vivere quotidiano, alla cultura del lavoro in azienda. A

una mostra dedicata, nel 1950, a 25 anni di pittura italiana, seguono mostre di scultura e pit -

tura che fanno incontrare, fra gli altri, Carrà, De Pisís, Casorati, Munari, De Chirico, Metelli,

Guttuso, Rosai. Il Centro Culturale organizza incontri pubblici in cui si susseguono e alterna-

no presenze di segno diverso: tra i molti, politici come Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi,

Franco Antonicelli, Aldo Garosci; filosofi come Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Guido Ca-

logero, Enzo Paci; giuristi come Arturo Carlo Jemolo; scrittori, critici e artisti come Carlo Cas-

sola, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Eugenio Montale, Umberto Eco, Gianni Rodari, Carlo

Bo, Massimo Mila; personaggi illustri del teatro e del cinema come Gassman, De Filippo, Buaz-

zelli, Fo, Bene. Anche la Società Musicale Olivetti, costituita nel 1966, è uno degli organismi

che nel Centro Culturale hanno trovato la sede ideativa, continuando poi a crescere all'ester-

no dell'azienda, in maniera in parte autonoma anche dal punto di vista del finanziamento. La

maggior parte dei concerti è stata fatta nel Teatro Giacosa. Infine, sono da ricordare anche i

recital. Avevano per protagonisti solisti di musica moderna, cantanti, attori di teatro e si

svolgevano nei locali di accesso e soggiorno annessi alle mense aziendali degli stabilimenti

Olivetti. Talvolta infatti gli eventi venivano organizzati durante la pausa pranzo, che in quegli

anni dura un paio d'ore, nei pressi degli stabilimenti (il “salone dei 2000”) o della mensa così

da favorire una maggiore partecipazione.

Ma l'ampia partecipazione di cui godevano le iniziative del Centro, non dipendeva soltanto

dal luogo e dal momento in cui avvenivano, o dal fatto che venissero portati a Ivrea artisti e

personalità di norma presenti solo nelle grandi città. A detta di Adriano Bellotto il consenso

era dovuto all'intento di fondo, che era di favorire sempre una coscienza critica, un costume

democratico, e che sia stata apprezzata la proposta di una cultura del tempo libero, di un'e-

ducazione permanente, di una partecipazione allo sviluppo sociale del territorio. Bisogna co-

munque sottolineare che un peso rilevante lo ebbe la qualità dell'offerta, non tanto per i livel-

li di eccellenza comunque talvolta toccati, ma per il suo essere decisamente alternativa ri-

spetto a ciò che proponevano, o imponevano, l'industria dello spettacolo ricreativo, la radio e

la televisione di consumo. Gli obiettivi del Centro Culturale e delle biblioteche Olivetti erano

145

Page 146: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

infatti la ricerca di una durevole qualità, non elitaria ma pur sempre di alto livello, non appa-

riscente ma sistematica. E proprio come tale venne accolta a tutti i suoi livelli di utenza.

Le Biblioteche di Fabbrica

Il primo nucleo di attività culturali ha come sede operativa e propulsiva la Biblioteca Olivet-

ti, funzionante fino dagli anni della guerra, quando ne era direttore Umberto Campagnolo.

Agli inizi prevalgono le finalità ricreative, ma già allora in Biblioteca venivano proposti alcuni

programmi d'istruzione popolare, corsi di lingue straniere, cicli di conferenze. Quanto ai libri,

se si va a controllare nei vecchi "registri d'ingresso", si vedono comparire i titoli di testi rari e

fondamentali in campo religioso, politico, sociologico, in buona parte di autori europei e nor-

damericani allora poco conosciuti in Italia, alcuni dei quali vennero poi pubblicati dalle Edi-

zioni di Comunità. Nel 1940 Adriano Olivetti consolida l'offerta di testi con l'acquisizione

della biblioteca di Piero Martinetti, che ha insegnato filosofia teoretica all'Università di Mila-

no, e di quella dell'insigne economista Marcello Soleri. Dalla Biblioteca Centrale hanno origine

le varie Biblioteche di Fabbrica.

Nel 1948, la direzione della Biblioteca passò a Geno Pampaloni, che poco dopo diede vita al

Centro Culturale, formando un'unica entità in senso sia programmatico che operativo. Quan-

do a capo della Biblioteca fu posto Luciano Codignola, anzitutto le attività della biblioteca

vennero ampliate: si proposero nuovi cicli di conferenze, corsi di cultura popolare e anche al-

cune iniziative di richiamo, destinate poi a diventare sistematiche negli anni successivi, come

proiezioni di film, fiction e documentari, mostre d'arte. Quando ne assume la direzione Ludo-

vico Zorzi, la biblioteca viene utilizzata come sede operativa e propulsiva dell'intero ventaglio

di attività, che intanto si è ulteriormente allargato, e comprende una lunga e articolata serie

d'iniziative. Per favorire l'accesso dei dipendenti, vincolati da orari e ritmi di lavoro, si decen-

trano le sedi di lettura e di prestito dei libri: ora non si parla più di Biblioteca, ma di Bibliote-

che Olivetti.

Le sedi di lettura, prestito e consultazione sono sei, una del settore tecnico e cinque delle

biblioteche culturali e ricreativo-divulgative: in via Jervis, al primo piano dell'edificio dei Ser-

vizi Sociali; nello stesso edificio, ma al piano terreno: nella mensa aziendale di via Monte Na -

vale; nella mensa annessa agli stabilimenti d'Ivrea-San Bernardo; nella mensa annessa agli sta-

bilimenti di Scarmagno. Anche a Pozzuoli c'era una biblioteca di fabbrica molto ben fornita e

anche in questa organizzavano mostre e conferenze, chiamando docenti universitari e in ge-

146

Page 147: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

nerale personaggi di spicco della cultura napoletana che spesso andavano a parlare in stabili-

mento, durante l'intervallo di mensa, su problemi di attualità, politici e sociali.

Zorzi, in un documento del 1964, fa il punto della situazione: i volumi disponibili sono

90.000, suddivisi in tre diverse sezioni denominate nel lessico aziendale "culturale", "divulga-

tivo-ricreativa" e "tecnica". Quest'ultima contiene circa 30.000 e raccoglieva testi e riviste su

argomenti di interesse aziendale: ingegneria, matematica, fisica, elettronica, economia e ma-

terie giuridiche e pertanto era riservato ai soli dipendenti dell'Olivetti. La sezione divulgativo-

ricreativa è la più estesa: 40.000 volumi di narrativa e letteratura contemporanea, saggistica

di attualità su svariati temi. Comprende anche 2.000 volumi dedicati a bambini e ragazzi, per

i quali è disponibile una saletta attrezzata con basse scaffalature, sedie e tavolini apposita -

mente studiati. Il patrimonio librario di carattere culturale era composto di 20.000 libri e rac-

coglie opere in prevalenza umanistiche: architettura, arte, classici dai latini agli italiani, fran-

cesi, inglesi e in altre lingue, critica letteraria, filosofia, poesia, religione, scienze, storia, tea-

tro e altro. Al suo interno il settore delle opere di consultazione (dizionari, enciclopedie, gui -

de, manuali di ogni genere) era molto ampio e continuamente aggiornato. Vi era annessa an-

che un'emeroteca costituita da circa 2.500 testate di giornali e riviste, metà delle quali stra-

niere. A partire dagli anni '90 viene dapprima decisa la cessione dei volumi della sezione di-

vulgativo-ricreativa alla Biblioteca Civica d'Ivrea; poi, poco alla volta, anche le altre sezioni

vengono smembrate e in gran parte cedute.

La biblioteca aziendale Olivetti anticipava, nei metodi e nella disponibilità di consultazione

e di prestito, i più aggiornati principi della moderna biblioteconomia. Essendo aperta a tutti i

cittadini, svolse di fatto le funzioni di una biblioteca civica. Erano molti gli studenti e i ricer-

catori che venivano da tutto il Piemonte e dalla Lombardia per consultare le opere specialisti-

che, particolarmente nei campi delle scienze sociali, della storia dell'arte, delle materie uma-

nistiche, filosofiche, politiche, dei classici e dei periodici specializzati.

In fabbrica i lettori erano soprattutto giovani, di area sia operaia che impiegatizia, con pre-

valenza femminile. Nelle biblioteche a carattere divulgativo-ricreativo, il primato l'aveva la

narrativa (la quota dei prestiti raggiungeva il 40-45%). Seguivano i libri di storia, politica, so-

ciologia, viaggi, saggistica varia, narrativa per ragazzi, poesia. L'uso del servizio fu piuttosto

intenso, come lasciano intendere le statistiche di Zorzi: nel 1963 i prestiti a domicilio sono ol-

tre 72.000, senza contare circa 36.000 consultazioni fatte in sede e quasi 1,5 milioni di con -

sultazioni di giornali e riviste. Ma i numeri non bastano. Non possono bastare per compren-

147

Page 148: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

dere quanto un apparato bibliotecario così ben fornito e organizzato rappresentasse un se-

gno di rottura, un elemento di innovazione per quei tempi (ma in parte lo sarebbe ancora

oggi) e cosa volesse dire per dei semplici operai e impiegati avere a disposizione per la prima

volta nella vita un'offerta culturale talmente ampia e di qualità. Non potremmo comprendere

appieno tutto ciò senza ascoltare le memorie di chi queste cose le vide con i propri occhi.

Ecco le impressioni di Gianfranco Ferlito, che nella sua carriera all'Olivetti ricoprì vari ruoli

da quello di operaio a quello di dirigente:

«La cosa d'Ivrea che mi ha colpito, fin dai primi giorni, era vedere che alla sera, questa ma-

rea di gente che usciva dall'Olivetti e s'indirizzava verso i pullman era in gran parte costitui-

ta da persone benvestite, vivaci, spesso con dei libri sotto il braccio; questa è stata forse la

cosa che mi ha colpito di più, perché veder leggere qualcuno a Cuorgnè era una cosa vera -

mente rara; invece qui molti operai, non solo nell'intervallo di mensa, frequentavano la bi-

blioteca, ma i libri li portavano a casa. Ho capito che c'era un mondo diverso». Cleto Casso-

vella, operaio e sindacalista, ricorda che: «Durante l'esperienza della realizzazione di un cir-

colo operaio a Ivrea dedito prevalentemente allo studio dei classici del marxismo, per stu-

diare usavamo la Biblioteca dell'Olivetti. Era una struttura eccezionale, cioè vi si trovava tut-

to: qualsiasi libro noi cercassimo potevamo averlo, e questa era un'altra cosa straordinaria».

Quello di Giovanni Truant, ex ingegnere a capo di tutta Produzione, non è solo un bel ricor -

do ma anche un amaro rimpianto: «Avevamo due ore di pausa a pranzo, e in quelle ore mi

sono visto l'intero ciclo dei film di Fellini. Questo le dà già un'idea dell'azienda: un'azienda

che durante la pausa ti permetteva di dedicarti a conoscere il cinema oppure alla lettura di

un libro o alla lettura dei giornali in biblioteca. Un giovane che arrivava dall'università si sa -

rebbe aspettato di trovare gente che ti spremeva di continuo, che ti chiedeva di produrre

sempre di più; invece no, qui ti lasciavano il tempo per poterti acculturare. Siamo andati

avanti così fino all'arrivo dell'ingegner De Benedetti; poi le biblioteche di stabilimento e i

giornali sono spariti, è stato un primo segnale.»

Altri servizi culturali

Il Cineclub Ivrea, tuttora attivo, venne avviato agli inizi degli anni Sessanta, a opera di un

gruppo di appassionati. Nel 1964 trovò la sede organizzativa presso la Biblioteca Culturale

Olivetti di via Jervis, mentre le proiezioni avvenivano in sale pubbliche, per i soci abbonati.

Ebbe da subito totale autonomia di funzionamento e grazie al suo tipo di offerta, non di élite,

148

Page 149: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

non solo per i cinefili, ma per tutti, l'attività ottenne successo. Un'iniziativa singolare fu quel-

la di Tour-Art Club, il cui scopo era organizzare viaggi in comitiva per visitare, con la guida di

esperti, monumenti e gallerie d'arte in Italia e all'estero. Ebbe vita breve, ma l'esperienza ac-

quisita venne estesa al Gruppo Sportivo e Ricreativo Olivetti, che poi svolse attività analoghe.

Questo Gruppo, costituito nel 1947, organizzava in modo autonomo manifestazioni sportive

e viaggi riservati ai dipendenti e ai loro familiari, i quali potevano partecipare pagando le re-

lative quote. Siccome l'azienda contribuiva al costo di dette iniziative, le quote a carico dei

partecipanti erano in genere molto convenienti in relazione a quello che offrivano le agenzie

private.

149

Page 150: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

CAPITOLO III

CONFRONTO E CONCLUSIONI

150

Page 151: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

III.1. Comparazione

III.1.1 Il codice etico

L'Olivetti dell'Ingegner Adriano, come in precedenza abbiamo notato, possedeva sì dei valo-

ri etici fondamentali posti alla guida dei comportamenti dei suoi attori, ma questi non venne-

ro mai codificati. L'Olivetti non possedeva quindi un Codice Etico alla maniera della moderna

Csr, ma non per questo l'azienda era meno intrisa di quei principi, anzi. Tali valori non furo-

no mai formalizzati in un documento scritto ma rimanevano comunque desumibili da diversi

elementi quali le parole pronunciate da Adriano nei suoi discorsi ai dipendenti, le sue scelte

imprenditoriali, il suo modo di comportarsi nel comandare, insomma dal suo stile di leader-

ship. Uno stile capace di ispirare e propagarsi in tutti i livelli della struttura gerarchica, non

solo di riflesso, ma radicandosi in profondità nelle persone, le quali appunto non vi si confor-

mavano semplicemente. In questo senso i comportamenti etici di tutti, non erano una copia

ricalcata sull'esempio dell'ingegnere. Al contrario, comprendendone tutti il senso, in parte li

accettavano e li assimilavano a fondo nella propria personalità, in parte li sentivano già inti-

mamente affini alle proprie convinzioni, già presenti dentro di loro e, avendo trovato un am-

biente giusto che li mettesse a loro agio, li tiravano fuori in modo naturale. Non si trattava

quindi di imporre un elenco di norme comportamentali definite, di controllarne l'applicazio-

ne da parte di tutti ed eventualmente punire o correggere i trasgressori. L'Olivetti non ebbe

mai bisogno di istituire un organo di vigilanza. Perché il senso di responsabilità era natural-

mente diffuso nell'ambiente aziendale, percepibile a tutti i livelli, “respirabile” nell'aria della

fabbrica. Giovanni Truant ribadisce questo concetto spiegando come fossero «stati formati

tutti allo stesso modo senza aver ricevuto un imprinting particolare: non è che ci duplicasse-

ro con lo stampino, era l'aria che respiravamo, facendo parte dello stesso team di lavoro». E

Umberto Chapperon aggiunge che addirittura i motivi del successo dell'Olivetti secondo lui

«stavano in questa grande libertà, nella grandissima autonomia concessa alle persone che vi

lavoravano. Nella mia carriera non mi sono più ritrovato in una situazione di fiducia tanto in-

condizionata. Questa fiducia mi caricava anche di grande responsabilità, e generava a sua vol -

ta dedizione verso l'azienda».

151

Page 152: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Insomma tutti, dal dirigente al manovale, dal quadro al sindacalista, sentendosi partecipi di

una struttura che li rispettava sinceramente considerandoli una persona prima che un dipen-

dete, sembravano non poter fare a meno di comportarsi in modo eticamente corretto. Per

questo più che di Codice Etico, riguardo all'Olivetti sarebbe più appropriato parlare di Cultu-

ra Etica. Una peculiare forma mentis, un particolare modo di ragionare e di concepire la vita e

i rapporti interpersonali in cui si esplica. Questa cultura non possedeva rigidità formale, ma

non di meno era qualcosa di palpabile e non di meno la ricerca della sua diffusione, unita-

mente al mantenimento della sua spontaneità, era un obiettivo strategico di cui i capi del Per -

sonale avevano piena coscienza. Un obiettivo sì a lungo termine, ma non da realizzare entro

un dato limite temporale, bensì da perseguire con continuità; non una meta da raggiungere

ma una mentalità da tenere costantemente viva. Tant'è vero che il motore della cultura Olivet-

ti non fu soltanto il suo presidente (lui era l'iniziatore, quasi una figura simbolica, esempio e

punto di riferimento per tutti), ma la linfa vitale le proveniva soprattutto dai dipendenti in

genere e in particolar modo da chi occupava posizioni di comando. Che all'Olivetti i capi del

Personale ne avessero piena coscienza e si preoccupassero che detto apporto di linfa non ve-

nisse mai a mancare, è dimostrato dal fatto che la creazione di cultura olivettiana venisse

perseguita fin dall'inizio, cioè fin dalle assunzioni, soprattutto quelle di neolaureati, i quali

secondo le previsioni avrebbero un giorno ricoperto un ruolo di comando. Adriano stesso

aveva la passione per le assunzioni e lui per primo se ne occupò impostandole secondo la sua

politica. In tal modo diede inizio a un circolo virtuoso secondo il quale alcuni di quelli da lui

personalmente scelti perché in possesso, almeno in potenza, di quella forma mentis olivet-

tiana, a loro volta messi a fare selezione, introducevano nell'azienda altre persone affini a

quella mentalità, e così via. Come sintetizza Ettore Morezzi, s'intese «mettere le persone in

condizione di esprimere il meglio di se stesse, avendo scelto quelle che hanno molto da espri-

mere». Così, chi si occupò di selezione del personale all'Olivetti, fu sempre attento a valoriz -

zare l'orizzonte d'interessi dei candidati laureati: l'apertura culturale esprime il senso della

complessità del reale, l'attitudine a considerare tutte le componenti della vita organizzativa

quando si deve interpretare, giudicare, decidere. L'attenzione all'apertura culturale delle per-

sone che entrano, sommata alla proposta di temi di cultura generale (accanto all'avanzatissi-

ma formazione tecnica) nelle scuole aziendali, ai servizi e iniziative culturali dell'azienda,

convergono nel costruire un mondo disponibile a un costante aggiornamento e anche a radi-

cali cambiamenti, uno spirito aziendale che non si appaga di una riuscita sufficiente ma in-

152

Page 153: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

tende realizzare l'eccellenza, elementi essenziali per la costruzione di un clima aziendale ido-

neo al dispiegamento di comportamenti etici. Molto probabilmente, proprio grazie a un am-

biente di tal fatta, nessuno si sentì obbligato a comportarsi a quella maniera. Al contrario per

tutti era una cosa naturale, tanto che molti non si rendevano quasi conto della unicità del cli -

ma Olivetti nel panorama imprenditoriale, ma pensavano che in un'azienda non potesse esse-

re altrimenti, non rendendosi conto di partecipare a qualcosa di incredibile.

Tutto ciò è dimostrato dalle varie testimonianze sull'impressione che suscitò il radicale

cambiamento della politica delle risorse umane con l'entrata al vertice di De Benedetti. A tal

proposito ecco il ricordo chiarificatore di un episodio vissuto da Gianfranco Ferlito, ex Diret-

tore Operativo della Qualità:

«Che cosa ho progressivamente notato nella gestione del personale negli anni ottanta?

Quando hanno cominciato a profilarsi le prime difficoltà in Olivetti e si è cominciato a par -

lare di Cassa Integrazione, ho notato che nella gestione del personale tendeva a prevalere

(probabilmente per necessità...) una gestione più amministrativa delle persone. Le scelte per

individuare le liste delle persone da mettere in Cassa Integrazione (un fatto sempre molto

doloroso, perché non ci si era affatto abituati) mettevano in crisi i gestori del personale del-

la tradizione Olivetti, che via via venivano o sostituiti o affiancati da gestori molti giovani, i

quali non portavano con se la cultura aziendale precedente. Questo ha rappresentato la pri-

ma frattura tra l'azienda e le persone che vi lavoravano. Si è cominciato a rompere il patto

di fiducia tra le persone e il vertice. Voglio citare un episodio per me significativo. Stavo an-

dando al Palazzo Uffici a presentare la lista di seicento dipendenti da mettere in Cassa Inte-

grazione e in Mobilità; era ottobre e io sapevo già di dover uscire il 31 dicembre. Dico la ve-

rità: anch'io, quando ero dentro, non accettavo di buon grado di dover uscire; ero imbaraz-

zato, triste, in questo caso portavo con me la rabbia di dover andare a presentare questi sei -

cento nomi: bisognava presentarli a un Personale famelico, che sollecitava... anzi: «Se sono

più di seicento, meglio ancora!», e cose di questo tipo... Quando arrivo al Palazzo Uffici, sal -

go al sesto piano, il piano nobile, esco dall'ascensore e sento un vociare animato: un grup-

petto di alti dirigenti, che conoscevo bene, stava discutendo vicino alle scale. Io ho la mia li-

sta di nomi in mano, e mi dico: "Ma guarda un po'… sta' a vedere che magari qualche movi-

mento arriva anche qui, forse anche loro si sentono un po' più coinvolti nelle decisioni che

sono state prese per demolire quest'azienda". Avvicinandomi, ho capito che non era di liste,

di cassintegrati o di cose simili che stavano discutendo: erano tremendamente arrabbiati

perché il giorno prima erano state assegnate le auto aziendali, e c'era chi aveva avuto la The-

ma e invece voleva l'Alfa 164. Solo dieci anni prima, cose di questo tipo non sarebbero state

153

Page 154: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

concepibili, perché il senso di appartenenza, l'orgoglio e anche, me lo lasci dire, la dignità di

rappresentare l'azienda non lo avrebbero permesso. Si era persa anche la dignità.»

Pier Carlo Bottino, ingegnere e ufficiale di Marina messo a capo della produzione, contribui -

sce con le sue particolari considerazioni:

«In Olivetti non c'era competizione sleale, non c'era l'attitudine a mettere trabocchetti, a

fare sgambetti (cosa che invece mi è capitato di riscontrare in aziende dove ho lavorato in

tempi successivi); c'era, al contrario, una forma di collaborazione corretta, serena, che allora

a me sembrava del tutto normale, dal momento che arrivavo dalla mia particolare formazio-

ne [tre anni imbarcato sulle fregate nel Tirreno]. Mi sono reso conto solo dopo che altrove

non era così. Questa considerazione sul clima che ho immediatamente avvertito al mio arri-

vo in Olivetti è una premessa necessaria. Lo spirito dominante in Olivetti era uno spirito di

collaborazione fra tutti, di spontaneo autocontrollo sulle naturali tendenze al protagoni-

smo. Credo che la cosa più importante fosse la tranquillità che si potesse sbagliare senza

doverlo nascondere, la trasparenza nei rapporti.»

Anche l'esperienza vissuta da Giovanni Maggio è un prezioso contributo:

«I nuovi entrati sono certo portatori di tecnologie, di know-how organizzativo, di visioni del

mercato innovative, ma sono anche portatori di un atteggiamento, direi, di tipo colonialista,

da conquistadores; era gente che, tutto sommato, con l'Olivetti di Adriano aveva poco a che

fare, che l'osservava e giudicava con fastidio e non vedeva l'ora di modificarla, appiattirla,

dimenticarla. Ricordo un episodio particolare, che mi fece veramente impressione: nel ma-

nagement si discuteva spesso, a cena o altrove, anche di libri, di film, di cultura generale.

Era l'anno de Il Padrino, il 1972-74: a me questo film era piaciuto e dispiaciuto. Mi era pia-

ciuto per le performance degli attori, però non mi era piaciuto per la sua visione della mafia.

Mi trovai a discuterne con un nuovo arrivato, al quale il film invece era piaciuto proprio per

questa dura visione della realtà americana. Gira e rigira, alla fine affermò: «È così che biso-

gna fare: bisogna riuscire a essere così forti che le offerte che si fanno non possano essere

rifiutate». Era un test del fatto che stava per rompersi l'organicità del nostro management.

Ora, a distanza di anni, la cosa è più comprensibile: le opinioni sono tutte rispettabili, però

ricordo di essere rimasto colpito: allora pensai che questo nuovo compagno di viaggio non

fosse del tutto adatto alla comitiva... Aggiungo che a coloro che venivano da fuori sono stati

assegnati soprattutto dei compiti di rottura: probabilmente anche perché questa specie oli-

vettiana si era progressivamente indebolita, era esangue, non si era rinnovata. [...] E lì non

c'è stato più niente da fare: l'Olivetticidio si è completato alla metà degli anni ottanta.»

154

Page 155: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

E poi di nuovo Maggio:

«Quando c'erano riunioni con capi di consociate provenienti da zone in grave fermento poli -

tico (come, per esempio il Sudamerica) il capo di consociata, di solito, era uno che giudicava

il Paese con occhiali progressisti. Quando, una volta, un capo di consociata di cui non farò il

nome disse che il Cile dopo il golpe avrebbe risolto i problemi dello sviluppo industriale, fu

letteralmente aggredito (sul piano politico, s'intende) dai suoi pari; gli chiedevano che cosa

ci stesse a fare all'Olivetti, e questo la dice lunga su quanto sia durata la propulsione dei va-

lori di Adriano. Fino agli inizi degli anni Ottanta, quindi quasi vent'anni dopo la sua morte,

la nostra cultura d'impresa, il nostro insieme di miti e credenze sono stati caratterizzati dal -

lo spirito di Adriano. La sua fotografia è stata appesa sopra le nostre teste fino agli inizi de -

gli anni ottanta, e dietro la scrivania dei direttori di filiale c'erano allineati i volumi delle Edi -

zioni di Comunità, rappresentative di un modo di pensare un'azienda che produce anche

cultura, che è capace di capire il mondo e che diffonde i propri strumenti di analisi della so-

cietà.»

Concludendo questo raffronto sul codice etico, possiamo dire che all'Olivetti un tale docu-

mento sarebbe stato superfluo. Adriano Olivetti, ponendo la sua impresa il più possibile al

servizio del bene comune e dandone consapevolezza a tutti, riuscì a far sì che per le persone,

l’adozione di comportamenti onesti e rispettosi anche nei confronti dell'ultima ruota del car-

ro e la rinuncia al perseguimento di scopi egoistici, non fosse visto come un'anomalia. All'op-

posto, i comportamenti personalistici erano, per i dipendenti olivettiani, qualcosa di strano,

se non del tutto assurdo.

III.1.2 Welfare aziendale

La politica assistenziale d'impresa è lo strumento di responsabilità sociale che più accomu-

na lo stile di Adriano Olivetti e la Corporate social responsibility. In comune hanno la caratte-

ristica di agire in campi non coperti dal Welfare statale, integrandolo con prestazioni e inve-

stimenti. Ma tra i due c'è una differenza sostanziale dovuta al mutato rapporto tra il Welfare

di un'impresa e quello pubblico. Oggigiorno è lo Stato che per primo si assume il ruolo sia di

sostegno che di stimolo al potenziamento delle pratiche assistenziali private, tramite nume-

rosi sgravi fiscali e contributi assegnati tramite bandi pubblici. Dato che gli enti statali assicu-

155

Page 156: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

rano già una degna copertura di base ai bisogni sociali, possono quindi parallelamente per-

mettersi di incentivare quelle imprese che si impegnano in tal senso. Al contrario, ai tempi di

Adriano, essendo gravi e numerose le lacune riscontrabili nel Welfare statale, aveva senso che

fosse l'azienda ad assumersi il ruolo di stimolo alle iniziative statati tramite il sostegno fi-

nanziario e la diffusione delle best practice sviluppate.

Detto ciò, bisogna però osservare che il Welfare olivettiano possedeva un difetto che non è

presente in quello delle moderne imprese. La critica nasce dall'osservazione che col tempo

esso si sarebbe rivelato fin troppo protettivo. Se, infatti, alle sicurezze garantite dallo Stato

vengono ad aggiungersi le tutele e i servizi forniti dall'azienda in una società locale costruita

sul modello della company town, al mercato rimane ben poco spazio. Nel connubio tra istitu-

zioni e comunità, il mercato, se non virtualmente espunto, verrebbe a essere una presenza

minoritaria. Si direbbe che esso esiste, lontano, in quanto serve all'azienda per realizzare

quei profitti che alimentano una vita che sostanzialmente ne prescinde. Siamo, evidentemen-

te, agli antipodi di una società modellata sul mercato, un monstrum che gli attuali neoliberisti

fanaticamente vagheggiano. Le risorse economiche profuse nel Welfare olivettiano provenien-

ti dal mercato nazionale e mondiale, paradossalmente, erano proprio quelle che permetteva-

no di tenere fuori dal mercato, limitatamente al canavese, l'assistenza sanitaria, la scuola, la

previdenza integrativa, le attività culturali. Gallino è dell’opinione che, a quei tempi, questo

fosse un vantaggio, sia perché le famiglie di allora non avevano i redditi o i risparmi necessa -

ri per affrontare da sole il mercato di codesti servizi, sia perché questi sono un bene comune

nel quale il mercato ha dato finora mediocri prove. Secondo lui però lo svantaggio stava nella

dipendenza del Welfare locale da un'unica grande azienda mondializzata. Se quest'unica

azienda fosse entrata in crisi, o la sua direzione avesse cambiato cultura e atteggiamento,

come poi avvenne, esso avrebbe subito a breve gravi contraccolpi. È quindi d'accordo

nell'affermare che ci sarebbe voluto nella comunità locale un po' più di mercato. Però non nel

senso di aprire a questo i servizi sociali, piuttosto, nel senso che ci sarebbero volute un mag-

gior numero di aziende, magari di dimensioni minori, aperte anch'esse come la Olivetti al

mercato mondiale, e come questa disposte a investire nello «stato sociale» della zona una lar -

ga quota dei frutti raccolti su quello.

Dai tempi di Adriano Olivetti il servizio sanitario nazionale è stato molto sviluppato; il si-

stema pensionistico copre la quasi totalità della popolazione; gli enti locali, in specie i comu-

ni, offrono in tutta Italia asili e scuole materne di buona qualità. Dovremmo da ciò conclude-

156

Page 157: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

re che lo «stato sociale» olivettiano appartiene definitivamente al passato, sì che non avrebbe

più senso, ai nostri giorni, proporre che le imprese lo imitino. Ma per rispondere sì o no biso-

gna stabilire a quali interventi pubblici o privati vogliamo riferirci.

Fin dai tempi della prima Fondazione Burzio, risalente al 1932, i servizi sociali della Olivetti

hanno sempre avuto carattere integrativo, non sostitutivo del sistema assistenziale e previ-

denziale pubblico. Di fatto i loro contenuti sono stati via via modificati in rapporto all'evolu -

zione di quest'ultimo. Anzi, lo stesso personale Olivetti addetto a quei servizi aziendali con-

tribuì ad “esternalizzarli” cercando di trasferire il know-how acquisito con la decennale espe-

rienza, nelle nascenti iniziative di servizio sociale pubblico. A maggior ragione nemmeno l'in-

gegner Adriano si sognerebbe oggi di tenere in funzione, a carico dell'impresa quale soggetto

privato, dei servizi il cui onere è stato via via assunto dallo Stato o dagli enti locali.

Nondimeno è da osservare quanto gli sarebbe facile indicare ampi settori in cui le imprese

contemporanee potrebbero tuttora utilmente integrare, se mai lo volessero, l'intervento pub-

blico. Secondo Luciano Gallino il primo settore è la formazione. Poiché i ritmi di mutamento

della scuola sono inevitabilmente (ma anche appropriatamente) più lenti del mutamento tec-

nologico e organizzativo, la prima non riuscirà mai a fornire la formazione di base, nonché la

formazione continua, di cui il mondo del lavoro avrebbe bisogno. Nondimeno, sempre a detta

di Gallino, accade che nel campo della formazione le imprese italiane investano pochissimo.

In termini reali, esse investono mediamente assai meno di quanto non facesse mezzo secolo

fa la Olivetti di Adriano. Né, con rare eccezioni, posseggono istituzioni interne aventi caratte-

ristiche di portata e durata paragonabili ai suoi centri di formazione per operai, tecnici e per-

sonale commerciale.

III.1.3 Le certificazioni e gli standard

Partiamo da un semplice dato di fatto: negli anni Cinquanta e Sessanta ancora non esisteva-

no le odierne certificazione e ancora non erano stati pensati quegli organismi sovranazionali

che avrebbero dovuto formularle. Ma possiamo comunque rapportare le best practice ricono-

sciute a livello mondiale in materia di qualità, ambiente, diritti umani e del lavoro codificate

in queste certificazioni, alle politiche dell'Olivetti nei medesimi ambiti. È stato ampiamente

dimostrato l'impegno tutto olivettiano nella ricerca della qualità di prodotti e servizi pensati

157

Page 158: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

per migliorare la vita del cliente e di tutta quanta la società, nella tutela dei diritti umani, nel

rispetto dei diritti dei lavoratori e dell'ambiente (non solo in termini di inquinamento) circo -

stante la fabbrica. Ribadiamo comunque quanto la ricerca dell'eccellenza fosse il pallino di

Adriano Olivetti, il quale non poté esimersi dall'applicarla in ogni particolare della vita azien-

dale. Per fare un esempio citiamo questo significativo episodio narrato da Umberto Gribaudo,

ex responsabile della Direzione della Produzione:

«Avevo fatto studiare un posto di lavoro comodo per gli operai, cioè un posto di lavoro er-

gonomico, regolabile in altezza, a seconda della struttura dell'operaio, con l'appoggiabrac-

cia, con posti per le cassette. Di questa postazione esisteva un modello molto bello e molto

costoso, ma poi ne avevamo realizzato invece uno eguale dal punto di vista ergonomico ma

molto più economico, che aveva perso molto di stile. C'era venuta una brillante idea: l'inge-

gner Adriano doveva venire a visitare lo stabilimento ICO, nuovo e ancora vuoto: abbiamo

messo nel bel mezzo di un salone 'sto posto di lavoro. L'ingegner Adriano è arrivato, con un

codazzo di persone, e noi della produzione eravamo lì: lui è entrato in quell'enorme salone

vuoto, ha visto 'sto banco e ha esclamato: «Cos'è questo schifo?». Io mi sono fatto avanti per

cercare di difendere il lavoro mio e dei miei. Geno Pampaloni allora mi prese per il braccio,

dicendo: «Sia bravo!». Fu così che adottammo il mio modello più bello e più caro.»

Adriano, in ogni campo, fu pioniere e talvolta anticipatore delle odierne best practice. Per

avere la misura di quanto precorresse i tempi, leggiamo la testimonianza di Giovanni Avonto,

ingegnere sindacalista della CISL: «Mi affascinò subito il fatto che si respirava un clima diver-

so nei rapporti tra le persone, che non c'era problema a esprimere le proprie idee, come ver-

rà poi sancito dallo Statuto dei Lavoratori: idee politiche, sociali, religiose. Un posto di la-

voro dove ci fossero queste libertà e queste dinamiche a cui uno poteva partecipare insieme

agli altri, ragionando liberamente, intendendo anche un conflitto come qualcosa di costrutti-

vo. In Olivetti c'era una grande libertà che anticipava lo Statuto, e io la sperimentai per inte-

ro». Non c'è bisogno di ripetere quanto, in materia di rispetto dei diritti umani e dei lavorato-

ri, si distinse per le sue politiche antidiscriminatorie, oltretutto in totale controtendenza coi

tempi; per l'attenzione prestata ai dipendenti, messi al centro della fabbrica fin dalla sua pro-

gettazione, considerati come persone e non come meri fattori produttivi; per l'attenzione alla

loro formazione professionale che, oltre ad essere di altissimo livello, era integrata con mate-

rie di cultura generale. Lo Statuto dei Lavoratori, promulgato il 20 maggio 1970, all'Olivetti

era già realtà trent'anni prima. È Adriano che vuole l'istituzione del Centro Riqualificazione

158

Page 159: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Operai, il quale prepara disabili a lavorare nei reparti dell'azienda e ospita stabilmente perso -

ne alle cui limitazioni vanno adattati posti e attrezzi di lavoro e che necessitano di cura parti -

colare.

Adriano considerava un dovere andare personalmente a cercare le best practice sviluppate

nel mondo per introdurle in azienda. Così, se negli asili Olivetti era impiegato il metodo ludi-

co all'avanguardia sviluppato in Francia dal CEMEA, è grazie a lui che prese contatto con i pe-

dagogisti stranieri promotori della pedagogia attiva, e con quelli italiani che vi fanno riferi -

mento, per orientare l'attività degli asili nido e delle colonie e per formare le persone cui sa -

ranno affidati i bambini e i ragazzi. È sempre Adriano che porta la cultura psicologica e la

cultura sociologica in azienda. Ed è ancora lui che chiama a collaborare i migliori architetti

della scena internazionale, uno su tutti, Le Corbusier.

Ma per Adriano era un dovere anche cercare sempre di migliorare tali pratiche, ove lo

ritenesse opportuno. Così come fece col taylorismo dopo averlo “importato” dagli Stati

Uniti. Utilizzò l'idea della catena di montaggio ma la perfezionò (nell'ottica di un miglio -

ramento delle condizioni di lavoro) rivoluzionando i metodi da adottare per la definizio -

ne dei tempi, delle mansioni e dei cottimi. Non è un caso se il suo fu l'unico caso al

mondo di “taylorismo dal volto umano”.

Riguardo infine ai sistemi di controllo e gestione previsti da tutte le moderne certificazioni,

sostanzialmente vale quanto è stato detto in merito al codice etico. Così come non c'era biso-

gno di mettere nero su bianco i principi morali dell'impresa, essendo questi di per sé insepa -

rabili dalla stessa perché condivisi da tutti i dipendenti, suppongo che allo stesso modo non

ci sarebbe stato bisogno di adottare degli standard che prescrivessero procedure di controllo

sui comportamenti afferenti ambiti di interesse sociale. Non è necessario ripetere quanto le

diverse testimonianze concordino sul fatto che l'Olivetti (senza chiedere fedeltà, obbedienza

e conformismo, ma confidando sull'informazione condivisa, sulla visibilità delle mete genera-

li, sui rapporti di fiducia e di corresponsabilizzazione, insomma nella libertà responsabile) ot-

tenesse da tutti lealtà e correttezza nei comportamenti.

Detto ciò, bisogna aggiungere che comunque all'Olivetti erano previsti degli uffici i quali,

più che per controllare che le pratiche corrette venissero costantemente adottate, dovevano

assicurarsi che queste rimanessero nel tempo idonee alle esigenze dei lavoratori o delle co-

munità le quali potevano via via modificarsi. Una cosa che contraddistinse Adriano Olivetti

159

Page 160: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

fu, è bene ribadirlo, «l'accettazione del dato insopprimibile del conflitto industriale»: l'aver

concepito l'impresa come un sistema politico e i processi organizzativi aziendali come pro-

cessi segnatamente politici che, in quanto tali, erano costituiti da continui conflitti e successi -

ve parziali ricomposizioni. Significa che, nella concezione olivettiana il conflitto era un fatto-

re consustanziale all'impresa, un fattore insopprimibile, in quanto essa si rivelava essere uno

spazio politico. L'impresa era intesa come luogo polemico di creazione e produzione: la com-

posizione del conflitto doveva avvenire, pertanto, attraverso un momento politico, eminente-

mente democratico. Questa consapevolezza permise a Olivetti di realizzare progressivamen-

te, tramite questi uffici, una istituzionalizzazione del riallineamento. Comprendere le esigen -

ze dei diversi stakeholder, monitorarne l'evoluzione e studiare i modi di ricomposizione dei

loro interessi con quell'azienda. Questi erano i compiti di organi come l'Ufficio Studi Relazio-

ni Sociali che realizzava ricerche e analisi, oltre che sulle relazioni interne tra i dipendenti,

sulle abitudini di vita della popolazione canavesana in genere, sulle interazioni che la fabbri -

ca aveva con il suo ambiente e sulle ripercussioni volute e non volute che si ingeneravano nel-

l'impatto con il territorio circostante e la sua popolazione.

Altro esempio è rappresentato dalla Commissione Paritetica Tempi che, in collaborazione

con assistenti sociali e psicologi, aveva il preciso scopo di contribuire alla “umanizzazione”

della linea di montaggio. Ma gli stessi Ufficio Assistenti Sociali e Centro di Psicologia svolge-

vano un ruolo fondamentale per la comprensione delle esigenze e ricomposizione dei conflit -

ti. E nell'Ufficio del Personale vigeva la regola della “porta aperta”: chiunque vi poteva sempre

trovare personale seriamente impegnato ad ascoltare i suoi problemi e a cercare di risolverli.

Questa politica della "porta aperta", come era teorizzata dalla Direzione Relazioni Aziendali,

era più efficace di qualsiasi sistema di controllo e gestione standardizzato.

Ritengo quindi di poter dire a ragione, che Adriano non avrebbe respinto l'adozione di una

certificazione, ma molto probabilmente questa non avrebbe potuto apportare nessun miglio-

ramento alle pratiche di responsabilità sociale dell'Olivetti. La certificazione, trovando un'a-

zienda già altamente sviluppata sotto questo profilo, si sarebbe solo potuta limitare a consta-

tarne l'efficienza, a porvi il suo marchio di approvazione.

160

Page 161: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

III.1.4 Corporate giving

A parte il fatto che il Cause related marketing è una pratica la cui nascita si fa risalire al

1983, in occasione del restauro della Statua della Libertà, troppo tardi perché Adriano potes -

se conoscerlo, e che le ONLUS stesse non fossero per nulla diffuse ai suoi tempi; a parte que-

sto dalle mie ricerche non ho potuto riscontrare che l'Olivetti abbia mai posto in essere cam-

pagne promozionali di quel genere. Oltretutto va detto che a quei tempi i problemi di ordine

sociale erano troppo vari e diffusi nel tessuto della collettività, rendendo poco sensato l'im-

pegnarsi in una causa relativa a un singolo problema sociale. Conveniva piuttosto concentra-

re gli sforzi sulla popolazione di un dato territorio (ovviamente quello ospitante la fabbrica)

cercando di risolvere più di un problema afferente quel luogo (disoccupazione, insalubrità,

quasi totale mancanza di servizi, disordine urbanistico, eccetera). In questo senso l'Olivetti

intervenne a favore delle comunità locali anche tramite finanziamenti ai servizi pubblici loca-

li “in via di sviluppo”. E proprio in questi finanziamenti possiamo ravvisare l'unica forma di

filantropia aziendale intrapresa dall'Olivetti, anche se si potrebbe obbiettare che, a differenza

della classica Corporate philanthropy, l'azienda di Ivrea in quelle iniziative non riponesse mai

l'aspettativa di un ritorno d'immagine. Ho trovato anche scritto che il «Centro di ricerca ope-

rativa dell'Università Bocconi era finanziato in larga parte dalla Olivetti» ma in questo caso

non si trattò di semplici elargizioni a fondo perduto essendosi instaurato uno stretto rappor-

to di collaborazione tra varie università (in particolare con quella di Pisa) e l'area di Ricerca &

Sviluppo.

Nemmeno riguardo alla partecipazione a iniziative artistico-culturali si può parlare di Cor-

porate giving, almeno fino a quando l'ingegner Adriano è stato in vita. Abbiamo già ampia-

mente dimostrato in precedenza quanto le iniziative olivettiane fossero tutt'altro che sempli -

ci sponsorizzazioni. L'Olivetti non sponsorizza mostre d'arte ma le produce. Anzi, talvolta è

l'azienda stessa che si ritrova ad essere il tema centrale di una mostra organizzata da un mu-

seo, come nel caso del MOMA. Nell'Olivetti, le due culture (la cultura imprenditoriale e la cul-

tura in genere) si integrano e si alimentano a vicenda, e gli intellettuali non sono la «corte

feudale» (l'espressione è di Raniero Panzieri) di un mecenate, ma professionisti che, oltre a

occuparsi della diffusione interna d'informazione culturale e delle iniziative culturali esterne,

operano in settori vitali dell'impresa.

161

Page 162: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Tornando al Crm, si potrebbe pensare che tale pratica avesse, con l'impegno nel sociale del -

l'Olivetti, almeno un punto in comune individuabile nella condivisione dello stesso approccio

win-win e, in effetti, ciò è parzialmente vero. All'Olivetti, infatti, vi era la convinzione che dal -

le azioni di responsabilità sociale se ne potesse ricavare un mutuo beneficio. Ma a ben vedere

l'Olivetti andava ben oltre questo concetto in quanto, per come era stata concepita, i benefici

creati non potevano essere spartiti: non si poteva misurare quanto andasse a vantaggio del-

l'impresa e quanto a vantaggio della causa perché, secondo l'impostazione impressa da

Adriano alla sua impresa, non c'era separazione tra quello che va a vantaggio dell'azienda e

quello che va a vantaggio della società, essendo l'organizzazione economica uno strumento al

servizio del benessere collettivo. Esagerando, oserei quindi dire che l'Olivetti non usò mai il

Crm a sostegno di una causa e non l'avrebbe mai fatto perché la sua stessa normale attività

di vendita era, in sé e per sé, una gigantesca campagna di marketing sociale. Un'affermazione

del genere appare già molto meno assurda ascoltando le parole di Giovanni Maggio, ex re-

sponsabile dell'area commerciale dell'Italia centro-occidentale:

«L'attenzione era sostanzialmente ai volumi, e questo la dice lunga sull'approccio comples-

sivo dell'impresa impostata da Adriano: l'importante era che la fabbrica producesse volumi,

perché così garantiva lavoro agli operai e benessere all'intero sistema in cui la fabbrica vive-

va. Tanto per riprendere un tema odierno, questa era vera responsabilità sociale dell'impre-

sa, non solo nei confronti degli azionisti ma nei confronti di tutti quanti: la comunità, il di -

pendente, il cliente.»

In effetti, bisogna riconoscere che proprio l'ampiezza dei margini di profitto che riusciva ad

ottenere dalla vendita di macchine da scrivere e calcolatrici, avesse reso possibile lo stato so-

ciale olivettiano. Dal 1946 al 1958 il fatturato era salito di oltre 6 volte in Italia (+ 6,39 %), e di

quasi 18 volte all'estero (+ 17,87 %). Gallino afferma che

«si può ritenere da diversi calcoli che il prezzo di vendita fosse pari a circa 5-6 volte il costo

combinato della produzione industriale e della distribuzione. Indicativamente, nel 1958 una

macchina da calcolo della classe Divisumma comportava circa 30000 lire di costo del lavoro

produttivo, pari a 22 ore di lavoro effettivo per unità prodotta; 20000 lire di costo dei mate-

riali; 10000 lire di costo unitario del capitale fisso, più 30000 lire di costi del lavoro di di -

stribuzione, cioè meno di 100000 lire in totale. La stessa macchina era venduta nelle filiali,

che erano parte integrante dell'organizzazione commerciale Olivetti, e nelle concessionarie,

che erano invece aziende terze, tra le 500 e le 600000 lire, a seconda dei modelli, o a un

162

Page 163: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

prezzo all'incirca equivalente in moneta estera. Beninteso, alle suddette voci di costo ne

vanno aggiunte altre, in primo luogo il margine di guadagno dei concessionari e agenti ita -

liani e stranieri, e le spese generali, che nel caso della Olivetti erano particolarmente rilevan-

ti. Sui profitti lordi incidevano quindi le imposte. Resta il fatto che un rapporto iniziale di 1

a 5 o 1 a 6, tra i costi di produzione e di distribuzione, e il ricavato dalle vendite, è un rap -

porto che farebbe sognare qualunque imprenditore di ieri e di oggi. E quelle macchine si

vendevano a migliaia al mese, in tutta Europa e nel mondo.»

Per parecchi anni i margini di profitto della Olivetti dell'ingegner Adriano furono eccezio-

nalmente elevati. Su tale base l'azienda di Ivrea poteva procedere a ridistribuire un'ampia

quota di profitti sul territorio, pur avendo compensato in equa misura gli azionisti, ivi com-

presi i piccoli azionisti che per lunghi anni videro nei titoli Olivetti una sorta di bene-rifugio

importante.

III.1.5 Sostenibilità ambientale

Finché Adriano fu in vita, all'Olivetti la tematica ambientale veniva ricompresa sotto la più

ampia tematica del rispetto delle comunità locali e del loro territorio. Le azioni di sostenibili -

tà ambientale si “limitarono” alla tutela del paesaggio circostante l'impresa, sia agendo sull'e-

dificio stesso della fabbrica, sia regolando l'inurbamento e l'aspetto dei nuovi quartieri ope-

rai. Riguardo i complessi industriali, questi venivano sempre progettati in modo da non en-

trare in conflitto con la natura, ma anzi “accogliendola” al loro interno. L'esempio più bello è

quello dello stupendo stabilimento di Pozzuoli, immerso nel verde e affacciato sul «golfo più

singolare del mondo», dove, raccontano, ogni tanto si fermava un turista a chiedere il prezzo

di una camera, scambiandola per un residence.

Ad impegnarsi in una vera e propria lotta all'inquinamento, l'Olivetti comincia soltanto nel

1970, dieci anni dopo la scomparsa di Adriano. Dall'aprile di quell'anno è infatti attivata una

commissione che coordina tutti gli interventi aziendali nel settore dell'ecologia e che in parti -

colare è incaricata di elaborare e proporre le linee principali di una politica ambientale. Le

azioni intraprese in tal senso hanno comunque la caratteristica di anticipare la nascente nor-

mativa statale: mentre in Italia la prima legge contro l'inquinamento risale al gennaio 1972

(quando una speciale Commissione del Senato presenta un primo rapporto sui problemi del-

163

Page 164: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

l'inquinamento e propone alcune linee di intervento), la prima opera olivettiana per la tutela

dell'ambiente risale al 1970. Da quell'anno il grande stabilimento di Scarmagno, non lontano

da Ivrea, viene dotato di un impianto automatico di depurazione degli scarichi tecnologici e

biologici. Questo impianto diviene un modello anche per gli altri impianti dell'Olivetti e già

nel corso del 1972 ne viene messo a punto uno analogo nello stabilimento di Crema. Per gli

scarichi biologici (impianti igienici e sanitari) dello stabilimento di Scarmagno, dove esistono

fosse di depurazione naturale, l'Olivetti costruisce un'apposita fognatura lunga 5 km con un

costo di 250 milioni di lire. A questa fognatura si allacciano anche i comuni limitrofi, che be-

neficiano così di un indubbio vantaggio igienico ed economico. Gli stabilimenti di Crema e

Marcianise, invece, vengono dotati di impianti di depurazione degli scarichi biologici azionati

meccanicamente. Questi impianti sono i primi a essere installati da un'impresa in quelle aree.

Il controllo dei fumi è effettuato negli stabilimenti Olivetti in modo tale da garantire il rispet -

to dei valori indicati dalla legislazione anti-smog. In molti casi gli interventi decisi

dall'impresa consentono di raggiungere risultati che vanno al di là di quanto prescritto dalle

leggi vigenti in quel momento, come nel caso della centrale termica di Ivrea che tra il 1970 e

il 1971 viene convertita da nafta a metano. Analoga conversione avviene in quegli stabilimen-

ti (Massa e Marcianise) dove è possibile allacciarsi alla rete del metano della Snam. Per elimi-

nare il pericolo di emanazione di fumi e vapori nocivi, gli impianti Olivetti vengono dotati di

adeguati depuratori. La società decide anche di abbandonare attività inquinanti come le fon-

derie di ghisa e le fusioni dell'alluminio: il metallo necessario per le lavorazioni arriva già

fuso su appositi autocarri attrezzati provenienti da fonderie esterne. Per i forni ausiliari,

come per le operazioni di verniciatura, si passa all'uso di combustibile gassoso (metano o

propano) con una netta riduzione dell'inquinamento.

All'inizio degli anni Settanta, come si è detto, l'Italia sta appena iniziando a prendere co-

scienza dell'importanza della tutela ambientale ed è ancora priva di una precisa legislazione

in materia. Nel caso dell'Olivetti, quindi, tutelare l'ambiente non significò “mettere a norma”

gli impianti, semplicemente perché le norme ancora non esistevano. Tra le imprese, l'Olivetti

fu una delle primissime ad affrontare il problema del degrado ambientale e a prendere con-

crete misure sia per ridurre il livello di inquinamento dei propri stabilimenti, sia per sensibi -

lizzare l'opinione pubblica su questo tema.

I dati fin qui riportati, riguardando il periodo successivo alla morte di Adriano Olivetti, sem-

brerebbero essere fuori tema rispetto agli scopi di questa trattazione che si concentra sulle

164

Page 165: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

azioni socialmente responsabili da lui portate avanti. Detto ciò, ritengo comunque significati-

vo menzionarli perché, anche attraverso queste decisioni dei primi anni Settanta prese nono-

stante le difficoltà dovute ad una normativa nazionale ancora carente, l'Olivetti ha manifesta-

to in concreto la sua coerenza con la direzione etica impressale da Adriano. Queste decisioni

rappresentano quindi un buon indicatore di quanto la lezione adrianea non fosse scomparsa

insieme a lui, ma sia riuscita a camminare con le proprie gambe portando l'impresa ad intra-

prendere vere e proprie iniziative di Corporate social responsibility contro l'inquinamento.

III.1.6 Il Bilancio sociale

Ritengo che l'Olivetti dell'ingegner Adriano avrebbe volentieri affiancato al bilancio civilisti -

co-fiscale, un proprio bilancio sociale, se una simile pratica fosse esistita a quei tempi. Per il

suo confidare nel valore della condivisione della conoscenza, fondamento della comprensio-

ne reciproca primo segno di “maturità e civiltà”, punto di partenza per un comune progresso

sociale. Gli effetti di una tale mentalità erano visibili già all'interno dell'azienda, dove temi di

ordine sia operativo che sociale erano veramente appannaggio di tutti. Ogni dipendente era

sempre a conoscenza delle scelte effettuate dall'azienda, le risorse impiegate e i risultati otte-

nuti in tutti i campi. A questo proposito, ancora una volta Gallino, con la sua testimonianza,

ci dà l'idea della trasparenza olivettiana:

«Allora mi colpiva, e ancora mi colpisce nella memoria, il fatto che quella fosse una grande

fabbrica in cui quasi tutti, a cominciare dagli operai, sapevano quasi tutto di ciò che accade-

va. Io stesso [...] partecipai a varie riunioni della Commissione interna della Ico, che com-

prendeva gli stabilimenti maggiori. In tale ruolo ebbi modo di incontrare molti operai e i

loro delegati, uomini e donne, queste ultime particolarmente combattive, per lo più apparte-

nenti alla Cgil. Tutti loro parlavano di piani di produzione, salari, cottimi, investimenti, con-

dizioni di lavoro con una lucidità, una capacità dì inquadrare i problemi, che a me appariva-

no un segno di grande maturità e civiltà. [...] Mi colpiva sempre come i delegati e le delegate

operaie conoscessero bene la situazione dell'azienda. Sembrava che tra loro e l'amministra-

tore delegato, tutto sommato, non ci fosse un gran distanza quanto a livello di informazio-

ne: tutti avevano l'aria di aver letto più o meno le stesse carte. Credo che ciò fosse dovuto a

due elementi. In primo luogo l'azienda faceva circolare all'interno gran copia di notiziari e

documenti sulle proprie attività, a tutti accessibili. Inoltre la fabbrica era davvero una parte

165

Page 166: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

della comunità, una fabbrica profondamente radicata nel territorio, dove il tecnico, l'opera -

io, l'impiegato e il dirigente abitavano spesso a pochi isolati di distanza e si ritrovavano alla

mensa, alla biblioteca per prendere un libro in prestito, al cinema, alle conferenze del Cen-

tro culturale. Anche per tali vie informali si realizzava la circolazione di informazioni che

soltanto in una grande fabbrica insediata in un territorio relativamente piccolo credo fosse

possibile, a parte le altre peculiarità della Olivetti.»

A quanto pare tutti avevano una visione complessiva (questa era la trasparenza) di quello

che succedeva nell'azienda. Questo atteggiamento era diventato parte della formazione pro-

fessionale collettiva all'interno dell'azienda: si partecipava tutti a pensare il futuro, a costruir -

lo insieme, creando una spinta verso la coesione. L'Olivetti insomma non avrebbe avuto ne-

cessità di un ulteriore strumento per dare “consapevolezza di fini” ai lavoratori e coinvolgerli

nel raggiungimento degli scopi etici.

Riguardo alle funzioni assolte da un bilancio sociale nel suo essere una comunicazione ri-

volta al mercato (soprattutto) e ai soggetti esterni all'impresa in genere, ricordiamo che le

suddette funzioni consistono essenzialmente in un miglioramento dell'immagine percepita

dagli stakeholder, cioè della reputazione aziendale, nell'ottica della creazione di un generale

clima di approvazione sull'operato dell'impresa. Ecco, possiamo dire che all'Olivetti il compi -

to di diffondere l'immagine di un'azienda alla ricerca di un miglioramento diffuso della quali -

tà della vita non era affidato a un documento scritto ma ai suoi stessi prodotti; e quelli che

costruiscono la sua reputazione non sono i ragionieri addetti alla contabilità sociale, ma gli

ingegneri, i designer, gli artisti che collaborano durante la progettazione di una macchina, cu-

randone insieme tanto i congegni meccanici quanto il vestito. All'Olivetti accanto a coloro che

curano le vie di comunicazione attraverso tutta l'azienda e fra i suoi livelli, operano quelli che

comunicano all'esterno l'immagine unitaria di questa nella forma dei prodotti, nella grafica,

nei messaggi pubblicitari, nelle architetture, negli arredi. Un tratto che distingueva l'Olivetti

dalle aziende di quegli anni era proprio la coerenza della propria immagine. L'Olivetti, che

produceva macchine per scrivere e da calcolo, si proponeva come missione di migliorare la

comunicazione tra le persone e di agevolare scelte più razionali, perché supportate da ele-

menti quantitativi. Tutta la pubblicità dell'Olivetti ha sempre gravitato su questi elementi:

un'azienda che produce macchine per scrivere e per calcolare, che migliorano la società in cui

viviamo; macchine che hanno anche una loro bellezza formale, costruite in stabilimenti archi-

166

Page 167: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

tettonicamente altrettanto belli; un'azienda in cui il rapporto con le maestranze, le istituzioni

e l'ambiente è il più possibile armonico, corretto e civile. Una tale coerenza dell'immagine ra -

ramente è stata raggiunta da altre imprese italiane. In poche parole, quindi, non c'era bisogno

di costruirsi un'immagine, non essendoci separazione tra la forma e l'essenza, tra ciò che ap-

pare all'esterno e ciò è in sostanza.

Oggigiorno però le strategie di comunicazione, le tecnologie dell'immagine, i marchi senza

niente dietro hanno ormai talmente ottuso la sensibilità di gran parte del pubblico, la capaci-

tà di distinguere tra apparenza e realtà, che probabilmente perfino l'ingegner Adriano si tro-

verebbe in difficoltà. Stenterebbe cioè a comunicare che un'impresa come la sua si caratteriz-

za anzitutto per il fatto di anteporre la persona al profitto, o meglio di applicare il profitto

allo scopo di promuovere la crescita della persona; e, in secondo luogo, per l'impegno di far

coincidere, e anzi di far interagire, la prima e la seconda, la forma e la funzione, il design del -

l'oggetto e il valore d'uso, l'aspetto e l'utilità socialmente riconosciuta di questo. Un messag-

gio che oggi sicuramente è arduo da far passare.

Peraltro, come dimostra lo sviluppo dei movimenti di critica alla globalizzazione, la capaci-

tà dei consumatori di comprendere che la realtà è diversa da quella descritta dai marketing

manager o dagli specialisti di comunicazione e immagine, si sta ricostituendo. Con l'auspicio

che la diffusione di questa nuova consapevolezza e di una migliore capacità di giudizio, sti-

moli le imprese ad accettare il fatto che per dirsi socialmente responsabili non basti usare il

bilancio sociale come «la vetrina delle limousine alle vedove e agli orfani» (per dirla alla Paolo

D'Anselmi), perché solo il «porsi di fronte allo specchio della favola di Biancaneve non [...]

con lo spirito di chiedere quanto fossero belli e bravi, [...] questo oltre che segno di democra-

zia economica e di onestà intellettuale è anche un segno di grande responsabilità sociale»,

come afferma Luciano Hinna.

Ritengo che ci sia bisogno di fare un'ultima considerazione in merito alla difficoltà che pro -

babilmente avrebbe avuto l'ingegner Adriano, dovendo scegliere tra i vari modelli di bilancio

sociale disponibili oggigiorno, nel trovarne uno capace di trasmettere appieno le ricchezze

create dalla sua azienda per tutta la società, una su tutte la felicità dei suoi dipendenti. Cosa

vuol dire, in concreto, lavorare in un'impresa «indirizzata ad una più libera, felice e consape-

vole esplicazione della persona umana», si può intuire dalle parole di Gianfranco Ferlito, ex

responsabile dei Laboratori di componentistica elettronica di Scarmagno:

167

Page 168: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

«Anche quando ero un semplice impiegato, non mi sono mai sentito un "signor Nessuno",

perché quando andavo a parlare al gestore del personale trovavo una persona che si era in-

formata di tutto quello che mi riguardava e parlava con competenza dei problemi e delle

cose che gli sottoponevo. Certo si possono provare diversi gradi di piacere nel lavoro, e cer -

to ho un rimpianto di quello che ho lasciato in Olivetti: almeno fino a un certo periodo, c'era

un senso di appartenenza e di considerazione reciproca. Era proprio stima nei confronti di

qualcuno, magari di qualcun altro no; ma la sensazione era quella che fossimo parte di qual-

cosa che funzionava bene, che sapeva dire qualcosa di nuovo e che ogni giorno cresceva un

po' di più. Questo senso di appartenenza dava anche spinta e piacere nel lavoro; oggi, quan-

do vado a lavorare, delle volte ci vado solo perché bisogna andare.»

Non sentirsi un “signor Nessuno” nel luogo di lavoro, svegliarsi la mattina con la consape-

volezza che stiamo andando a fare il nostro mestiere non “solo perché bisogna andare”. Cose

del genere rappresentano, a parer mio, la vera rivoluzione sociale di cui ancora oggi abbiamo

più che mai bisogno. Ma dubito che esse siano suscettibili di tradursi in indici o di quantifi -

carsi in numeri. Personalmente, in questo concordo con l'opinione, di seguito riportata, dello

scrittore parmigiano Paolo Nori:

«Quando, qualche mese fa, ho saputo che alle elezioni comunali di Parma c'era una lista che

si chiamava “Parma bene comune”, io, che essendo di Parma, e un po' la conosco, mi son

chiesto in che senso sarebbe un bene. Parma non è un bene, ho pensato. Parma, ho pensato,

è un'idea, un accento, un modo di parlare, di imprecare, di gesticolare, è una cantilena, è un

dialetto, è un modo di camminare, è un modo di accendersi le sigarette, è un modo di piega-

re la testa quando si guarda, è la luce che c'è sulla via Emilia a una certa ora del giorno, è l'o -

dore che c'è in Cittadella quando è piovuto, è il suono delle campane della Steccata che son

tutte cose che non si possono scrivere dentro un bilancio, beni mobili, beni immobili, am-

mortamenti. “I rintocchi del campanile / che ha messo radici nel cielo veneziano: / frutti che

cadono senza toccare / il suolo. Se esiste un'altra vita / lì qualcuno si occupa della raccolta

di queste cose”, scrive Iosif Brodskij, e mi vien da dire che è vero, se esiste un'altra vita, son

quelle, le cose da raccogliere, ma in questa vita, mettere a bilancio queste cose è un po' diffi -

cile, secondo me.»

Potremmo contare quanti libri la biblioteca aziendale ha dato in prestito, ma non sapremmo

comunque dire in quante persone sia nata la passione per la lettura. Potremo misurare l'ab-

bassamento degli indici di assenteismo e turnover ma difficilmente saremo mai in grado di

rendicontare la soddisfazione che un dipendente trova nel fare il suo lavoro.

168

Page 169: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

III.1.7 Osservazioni finali

A questo punto possediamo sufficienti elementi per poter tirare le somme e rispondere al

quesito oggetto di questa tesi. La risposta non può che essere affermativa. Dal confronto ef-

fettuato emerge con chiarezza che Adriano Olivetti fu in tutto e per tutto un precursore della

Corporate social responsibility. Oggi il contesto è profondamente mutato: gli attuali strumen-

ti di Csr sono, per forza di cose, molto diversi dalle pratiche olivettiane di responsabilità so-

ciale che erano costruite su misura per quel determinato insieme di circostanze della metà

del '900. Ma i campi d'azione, le tematiche verso cui venivano indirizzati gli sforzi (l'ambient-

e, i lavoratori, le comunità locali e la società in genere), questi sono rimasti i soliti oggi come

allora. Ad esempio, nell'ambito del sostegno allo sviluppo delle aree economicamente depres-

se, mentre oggi va a intervenire esclusivamente nei Less developed Country, Adriano indivi-

duò quelle necessità di sviluppo anche nel contesto domestico e diede così il suo contributo

al Mezzogiorno. Nel canavese creò l'I-Rur coi medesimi scopi. In generale l'Olivetti andò sem-

pre a localizzarsi nelle zone dov'era ridotto al minimo il livello d'investimento e

massimizzata l'opportunità di lavoro da affidare ai cittadini locali; zone che nella prima metà

del ventesimo secolo potevano essere tanto l'Argentina e il Brasile quanto Barcellona o

Glasgow.

Adriano fu quindi un precursore della Csr per gli ambiti in cui concentrò i suoi sforzi e un

pioniere nella costruzione di efficaci strumenti atti a risolvere i problemi individuati. Stru-

menti che, essendo mutato il contesto di applicazione, per la loro contingenza ad una situa-

zione ormai appartenente al passato, non sarebbero replicabili ai giorni nostri. Strumenti che

però potrebbero avere ancora qualcosa da insegnare sotto il profilo dell'eccellenza che li ca-

ratterizzava, per il modo in cui erano stati progettati e implementati, ricercando costante-

mente e contemporaneamente efficienza, efficacia e qualità.

Altro punto d'incontro è riscontrabile nel fatto che, sia la Csr che Adriano, agiscono andan-

do oltre ciò che è prescritto dalla legge. E va detto che nella metà del '900 questo fatto era an-

cora più importante, data la carenza legislativa non solo riguardo gli obblighi civili e sociali

delle imprese (lo Statuto dei lavoratori è del 1970), ma soprattutto riguardo agli stessi servizi

assistenziali che uno Stato dovrebbe offrire (la legge che legittima lo Stato a gestire diretta-

mente le scuole dell'infanzia è la n. 444 del 18 marzo 1968). Adriano rappresentò il cambia -

mento, accompagnò il passaggio dell'Italia da civiltà rurale a industriale ma non rimase indif -

169

Page 170: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

ferente ai nuovi bisogni di un popolo che attraversava una profonda trasformazione cultura-

le. Coerentemente con la propria idea di responsabilità d’impresa, se ne fece interprete, e, vi -

sta la manifesta lentezza dello Stato nel prendere coscienza e nel fronteggiare queste nascen-

ti esigenze, per primo sviluppò servizi atti al loro soddisfacimento. E sempre coerentemente

con la propria idea di responsabilità sociale impostò tali servizi assistenziali in modo che fos-

sero integrativi e non sostitutivi. L'intento di Adriano era quello di tracciare un solco in cui

sia lo Stato (con gli enti pubblici) sia i privati (si pensi alla moderna Service industry) sarebbe -

ro potuti andare a inserirsi. Lo scopo era fare in modo che, piano piano, lo Stato si accollasse

lo svolgimento di quei servizi di tipo più propriamente pubblico come la sanità e l'istruzione

e allo stesso tempo l'iniziativa privata si rendesse indipendente nella fornitura di alcuni servi-

zi residuali come ad esempio quelli di stampo culturale. Questo modo di operare nel sociale è

pienamente in linea con la mentalità che ispira l'integrazione della Csr nella strategia di

un'impresa.

Adriano però non anticipò la Csr solo nelle opere concrete ma anche nella visione sociale ed

economica che sta alla base di questa nuova dottrina. Infatti la filosofia che ispirò l'opera

adrianea, si inserisce di diritto nel filone di quella parte del pensiero economico critica verso

il sistema economico capitalista, in seno al quale è nata la moderna Csr. Secondo entrambi, se

per un verso riconoscono a tale sistema la grande capacità di produrre ricchezza e benessere,

allo stesso tempo lo riconoscono anche incapace di portare avanti questo progresso in modo

omogeneo, contribuendo, talvolta, all'inasprimento delle disuguaglianze sia economiche che

sociali presenti tra i diversi strati della popolazione di un paese, o tra nazione e nazione.

Ciò è supportato da Luciano Gallino quando dice che

«Quello di Adriano Olivetti era un capitalismo che sapeva fare quello che il capitalismo con-

temporaneo sembra aver perso la capacità di fare – a parte il dettaglio che gli manca la vo-

lontà per farlo. Ovvero sapeva produrre ricchezza, ma conosceva anche il modo di distri-

buirla, e lo praticava. Contrariamente al capitalismo contemporaneo che produce indubbia-

mente ricchezza, ma si sta rivelando, da due decenni almeno, scarsamente capace di ridistri-

buirla, al fine di mantenere le disuguaglianze sociali – nel mondo intero, non solo nei paesi

avanzati – intorno a un limite che appaia accettabile alla luce di una comune nozione di

equità distributiva.»

Anche Armando Marchi, ex responsabile del centro di formazione manageriale Barilla Lab,

era della medesima opinione avendo affermato che

170

Page 171: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

«Di certo il modello olivettiano non è riproponibile ma si potrebbe cominciare col riconosce-

re per prima cosa i limiti delle persone e delle organizzazioni e rendersi poi conto che alcu-

ni di valori del modello olivettiano sono ancora più che attuali. Si potrebbe, forse, lavorare

su tre parole chiave che il managerialismo ha sottoposto a damnatio memoriae: equità (che

vorrebbe dire anche un po' di sobrietà, ma questa oggi è senz'altro utopia); solidarietà (non

in senso parrocchiale: meno individui e più «persone») e diversità (per combattere l’appiatti-

mento sul ruolo facendo continuamente eccezioni).»

Equità, solidarietà, ridistribuzione della ricchezza creata per il mantenimento delle disugua-

glianze sociali entro un limite accettabile; sono tutti concetti che Adriano Olivetti condivide

con la Corporate social responsibility. L'ingegnere, avendo progressivamente constatato che

«ogni problema di fabbrica diventava un problema esterno e che solo chi avesse potuto coor -

dinare i problemi interni a quelli esterni sarebbe riuscito a dare la soluzione corretta a tutte

le cose», anticipa quella presa di coscienza, fondamento teorico della Csr.

E Alberto Peretti, professionista nel campo della formazione e consulenza organizzativa, al-

l'inizio del suo articolo Considerazioni sull'etica della Responsabilità Sociale dell'Impresa, ci dà

un'ulteriore conferma a sostegno della teoria che individuerebbe un'assonanza ideologica di

fondo tra i nostri due modelli oggetto di confronto:

«Che cosa c'è dietro la Responsabilità Sociale dell'Impresa? Su che cosa si poggia la scelta di

un'impresa che decide di essere eticamente attenta alle conseguenze e alle ripercussioni, an-

che future e indirette, che l'agire dell'organizzazione avrà sull'ambiente, interno ed esterno

all'organizzazione, e sulla società? Una risposta la si intravede contenuta in filigrana in un

discorso tenuto da Adriano Olivetti nella primavera del lontano 1955 in occasiono dell'inau-

gurazione dello stabilimento Olivetti a Pozzuoli. «Può l'industria – si chiede Olivetti – darsi

dei fini? Si trovano questi semplicemente nell'indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo

apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di

una fabbrica?» Vorrei tentare di dare una lettura dell'"affascinante al di là" cui accenna Oli -

vetti, sviluppando il concetto di “ulteriorità dell'agire economico”, un'ulteriorità che rappre-

senta l'autentica base etica fondativa della Responsabilità Sociale dell'Impresa. Senza la qua-

le l'agire responsabile rischia di essere frainteso, confuso con altre, strumentali scelte im-

prenditoriali.»

171

Page 172: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Detto questo, bisogna anche riconoscere che tra le due ideologie vi è una differenza sostan-

ziale. Adriano Olivetti aveva un'idea dello sviluppo sociale e dello sviluppo economico coinci -

dente con quella dello sviluppo umano. Considerava lo sviluppo sociale come il realizzarsi

della società conformemente all'essenza umana e la fabbrica come «un organismo sociale che

condiziona la vita di chi contribuisce alla sua efficienza e al suo sviluppo». Date queste pre -

messe, Adriano si pone a notevole distanza dalla Csr quando ne deduce che «la fabbrica esi-

ste per l'uomo» e perciò va considerato come un «bene comune e non un interesse privato».

La Csr non arriva a tanto, non afferma che l'impresa privata dovrebbe essere un bene comu-

ne. Ma la Csr stessa, allo stesso tempo, non è troppo lontana da una tale concezione quando,

riconoscendo, in accordo con lo Stakeholder based approach, l'ente economico privato come

oggetto delle istanze di un insieme allargato di stakeholder (il cui soddisfacimento diventa

obiettivo strategico a pieno titolo non essendo meno importante per la sopravvivenza dell'im-

presa quanto quello dell'interesse, dei suoi proprietari, a che siano generati profitti) ne mitiga

l'autoreferenzialità degli scopi.

III.1.8 Conclusione

L'ingegner Adriano credeva nella qualità delle relazioni umane, nella collaborazione tra la-

voro e società. Riteneva giusto che tutti si attendessero un lavoro dignitoso, un'occupazione

stabile e buoni salari; che tutti godessero di un'esistenza collettiva ricca di fermenti culturali,

inserita in un ambiente armonioso, sapientemente disegnato intessendo natura e storia.

«Il fatto che ai nostri giorni non pochi di tali diritti, che per qualche tempo parevano defini-

tivamente acquisiti, siano nuovamente posti in questione, in via di principio o di fatto, nel

nostro paese come in altri, ci chiede di proseguire nell'impegno universalistico che fu di

Adriano: l'impegno di tutelarli, di difenderli e per quanto possibile di estenderli ovunque. La

mondializzazione di questi diritti, in luogo della loro erosione o del loro ottundimento, è lo

scopo che ancor oggi ci propone Adriano Olivetti»

asserisce Gallino. Questo è il lascito dell'ingegnere ai posteri, questa è l'imperitura istanza

di Adriano Olivetti. Un'istanza che, ai nostri giorni, nell'ambito delle imprese for profit, è sta -

ta raccolta proprio dalla Corporate social responsibility. «Oggi l'attenzione verso i lavoratori,

l'ambiente, la comunità, si chiama Csr. Adriano Olivetti lo ha fatto sessant'anni fa. Bene, oggi

172

Page 173: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

sappiamo che solo attraverso la Csr abbiamo la possibilità di salvare la nostra pelle, e anche

il nostro pianeta», ha dichiarato Marco Roveda, patron di LifeGate, azienda che impegnata

nella promozione di modelli economici di sviluppo sostenibile.

Ad Adriano Olivetti dobbiamo riconoscere il merito di averci messo in guardia in anticipo,

di averci indicato una valida via decine di anni prima che gli effetti negativi dell'attuale mo-

dello economico dominante fossero tali da rendere improcrastinabile la presa di seri prov -

vedimenti. Una via sintetizzabile nelle parole di Roveda quando dice che «È solo cambiando

i modelli di riferimento che potremo cambiare le cose. Smettere di curare l'effetto, curare in -

vece la causa». Ad Adriano Olivetti, che è riuscito a realizzare un’impresa non più solo pro-

duttrice di beni, ma di bene, va il merito indiscusso di aver fatto della propria vita la prova

tangibile che «Servire la pace [...] con la stessa volontà, la stessa intensità, la stessa audacia

che furono usate a scopo di sopraffazione, distruzione, terrore» è possibile.

173

Page 174: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

174

Page 175: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

BIBLIOGRAFIA

Adriano Olivetti, Valerio Ochetto, Marsilio

CIVITAS HOMINUM, Adriano Olivetti, Aragno

Città dell’uomo, Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità

Uomini e lavoro alla Olivetti, a cura di Francesco Novara, Renato Zorzi e Roberta Garruccio,

Bruno Mondadori

La responsabilità sociale dell’impresa, a cura di Giuseppe Conte, Editori Laterza

Adriano Olivetti lo spirito nell'impresa, Giulio Sapelli, Davide Cadeddu, Il Margine

Il bilancio sociale, a cura di Luciano Hinna, il Sole 24 Ore

L'impresa responsabile: un'intervista su Adriano Olivetti, Luciano Gallino, Edizioni di

Comunità

Quattro anni con Olivetti, a cura di A. Castronovo e M. C. Farolfi, La Mandragora Editrice

Responsabilità sociale e modelli di misurazione, Luca Bagnoli

Corporate Strategy, David Collis e Cynthia Montgomery, McGraw-Hill Companies

Fondamenti di economia e gestione delle imprese, Francesco Ciampi, Firenze University Press

Adriano Olivetti un secolo troppo presto, a cura di Marco Peroni e Riccarco Cecchetti,

BeccoGiallo

SITOGRAFIA

http://www.fabbricafilosofica.it

http://www.storiaolivetti.it

http://it.wikipedia.org

DOCUMENTI AUDIOVISIVI

Adriano Olivetti - La storia siamo noi, Rai

Paolo Bricco - Le storie, di Corrado Augias, Rai Tre

175

Page 176: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

176

Page 177: Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?

Ringraziamenti

Ringrazio il mio professore che mi ha dato fiducia.

Poi ringrazio mio fratello che lasciandomi la camera tutta per me non poteva darmi aiuto migliore!

Invece un bel “non grazie” va alla mia nonna che anche quando mi sveglio verso mezzogiorno mi

chiede “Ma come mai ti sei svegliato così presto? Ma hai dormito abbastanza?” Nonna, se era per

te, sai quando mi laureavo! (Molto, molto prima...)

Grazie alle biblioteche di Montecatini, di Pistoia e di Firenze, che funzionano.

E poi il babbo, la mamma, l’altra mia nonna e il nonno, e gli altri, c’è davvero bisogno che vi dica

quanto vi devo?

E tutti gli amici, anche per voi, non ci sono ringraziamenti che bastino.

Ma in questo momento, più di ogni altra cosa, mi vien da ringraziare che finalmente… sia finita!

Montecatini Terme, 15/04/2013

Lorenzo Paccosi

177