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www.intesaparthenope.it Iscriviti Gratuitamente! 1 ADAM TIZZANO - LINEAMENTI DI DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA PARTE PRIMA - L'ORDINAMENTO GIURIDICO DELL'UNIONE EUROPEA CAP. I - PROFILI GENERALI Il processo di integrazione europea Il processo di integrazione tra Stati europei, identificato con l'Unione Europea, si è avviato con l'entrata in vigore della CECA (1°gennaio 1952), firmata da Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. A questa comunità, se ne aggiungeranno altre due nel 1957: CEE e CEEA (o Euratom), firmate dagli stessi paesi. Attraverso queste comunità si intendeva attuare un disegno unitario, volto a dar vita ad un mercato comune, basato sulla libera circolazione di persone, merci, servizi, e capitali, ma anche al coordinamento di politiche comuni, in vari settori: agricoltura, trasporti, commercio, energia nucleare. L'unitarietà di tale disegno si riflette anche nelle vicende dell'apparato istituzionale cui la realizzazione era affidata. Originariamente basato su tre strutture separate, ma parallele, è venuto progressivamente unificandosi nei suoi elementi costitutivi, pur mantenendo le peculiarità tipiche di ciascuna Comunità. Costruito formalmente intorno alla prospettiva economico-commerciale, del mercato comune, il processo d'integrazione prevedeva fin dall'inizio una successiva caratterizzazione politica. Come ad esempio nel art. 138 par. 3 del Trattato CEE si prevedeva già il passaggio da un Parlamento Europeo composto da rappresentanti dei parlamenti nazionali, ad un Parlamento eletto direttamente dai cittadini degli Stati membri. E sarà proprio il "nuovo"Parlamento europeo a dare impulso al processo di riforma del sistema, a partire dal 1986,anno in cui per la prima volta avrà luogo una significativa revisione dei Trattati originari :semplificazione della presa di decisione del Consiglio con il passaggio dall'unanimità alla maggioranza qualificata per alcune deliberazioni; inserita la procedura di cooperazione. Maggiore incidenza avrà la firma del (TUE) a Maastritcht (1992), che prosegue l'ampliamento delle competenze delle Comunità e dà luogo ad una profonda mutazione della struttura avviata nel 1957. Questa struttura viene collocata all'interno dell'Unione Europea, di cui le Comunità diventano parte costituente, accanto a due nuovi settori di cooperazione: politica estera e sicurezza comune (PESC), e giustizia e affari interni (GAI). La struttura originaria risulta adesso composta da "tre pilastri": Comunità Europee, PESC, GAI. Con Maastricht il sistema comunitario si rafforza anche nei contenuti. Il suo elemento centrale, la Comunità economica europea, viene rinominato Comunità europea, e nel relativo trattato (d'ora in poi TCE), viene inserita la nozione di cittadinanza europea; si ampliano le competenze della Comunità; vengono modificati alcuni meccanismi di funzionamento (codecisione con il Parlamento); e viene infine creata, all'interno del TCE, l'Unione economica e monetaria, in vista del passaggio alla moneta unica. Questo disegno istituzionale si perfeziona nel 1997 con il Trattato di Amsterdam, con la consacrazione nel TUE dei principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti dell'uomo come valori fondanti dell'Unione; con la prima semplificazione dei Trattati attraverso l'abrogazione di norme obsolete; parte del terzo pilastro viene "comunitarizzata" (visti, asilo, immigrazione, cooperazione giudiziaria civile). E' infine prevista la possibilità che gruppi di Stati membri siano autorizzati dal Consiglio ad avviare tra loro cooperazioni

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ADAM TIZZANO - LINEAMENTI DI DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA PARTE PRIMA - L'ORDINAMENTO GIURIDICO DELL'UNIONE EUROPEA

CAP. I - PROFILI GENERALI Il processo di integrazione europea Il processo di integrazione tra Stati europei, identificato con l'Unione Europea, si è avviato con l'entrata in vigore della CECA (1°gennaio 1952), firmata da Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. A questa comunità, se ne aggiungeranno altre due nel 1957: CEE e CEEA (o Euratom), firmate dagli stessi paesi. Attraverso queste comunità si intendeva attuare un disegno unitario, volto a dar vita ad un mercato comune, basato sulla libera circolazione di persone, merci, servizi, e capitali, ma anche al coordinamento di politiche comuni, in vari settori: agricoltura, trasporti, commercio, energia nucleare. L'unitarietà di tale disegno si riflette anche nelle vicende dell'apparato istituzionale cui la realizzazione era affidata. Originariamente basato su tre strutture separate, ma parallele, è venuto progressivamente unificandosi nei suoi elementi costitutivi, pur mantenendo le peculiarità tipiche di ciascuna Comunità. Costruito formalmente intorno alla prospettiva economico-commerciale, del mercato comune, il processo d'integrazione prevedeva fin dall'inizio una successiva caratterizzazione politica. Come ad esempio nel art. 138 par. 3 del Trattato CEE si prevedeva già il passaggio da un Parlamento Europeo composto da rappresentanti dei parlamenti nazionali, ad un Parlamento eletto direttamente dai cittadini degli Stati membri. E sarà proprio il "nuovo"Parlamento europeo a dare impulso al processo di riforma del sistema, a partire dal 1986,anno in cui per la prima volta avrà luogo una significativa revisione dei Trattati originari :semplificazione della presa di decisione del Consiglio con il passaggio dall'unanimità alla maggioranza qualificata per alcune deliberazioni; inserita la procedura di cooperazione. Maggiore incidenza avrà la firma del (TUE) a Maastritcht (1992), che prosegue l'ampliamento delle competenze delle Comunità e dà luogo ad una profonda mutazione della struttura avviata nel 1957. Questa struttura viene collocata all'interno dell'Unione Europea, di cui le Comunità diventano parte costituente, accanto a due nuovi settori di cooperazione: politica estera e sicurezza comune (PESC), e giustizia e affari interni (GAI). La struttura originaria risulta adesso composta da "tre pilastri": Comunità Europee, PESC, GAI. Con Maastricht il sistema comunitario si rafforza anche nei contenuti. Il suo elemento centrale, la Comunità economica europea, viene rinominato Comunità europea, e nel relativo trattato (d'ora in poi TCE), viene inserita la nozione di cittadinanza europea; si ampliano le competenze della Comunità; vengono modificati alcuni meccanismi di funzionamento (codecisione con il Parlamento); e viene infine creata, all'interno del TCE, l'Unione economica e monetaria, in vista del passaggio alla moneta unica. Questo disegno istituzionale si perfeziona nel 1997 con il Trattato di Amsterdam, con la consacrazione nel TUE dei principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti dell'uomo come valori fondanti dell'Unione; con la prima semplificazione dei Trattati attraverso l'abrogazione di norme obsolete; parte del terzo pilastro viene "comunitarizzata" (visti, asilo, immigrazione, cooperazione giudiziaria civile). E' infine prevista la possibilità che gruppi di Stati membri siano autorizzati dal Consiglio ad avviare tra loro cooperazioni

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rafforzate in determinati settori, esigenza sviluppatasi progressivamente con l'aumento degli Stati Membri. Sarà proprio l'aumento degli Stati membri il tema principale dei successivi sviluppi, in quanto la caduta del muro di Berlino, e la dissoluzione del blocco sovietico, imponevano la necessità di adattare i meccanismi di funzionamento dell'Unione ad un probabile incremento massiccio dei membri. Il "riesame" viene effettuato con il Trattato di Nizza, anche se esso si limita ad intervenire sulla composizione di alcuni organi, sulla ponderazione del voto in Consiglio, sull'estensione del voto di questo a maggioranza qualificata, e sull'ambito di applicazione della codecisione. La portata assai limitata delle modifiche di Nizza, apre la strada ad una nuova riforma che preveda una revisione radicale dell'impianto dei Trattati, riconducendo l'intero processo di integrazione europea ad un solo trattato che si presenti come la carta costituzionale della costruzione europea. A Roma nel 2004, viene firmato il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa, destinato a rimpiazzare integralmente i trattati esistenti. Mentre però l'unione si appresta a passare a 27 Stati membri, il Trattato Costituzionale, viene bocciato da referendum negativi in Francia e Paesi Bassi. Il progetto viene dunque abbandonato, anche se i suoi contenuti saranno la base di partenza per una nuova Conferenza Intergovernativa del 2007, che porta alla firma di un nuovo trattato di riforma a Lisbona, che entrerà in vigore, se ratificato da tutti gli Stati membri, nel 2009. Il Trattato di riforma porterà a risultati simili a quelli prefissati nel 2004: farà venir meno la Comunità Europea, trasformando il relativo Trattato istitutivo nel Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea Architettura e caratteri generali dell'Unione L'architettura del sistema si basa su tre trattati internazionali principali, che hanno dato vita rispettivamente a: CE, CEEA, e Unione Europea. Quest'ultima si presenta come contenitore nel quale le due Comunità sono affiancate da due forme di cooperazione: PESC e GAI, che si svolgono sulla base di regole, procedure e strumenti diversi da quelli operanti nelle due Comunità. Ne deriva perciò, che il sistema giuridico che governa il processo di integrazione europea sia frazionato in più enti giuridici separati (le due Comunità e l'Unione); articolato in più pilastri, e basato su due metodi di funzionamento (comunitario e intergovernativo). In realtà quello creato dai trattati costituisce un sistema che sarebbe difficile non considerare unitario. In questo sistema unitario, le Comunità Europee vanno considerate come parti integranti di un unico ente, l'Unione Europea, al cui interno esse, e i due settori di cooperazione (PESC e GAI) delimitano diversi ambiti materiali di attività, nei quali l'azione dell'Unione si svolge per mezzo delle stesse istituzioni , ma secondo regole e criteri di funzionamento differenti, identificati come metodo comunitario e metodo intergovernativo. Segue: In particolare l'ordinamento comunitario Il nucleo principale del sistema dell'Unione è rappresentato dalle Comunità Europee (pilastro comunitario). Il pilastro comunitario presenta elementi di novità rinvenibili in alcuni profilo dello stesso: presenza di organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi sia nei confronti degli Stati membri che dei loro cittadini; la partecipazione dei cittadini al funzionamento della Comunità ed alla formazione delle sue norme attraverso il Parlamento Europeo; esistenza di una Corte di Giustizia volta ad assicurare l'uniforme applicazione del diritto comunitario da parte dei giudici nazionali.

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Il sistema creato dalle Comunità Europee è basato sull'attribuzione alle istituzioni comunitarie di competenze su settori rilevanti della vita nazionale, ma a differenza di quanto avviene generalmente nel quadro della cooperazione giuridica internazionale, gli atti normativi comunitari, raggiungono i soggetti interni agli Stati senza bisogno dell'intermediazione del diritto nazionale. Un'altra caratteristica fondamentale di questo diritto,in un certo senso riflesso dell'efficacia diretta, consiste nella supremazia delle sue norme su quelle dei diritti nazionali: la norma statale contrastante cede, e non può essere applicata dai giudici nazionali. In un quadro di questo genere, il privato non è destinatario "materiale" di norme prodotte all'esterno dello Stato, ma soggetto a pieno titolo dell'ordinamento cui quelle norme appartengono. In quanto cittadino dell'Unione, infatti, l'individuo partecipa alla formazione del diritto comunitario attraverso il Parlamento europeo, ma anche in prima persona , poiché grazia all'efficacia diretta, egli può far valere dinanzi ai giudici nazionali le norme di quel diritto; allo stesso tempo ha accesso diretto ai meccanismi giurisdizionali previsti dai Trattati quando i suoi diritti siano lesi dalle istituzioni comunitarie. Il sistema delle competenze dell'Unione: il principio delle competenze di attribuzione Il sistema giuridico creato dai Trattati, è basato sull'attribuzione alle istituzioni dell'Unione della competenza ad agire, in una serie di materie (e non solo quelle). L'Unione Europea non dispone di competenza generale, infatti l'art. 5 comma 1 CE,prevede che "la Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato". Tale principio, detto "principio delle competenze di attribuzione", comporta che la legittimità di un azione delle istituzioni comunitarie, va sempre verificata nel quadro delle competenze che gli Stati hanno attribuito alle stesse istituzioni. Le competenze effettivamente attribuite all'Unione si ricavano dall'analisi delle disposizioni dei Trattati, in particolare di quelle che prevedono un'azione delle istituzioni, ovvero la possibilità delle stesse di regolamentare una certa materia. Rimane comunque operazione non agevole, almeno per quanto riguarda il TUE, all'interno del quale le competenze delle istituzioni si legano ad ambiti di cooperazione molto vasti: nel secondo pilastro (PESC), a causa della "generalità" della sua finalità, risulta difficile delimitare l'azione dell'Unione; nel terzo pilastro invece, ad una maggiore concretezza dei settori di cooperazione previsti, non si accompagna una delimitazione precisa degli oggetti possibili di tale cooperazione. In un certo senso può dirsi anche per il TCE, in quanto le varie competenze della Comunità sono delineate sulla base di criteri diversi e non sempre omogenei. Per temperare la rigidità del principio delle competenze di attribuzione, la Corte di Giustizia ha tradizionalmente privilegiato interpretazioni delle norme rilevanti ampliano la portata di quelle competenze. Andando al di là di una interpretazione estensiva del Trattato, ha anche affermato il principio secondo cui, quando una disposizione affida alla Comunità un compito preciso, si deve ammettere che essa le attribuisca i poteri indispensabili per svolgere questo compito. Segue: La clausola di flessibilità L'art. 308 del TCE, cosiddetta clausola di flessibilità, opera una vistosa deroga al principio delle competenze di attribuzione, in quanto consente un'azione della Comunità anche al di fuori di un'attribuzione specifica , "quando tale azione risulti necessaria per raggiungere uno degli scopi della Comunità, senza che il Trattato abbia previsto i poteri d'azione a tal

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uopo richiesti, il Consiglio deliberando all'unanimità su proposta della Commissione, e dopo aver consultato il Parlamento Europeo, prende le disposizioni del caso". La Corte di Giustizia ha posto come condizione indispensabile, per ricorrere all'art. 308, che "nessuna altra disposizione del Trattato attribuisca alle istituzioni comunitarie, la competenza necessaria per l'emanazione dell'atto stesso." Non esiste una disposizione analoga nel TUE, anche se potrebbe ritenersi parzialmente utilizzabile l'art. 6 par. 4 "l'Unione si dota dei mezzi necessari per conseguire i suoi obiettivi e per portare a compimento le sue politiche". Un limite intrinseco al ricorso all'art 308, individuato dalla giurisprudenza comunitaria, sta nel fatto che questo articolo non può essere utilizzato quale base per l'adozione di disposizioni che condurrebbero sostanzialmente a una modifica del trattato che sfugga alla procedura prevista dal Trattato stesso. Negli ultimi anni, il pregiudizio negativo da parte di alcuni Stati membri, e l'incremento significativo delle materie di esplicita competenza della Comunità hanno tolto gran parte dell'operatività teorica dell'art. 308. Segue: Competenze esclusive e competenze concorrenti e parallele La circostanza che in una determinata materia sussista la competenza delle istituzioni comunitarie non significa di per sé che tale competenza diventi esclusiva, e non sia più utilizzabile dagli Stati membri. Per quanto riguarda il TUE, gli Stati membri saranno comunque liberi di agire o legiferare in una determinata materia, a condizione che la loro condotta o le misure adottate non siano contrarie agli obblighi imposti dall'Unione. Nel quadro del TCE invece, l'art. 5 comma 2 prospetta l'esistenza di settori di competenza esclusiva della Comunità, e di settori che non sono di sua esclusiva competenza. Indicazione generica, in quanto nel Trattato non vi sono al momento competenze esplicitamente qualificate come esclusive. La Corte di Giustizia, seppur senza indicare i criteri e gli elementi di base di tale scelta, ha riconosciuto carattere di esclusività a talune competenze previste dal TCE: politica commerciale, conservazione delle risorse biologiche marine, conclusione di accordi con Stati terzi (quando il contenuto sia già oggetto sul piano interno di norme comunitarie), ma anche tutte le altre competenze relative a politiche comuni, come quella monetaria. Fatta eccezione per quelle che si presentano come esclusive, anche nel TCE l'esistenza di una competenza delle istituzioni non fa venire meno la corrispondente competenza degli Stati membri. In questo caso, quando la competenza viene ad essere esercitata dai due soggetti, senza interferenze sul piano formale, l'azione comunitaria si presenta come "parallela" a quella degli Stati, dovendo le due azioni soltanto integrarsi; l'esercizio da parte delle istituzioni comunitarie della propria competenza non determina un limite formale alla libertà degli Stati. Quando invece la competenza della Comunità è destinata ad intervenire nello spazio normativo proprio di quella corrispondente degli Stati membri, la competenza di questi ultimi si presenta come "concorrente" con quella comunitaria; essa incontra un limite di contenuto: un'azione statale diventa "ammissibile solo in quanto non pregiudichi l'uniforme applicazione delle norme comunitarie e il pieno effetto dei provvedimenti adottati in applicazione delle stesse". Tale limite è indicato dal trattato per i settori in cui prevede che l'armonizzazione delle legislazioni nazionali debba limitarsi alla regolamentazione minima di un determinato settore, in genere però la fissazione del limite alla competenza degli Stati è lasciato alla volontà delle stesse istituzioni.

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Segue: il principio di sussidiarietà L'espansione data al quadro delle competenze dell'Unione ha avuto come contrappeso, la sottoposizione dell'esercizio della gran parte di queste al c.d. "Principio di sussidiarietà". L'art. 2 del TUE stabilisce che gli obiettivi dell'Unione saranno perseguiti nel rispetto del principio di sussidiarietà definito all'art. 5 : "la Comunità interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri, e possono dunque essere realizzati meglio a livello comunitario". L'applicazione di tale principio è limitata ai settori che non risultano di competenza esclusiva della Comunità. L'eventuale decisione di non procedere all'adozione di un atto dell'Unione in ragione del principio di sussidiarietà, non preclude il successivo esercizio della sua competenza da parte dell'Unione, laddove mutate circostanze lo giustifichino alla luce dello stesso principio. La sussidiarietà va vista come concetto dinamico. Il Protocollo 30, allegato al TCE, si occupa dell'applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. Richiede che, prima della formulazione di ogni proposta di atto dell'Unione , vi sia una sua valutazione specifica alla luce del principio della sussidiarietà. L'ambito di applicazione del Protocollo, al momento circoscritto al TCE, con il Trattato di Riforma verrà estesa a tutta l'attività legislativa dell'Unione. CAP. II - IL SISTEMA ISTITUZIONALE Il quadro istituzionale unico In base all'art. 3 UE, pur se fondate su trattati istitutivi formalmente distinti, l'Unione e le Comunità, dispongono di un quadro istituzionale unico, che assicura coerenza e continuità delle azioni svolte. Di questo quadro istituzionale fanno parte, in primo luogo le istituzione elencate all'art. 7 CE: Parlamento Europeo, Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia e Corte dei Conti; ma anche il Consiglio Europeo ne è certamente parte, soprattutto alla luce della formulazione dell'art. 3 UE, che legittima un'accezione che ricomprenda anche tutte le istituzioni e gli organismi operanti nell'ambito dell'Unione o della Comunità. Resta fermo però che ciascuna componente esercita le sue funzioni nel quadro del e in relazione al Trattato dalle cui norme è prevista; ad esclusione di pochi casi, tutte queste istituzioni agiscono di volta in volta nel quadro o del TUE o dei Trattati comunitari, anche se ovviamente tutto ciò finirà con il Trattato di Riforma. Nozione di istituzione e funzionamento del sistema Nel sistema istituzionale dell'Unione la nozione di istituzione è riservata alle sole elencate nel par. 1 art.7 CE : Parlamento, Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia e Corte dei Conti. Dal possesso della qualità di "istituzione" discende, oltre ad una certa autonomia finanziaria e di gestione del personale, l'applicabilità delle norme dei Trattati che genericamente si riferiscono alle istituzioni, ma al contrario la mancanza di quella qualità non esclude necessariamente che una data norma dei Trattati non si applichi anche ad organismi diversi dalle istituzioni. La valutazione di applicabilità va fatta caso per caso, e la Corte di Giustizia conferma questa conclusione, escludendo l'applicabilità di una di quelle norme quando ciò possa portare ad attribuire prerogative ulteriori ad un organo non elencato nell'art. 7 par. 1 Nel quadro delle rispettive attribuzioni, ciascuna istituzione gode di un potere di autorganizzazione, che le altre istituzioni e gli Stati membri devono rispettare. L'autonomia però, incontra un limite nel rispetto dell'equilibrio istituzionale, e delle norme dei Trattati.

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La Corte di Giustizia ha anche desunto dal dovere di cooperazione con le istituzioni dell'Unione imposto agli Stati membri dall'art 10 CE, un corrispondente obbligo di leale cooperazione tra le istituzioni; tale obbligo giustifica la conclusione tra le istituzioni di accordi interistituzionali destinati a disciplinare formalmente aspetti delle reciproche relazioni. Caratteristiche generali del sistema istituzionale L'apparato organico sulla cui base agisce l'Unione è organizzato quasi totalmente intorno al ruolo dell'istituzione composta dai Governi, il Consiglio, l'unica tra quelle elencate all'art. 5, ad avere competenza rispetto a tutti i settori del TUE; le altre istituzioni hanno invece un ruolo più limitato. A fronte di ciò, l'apparato organico della Comunità si presenta assai complesso; al suo interno si riflettono varie forme d rappresentanza, nonché la pluralità delle funzioni proprie del sistema comunitario. Per quanto riguarda la rappresentanza è da notare che la composizione intergovernativa rappresenta l'eccezione, presente solo nel Consiglio, in quanto gli altri organi comunitari, sebbene quasi tutti nominati dai governi, sono caratterizzati da una composizione formalmente indipendente, i cui membri non rappresentano il governo che li ha nominati, ma fanno parte dell'organo a titolo personale. La composizione di questi organi assume forme diverse, espressione di differenti rappresentatività. Il sistema comunitario affianca ad organi, quali la Commissione o la Corte di Giustizia, la cui indipendenza dagli Stati è messa unicamente a servizio dell'interesse dell' ente- Comunità, altri organi, per i quali l'indipendenza è funzionale al fatto di esprimere a livello della Comunità interessi e istanze diversi da quelli governativi. Gli elementi peculiari sono: il fatto che attraverso questi organi, interessi e istanze godono nel sistema comunitario di una rappresentanza diretta e non mediata attraverso il canale governativo. che il compito di tali organi non si esaurisce nella rappresentanza di tali interessi, ma essi contribuiscono al funzionamento del sistema, arrivando talvolta ad assolvere a tale livello, funzioni analoghe a quelle proprie, sul piano nazionale, delle istanze da essi rappresentate. La varietà di competenze e poteri assegnati alla Comunità, si è riflessa in una crescente complessità del suo sistema istituzionale. Il potere normativo, non è riservato all'organo intergovernativo, ma è in buona parte condiviso da Consiglio e Parlamento Europeo, nel triangolo istituzionale in cui essenziale è il ruolo della Commissione. Analogamente avviene per il potere esecutivo, esercitato tanto dal Consiglio che dalla Commissione. La funzione giurisdizionale infine, inizialmente nelle mani di un solo organo giurisdizionale, risulta oggi organizzata su più gradi di giurisdizione: Corte di Giustizia, Tribunale di primo grado, ed ora anche la possibilità di creare tribunali speciali per taluni ricorsi in materie specifiche. Una ancor maggiore articolazione di poteri si trova quando si passa dal piano generale a taluni settori specifici di competenza della Comunità. Il Consiglio Europeo L'art. 4 UE prevede che il Consiglio Europeo dà all'Unione l'impulso necessario al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici, riunisce i capi di Stato e di governo degli Stati membri, nonché il presidente della Commissione, si riunisce almeno due volte

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all'anno sotto la presidenza del capo di Stato o di governo dello Stato membro che esercita la presidenza del Consiglio. Sebbene molto simile al Consiglio, la sua previsione e quella riguardo alla sua presidenza indicano la non identità tra i due organi, anche se essi potrebbero coincidere per composizione, e lo fanno per alcune decisioni per cui è imposto il "Consiglio riunito nella composizione dei capi di Stato o di governo". Però nella veste di Consiglio dell'Unione, l'assise dei capi di Stato e di governo ha competenze delimitate e procedure prefissate, invece nella veste di Consiglio europeo, i capi di Stato o di governo operano al di fuori di queste regole di forma e procedura e le loro deliberazioni sfuggono al sindacato giurisdizionale. La differenza tra le due istituzioni verrà confermata dal Trattato di riforma, in base al quale il Consiglio Europeo sostituirà il Consiglio , tutte le volte che quest'ultimo è previsto che debba oggi riunirsi a livello di capi di Stato e di governo. Ulteriormente la presidenza del Consiglio Europeo non spetterà più al capo di Stato o di governo dello Stato membro cui spetta per rotazione semestrale la presidenza del Consiglio, ma sarà elettiva, da parte dello stesso Consiglio Europeo. (mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una volta). Per quanto riguarda il Consiglio Europeo, in virtù del carattere essenzialmente politico delle sue funzioni, non è prevista una modalità di voto per la formazione della volontà di tale organo: le sue deliberazioni sono di regola prese per consensus, sono cioè raggiunte quando non vi siano obiezioni da parte nessun componente dell'organo, anche se con il Trattato di riforma, limitatamente all'adozione di atti formali, ad esso verranno estese le regole di voto valide per il Consiglio. Le istituzioni politiche: a) il Consiglio Il Consiglio dell'Unione è la riunione dei rappresentanti dei governi degli Stati membri. Concentra una serie di ruoli e funzioni che lo caratterizzano come titolare del potere legislativo ed esecutivo. In quanto unico organo rappresentativo del canale governativo, attraverso esso passano tutte le decisioni su cui ruota l'azione dell'Unione; e anche se altre istituzioni lo affiancano talvolta nelle decisioni, rimane comunque il protagonista principale. E' compito suo fornire all'Unione indirizzi politici e orientamenti generali, prendere le principali decisioni istituzionali, dirigere l'attività legislativa, coordinare le politiche economiche generali degli Stati membri, concludere gli accordi internazionali dell'Unione, di cui detiene l'effettiva titolarità del potere estero. Il Consiglio è formato da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, abilitato ad impegnare il proprio governo, ma vede modificarsi la sua composizione a seconda degli argomenti all'ordine del giorno. E' invalso l'uso di denominazioni conseguenti che richiamano le diverse formazioni (Consiglio Giustizia, Agricoltura), anche se rimane ferma l'unicità del Consiglio in quanto istituzione. La scelta del rappresentante da inviare è rimessa al singolo Stato membro, purché abbia livello ministeriale (ministri, sottosegretari). A parte questa articolazione orizzontale, ce n'è anche una verticale: gruppi di lavoro, composti da funzionari degli Stati membri, ad essi è affidato l esame tecnico dei singoli dossier. Comitato dei Rappresentanti permanenti (COREPER), perfezionano la preparazione delle deliberazioni e la valutazione politica dei nodi ancora aperti. Consiglio a livello dei ministri, prende la deliberazione finale. Il Consiglio, nelle sue varie formazioni, è presieduto a turno da ciascuno Stato membro, con rotazione semestrale. E' inoltre assistito da un apparato amministrativo (Segretariato Generale), al cui vertice stanno Segretario e Vicesegretario generale, entrambi nominati a maggioranza qualificata dallo stesso Consiglio.

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Se non è prevista una modalità di voto diversa, il Consiglio delibera con maggioranza semplice dei suoi membri nel quadro della Comunità, ed all'unanimità nel quadro dell'Unione. Anche se per quanto riguarda la Comunità, il Trattato stabilisce nella maggior parte dei casi quale procedura debba essere seguita: generalmente maggioranza qualificata, e l'unanimità per le decisioni più importanti. Nell'ambito dell'Unione invece, è l'unanimità la regola generale, con la maggioranza qualificata espressamente prevista solo per le decisioni minori. Di solito l'astensione di un rappresentante non rende inapplicabile l'atto allo Stato dell'astenuto,tranne quando il Consiglio delibera all'unanimità nell'ambito del secondo pilastro, in tal caso il rappresentante, con dichiarazione formale di "astensione costruttiva", impedirà che il proprio Stato sia destinatario degli obblighi derivanti dalla decisione su cui si è astenuto. La maggioranza qualificata si fonda su un criterio di voto ponderato: a ciascuno Stato spetta un numero di voti espressamente previsto nel Trattato, commisurato al peso economico, demografico e alle regole di equilibrio politico. (Italia = 29 voti su 345 totali) Il Trattato di riforma prevede che la maggioranza qualificata verrà affiancata dal 2014, fino al 2017, dal sistema di doppia maggioranza (55% degli Stati, 65% della popolazione.) b) Il Parlamento Europeo E' l'istituzione attraverso cui si esprime il principio di democrazia nell'ordinamento comunitario, esso è infatti composto da rappresentanti dei popoli degli Stati membri, eletti a suffragio diretto. L'art. 189 CE ne fissa il numero massimo in 732; per il momento sono 785 per l'ingresso di rumeni e bulgari; dal 2009 saranno 736, ma con il Trattato di riforma diventeranno 751 I seggi sono ripartiti in base al criterio peso demografico di ogni paese, con un vantaggio per i paesi più piccoli. L'art. 19 CE riconosce ai cittadini degli Stati membri, in quanto "cittadini dell'Unione", il diritto di elettorato passivo e attivo alle elezioni europee anche in Stati diversi dal proprio, con la conseguenza che in un seggio spettante ad uno Stato possa essere eletto un cittadino di un'altro Stato. Il Parlamento Europeo è eletto ogni 5 anni, ed all'inizio di ogni legislatura nomina al suo interno il presidente e un certo numero di vicepresidenti, in carica per metà legislatura. Il potere deliberativo si esercita unicamente in sessione plenaria, e a maggioranza assoluta dei suffragi espressi, a meno che non sia diversamente stabilito dai Trattati. Il carattere democratico-rappresentativo del Parlamento europeo si esprime infine, in un generale ruolo di controllo politico verso le altre istituzioni, in particolare della Commissione, alla cui nomina il Parlamento partecipazione, e nei cui confronti ha un potere di censura. La Commissione è obbligata ogni anno a presentare una relazione generale sull'attività della Comunità, e su specifici settori. Nei confronti del Consiglio invece, potrà proporre interrogazioni, e pretendere di essere informato degli sviluppi nei due pilastri intergovernativi. Analogo obbligo anche per il Consiglio europeo. c) La Commissione Nella Commissione si assommano più competenze, riguardanti tutti i settori di attività della Comunità e, in maniera più ridotta, dell'Unione. La Commissione ha un ruolo determinante nell'attività normativa della Comunità, con atti normativi propri, o in collaborazione con il Consiglio e il Parlamento europeo, che, tranne in rari casi, non possono deliberare se non a partire da una sua proposta, da cui il Consiglio non si potrà discostare, ma da essa sempre modificabile. Altrettanto importante è il potere normativo diretto della Commissione, soprattutto in relazione al frequente

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ricorso che gli atti adottati da Consiglio e Parlamento fanno, alla delega della Commissione per l'emanazione di misure applicative. Il TCE attribuisce alla Commissione un generale potere di esecuzione del diritto comunitario, sia sul piano dell'applicazione amministrativa, che su quello della vigilanza rispetto all'osservanza delle norme comunitarie da parte dei destinatari. E per quanto riguarda le inosservanze ha il potere di portare un Stato membro inadempiente dinanzi alla Corte di Giustizia, oppure di sanzionare direttamente, in alcuni casi, i comportamenti contrari al diritto comunitario di soggetti privati e degli Stati. Alla Commissione spetta anche la rappresentanza internazionale dell'Unione nei settori disciplinati dal TCE. Il ruolo preponderante delineato nel TCE, non si ritrova nei settori di cooperazione disciplinati nel TUE. Infatti all'interno del TUE la Commissione mantiene un ruolo primario per quanto riguarda iniziativa e vigilanza, ma viene ridimensionato nel GAI, e risulta del tutto marginale nel PESC. I membri della Commissione sono 27, quanti sono gli Stati membri, in carica per 5 anni, nominati dal Consiglio su proposta dei governi nazionali. Le istituzioni di controllo. La Corte di Giustizia (rinvio) e la Corte dei Conti. Sono previste anche forme più specifiche di controllo sul funzionamento dell'Unione: il controllo giurisdizionale della Corte di Giustizia e il controllo contabile della Corte dei Conti. La Corte dei conti è composta da un cittadino per ciascuno Stato membro, nominato su proposta di questo, ma dotato di piena indipendenza. membri devono provenire da istituzioni di controllo esterno dei rispettivi paesi e devono comunque avere le qualificazioni specifiche per la funzione da ricoprire. Sono nominati per sei anni rinnovabili dal Consiglio. Parlamento Europeo esprime parere non vincolante per il Consiglio, sui cittadini proposti dagli Stati membri. La Corte nomina al suo interno un presidente in carica per 3 anni rinnovabili. Svolge due funzioni: di controllo, esame delle entrate e delle spese delle istituzioni, organi, e organismi dell'Unione , che ha ad oggetto sia la legittimità e la regolarità di tali operazioni, che la sana gestione finanziaria. Le spese esaminate sono quelle effettuate nel quadro delle attività previste dal TCE, ma anche amministrative ed operative sostenute ai fini del secondo e terzo pilastro, o da organismi dell'Unione, a meno che il Consiglio non decida di porle a carico degli Stati membri. Al termine di ciascun esercizio redige una relazione annuale sull'esecuzione del bilancio, e può presentare in ogni momento le sue osservazioni su problemi particolari. La funzione consultiva si estrinseca in pareri che la Corte può produrre di propria iniziativa o su richiesta di una delle altre istituzioni della Comunità, e in due casi tale richiesta è obbligatoria, perché espressamente prevista dal TCE. Gli organismi monetari e finanziari: a) la Banca centrale europea La Banca centrale europea (BCE) è stata istituita nel 1998 dal trattato sull‘Unione europea e ha sede a Francoforte (Germania). Suo compito è gestire l'euro, la moneta unica dell'UE, e garantire la stabilità dei prezzi per gli oltre due terzi dei cittadini dell'UE che utilizzano l'euro. È compito della BCE anche definire e attuare la politica economica e monetaria dell‘UE. Per assolvere le sue funzioni, la BCE opera nell‘ambito del ―Sistema europeo delle banche

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centrali‖ (SEBC), che comprende tutti i 27 paesi dell‘UE. Tuttavia, solo 16 di tali paesi hanno finora adottato l‘euro. Questi ultimi formano collettivamente ―l‘area dell‘euro‖ e le loro banche centrali, insieme alla BCE, costituiscono il cosiddetto ―eurosistema‖. La BCE è totalmente indipendente nell‘esercizio delle sue funzioni e non può, al pari delle banche centrali nazionali dell‘Eurosistema e dei membri dei rispettivi organi decisionali, sollecitare o accettare istruzioni da organismi esterni. Le istituzioni dell‘UE e i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio evitando di influenzare la BCE o le banche centrali nazionali nell‘assolvimento dei loro compiti. La BCE, in stretta collaborazione con le banche centrali nazionali, predispone e attua le decisioni degli organi decisionali dell‘Eurosistema, che sono il consiglio direttivo, il comitato esecutivo e il consiglio generale. Una delle funzioni principali della BCE è mantenere la stabilità dei prezzi nell‘area dell‘euro, per garantire che il potere d‘acquisto dell‘euro non sia eroso dall‘inflazione. Obiettivo della BCE è garantire che la progressione annuale dei prezzi al consumo sia inferiore, ma vicina, al 2% a medio termine. Due sono le modalità di attuazione: in primo luogo, controllando la massa monetaria. L‘inflazione risulta infatti da un eccesso di massa monetaria rispetto all‘offerta di beni e servizi; in secondo luogo, monitorando le tendenze dei prezzi e valutando il rischio che ne può derivare in rapporto alla stabilità dei prezzi nell‘area dell‘euro. Tenere sotto controllo la massa monetaria comporta, tra l‘altro, fissare i tassi d‘interesse in tutta l‘area dell‘euro, che è forse la più nota tra le funzioni della Banca. La Banca centrale europea opera attraverso i suoi tre organi decisionali:

Il comitato esecutivo, comprende il presidente della BCE, il vicepresidente e quattro altri membri, tutti nominati di comune accordo dai presidenti e dai primi ministri dei paesi dell‘area dell‘euro. Il loro mandato dura otto anni e non è rinnovabile. Il comitato esecutivo attua la politica monetaria secondo le decisioni e gli indirizzi del consiglio direttivo (v. infra), impartendo le necessarie istruzioni alle banche centrali nazionali. Ha inoltre il compito di preparare le riunioni del consiglio direttivo ed è responsabile della gestione degli affari correnti della BCE.

Il consiglio direttivo è il massimo organo decisionale della Banca centrale europea. Composto da sei membri del comitato esecutivo e dai governatori delle 15 banche centrali dell‘area dell‘euro, è presieduto dal presidente della BCE. Suo compito primario è definire la politica monetaria dell‘area dell‘euro, fissando in particolare i tassi d‘interesse applicabili ai prestiti erogati dalla Banca centrale alle banche commerciali.

Il consiglio generale è il terzo organo decisionale della BCE. Comprende il presidente della BCE, il vicepresidente e i governatori delle banche centrali nazionali dei 27 Stati membri dell‘Unione. Il consiglio generale concorre all‘adempimento delle funzioni consultive e di coordinamento della BCE e ai preparativi necessari per il futuro allargamento dell‘area dell‘euro.

b) La Banca europea degli investimenti La Banca europea per gli investimenti (BEI) è un organismo dell'UE dotato di personalità giuridica, con sede a Lussemburgo, che, come dispone l'art. 309 del TFUE, "ha il compito di contribuire, facendo appello al mercato dei capitali ed alle proprie risorse, allo sviluppo equilibrato e senza scosse del mercato comune nell'interesse dell'Unione"36. Essa è disciplinata dagli arti. 3UK e 309 del TFUE e dallo statuto che costituisce un protocollo allegato ai trattati.

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Sono soci della BEI tutti gli Stati membri, i quali sottoscrivono una quota del suo capitale sociale e sono responsabili in solido per le obbligazioni assunte dalla banca, ciascuno limitatamente all'ammontare della quota di capitale sottoscritto. Gli organi della BEI sono il consiglio dei governatori, il consiglio di amministrazione e il comitato direttivo. Il consiglio dei governatori è l'organo di indirizzo della BEI ed e composto dei ministri designati dagli Stati membri. Il consiglio di amministrazione è l'organo decisionale della BEI e ha competenza esclusiva per decidere della concessione di crediti e di garanzie e per la conclusione di prestiti. Infine, il comitato direttivo è l'organo esecutivo della BEI e provvede alla gestione degli affari d'ordinaria amministrazione. La BEI facilita, mediante la concessione di prestiti e garanzie, senza fini di lucro, il finanziamento di progetti in tutti i settori dell'economia, in particolare: a) progetti di valorizzazione delle regioni meno sviluppate; b) progetti di ammodernamento o riconversione di imprese o di creazione di nuove attività richieste dalla graduale realizzazione del mercato comune che, per la loro ampiezza o natura, non possono essere interamente assicurati dai vari mezzi di finanziamento esistenti nei singoli Stati membri; c) progetti dì interesse comune per più Stati membri che, per la loro ampiezza o natura, non possono essere completamente finanziati dai singoli Stati membri. Inoltre, la BEI concorre al finanziamento di programmi di investimento nel quadro della politica di coesione economica e sociale congiuntamente, come dispone l'art. 175 del TFUE, con gli interventi dei fondi strutturali e degli altri strumenti finanziari dell'UE, nonché nel quadro della politica di cooperazione allo sviluppo, come prevede l'art. 209, prf. 3 del TFUE. Infine, poiché la BEI non può acquistare partecipazioni in imprese, ne assumere responsabilità nella loro gestione, il suo statuto ha consentito di istituire un Fondo europeo per gli investimenti (FEI), con sede in Lussemburgo, dotato di personalità giuridica e autonomia finanziaria, di cui la BEI è membro fondatore assieme all'UE e a diversi istituti finanziari. Gli organi consultivi: a) il Comitato economico e sociale Istituito dal trattato di Roma nel 1957, il Comitato economico e sociale europeo (CESE) è un organo consultivo incaricato di rappresentare datori di lavoro, sindacati, agricoltori, consumatori e altri gruppi d‘interesse che costituiscono collettivamente la ―società civile organizzata‖. Il suo ruolo è quindi esporre i pareri e difendere gli interessi delle varie categorie socioeconomiche nel dibattito politico con la Commissione, il Consiglio e il Parlamento europeo. Il CESE fa da ponte fra l‘Unione e i suoi cittadini, promuovendo un modello di società democratica di tipo più partecipativo e inclusivo. Il Comitato è parte integrante del processo decisionale dell‘UE: è infatti consultato obbligatoriamente prima che vengano prese decisioni di politica economica e sociale. Di propria iniziativa o su richiesta di un‘altra istituzione UE, può inoltre esprimere pareri in merito ad altre questioni. Il CESE è costituito da 344 membri. Il numero dei rappresentanti per ogni Stato membro ne riflette all‘incirca la popolazione. I suoi membri sono nominati su proposta degli Stati membri per quattro anni ma esercitano le loro funzioni in piena indipendenza. Il loro mandato è rinnovabile. Il Comitato si riunisce in sessione plenaria e i dibattiti si svolgono in base al lavoro preparatorio di sei sottocomitati denominati ‗sezioni‘, ciascuna delle quali è competente per un determinato settore. Il Comitato elegge un presidente e due vicepresidenti, che restano in carica per un periodo di due anni.

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Tre sono i suoi compiti fondamentali del comitato: formulare pareri destinati alle tre grandi istituzioni, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione, sia su loro richiesta che di sua iniziativa; permettere una maggiore adesione e partecipazione della società civile organizzata al processo decisionale dell‘UE; rafforzare il ruolo della società civile nei paesi terzi e promuovere l‘istituzione di strutture consultive ispirate al suo modello. Pur continuando a svolgere le rispettive attività professionali nei paesi di origine, i membri del Comitato formano tre gruppi distinti, in rappresentanza di datori di lavoro, lavoratori dipendenti e soggetti di diverse attività di natura sociale ed economica. Il primo gruppo è composto da esponenti del settore pubblico e privato, delle piccole e medie imprese, delle camere di commercio, del commercio all‘ingrosso e al dettaglio, delle banche e delle assicurazioni, dei trasporti e dell‘agricoltura. Il secondo gruppo rappresenta tutte le categorie di lavoratori dipendenti, dagli operai ai dirigenti. I suoi membri sono esponenti dei sindacati. Il terzo gruppo rappresenta una vasta gamma di interessi: ONG, organizzazioni di agricoltori, artigiani e professioni liberali, cooperative e associazioni senza scopo di lucro, organizzazioni consumistiche e ambientaliste, comunità scientifiche e accademiche e associazioni in rappresentanza delle famiglie, delle donne e dei disabili. b) Il Comitato delle regioni Istituito nel 1994 dal trattato sull‘Unione europea, il Comitato delle regioni (CDR) è un organo consultivo costituito da rappresentanti degli enti locali e regionali d‘Europa. Nel quadro del processo decisionale dell‘UE, il CDR deve essere consultato su questioni di politica regionale, ambiente, istruzione e trasporti, tutti settori di cui sono competenti i governi locali e regionali. Il Comitato è costituito da 344 membri. Il numero di rappresentanti per ogni Stato membro ne riflette all‘incirca la popolazione. I suoi membri sono rappresentanti politici eletti nell‘ambito di enti municipali o regionali, spesso a capo di governi regionali o di amministrazioni comunali cittadine. Sono nominati su proposta degli Stati membri per quattro anni ma esercitano le loro funzioni in piena indipendenza. Il loro mandato è rinnovabile. Devono ricevere anche un mandato dagli enti che rappresentano o essere politicamente responsabili dinanzi ad essi. Il Comitato designa il presidente tra i suoi membri per un mandato biennale. Suo ruolo è fare in modo che la legislazione dell‘UE tenga conto della prospettiva locale e regionale. A tal fine formula pareri sulle proposte della Commissione. La Commissione e il Consiglio hanno l‘obbligo di consultare il Comitato delle regioni ogni volta che vengono presentate nuove proposte in settori che interessano la realtà locale e regionale e in tutti i casi in cui lo ritengano opportuno. Dal canto suo il Comitato può adottare pareri di sua iniziativa e presentarli alla Commissione, al Consiglio e al Parlamento. Le agenzie europee In connessione con l'aumento dei compiti assegnati all'UE e con il crescente impegno della Commissione nella gestione di numerose politiche e programmi, a partire dalla metà degli anni '70 del secolo scorso, sono state istituite alcune Agenzie europee specializzate e decentrate negli Stati membri, cui sono stati delegati compiti di assistenza e consulenza tecnico scientifica in settori specifici. Il loro compito principale consiste nell'assistere le istituzioni europee sotto il profilo giuridico, tecnico o scientifico.

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Dalla sanità alle relazioni esterne, passando per la politica sociale, le agenzie europee intervengono in pressoché tutti i settori di attività dell'UE. Si raggruppano in quattro grandi categorie, di cui le due principali sono le agenzie esecutive e le agenzie comunitarie tradizionali. Le sei agenzie esecutive, istituite nel 2002, hanno il compito di contribuire alla gestione di uno o più programmi dell'UE. Le agenzie comunitarie sono invece state create per rispondere ad esigenze specifiche. Ne è un esempio l'Agenzia europea delle sostanze chimiche (ECHA), istituita nel 2007 nel quadro del regolamento REACH. La notevole diversità, sia geografica che giuridica, delle agenzie tradizionali contrasta con l'omogeneità delle agenzie esecutive, specie per quanto riguarda il loro ruolo e statuto. Questa eterogeneità e la mancanza di una struttura comune costituiscono un notevole ostacolo alla chiara definizione del loro posto nella struttura istituzionale dell'UE. Il dibattito sulle agenzie europee non è di ieri. Già nel 2005 le condizioni di creazione, funzionamento e controllo delle agenzie erano state oggetto di un progetto di accordo interistituzionale, che però non è andato in porto. La Commissione ha ora rivolto un nuovo appello al Parlamento europeo e al Consiglio per la costituzione di un gruppo di lavoro interistituzionale chiamato a rilanciare il dibattito. CAP. III - IL PROCESSO DECISIONALE I profili generali Il processo decisionale dell'Unione, vede di regola la partecipazione di più istituzioni o organi, espressa attraverso diverse modalità. Modalità ed istituzioni coinvolte dipendono dal contenuto dell'atto da adottare. Nel quadro del TUE (II e III pilastro), il potere decisionale, non soltanto è riservato al solo Consiglio, ma esso lo esercita il più delle volte in quasi completa solitudine. Per quanto riguarda il TCE invece, il Consiglio rimane pur sempre organo centrale del processo decisionale, tuttavia il suo potere è bilanciato dalla partecipazione alla decisione, in forme e con intensità diverse, di istituzioni e organi espressivi di interessi diversi da quelli dei governi; questo rende le procedure di decisione all'interno del pilastro comunitario, particolarmente numerose. Spetta quindi a chi propone l'atto, all'istituzione che lo adotta, individuare la base giuridica e quindi la procedura da seguire, ma la scelta non è libera: secondo la Corte di Giustizia va opera attraverso criteri oggettivi, suscettibili di sindacato giurisdizionale (scopo, contenuto). Quando ad un atto siano applicabili più basi giuridiche prevedono differenti procedure: laddove queste appartengano tanto al TUE che al TCE, verranno adottati due atti paralleli di contenuto analogo ,quando invece appartengano allo stesso Trattato, l'istituzione deve adottare gli atti corrispondenti sulla base di ambedue le norme considerate. Le procedure "legislative" comunitarie: a) la procedura di consultazione La funzione normativa primaria della Comunità, si fonda sui procedimenti che, sfociando in una decisione finale del Consiglio, si sono definiti "principali". Nella partecipazione, e con differenti modalità, dei diversi organi e istituzioni si riflette l'equilibrio di ruoli che il Trattato ha voluto individuare rispetto ad ogni decisione normativa importante della Comunità. Il principale punto di equilibrio è quello tra le tre istituzioni "politiche": il Consiglio, rappresentativo degli Stati, il Parlamento europeo, rappresentativo dei popoli, e la Commissione, rappresentativo dell'interesse generale della Comunità. La prima procedura prevista è stata la consultazione, sul cui nucleo procedurale originario, innesti di ulteriori fasi, hanno creato le nuove procedure

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a) Consultazione: La Commissione presenta una proposta - il Consiglio adotta l'atto dopo aver chiesto il parere del Parlamento Europeo. La Commissione può liberamente modificare la proposta fino a che l'atto non sia adottato, al fine di aiutare la formazione della maggioranza all'interno del Consiglio, il quale può modificare la proposta solo all'unanimità, e solo con emendamenti che non incidano sull'ambito sostanziale definito dalla proposta iniziale. La Commissione potrà anche ritirare la proposta in caso di disaccordo grave con il Consiglio, o di proposte mai discusse e quindi obsolete. Il parere del Parlamento è obbligatorio, ma mai vincolante, tranne in casi particolari e limitati; quindi il Consiglio può disattenderlo, ma è tenuto a richiederlo, a pena di invalidità, e ad attenderlo, a meno che l'inerzia del Parlamento non concretizzi una violazione del principio di leale collaborazione, in tal caso il Consiglio può adottare l'atto senza attendere oltre. E' previsto anche l'obbligo di una nuova consultazione del Parlamento, ogni volta che l'atto infine adottato, sia diverso da quello su cui il Parlamento stesso sia già stato consultato. La mancata riconsultazione è motivo di annullamento dell'atto. Segue b) la procedura di cooperazione E' articolata in due fasi: la prima segue fedelmente la sequenza della consultazione, tranne il fatto che la deliberazione del Consiglio non ha carattere definitivo, ma piuttosto di posizione comune; tale posizione sarà oggetto della seconda fase la posizione comune è comunicata la Parlamento Europeo, che entro tre mesi: approva a maggioranza semplice, l'atto viene definitivamente adottato dal Consiglio in conformità alla posizione comune, e senza modifiche respinge a maggioranza assoluta può proporre emendamenti, che rimettono in gioco la Commissione, la quale riesamina la proposta, successivamente il Consiglio potrà pronunciarsi. Se dopo il riesame della Commissione o l'eventuale bocciatura della posizione comune da parte del Parlamento europeo, il Consiglio non riesca a pronunciarsi entro tre mesi, in mancanza di una decisione, la proposta si ritiene non adottata. Con il Trattato di riforma la cooperazione verrà soppiantata dalla codecisione e in un caso dalla consultazione. Segue: c) La procedura di codecisione L'introduzione della procedura di codecisione, determina una sostanziale equiparazione di ruoli tra Consiglio e Parlamento europeo all'interno del processo decisionale. Al momento l'ambito di applicazione della codecisione è molto esteso, più di metà dell'attività legislativa della Comunità, e verrà ancora ampliato con il Trattato di riforma, che la consacrerà a procedura ordinaria. Sul piano formale lo schema è quello consueto: proposta della Commissione - parere del Parlamento europeo -pronuncia del Consiglio. la peculiarità sta nel fatto che tale fase può anche essere l'ultima, nel senso che se il Parlamento approva o propone emendamenti interamente condivisi dal Consiglio, questo può adottare l'atto a maggioranza qualificata. Nel caso in cui non concordi con tutti o alcuni emendamenti, il Consiglio adotterà una posizione comune, dando inizio alla seconda fase, che comincia con la trasmissione della posizione comune del Consiglio al Parlamento. Il Parlamento ha tre mesi per pronunciarsi con tre possibili risultati:

approvazione implicita o esplicita, l'atto si considera definitivamente adottato bocciatura, atto definitivamente non adottato propone degli emendamenti, sui quali la Commissione deve formulare un parere. Entro tre mesi, di nuovo, il Consiglio potrà approvare a maggioranza qualificata tutti gli

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emendamenti parlamentari e adottare la posizione comune; ovvero convocare entro sei settimane un comitato di conciliazione : membri di Consiglio, Parlamento e Commissione, e da il via alla terza fase. La terza fase consiste nella ricerca di un accordo su un "progetto comune". In caso di mancato accordo l'atto si considera non adottato, e comunque l'eventuale progetto su cui si trovi l'accordo, potrebbe non avere la maggioranza in Consiglio o in Parlamento per tradurlo in atto definitivo. Segue: d) La procedura di parere conforme Per taluni atti si prevede una procedura di adozione che richiede il parere del Parlamento perché il Consiglio possa adottare l'atto, e che tale parere sia conforme; in mancanza è impedita l'adozione dell'atto. Questa procedura si usa per la decisione di conclusione di accordi di associazione, per quella sull'adesione di nuovi Stati membri, e per alcune decisione attribuite dal TCE al Consiglio. A differenza della procedura di codecisione, il parere conforme non contribuisce alla definizione dell'atto, ma interviene su un atto già definito. Le procedure decisionali nel quadro dell'Unione: a) il processo decisionale nel secondo pilastro La politica estera e di sicurezza comune (PESC), il cosiddetto secondo pilastro, ha il suo fondamento giuridico nel titolo V del Trattato sull‘Unione europea. Il processo decisionale nell‘ambito della PESC si esplica mediante procedure intergovernative. Ogni Stato membro e la Commissione possono sottoporre al Consiglio questioni che rientrano nella PESC e presentare proposte. Il Consiglio europeo, formato dai Capi di Stato e di governo degli Stati membri, stabilisce i principi e gli orientamenti generali della PESC, decidendo le strategie comuni che l‘Unione deve attuare nei settori in cui gli Stati membri hanno importanti interessi in comune. Il Consiglio dell'Unione europea, formato da rappresentanti di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, decide le misure necessarie alla definizione e all‘attuazione della PESC, in base agli orientamenti generali adottati dal Consiglio europeo. Il Consiglio dell'Unione europea può adottare azioni comuni su specifiche situazioni in cui si ritiene necessario un intervento operativo dell‘Unione, oppure posizioni comuni per definire l‘approccio dell‘Unione su una questione particolare. Relativamente alla conclusione di accordi internazionali nel settore PESC, il Consiglio può autorizzare la Presidenza ad avviare negoziati. Tali accordi sono in seguito deliberati dal Consiglio. Inoltre, l'Unione europea può adottare dichiarazioni comuni che esprimono pubblicamente una posizione, una richiesta o un'aspettativa dell'Unione europea rispetto ad un Paese terzo o ad una questione internazionale. La regola generale per le decisioni in ambito PESC è l'unanimità, mitigata dall‘astensione ―costruttiva‖ (che non impedisce l‘adozione dell‘atto). E‘ previsto il ricorso alla maggioranza qualificata per le misure di attuazione adottate sulla base di strategie comuni del Consiglio europeo, per le decisioni di attuazione di un‘azione comune o di una posizione comune, per la nomina di rappresentanti speciali con mandati politici specifici. Il Parlamento europeo viene informato periodicamente dalla Presidenza e dalla Commissione sugli sviluppi della politica estera e di sicurezza comune. E‘ inoltre consultato sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della PESC. Può rivolgere interrogazioni ed indirizzare raccomandazioni al Consiglio ed una volta all‘anno tiene un dibattito sui progressi compiuti in materia.

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Segue: b) Il processo decisionale nel terzo pilastro La cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, il cosiddetto terzo pilastro, ha il suo fondamento giuridico nel titolo VI del Trattato dell'Unione europea. Originariamente il Trattato dell‘Unione europea includeva nel terzo pilastro tutte le materie relative alla giustizia e agli affari interni. Successivamente il Trattato di Amsterdam ha fatto confluire le disposizioni concernenti visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse alla libera circolazione delle persone nel titolo IV del Trattato istitutivo della Comunità europea (ossia nel primo pilastro). Nel terzo pilastro sono rimaste le disposizioni relative alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Nel terzo pilastro il Consiglio può adottare: · posizioni comuni che definiscono l‘orientamento dell‘Unione in merito a una questione specifica; · decisioni-quadro per ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Tali decisioni-quadro sono vincolanti quanto al risultato da ottenere (analogamente alle direttive), ma non hanno efficacia diretta; · decisioni per qualsiasi altro scopo coerente con gli obiettivi prefissati, escluso il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri; le decisioni sono vincolanti ma prive di efficacia diretta. Le misure di attuazione delle decisioni a livello dell‘Unione sono deliberate a maggioranza qualificata; · convenzioni, soggette alla successiva ratifica degli Stati membri. Le procedure basate sulla delega di competenze alla Commissione Le leggi europee e le leggi quadro europee possono, inoltre, delegare alla Commissione la facoltà di emanare regolamenti delegati che completano o modificano determinati elementi non essenziali della legge o della legge quadro, delimitando esplicitamente obiettivi, contenuto, portata e durata della delega. La disciplina degli elementi essenziali di un settore rimane riservata alla legge o alla legge quadro.

Gli atti delegati sono adottati della Commissione su delega di un atto legislativo. L‟art. 290

prevede infatti che ―un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non

essenziali dell‟atto legislativo‖. Al tempo stesso si specifica che ―gli atti legislativi

delimitano esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata del potere di

delega. Gli elementi essenziali di un settore sono riservati all‟atto legislativo e non

possono pertanto essere oggetto del potere di delega‖; inoltre, il Parlamento europeo o il

Consiglio possono comunque decidere di revocare la delega. Infine ―l‟aggettivo „delegato‟

o „delegata‟ è inserito nel titolo degli atti delegati‖ (art. 290, par. 3).

Le procedure per la conclusione di accordi internazionali con Stati terzi: a) da partedella Comunità Così come nel quadro del TCE, il processo decisionale è organizzato intorno al triangolo istituzionale Parlamento europeo – Consiglio - Commissione, anche la procedura di conclusione di accordi internazionali con Stati terzi (o con organizzazioni internazionali) sulla base dello stesso Trattato vede coinvolte le stesse istituzioni; e così come l'adozione di atti nei settori di cooperazione PESC e GAI è riservata quasi totalmente al Consiglio, anche la conclusione di accordi con Stati terzi in quegli stessi settori spetta al Consiglio. (parallelismo delle procedure) a) la procedura di conclusione degli accordi internazionali è disciplinata nel TCE dall'art 300, integrato da ulteriori previsioni in altri articoli.

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Tale procedura si avvia su iniziativa della Commissione che presenta una raccomandazione al Consiglio di autorizzare la stessa Commissione il negoziato con uno Stato terzo, che verrà condotto da questa in base alle direttive impartite dal Consiglio. La fase negoziale si chiude con la paragrafatura del progetto di accordo da parte della Commissione e la presentazione di una sua proposta al Consiglio per l'adozione della decisione di autorizzazione alla firma dell'accordo da parte di un rappresentante dello stesso Consiglio. Può anche essere disposta l'applicazione provvisoria dell'accordo in attesa della conclusione formale. Oltre a questa procedura "solenne", può anche essere seguita una procedura semplificata, prevedendo direttamente nella decisione di firma,che questa valga come espressione della volontà della Comunità a vincolarsi all'accordo. La procedura solenne è utilizzata soprattutto quando sulla decisione debba essere obbligatoriamente sentito il Parlamento. Per la gran parte degli accordi il Trattato prevede un parere non vincolante, ma per alcuni tipi di accordi richiede un parere conforme. Oltre che per gli accordi di associazione e per quelli assimilabili, il parere conforme è imposto per gli accordi che comportino modifiche di un atto di diritto derivato adottato in codecisione e di accordi che abbiano ripercussioni finanziarie considerevoli per la comunità. Il principio del parallelismo delle procedure caratterizza anche le modalità di voto con cui il Consiglio è chiamato ad adottare i diversi atti che scandiscono la procedura di conclusione di un accordo con uno Stato terzo. E' previsto infatti che esso deliberi in tutti questi casi a maggioranza qualificata, salvo quando si tratti di accordi di associazione o di accordi riguardanti un settore in cui sul piano interno è richiesto l'unanimità. Infine in taluni casi la competenza a concludere un accordo internazionale è attribuita, nel quadro del TCE, alla stessa Commissione; in particolare per quanto riguarda gli accordi diretti a formalizzare forme di collaborazione o di collegamento reciproci con altre organizzazioni internazionali. Segue: b) Da parte dell'Unione In relazione alla competenza dell'Unione di concludere accordi internazionali, l'articolo III- 225 del progetto di Costituzione istituzionalizza la giurisprudenza della Corte di giustizia sulle competenze esterne implicite . Di conseguenza, l'Unione può concludere tali accordi qualora la Costituzione lo preveda o qualora la loro conclusione sia necessaria per realizzare uno degli obiettivi fissati dalla Costituzione, o ancora quando sia prevista in un atto giuridico obbligatorio dell'Unione o incida su un atto interno dell'Unione. Lo stesso avviene per la giurisprudenza della Corte relativa alle competenze esclusive per esercizio. L'articolo 12 della Costituzione prevede in effetti, al paragrafo 2, che l'Unione abbia competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione sia prevista in un atto legislativo dell'Unione, o sia necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno, o incida su un atto interno dell'Unione. In materia di negoziazione degli accordi internazionali, un'unica disposizione, l'articolo III-227 della Costituzione, disciplina tutti gli accordi conclusi dall'Unione, ad eccezione degli accordi nel settore monetario. La Costituzione delimita chiaramente la responsabilità della Commissione e quella del ministro degli Affari esteri per quanto riguarda l'avvio di negoziazioni. Essa infatti precisa che il ministro degli Affari esteri è responsabile della negoziazione di accordi che riguardano esclusivamente o principalmente la politica estera e di sicurezza comune. Per contro, l'articolo III-227 non designa in linea di principio alcun negoziatore, conferendo al Consiglio dei ministri, in funzione della materia dell'accordo da negoziare, il potere di designare il negoziatore o il capofila dell'équipe negoziale dell'Unione. Peraltro, il progetto di Costituzione rafforza il ruolo del Parlamento europeo, estendendo il suo potere di approvazione a tutti gli accordi che interessano settori ai quali sia applicabile

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la procedura legislativa. In effetti, nell'ambito del trattato CE, il Parlamento dispone di un potere di parere conforme solo per gli accordi di associazione, gli accordi che creano un quadro istituzionale specifico, gli accordi con ripercussioni finanziarie considerevoli e gli accordi che richiedono l'emendamento di un atto adottato secondo la procedura di codecisione (articolo 300, paragrafo 3, del trattato CE). Infine, per quanto concerne il processo decisionale, il voto del Consiglio dei ministri resta soggetto alla regola del parallelismo delle forme. Di conseguenza, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata, salvo nel caso in cui l'accordo interessi un settore in cui l'adozione di un atto dell'Unione richiede l'unanimità. Del resto, l'unanimità è necessaria per la conclusione di accordi di associazione o per l'adesione dell'Unione alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. PARTE SECONDA – LE FONTI

CAP. I - TIPOLOGIA DELLE FONTI Profili introduttivi Anche l'ordinamento creato dai Trattati istitutivi è organizzato intorno ad un sistema di fonti. Fonti che non si riducono alla classica coppia diritto primario-diritto derivato, ma che annoverano anche altre categorie di fonti normative che arricchiscono il sistema in modo consono al compito che deve affrontare; infine accanto alle fonti in senso proprio troviamo una serie di procedimenti normativi che rappresentano elementi importanti di condizionamento dell'assetto del sistema giuridico creato dai Trattati. I Trattati e il diritto primario Al vertice del complesso di fonti vi sono senza dubbio i Trattati istitutivi, ciascuno dei quali è atto fondante rispettivamente dell'Unione e delle singole Comunità, ed allo stesso tempo che regola competenze e procedura di funzionamento delle stesse. Le norme contenute nei trattati sono dunque norme sovraordinate rispetto alle altre dell'ordinamento, in quanto i procedimenti produttivi di queste ultime traggono la loro idoneità a farlo dalle norme dei Trattati. I Trattati istitutivi risultano corredati fin dall'inizio, o a seguito dei Trattati di modifica, di una serie di protocolli, all'interno dei quali vengono disciplinati alcuni aspetti di funzionamento dell'Unione, regolati solo in via generale, o non regolata, nei Trattati cui sono allegati. Il protocollo è strumento tipico per non appesantire il testo dei Trattati, per facilitarne la successiva integrazione/modifica,per immettere nell'ordinamento comunitario una disciplina di carattere meramente o formalmente transitorio, o per introdurre nel sistema discipline ad applicazione differenziata, senza intaccare formalmente la portata unitaria del Trattato. Alla nozione di Trattati vanno poi ricondotti anche gli atti di adesione, con cui hanno acquistato lo status di membro i diversi Stati che si sono aggiunti ai sei originari. Segue: Il carattere "costituzionale" dei Trattati. La loro modificabilità Nonostante l'assimilazione dei Trattati istitutivi a "Costituzione" dell'ordinamento comunitario abbia più una valenza politica che formale, in quanto essi non si limitano a dettare principi strutturali, ma disciplinano nel dettaglio alcuni settori di competenza della Comunità, tuttavia il paragone con una carta costituzionale sottolinea in maniera adeguata le peculiarità dei Trattati rispetto ai normali accordi internazionali. Ciò e vero in particolare per il modo in cui le norme dei Trattati vanno interpretate; in ragione infatti della funzione che svolgono rispetto all'ordinamento cui hanno dato vita, nella loro interpretazione, le

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considerazioni di carattere sistematico hanno finito per prevalere molto spesso sul dato testuale. E' la stessa Corte di Giustizia a stabilire che "ogni disposizione di diritto comunitario va ricollocata nel contesto e interpretata alla luce dell'insieme delle disposizioni, delle sue finalità e del suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione al disposizione in esame. Per quanto riguarda poi le supposte limitazioni al potere di emendamento dei Trattati, affermazione del carattere costituzionale degli stessi, non si possono certo pensare dei limiti materiali nei confronti degli Stati membri per l'esercizio di tale potere; si configura semmai una ridotta libertà, rispetto a ciò che normalmente avviene nel diritto internazionale, in quanto gli Stati non sono del tutto liberi circa il procedimento da seguire. Il Trattato (TCE), infatti prevede che, sulla convocazione di una conferenza intergovernativa tra gli Stati membri, destinata a portare all'adozione di un accordo di modifica del Trattato, il Consiglio debba esprimere il proprio parere favorevole, previa consultazione del Parlamento europeo, e se del caso, della Commissione. La Corte di Giustizia stabilisce inoltre a riguardo, che il Trattato non può essere modificato, se non mediante una revisione da effettuarsi ai sensi di detto procedimento, e che rimane esclusa la possibilità di riconoscere effetti nell'ordinamento comunitario a prassi seguite dagli Stati membri in deroga al TCE. Segue: Gli effetti delle norme di diritto primario sui soggetti dell'ordinamento La collocazione dei Trattati istitutivi al vertice dell'ordinamento comunitario comporta che essi abbiano come destinatari tutti i soggetti di questo. La Corte di Giustizia ha infatti, in riferimento al TCE, affermato che in un ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini, è del tutto concepibile che dal Trattato derivino diritti soggettivi per i singoli, anche come contropartita di precisi obblighi imposti ai singoli stessi. Ciò non vale però per il TUE, visto che esso stesso esclude qualsiasi efficacia diretta sui privati.Ma anche nel caso delle norme del TCE, la possibilità di ricavarne diritti direttamente in capo ai privati dipenderà dalla rispondenza della norma a determinate caratteristiche, che ne evidenzino la capacità di creare per i singoli situazioni soggettive che possano essere invocate davanti a un giudice nazionale. La Corte di Giustizia ha individuato le suddette caratteristiche in: chiarezza, precisione, completezza e carattere incondizionato della norma invocata. Ovviamente, come possono attribuire diritti, le norme del TCE possono essere per i privati anche fonte diretta di obblighi nei confronti di altri privati. (es. principio della parità di retribuzione tra uomo e donna nello stesso lavoro) Gli atti di diritto derivato. Il rapporto tra gli atti tipici Nell'ordinamento creato dai Trattai, operano in posizione subordinata ad essi, una serie di fonti di diritto derivato frutto dell'attività normativa delle istituzioni. Ciascuno dei Trattati specifica i diversi tipi di atti di cui le istituzioni si possono avvalere nell'esercizio di questa attività, e li indica come "atti tipici". Tali atti, nonostante siano differenziati per caratteristiche ed effetti che ad essi il Trattato riconosce, non stanno tra di loro in nessun rapporto gerarchico. Ciò non significa che tra atti adottati dalle istituzioni non possa in taluni casi esistere un rapporto gerarchico, ma che tale rapporto dipenderà, non dalla forma degli atti utilizzati, ma da altre circostanze. Una di queste può essere la particolare funzione cui un determinato atto delle istituzioni assolve.

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Non dipendendo da una diversa collocazione "gerarchica", la scelta del tipo di atto da utilizzare nel caso concreto è evidentemente basata sulle diverse caratteristiche di ciascuno di essi. La scelta talvolta è operata dal Trattato stesso, che nell'articolo sul quale si fonda la competenza ad agire dell'Unione in una determinata materia, indica attraverso quale strumento tale competenza debba essere esercitata. Altre volte la scelta è rimessa dal Trattato al legislatore, attraverso la generica previsione dell'adozione di "provvedimenti" o "misure". In ogni caso la scelta sarà dettata dalla maggiore o minore rispondenza delle caratteristiche specifiche di ogni atto al contenuto e agli obiettivi dell'intervento normativo di cui si tratta, dato che diverse caratteristiche esprimono un modo diverso di esercitare la competenza attribuita all'Unione. Segue: Il regime comune agli atti tipici Nonostante la diversità per caratteristiche ed effetti, gli atti tipici del diritto derivato sono soggetti ad un regime in linea di principio comune per quanto attiene a certi requisiti di forma e alla loro entrata in vigore. Tale regime è disciplinato in realtà solo per gli atti comunitari del TCE, ma alcuni aspetti sono da ritenere applicabili anche agli atti adottati dalle istituzioni in applicazione del TUE. In primo luogo l'art. 253 CE pone un obbligo di motivazione, intesa come formalità sostanziale, la cui omissione o insufficienza comporta l'invalidità dell'atto. La sufficienza della motivazione va valutata in rapporto alla natura dell'atto di cui si tratta, in quanto varia a seconda che si tratti di decisioni generali di carattere normativo o decisioni a cui manchi tale carattere. Parte integrante della motivazione è l'indicazione della base giuridica dell'atto, la quale contribuisce a fornire elementi essenziali per una migliore comprensione della portata e della validità dell'atto stesso. L'applicazione di un atto delle istituzioni è subordinata a una pubblicità preventiva che ne condiziona l'opponibilità ai soggetti dell'ordinamento. L'art. 254 CE impone la pubblicazione obbligatoria sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, dei regolamenti, delle direttive indirizzate a tutti gli Stati membri, nonché degli atti adottati in codecisione; direttive e decisioni non rientranti in tali categorie devono essere notificate ai loro destinatari, pur essendo di regola oggetto di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Se non diversamente specificato, l'atto, sempre in base all'art 254 CE, entrerà il vigore il ventesimo giorno dalla pubblicazione o dalla notifica. Gli atti di diritto comunitario: a) i regolamenti Nell'ambito del TCE, il nucleo originario delle fonti di diritto derivato è costituito dagli atti elencati all'art 249, comunemente indicati come atti tipici del diritto comunitario derivato: a)regolamenti; b) direttive; c)decisioni. a) in base all'art. 249 il regolamento ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi, e direttamente applicabile, in ciascuno degli Stati membri. E' quindi atto di natura essenzialmente normativa. E' lo strumento più adeguato con cui realizzare il trasferimento di competenze dagli Stati membri alle istituzioni comunitarie, in quanto attraverso il regolamento la normativa comunitaria viene a sostituirsi integralmente, nel settore da essa regolato, alle norme nazionali. Ha portata generale in quanto si rivolge, non ad un numero limitato di destinatari, ma a una o più categorie di destinatari determinate astrattamente; anche se la portata generale non implica necessariamente che il regolamento debba applicarsi a tutto il territorio comunitario, non mancano infatti regolamenti diretti a disciplinare fattispecie territorialmente circoscritte.

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E' obbligatorio in tutti i suoi elementi in quanto uno Stato non può applicare in modo incompleto o selettivo un regolamento, ma vi si deve conformare in maniera rigorosa. Tuttavia tale caratteristica non implica una necessaria completezza di contenuto normativo del regolamento; nulla esclude che la disciplina da esso dettata debba essere integrata mediante atti ulteriori, per potere operare compiutamente, anzi ciò può essere esplicitamente previsto dal regolamento stesso. L'intervento normativo di integrazione da parte degli Stati membri, si giustifica però, solo nella misura necessaria all'esecuzione dei regolamenti. L'ultima, ma principale caratteristica dei regolamenti è la diretta applicabilità in ciascuno degli Stati membri, in cui entra in vigore senza bisogno di alcun atto di ricezione del diritto interno. L'applicabilità diretta comporta che essi sono suscettibili di porre situazioni giuridiche soggettive in capo ai privati, tanto nei loro rapporti con i privati, che con gli Stati o le istituzioni comunitarie. Tali effetti non possono essere messi in causa nemmeno dal fatto che per l'ordinamento dello Stato sarebbe necessario un intervento normativo che permetta al regolamento di operare pienamente. L'ordinamento giuridico nazionale deve rendere possibile, secondo la Corte di Giustizia, l'efficacia diretta, in modo che i singoli possono far valere i regolamenti senza vedersi opporre disposizioni o prassi di carattere nazionale. Segue: b) Le direttive Lo strumento della direttiva esprime un modo di funzionamento delle competenze comunitarie articolato su una ripartizione del potere normativo tra Comunità e Stati membri. La direttiva opera infatti sulla base di una riserva di competenza a favore di questi ultimi, nel senso che implica la permanenza di normative nazionali. Questo strumento, in base all'art 249 CE, vincola lo Stato membro per quanto riguarda il risultato da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali in merito alle forme e ai mezzi. Questo comporta che la direttiva, per svolgere i suoi effetti all'interno dello Stato, abbisogna dell'intervento delle autorità nazionali, che devono tradurre le sue disposizioni in norme interne. L'attuazione delle direttive nell'ordinamento interno è quindi oggetto di un preciso obbligo che gli Stati membri sono tenuti ad adempiere, mediante l'emanazione di un atto di recepimento della stessa. Nonostante una certa libertà del dato normativo, la Corte di Giustizia ha precisato che l'attuazione di una direttiva deve avvenire con le forme ed i mezzi più idonei a a garantire l'efficacia reale delle disposizioni della direttiva, ma deve anche corrispondere alle esigenze di chiarezza e certezza delle situazioni giuridiche volute da tale atto. E' stata quindi esclusa l'idoneità di una semplice circolare, o di prassi amministrative. Il fatto che lo strumento della direttiva richieda una mediazione del diritto interno, non impedisce che, indipendentemente dalla mediazione, norme di una direttiva possano esplicare effetti in tale ordinamento, in particolare aprendo ai privati la possibilità di far valere dinanzi ai giudici nazionali, obblighi che le norme in questione pongano a carico dello Stato. La possibilità che le direttive abbiano efficacia diretta comunque, rimane circoscritta alle ipotesi in cui la mediazione di tale direttiva nel diritto interno, non sia avvenuta, o sia avvenuta in modo incompleto; in tal modo si assicurano al singolo i diritti che la direttiva gli vuole riconosciuti. Anche in caso di adozione delle misure nazionali di trasposizione entro il termine previsto, la direttiva non cessa i suoi effetti, in quanto gli Stati rimangono obbligati ad assicurarne effettivamente la piena applicazione anche dopo il recepimento. La giurisprudenza comunitaria ha comunque limitato la possibilità dei privati di far valere eventuali effetti diretti di disposizioni di una normativa soltanto alle ipotesi che ciò avvenga nei confronti dello Stato(effetto verticale) , escludendo che queste stesse disposizioni possano essere fonte diretti di diritti individuali nei confronti di altri privati(effetto

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orizzontale), in quanto è esclusa la circostanza che una direttiva possa di per sé creare obblighi a carico di un singolo. L'obbligo gravante sugli Stati membri, di conseguire il risultato voluto da una direttiva, non si esaurisce con la trasposizione formale di questa nell'ordinamento nazionale, ma si impone a tutti gli organi dello Stato, i quali, nel loro ambito di competenza, sono tenuti a garantire l'applicazione effettiva della direttiva. In particolare per gli organi giurisdizionali, che devono, in quanto possibile, interpretare il diritto interno, a partire dalla scadenza del termine di attuazione, alla luce del testo e della finalità della direttiva di cui trattasi, privilegiando l'interpretazione ad essa più conforme. Segue: Le decisioni In base all'art. 249 CE, la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati. E' atto quindi spiccatamente individuale, i cui destinatari però, non risultano predeterminati. Il ricorso alla decisione è generalmente espressione di un'attività amministrativa delle istituzioni, attraverso la quale provvedono ad applicare al caso concreto le previsioni normative astratte del Trattato o di altri atti comunitari. Questa funzione si lega bene con i caratteri propri della decisione delineati dall'art.249: atto a portata individuale come la direttiva, ma a differenza di questa, rivolta ai soli Stati membri, essa può indirizzarsi a destinatari di tutte le categorie del diritto comunitario. Altra differenza con la direttiva, è che la decisione appare dotata dell'efficacia necessaria a raggiungere i suoi destinatari, nel senso che vincolando questi pur quando essi siano soggetti interni agli Stati membri, la decisione risulta in questi casi, come i regolamenti, direttamente applicabile negli ordinamenti giuridici nazionali; anche le decisioni indirizzate agli Stati membri possono esplicare effetti diretti nell'ordinamento nazionale. Nonostante la spiccata attitudine ad essere usate in funzione amministrativa, non mancano casi in cui le decisioni, indirizzate a tutti gli Stati, svolgono una funzione tipicamente normativa, specificando ad esempio, la disciplina di dettaglio di procedure previste in un regolamento o in una direttiva. Questo tipo di decisioni va distinto da altre, che si atteggiano come atti generali privi di destinatari, dirette a regolare rapporti interistituzionali, o altri aspetti del funzionamento del sistema, le cui norme non sono quindi destinate direttamente agli ordinamenti nazionali. Talvolta possono essere adottate con la procedura tipicamente legislativa della codecisione, e per la loro diversità dal modello dell'art. 249, sono state inserite nella categoria degli atti atipici. Gli altri atti comunitari Il sistema comunitario conosce una serie di altri atti di varia natura, accomunati dal fatto di non costituire in linea di principio fonti formali di norme. Questo è vero per gli altri due atti tipici dell'art. 249 CE: - raccomandazioni: per lo più utilizzate dal Consiglio e dalla Commissione per indirizzare agli Stati membri o ad altri soggetti, norme di comportamento di carattere non vincolante. La Corte di Giustizia ha ammesso in via generale che i giudici nazionali sono tenuti a prendere in considerazione le raccomandazioni, ai fini della soluzione delle controversie, in particolare quando sono di aiuto per l'interpretazione di norme nazionali adottate allo scopo di garantire la loro attuazione. - pareri: strumento attraverso cui una istituzione fa conoscere la propria valutazione su una determinata questione o atto. In tale categoria ve ne sono alcuni che in conseguenza della loro funzione all'interno di un determinato procedimento o dell'espressa previsione di un articolo del Trattato, sono produttivi di effetti giuridici assai significativi. Le istituzioni fanno sovente ricorso ad ulteriori tipi di atti; il Consiglio adotta ad esempio "conclusioni" o "risoluzioni", nelle quali preannuncia le possibili linee di sviluppo di una

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successiva attività normativa comunitaria, ovvero fissa la sua posizione rispetto a una questione di interpretazione del diritto comunitario, ma le adotta anche per consacrare un accordo politico tra i membri dello stesso Consiglio, su sviluppi successivi del negoziato al suo interno su di una determinata proposta della Commissione. Frequente anche il ricorso da parte della Commissione a "comunicazioni", "orientamenti" o "linee direttrici", atti utilizzati soprattutto per esplicitare all'indirizzo dei soggetti interessati (Stati o privati) il proprio modo di interpretare una sua competenza, ovvero le modalità con le quali essa intende esercitarla. Vanno menzionati infine gli accordi interistituzionali, serie di atti frutto della volontà congiunta di due o più istituzioni in vista della disciplina di un certo aspetto delle loro relazioni, ovvero dell'esternazione di una comune posizione su una data questione di rilievo politico. Se nel secondo caso l'atto ha valenza esclusivamente politica, nel primo caso è atto che in linea di principio impegna giuridicamente le istituzioni che lo concludono; efficacia che deriva talvolta da espressa previsione del Trattato, e talvolta dall'essere questi atti espressione dell'obbligo di cooperazione tra le istituzioni, ricavato dalla Corte di Giustizia dall'art. 10 CE. Rimangono comunque atti non rilevanti per la posizione dei singoli, anche se, quando hanno carattere vincolante, il loro mancato rispetto può essere causa dell'illegittimità di un atto comunitario. Sembra ovvio però che l'eventuale carattere vincolante di un accordo interistituzionale sussisterà solo nei confronti delle istituzioni concludenti. Gli accordi interistituzionali devono sempre rimanere nei limiti previsti dai Trattati; essi possono integrare o specificare le disposizioni dei Trattati, ma non modificarle, alterando l'equilibrio istituzionale da queste delineato. Gli atti dell'Unione: a) gli atti della politica estera e di difesa comune Gli atti di cui le istituzioni possono servire per agire nel quadro della cooperazione PESC e GAI,anche se coincidenti nella denominazione, differiscono notevolmente da quelli previsti dal TCE. Differiscono anche per natura, effetti giuridici sugli ordinamenti degli Stati membri, e per requisiti di forma e pubblicità. a) ai fini della cooperazione nell'ambito del PESC, il TUE all'art 12 prevede che il Consiglio europeo o il Consiglio, possano far ricorso a : strategie comuni, posizioni comuni, azioni comuni (e decisioni). strategie comuni: competono al Consiglio europeo; atti che definiscono un approccio integrato dell'Unione e degli Stati membri in relazione ad aree geografiche o tematiche nelle quali gli Stati hanno importanti interessi comuni. posizioni comuni: adottate dal Consiglio per definire l'approccio dell'Unione, rispetto ad una questio particolare di natura geografica o tematica; dirette a orientare i comportamenti degli Stati membri, tenuti a uniformarsi. azioni comuni : atto attraverso cui si realizza un intervento operativo dell'Unione in una specifica situazione, del quale essa stessa definisce obiettivi, portata, mezzi, condizioni di attuazione, durata. decisioni : anche se non elencate all'art. 12, il Consiglio, nell'ambito del PESC fa spesso ricorso alle decisioni, con cui autorizza la firma o la conclusione di accordi internazionali, nomina rappresentanti speciali dell'Unione, crea comitati od organi militari nell'ambito della difesa comune.

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Segue: b) gli atti adottati nel quadro del terzo pilastro Per la cooperazione nell'ambito del GAI, il TUE prevede il ricorso a strumenti giuridici specifici. L'art. 34 par. 2 UE, elenca quattro tipi di atti:

posizioni comuni: le sole che rivestono natura di strumento di azione politica più che normativa. Definiscono l'orientamento dell'Unione, in merito ad una questione specifica e vincolano gli Stati membri ad attenervisi nelle organizzazioni internazionali a cui partecipano. Con posizione comune il Consiglio dispone anche sanzioni economiche o politiche nei confronti di Stati terzi, e persone fisiche o giuridiche.

decisioni-quadro: strumento di legislazione; espressamente finalizzate al ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, con funzione analoga alle direttive nel TCE; sono vincolanti per gli Stati membri in quanto al risultato, salva restando la competenza nazionale in merito a forma e mezzi. Vanno recepite negli ordinamenti nazionali con un atto di legislazione ad hoc, il cui termine è fissato nella stessa decisione-quadro. A differenza delle direttive non hanno efficacia diretta.

decisioni: definito per esclusione dall'art. 34, par. 2 lett c), che ne dichiara l'assenza di efficacia diretta, e si limita a prevedere che la decisione ha qualsiasi altro scopo coerente con gli obiettivi del terzo pilastro, escluso il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.

convenzioni : convenzioni internazionali da concludere tra gli Stati membri, una volta che il loro testo sia stato stabilito dal Consiglio.

Gli accordi internazionali con Stati terzi e le altre norme internazionali. Un'ulteriore fonte di norme per l'ordinamento dell'Unione si trova nel diritto internazionale e negli accordi internazionali,conclusi con Stati terzi od organizzazioni internazionali. Dal momento in cui entrano in vigore sul piano internazionale, tali accordi diventano automaticamente parte integrante dell'ordinamento comunitario. Da ciò non consegue necessariamente che le sue disposizioni possano essere invocate in giudizio dai singoli. Questo è certamente escluso per le disposizioni di accordi conclusi sulla base del TUE. Nel caso invece di accordi conclusi sulla base del TCE, questa possibilità è condizionata dalla Corte di Giustizia, alla rispondenza della disposizione invocata agli stessi requisiti che giustificano l'esplicazione di effetti diretti di norme di tale Trattato, o direttive e decisioni: la disposizione deve porre un obbligo chiaro e preciso, la cui esecuzione o effetti non siano subordinati all'adozione di ulteriori atti. Gli accordi conclusi con Stati terzi sono ovviamente subordinati ai Trattati, dato che l'esercizio di competenze internazionali dell'Unione deve avvenire nel rispetto delle regole materiali e procedurali in essi stabiliti. I principi generali di diritto. In particolare il principio del rispetto dei diritti fondamentali Il Trattato sull'Unione europea afferma che l'Unione rispetta i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario. Nel TCE si trova invece un solo riferimento ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri. Il ricorso ai principi generali si presenta necessario di fronte al carattere generale o parziale di molte regole di funzionamento dell'ordinamento comunitario. Tali principi

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servono di volta in volta, a ricostruire compiutamente il dettato normativo generico o incompleto, a rafforzare una certa interpretazione di disposizioni comunitarie incerte. La Corte ha affermato da un lato l'esistenza di un obbligo comunitario di rispetto dei diritti fondamentali, dall'altro a ricostruire concretamente questi ultimi. L'idea centrale è stata e i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi del diritto di cui essa garantisce l'osservanza. Ha anche affermato la propria competenza a valutare la compatibilità di un atto comunitario con tali diritti. Per la concreta individuazione dei diritti fondamentali, la Corte ha individuato la fonte a cui ispirarsi, nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, e nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo: diritto alla libertà di associazione sindacale, alla proprietà privata, alla libertà religiosa, al libero esercizio di un'attività economica e professionale, all'irretroattività delle norme penali, all'uguaglianza etc etc. Con l'adozione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, nel 2000, l'Unione si è dotata di uno strumento autonomo di rilevazione dei diritti fondamentali;tale Carta acquisirà efficacia vincolante con il Trattato di riforma. La giurisprudenza ha anche affermato l'esistenza di veri e propri principi generali del diritto comunitario, ricostruiti a partire da alcune specifiche norme del TCE: principio di leale collaborazione tra le istituzioni e con gli Stati membri, rispetto dell'equilibrio istituzionale, principio della certezza del diritto,il legittimo affidamento, il principio di proporzionalità, il rispetto dei diritti quesiti.

CAP. II - IL DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA NELL'ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO La natura del rapporto del diritto comunitario con il diritto degli Stati membri nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Come già visto, le norme comunitarie svolgono i loro effetti direttamente in capo a soggetti che, benché interni agli Stati, sono anche, nei limiti della sfera di competenza della Comunità, soggetti dell'ordinamento di questa. La capacità di raggiungere direttamente soggetti individuali non esclude tuttavia, che esista anche per l'ordinamento comunitario, un problema di rapporti con l'ordinamento degli Stati membri. La Corte di Giustizia ha sottolineato che i due ordinamenti vivono in rapporto di integrazione, che vede l'ordinamento comunitario, a causa della sua parzialità, avvalersi di quello degli Stati per molti aspetti del suo funzionamento; con il risultato di una permanente situazione di interferenza e potenziale conflitto. La questione del rapporto tra norme comunitarie, e norme interne ad esse contrastanti, è stata affrontata dalla Corte di Giustizia, sulla base dell'affermazione del principio della supremazia del diritto comunitario, ancorato alle caratteristiche proprie dell'ordinamento comunitario : "integrato nell'ordinamento giuridico degli Stati membri all'atto dell'entrata in vigore del Trattato e che i giudici sono tenuti ad osservare... " Il ragionamento si fonda, non sulla prevalenza delle norme, ma sulla considerazione delle rispettive sfere di azione dell'ordinamento comunitario e nazionale: secondo la Corte "il trasferimento effettuato dagli Stati a favore dell'ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del Trattato, implica una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile con il sistema della Comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia." "Qualsiasi giudice nazionale ha l'obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario, e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna. Stesso obbligo vale per gli altri organi dello Stato, specialmente quelli amministrativi. La Corte afferma ancora l'obbligo dei giudici nazionali di non applicare norme dello Stato

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che, pur senza risultare direttamente contrastanti con la norma comunitaria applicabile nella fattispecie, ne impediscano l'effettiva applicazione. La giurisprudenza costituzionale sui rapporti tra ordinamento italiano e diritto comunitario Da un'analisi della giurisprudenza della nostra Corte Costituzionale in materia comunitaria, emerge chiaramente quando difficile sia stato l'inserimento delle posizioni della Corte di Giustizia, nei vari ordinamenti nazionali. Basti pensare che la Corte Costituzionale ha dovuto anche pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della partecipazione italiana alla Comunità, autorizzata e resa esecutiva mediante legge ordinaria. La Corte Costituzionale ha concluso che la legge ordinaria di esecuzione trova fondamento di legittimità nella disposizione dell'art. 11 Cost., in base al quale "l'Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie, ad un ordinamento che assicuri pace e giustizia fra le nazioni, e promuove le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo." Sull'art.11 la Corte Costituzionale ha basato anche la soluzione del problema del rapporto tra norme comunitarie e quelle dello Stato, anche se in una primissima giurisprudenza aveva affrontato la questione in maniera del tutto indipendente. Ma subito dopo, si è ben presto uniformata alle conclusioni della Corte di Giustizia in materia di supremazia delle norme comunitarie sulle norme nazionali contrastanti, e ha finito per giustificarla, proprio sull'art. 11. E' sulla base di tale articolo che si è avuto il trasferimento del potere di emanare norme giuridiche, per cui le norme nazionali devono cedere a quelle comunitarie; in caso contrario la norma nazionale si porrebbe in contrasto con lo stesso art. 11 Cost. Rimanevano comunque aperte le divergenze sul modo di interpretare tale supremazia e le conseguenze relative. In base alla prospettiva "italiana", la norma nazionale cede di fronte ai regolamenti comunitari, perché in caso contrario solleverebbe un problema di legittimità costituzionale in relazione alla violazione dell'art. 11. Questa impostazione crea nuovi contrasti con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale sostiene che il giudice nazionale debba applicare integralmente il diritto comunitario, disapplicando quello nazionale eventualmente contrastante, senza l'intervento di altri organi. Tale possibilità è però preclusa al giudice in base al nostro ordinamento, poiché esso prevede che, in caso di contrasto norme comunitarie e nazionale, il giudice debba sollevare la questione di legittimità costituzionale innanzi alla Corte, fondata sulla violazione dell'art. 11. Tale divergenza si è potuta sanare solo a con un nuovo mutamento della giurisprudenza della Corte Costituzionale. Segue: la giurisprudenza Granital Nella giurisprudenza costituzionale degli anni Settanta si è realizzata una decisa inversione di tendenza nella direzione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno. La concezione dualista o di separazione dei due ordinamenti, viene affrontata nuovamente nella storica sentenza n.170 dell‘ 8 giugno 19847 ( Granital v. Ministero delle finanze), in cui la Corte Costituzionale, adeguandosi alla sentenza ―Simmenthal‖ della Corte di Giustizia, riconosce la piena competenza del giudice di merito a dare applicazione immediata alla norma comunitaria. In essa viene, altresì, precisato che ―l‘assetto dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno … è venuto evolvendosi, ed è ormai ordinato sul principio secondo cui il regolamento della CEE prevale rispetto alle configgenti statuizioni del legislatore interno. Questo risultato viene, peraltro, in considerazione sotto vario riguardo. In primo luogo, sul piano ermeneutico, vige la presunzione di conformità

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della legge interna al regolamento comunitario… Quando, poi, vi sia irriducibile incompatibilità fra la norma interna e quella comunitaria, è quest‘ultima, in ogni caso, a prevalere. Tale criterio opera, tuttavia, diversamente, secondo che il regolamento segua o preceda nel tempo la disposizione della legge statale. Nel primo caso, la norma interna deve ritenersi caducata per effetto della successiva e contraria statuizione del regolamento comunitario, la quale andrà necessariamente applicata dal giudice nazionale. Tale effetto caducatorio … è altresì retroattivo, quando la norma comunitaria confermi la disciplina già dettata … dagli organi della CEE. In quest‘evenienza, le norme interne si ritengono, dunque, caducate sin dal momento al quale risale la loro incompatibilità con le precedenti statuizioni della Comunità, che il nuovo regolamento ha richiamato. Diversa è la sistemazione data fin qui in giurisprudenza all‘ipotesi in cui la disposizione della legge interna configga con la previgente normativa comunitaria. E‘ stato, invero, ritenuto che … la norma interna risulti aver offeso l‘articolo 11 Cost. e possa in conseguenza esser rimossa solo mediante dichiarazione di illegittimità costituzionale‖. I due ordinamenti, comunitario ed interno, dunque, sono ―configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato‖, le disposizioni interne contrarie al regolamento comunitario sono da considerarsi costituzionalmente illegittime per violazione dell‘articolo 11 Cost. Si conferma, pertanto, la posizione dualista (a differenza di quella monista fatta propria come vedremo in seguito dalla Corte di Giustizia CE) della Corte Costituzionale nella direzione di un sempre maggiore riconoscimento della sopranazionalità della norma comunitaria, nonché delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia europea e delle sentenze di condanna, che ha permeato anche la giurisprudenza costituzionale successiva. Diritto comunitario e norme costituzionali La supremazia del diritto comunitario si esprime nei confronti dell'ordinamento nel suo complesso; ciò sembrerebbe comportare che di fronte a norme del diritto comunitario debbano cedere anche eventuali disposizioni contrastanti della nostra Costituzione. La Corte Costituzionale ha dovuto affrontare tale questione sotto il profilo della legittimità costituzionale della partecipazione italiana alla Comunità, risolta con un'affermazione implicita di supremazia del diritto comunitario, in ragione della previsione dell'art. 11 Cost. Nella stessa occasione, del resto, la Corte precisava che "in base all'art. 11, sono consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate, e deve quindi escludersi che tali limitazioni possano comportare per gli organi della CE un potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale... " La Corte avvertiva anzi che, qualora si fosse presentata la situazione di una norma comunitaria confliggente con i principi materiale della Costituzione, essa avrebbe esercitato puntualmente il proprio sindacato sulla legittimità costituzionale di quella norma. Finora, nei casi in cui ha dovuto esercitare il proprio sindacato, la Corte costituzionale ha sempre concluso per la piena legittimità della legge di esecuzione dei Trattati comunitari, o di norme del diritto comunitario derivato. Organizzazione e procedure per l'adempimento degli obblighi posti dal diritto dell'Unione: "la legge comunitaria" Il fatto che in linea di principio le norme dell'ordinamento comunitario siano in grado di raggiungere gli individui, non esclude necessariamente ogni intervento normativo dello Stato ai fini della loro attuazione. In base al Trattato, tale necessità è esclusa solo in caso di norme contenute in regolamenti o in decisioni diretti a individui; è necessario invece nel

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caso delle altre norme comunitarie. In Italia l'adempimento di questo obbligo è sempre stato difficile a causa della lentezza delle procedure parlamentari dei relativi provvedimenti. Furono cercati rimedi che consentissero di semplificare il passaggio al Parlamento di tali provvedimenti, e di concentrare i provvedimenti relativi a più direttive in un unico iter parlamentare e quindi un'unica legge di attuazione. La legge n. 11/2005 prevede che il Presidente del Consiglio o il Ministro per le politiche comunitarie, debbano predisporre entro il 31 gennaio di ogni anno un disegno di legge, recante le norme necessarie ad assicurare l'adempimento di più atti od obblighi cui l'Italia debba dare attuazione nell'anno di riferimento. Il provvedimento, formalmente denominato "legge comunitaria", può disporre l'attuazione degli obblighi sulla base di differenti soluzioni.

PARTE TERZA – LA TUTELA DEI DIRITTI

SEZIONE I - LA TUTELA IN AMBITO COMUNITARIO

CAP. I - LA TUTELA IN GENERALE Premessa Le forme di tutela apprestate a livello comunitario sono ampie e molteplici, e nel complesso idonee a soddisfare le esigenze di un ordinamento improntato al principio di legalità. Va anche riconosciuto però, che nel complesso la situazione non può ritenersi appagante, soprattutto con riferimento alla posizione delle persone fisiche e giuridiche, soprattutto per quanto attiene all'ampiezza delle vie di ricorso di quei soggetti a causa delle restrizioni imposte dal Trattato CE alla ricevibilità dei ricorsi per l'annullamento degli atti di portata generale delle istituzioni ed a quella delle azioni per i danni provocati da quegli atti a titolo di responsabilità aquiliana della Comunità. La tutela non giudiziaria Come strumento di tutela non giudiziaria va anzitutto segnalata la possibilità offerta ai cittadini comunitari di rivolgere petizioni al Parlamento europeo e di provocare l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta. La Commissione d'inchiesta, prevista dall'art. 195 CE, può entro certi limiti esaminare le denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell'applicazione del diritto comunitario da parte delle istituzioni comunitarie e degli Stati membri. Fini analoghi ha il Mediatore, che sempre in base all'art. 195 CE, riceve le denunce (ma agisce anche d'ufficio ), provenienti da qualunque soggetto con sede in uno Stato membro e riguardanti casi di cattiva amministrazione di qualsiasi organo comunitario, ad eccezione di quelli giurisdizionali, purché esse non riguardino casi che formino o abbiano formato oggetto di procedure giudiziarie. Tra gli strumenti non giurisdizionali si segnala anche la possibilità di indirizzare un reclamo alla Commissione europea per denunciare violazioni del diritto comunitario commesse da autorità nazionali. La tutela giudiziaria. Il ruolo e la funzione della Corte. In generale. Maggiore efficacia hanno gli strumenti di tutela di carattere giurisdizionale, che fanno leva sull'apparato giudiziario di cui la Comunità si è dotata. Fin dalle origini essa può contare su un autonomo apparato, in grado di assicurare l'esercizio della funzione giurisdizionale nell'ambito dello specifico ordinamento. Con la creazione della Corte di Giustizia, per la prima volta, in un ente internazionale, è stato assicurato l'esercizio della funzione giurisdizionale da parte di un organo ad hoc, che

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afferma la propria giurisdizione obbligatoria sulle questioni rilevanti per la vita dell'ente stesso. Gli stessi Trattati rivelano come a tale istituzioni si sia inteso assegnare un compito di mantenimento e attuazione dell'ordinamento giuridico. Varie sono state le istanze comunitarie che hanno reso auspicabile, e in alcuni casi necessaria, la creazione di tale organo: l'inevitabile nesso che lega l'attività delle istituzioni comunitarie a quella degli Stati membri, richiedeva che alla Corte fosse affidato il controllo del rispetto da parte degli Stati degli obblighi ad essi incombenti. essenziale anche in senso inverso l'intervento della Corte, volto ad assicurare, a garanzia per gli Stati membri, il corretto esercizio dei rilevanti poteri attribuiti alle istituzioni comunitarie la complessa dialettica dei rapporti tra le istituzioni rendeva necessario il controllo giurisdizionale sul rispetto delle sfere di competenza spettanti ad ognuna di esse. la Corte garantisce anche un'immediata tutela delle situazioni giuridiche individuali, su cui spesso l'attività comunitaria va ad incidere formalmente e materialmente. Per questi motivi è stata creata la Corte di Giustizia, e ad essa è stato dato il monopolio, almeno tendenziale, della funzione giurisdizionale. Segue: L'azione da essa svolta per rafforzare le garanzie del sistema E' generalmente riconosciuto che la Corte di Giustizia ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di integrazione europea. In questo senso, il suo ruolo non è stato solo giurisdizionale, ma anche strutturale, in quanto con il suo contributo ha reso possibile la ricostruzione del sistema giuridico comunitario come un ordinamento giuridico omogeneo e tendenzialmente compiuto, dando ad esso organicità, coerenza e sistematicità, rilevandone i principi qualificanti, definendone le nozioni e caratterizzandolo rispetto agli altri ordinamenti. Segue: E per lo sviluppo del diritto comunitario e della sua integrazione con quelli nazionali I diritti degli Stati membri hanno chiaramente subito un forte impatto dal diritto comunitario. Una vasta attività normativa ed una prassi giurisprudenziale hanno influito su aspetti essenziale delle varie legislazioni nazionali. Parti importanti di numerose discipline sono cadute sotto l'impresa del diritto comunitario. Tale diritto incide profondamente in quanto si avvale della caratteristiche tipiche del sistema comunitario: autorità sopranazionali che presiedono alla formazione di norme e che dispongono gli strumenti per il controllo e il rispetto delle stesse. Ma si avvale soprattutto di meccanismi di interpretazione autonomi, quale appunto è la Corte di Giustizia, la cui azione esplica i propri riflessi sulla compattezza e sulla coerenza del corpo normativo comune, ma anche sulla sua capacità di resistenza rispetto ai sistemi nazionali. Sempre grazie alla Corte il processo di europeizzazione si sviluppa non solo attraverso l'incidenza della normativa comunitaria, ma anche per vie meno formali, come la creazione e diffusione spontanea di principi, metodi, e prassi legali che si realizza nel contesto comunitario, come conseguenza del naturale processo di recezione, trapianto e armonizzazione delle regole giuridiche che lo sviluppo stesso dell'integrazione favorisce. Tale processo si è tradotto poi nell'affermazione di principi comuni, apparentemente nuovi, ma in realtà spesso definiti sulla base dei diritti nazionali. Questa originale sintesi tra sistemi giuridici diversi non avrebbe avuto sbocchi così significativi, quali quelli fin qui registrati, senza l'azione della Corte di Giustizia. Grazie alla singolare posizione che i Trattati le assegnano, quella di interprete supremo del diritto comunitario e di garante del rispetto di tale diritto e della sua applicazione negli

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Stati membri, la Corte ha potuto, fin dall'inizio esercitare un ruolo determinante sotto il profilo appena esposto. CAP. II - GLI ORGANI DELLA GIUSTIZIA COMUNITARIA Origini e sviluppi La prima previsione di un organo giurisdizionale nel quadro comunitario, risale al Trattato CECA del 1951 : la Corte di Giustizia. Con i Trattati di Roma del 1957, fu ribadita la sua funzione essenziale nell'ambito del sistema comunitario, e furono assegnate ad essa nuove competenze. Nonostante ognuno dei due Trattati di Roma prevedesse l'istituzione di una Corte "propria", ulteriore a quella prevista nel CECA, con un'apposita convenzione si istituì una Corte di Giustizia unica, dotata delle competenze attribuite alle diverse Corti previste nei Trattati, andando a sostituire anche la Corte CECA. L'unicità è solo strutturale, perché non si estende alle competenze attribuite all'organo dai singoli Trattati, che restano diverse tra loro. Da ciò deriva che l'attività della Corte è imputabile di volta in volta all'una o all'altra comunità, secondo che la Corte agisca come organo dell'una o dell'altra. La Corte entra in funzione a partire dalla nomina dei giudici, il 7 ottobre 1958, e per lungo tempo ha proseguito la propria attività giurisdizionale senza sostanziali variazioni d'impianto. Nel 1989, invece, è stata affiancata dal Tribunale di primo grado (TPI), competente a giudicare in primo grado un numero di casi, inizialmente limitato, ma poi molto più ampio. In questo modo la Corte tende sempre più a connotarsi come giudice di mera legittimità e supremo garante dell'unità giuridica del sistema, mentre il Tribunale assume il ruolo di giudice di diritto comune di primo grado. I due organi però, sono tra loro strettamente collegati sul piano organico, funzionale e strutturale; essi concorrono a formare la complessiva ed unica Istituzione"Corte di Giustizia"delle Comunità europee. La Corte di Giustizia Norme relative a composizione e funzionamento della Corte di Giustizia si rinvengono in Trattati istitutivi, Protocollo sullo Statuto e Regolamento di procedura. Attualmente la Corte è composta da un giudice per ogni Stato membro, quindi 27, assistiti da 8 avvocati generali. Giudici e avvocati generali sono nominati per sei anni dai governi degli Stati tra personalità che offrano garanzie di indipendenza che integrino le condizioni richieste, nei rispettivi paesi, per l'esercizio delle più alte funzioni giurisdizionali. Il loro mandato può essere rinnovato. Il Presidente della Corte, eletto fra e dai giudici, dirige le attività e gli uffici dell'istituzione, presiede le udienze e le deliberazioni in camera di consiglio, distribuisce le cause tra i giudici. la Corte è assistita da un Cancelliere da essa nominato, il quale, oltre a dirigere la Cancelleria, cura la gestione amministrativa e finanziaria della Corte. La Corte si riunisce normalmente in sezioni, da tre o cinque giudici, ma può scegliere di riunirsi in grande sezione, tredici, ed è tenuta a farlo quando lo richiedano uno Stato membro o un'istituzione della Comunità parte in causa. Si riunisce invece in seduta plenaria, in base all'art. 16, giudizi sul comportamento dei membri di alcuni organi comunitari e ogniqualvolta reputi che un giudizio pendente dinanzi ad essa rivesta eccezionale importanza. Il Tribunale di primo grado Istituito con l'intento di assicurare anche nell'ambito del sistema comunitario il principio del doppio grado di giurisdizione, ma anche per sgravare il carico di lavoro della Corte.

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Ha visto progressivamente allargarsi l'ambito delle proprie competenze, estese a tutti iricorsi introdotti da persone fisiche e giuridiche, e poi a tutti di ricorsi, quale che sia la natura del ricorrente, ad eccezione di quelli attribuiti a una camera giurisdizionale e di quelli che lo Statuto riserva alla Corte di Giustizia. La competenza del Tribunale di primo grado può essere estesa per materie specifiche. Disciplinato in parte dal Trattato CE e in parte dallo Statuto della Corte di Giustizia, si caratterizza sul piano organizzativo e strutturale per essere composto di soli giudici, in quanto la nomina di avvocati generali è solo eventuale e decisa di volta in volta; Il numero dei giudici è variabile, in quanto è fissato nello Statuto e quindi facilmente modificabile, anche se l'art. 224 CE impone il numero minimo di almeno un giudice per Stato membro. Anche il TPI si organizza in sezioni (tre o cinque giudici); determinati casi sono decisi dalla grande sezione (tredici) o in seduta plenaria. Recentemente è stata prevista la possibilità, visti i carichi di lavoro, che il Tribunale possa statuire nella persona di un giudice unico in casi tassativamente indicati. Le Camere giurisdizionali. Il Tribunale della funzione pubblica Il Trattato di Nizza ha autorizzato il Consiglio ad istituire delle camere giurisdizionali incaricate di conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi in materie specificate. Esse saranno composte da membri, nominati dal Consiglio e scelti tra persone che offrano tutte le garanzie di indipendenza e possiedano la capacità per l'esercizio di funzioni giurisdizionali. Finora il Consiglio ha istituito solo il Tribunale della funzione pubblica europea (TFP), competente in primo grado a pronunciarsi in merito alle controversie tra le Comunità e i suoi agenti, comprese le controversie tra gli organi o tra gli organismi e il loro personale. E' composta da sette giudici, nominati per sei anni dal Consiglio, previa consultazione di un comitato ad hoc. Le regole di procedura Il procedimento dinanzi al Tribunale e alla Corte prevede una fase scritta ed una fase orale, prima che si proceda alla decisione della causa. Nelle azioni dirette (annullamento, carenza, resp. extra.) la procedura è attivata con un ricorso da presentarsi entro il termine indicato per ciascuna azione del Trattato. Il ricorso contiene l‘indicazione delle parti, e dei difensori, l‘esposizione dell‘oggetto della controversia, dei mezzi dedotti e delle prove che si offrono, nonché la esatta enunciazione della domanda. Il ricorso viene inviato alla cancelleria della Corte che provvede alla pubblicazione dell‘essenziale sulla G. ufficiale nonché alla notifica alla controparte. La procedura pregiudiziale inizia dinanzi al giudice nazionale con la sospensione del procedimento e la rimessione di una ordinanza alla Corte di giustizia con i quesiti che richiedono una risposta ai fini della decisione. L‘ordinanza va trasmessa direttamente alla cancelleria della Corte a Lussemburgo. La cancelleria la trasmette anche alla Commissione ed altre istituzioni interessate e agli Stati membri. Gli stati membri e le istituzioni comunitarie possono intervenire in tutte le procedure attivate con ricorso dinanzi al giudice comunitario, vuoi a supporto vuoi per contestarla. Il giudice relatore allora deposita una relazione d‘udienza che riassume i termini essenziali della causa, il quadro normativo e la posizione delle parti. Al tempo stesso di fanno richieste o si pongono dei quesiti alle parti e si fissa l‘udienza. All‘udienza i difensori delle parti principali espongono i punti e rispondono alle domande dell‘avvocato generale. La fase orale termina con la lettura in udienza pubblica del dispositivo delle conclusioni dell‘avvocato generale. Della sentenza viene pubblicato il dispositivo nella G.U.

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CAP. III - LE COMPETENZE DELLA CORTE. IN GENERALE Premessa Alle istanze giurisdizionali i Trattati attribuiscono una gamma di competenze molto ampia, che copre, con riferimento al primo pilastro, l'intero arco delle questione che l'azione comunitaria può sollevare. Conviene sottolinearne alcune caratteristiche generali. Peculiarità delle attribuzioni della Corte In primo luogo la competenza della Corte si afferma su materie e piani molto diversi fra loro. Da qui l'estrema eterogeneità delle sue manifestazioni. A determinare la peculiare articolazione della giurisdizione della Corte concorrono un insieme di elementi che egualmente riflettono le caratteristiche del sistema. Vi è anzitutto un elemento esterno, rappresentato inizialmente dall'esistenza di tre Trattati istitutivi di tre Comunità, le quali restavano distinte quanto ai principi ispiratori, all'impianto istituzionale e ai meccanismi decisionali. Rileva poi un insieme di elementi intrinseci alle competenze stesse, attinenti alla sfera di giurisdizione materiale e personale dell'organo, nonché al tipo di attività esplicata. Facile quindi intuire che la giurisdizione della Corte risulta molto ampia e differenziata, dato che concerne una vasta categorie di soggetti, la cui posizione processuale è regolata in modo molto diverso. Già visto quanto sia articolata la competenza a livello di materie. Sintesi delle stesse Riguardo al primo pilastro possiamo riassumere le competenze della Corte nei seguenti termini. Nella grandissima maggioranza dei casi hanno natura giurisdizionale, anche se in alcuni casi la Corte può svolgere funzione consultiva. Per quanto riguarda le competenze di natura giurisdizionale distinguiamo un solo caso competenza non contenziosa, cioè la competenza pregiudiziale. Tutti gli altri casi riguardano competenze di tipo contenzioso, che seppur varie possono essere raccolte in pochi gruppi: la giurisdizione sulle questioni che oppongono la Comunità agli Stati membri, o questi fra loro in ordine all'interpretazione e all'applicazione dei Trattati. ampia e articolata ipotesi di giurisdizione sui comportamenti delle istituzioni comunitarie della loro funzione di governo delle organizzazioni. Sono i vari casi in cui la Corte esercita il suo sindacato sulla corretta amministrazione della Comunità, controllando la legittimità sai degli atti dei suoi organi, sia dei comportamenti omissivi degli stessi, nonché la liceità degli uni e degli altri. Sono previste alcune di rilievo minore, ma non sempre marginale. CAP. IV - I GIUDIZI SUI COMPORTAMENTI DEGLI STATI MEMBRI Premessa Tra le indicate ipotesi di competenza, quella che attiene al controllo sui comportamenti degli Stati membri assume rilevanza particolare, poiché si presta a mettere in causa il comportamento degli enti che, oltre ad aver dato vita alle organizzazioni europee, restano i principali garanti della loro effettiva funzionalità. E' utile quindi sottolineare come questi ultimi si siano preoccupati di predisporre una disciplina che da un lato prevede per gli stessi Stati membri l'obbligo di risolvere eventuali controversie sull'interpretazione/applicazione dei trattati nel quadro e secondo le procedure previste dal sistema, e dall'altro istituisce talune procedure tendenti ad assicurare l'osservanza dei trattati da parte degli Stati, nella quali è fatto largamente posto

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all'iniziativa delle istituzioni comunitarie, ed in particolare della Commissione. a) I ricorsi della Commissione per inadempimento degli obblighi comunitari. I presupposti generali Fra le ipotesi accennate quella di maggior rilievo riguarda le azioni promosse dalla Commissione europea contro gli Stati membri per inadempimento degli obblighi derivanti dal diritto comunitario. Tale procedura è attivata soprattutto grazie all'esecutivo comunitario, cui attiene la funzione di controllo sul rispetto dei Trattati, e che può riceve le sollecitazioni da parte dei soggetti privati interessati. Più rari i casi in cui l'iniziativa è assunta dagli stessi Stati membri. Oggetto delle procedure in esame è l'accertamento della sussistenza di un inadempimento da parte degli Stati membri degli obblighi derivanti dal diritto comunitario. Incombe allo Stato una responsabilità a carattere assoluto e oggettivo: non rilevano né l'insussistenza di una colpa dello Stato, né la natura o la gravità dell'inadempimento commesso, né l'assenza di un pregiudizio da questo provocato. Ad essa lo Stato può sottrarsi solo in caso di difficoltà insormontabili provocate da cause di forza maggiore, e per il periodo strettamente necessario ad un'amministrazione diligente per porvi rimedio. Per quanto rileva ai presenti fini, gli obblighi incombenti agli Stati membri sono quelli enunciati dai trattati istitutivi, dagli atti vincolanti adottati dalle istituzioni comunitarie e dagli accordi internazionali da queste stipulati; ma si deve ritenere che vi rientri anche il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione di Roma e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni, in quanto principi generali dell'ordinamento comunitario. L'inadempimento può concretizzarsi tanto in un'azione quanto in un'omissione. Per quanto riguarda l'omissione, assai frequenti sono le procedure d'infrazione per la mancata trasposizione delle direttive comunitarie. Perché si possa escludere l'infrazione occorre che il rispetto degli obblighi comunitari sia assicurato dagli Stati non già su un piano meramente formale, ma in termini di effettività. Ne consegue che disposizioni legislative, regolamentari, o amministrative nazionali non vanno valutate per se, ma tenendo conto dell'interpretazione che ne danno i giudici nazionali in sede di concreta applicazione. L'inadempimento può essere contestato anche se è solo parziale, purché sia attuale: deve sussistere nel momento in cui è contestato, a nulla rilevando che in un momento successivo lo Stato vi abbia posto fine. La fase precontenziosa Il Trattato CE stabilisce una disciplina dettagliata della varie fasi della procedura di accertamento della violazione commessa dagli Stati membri. Tale procedura si articola in due passaggi essenziali: una fase precontenziosa, interamente nelle mani della Commissione, essendo questa la sola a poter contestare l'inadempimento; una seconda fase di natura giudiziaria, nella quale entra in scena la Corte, cui spetta accertare l'effettiva sussistenza dell'illecito e pronunciarsi sul comportamento dello Stato. Non sempre il sospetto o la certezza di una violazione mettono in moto la procedura, giacchè tra la rilevazione o la denuncia dell'inadempimento e l'avvio di tale procedura non sussiste necessariamente un rapporto di consequenzialità. La contestazione formale allo Stato è subordinata ad un giudizio discrezionale della Commissione, che non può essere obbligata ad avviare la procedura né da parte di uno Stato, né da parte dei privati interessati, che comunque possono sempre denunciare le violazione del diritto comunitario commesse da autorità nazionali. Ove comunque decida di contestare l'illecito, la Commissione avvia la fase precontenziosa, che si articola a sua volta in due fasi: quella della c.d. lettera di messa in mora (o diffida) e quella, eventuale, del "parere motivato". Con la prima la Commissione

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comunica formalmente allo Stato interessato l'apertura della procedura e lo mette in condizione di presentare le proprie osservazioni. La fase che si apre con l'invio della lettera è considerata essenziale e necessaria per l'avvio della procedura in esame, poiché rappresenta l'ultimo tentativo di composizione extragiudiziale della controversia, ma anche perché in questa fase si garantisce il rispetto del diritto di difesa dello Stato interessato. I requisiti formali e sostanziali del passaggio procedurale in esame sono disciplinati genericamente dal Trattato. Emerge tuttavia dalla prassi che la messa in mora non è sottoposta a particolari requisiti formali, essendo sufficiente una semplice lettere dell'esecutivo che contenga almeno l'esplicito riferimento alla violazione contestata, gli elementi necessari alla preparazione della difesa dello Stato, insieme con l'avvertimento che, in mancanza di una risposta adeguata entro un termine fissato, la Commissione proseguirà la procedura fino al ricorso alla Corte. Nel caso in cui lo Stato non risponda, o lo faccia in maniera inadeguata, la Commissione emetterà un "parere motivato" con il quale precisa la propria posizione e sollecita lo Stato a mettere fine al comportamento contestato. I requisiti formali e sostanziali del parere motivato sono più rigidi che per la diffida. Esso non può modificare l'oggetto della contestazione se non nel senso della sua riduzione. Il parere deve essere motivato adeguatamente, pena l'irricevibilità dell'eventuale ricorso della Commissione alla Corte. Quanto al termine concesso allo Stato, la prassi indica che esso è di solito di due mesi, ma può essere ridotto o ampliato in funzione delle circostanze. La fase giudiziaria Se dopo la decorrenza del termine fissato, lo Stato membro non si conforma al parere motivato della Commissione, questa può adire la Corte. Come per i passaggi precedenti, anche la decisione sul se e quando introdurre il ricorso rientra nella discrezionalità della Commissione. Il ricorso resta sempre possibile finché sussistono l'attività o la situazione contrarie al diritto comunitario. Nella prassi avviene di frequente che la Commissione si conceda un ampio margine di tempo prima di procedere. Anche il giudizio sul punto se lo Stato si sia conformato o meno al parere, o se abbia posto fine alla trasgressione, è rimesso pienamente alla Commissione, la quale decide sulla base dei provvedimenti eventualmente adottati dallo Stato, se presentare o meno il ricorso giurisdizionale. Le eventuali rimostranze dello Stato non trovano altra sede che quella del procedimento innanzi alla Corte. Il ricorso potrà essere accolto se la Commissione provi la sussistenza dell'inadempimento contestato: è ad essa che incombe l'onere di fornire alla Corte gli elementi necessari per l'accertamento dell'esistenza dell'inadempimento. Allo Stato incomberà invece confutare le pretese della Commissione o provare eventuali circostanza giustificative del comportamento che gli viene contestato. Per quanto riguarda la disciplina processuale l'art. 40 dello Statuto della Corte preclude alle persone fisiche e giuridiche di intervenire nelle controversie fra Stati membri, fra istituzioni comunitarie, e fra Stati e istituzioni. La Corte può adottare provvedimenti urgenti anche nei giudizi in esame, e quindi ordinare, ad esempio, la sospensione dell'applicazione di una normativa o di una prassi nazionale. La pronuncia della Corte ed i suoi effetti Ove accerti l'inadempimento, la Corte pronuncia una sentenza meramente dichiarativa, che si limita ad accertare l'esistenza dell'inadempimento. Lo Stato è tenuto a prendere i provvedimenti necessari per l'esecuzione della sentenza in base all'art. 228 CE.

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Si comprende perché nella sentenza non vengano indicati i provvedimenti che lo Stato è tenuto ad assumere, che sono invece lasciati alla discrezionalità dello Stato stesso, che deciderà misure e modalità dell'adempimento. Destinatario dell'obbligo di osservare la sentenza, è lo Stato nella sua unità e non i singoli organi che in concreto abbiano esplicato l'attività ritenuta illecita dalla Corte. Come la Corte ha chiarito, tutti gli organi dello Stato membro devono garantire, nei settori di loro competenza, l'esecuzione della sentenza. La segnalata libertà degli Stati membri nella scelta dei mezzi non attenua la rigidità dell'obbligo incombente ai medesimi di assicurare la piena osservanza della sentenza. Nel caso ciò non avvenisse, la Commissione potrebbe presentare un nuovo ricorso alla Corte per inadempimento del citato art. 228 CE. Il Trattato di Maastricht del 1992 ha introdotto un nuovo comma nel suddetto articolo, che attribuisce alla Commissione il potere di ricorrere nuovamente alla Corte contro lo Stato doppiamente inadempiente, ma questa volta per chiederle di imporre a suo carico una somma forfettaria o una penale di cui la stessa Commissione propone l'importo. Il sistema di calcolo che la Commissione si è proposta di seguire prevede che l'importo debba essere calcolato in funzione di tre criteri fondamentali: gravità dell'infrazione; durata della stessa; necessità di imprimere alla sanzione un effetto dissuasivo onde prevenire le recidive. b) Le controversie tra Stati membri. In generale La procedura fin qui descritta, può essere attivata anche da uno Stato membro per denunciare alla Corte la violazione del diritto comunitario da parte di un altro Stato membro. Per le questioni concernenti gli Stati membri, l'art. 292 CE sancisce l'obbligo degli stessi di non sottoporre le loro controversie sull'interpretazione/applicazione dei Trattati ad un modo di regolamento diverso da quello previsto nei Trattati medesimi. Un simile obbligo mira a tutelare il sistema delle competenze definito dai Trattati e quindi l'autonomia dell'ordinamento giuridico comunitario di cui la Corte di Giustizia deve assicurare il rispetto. Il ricorso al giudice comunitario rappresenta uno dei mezzi più rilevanti offerti per la soluzione delle controversie tra Stati membri nell'ambito del sistema. Tuttavia tale giurisdizione ha carattere obbligatorio solo rispetto ad una parte di tali controversie: quelle relative all'inadempimento dei Trattati da parte di uno Stato membro. Negli altri casi l'obbligo è solo negativo, gli Stati dovranno evitare il ricorso a modi di soluzione non previsti dal sistema, ma non sono tenuti a rivolgersi alla Corte. Non va tuttavia dimenticato che, per i restanti casi, i Trattati ugualmente istituiscono la giurisdizione della Corte, sia pure subordinandola a un compromesso tra le parti. Inoltre, ove gli Stati membri non volessero o potessero risolvere la controversia per tale via, essi potrebbero comunque ricorrere a procedure extragiudiziarie. In particolare I) I ricorsi di inadempimento promossi da un'altro Stato membro; II) Le controversie connesse con l'oggetto del Trattato I) Ipotesi più importante, la cui disciplina è sviluppata sulla falsariga di quella dei ricorsi della Commissione contro gli Stati membri. Anche qui la giurisdizione della corte ha ad oggetto questioni relative all'inosservanza dei Trattati da parte degli Stati. Anche qui si svolge una fase precontenziosa nelle mani della Commissione, che è investita del compito di esperire i necessari tentativi perché il conflitto si chiarisca senza l'intervento della Corte. Per l'avvio di tale procedura non occorre che lo Stato agente abbia subito una lesione di un proprio interesse materiale; la legittimazione ad agire deriva automaticamente dalla sua posizione di Stato membro.

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La procedura è avviata da una domanda dello Stato denunciante alla Commissione, in cui deve precisare di voler dare inizio alla procedura, indicando i motivi della propria contestazione. Ricevuta la domanda, la Commissione deve darne notizia allo Stato chiamato in causa, e deve istituire un contraddittorio in cui entrambi possano presentare osservazioni. Al termine del contraddittorio la Commissione emette un parere motivato che potrà essere: interlocutorio, nel caso in cui non sia in grado di assumere un atteggiamento definitivo; favorevole alla tesi dello Stato accusato; conforme alle pretese dello Stato che ha avviato la procedura. Nei primi due casi lo Stato agente potrà fare ricorso alla Corte, nel caso in cui non concordi con la Commissione. Nell'ultimo caso, con il parere si constaterà l'illecito dello Stato chiamato in causa, e lo si inviterà a prendere opportuni provvedimenti entro un certo termine. Decorso infruttuosamente tale termine, lo Stato agente, o in caso di inerzia, la stessa Commissione, potrà comunque ricorrere alla Corte. Lo Stato agente potrà anche ricorrere alla Corte nel caso in cui siano passati tre mesi dalla domanda, senza che la Commissione abbia emesso un parere. II) I Trattati, per rendere quanto più possibile completo il sistema, hanno previsto la possibilità che alla Corte vengano sottoposte controversie soltanto connesse con l'oggetto dei Trattati, sia pur subordinatamente ad un compromesso fra gli Stati interessati. Gli Stati possono sottoporre alla Corte tutte le controversie che rilevino anche solo indirettamente con l'oggetto dei Trattati, purché presentino un collegamento obiettivo, individuato in relazione alla materia oggetto della controversia. Le analoghe competenze della Corte nell'ambito del terzo pilastro Per quanto riguarda il terzo pilastro la Corte può essere chiamata a dirimere le controversie tra Stati membri concernenti l'interpretazione/applicazione degli atti adottati dal Consiglio per la realizzazione delle finalità GAI, ogniqualvolta detta controversia non possa essere risolta dallo stesso Consiglio entro sei mesi dalla data nel quale è stato adito. La Corte è competente a statuire su ogni controversia tra Stati membri e Commissione concernenti l'interpretazione/applicazione delle convenzioni fra Stati membri stabilite per il raggiungimento delle predette finalità. Infine è competente per il controllo sul rispetto delle regole procedurali dettate dall'art. 7 TUE in occasione delle procedure promosse contro uno Stato membro per violazione dei principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dello Stato di diritto, proclamanti dall'art. 6 par. 2 TUE. CAP. V - IL CONTROLLO SUI COMPORTAMENTI DELLE ISTITUZIONI COMUNITARIE Introduzione Il controllo giurisdizionale diretto sulla legittimità degli atti comunitari è attribuito alla competenza esclusiva del giudice comunitario: al tribunale di primo grado il contenzioso sul rapporto d‘impiego presso la Comunità ed ai ricorsi individuali; alla Corte di giustizia per i ricorsi degli Stati membri e delle istituzioni, nonché in secondo grado rispetto alle sentenze del Tribunale. Il controllo si realizza attraverso procedure e con effetti diversi: l‘azione di annullamento, l‘azione in carenza, l‘eccezione incidentale d‘invalidità, l‘azione di danni da responsabilità extra-contrattuale della Comunità, il contenzioso in materia di personale.

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I. I ricorsi di annullamento

Premessa. L'organo competente L'art. 230 CE attribuisce agli Stati membri, alle istituzioni comunitarie e ai soggetti privati, il diritto di ricorrere alla Corte per motivi di legittimità contro gli atti delle istituzioni medesime al fine di chiederne l'annullamento. La competenza a giudicare su tali ricorsi è essenzialmente devoluta in primo grado, al TPI, fatti salvi alcuni casi espressamente riservati alla Corte, indicati dall'art. 51 dello Statuto, nonché le controversie di impiego del personale comunitario, riservate al Tribunale della funzione pubblica. La legittimazione passiva Oggetto del giudizio sono i comportamenti delle istituzioni comunitarie. Di norma quindi solo queste ultime possono essere convenute in giudizio, e non anche le autorità nazionali. In passato la legittimazione passiva era limitata al Consiglio e alla Commissione. In seguito la disposizione è stata modificata nel senso di sottoporre al controllo della Corte gli atti emanati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio in codecisione e quelli autonomamente adottati da Consiglio, Commissione e BCE, nonché gli atti del Parlamento europeo, destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi. Anche atti di altri organismi comunitari possono essere impugnati, se suscettibili di produrre in capo agli ricorrente determinati effetti giuridici. Gli atti impugnabili L'art. 230 CE prevede che sono impugnabili gli atti delle indicate istituzioni che non siano raccomandazioni e pareri, ed esclude gli atti del Parlamento europeo che non siano destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi. Basterebbe quindi individuare quali tipi di atti sono considerati impugnabili ex 230 CE e verificare poi in concreto se un determinato provvedimento sia ad essi riconducibile. Una simile verifica però non risulta agevole, poiché i Trattati da un lato, hanno evitato di fissare con particolare precisione le caratteristiche formali e sostanziali di ogni tipo di atti in modo da consentire di ricondurvi con sicurezza i singoli comportamenti rilevanti in concreto; dall' altro non sempre hanno precisato quale dei tipi dovesse essere utilizzato all'occorrenza, lasciando le istituzioni libere di scegliere tra più categorie di atti. Ma prima ancora o anche contestualmente a tale operazione, si pone il problema di accertare se si sia o meno in presenza di un atto impugnabile. In estrema sintesi può dirsi che la nozione di atto impugnabile che emerge dalla giurisprudenza può riassumersi nella formula secondo cui sono impugnabili gli atti definitivi emanati dalle istituzioni comunitarie nell'esercizio del loro potere d'imperio e produttivi di effetti obbligatori nei confronti di terzi. La Corte ha precisato che un atto è impugnabile quando con esso l'istituzione prenda comunque una posizione definitiva rispetto ad una determinata questione. Per questi motivi non sono impugnabili gli atti che si pongono come passaggi intermedi per l'emanazione dell'atto definitivo, né gli atti destinati ad avere effetti solo all'interno dell'istituzione. Ancora, perché l'atto sia impugnabile occorre che esso innovi nelle posizioni giuridiche preesistenti; un provvedimento che si limitasse a confermare o dare esecuzione a un atto precedente non sarebbe suscettibile di ricorso.

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I vizi degli atti. In generale Gli atti degli organi comunitari devono essere conformi alle norme contenute nei Trattati. La violazione di tali norme determina l'invalidità del provvedimento comunitario, e la possibilità di far funzionare i rimedi predisposti. Fra questi ha preminente rilievo la possibilità di annullamento dell'atto in via giurisdizionale. L'annullabilità opera in presenza dei vizi che inficiano la validità degli atti ed è espressamente prevista dai Trattati. E' anche prevista l'inesistenza ma solo come ipotesi eccezionale. L'art. 230 CE elenca le cause di invalidità dell'atto: incompetenza, violazione di forme essenziali, violazione del Trattato, sviamento di potere. Segue: I singoli vizi I) Il vizio di competenza ricorre allorché un atto eccede i poteri conferiti all'autorità che lo ha posto in essere. In ambito comunitario può tradursi nell'invasione delle attribuzioni di un'altra istituzione, o nella fuoriuscita dalle competenze comunitarie. Si comprende quindi perché l'incompetenza costituisca un vizio grave, rilevabile d'ufficio ed invocabile in qualsiasi momento del procedimento. Il vizio di violazione delle forme sostanziali non appare del tutto definito. La principale difficoltà sta nel fatto che non esiste una definizione di forme sostanziali. Talora i Trattati prescrivono alcuni requisiti di forma necessari alla valida emanazione dell'atto, ma nel sistema comunitario il principio dominante è la libertà della forma degli atti. Ne consegue allora che una valutazione del carattere sostanziale delle prescrizioni formali previste va operata con cautela. In particolare è da ritenere che ai fini della valutazione, assuma rilievo l'incidenza delle forme sulla sostanza del provvedimento finale, cioè esistenza contenuto ed efficacia giuridica dell'atto. Le rare previsioni normative a riguardo, vengono in rilievo rispetto alla procedura di formazione degli atti comunitari, e ai requisiti intrinseci degli atti. Le norme di procedura riguardano i casi in cui è imposta dai Trattati, la consultazione o l'iniziativa di persone fisiche o giuridiche, degli Stati, o di altri organi comunitari, ai fini dell'emanazione di un provvedimento, pena invalidità dell'atto. Altri casi di tale violazione potrebbero aversi, relativamente alla regolare costituzione dell'organo consultato, all'inosservanza da parte dello stesso delle norme in materia di votazione, ecc. Per quanto riguarda i requisiti formali intrinseci, si considerato solitamente rilevanti quelli che investono, la composizione dell'organo, le modalità di votazione, i quorum necessari, il rispetto delle norme relative al suo funzionamento, la pubblicazione e la notificazione degli atti. Rilievo preminente assumono però i vizi relativi al rispetto dell'obbligo di motivazione che i testi prescrivono per taluni atti comunitari. La violazione del Trattato o di ogni regola di diritto relativa alla sua applicazione identifica i vizi che attengono non alla veste esterna, bensì alla "legalità interna", la sostanza degli atti comunitari. In linea generale si può dire che tale vizio tende a racchiudere tutti i difetti che attengono alla legittimità degli atti. Nel suo significato tecnico viene delimitato per lo più in via d'esclusione rispetto a quei difetti che possono ricondursi sotto gli altri vizi espressamente previsti. Il vizio di cui si discute, si presta a comprendere i più numerosi e frequenti difetti degli atti comunitari, in particolare derivanti dalla mancata, incompleta, inesatta considerazione di una norma, e quelli concernenti la valutazione della fattispecie concreta cui applicare una norma. Ai fini della valutazione della legalità di un atto comunitario non vengono in rilievo soltanto i trattati, ma anche gli atti delle istituzioni comunitarie, gli accordi stipulati dalle Comunità, e i principi generali di diritto.

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IV) Anche per il vizio di sviamento di potere, la Corte ha preferito evitare definizioni di carattere generale e procedere piuttosto in modo pragmatico. Questo atteggiamento è dettato dall'intento di non vincolarsi ad astratte definizioni per adattare invece la nozione alle caratteristiche del sistema in cui opera. Di norma si considera sviato il potere esercitato per un fine diverso da quello per cui era stato attribuito. L'atto, nonostante la sua conformità al dettato normativo per quanto riguarda competenza, forma e singoli elementi costitutivi, contrasta con i fini perseguiti dalla norma in base alla quale è emanato. L'accento è posto quindi sui motivi che hanno guidato l'organo nell'emanazione, anche se la Corte può estendere la sua valutazione agli aspetti "obiettivi" dell'atto. La legittimazione attiva: I) delle istituzioni; II) degli Stati membri Il controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni comunitarie non è esercitato d'ufficio dalla Corte, ma si attiva con la presentazione di un ricorso. Legittimati ad agire sono le istituzioni comunitarie, gli Stati membri, e i soggetti di diritto interno ai quali è consentito sollecitare l'intervento della Corte. I) Il ricorso delle istituzioni comunitarie costituisce uno dei mezzi più incisivi per assicurare il rispetto delle competenze. Ciò spiega il carattere pieno e obbiettivo del ricorso, che non soffre nessuna specifica limitazione posta dai testi quanto agli atti impugnabili e ai motivi di impugnazione, e la sua ricevibilità non è condizionata dalla sussistenza di un interesse ad agire, che qui è presunto. Le istituzioni legittimate a proporre l'annullamento sono: Consiglio, Commissione, Parlamento europeo, e Corte dei conti e BCE limitatamente alla difesa delle loro prerogative. II) Analoga disciplina per il ricorso degli Stati membri, che in quanto ricorrenti privilegiati, godono anch'essi di legittimazione attiva piena e obbiettiva. Anche per questo motivo, la legittimazione ad agire è riservata allo Stato nella sua unità e in particolare alla autorità di governo, non spetta quindi ai singoli organi, che però potranno ricorrere alla stregua di una persona giuridica ai sensi della disposizione relativa ai ricorsi dei privati. Segue: III) Dei soggetti privati Anche i soggetti di diritto interno, c.d. privati, persone fisiche e giuridiche, possono sollecitare il controllo della Corte sulla legittimità degli atti comunitari. Questa è indubbiamente la più importante fra le varie forme dirette di garanzia apprestate dal sistema giurisdizionale comunitario per i soggetti in questione. Né tale osservazione è contraddetta dalla diversa e più restrittiva disciplina predisposta per i ricorsi dei soggetti in parola rispetto a quelli delle istituzioni e degli Stati membri. Data la natura dei soggetti, il Trattato ha escluso la possibilità di una sorta di "azione popolare" concessa agli Stati membri e alle istituzioni, ed ha imposto alcune specifiche condizioni per la ricevibilità di quei ricorsi. Il Trattato, oltre a subordinare l'ammissibilità del ricorso dei privati alla condizione che essi possano provare una lesione attuale e diretta di un interesse tutelato, ha imposto ulteriori limitazioni; infatti ai sensi dell'art. 230 comma 4 CE, le persone fisiche e giuridiche possono impugnare le decisioni prese nei loro confronti, le decisioni che appaiono come regolamenti ma concernono direttamente il ricorrente e le decisioni prese nei confronti di altre persone ma che concernono direttamente il ricorrente. Tutela molto limita appare riguardo ai regolamenti , e addirittura nulla riguardo alle direttive. Ma i limiti sono posti anche sotto altri profili. Ai fini della ricevibilità del ricorso dei privati, non basta che l'atto rientri tra quelli che il ricorrente ha il diritto di impugnare, ma occorre altresì che questi ne sia direttamente e individualmente colpito.

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Una svolta si è avuta nel 2000, con l'approvazione della Carta dei diritti fondamentali, che sancisce all'art. 47 il "diritto ad un ricorso effettivo". In realtà nell'immediato l'innovazione non produsse effetti, poiché, nonostante alcune aperture, la Corte ritenne di ribadire che nell'insieme il sistema dei rimedi approntati in ambito comunitario appare completo e idoneo a garantire il rispetto del principio di legalità; pur riconoscendo che il principio di una protezione giurisdizionale effettiva deve trovare piena applicazione nel sistema comunitario, il giudice comunitario non può stravolgere il dettato dell'art. 230 CE. Altro però potrebbe dirsi, se quella previsione fosse modificata in vista di un ampliamento delle condizioni di ricevibilità dei ricorsi privati. Il segnale fu recepito e trasfuso nel Trattato, attraverso una modifica dell'art. 230 comma 4 CE, nel senso auspicato; modifica che è poi stata ripresa nel Trattato di Riforma. I termini per il ricorso Il ricorso deve essere presentato entro due mesi dalla pubblicazione dell'atto o dalla notifica dello stesso al destinatario, o comunque dal momento in cui il soggetto ne ha avuto conoscenza. A tale termine vanno aggiunti i termini di distanza, un certo numero di giorni, variabile secondo la distanza dello Stato dalla sede della Corte. La proposizione del ricorso non sospende l'esecuzione dell'atto impugnato. Fino al loro annullamento da parte della Corte, e salvo l'eventuale revoca da parte delle istituzioni che li hanno emanati, gli ha esplicano piena efficacia. La Corte tuttavia può concedere in via provvisoria la sospensione dell'atto quando reputi che le circostanze lo richiedano. La sentenza di annullamento ed i suoi effetti In caso di accoglimento del ricorso, la Corte dichiara "nullo e non avvenuto l'atto impugnato". La sentenza che pronuncia l'annullamento non esaurisce i suoi effetti nell'ambito del giudizio e limitatamente alle parti in causa, ma esplica una efficacia assoluta, in quanto elimina l'atto dal mondo del diritto con effetti erga omnes e sin dal momento in cui è stato emanato. Sul piano processuale l'annullamento dell'atto preclude a chiunque la presentazione di un nuovo ricorso. Di gran lunga più importanti sono gli effetti sostanziali della pronuncia: l'atto viene considerato come non avvenuto, e deve essere ricostruita la situazione preesistente all'emanazione dell'atto, eliminando gli effetti da esso già prodotti. Ciò implica una serie di attività cui deve provvedere l'istituzione convenuta. Naturalmente, il ripristino della precedente situazione non si presenta sempre possibile e giusto. Il provvedimento potrebbe aver prodotto effetti la cui eliminazione, potrebbe risultare contraria al principio della certezza del diritto e del rispetto dei diritti acquisiti. In tal senso l'art. 231 comma 2 CE consente alla Corte di precisare "ove lo reputi necessario, gli effetti del regolamento annullato che devono essere considerati come definitivi". La giurisprudenza ha provveduto ad ampliare di molto le ipotesi in cui tale potere può essere esercitato. L'ipotesi appena considerata va tenuta distinta dall'annullamento parziale dell'atto, che si riferisce ai casi in cui quest'ultimo sia divisibile quanto alle sue parti e ai suoi effetti. In conseguenza della sentenza della Corte, l'istituzione da cui emana l'atto annullato deve prendere i provvedimenti necessari ad assicurare la piena osservanza della sentenza (art. 233 CE), attraverso una serie di attività che garantiscano il ripristino della situazione preesistente all'atto annullato. Lo stesso art. 233 CE prevede che tale obbligo non esclude comunque la possibilità di un risarcimento dei danni provocati dall'atto annullato.

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L’accertamento incidentale della illegittimità di un atto Attraverso una eccezione incidentale di invalidità, le parti possono sollevare una richiesta di annullamento nel corso di una procedura già attivata (per altri motivi) dinanzi alla Corte, al fine di far dichiarare l‘inapplicabilità del regolamento di cui si tratta ( anche dopo che sia trascorso il termine d‘impugnazione previsto per il ricorso). L‘ipotesi è quella dell‘eccezione d‘invalidità di un regolamento di base in occasione dell‘impugnazione di un atto di esecuzione di quel regolamento e come motivo dell‘invalidità dell‘atto impugnato. La sfera di applicazione dell‘eccezione di invalidità è limitata ai regolamenti; ma si è ampliato a tutti gli atti aventi portata generale; atti che producono gli stessi effetti del regolamento e producono effetti analoghi e non potrebbero essere impugnati dai singoli. L‘effetto di un eventuale accoglimento dell‘eccezione d‘invalidità è l‘inapplicabilità dell‘atto e non già il suo annullamento. Formalmente l‘atto viene dichiarato inapplicabile alla fattispecie ma resta pienamente in vigore. II. I ricorsi in carenza Condizioni generali Il ricorso per carenza é diretto contro l'inerzia illegale delle istituzioni riguardo al diritto comunitario. Questo ricorso è aperto alle istituzioni e ai privati in virtù del trattato che istituisce le Comunità europee. Al termine della procedura, qualora l'istituzione interessata non sia conforme ai suoi obblighi, la Corte di giustizia delle Comunità europee prende atto della carenza cui l'istituzione dovrà porre fine. Il ricorso per carenza si basa sull'articolo 232 del trattato che istituisce la Comunità europea (trattato CE). Questo ricorso si prefigge di far condannare un'istituzione per un'astensione illegale relativa al diritto comunitario .Il ricorso per carenza si basa sull'assenza o sull'omissione di azione delle istituzioni europee mentre il diritto comunitario impone un obbligo di agire come l'obbligo di approvare un atto. L'assenza o l'omissione ha, quindi, un carattere illegale. Le istituzioni europee la cui astensione illegale può formare oggetto di un ricorso per carenza sono il Consiglio, la Commissione, il Parlamento europeo e la Banca centrale europea. Invece le astensioni degli Stati membri formano oggetto di un ricorso per inadempimento. Infatti il ricorso in carenza riguarda non l‘ipotesi di un rifiuto che è pur sempre un provvedimento, ma quella di illegittima assenza di decisione e tende precisamente ad una constatazione della inerzia dell‘istituzione. Gli aspetti procedurali L‘introduzione del ricorso davanti alla Corte è subordinata ad una fase amministrativa preliminare. Perché il ricorso sia ricevibile, occorre che l‘istituzione cui è rimproverata l‘inerzia sia stata invitata a prendere posizione; una tale messa in mora deve intervenire a giudizio della Corte, entro un termine ragionevole a partire dal momento in cui appare chiaro che l‘istituzione in questione non ha intenzione di agire. Dal momento della messa in mora, l‘istituzione dispone poi di un periodo di 2 mesi, per prendere posizione; trascorso invano tale periodo, l‘autore della messa in mora può introdurre il ricorso, a sua volta entro un termine di 2 mesi. L‘assenza di decisione deve essere attuale e permanere anche durante tutto il corso della procedura; se l‘istituzione risponde alla messa in mora che gli è stata indirizzata, adottando l‘atto voluto dal richiedente, la procedura diventa senza oggetto. L‘azione in carenza può essere introdotto dagli Stati membri e dalle istituzioni in relazione a qualunque ipotesi di astensione che integri una violazione del Trattato. Il singolo può agire in carenza solo quando l‘istituzione abbia omesso di emanare nei suoi confronti un atto che non sia una raccomandazione o un parere.

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III. III. L'azione di danni Caratteristiche e specificità di tale azione La competenza del giudice comunitario in materia di responsabilità extracontrattuale della Comunità e di conseguente risarcimento dei danni, va anch‘essa collegata alla funzione di controllo sulla legittimità degli atti comunitari. Il T. CE impone alla Comunità di risarcire conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni causati dalle sue istituzioni o dagli agenti nell‘esercizio delle loro funzioni. Le condizioni per la sua promozione La competenza della Corte sussiste solo quando il danno sia stato cagionato da un‘istituzione comunitaria in senso lato o dai suoi agenti nell‘esercizio delle loro funzioni. Per contro la competenza appartiene ai giudici nazionali quando risulti che il danno allegato è stato prodotto da organi nazionali. La ricevibilità dell‘azione di responsabilità è stata messa in discussione rispetto all‘ipotesi di applicazione, da parte di organi nazionali, di provvedimenti adottati in esecuzione di atti comunitari di cui è stata poi contestata la validità. CAP. VI - LA COMPETENZA PREGIUDIZIALE Premessa La Corte vanta anche una competenza giurisdizionale a carattere non contenzioso, in quanto essa non dirime una controversia, ma conserva egualmente natura giurisdizionale dal momento che non si traduce in mera attività consultiva. L'ipotesi in questione concerne la competenza della Corte a pronunciarsi in via pregiudiziale (art. 234 CE), su questioni di interpretazione di disposizioni di diritto comunitario, o di validità di atti delle istituzioni, a seguito degli appositi rinvii che le giurisdizioni degli Stati membri devono o possono operare ove la soluzione di simili questioni sia necessaria per risolvere la controversia pendente. La competenza pregiudiziale non è attivata su ricorso delle parti di una controversia, ma a seguito del rinvio del giudice nazionale innanzi alla quale quella controversia pende ; non è destinata a risolvere la controversia, ma a fornire gli elementi necessari alla sua soluzione. E' una competenza che si articola da giudice a giudice e quindi assume rilievo essenziale il rapporto di stretta collaborazione tra le due istanze giurisdizionali in causa. Lo straordinario processo della procedura pregiudiziale conferma che i giudici nazionali hanno ben compreso che nessun ridimensionamento del loro ruolo e del loro prestigio deriva dalla sottoposizione di una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Le finalità della competenza La competenza pregiudiziale presenta una finalità ben precisa: assicurare grazie alla presenza di un organo ad hoc, l'uniformità dell'interpretazione del diritto comunitario, per evitare che si arrivasse ad una nazionalizzazione del diritto comunitario e della loro interpretazione da parte delle singole giurisdizioni nazionali, con conseguente e progressiva diversificazione del loro senso. L'attribuzione alla Corte di tale competenza mirava a rafforzare la capacità di questo corpus normativo comune di resistere alle particolarità dei sistemi nazionali. In questo modo la Corte avrebbe potuto garantire l'unità e la coerenza del diritto comunitario rispetto al relativo ordinamento ma anche rispetto agli ordinamenti degli Stati membri. Col tempo la competenza pregiudiziale si è prestata a finalità assai più estese. Anzitutto ha permesso alla Corte di spingersi a rilevare i principi cardine del sistema giuridico comunitario. Ma soprattutto ha saputo utilizzare la competenza ponendola al centro del sistema

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giurisdizionale comunitario, ma soprattutto dei rapporti fra diritto comunitario e diritto nazionale, anche con riguardo ai rispettivi apparati giudiziari. Detta competenza diventa quindi uno straordinario strumento di cooperazione con i giudici nazionali, favorendo il loro coinvolgimento nell'applicazione del diritto comunitario. Attraverso la sottolineata azione della Corte, la competenza pregiudiziale è diventata rapidamente uno strumento fondamentale anche per la tutela dei diritti garantiti dalle norme comunitarie e per la tutela giudiziaria dei privati. Ciò è stato reso possibile grazie all'uso "alternativo" della competenza , attraverso la sottoposizione alla Corte di Giustizia di questioni che vertono formalmente sulla portata di un principio o di una disposizione comunitaria, ma che in realtà consentono di mettere in causa una norma o una prassi interna di uno Stato membro, ritenute non conformi a quel diritto. Le condizioni di esercizio In base alla disciplina dettata dall'art. 234 CE, quella pregiudiziale è una competenza esclusiva della Corte di Giustizia, anche se la previsione dell'art. 255 par. 3 CE, non ancora attuata, stabilisce che essa possa essere devoluta al Tribunale di primo grado "in materie specifiche determinate dallo Statuto". giudici nazionali possono porre alla Corte tanto questioni di interpretazione che questioni di validità. Le prime possono vertere su qualsiasi disposizione del diritto comunitario: norme dei trattati, atti di diritto derivato, accordi stipulati dalla Comunità, e anche principi generali di diritto. In sede di competenza pregiudiziale la Corte non può invece interpretare norme o prassi nazionali per pronunciarsi direttamente sulla loro compatibilità con il diritto comunitario, anche se la limitazione può essere aggirata riformulando il quesito come volto a chiarire se la norma comunitaria vada interpretata in un senso che consenta ad uno Stato membro di mantenere norme o prassi del tipo di quelle messe in causa. Rispetto agli atti delle istituzioni comunitarie la Corte può altresì esercitare, in sede di competenza pregiudiziale, un controllo di validità sul modello del controllo di legittimità svolto nei ricorsi per annullamento ex art. 230 CE. Legittimate ad operare il rinvio pregiudiziale sono le "giurisdizioni" degli Stati membri di ogni ordine e grado, individuate dalla Corte in una definizione comunitaria di "giurisdizione" ai sensi dell'art. 234 CE. Se non è di ultima istanza, il giudice nazionale ha la facoltà di operare il rinvio pregiudiziale, ma se decide di non farlo, può comunque procede autonomamente all'interpretazione del Trattato o dell'atto comunitario in causa. La Corte ha riconosciuto al giudice nazionale che operi il rinvio, il potere di sospendere, in attesa della pronuncia della Corte, l'efficacia dei provvedimenti nazionali fondati su atti comunitari rispetto alla cui validità il giudice nutra seri dubbi. La soluzione di lasciare libere le giurisdizioni si spiega con il fatto che in tal caso gli interessati possono pur sempre impugnare la decisione e riproporre la domanda di rinvio alla Corte nel successivo grado di giudizio. Proprio per questo motivo il Trattato ha previsto che per le "giurisdizioni attraverso le quali non possa proporsi un ricorso di diritto interno", il rinvio pregiudiziale costituisca un vero e proprio obbligo. La decisione di sospendere il giudizio nazionale e sottoporre alla Corte la questione pregiudiziale è di esclusiva competenza del giudice nazionale, perché spetta ad esso valutare se la pronuncia della Corte sia necessaria per la decisione nel caso di specie. Ne consegue che nell'esaminare la ricevibilità dell'ordinanza di rinvio la Corte non può sindacare tali valutazioni, ed è quindi tenuta a a dar seguito all'ordinanza stessa. Restano comunque ampi margini di di apprezzamento alla ricevibilità dell'ordinanza per quello che riguarda la competenza della Corte stessa. In particolare la Corte declina la propria competenza quando vi siano dubbi sulla rilevanza dei quesiti ai fini della decisione a quo e quindi sulla necessità del rinvio.

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Gli aspetti procedurali rinvio, insieme con la contestuale sospensione del procedimento, è di regola disposto con ordinanza motivata, notificata alla Corte a cura del giudice interno. In sede comunitaria il procedimento innanzi alla Corte è oggetto di apposita disciplina del relativo regolamento di procedura. Ad esso sono autorizzati a partecipare: le parti del giudizio a quo, gli Stati membri, la Commissione, e quando ne sia il caso, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Banca centrale europea. Tutte queste parti possono presentare osservazioni scritte entro due mesi dalla notifica. Segue di regola una fase orale, che può essere omessa dalla Corte; la quale può disporre misure istruttorie e chiedere chiarimenti e informazioni alle parti, anche direttamente in udienza. Peculiarità del procedimento pregiudiziale è la facoltà concessa alla Corte di chiedere chiarimenti direttamente al giudice nazionale. La Corte decide di regola con sentenza, ma talvolta anche con ordinanza motivata. La decisione è notificata al giudice, alle parti cui è stata notificata l'ordinanza di rinvio. Per quanto riguarda gli effetti delle decisioni pregiudiziali, esse sono vincolanti per il giudice a quo. Nel caso in cui la Corte si sia pronunciata su questioni di interpretazione di norme comunitarie, la decisione rimane obbligatoria per il giudice del rinvio, ma si impone anche con effetti erga omnes. Nel caso in cui invece si sia pronunciata qu questioni di validità degli atti delle istituzioni, bisogna distinguere secondo che la Corte si sia pronunciata o meno nel senso della validità della disposizione di diritto comunitario in discussione. Se lo ha fatto, l'efficacia della sentenza sarà limitata alla controversia particolare, potendo sempre i giudici nazionali riproporre la medesima questioni di validità. Se invece si sia pronunciata nel senso delle invalidità, la sentenza della Corte, sebbene non comporti che l'atto sia "nullo e non avvenuto", come nei giudizi di annullamento, di fatto produce i medesimi effetti. Altre analoghe ipotesi di competenza previste dai testi comunitaria omissis Per effetto dell‘entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, la competenza pregiudiziale della Corte di giustizia è stata estesa al Titolo IV TCE (‗Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone‘) in virtù dell‘art. 68 TCE. Per effetto dell‘art. 2 del Protocollo sull‘integrazione dell‘acquis di Schengen, la competenza pregiudiziale della Corte ai sensi del Titolo IV TCE include altresì le Convenzioni e le decisioni adottate nell‘ambito del sistema Schengen, ad eccezione delle materie che rientrano nel III Pilastro del TUE. L‘art. 68 TCE prevede una disciplina del rinvio pregiudiziale (sull‘interpretazione e la validità) in parte diversa da quella dell‘art. 234. Il meccanismo del rinvio è attivabile solo dalle giurisdizioni nazionali di ultima istanza, le quali sono peraltro tenute a sollevare questione pregiudiziale, qualora cioè il giudice reputi necessaria per emanare la sua una decisione su tale punto. La competenza della Corte, interpretativa e di validità, è esclusa per le misure e le decisioni relative all‘attraversamento delle frontiere (ex art. 62, par. 1, TCE) in materia di mantenimento dell‘ordine pubblico e di salvaguardia della sicurezza interna. Infine la competenza interpretativa della Corte può essere attivata anche dal Consiglio, dalla Commissione o da uno Stato membro, con la precisazione che la sentenza adottata dalla Corte «non si applica alle sentenze degli organi giurisdizionali degli Stati membri passate in giudicato». Il Trattato di Amsterdam ha altresì previsto la competenza pregiudiziale della Corte nel settore della Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale che ha un carattere facoltativo, è cioè subordinata ad una accettazione da parte degli Stati membri. È inoltre prevista la facoltà statuale di scegliere le categorie di giudici abilitati ad operare il rinvio (tutti i giudici, o solo i giudici di ultima istanza).

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L‘oggetto del rinvio pregiudiziale di interpretazione è limitatamente definito dall‘art. 35, par. 1: non vi sono incluse, infatti, né le norme primarie, né le posizioni comuni assunte nell‘ambito del III Pilastro. Secondo la dottrina, queste fonti potranno comunque rilevare nel contesto dell‘interpretazione, o dell‘accertamento della validità, di atti derivati che vi danno attuazione. L‘intervento può essere esperito da tutti gli Stati membri, anche nell‘ipotesi in cui non abbiano accettato la competenza pregiudiziale della Corte (possibile ratio: l‘effetto persuasivo che possono rivestire le sentenze rese dalla Corte per i giudici di quegli Stati). CAP. VII - ALTRE COMPETENZE La competenza sulle controversie relative alla funzione pubblica Con la decisione del Consiglio n. 2004/752/CE del 2 novembre 2004 è stata istituita la prima camera giurisdizionale: il Tribunale della funzione pubblica dell'Unione europea, organo giurisdizionale incaricato di statuire in merito al contenzioso sul pubblico impiego. In sostanza esso si pronuncia sulle controversie tra la Comunità ed i suoi agenti, comprese le controversie tra gli organi ed il loro personale. Il Tribunale della funzione pubblica è composto di 7 giudici, nominati dal Consiglio per un periodo di sette anni, che designano tra loro il presidente per tre anni; il suo mandato è rinnovabile. Esso si riunisce generalmente in sezioni composte di tre giudici ma può anche riunirsi in seduta plenaria, in sezioni di cinque giudici, o statuire nella persona di un giudice unico. Per quanto riguarda il suo regolamento di procedura, si applica in linea di principio quello relativo alla Corte di giustizia disciplinato nello statuto, ad eccezione di alcune integrazioni precisate nell'allegato. La fase scritta, infatti, comprende la presentazione del ricorso e del controricorso e la trattazione orale, con il consenso delle parti, può anche non avere luogo. Inoltre è specificato che in ogni fase del procedimento il Tribunale può adoperarsi per risolvere la controversia attraverso una composizione amichevole. Le decisioni del Tribunale possono essere impugnate dinanzi il Tribunale di primo grado entro un termine di due mesi e per i soli motivi di diritto. La competenza in materia contrattuale Il ricorso per responsabilità contrattuale, cioè per il fatto di contratti conclusi tra la Comunità e un terzo, è sottoposto a disposizioni specifiche e la Corte di giustizia delle Comunità europee (Corte di giustizia) interviene unicamente se lo prevede una clausola specifica del contratto. Le condizioni e le modalità del ricorso per responsabilità derivano dal diritto applicabile. Tale diritto è definito dal contratto e si tratta in linea di massima di un diritto nazionale. La Corte di giustizia può rappresentare la giurisdizione competente per decidere a condizione che una clausola contrattuale, la clausola compromissoria, lo enunci esplicitamente. Il potere di pronunciare le dimissioni di ufficio di membri degli organi comunitari Con la decisione del Consiglio n. 2004/752/CE del 2 novembre 2004 è stata istituita la prima camera giurisdizionale: il Tribunale della funzione pubblica dell'Unione europea, organo giurisdizionale incaricato di statuire in merito al contenzioso sul pubblico impiego. In sostanza esso si pronuncia sulle controversie tra la Comunità ed i suoi agenti, comprese le controversie tra gli organi ed il loro personale. Il Tribunale della funzione pubblica è composto di 7 giudici, nominati dal Consiglio per un periodo di sette anni, che designano tra loro il presidente per tre anni; il suo mandato è rinnovabile.

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Esso si riunisce generalmente in sezioni composte di tre giudici ma può anche riunirsi in seduta plenaria, in sezioni di cinque giudici, o statuire nella persona di un giudice unico. Per quanto riguarda il suo regolamento di procedura, si applica in linea di principio quello relativo alla Corte di giustizia disciplinato nello statuto, ad eccezione di alcune integrazioni precisate nell'allegato. La fase scritta, infatti, comprende la presentazione del ricorso e del controricorso e la trattazione orale, con il consenso delle parti, può anche non avere luogo. Inoltre è specificato che in ogni fase del procedimento il Tribunale può adoperarsi per risolvere la controversia attraverso una composizione amichevole. Le decisioni del Tribunale possono essere impugnate dinanzi il Tribunale di primo grado entro un termine di due mesi e per i soli motivi di diritto. La funzione consultiva Un altro aspetto della giurisdizione non contenziosa della Corte di Giustizia riguarda la funzione consultiva che essa esercita nei confronti delle altre Istituzioni comunità rie, Si tratta di una funzione tipica degli organi giurisdizionali internazionali; si pensi, a titolo esemplificativo, alla Corte Internazionale di Giustizia che è competente a esprimere pareri all'Assemblea delle Nazioni Unite, generale, al Consiglio di sicurezza su qualunque questione giuridica, nonché agli istituti specializzati delle Nazioni Unite, ove autorizzati dall‘ Assemblea generale. La competenza consultiva della Corte di Giustizia non ha però carattere generale, ma è limitata ad alcune ipotesi ben de terminate dai Trattati istitutivi, in particolare in tema di compatibilità col Trattato degli accordi stipulati dagli Stati membri e dalla CE FA, nonché degli accordi conclusi dalla Comunità con Stati terzi o con Organizzazioni internazionali. Per quanto concerne i soggetti legittimati ad adire la Corte in sede consultiva, l'art. 300, paragrafo 6 TCE afferma: ―Il Parlamento europeo, il Consiglio la Commissione o uno Stato membro possono domandare il parere della Corte di Giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con le disposizioni dei presente trattato‖. La seconda parte del paragrafo descrive, invece, gli effetti dell'eventuale parere negativo. Quest'ultimo, in verità, non preclude ai soggetti interessati (gli Stati, la CE o la CEEA) di concludere ugualmente l'accordo in questione, ma condiziona la sua entrata in vigore all‘ esperimento della procedura di revisione dei Trattati comunitari prevista dall'art. 48 TUE. In merito alla portata del parere, esso assume carattere vincolante per le Istituzione ma sembra esaurire ì suoi effetti all'interno del procedimento in cui si inserisce, a differenza delle sentenze che la Corte emette nei procedimenti contenziosi che, come abbiamo visto, possono trascendere il procedimento cui appartengono. Le competenze previste dal Trattato sull'Unione europea La Corte di giustizia assume un ruolo rilevante anche nell'ambito delle disposizioni previste dal Trattato sull'Unione europea. In particolare: — si pronuncia (art. 35 TUE) in via pregiudiziale sulla validità e sull'interpretazione delle decisioni-quadro, delle decisioni e delle misure di applicazione delle convenzioni, sulla legittimità delle decisioni-quadro e delle decisioni nonché sulle controversie tra Stati membri relative all'applicazione e interpretazione degli atti adottati nel terzo pilastro, vale a dire la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale; — è competente (art. 46 TUE) ad esaminare eventuali violazioni di carattere procedurale nell'iter che può portare all'applicazione di sanzioni a carico dello Stato che non rispetti i principi fondamentali su cui è fondata l'Unione. Si tratta di un controllo limitato alla verifica della legalità del procedimento, esercitato su richiesta dello Stato membro interessato, entro un mese a decorrere dalla data in cui il Consiglio procede alla constatazione del comportamento degli Stati rispetto ai rischi di violazione dei principi di libertà, democrazia e di rispetto dei diritti dell'uomo.

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SEZIONE II - LA TUTELA IN AMBITO NAZIONALE

Premessa Spetta prima di tutto ai giudici nazionali tutelare il diritto comunitario. Si parla di ―primato e diretta e immediata applicabilità del diritto comunitario‖, anche grazie al forte impulso della Corte di Giustizia: da un lato c‘è un diritto dei privati ad invocare le sue disposizioni, dall‘altro c‘è l' obbligo giudici nazionali di disapplicare norme interne incompatibili. Il rapporto tra diritto comunitario e Stati membri è quindi determinante, considerando anche il fatto che il primo non è completo e quindi non ha tutti gli strumenti necessari per assicurare il pieno rispetto delle sue prescrizioni, ma deve poter contare sugli organi nazionali (nella specie, i giudici). L'azione della Corte per garantire la tutela giurisdizionale effettiva dei privati. In generale Il sistema comunitario vuole non solo che gli Stati favoriscano il rispetto del suo diritto, ma, in merito alle situazioni dei privati, che apprestino rimedi giurisdizionali e procedimenti che garantiscano una tutela giurisdizionale effettiva delle diverse situazioni giuridiche fondate su quel diritto. Non è la Corte a dettare questa tutela, ma lascia che lo facciano gli Stati. In particolare vanno ricordati: il principio di equità (condizioni non meno favorevoli rispetto ad una impugnazione di diritto nazionale) e di effettività (l‘esercizio diritti conferiti dal diritto comunitario non deve essere impossibile). Ma l‘ influenza della Corte è aumentata sempre di più, fino a creare uno ―standard europeo di tutela giudiziaria‖, a cui gli Stati cedono il passo (es. Corte ha richiesto di assicurare livelli di risarcimento effettivi, anche in deroga ai limiti fissati dagli ordinamenti nazionali). Si è cosi creata una solida rete di protezione attorno alle situazioni giuridiche di cui parliamo, anche alla luce del fatto che mentre in precedenza gli Stati inadempienti venivano scarsamente sanzionati (ad es. per il ritardo nell‘applicare una direttiva), ora tale inadempienza è senz‘altro più sconveniente. Un pilastro nell‘applicazione del diritto comunitario è l‘art.10 TCE, cioè obbligo di leale cooperazione. La tutela cautelare La Corte di giustizia, dopo aver affermato il principio della preminenza del diritto comunitario su quello nazionale, ha riconosciuto come indefettibile l'esigenza della tutela cautelare che i giudici devono poter apprestare a diritti vantati dai singoli in forza di norme comunitarie ed in attesa della sentenza definitiva. Ex art. 242 TCE il giudice nazionale può sospendere in via cautelare l'esecuzione di atti comunitari in ragione di una pretesa di illegittimità dell‘atto comunitario di cui l‘atto impugnato rappresenta la misura interna di attuazione. Si tratta per il giudice nazionale di sospendere l‘atto comunitario, che mal si concilierebbe con la mancanza di competenza sulla sua validità, che è esclusiva del giudice comunitario. La Giurisprudenza ha riconosciuto che il giudice nazionale può esercitare in via cautelare il potere in questione purché operi un rinvio alla Corte di giustizia affinché si pronunci in via pregiudiziale sulla validità dell‘atto. . Questo provvedimento può essere adottato solo per gli atti comunitari la cui legittimità è contestata con: 1. un ricorso per annullamento ex art. 230 TCE; 2. Un ricorso di risarcimento danni ex art. 235 TCE; 3. un ricorso In materia di funzione pubblica ex art. 236, TCE Ex art. 243 TCE: adozione di provvedimenti provvisori residuali necessari diversi dalla sospensione, in particolare nell'ambito di un ricorso per inadempimento ex art. 226 TCE. La domanda di provvedimenti d'urgenza è accessoria al procedimento principale e ha come scopo quello di evitare che la durata del giudizio principale comprometta

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Irreparabilmente gli interessi delle parti in causa vanificando l'efficacia della successiva sentenza che definisce la controversia. Le condizioni perché tale domanda accessoria sia accolta devono essere: urgenza, pericolo di un danno grave e irreparabile, fumus boni iuris, bilancio degli interessi della parte richiedente, in relazione a quelli dell'ordinamento comunitario e dì eventuali terzi. Sono competenti, come giudici, i presidenti rispettivamente della Corte di Giustizia e del Tribunale di primo grado (di tutto il collegio qualora le questioni sollevate rivestano particolare importanza di diritto o di fatto). Il risarcimento dei danni provocati da violazioni del diritto comunitario Non è affatto scontato che la protezione giudiziaria dei diritti possa sempre essere assicurata in modo pieno ed effettivo. Ecco allora affiorare nella giurisprudenza della Corte, accanto a quelli già esaminati, ulteriori principi e strumenti di tutela, che hanno trovato la massima espressione nell'affermazione del principio della responsabilità degli Stati membri per omessa o incompleta o non corretta esecuzione del diritto comunitario. La Corte non ha dovuto far altro che svolgere con coerenza le premesse degli indirizzi giurisprudenziali, richiamandosi ancora una volta all'obbligo di leale cooperazione imposto dall'art 10 CE. La Corte ha anzitutto chiarito che il principio va applicato indipendentemente dalla natura dell'organo che ha posto in essere l'azione o l'omissione, sicché la responsabilità può derivare anche da fatti imputabili al legislatore nazionale, al di là e a prescindere dalla configurabilità nei singoli ordinamenti di un illecito a carico del potere legislativo. Ma per questo stesso motivo, essa potrà derivare anche dai comportamenti e dalle prassi delle giurisdizioni nazionali che si pronuncino in via definitiva. Quanto poi alle condizioni di sussistenza della responsabilità dello Stato, la Corte, muove dalla premessa che in questa materia la tutela dei diritti attribuiti ai singoli non può variare in funzione della natura, nazionale, o comunitaria dell'organo che ha cagionato il danno. Ai fini che qui rilevano la Corte richiede in principio la sussistenza di tre condizioni: la norma comunitaria deve essere preordinata ad attribuire diritti a favore dei singoli; deve trattarsi di una violazione grave e manifesta; deve esistere un nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo incombente sullo Stato ed il danno subito. Ove tali condizioni ricorrano, esse vanno considerate necessarie e sufficienti e non possono richiedersene di ulteriori; all'inverso sono fatte salve le eventuali condizioni meno restrittive previste dall'ordinamento nazionale in causa. In ogni caso la violazione del diritto comunitario è sicuramente manifesta e grave quando essa continua nonostante che una sentenza della Corte abbia già accertato che il contestato comportamento dello Stato costituisce inadempimento di obblighi comunitari, o comunque venga palesemente ignorata una giurisprudenza della Corte, dalla quale risulti l'illegittimità di detto comportamento. Del pari la Corte ritiene sicuramente sussistere la violazione ove il giudice non abbia osservato l'obbligo del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, comma 3, CE. Una volta accertata la violazione dovrà poi farsi riferimento agli ordinamenti giuridici nazionali per individuare in concreto le condizioni e le modalità dell'azione di danni.

L'inquadramento delle situazioni giuridiche soggettive tutelate dall'ordinamento comunitario Il diverso trattamento giurisprudenziale previsto nel nostro ordinamento per la tutela di diritti soggettivi ed interessi legittimi rischia di apparire inadeguato alla complessità delle pretese e delle aspettative che sono connesse all'idea della cittadinanza comunitaria atteso che da essa deriva l'esigenza di garantire l'effettività della loro tutela (ed insieme ad essa del diritto comunitario stesso) al di là di ogni questione inerente alla differente qualificazione giuridica. Come è noto, la Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi su

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norme generali vigenti in diverse materie, parla piuttosto di ―posizioni giuridiche individuali‖ senza distinguere le due categorie, ma sottolineando unicamente l‘'importanza dell'effettività della tutela. A questo punto vale riflettere se l'interesse legittimo sia compatibile con l'ordinamento comunitario. La questione trova risposta in alcune posizioni assunte dalla Corte di giustizia, per la quale la qualificazione di una situazione soggettiva fondata sul diritto comunitario come interesse legittimo, non può considerarsi né preclusa né scorretta, atteso che detto sistema non conosce la distinzione tra diritti ed interessi, ma mira a garantire la tutela piena ed effettiva di tutte le situazioni giuridiche esistenti negli ordinamenti interni. Nell'ottica europea l'interesse legittimo non è una situazione soggettiva (essendo da questo punto vista un diritto) , ma una 'formula organizzatoria' propria del sistema amministrativo italiano, volta ad individuare il giudice competente e da attribuire un sistema compiuto di tutela dei diritti. Gli stati membri, cioè, hanno possibilità di organizzare liberamente il proprio sistema di giustizia anche in forza del riferimento a situazioni soggettive; è il momento delle tutele l'aspetto qualificante per la Comunità: alla situazione soggettiva di derivazione comunitaria deve essere offerta una tutela piena e non alcuni mezzi di gravame solo perché nel nostro ordinamento una situazione di derivazione comunitaria possa essere ricondotta alla figura degli interessi legittimi,piuttosto che a quella dei diritti.