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a G., compagna e complice

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La crisi capitalistica,la barbarie che avanza

Asterios

Riccardo Bellofiore

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Prima edizione nella collana AD: gennaio 2012

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Indice

LA CRISI CAPITALISTICA E LE SUE RICORRENZE:UNA LETTURA A PARTIRE DA MARX

Introduzione, 13 Le teorie marxiane della crisi, 15

1. La crisi ciclica da esaurimento dell’esercito industriale di riserva, 17

2. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, 22

3. La crisi da realizzazione, 264. Verso una lettura unitaria e diacronica della

teoria marxiana della crisi, 30 5. La crisi sociale nella valorizzazione, 34Una nuova lettura del lavoro astratto e della teoria marxiana del valore, 37Valore d’uso della forza-lavoro,

crisi capitalistica e nuove problematiche, 43Le molte facce del neoliberismo, 48

1. Sweezy, Minsky, e il ruolo dell’indebitamento privato, 49

2. La prima fase del neoliberismo: la svolta neo-conservatrice del monetarismo e la crisi

mancata, 54

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3. La sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito,

il risparmiatore maniacale e il consumatore indebitato, 564. Il lavoratore traumatizzato

e la centralizzazione senza concentrazione, 595. La seconda fase del neoliberismo: un parados-

sale keynesismo privatizzato, 63Dalla crisi delle dotcom alla crisi dei subprime:

il ritorno della crisi ‘sistemica’, 66Conclusioni, 70

Nota Bibliografica, 73

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LA CRISI CAPITALISTICA

E LE SUE RICORRENZE:UNA LETTURA A PARTIRE DA MARX

Il saggio che segue è stato già pubblicato sulla rivista "Fenome-nologia e società", n. 3. 2010. L'occasione per la sua composi-zione la devo al compianto Padre Giuseppe Pirola: fu infattipresentato a un suo seminario, e ha potuto godere del confrontocritico con lui e altre/i compagne/i. L'elenco dei debiti intellet-tuali dietro uno scritto del genere è ovviamente infinito, a par-tire dai miei maestri Claudio Napoleoni, Augusto Graziani,Hyman P. Minsky. Mi limiterò dunque a ricordare il dialogo co-stante degli ultimi anni con Massimiliano Tomba, come anchela lettura del capitalismo contemporaneo e della sua crisi cheho sviluppato con Joseph Halevi.

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Introduzione

Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni in-terpretativi principali che si richiamano a Marx eche proclamano una sua rinnovata attualità. Ilprimo, proposto da quegli autori che si voglionomarxisti ‘ortodossi’, è quello che legge la finanzia-rizzazione come conseguenza della caduta tenden-ziale del saggio del profitto, e in quest’otticaindividua una lunga tendenza alla stagnazione checomincia negli anni Sessanta del Novecento. L’altrainterpretazione, prevalente per lo più in quei mar-xisti influenzati dal keynesismo e dal neoricardismo,fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizza-zione, ovvero da insufficienza da domanda. Questosecondo filone evidenzia come, dopo la controrivo-luzione monetarista degli anni Ottanta del Nove-cento, siano avvenuti profondi mutamenti nelladistribuzione del reddito con la caduta della quotadei salari, e sostiene che in un mondo di bassi salarila ragione di fondo della crisi sia l’insufficienza delladomanda di consumi: una prospettiva più o menodichiaratemente sottoconsumista. In entrambi icasi, la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sa-

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rebbe la crisi di un capitalismo che si può ben defi-nire asfittico, sostanzialmente e (ormai) perenne-mente stagnazionistico.Ritengo che un’interpretazione marxiana della

crisi non possa essere sganciata dalla caduta ten-denziale del saggio del profitto, ma che questa vadainterpretata come una sorta di meta-teoria dellacrisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teo-rie della crisi che si possono trovare o derivare dalCapitale. In quel che segue, procederò in prima bat-tuta ad una ricognizione delle diverse teorie dellacrisi riconducibili a Marx, e che sono di solito espo-ste come filoni alternativi e incompatibili. In se-condo luogo, cercherò di integrare i diversi spuntiche si trovano in Marx in un discorso unitario, den-tro una lettura non meccanicistica della caduta delsaggio di profitto. Questo discorso si prolunga inuno schizzo storico della dinamica lunga del capi-tale: dalla Grande Depressione di fine Ottocento,alla Grande Crisi degli anni Trenta del secolo scorso,alla Crisi Sociale nei processi immediati della valo-rizzazione degli anni Sessanta-Settanta. Infine, leg-gerò su questo sfondo la dinamica capitalistica difine Novecento e la crisi che si è materializzata inquesto ultimo decennio, sottolineando il legame trafinanziarizzazione e frammentazione del lavoro, ecercando di individuare le novità più significativenella morfologia del sistema economico e sociale.

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Le teorie marxiane della crisi

La teoria della crisi marxiana è da sempre un ter-reno accidentato e controverso. L’accumulazione –la conversione del plusvalore in capitale costante evariabile aggiuntivo al fine di produrre plusvalore –è un processo contraddittorio. Di tali contraddizionile crisi sono l’espressione necessaria e, ad un tempo,la soluzione temporanea. La tendenza alla instabi-lità del capitalismo discende innanzi tutto dal fattoche il capitalismo è una economia di mercato e mo-netaria. Sul mercato, nella divisione sociale del la-voro, vige una anarchia che può condurre a unarealizzazione incompleta del plusvalore prodotto inpotenza nel processo immediato di valorizzazione.La presenza della moneta dissocia le vendite daisuccessivi acquisti, e il tesoreggiamento può inter-rompere la sequenza per cui l’offerta trova il propriosbocco sul mercato quando i redditi pagati ai ‘fattori’della produzione vengono spesi. Ciò non di meno,la maggior parte della indagine marxiana nei trelibri del Capitale è svolta sul presupposto che lemerci siano vendute sul mercato al loro valore so-ciale o al loro prezzo di produzione (qualcosa di nontroppo lontano dalla assunzione di Keynes secondocui le aspettative di breve periodo delle impresesono date per pienamente realizzate). Di più, svilup-pando uno spunto prezioso di Quesnay poi dimen-ticato dalla economia politica classica, nel secondolibro Marx costruisce degli ‘schemi di riproduzione’,

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sia semplice che allargata, dove si dimostra che unsentiero di crescita in equilibrio delle economie ca-pitalistiche ‘pure’ è una ‘possibilità’.Marx divide il prodotto sociale in due settori, il

primo che produce beni capitali e il secondo cheproduce beni di consumo (si potrebbe procedere aduno schema a tre settori suddividendo questi ultimiin beni salario e beni di lusso). Il valore prodotto daentrambi i settori viene scomposto nelle sommadelle sue tre parti componenti: capitale costante, ca-pitale variabile, plusvalore. Nella riproduzione‘semplice’, del tutto astratta e irrealistica, i capitali-sti consumano improduttivamente l’intero plusva-lore, sicché il sistema si riproduce sulla medesimascala, senza crescita. Nella riproduzione ‘allargata’,invece, essi investono in parte o del tutto il plusva-lore in nuovo capitale costante e variabile, il checonsente l’accumulazione. L’acquisizione teorica si-gnificativa degli schemi è quella di far vedere moltonitidamente che ogni componente di valore dellaproduzione, e quindi ogni componente dell’offerta,è anche una componente della domanda. È per que-sto che vi è sempre l’eventualità che si dia un equi-librio se si rispettano alcuni rapporti inter-settoriali.Contro Malthus e Sismondi, Marx afferma quindi

che il capitale può crescere nel tempo senza neces-sariamente incontrare una barriera nella domandaeffettiva, perché quest’ultima in fondo è una do-manda che sgorga dal proprio seno. Al tempo stesso,contro Ricardo e Say, Marx mostra che una accumu-

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lazione ‘bilanciata’ nel lungo periodo tutto è menoche garantita, visto che l’equilibrio impone che gliscambi abbiano luogo rispettando definite propor-zioni, non soltanto in valore, ma anche in valored’uso e in moneta. L’equilibrio è dunque sì una pos-sibilità, ma anche un ‘caso’. È questo un punto cheverrà ripreso molti decenni dopo nei modelli keyne-siani di crescita di Harrod e Domar.D’altra parte, la probabilità che l’equilibrio venga

infranto a causa dell’assenza di un piano apre sol-tanto alla ‘possibilità’ della crisi, non dimostra af-fatto la sua ‘necessità’. Marx è alla ricerca di unaspiegazione della crisi che sgorghi dall’interno delcapitale. In effetti, sostiene Marx, le crisi hannoluogo a partire da una caduta degli investimenti, equesta deriva da una crisi della profittabilità. Laquestione, dunque, si trasforma, e diviene quella dicomprendere la ricorrenza delle crisi, riconducen-dola a una compressione del saggio del profitto, espiegandone le ragioni. Su questo, Marx proponenei suoi manoscritti una serie di prospettive diverse,di cui è dibattuta la possibilità di riconduzione a unquadro unitario e coerente. Di seguito ne conside-reremo alcune.

1. La crisi ciclica da esaurimento dell’esercito industriale di riserva

Una prima argomentazione è quella che viene de-scritta nella legge generale della accumulazione

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esposta alla fine del primo libro. Se si assume unacomposizione costante del capitale, una crescita suf-ficientemente rapida del valore investito finirà conil premere sull’offerta di forza-lavoro, rendendo ilmercato del lavoro più favorevole ai lavoratori. Cre-scono di conseguenza i salari, sino ad eccedere lacrescita della forza produttiva del lavoro. Tutto ilresto rimanendo eguale, cade il saggio di profitto,l’accumulazione rallenta, e con essa si riduce anchela domanda di forza-lavoro. Una risposta a questadifficoltà sta evidentemente nella introduzione dimetodi di produzione risparmiatori di lavoro: una ri-sposta che finisce con l’incidere sulla distribuzionedel nuovo valore prodotto. Per un dato capitale anti-cipato, la meccanizzazione riduce la quota del capi-tale variabile, e perciò della domanda di forza-lavoro:i lavoratori vengono rimpiazzati da macchine, a pa-rità di prodotto. In teoria, l’aumento del saggio di ac-cumulazione può espandere o ridurre l’occupazioneeffettiva a seconda della forza relativa delle duespinte, quella derivante dall’incremento della di-mensione del capitale e quella derivante dal muta-mento della sua composizione.Nel ciclo, il ritmo e la struttura dell’accumulazione

del capitale, che è la variabile indipendente, varianocontinuamente al fine di riprodurre un ‘esercito in-dustriale di riserva’ di lavoratori che possono esserein potenza immessi nel processo immediato di va-lorizzazione. Si esercita così una pressione al ribassosul salario, che è la variabile dipendente. Una ridu-

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zione del salario reale darebbe vita ad un impoveri-mento ‘assoluto’: ed è questo, senz’altro, uno deipossibili esiti. Peraltro, la situazione ‘normale’ cheha in testa Marx è diversa. L’accumulazione capita-listica si accompagna essenzialmente ad una produ-zione di plusvalore relativo, fondata a sua volta suuna dinamica positiva della forza produttiva del la-voro, il che è del tutto compatibile con una crescitadel salario reale. In queste condizioni, infatti, un in-cremento del salario reale non è in contraddizionecon l’espansione della quota del nuovo valore che vaalla classe capitalistica: un aumento del consumoreale della classe dei lavoratori proveniente dal lororeddito può ben esprimersi in un valore della forza-lavoro declinante.Abbiamo qui a che fare con quella che Rosa Lu-

xemburg definì la legge della caduta tendenziale delsalario relativo, connessa evidentemente con unacontrazione del salario come quota del reddito: unimpoverimento, appunto, ‘relativo’, niente affattoassoluto. È vero però che si possono dare situazioninelle quali le lotte salariali possono farsi relativa-mente indipendenti dal mercato del lavoro, infran-gendo la tendenza alla compressione del salariorelativo. In questo caso, il conflitto salariale si mutain antagonismo contro il modo di produzione pre-sente, e può divenire una causa indipendente dellacrisi capitalistica.La meccanizzazione della produzione non va però

vista soltanto, e neanche prevalentemente, come

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una risposta alla compressione dei profitti dovutaallo svuotamento dell’esercito industriale di riserva,o al limite al salario che si fa variabile indipendente.Essa è invece, e in primo luogo, la materializzazionedi una spinta autonoma del capitale a controllare ilavoratori nel luogo di produzione, in modo da ga-rantirsi l’erogazione di lavoro vivo in eccesso al la-voro necessario. Si dà luogo così ad un aumento delsaggio di plusvalore che è logicamente coevo al-l’espulsione di forza-lavoro dal luogo centrale dellavalorizzazione. Come Marx chiarisce molto bene,l’estrazione di plusvalore relativo connessa al rivo-luzionamento dei mezzi di produzione e alla intro-duzione delle macchine non si incarna peraltroesclusivamente in una spinta verso l’alto della forzaproduttiva del lavoro. Essa si accompagna anche aduna più elevata intensità del lavoro nell’unità ditempo, e si tira spesso dietro una contemporaneaestrazione di plusvalore assoluto, con il prolunga-mento massimo possibile del tempo di lavoro. Ciòavviene perché i nuovi metodi vengono introdotti inuna lotta di concorrenza che garantisce tempora-neamente agli innovatori un plusvalore extra adanno degli altri produttori: questi ultimi devonodunque sfruttare di più la propria forza-lavoro, magli stessi innovatori cercano a loro volta di realizzareil massimo vantaggio dai nuovi metodi che hannointrodotto. In forza di ciò, la meccanizzazione è unaleva potente nella regolazione del valore di scambioe del valore d’uso della forza-lavoro da parte del ca-

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pitale ai fini della massima estrazione possibile dilavoro vivo.E però qui si fa avanti un’altra difficoltà. Si è detto

che una più elevata composizione tecnica del capi-tale – in breve, del rapporto ‘fisico’ mezzi di produ-zione-lavoratori, – è un fattore che contribusiceall’espulsione di lavoratori, e dunque di forza-la-voro, dai processi di lavoro. Ma il lavoro vivo, che èla ‘sorgente’ del valore e del plusvalore, scaturisceproprio dall’ ‘uso’ della forza-lavoro, proviene dun-que dagli esseri umani, in quanto lavoratori in carneed ossa e cervello. Esso è ‘attaccato’ ed inseparabiledal loro corpo, che va a sua volta ‘incorporato’ al ca-pitale: va reso in altri termini parte del corpo mate-riale di quest’ultimo, di quel mostro meccanico cheè la ‘fabbrica’ capitalistica. La dilatazione del lavoromorto corrisponde ad una progressiva penuria dellavoro vivo nel lungo periodo, pur in un maggioresfruttamento della forza-lavoro. Quando la crescitadella composizione ‘tecnica’ del capitale si traducenell’aumento della composizione in ‘valore’ –quando cioè, secondo le definizioni di Marx, un in-cremento della composizione ‘organica’ del capitalesi concretizza nelle grandezze monetarie: il che cor-risponde, secondo l’autore del Capitale, alla ten-denza prevalente nella dinamica capitalistica – simette in moto una vera e propria tendenza alla ca-duta del saggio di profitto. La crisi è ora dovuta aduna composizione in valore che cresce più rapida-mente del saggio di plusvalore.

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2. La legge della caduta tendenziale del saggiodi profitto

La caduta tendenziale del saggio di profitto è statainterpretata da alcuni autori non soltanto come ra-gione della crisi ciclica del capitale, ma anche comecausa di una caduta ‘secolare’ della profittabilità,magari all’interno di una visione del capitalismocome caratterizzato da ‘onde lunghe’. Una tesi delgenere è controversa dal punto di vista testuale: madifficilmente argomentazioni di tipo testuale sonodirimenti nel discorso marxiano sulla crisi, che è ri-masto sempre ad uno stadio incompiuto, soggetto atensioni anche contraddittorie, nel tempo ma per-sino all’interno dello stesso manoscritto. Conta dipiù il fatto che una lettura di lungo periodo della ca-duta tendenziale del saggio di profitto non pare es-sere del tutto priva di fondamento.Il perché è presto detto. L’applicazione di dosi mag-

giori di capitale costante, ancor più quando quest’ul-timo sia costituito da capitale fisso, è per Marx unmezzo particolarmente efficace per accelerare l’estra-zione di pluslavoro e plusvalore nell’unità di tempo.D’altra parte è vero che in alcune parti dell’opera diMarx il conseguente incremento del saggio di plusva-lore non è in grado di compensare, nel lungo periodol’effetto depressivo della composizione del capitalesul saggio del profitto, e viene dunque degradato amera ‘controtendenza’. A questo proposito, l’argo-

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mento più forte a favore di una conclusione del ge-nere è la tesi che vi sarebbe un limite assoluto al plu-slavoro che può essere attivato da una popolazionelavorativa data.Per comprendere di cosa si tratta, è bene guardare

alla composizione del capitale come un indice delrapporto tra, da un lato, il lavoro morto contenutonei mezzi di produzione e, dall’altro lato, il lavorovivo speso nel periodo. Questo rapporto viene ap-prossimato dal rapporto tra capitale costante al nu-meratore e la somma di capitale variabile e plusvaloreal denominatore. Se si fa l’assunzione eroica che il ca-pitale variabile tenda ad annullarsi, e che dunque l’in-tera giornata lavorativa si traduca in pluslavoro che sioggettiva in plusvalore, la composizione ‘in valore’ delcapitale può essere vista come il reciproco del saggiomassimo di profitto. Marx potrebbe essere letto comecolui che suggerisce in sostanza che il numeratore delsaggio massimo di profitto avrebbe una sorta di limiteinsuperabile e naturale, una sorta di tetto dei movi-menti del saggio effettivo del profitto. Il denomina-tore, al contrario, può espandersi illimitatamente.Marx propone un fondamento microeconomico

(nel comportamento individuale) a questo risultatomacroeconomico (di sistema), che altrimenti par-rebbe contraddittorio. Vi abbiamo già alluso. I ca-pitalisti individuali introducono, o sono comunquecostretti ad introdurre, metodi a più elevata ‘inten-sità di capitale’, al fine di abbassare i costi per unitàdi prodotto: guadagnano così grazie a queste inno-

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vazioni un sovra-plusvalore (e un sovra-profitto), edevitano a loro volta di essere espulsi dal mercato daicompetitori. Si tratta di una concezione ‘dinamica’della concorrenza, che tende a differenziare il saggiodel profitto all’interno del settore, e che verrà ri-presa da Joseph Alois Schumpeter: una visionedella concorrenza, si può aggiungere, che rompe allaradice con la visione della concorrenza classico-ri-cardiana e neoclassica-walrasiana. È una imposta-zione che, oltre ad un riferimento forte alle classisociali, mette moneta e squilibrio nelle fondamentasu cui si costruisce il discorso economico.Si deve però osservare che non è possibile dedurre

da tutto ciò una ‘legge’ della caduta del saggio delprofitto, secondo la quale le controtendenze verreb-bero sistematicamente battute dalla tendenza, cometalora pare pensare Marx. Una accelerazione dellaforza produttiva del lavoro in forza della meccaniz-zazione spinge infatti alla riduzione dei valori (e deiprezzi) di tutte le merci, e dunque anche degli ele-menti del capitale costante, dei mezzi di produzione.Non è possibile perciò escludere a priori che la sva-lorizzazione degli elementi del capitale costante siacosì accentuata da aumentare lo stesso saggio mas-simo del profitto, rimuovendo il limite posto daMarx. Se invece si guarda al saggio effettivo del pro-fitto, esso dipende positivamente dal saggio di plu-svalore e negativamente dalla composizione invalore del capitale. La svalorizzazione degli elementidel capitale variabile contribuisce evidentemente

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all’aumento del saggio di plusvalore, e la svalorizza-zione degli elementi del capitale costante può inver-tire la tendenza all’aumento della composizione delcapitale in valore. La critica alla caduta del saggio diprofitto argomentata da Marx può essere in questocaso riformulata sostenendo che non vi è alcuna ra-gione per negare che l’aumento del saggio di plusva-lore può più che controbilanciare il (possibile, nonnecessario) aumento della composizione in valoredel capitale.Peraltro, va anche considerato che Marx non for-

mula la legge con riferimento alla composizione ‘invalore’ del capitale (la grandezza rilevante per la va-lorizzazione del capitale), ma con riferimento aquella che definisce la composizione ‘organica’ delcapitale. La composizione in valore riflette piena-mente la rivoluzione di valore che continuamentesconvolge l’espressione monetaria degli elementidel capitale costante e variabile in forza della mec-canizzazione. La composizione organica misura in-vece quegli input ai loro valori (o prezzi) precedentil’innovazione. Registra dunque in modo pieno l’in-cremento della composizione ‘tecnica’ del capitale,del rapporto tra mezzi di produzione (e per Marx,in primis, il capitale fisso) e il lavoro, nel mondo delvalore, neutralizzando la controtendenza della sva-lorizzazione tanto del capitale costante quanto delcapitale variabile. Vista l’importanza sempre piùestesa del capitale fisso nell’accumulazione, loscarto tra le due stime della composizioni del capi-

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tale segnala anche un divario crescente tra il saggiodel profitto in termini di flusso e il saggio del pro-fitto in termini di fondi, un divario che può accre-scersi nel tempo e che impone prima o poi undrammatico e improvviso riaggiustamento attra-verso la crisi periodica.

3. La crisi da realizzazione

È di un certo interesse rilevare che più si accresce ilsaggio del plusvalore, e dunque più si rafforza perquesta via una forza che reprime la tendenza allacrisi del saggio di profitto e la trasforma anzi nel suocontrario, più il sistema potrebbe scivolare in unterzo tipo di crisi: la crisi da realizzazione. Alcunimarxisti hanno in effetti sostenuto che, se il saggiodel profitto cade, il responsabile primo è la do-manda di merci, effettiva o anche solo attesa, inquanto si riveli insufficiente a garantire a livello disistema uno sbocco finale in forza del quale le mercipossano essere vendute a prezzi tali da coprire icosti e il saggio normale del profitto.Sul terreno della crisi da realizzo, due posizioni si

sono contese il campo. Un approccio (p.es., RudolfHilferding) ha sottolineato le ‘sproporzioni’, cioè glisquilibri settoriali tra offerta e domanda, appellan-dosi alla natura anarchica e caotica delle economiedi mercato. Se un eccesso di offerta si verifica in im-portanti rami di produzione, può aver luogo un dif-fondersi di questo tipo di squilibrio ad altri settori,

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che infine degenererà in un blocco dello smercio alivello globale. Questo tipo di difficoltà dipendedalla velocità con cui il sistema dei prezzi e dellequantità reagisce allo squilibrio, e (come sostenevaappunto l’ultimo Hilferding) può tendere a scompa-rire in forme più ‘organizzate’ del capitalismo. Al-cuni dei suoi propositori (p.es., Tugan Baranovski)hanno finito addirittura con il sostenere che il si-stema capitalistico, non essendo in fondo altro cheuna ‘produzione per la produzione’, non troverebbeun ostacolo autentico nel declino relativo della do-manda di consumi, e potrebbe procedere in linea diprincipio secondo un sentiero stabile di crescita.La linea alternativa (la cui fautrice principale è

Rosa Luxemburg) viene spesso erroneamente qua-lificata come ‘sottoconsumista’. Adottando la termi-nologia contemporanea, ed esponendo il nocciolorazionale di questa impostazione, quello che in re-altà si sostiene è che l’investimento netto non puòcontrobilanciare per sempre un consumo in ridu-zione, dal momento che la profittabilità dei nuovimacchinari nel lungo periodo dipende dalle venditefuture, e queste ultime sarebbero sempre meno pre-vedibili quando decresce la quota dei consumi nelnuovo valore.Si tratta di un argomento che ha una sua forza.

Pure, esso sembra in contrasto con gli schemi di ri-produzione, che mostrano come la domanda al ca-pitale provenga dallo stesso capitale, direttamenteo indirettamente. Non si può di qui concluderne per

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un necessario bilanciamento tra offerta e domandaaggregate, nello spirito della legge di Say. Gli stessischemi mostrano infatti, e lo abbiamo ricordato,come le proporzioni di scambio intersettoriali diequilibrio, per la riproduzione semplice e ancor dipiù per la riproduzione allargata, siano casuali, pre-cari e instabili. Ciò è in particolare vero per la ripro-duzione allargata, e per una ragione molto semplice.Una estrazione di plusvalore relativo che si appro-fondisce, con un sempre più elevato saggio di plu-svalore, può temporaneamente sconfiggere latendenza alla caduta del saggio di profitto. Ma, fa-cendo ciò, simultaneamente si rafforzano la ten-denza alla caduta del salario relativo (un tema, dinuovo, caro alla Luxemburg), e si modificano i rap-porti di scambio necessari allo stabilirsi e al ripro-dursi dell’equilibrio, sicchè la possibilità della crisisi tramuta sempre più in una sua probabilità.Abbiamo qui a che fare, si badi, con l’opposto di

una prospettiva ‘circolazionista’. La tendenza allasovrapproduzione di merci si innesta su delle spro-porzioni che vengono attivate dalla dinamica dellosfruttamento nei processi immediati di valorizza-zione.Per alcuni dei suoi fautori, le crisi da realizzo per

insufficienza sistemica di domanda effettiva si fa-rebbero progressivamente sempre più severe, sinoa condurre ad un crollo finale. È questa in effettil’opinione della stessa Luxemburg, che fa dipenderel’accumulazione del capitale dalle ‘esportazioni

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nette’ verso le aree non-capitalistiche. Quando laglobalizzazione del capitale si compie e il mercatomondiale è interamente sussunto alla produzioneper il (plus)valore, il meccanismo strettamente eco-nomico si inceppa. È però vero che altri autori cheperseguono un filo di ragionamento molto similehanno obiettato che l’esaurimento dei mercati‘esterni’ può venire sostituito dall’emergere di unasorta di esportazioni ‘interne’: così si esprime Mi-chaⱡ Kalecki, con riferimento a disavanzi nel bilan-cio dello stato finanziati monetariamente. Qualcosadel genere, peraltro, era stato intuito dalla stessaLuxemburg nella sua analisi del militarismo comecontrotendenza all’esaurimento degli sbocchi nelcorso del processo accumulativo.Un ruolo simile, secondo altri autori, lo potrebbe

svolgere il consumo improduttivo di parte del plu-svalore da parte di terze persone (l’estensione di areedi ‘rendita’, o lo stesso spreco tipico del capitalismomonopolistico). Alcuni autori oggi innestano laespansione del lavoro improduttivo dentro il di-scorso sulla caduta tendenziale del saggio del pro-fitto. Per chi considera il ruolo del consumoimproduttivo dentro la crisi da realizzo, si tratta dideduzioni dal plusvalore che riducono il tasso di ac-cumulazione potenziale, ma che possono garantireun più tranquillo decorso della riproduzione, senzascivolare nell’instabilità, se non addirittura nella re-cessione e deflazione. In ogni caso, per essere com-patibili con il proseguire indisturbato della spirale

LA CRISI CAPITALISTICA E LE SUE RICORRENZE 29

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della valorizzazione capitalistica, tutte queste solu-zioni richiedono che continui e anzi si approfondiscalo sfruttamento e la pressione sul lavoro vivo dei la-voratori produttivi di valore. Il che conferma che lavariabile centrale del discorso marxiano è il saggiodel plusvalore. Sono i cambiamenti e gli antagonismiall’interno dei processi di lavoro – la ‘lotta di classenella produzione’, dai due versanti – a essere la de-terminante cruciale della dinamica capitalistica. Aben vedere, l’unico limite ultimo all’espansione delcapitale – alla sua pretesa di porsi come totalità ingrado di porre continuamente i propri presupposti– è l’opposizione della classe lavoratrice dentro i pro-cessi di valorizzazione.

4. Verso una lettura unitaria e diacronica dellateoria marxiana della crisi

È possibile forse, oggi, proporre una visione unitariadelle teorie delle crisi, all’interno di un intento nonpuramente filologico e marxologico, ma ricostrut-tivo. Si tratta di leggere la caduta tendenziale delsaggio di profitto come una sorta di meta-teoriadelle crisi, che include al suo interno non soltantol’integrazione tra il cosiddetto sottoconsumo e lesproporzioni lungo le linee che si sono già illustrate,ma anche una crisi che origina direttamente dal rap-porto sociale di produzione dentro il processo im-mediato di valorizzazione; e di qui muovere poi aduna analisi delle novità della dinamica capitalistica

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