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01Editor ia le

on l’inverno riscopriamo quella particolare sensazione che si prova quando,

varcata la soglia di casa dopo una lunga esposizione al gelo,

rimaniamo per qualche momento come in uno stato di sospensione,

mentre le nostre membra intirizzite cominciano ad ammorbidirsi e pulsare.

Così la copertina di ee, che sembra voglia iniziare

a sciogliersi con il tepore casalingo.

Ma il calore che genera questo effetto potrebbe scaturire anche

dal contenuto delle sue pagine.

Questo numero ha infatti una vocazione focosa,

racconta gesti eroici, caratteri ribelli, intensi fervori artistici, l’enfasi della festa...

Sentimenti che a volte pare strano affiorino da una terra

apparentemente semplice come la Romagna.

Fatta anche di tradizioni schiette e scorci rasserenanti,

come quello che può offrire un mulino solitario immerso nel freddo:

pacifica sentinella della campagna che giace.

La Redazione di ee

C

Every winter we rediscover that peculiar sensation we feel when we’ve just arrived home aftertoo long in the gelid air and we remain on the threshold for a few moments, as if in a state of suspended animation, while the circulation revives our numbed limbs. This is the sensation that the cover of this issue of ee seeks to elicit – the pleasure of unwinding in the warmth of our homes. And we hope the articles in this issue – with their tales of flames,heroic feats, hot-headed rebels, artistic fervours and country feasts – will have the same (heart)warming effect. It might seem strange that a region so ostensibly simple as Romagna can stir up this kind of sentiment. But look closer and you’ll feel the charm of traditions untainted by time, of a lonely mill immersed in the cold of winter, like a lone sentinel in the countryside awaiting the renewal of spring.

The editorial staff of ee

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a c q u a t e r r a f u o c o a r i a

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05Terr i tor io04 I Sens i d i Romagna

“Armare di fede lo spirito e di ferro il corpo”:

con questo motto i Cavalieri Templari combatterono

a Gerusalemme per la difesa del Santo Sepolcro,

ma dietro a quest’impresa si celano

ancora oggi molti enigmi.

el 1118 otto cavalieri, giunti in Terrasanta, furono accolti da re Baldovino nelle sale ricavate dal Tempio di

Salomone. Da loro, e con il riconoscimento ufficiale dell’Ordine 10 anni dopo, fu costituita una milizia cri-

stiana forte di uomini, armi, e potere economico. Infatti, esaurito il ruolo di guerrieri con la perdita del Santo

Sepolcro, i Templari continuarono ad operare come gestori dei tesori dei pellegrini. Il loro potere crebbe a tal

punto che furono migliaia le magioni fondate in tutta Europa. Tra le tante testimonianze ancora riconoscibili

nelle nostre terre, tenteremo di tratteggiare lo scenario che offrono quelle lasciate nella Valle del Marecchia.

Seguendo le orme del Padre Dante, iniziamo dunque questo percorso raccogliendoci in preghiera dentro l’an-

tica pieve di S. Donato, a Polenta, nell’immediato entroterra cesenate. E’ stata edificata nel X secolo, l’interno

basilicale a tre navate, con i suoi interessanti capitelli romanici e croci patenti alle colonne, racchiude una pic-

cola cripta contenente quello che gli iniziati considerano un punto di energia fortissimo, localizzato nella

prima colonnina al lato destro dell’altare.

Scendiamo nella valle del fiume Savio ed entriamo a Cesena valicando il grande ponte a dorso d’asino detto

Ponte Vecchio. Subito a sinistra per via Saffi, nella contrada di Chiesa Nuova, si trovava la Mansio di

S. Martino, posizionata a ridosso delle ultime vestigia dell’antico ponte. Era già citata nel 1155.

Proseguiamo per la Via Emilia verso il mare, sostando al bivio per Gambettola sul torrente Marecchia ove è

posizionata la Mansio Templare dei S.S. Simone e Giuda, detta Magiona, antecedente al 1200.

Poco più avanti, prima di entrare in Marecchia sul Rubicone, luogo della fatale decisione di Giulio Cesare (san-

cita dalla celeberrima frase “Alea iacta est”) in seguito alla quale egli diventò dittatore di Roma, ci fermiamo

all’antica pieve di S. Giovanni in Compito, già esistente nel 633 e rifatta nell’XI secolo, ove si trova un bellis-

simo capitello del VI secolo utilizzato come acquasantiera.

Pochi chilometri più a est troviamo il borgo fortificato medievale di S. Arcangelo di Romagna, sulle pendici

del Monte Giove: collina arenacea tra i fiumi Usco e Marecchia costellata di grotte artificiali, rifugio dei mona-

ci basiliani in età bizantina. Molte di queste sarebbero divenute luoghi di cerimonie religiose celtiche poi riuti-

lizzati dai cristiani devoti a S. Michele, il cui culto è spesso associato ad ipogei naturali.

Notevolissima ed un po’ decentrata, verso il greto del Marecchia, è la pieve paleocristiana di S. Michele del VI

secolo, con il suo particolarissimo portale d’ingresso ricavato alla base del campanile fortificato.

La stessa dedicazione ha la Mansio Templare di Rimini, scoperta di recente in via San Michelino, vicino al

Tempio Malatestiano.

N

Mauro Ferrett i e Valer ia Barber in i

I Cavalieri del Tempionella Valle del Marecchia

tracce d i una leggenda fra Cesena, R imini e Sars ina

Non nobis,

Domine,

sed nomine Tuo

da gloriam.

Non a noi,

o Signore,

ma al Tuo nome

dà gloria.

motto templare

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07Terr i tor io06 I Sens i d i Romagna

La chiesa di San Michele Arcangelo esistente già nel 1061 passò invece ai Templari nel 1184 e recentemente

sotto l’intonaco dell’abside è stato trovato un affresco di fine ‘200 raffigurante Santa Chiara con una pagnot-

ta in mano. E’ sicuramente unica per la sua collocazione “centrale”, al contrario di quasi tutti gli insediamen-

ti Templari sulle vie di comunicazione e nelle immediate adiacenze delle mura cittadine.

Nel porto di Rimini i Templari tenevano poi alcune navi passeggeri dalle imponenti dimensioni (30 metri di

lunghezza, per 8 di larghezza), a due alberi e sei vele, che potevano imbarcare fino a trecento uomini. Come i

Veneziani, avevano poi navi chiamate “Arsilii” che assomigliavano ai moderni mezzi da sbarco, imbarcavano

circa sessanta cavalli, ed erano dotati d’una sorta di portellone mobile.

Torniamo però a spingerci nell’entroterra e risaliamo il grande letto del fiume Marecchia, l’antico Ariminus,

attraversando una natura a tratti incontaminata. Di fronte alla rupe di Verrucchio, si erge isolato il forte

Castello di Montebello, perfettamente conservato grazie alla sua impervia posizione. La visita di quest’ultimo

può rivelarsi assai interessante per i mobili originali di alta epoca, per i panorami eccezionali e per le strane

storie soprannaturali che aleggiano intorno al maniero.

Sconfiniamo adesso per un breve tratto nel Montefeltro, al fine di visitare la Rocca fortificata di S. Leo, dove

fu rinchiuso Cagliostro, e la stupenda pieve edificata da San Leone nel IV secolo d.c. Bellissima la cripta sca-

vata nella roccia con fronte di un sarcofago, che rappresenta due pavoni che si abbeverano al Graal. Anche i

Cavalieri Templari si erano spinti fino in quest’area e furono presenti con la Mansio di S. Giovanni in Ansa

poco prima del borgo fortificato di S. Agata Feltria, dominante dalla Rocca dei Fregoso.

Terminiamo il nostro itinerario raggiungendo la Valle del Savio e l’antichissima “Via del Sale” che dalla Romagna

portava a Roma, passando per l’antico abitato di Sarsina, patria del poeta e commediografo latino Plauto.

Sulla piazza centrale del paese sorge la grande cattedrale, di struttura romanica (fondata però dai Bizantini),

dedicata a San Vicinio. Attraverso i millenni punto importantissimo per coloro che propugnavano la lotta al

Male attraverso gli esorcismi. Alcuni sacerdoti a tutt’oggi “impongono” il Collare di S. Vicinio (frammento

della catena con la quale il martire fu legato in antico) a coloro che siano ritenuti “indemoniati”.

L’Ordine Templare ebbe ufficialmente solo due secoli di vita, poiché fu sciolto nel 1314, ma in seguito alla dia-

spora il Templarismo ebbe grande diffusione sommersa. Alcune tracce dei suoi rituali si possono ancora riscon-

trare in taluni riti massonici. L’arcano fascino dei Templari dunque perdura, non solo attraverso i valori che

essi promulgarono, bensì anche nella valenza esoterica dei simboli e misteri che avvolgono tale filosofia.

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THE KNIGHTS TEMPLAR IN VALLE DEL MARECCHIA_ ON THE TRAIL OF A LEGENDARY ORDER IN CESENA, RIMINI AND SARSINA“To equip the spirit with faith and the body with iron”: it was this motto which took the Knights Templar to Jerusalem to defend the Holy Sepulchre. Even today,

many enigmas surround the history of the order. In 1118 eight crusaders who had remained in the Holy Land were received by Baldwin II on the site of the Temple ofSolomon. The vows they took on that day marked the beginning of an order which was to be officially recognized 10 years later and grew into a Christian militia richin arms, men, and economic power. Even after the loss of the Holy Sepulchre had robbed them of their principal raison d’être, the Templars continued to operate asthe guardians of the pilgrims’ treasures. Their power grew to the point that they owned thousands of properties all over Europe. Among the numerous documents ofthe Templar presence in Romagna are those of the Marecchia valley.Following in the footsteps of Dante, our itinerary begins at the parish church of S. Donato in Polenta, a short distance inland from Cesena. Dating from the 10thcentury, S. Donato is built on a basilica plan with a nave flanked by aisles. Its columns have some interesting carved crosses and Romanesque capitals, and it includesa small crypt reputed by some to contain an extremely strong energy source, located in the first mullion on the right side of the altar. Next stop is down the riverSavio to Cesena, crossing the graceful arches of the Ponte Vecchio. Making a sharp left up via Saffi, we come to contrada di Chiesa Nuova (“quarter of Chiesa Nuova”)and the Mansio di S. Martino, built in the lee of the remains of an (even) older bridge. The existence of this mansio is recorded as early as 1155.We then continue down Via Emilia in the direction of the sea, stopping at the crossroads at Gambettola, above the river Marecchia, where stands the Mansio Templaredei S.S. Simone e Giuda, known locally as the Magiona and built some time before 1200.A little before this, before coming to Marecchia sul Rubicone, the place of Julius Caesar’s historic decision (it was here that Caesar uttered the celebrated “alea iactaest” – the die is cast) which led to his becoming dictator of Rome, is the extremely old church of S. Giovanni in Compito. Already standing as early as 633, S. Giovanniwas rebuilt in the 11th century and still retains an exceptionally beautiful 6th century capital now used as a font for holy water.A few kilometres further east we come to the walled medieval town of S. Arcangelo di Romagna on the slopes of Monte Giove, a sandstone massif between the Uscoand Marecchia rivers which is constellated with man-made caves inhabited by the Basilian monks during the Byzantine period. Many of these caves are believed tohave been used for pre-Christian religious ceremonies before being reused by Christian devouts of St Michael, whose cult is frequently associated with natural caves.One exceptionally interesting monument, a little out of the way in the direction of the banks of the Marecchia, is the Early Christian church S. Michele, built in the6th century and with a remarkable entrance portal in the base of its fortified belltower.The Templar house of Rimini, recently discovered in the city’s via San Michelino near the Tempio Malatestiano, was dedicated to the same saint.The church of San Michele Arcangelo was known to exist as early as 1061 and came under the control of the Templars in 1184. Recently, under the plasterwork in theapse, a late 13th century fresco of St Clair holding a large loaf was discovered. What makes this house unusual is its “central” location: nearly all Templarestablishments were built on arteries of communication and near city walls.In the port of Rimini, the Templars operated a number of passenger ships of considerable size (30 metres long and 8 wide). With twin masts and six sails, these vesselscould hold up to 300 people. Like the Venetians, Rimini too had ships called arsilii which looked like the landing craft of the modern epoch, could hold around sixtyhorses, and were equipped with a kind of mobile ramp-door.Now we push on inland up the broad river bed of the Marecchia, known to the Ancients as the Ariminus, through stretches of unspoilt nature. Opposite the cliffs ofVerrucchio rises the lonely Castello di Montebello, which has been perfectly preserved thanks to its remote location. It’s worth visiting for its original and very oldfurniture, great panoramic views and some creepy legends which have grown up around it. We now make a brief incursion into Montefeltro to visit the Castle of S.Leo, where the adventurer Cagliostro was imprisoned, and the impressive church built by St Leo in the 4th century. Exceptionally beautiful is the crypt, hewn out ofbare rock, with a sarcophagus frontal depicting two peacocks drinking from the Holy Grail. The Knights Templar were active in this zone too, as attested by theMansio di S. Giovanni in Ansa a little way from the village of S. Agata Feltria, dominated by the Fregoso castle.Last stop on our itinerary is the Savio valley and the ancient “Salt Road” which led from Romagna all the way to Rome, via Sarsina, the birthplace of Latin poet anddramatist Plautus. On the village’s main piazza stands its large cathedral, Romanesque in style but Byzantine in origin, dedicated to San Vicinius. It’s long been animportant point for those who believed in the powers of exorcism in the struggle against Evil. Even today some priests use the Collar of St Vicinius (a fragment of thechain with which the martyr was bound in Antiquity) to “cure” those considered to be possessed by devils.Officially, the order of the Templars lasted for only two centuries before it was dissolved in 1314; but its dissolution sparked a diaspora and the Templars continued toexert considerable underground influence. Some traces of their rituals can still be found in certain Masonic rites. The Templars continue to exert their arcanefascination today, not only in the values they promote but in the esoteric appeal of the symbols and mysteries that developed around the Templar creed.

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09Terr i tor io08 I Sens i d i Romagna

Quando si visitano per la prima volta luoghi come il mulino di Fiumicello, la sensazione

iniziale è sempre quella di averli conosciuti troppo tardi, seguita poi dalla gioia della

scoperta e dalla rassicurante consapevolezza di vivere vicino a testimonianze così preziose.

iumicello si trova a pochi chilometri da Premilcuore, nella valle del Rabbi; è una piccolissima località oggi composta da poche case,

un grande ristorante e un antichissimo mulino. Appare strano, soprattutto nei giorni festivi, assistere al serrato viavài di automo-

bili e immaginare il vivace passaggio d’un tempo di cavalli e carrozze; oppure vedere il ristorante brulicante di persone in attesa di

un lauto pasto e immaginarlo quand’era una scuola ravvivata dalle voci dei bambini. Ciò che non è cambiato è il mulino che si trova

a poche centinaia di metri dal “centro” del paese. Da considerarsi un vero e proprio monumento, la cui presenza è documentata dal

XII secolo, l’attività del mulino è proseguita ininterrottamente fino al 1963, anno in cui la famiglia Mengozzi, che ancora possiede l’e-

dificio, lasciò l’attività e l’abitazione. Solo circa dopo 30 anni, nel 1992, i fratelli Sesto e Domenico decisero di restaurare ed aprire il

mulino al pubblico per mostrare a scolaresche, visitatori e curiosi l’arte e la tradizione dei mugnai. Le due macine di granito origina-

rio delle Alpi, ancora si muovono grazie alla forza delle turbine che girano per la spinta della corrente del fiume, e per ogni macina,

a scandire la caduta dei cereali da ridurre in polvere, c’è ancora la bàtla, un piccolo strumento a forma di uncino che, battendo su di

un legnetto, provoca un forte effetto sonoro. Da qui il nome, che in dialetto romagnolo è stato trasposto nel linguaggio quotidiano,

per definire una donna molto chiacchierona, la batlòna. Ancora oggi quindi viene proposto l’antico rito della macinazione proprio come

quando le mole lavoravano per triturare granturco, avena e frumento per il bestiame, grano e castagne secche per la gente della val-

lata. Si contavano circa quaranta famiglie che portavano il loro raccolto ai mugnai e da settembre fino a maggio lavoravano senza

sosta, soprattutto prima dell’estate, per assicurarsi la farina anche durante la stagione più secca. Ed erano proprio le stagioni che scan-

divano le attività, i passatempi e le relazioni: in primavera il lavoro si intensificava e le giornate si passavano all’aria aperta a giocar

con le “bucce degli alberi” e a cercar i nidi di uccelli; in inverno si dedicava più tempo alla cura del bestiame e verso sera ci si ritro-

vava a casa o all’osteria per giocare a carte o cuocere castagne, mentre le fatiche quotidiane erano alleviate dal suono della fisarmo-

nica, che sovente introduceva una festa o intonava una serenata. Tornare al mulino di Fiumicello vuol dire rievocare i tempi in cui i

buoni frutti ripagavano il sacrificio e la farina era simbolo di vita e benessere.

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Valer ia Barber in i

La casa dei mugnai ricordamacine che raccontano le ant iche stor ie del la va l lata

Il guaio del nostro

tempo è che il futuro

non è più quello di

una volta.

Paul Valéry

A RESTORED MILL WHICH BRINGS LOCAL HISTORY BACK TO LIFE_ ANCIENT GRINDSTONES TELL A STORYVisit a place like the mill of Fiumicello and you’ll always feel you’re discovering it too late; but only then can you feel a true sense of discovery and a reassuring

sense of reunion with precious artefacts of the past. Fiumicello lies in the valley of the Rabbi, just a few kilometres outside Premilcuore; today it’s no more than a handful of houses, a large restaurant and an old mill.It’s a strange feeling, especially on feast days, to watch the traffic coming and going and imagine the age of coach and horse; or to see the restaurant swarming withhungry diners and think that once it was a school whose walls resounded with children’s voices. One thing that hasn’t changed, though, is the mill which stands a fewhundred metres outside the “centre” of the village. A monument in the true sense of the word, whose existence is documented as early as the 12th century, the millwas continually in operation until as recently as 1963, when the Mengozzi family, the then owners of the building, moved out, leaving the mill empty and inactive.Nearly 30 years later, in 1992, the Mengozzi brothers Sesto and Domenico decided to restore the mill and open it to the public as a place where schoolchildren, thegeneral public and the curious could witness the art and tradition of the mill. The two millstones, of Alpine granite, still turn on turbines driven by the river’s current,and both millstones still have their bàtla, a small hook-shaped contrivance which loudly strikes a wooden rod as if beating out time for the turning millstone. Hence the term from the Romagnol dialect which has entered standard Italian as designating an exceptionally talkative woman, batlòna.Even today, therefore, the millstones still turn just as they did in the past when grinding maize, oats and wheat for livestock, wheat and dry chestnuts for theinhabitants of the valley. Around forty families took their harvest to the mill and from September until the close of May they worked tirelessly – in spring especially –to ensure a supply of flour all year round. They worked, played, and lived to the rhythm of the seasons: springtime was a particularly busy period and they spent longdays in the open air playing and hunting down the nests of birds; winter was a time for tending to the livestock, and when night fell they went home or to the tavernto play cards or eat boiled chestnuts, while the fatigues of the day were soothed away to the tones of an accordion wheezing in festive or serenade mode. Visiting the Fiumicello mill is a step back to a time when hard work was rewarded with good fruit and flour was the symbol of life and well-being.

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11Stor ia10 I Sens i d i Romagna

Manl io Rastoni

La cortigiana che divenne Imperatrice

grandezza e d isso lutezza d i Teodora , sovrana di B isanzio

Suona più irreale la storia della figlia di un ammaestratore di orsi che divenne imperatrice

o quella di una donna che dalla Storia, giudice ordinariamente manicheo, fu celebrata sia

per i propri vizi, sia per le proprie virtù?

bbene, un’unica protagonista fu capace di interpretarle entrambe: Teodora, Imperatrice di Bisanzio.

A Ravenna, che fu la capitale d’Occidente dell’Impero Bizantino, campeggia l’unica raffigurazione che ci è pervenuta di lei. Un vin-

colo molto forte lega la figura di questa donna d’origine siriana all’immaginario dei romagnoli, come testimoniano le varie realtà con-

temporanee che sono state battezzate con il suo nome (persino una centrale elettrica).

Dobbiamo a Procopio di Cesarea tutta la documentazione a suo riguardo. Secondo questa fonte ella esordì nel mondo della prostitu-

zione ch’era ancora adolescente. Lo storico descrive con dovizia di particolari le scabrose esibizioni che la resero celebre nell’antichità,

incluso un inverosimile numero con oche ammaestrate. Il futuro Imperatore Giustiniano, ancora vergine alla considerevole età di qua-

rant’anni, la incontrò e cadde vittima della prodigiosa sensualità che da lei emanava. Contrariando tutta l’aristocrazia del tempo, deci-

se di farne sua moglie, appoggiato soltanto dal padre Giustino, il quale covava probabilmente il secondo fine d’indispettire così il patri-

ziato che lo ostacolava. Fine che certamente conseguì, considerato che il salto di rango non impedì a Teodora di consolidare la propria

fama di dissoluta, come testimoniano i racconti che le attribuirebbero l’abitudine di soddisfare ogni notte trenta differenti compagni.

Teodora, tuttavia, non scelse di ricoprire come Imperatrice un semplice ruolo di rappresentanza. Decise bensì di partecipare attivamente

alle responsabilità che esso comportava. Fece valere la sua posizione di monofisita, appoggiando e proteggendo movimenti religiosi

allora considerati eretici, influenzò positivamente le scelte di politica estera dell’Impero e, in almeno un’occasione, salvò il trono (con-

vincendo ad esempio Giustiniano a non fuggire durante la rivolta della Nika nel 532). Punì inoltre con fermezza i nemici di Bisanzio.

Resse insomma il potere con quel polso e quel forte spirito pragmatico di cui il suo consorte, eternamente dedito allo studio del dirit-

to e alle proprie speculazioni, pericolosamente difettava.

Nel dipingere un quadro rappresentativo della vita di Teodora, simbolo efficace del paradosso umano, possiamo servirci della cornice

più carica di allegorie del mondo bizantino: il circo di Costantinopoli. Quello stesso circo in cui una ragazzina fece il suo primo ingres-

so dopo la morte del proprio padre, strisciando sulla sabbia dell’arena, supplicando un lavoro per il nuovo marito della madre e, tra-

scorso il tempo che serve al destino, vi tornò per prendere posto, tra le ovazioni del popolo, sul seggio d’onore del palco imperiale.

Luogo consacrato al vertice assoluto della società del tempo.

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THE COURTESAN TURNED EMPRESS_ VICES AND VIRTUES OF THEODORA, SOVEREIGN OF BYZANTIUMIt’s difficult to say which is the more unlikely story – the bear keeper’s daughter who became empress, or the woman whom history, normally so

black and white in its judgements, celebrates not only for her virtues but also for her vices. Both unlikely stories belong to just one woman – theByzantine empress Theodora. Ravenna, which was the western capital of the Byzantine empire, has the only known portrait of Theodora. A strongbond continues to link the figure of the empress, of Syrian origin, to the collective imagination of the people of Romagna, as attested by the manyplaces here – even a power station! – named after her. Everything we know about Theodora we owe to the historian Procopius of Ceasarea.Procopius writes that she made her debut in the world of prostitution while still an adolescent, describing with abundant detail the scandalousexploits which made her one of the most famous women in Antiquity – including an unlikely number involving geese. The future emperorJustinian, still a virgin at the ripe age of forty, immediately fell prey to the powerful sensuality she exuded. In the opposition of the aristocracy, he resolved to make her his wife, supported only by his father Justin, whose support probably concealed an ulterior motive of enflaming theopinion of the patriciate which was hostile to him. Which he certainly managed to do, if we consider that her rise in status did not preventTheodora from consolidating her reputation as a debauchee, as attested in accounts that tell how every night she would satisfy thirty differentpartners. However, Theodora was not content with being a mere figurehead empress. She actively participated in affairs of state too, mobilizing hermonophysite sympathies in the support and protection of religious groups then considered heretical, influencing the foreign policy of the empireand, on at least one occasion, saving the throne (for example by persuading Justinian not to flee during the Nika insurrection of 532). She was harsh in her punishment of the enemies of Byzantium. She ruled, in short, with the vigour and pragmatic spirit that her husband, foreverabsorbed in his legal studies and private speculations, so dangerously lacked. If there is one emblem which sums up the life of Theodora and theever-changing fortune of humans, that emblem is the Byzantine world’s most allegory-charged icon: the circus at Constantinople. It was into thiscircus that as a little girl she was led after the death of her father, shuffling on the sand of the arena as a suppliant for the reinstatement in hisjob of her mother’s new husband; and it was this same circus, many years and twists of fate later, to which she returned to take up her place, tothe ovation of the populace, on the throne of honour of the imperial rostrum.

La donna pensa come ama, l’uomo ama come pensa. Paolo Mantegazza

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foto d’archivio

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13Stor ia12 I Sens i d i Romagna

La mia bisnonna raccontava che il giorno

della festa, a Cotignola, chi abitava sulle

vie principali “affittava” le proprie finestre,

dopo averne tolto i vetri, ai ragazzi che

volevano partecipare ad uno dei momenti

più vivaci della manifestazione:

le sassate a suon di arance, caramelle e

sacchetti pieni di gesso contro i carri

che sfilavano per le vie del centro.

uest’usanza, che terminava in una vera e propria battaglia e

coinvolgeva tutti quanti lasciando spesso qualche contuso,

venne proibita durante il fascismo. Ma la tradizione della

Segavecchia, che spezza a metà i quaranta giorni di quaresima, ha

resistito nei secoli ed è sentitamente festeggiata in diversi paesi

della Romagna, in particolare a Cotignola e Forlimpopoli.

La sua discussa origine si legherebbe ad una leggenda risalente al 1450 circa. In periodo quaresimale, Francesco I Sforza, Duca

di Milano e di Cotignola, venne a sapere dai cotignolesi di una vecchia megera che era stata decapitata sulla pubblica piazza,

poiché sorpresa a lanciare malefici ai danni della città e del Duca stesso. Felice dello scampato pericolo, ordinò che ogni anno

venisse ricordato questo evento bruciando un fantoccio che la rappresentasse, tradizione giunta ai giorni nostri ancora ricca di

sincerità, di grande richiamo per l’animo festaiolo dei romagnoli.

All’inizio del secolo scorso e dè d’la Vecia costituiva un vero e proprio evento nella vita quotidiana allora così povera di dis-

trazioni e risorse, ed era festeggiata molto più semplicemente. Mamme e nonne costruivano, con abiti vecchi e segatura, una

grottesca bamboccia dai lineamenti grossolanamente abbozzati col carbone, la ornavano con qualche semplice dolciume e i

bambini sciamavano in spontanei cortei fingendo scaramucce a colpi di fantoccio.

Oggi la sfilata si apre con il corteo storico, che vede giovani a piedi o a cavallo in costumi cinquecenteschi. Trainati dai tratto-

ri che hanno sostituito i grossi e indolenti buoi lustrati e infiocchettati per l’occasione, si snoda la fila dei carri allegorici, alcu-

ni realizzati con articolate strutture di cartapesta, altri più semplicemente, che poco hanno a che vedere con quei travestimen-

ti fatti di abiti smessi e vecchi cappelli di una volta. A guidarli svetta il carro della Vecchia, imponente figura, un tempo ador-

na di collane di carrube, arance e nocciole che venivano lanciate ai partecipanti.

Ai venditori ambulanti di dolciumi e frutta secca, che si consumava in famiglia per la gioia di tutti, si sono sostituiti stand

gastronomici che rendono “appetitoso” il pomeriggio con piatti tipici della gustosa cucina romagnola e buon vino. Bimbi

mascherati e attoniti, in una folla eterogenea non solo per età, ammirano i carri succedersi per le strade immerse in un tripu-

dio di colori e musica, volta ad esaltare il clima di festa. Fintanto che, a pomeriggio inoltrato, arriva l’appuntamento più atte-

so. La folla si raduna attorno alla piazza principale, mentre la Vecchia viene sistemata per il rogo che avverrà non appena il

banditore avrà letto, di rito, l’antica sentenza di condanna. E all’imbrunire, avvolte in un’atmosfera quasi estatica, le fiamme si

levano alte, incantando gli occhi degli astanti come solo la magia del fuoco sa fare… una magia senza tempo.

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El i sa Palma

La Festa d’la Veciauna ce lebraz ione che cont inua a r i sorgere dal le propr ie cener i

LA FESTA D’LA VECIA_ A TRADITION THAT EVERY YEAR IS REBORN FROM ITS OWN ASHESMy great grandmother used to tell me how on feast days in Cotignola, people whose houses overlooked the main streets of the town used to “lease”

their windows (after removing the windowpanes) to the young men who wanted to contribute to one of the high points of the day’s proceedings: a hail of oranges, boiled sweets and little bags full of plaster on the carriages which made their way through the town centre.This custom always ended in a free-for-all into which the whole population was drawn, and injuries were not uncommon. It was prohibited during thefascist period. But the tradition of the Segavecchia, held every year at the middle of Lent, has resisted through centuries and today is fondly re-enactedin various towns of Romagna, Cotignola and Forlimpopoli especially. The origins of the event are disputed, but are believed to be connected to a legenddating to around 1450. During Lent, Francesco I Sforza, Duke of Milan and Cotignola, learned from the inhabitants of Cotignola of an old hag who hadbeen publicly decapitated after being caught laying curses on the town and on the duke himself. In his gratitude for the averted danger, Sforza orderedthat the event should be commemorated every year by the burning of an effigy representing the old woman. The tradition has survived largely intact tothis day and remains a major festive attraction in Romagna. At the beginning of the twentieth century the Segavecchia was a huge event in a townwhose daily life was as poor in diversions as it was in resources; and it was celebrated in a much simpler fashion. The mothers and grandmothers of thetown made a grotesque puppet out of old clothes and sawdust, its features roughly outlined with charcoal. The puppet was festooned with sweets andthe children of the town formed spontaneous skirmishing swarms around it. Today, the event starts with a historic parade of young men and womendressed in 16th-century costume, on foot or on horseback. A procession of allegorical floats, some carrying articulated papier-mâché figures, othersmore simply adorned, is pulled by tractors which have replaced the bulky and stubborn lustral oxen of the past. Today’s floats have little to do with theeffigies made of old clothes and hats of earlier periods. Leading the procession is the float of the Vecchia – the old Woman – an imposing figure deckedwith garlands of carobs, oranges and walnuts which are thrown to the onlookers. The itinerant vendors of sweets and nuts have now been replaced bymobile food stalls offering wines and typically tasty Romagnol food. Crowds of small children in masks stare open-mouthed at the floats as they movethrough the streets in a riot of colour and music which add to the party atmosphere. The afternoon is already well advanced by the time the eventreaches its eagerly-awaited climax. The crowd gathers around the town’s main piazza and the effigy of the old woman is burnt at the stake after thetown-crier has pronounced the ritual death sentence.

Mi si credeva morta

e sotterrata,

ma più bella di prima

son tornata

sul carro dedicato

alla mia gloria

motivo di allegrezza

e di baldoria,

venti dì dopo spento

il Carnevale

ricorre la mia

festa originale (...)

Antica poesia romagnola

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15Stor ia14 I Sens i d i Romagna

Giul iano Bettol i

Il tempo dei bastioni di Faenzar imast i inv io lat i dal l ’unico attacco che subirono

THE WALLS OF FAENZA_ OR HOW THEY REPELLED THE ONE ASSAULT THEY EVER HAD TO ENDUREThe walls of Faenza – or rather what’s left of them – are mostly covered by buildings or trees, and are scarcely evident today. And yet it took Faenza’s ruling

Manfredi dynasty nearly a century, from around 1376 to 1470, to build the walls, with a circumference of 5,320 metres, complete with a 30-metre wide ditch, gates,towers, and ramparts. The labour and expense involved were enormous, but on only one occasion did the walls prove of any use. In doing so, however, they broughtfame and glory to the inhabitants of Faenza. The time was late in the year 1500. Cesare Borgia, il Valentino, son of pope Alexander VI and brother of Lucrezia Borgia,had resolved to carve out a kingdom for himself and, supported by his father, set out to conquer Romagna and the Marche. His army numbered fifteen thousand menand included the cream of the condottieri of the period: Vitellozzo Vitelli, Gian Paolo Baglioni, Onorio Savelli, Ferdinando Farnese, Giulio and Paolo Orsini. Caterina Sforza’s Forlì held out one month; Pesaro, Rimini and Imola surrendered immediately. Faenza, however, chose to resist. Proud and united behind its youngruler – the sixteen year old Astorgio III Manfredi – the town entrusted control of its forces to Bernardino da Marzano and resolved to resist to the end. Maybe, peoplereasoned, Venice or Florence would come to their assistance. Cesare Borgia began his siege of Faenza on 16 November 1500. The walls and castle, after prolongedartillery bombardment, were furiously assaulted. But Faenza defended itself with equal vigour. Even girls distinguished themselves in the battle – one, DiamanteTorelli, wrenched the banner from an enemy standard bearer who had managed to climb onto the ramparts, and threw back the ladders which the invaders wereclimbing. Il Valentino had probably seen Faenza as an easy conquest. But the days became weeks, and the weeks became months, and every new assault was repelled,accompanied by some courageous sorties by the town’s inhabitants. Faenza was clearly not about to surrender. There were many casualties, including two renownedcondottieri, Savelli and Farnese. The siege had lasted five months when on 18 April 1501 Borgia’s artillery again pounded walls and castle. On the following day noless than 1660 missiles were launched. More attempts on the walls ensued, and the death toll rose. Yet, despite the overwhelming superiority of the enemy, it took justone traitor (at Thermopylae, Ephialtes, in Faenza, Germinante) to let the invaders finally pour into the town. Faenza surrendered on honourable terms on 25 April1501. After Cesare Borgia’s demise, the town passed briefly under the control of Venice before becoming part of the Papal States for the following centuries.Over time, its redoubtable walls were reduced to the humbler station of customs boundary, a source of income (its ramparts and ditches were leased to privateentrepreneurs), and a source of building materials. They even became a rather tiresome obstacle to the expansion of the town. Today, only 3,535 metres of the originalperimeter remain, partially concealed, as if ashamed to announce their presence. And yet, just as a single day of glory is enough to vindicate a man’s whole existence,Faenza’s walls knew not one day but five months of glory. They’ve earned their rest.

Le mura di Faenza, o meglio, quel che resta di esse,

coperte spesso da costruzioni o da alberi,

non si notano molto oggi.

ppure i Manfredi, signori della città, impiegarono quasi un secolo per com-

pletarle. Pressappoco dal 1376 al 1470: cinque chilometri e 320 metri di

mura, con relativo fossato, largo una trentina di metri, le porte, i torrioni, i ter-

rapieni. Lavoro e costo: enormi. E pensare che, quelle mura, servirono una volta

sola. Anche se quella volta servirono sul serio, e fecero fare una bella figura,

anzi una gloriosa figura ai faentini.

È la fine dell’anno 1500. Cesare Borgia, il “Valentino”, figlio del papa

Alessandro VI e fratello di Lucrezia Borgia, è intenzionato a crearsi un domi-

nio personale, aiutato dal padre, muove alla conquista della Romagna e delle

Marche. Ha quindicimila uomini e il fior fiore dei condottieri del tempo:

Vitellozzo Vitelli, Gian Paolo Baglioni, Onorio Savelli, Ferdinando Farnese,

Giulio e Paolo Orsini. La Forlì di Caterina Sforza resiste un mese. Pesaro, Rimini

ed Imola si arrendono subito. Faenza no. Stretta orgogliosamente attorno al suo

giovanissimo signore – l’appena sedicenne Astorgio III Manfredi – affida il

comando delle sue milizie a Bernardino da Marzano e decide di resistere ad

oltranza. Chissà che Venezia o Firenze non vengano in suo soccorso. Il

Valentino inizia l’assedio di Faenza il 16 novembre 1500. Le mura e la rocca,

dopo essere state battute a lungo da fittissimi colpi di artiglieria, vengono

assaltate furiosamente. Ma i faentini si difendono con altrettanto impeto.

Persino una ragazza, Diamante Torelli, si distingue nella battaglia. Strappa l’in-

segna ad un alfiere nemico ch’è riuscito a salire sugli spalti e rovescia nel fos-

sato le scale sulle quali si arrampicano gl’invasori. Il Valentino, l’impresa di

Faenza, l’aveva giudicata facile. Passano invece i giorni e passano i mesi, tra

ripetuti assalti sempre respinti, e coraggiose sortite dei faentini: Faenza non si

arrende. Molti i morti. Cadono, uccisi, anche due famosi condottieri: il Savelli

e il Farnese. Cinque mesi durerà l’assedio. Il 18 aprile 1501, le artiglierie del

Borgia riprendono a martellare mura e rocca. Il giorno dopo vengono sparati

ben 1660 colpi. Ancora assalti, ancora morti su morti. Eppure, nonostante la

superiorità soverchiante dei nemici, solo un traditore – come alle Termopili (là

Efialte, qui Germinante) – permetterà all’invasore di prevalere. Faenza è

costretta ad arrendersi, con patti onorevoli, il 25 aprile 1501.

Poi, finito subito il potere del Valentino, e dopo un breve dominio di Venezia,

rimarrà per secoli a far parte dello Stato Pontificio.

Le sue gloriose mura, col tempo, diventeranno, malinconicamente, cinta dazia-

ria, fonte di reddito (con l’affitto ai privati dei terrapieni e dei fossati), cava di

materiale edilizio. Diverranno addirittura un fastidioso ostacolo allo sviluppo

urbanistico della città. Oggi, del perimetro originario, restano soltanto tre chi-

lometri e 535 metri di mura. Seminascoste, sembrano quasi vergognarsi. E tut-

tavia, come un uomo degno di questo nome può vantarsi, se nella sua esisten-

za ha vissuto un giorno da leone, le mura di Faenza, che “da leone” vissero ben

cinque mesi, mi pare possano tranquillamente leccarsi i baffi.

E

L'uomo non

è del

tutto

colpevole, poiché non

ha cominciato la storia;

né del

tutto

innocente, poiché la continua.

Albert Camus

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17Stor ia16 I Sens i d i Romagna

I romagnoli hanno una propensione per le ciclopiche

dichiarazioni d’intenti fatte a voce alta;

nulla di anomalo per un ceppo italico, non fosse che

in buona parte dei casi tendono a mettere in opera

il proposito dichiarato, per quanto folle.

no dei casi più eclatanti mai occorsi del suddetto fenomeno si è avuto nella

Romagna del Risorgimento; è iniziato con la perentoria affermazione: “Par

Dio, ai végh!” (Per Dio ci vado), ed è finita sugli atti del tribunale di Parigi.

Il protagonista di questi fatti fu Giovanni Pianori, l’ottavo figlio di una fami-

glia di piccoli proprietari terrieri residenti in un minuscolo borgo vicino a

Brisighella. Gente eccentrica, se si dà credito alle voci secondo cui il neonato

Giovanni, una mattina d’inverno, sarebbe stato lanciato dalla madre fuori

dalla finestra, a causa dei suoi pianti continui (atterrando per fortuna sulla

neve fresca). Quando la famiglia si trasferì a Faenza, Pianori, che si guada-

gnava la vita con il poco poetico mestiere di calzolaio, acquistò rapidamente

la nomea di giovane manesco e temerario. Ancora ragazzo si unisce alla

Macchia Grande, una squadra di attivisti repubblicani che non risparmiano

l’uso della violenza per contrastare ora il vescovo, ora il governatore di

Faenza. È in questo periodo che merita la fama di eccellente tiratore, in grado,

si dice, di spegnere una candela con il proiettile di una rivoltella da trenta

passi di distanza. Una tradizione orale giunta fino a noi racconta persino che

Giovanni un giorno arrivò a puntare la pistola contro l’armaiolo presso il

quale l’aveva appena ritirata. Il colpo non partì e, al povero armaiolo quasi

morto di paura, Pianori avrebbe riconsegnato l’arma, avvertendolo che non si

consegna ad un cliente come lui un’arma guasta.

Nell’estate del 1850, in seguito ad un processo per omicidio viene spiccato con-

tro di lui un ordine di cattura che lo costringe alla fuga dall’Italia e alla clan-

destinità. La sua esistenza da esule non lo tiene però separato dalla vita socia-

le e politica di Faenza. Egli rimane costantemente in contatto con l’ambiente

repubblicano e, in spregio alle forze dell’ordine si azzarda anche, di tanto in

tanto, a recarsi dal barbiere della piazza. Inoltre, venuto a sapere del tradi-

mento della moglie, piomba a Faenza ed assassina il suo amante.

Con il passare del tempo, un clima di distensione, comincia a diffondersi in

Romagna ed il carattere irascibile di Pianori fa si che i suoi stessi simpatizzanti

comincino a considerarlo pericoloso. Così, quando nell’ottobre del 1854 egli si

fa rivedere a Faenza covando propositi di giustizia sommaria, uno dei suoi

compari, preoccupato delle possibili conseguenze dei suoi gesti sconsiderati, gli

urla, con intento provocatorio: “Hai voglia di fare qualche cosa? Va a Parigi,

e ammazza Napoleone!…”. La risposta che ricevette, già la conosciamo.

Un anno dopo la sua perentoria affermazione, il 28 aprile del 1855 a Parigi,

Pianori uscì di casa verso le tre del pomeriggio e si diresse di buon passo verso

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Manl io Rastoni

Un ciabattino che sparòa Napoleone III

i l gesto estremo di Giovanni P ianor i

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19Pass ioni18 I Sens i d i Romagna

gli Champs-Élisées, luogo deputato alla passeggiata pomeridiana dei parigini, abitudi-

ne comune all’imperatore stesso. Come di consueto Napoleone III giunse a cavallo, la

sua maniera preferita di mostrarsi al pubblico, per via dell’aspetto marziale che la

cavalcatura conferiva pure alla sua corporatura minuta. È scortato da due ufficiali: il

tenente Edgardo Ney alla sua destra, ed il tenente colonnello Valabrègue a sinistra.

Pianori si avvicina, rapido e calmo, fino al limite del marciapiede, la figura del colon-

nello gli nasconde in parte il bersaglio, non trovando, tuttavia, posizione migliore

Pianori estrae l’arma ed esplode un colpo. Prima che Ney gli sia addosso ha il tempo di

sparare una seconda volta, la palla sfiora la testa dell’imperatore, e mentre Pianori sta

per estrarre una seconda rivoltella, scorta ed agenti della polizia imperiale riescono ad

atterrarlo e ad aver ragione di lui. Gli troveranno addosso altre due pistole, oltre ad un

pugnale ed un rasoio. Indossava, inoltre, un berretto sotto il suo cappello ed un altro

abito sotto il suo vestito. Non si trattava dunque di un attentato suicida, Pianori aveva

considerato la possibilità di riuscire a fuggire. Si disse anche che nelle vicinanze sostas-

se una carrozza ad aspettarlo, il cui sportello era tenuto aperto da una misteriosa donna.

Ciò che i giornali non riportarono è che il primo proiettile aveva colpito l’imperatore in

pieno petto, fermato dalla corazza di maglia che indossava.

A sera, le chiese della capitale risuonarono del Te Deum di ringraziamento ordinato

dall’Arcivescovo di Parigi per celebrare il fallimento dell’attentato.

In carcere Pianori si trincerò in un dignitoso silenzio; a chi gli chiese se avesse dei com-

plici rispose: “Avrò degli emuli”, a chi gli chiese invece, se volesse un prete, rispose con

un secco diniego. La stampa soffocò la notizia scrivendo semplicemente “Pianori ha

subìto la pena capitale alle ore 5 nella piazza destinata a simili esecuzioni.

Quel giorno Giovanni Pianori il suo ultimo respiro lo spese nel grido: “Viva la

Repubblica. Viva l’Italia!”, preceduto secondo alcune fonti dall’imprecazione rivolta al

suo giustiziere: “Fa prest brôtt vigliach d’un boia!” (Fa presto brutto vigliacco di un

boia!).

L’eco delle sue gesta deve aver lasciato una profonda traccia se gli abitanti del suo

borgo natio sostengono tuttora che il suo spirito si aggiri nei sotterranei del casolare di

famiglia, spegnendo (non più con la sua fedele pistola) le candele che vi vengano

lasciate dopo il tramonto.

Oltre all’importanza storica che riveste la vicenda narrata, valga essa ad inoppugnabi-

le prova di come, per quanto facilmente il romagnolo rappresentativo si faccia spesso

trascinare dall’irruenza delle sue stesse parole, tanto agilmente esso sia disposto ad

“arrampicarsi”, una volta passata l’eccitazione, per tentare di raggiungerle con i fatti.

THE COBBLER WHO SHOT AT NAPOLEON III_OR HOW GIOVANNI PIANORI WAS AS GOOD AS HIS WORD...

The people of Romagna are known for their propensity to exaggerate when it comes to stating their intentions – hardly an unusual characteristic for a people of Italic stock, you might think, were it not for the fact that in many cases they’re as good –or as mad – as their word. One of the most impressive cases ever recorded of this phenomenon occurred during the Risorgimento. It began with an oath: “Par Dio, ai végh!” (By God, I’ll go!) and ended in a Parisian courthouse.The protagonist of the story was Giovanni Pianori, eighth son of a family of smallholders from a small village near Brisighella. They were an eccentric lot, if we are to believe the account according to which one winter morning his mother, exasperated at hisconstant wailing, threw the newborn Giovanni out of the window (fortunately his fall was broken by fresh snow). When the familymoved to Faenza, Pianori, who earned his living in the unglamorous occupation of shoemaker, quickly acquired a reputation as arash youth who was free with his fists. While still a young man he joined the Macchia Grande, a cell of republican activists whodid not balk at the use of violence in their struggle against the bishop and governor of Faenza. It was in this period that Pianorigained a reputation as a skilled marksman, capable, it was said, of putting out a candle at a distance of 30 paces with his revolver.The surviving oral tradition even recounts that one day Giovanni went so far as to threaten a gunsmith with the very weapon hehad just given him. The shot went wrong, and Pianori returned the weapon to the terrified gunsmith, warning him not to givefaulty arms to a man like him.In the summer of 1850, a warrant was issued for Pianori’s arrest in the wake of a murder trial, and he was forced to flee Italy to take up a clandestine existence abroad. His condition as exile failed to sever his links with the social and political life of Faenza,however. He remained in constant contact with the republican circles there, and in blatant disregard of the forces of law andorder he even made the occasional visit to the barber on the town’s main square. On another occasion, having learned that hiswife had been unfaithful to him, he showed up unexpectedly in Faenza and killed her lover.The new political climate which later established itself in Romagna led to an easing of tension, and Pianori’s irascible characterbegan to alienate him even from his own political allies. So, when in October 1854 he was once again in Faenza holding forth on popular justice, one of his accomplices, concerned about the possible consequences of his rash words, shouted at him by way of provocation: “You want to do something? Go to Paris and kill Napoleon!”. Pianori’s riposte, given above, has since gone down in history.Paris, 28 April 1855 – one year after his peremptory assertion, Pianori left his house around three in the afternoon and set off at a brisk pace for the Champs-Elysées, boulevard of choice for the afternoon promenade of many Parisians, including the emperorhimself. As usual, Napoleon III went on horseback - his favourite mode of displacement in public, as height gave a martial bearingto his rather diminutive figure. He was escorted by two officials, his lieutenant Edouard Ney on his right and lieutenant colonelValabrègue on his left. Pianori approached the kerbside quickly and calmly, but the figure of Valabrègue partly concealed histarget; Pianori, though unable to find a better position, took out his gun and fired anyway. Before Ney pounced on him he hadtime to fire a second shot, the bullet grazing the emperor’s head. Pianori was about to pull out a second revolver when theemperor’s escort and imperial police agents managed to bundle him to the ground and get the better of him. They found a furthertwo pistols on his person, as well as a dagger and a razor blade. They also found he had concealed a beret under his hat, and woreanother habit under his cape. This was no suicide assassination attempt, therefore; Pianori had intended to make his getaway. It was also reported that a coach was waiting for him nearby, its door held open by a mysterious woman. What the newspapers of the day did not report was that the first bullet got the emperor full in the chest – his chain mail cuirass saved his life.That evening, the Te Deum rung out from the churches of Paris as a token of gratitude, ordered by the city’s archbishop, for thefailure of the assassination attempt.In jail, Pianori maintained an aloof silence; when asked if he had accomplices he answered: “I’ll have emulators”; when offered theservices of a priest, he refused curtly. The press played down the event, reporting merely that Pianori “was administered capitalpunishment at 5 in the morning, in the square used for similar executions”. Giovanni Pianori expended his last death on a cry:“Viva la Repubblica. Viva l’Italia!”, preceded, according to some sources, by an imprecation directed at his executioner: ”Fa prest brôtt vigliach d’un boia!” (Get it over with you ugly lily-livered butcher!).Pianori’s deeds obviously made a deep impression on the inhabitants of his native village, who even today maintain that his ghoststalks the cellars of his family’s farmhouse, holding not his faithful pistol but a candle.Besides their historical interest, the events just narrated can also be read as a cautionary tale, as an illustration of the ease withwhich the typical Romagnol lets himself be dragged along by the impetus of his own words, and of how once the initial passionhas died down, he will go to tremendous, even fatal, lengths in his attempts to match his deeds to his words.

Popolani vogliosi santamente audaci, pronti a sorgere al primo invito, capaci di imbandire coltelli contro cannoni, capaci di osare e morire come Pianori. Giuseppe Mazzini

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21Pass ioni20 I Sens i d i Romagna

Pier lu ig i Papi

Il legionario stranierodella musica italiana

Ino Savini , d i rettore “ indipendente”

La vocazione romagnola per le “arti” è forte e radicata in tutte le sue forme.

on da meno nella musica cosiddetta colta, grazie ad alcuni importanti artisti. Uno fra questi è sicuramente Ino Savini, tornato recen-

temente alla cronaca di un pubblico più vasto in quanto nella sua città natale, Faenza, gli è stata da pochissimo intitolata una fon-

dazione musicale dagli importanti obiettivi culturali (www.fondazionesavini.it).

Ino Savini (1904 - 1995) nasce in una famiglia che “vive” di musica, con il padre costruttore di pianoforti e la sorella Assunta con-

certista ed insegnante di pianoforte. Si dedica inizialmente all’attività compositiva e vince due volte (1927 e 1928) il Primo Premio del

Concorso Nazionale di composizione della Società D. Scarlatti di Napoli, la cui commissione giudicatrice è composta dai maestri Cilea,

Ferrari, Longo. È proprio nel dirigere l’esecuzione di tali composizioni che scopre una particolare attrazione per il podio e si avvia

all’attività di direttore d’orchestra che deve quasi immediatamente interrompere per condurre l’azienda creata dal padre.

Riprende a dirigere con continuità sul finire degli anni Trenta, ma il secondo conflitto mondiale lo costringe ad un’altra pausa forza-

ta. Al termine del conflitto si dedica totalmente alla direzione d’orchestra, in Italia e all’estero, cimentandosi nel repertorio lirico e sin-

fonico. Dotato di grande “braccio”, chiarissimo gesto direttoriale, eccezionale memoria che gli consentiva una completa indipendenza

dalla partitura e temperamento trascinante.

Nel 1953 lascia l’Italia, dove tornerà solo sporadicamente, per assumere l’incarico di Direttore Musicale unico dell’Orchestra Sinfonica

di Oporto, che lascerà nel 1956 dopo aver diretto più di 200 concerti molti dei quali in prima esecuzione mondiale.

Terminato l’impegno in Portogallo, continua a svolgere la propria attività di direttore d’orchestra, prevalentemente all’estero, tanto da

essere definito dalla stampa “Il legionario straniero della musica italiana”.

Nel 1963 viene invitato a dirigere al Teatro Reale di Stoccoloma: il successo che riscuote è tale che gli viene immediatamente offerta

la carica di Direttore Stabile, unico direttore italiano chiamato a ricoprire tale incarico nella centenaria storia del prestigioso teatro.

Ruolo che ricoprirà fino al 1966.

Dal 1967 concentra la propria presenza in: Cecoslovacchia, Spagna, Francia, Germania, Turchia. Nel 1974 decide, salvo rare eccezio-

ni, di ritirarsi dall’attività pubblica, e si dedica a completare la ricerca, ricostruzione e revisione, da tempo iniziata, delle musiche di

alcuni compositori italiani le cui opere erano andate disperse. Instancabilmente attivo e legato profondamente alla sua terra ed alla

sua città, ha realizzato la “Storia Musicale e Teatrale di Faenza”.

N

THE FOREIGN LEGIONNAIRE OF ITALIAN MUSIC_ INO SAVINI, THE WANDERING CONDUCTORThe Romagnol flair for the arts is deeply rooted and finds expression in many fields.

Even in so-called “learned” music, thanks to some major artists. One of whom is Ino Savini, whose name has recently come tothe attention of a wider public with the opening in his native city of Faenza of a music foundation with an impressive culturalbrief (www.fondazionesavini.it). Ino Savini (1904-1995) was born into a family whose livelihood depended in no small part on music: his father was a piano maker, his sister Assunta a concert pianist and teacher. He initially trained as a composer,twice winning the national composition prize of the Neapolitan Scarlatti Society, on whose jury sat the maestri Cilea, Ferrari,Longo. While studying as a composer he discovered a special vocation conducting and began working as an orchestral director;but his new career was almost immediately interrupted when he left to take over the business which his father had founded.Savini began conducting on a regular basis in the late 1930s, only to see the outbreak of the Second World War again forcehim to break off his career. Once the war was over he dedicated himself on a full time basis to conducting orchestras, in Italyand abroad, concentrating on lyrical and symphonic pieces. His excellent sense of metre, expressive style and exceptionalmemory allowed him total independence from his score. In 1953 Savini left Italy to take up an appointment as musical directorof the symphonic orchestra of Porto, returning to Italy only sporadically. He left in 1956 after having conducted over 200concerts, many of them world premieres. Savini continued working as an orchestra director after his Portuguese sojourn,mainly abroad, which led the press to label him “the foreign legionnaire of Italian music”. In 1963 he worked as guest director at Royal Theatre in Stockholm, a job he performed with such success that he wasimmediately offered the post of resident conductor – becoming the only Italian conductor ever to occupy the post in thecenturies-old history of so prestigious a theatre. He occupied the post until 1966. From 1967 onwards Savini worked in Czechoslovakia, Spain, France, Germany, and Turkey. He retired in 1974, making only theoccasional public appearance and dedicating himself to the completion of a project he had started years earlier on theresearch, reconstruction and revision of the music of Italian composers whose works had been dispersed. An indefatigablepersonality with deep ties to his native city and region, his works include “Storia Musicale e Teatrale di Faenza”.

Il mondo può essere visto come un mezzo di propagazione delle onde sonore. Nicola Tesla

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23Enogastronomia22 I Sens i d i Romagna

Car lo Zaul i

Terra che accoglievino che r i sca lda

A WELCOMING PLACE_ A WINE TO WARM THE SOUL

The Trerè family have always been farmers, but not until the early 60s, in the person of ValerianoTrerè, did they also become landowners with thepurchase of 14 hectares of land on the hills ofFaenza. Valeriano Trerè’s foresight made him apioneer in the production of the first three DOCwines of the zone: Albana, Trebbiano and Sangiovese.In 1976 Valeriano’s work was taken up by hisdaughter Morena, who together with her sonMassimiliano still runs the firm today. The familyestate now extends over 35 hectares fully plantedwith vines, and since 1997 the estate has alsooperated a farm holiday business with an excellentrestaurant. Whatever activity they’re involved in, the Trerè family is constantly committed topromoting the quality and image of Romagna wines,and its star attraction in particular: Sangiovese.

Pur avendo la famiglia Trerè da sempre operato nel

settore agricolo, fu Valeriano Trerè, all’inizio degli

anni ’60, il primo ad intraprendere l’attività in

proprio con l’acquisizione di 14 ettari di terreno

sulle colline faentine.

a sua lungimiranza ne fece un pioniere nella produzione dei primi tre vini

DOC della zona: Albana, Trebbiano e Sangiovese. Dal 1976 l’attività viene

seguita dalla figlia Morena, che oggi porta avanti l’azienda affiancata dal figlio

Massimiliano. Ad ora la fattoria si estende su una superficie di 35 ettari intera-

mente coltivati a vite e dal 1997 l’azienda comprende un’ala adibita ad agritu-

rismo con un eccellente ristorante. Su tutti i fronti, la famiglia Trerè è costan-

temente impegnata a promuovere e curare sempre di più qualità ed immagine

dei vini romagnoli, in particolare del loro celebrato decano: il Sangiovese.

Sperone _ Sangiovese di Romagna Superiore DOC

Uve: Sangiovese 85%, Merlot 10%, Syràh 5%.

Questo vino si ottiene con una lunga macerazione sulle bucce e frequenti follature. Il colo-

re è rosso rubino intenso, il sapore è pieno, morbido e consistente, il profumo è quello

caratteristico della viola mammola. Gli abbinamenti gastronomici ideali si hanno insieme

ai primi conditi con ragù di carne, alle carni bianche, agli arrosti e ai brasati. Le sue carat-

teristiche organolettiche migliorano nei due anni successivi alla vendemmia.

Sperone_ Sangiovese di Romagna Superiore DOC - Grapes: Sangiovese 85%, Merlot 10%, Syràh 5%.This wine is obtained via extended maceration with frequent pressing. The colour is a deep ruby, theflavour full, soft and consistent, with a pronounced bouquet of violet. Goes particularly well with firstcourses featuring meat ragù, white meats, roasts and braised meats. Its organoleptic propertiesimprove for two years after vintage.

Amarcord d'un Ross _ Sangiovese di Romagna Riserva DOC

Uve: Sangiovese di Romagna 85%, Cabernet Sauvignon 15%.

Amarcord d'un Ross significa in dialetto romagnolo: “mi ricordo di un rosso”. Amarcord

è inoltre il nome di un famoso film di Federico Fellini che narra il ricordo della sua

infanzia. Ottenuto da uve sangiovese ad acino grosso e uve cabernet sauvignon,

entrambe vinificate con lunga macerazione sulle bucce, viene successivamente messo

ad invecchiare in piccole botti da 225/300 Lt. di rovere francese (barriques). Dopo circa

due anni è pronto per il consumo. È un vino è di corpo e struttura, dal colore rosso

rubino molto concentrato e consistente con orlo che sfuma verso le tonalità del melo-

grano. Nella successione aromatica sfilano i sentori delle confetture di prugne, more e

ciliegie. Il sapore è caldo ed equilibrato. Si abbina eccellentemente a tutti i piatti di

carne importanti: arrosti, selvaggina, stracotti, brasati, tartufi.

Amarcord d'un Ross_ Sangiovese di Romagna Riserva DOC - Grapes: Sangiovese di Romagna 85%,Cabernet Sauvignon 15%.Amarcord d'un Ross means “I recall a red” in the Romagnol dialect. Amarcord is also the name of awell-known film by Federico Fellini which narrates his childhood. It’s obtained from large Sangiovesegrapes and Cabernet Sauvignon grapes, which are left to macerate on skins for long periods beforethe must is transferred for ageing to small 225/300 litre French oak barrels known as barriques. It’sready to drink after about two years. A wine with good body and structure, with an even, dense rubycolour verging on pomegranate. To the nose it gives notes of plum, blackberry and cherry jam. Theflavour is warm and well-balanced. Goes excellently with all the major meat dishes – roasts, game,stews, braised meats – and with truffles.

Re Nero _ Colli di Faenza Sangiovese DOC _ Uve: Sangiovese 100%

Anche questo prodotto fa parte delle ultime DOC dei colli di Faenza, che impongono

disciplinari più severi rispetto alle DOC tradizionali. Massimo 90 Ql. di produzione di

uva per Ha. Il particolare clone di sangiovese selezionato in azienda matura verso la

metà di ottobre, epoca in cui si procede alla raccolta selezionata delle uve in cassette

da 20 Kg. La vinificazione è lenta con lunga maturazione sulle bucce. Il vino si affina

per 3/4 mesi in botticelle di rovere da 225 Lt. per essere imbottigliato verso la fine di

marzo. Il Re Nero è un vino dai ricchi estratti con fascinose tinte violacee e piacevoli

note di frutta rossa. È ideale a tutto pasto in particolar modo con i piatti di carne.

Re Nero_ Colli di Faenza Sangiovese DOC – Grape: Sangiovese 100%Another of the more recent DOC wines from the hills of Faenza, whose standards are more severethan those for traditional DOC wines. Each hectare yields a maximum of 90 ql. of grapes. The specialSangiovese clone cultivated on the estate ripens around mid-October, with the grapes selectivelyharvested and collected in 20 Kg crates. Prolonged vinification includes extended maceration on skins.The wine is refined for 3-4 months in 225-litre oak barrels before bottling in late March. Re Nero is awine with a rich essence, attractive violet tones and agreeable notes of red fruits. It’s an idealaccompaniment for all meals but with meat dishes in particular.

L

Di tutti i piaceri che conosciamo, già il

semplice tentativo di conseguirli è piacevole.

L'impresa risente della qualità della cosa

a cui mira. Michel de Montaigne

foto d’archivio

foto d’archivio

foto d’archivio

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24 I Sens i d i Romagna 25Enogastronomia

I ta lo e Vanna Graz iani

Lunario e saporila stagione è quel tempo in cui le cose sono nel la loro perfez ione

REASONS FOR THE SEASON_ THE PERFECTION OF A TIME GONE BYMemories come back with a clarity and lucidity that’s almost surprising – a backward glance through the eating habits of fifty years ago.

We find ourselves in the countryside of lower Romagna, where the ravages of war made their mark even on the most deeply-rooted traditions. Little by little we see changes in the habits and customs that oral tradition had protected and perpetuated, assisted in no small degree by the almost total illiteracy of the rural population.The appearance, flavour and smell of food comes back to us. Freshly-picked walnuts, their kernels still tender, which we ate with salt and the morning’s bread.Boiled cannellini beans with “Saba” sauce, a staple of winter dinners. In spring there were fresh peas combined with cuttlefish, always at their best beforethey had reproduced; the result was a dish which embodied all the rising vigour of the season. Boiled chickpeas (cicer arietinum, a yellow variety) wentmagically with olive oil: the type of condiment used always depended on the season, and each combination could only be used at certain times of the year. Fifty years on, food of every kind is available in abundance and ubiquity all year round. We have lost the sense of that happiness of “waiting without anxiety”for an approaching festa or for a fruit to come into season. The old “alphabet of taste” seems to have fallen into disuse, and we often ignore the principleswhich used to underpin our elementary eating habits.A Chinese proverb says the best way to preserve tradition is by adding a pinch of innovation, that way the new generation will want to follow it.Maybe it’s still possible to make today’s children appreciate the flavours and habits of earlier times – like the watermelon which, in mid-July or a little later,my uncle used to cut with an almost religious zeal. Maybe they’d be just as fascinated as I was at the quick movement of the knife, the noise the rind madeas the blade split it into perfect segments.

ci ritroviamo nella campagna della Bassa Romagna, dove gli sconvolgimenti dati dal passaggio della guerra hanno inciso anche

sulle tradizioni più radicate. Vediamo mutare, a poco a poco, usanze e norme che la cultura orale aveva protetto e perpetuato, com-

plice un analfabetismo quasi totale tra i contadini.

Tornano alla memoria l’aspetto dei cibi, i sapori, i profumi. Noci appena raccolte, col gheriglio ancora fresco, mangiate toccando il sale

con pane di giornata. Fagioli cannellini lessi e, aggiunta come condimento, la “saba”, che era parte razionata di una cena invernale.

In primavera, invece, si univano i piselli freschi alla seppia, nel suo momento migliore prima della riproduzione; il risultato era un

piatto che racchiudeva la forza di uno stadio obbligato del ciclo stagionale. Raffinato e magico era il rapporto tra cece (cicer arieti-

num, varietà cece del Fucino a semi gialli) lessato e olio d’oliva: la qualità di un condimento si legava sempre al procedere delle sta-

gioni e questi abbinamenti avevano un rigoroso periodo d’uso a tavola.

Cinquant’anni dopo, non ci sorprende più l’onnipresenza e l’abbondanza di prodotti, sempre e comunque. Abbiamo perso quella feli-

cità che precedeva “l’attesa non ansiosa” di un frutto o di una festa che arrivava. Sembra caduto in dimenticanza l’antico “alfabeto del

gusto” e spesso trascuriamo i principi che stavano alla base di quegli abbinamenti elementari.

Recita un detto cinese: la tradizione può continuare se i maestri del tempo la sanno rinnovare per un quarto, dando alla nuova gene-

razione la voglia di viverla.

Forse è possibile emozionare un’infanzia di oggi con gesti e sapori d’una volta, come quello di un cocomero che a metà luglio, o poco

dopo, lo zio tagliava con rituale quasi religioso. E probabilmente si resterebbe ancora affascinati dalla rapidità del movimento e dal

rumore della buccia croccante che si spaccava perfettamente, precedendo sempre, per legge naturale, la lama del coltello.

E

Quando arrivano i ricordi, con precisione e lucidità quasi sorprendenti, si può ricostruire

camminando a ritroso un’educazione alimentare di mezzo secolo fa.

I èlbar i éra biènch ad bróina e al strèdi e la campagna

al pareva quarti ‘d lenzul. Pu l’è avnù fura e’ sòul ch’l’a

sughè l’univèrs e sultènt agli òmbri agli è rèsti bagnédi.

Gli alberi erano bianchi di brina e le strade e la campagna

parevano coperte di lenzuoli. Poi è venuto fuori il sole che ha

asciugato l’universo e soltanto le ombre sono rimaste bagnate. Tonino Guerra

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29Arte28 I Sens i d i Romagna

i tratta appunto di un cliché, per sua natura stereotipato e mitizzato da

una vasta letteratura. Per Liverani, tuttavia, fu questa la realtà, tragica

e pagata di persona con un prezzo altissimo. Il paragone con i bohemién -

con il Sangiovese al posto dell'assenzio, le osterie della piazza al posto dei

bistrot e un bugigattolo umido in vece delle soffitte da «gelida manina», ma

con la stessa identica miseria - finisce qui.

Romolo Liverani resta il maggior scenografo nella storia del teatro faenti-

no, nonché il più fecondo vedutista del romanticismo romagnolo di metà

ottocento. Ci ha lasciato migliaia di disegni, tutti caratterizzati da un trat-

to veloce e nervoso e soprattutto da un abile gioco di chiaroscuri ottenuti

dalle mille gradazioni del nero di china diluito. Oggi si riconosce peraltro

che Liverani non fu pittore né vedutista in senso stretto: i suoi disegni sono

sempre finalizzati a ricavare idee per scenografie teatrali: anche se in molti

casi restano le uniche testimonianze di realtà non più esistenti (è il caso dei

ruderi di rocche dell'Appennino, oppure di molti scorci urbanistici oggi del

tutto trasformati) e quindi con un valore testimoniale preziosissimo, vanno

considerati opere di uno scenografo, non di un cronista descrittivo.

Figlio di Gaspare, «macchinista del teatro comunale», Romolo segue il

padre nel lavoro fin dall'età di sei anni. Vede costumi, quinte, sipari,

mescola i colori per il fratello maggiore Antonio che è pittore e che vien

chiamato sul palco quando c'è qualche fondale da ritoccare. A dieci anni

viene iscritto alla Scuola Comunale di Disegno, ma il dato stupefacente è

che a quindici fa le prime esperienze professionali come scenografo, a

Faenza, Lugo, Ravenna e Senigallia. Verrà poi una lunghissima serie di

commissioni, soddisfatte con rigore e passione, ma sempre malpagate,

complice anche il carattere di Romolo «poco incline al mercimonio e più

pago della lode che del denaro... fu uomo amabile, di spirito socievole, e

della sua bontà un po' tutti approfittarono».

Dopo il 1860, con la crisi economica che si ripercuote sugli artigiani e

segnatamente su quelli operanti nel superfluo la sua situazione, già grave,

precipita. Si adatta a lavori di ripiego, e solo i Francescani, per un piatto di

minestra, gli fanno affrescare alcune nicchie delle loro chiese e qualche

fondale d'altare. Le sue ultime opere datate sono del 1869; poi «la mano gli

si fa pesante e tremula», è costretto a lasciare la casa di Corso Mazzini per

una stanza malsana in fondo a Via Monaldina (oggi via Pascoli) dove si

ritira con la moglie, anch'essa ammalata, e dove muore di stenti al tra-

monto del 9 ottobre 1872. Ha solo 63 anni.

S

Romolo Liverani (Faenza 1809 - 1872) incarna in maniera

emblematica il cliché, squisitamente ottocentesco,

dell'artista geniale ma sfortunato, precursore dei

bohémien parigini che brucieranno le tappe di

un'esistenza febbrile consumata fra alcol e notti

insonni, soffitte miserrime e tavolini di bistrot.

Sandro Bass i

Io son nato sol per starcoi pennelli in mano

genio ed eccess i d i Romolo L iverani

BORN TO HOLD A PAINTBRUSH_ THE WAYWARD GENIUS OF ROMOLO LIVERANIRomolo Liverani (Faenza, 1809 - 1872) was the personification of the romantic cliché of the gifted but doomed artist, a type

which prefigured that of the Parisian bohemians whose febrile existence was consumed by alcohol and sleepless nights, betweenwretched garrets and bistrot tables. It’s only a cliché of course, a stereotype mythologized by a vast literature. But for Liverani it was reality, and one for which he paid a high price. While the details may differ - Sangiovese instead of absinthe, sawdust taverninstead of bistrot, dank cubbyhole instead of freezing garret – the misery was the same. Romolo Liverani was, and still is, thegreatest scene painter in the history of theatre in Faenza, as well as the most gifted vedutista or view painter of mid-19th centuryRomagna. He left thousands of drawings, all of them characterized by a quick and nervous stroke and a consummate handling ofchiaroscuro rendered by the thousand gradations of tone of diluted India ink. Today, the consensus is that Liverani was neither avedutista nor a painter in the stricter sense of the terms, as his drawings were always made as studies for theatre backdrops. Even if in many instances these drawings are now the only records of places or things which no longer exist, such as the ruinedcastles of the Apennines or the many urban views since changed beyond recognition, and are therefore priceless as historicaldocuments, they must still be regarded as the work of a scene painter, not a history artist. The son of Gaspare Liverani, a stage handin the local theatre, Romolo Liverani worked with his father from the age of six. Among costumes, wings, curtains, he mixed paintsfor his older brother Antonio, a painter who was found work sprucing up backdrops in the theatre. At the age of ten Romoloentered the local art school, an impressive achievement for one so young, but even more astonishing is that by fifteen he wasalready working as a professional scene painter in Faenza, Lugo, Ravenna and Senigallia. He went on to receive commission aftercommission, all of them discharged with rigour and passion and all of them badly paid – a fact to which Liverani’s own characterprobably contributed. “He had little business sense and took his pay in praise more than in money ... he was an affable man, sociableby nature, and everyone exploited his goodness a little.” By 1860, economic crisis was pushing many artists into hardship, and thosealready enduring hardship found themselves closer to the brink of destruction. Liverani scraped a living whichever way he could, hisonly commission in this period coming from the Franciscans, for whom he painted frescoes in the niches and altarpieces of severalof their churches. His fee was his supper. His last works are dated 1869; but then “his hand grew heavy and tremulous” and he wasforced to leave his house in Corso Mazzini for a fetid lodging at the bottom of Via Monaldina, now via Pascoli. He lived here withhis wife, herself ill, until his death from poverty at sunset on 9 October 1872. He was 63.

“Romolo Liverani

(...)

uomo onoratissimo,

poeta estemporaneo,

compagno gioviale,

ed anche

buon bevitore

al cospetto

degli uomini

e di

Dio”.

Antonio Zecchini,

Il cenacolo

Marabini

immagine d’archivio immagine d’archivio

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31Arte30 I Sens i d i Romagna

Viola Emaldi

La Belle Epoque in Romagnaespress ioni , luoghi , ambient i e personal i tà

ra quello un momento in cui l’opportunità economica si spo-

sava con la richiesta di un diverso “decoro” da parte della

nuova borghesia: una committenza alla ricerca di una diversa

immagine della città, luogo in cui le presenze architettoniche

erano rappresentative di “ricchezza”.

Benché affermatosi in ritardo rispetto ad altri paesi europei (come

il Modern Style in Inghilterra, l’Art Nouveau in Francia o lo

Jugendstil in Germania), il Liberty segnò profondamente le nuove

architetture urbane italiane, investendo anche l’edilizia popolare

di un linearismo ispirato ora alla natura ora alla geometria.

In Romagna si delineò un indirizzo estetico a sfondo naturalisti-

co, a tendenza “floreale”, simbolo di un ritorno ad una società più

semplice e bucolica. Quest’atteggiamento anticonsumistico

divenne poi, con le debite differenze, comune a qualche cenaco-

lo di artisti e pensatori come quello fondato da Domenico

Baccarini a Faenza. Attorno a questa “mente aperta” si raccolse-

ro, nel volgere di una breve stagione, giovani pittori, scultori e

incisori che lasciarono profonde radici in Romagna influenzando

un’intera generazione di artisti. Tra i più noti citiamo gli sculto-

ri Ercole Drei e Domenico Rambelli (vedi ee n°7), i disegnatori e

incisori Giovanni Guerrini, Giuseppe Ugonia, Francesco Nonni e

Giovanni Chiarini e il ceramista Pietro Melandri (vedi ee n°8).

Si delineò, attorno al Circolo, un deciso orientamento verso la

grafica simbolista e il disegno purista inglese che si innestò sul

progredito artigianato faentino oltrepassando i limiti della pro-

vincia. Di minore rilievo artistico, ma di grande importanza per

la diffusione dello stile, furono le tante manifatture locali quali la

Ditta Matteucci di Faenza, produttrice di ferri battuti (sparsi un

po’ ovunque, segnalano oggi l’utilizzo decorativo dello stile nei

cancelli, nelle inferriate e sulle balconate), la Ditta Giunchi di

Rimini, dai mobili noti per l’estrema semplicità e praticità, le ditte

vetraie che lavorarono per le moltissime ville emiliane e roma-

gnole e, ancora, le numerose legatorie e i laboratori d’oreficeria.

Il Liberty si consolidò, così, in Romagna come espressione di una

cultura comune in tutta Europa: poco omogenea sul piano delle

problematiche sociali e ad un livello analogo di progresso tecni-

co. Successivamente il regime fascista, nella sua ascesa, cercherà

di costruire un’immagine del paese in linea con i nuovi assetti di

potere. Il governo diventerà committente generoso e munifico,

finanziando pitture murali e sculture, a patto di rompere col pas-

sato. In breve, le arti applicate, la scultura e la pittura del rac-

conto basata su simboli e rimandi letterari finirono così per esse-

re considerate anticaglie dai rinnovatori.

E

In Italia si chiamò Liberty quella corrente

di gusto sviluppatasi, tra gli ultimi decenni

del sec. XIX ed i primi del XX,

nel campo dell’architettura e delle arti decorative;

fu il primo stile dell’Italia unita e,

come tale, segnale dei tempi e di precisi mutamenti

storici, economici e culturali in atto.

ART NOUVEAU IN ROMAGNA_ STYLES, PLACES, ATMOSPHERES, PEOPLE

Stile Liberty is the name given in Italy to new a current in thearchitecture and the decorative arts which emerged in the late 19th centuryand lasted into the opening decades of the 20th century. As unified Italy’s first new style, Liberty offers interesting testimony to thehistoric, economic and cultural changes the country was undergoing at thetime. Liberty was the result of the combination of economic wealth and thedemand among the emergent middle classes for a new decorative aesthetic:their attempt to imprint on their environment the symbols of new wealth.Although later to emerge in Italy than in other European countries (where itwas variously known as Modern Style in the UK, Art Nouveau in France andJugendstil in Germany), Liberty had a profound impact on new urbanarchitecture in Italy, while its influence extended too to more vernacularidioms too, whose lines drew inspiration both from nature and fromgeometry. In Romagna, the Liberty aesthetic was strongly informed bynaturalism, its “floral” character embodying a desire to return to a simpler,more bucolic way of life. This “anticonsumerist” spirit was shared, in variousdegrees, by the various groups of artists and thinkers in the region, such asthe circle founded by Domenico Baccarini in Faenza. In the course of itsshort existence Baccarini’s circle was frequented by many young painters,sculptors and engravers who left deep roots in Romagna, their influenceextending across an entire generation of artists. Among the most notable ofthese we can cite the sculptors Ercole Drei and Domenico Rambelli (see eeissue 7), artists and engravers Giovanni Guerrini, Giuseppe Ugonia, FrancescoNonni and Giovanni Chiarini, and ceramist Pietro Melandri (see ee issue 8).Their common denominator was a strong orientation towards symbolismand the back-to-basics approach of contemporary English design, which wastaken up by the more progressive artisans of Faenza and soon spreadbeyond the confines of the province. Of minor artistic stature in themselvesbut of major importance in the diffusion of the style were countless localmanufactures such as Faenza’s Ditta Matteucci, which produced wroughtiron (found all over the region and still a testimony to the decorativeapplication of the style in gates, fences and balconies), Rimini’s DittaGiunchi, whose furniture was remarkable for its extreme simplicity andpracticality, the glassmaking firms whose produce found its way to countlesstowns in Emilia and Romagna, as well as numerous bookbinding firms andjewellers. In this way Liberty established itself in Romagna as the expressionof a trend common to the whole of Europe: there was little homogeneity interms of approaches to social issues and on the analogous level of technicalprogress. Afterwards came the fascist regime, which in its early years soughtto build an image of the country in keeping with the new power base. Thegovernment was a generous and open-handed patron, funding countlessmurals and sculptures in its attempts to consummate a break with the past.Soon, the new wave would consider the Liberty period’s applied arts,sculpture and narrative painting based on literary references as old hat.

La bellezza risplende

nel

cuore

di colui

che

ad essa aspira

più

che

negli

occhi

di colui

che

la vede.

Kahalil

Gibran

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04Territorio

I Cavalieri del Tempio nella Valle del Marecchia_tracce di una leggenda fra Cesena, Rimini e Sarsina

The Knights Templar in Valle del Marecchia_ On the trail of a legendary order in Cesena, Rimini and Sarsina

La casa dei mugnai ricorda_macine che raccontano le antiche storie della vallata

A restored mill which brings local history back to life_Ancient grindstones tell a story

10Storia

La cortigiana che divenne Imperatrice_grandezza e dissolutezza di Teodora, sovrana di Bisanzio

The courtesan turned Empress_ Vices and virtues of Theodora, sovereign of Byzantium

La Festa d’la Vecia_una celebrazione che continua a risorgere dalle proprie ceneri

La Festa d’la Vecia_ A tradition that every year is reborn from its own ashes

Il tempo dei bastioni di Faenza_rimasti inviolati dall’unico attacco che subirono

The walls of Faenza_ Or how they repelled the one assault they ever had to endure

16Passioni

Un ciabattino che sparò a Napoleone III_il gesto estremo di Giovanni Pianori

The cobbler who shot at Napoleon III_or how Giovanni Pianori was as good as his word...

Il legionario straniero della musica italiana_Ino Savini, direttore “indipendente”

The foreign legionnaire of Italian music_ Ino Savini, the wandering conductor

28Arte

Io son nato sol per star coi pennelli in mano_genio ed eccessi di Romolo Liverani

Born to hold a paintbrush_ The wayward genius of Romolo Liverani

La Belle Epoque in Romagna_espressioni, luoghi, ambienti e personalità

Art Nouveau in Romagna_ Styles, places, atmospheres, people

22Enogastronomia

Terra che accoglie_vino che riscalda

A welcoming place_ A wine to warm the soul

Lunario e sapori_la stagione è quel tempo in cui le cose sono nella loro perfezione

Reasons for the season_The perfection of a time gone by

32 I Sens i d i Romagna