Accenti - Numero 2

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Accenti Quadrimestrale telematico di Scienze Politiche e Sociali A cura dell’Associazione Culturale Accenti Con il patrocinio del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale “G. Germani” Università degli studi di Napoli “Federico II” www.scienzesociali.org Anno 2010, n°1 à Nel corso delle epoche, il basilisco si modifica fino alla bruttezza e all’orrore, e oggi è oramai dimenticato. Il suo nome significa «piccolo re»; per Plinio il Vecchio (VIII, 33), il basilisco era un serpente che sulla testa aveva una macchia chiara a forma di diadema. A partire dal Medioevo, è un gallo quadrupede e coronato, dal piumaggio giallo, con grandi ali spinose e una coda di serpente che può finire a uncino o in un’altra testa di gallo. […] Il basilisco risiede nel deserto o, per meglio dire, crea il deserto. Ai suoi piedi cadono morti gli uccelli e marciscono i frutti; l’acqua dei fiumi a cui si abbevera rimane avvelenata per secoli. Che il suo sguardo rompa le pietre e bruci i pascoli è attestato da Plinio. Jorge Luis Borges Il libro degli esseri immaginari

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Periodico di Scienze Politiche e Sociali

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Accenti Quadrimestrale telematico di Scienze Politiche e Sociali

A cura dell’Associazione Culturale Accenti Con il patrocinio del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale “G. Germani”

Università degli studi di Napoli “Federico II” www.scienzesociali.org

Anno 2010, n°1

à

Nel corso delle epoche, il basilisco si modifica fino alla bruttezza e all’orrore, e oggi è oramai dimenticato. Il suo nome significa «piccolo re»; per Plinio il Vecchio (VIII, 33), il basilisco era un serpente che sulla testa aveva una macchia chiara a forma di diadema. A partire dal Medioevo, è un gallo quadrupede e coronato, dal piumaggio giallo, con grandi ali spinose e una coda di serpente che può finire a uncino o in un’altra testa di gallo. […] Il basilisco risiede nel deserto o, per meglio dire, crea il deserto. Ai suoi piedi cadono morti gli uccelli e marciscono i frutti; l’acqua dei fiumi a cui si abbevera rimane avvelenata per secoli. Che il suo sguardo rompa le pietre e bruci i pascoli è attestato da Plinio.

Jorge Luis Borges Il libro degli esseri immaginari

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Accenti – Periodico telematico di Scienze Politiche e Sociali Rivista telematica a carattere scientifico

Anno 2011, n°2 - ISSN 2036-9174 Progetto grafico: Tommaso Ederoclite

Associazione Culturale “Accenti”

Sede Legale: Via IV Novembre – 80020 – Frattaminore (NA) Sede Organizzativa: Vico Monte di Pietà, 1 – 80138 – Napoli

Sito Web: www.scienzesociali.org

Direttore Responsabile Tommaso Ederoclite

Responsabile Editoriale del numero Tommaso Ederoclite – Enrico Sacco

Comitato Direttivo

Enrico Sacco, Dario Minervini, Ivano Scotti, Fiorenzo Parziale, Domenica Farinella, Antonietta De Feo, Enrico Gargiulo, Francesco Pirone, Livio Santoro,

Vittorio Martone.

La rivista telematica Accenti è interamente scaricabile da www.scienzesociali.org

in forma gratuita ma tutelata da Licenza Creative Commons.

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Indice Presentazione p. 4 Vittorio Martone Ma cosa stiamo difendendo? Cenni al dibattito sullo stato della comunità dei sociologi in Italia p. 6 Ivano Scotti Le “performance” dell’Università italiana p. 19 Michele Scotto Universitaria-mente: un discorso di senso comune p. 33 Tommaso Ederoclite (a cura di) Conversazione con Luigi Caramiello p. 52 Tommaso Ederoclite ed Enrico Sacco (a cura di) Conversazione con Luciano Brancaccio p. 59 Alberta Giorgi Diversamente Strutturati? Il precariato universitario e le proteste a Milano p. 65 Francesco Antonelli, Robert Castrucci e Giulio Marini Il nostro tempo è adesso (ma sarebbe stato meglio nove anni fa) p. 69 Recensioni Antonietta De Feo Lo sguardo sociologico (Everett C. Hughes) p. 71 Livio Santoro Eroi di carta (Alessandro Dal Lago) p. 75 Tommaso Ederoclite Il partito personale (Mauro Calise) p. 77 Riccardo Muro Fuori dall’angolo (Emanuele Alecci e Mariano Bottaccio) p. 79

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Discutendo del suo impegno giovanile in qualità di assistente universitario, Franco Basaglia ebbe a sostenere che proprio a partire da quell’esperienza cominciarono ad essergli chiare alcune delle dinamiche proprie del sistema totale dell’istituzione. Le meccaniche dell’assoggettamento e dell’omologazione, le logiche della sottrazione di soggettività e d’identità, le strategie dell’annullamento del dissenso, tutte in funzione di pratiche costitutive del sistema istituzionale, si palesarono agli occhi dello psichiatra di Venezia all’interno dell’Accademia, prima ancora che del sistema manicomiale.

Al di là dei gustosi eccessi dell’iperbole e al di là dei facili vittimismi di maniera, l’Accademia, l’Università, si sorregge naturalmente su di una trama di rapporti istituzionali intessuta secondo alcune logiche che non sempre si danno, nell’immediatezza dell’interpretazione, come fatti. A partire da questi assunti, e soprattutto a partire dai recenti moti di riforma e dal dibattito da essi provocato, tanto nell’Accademia quanto nell’opinione pubblica in senso esteso, sembra si renda necessaria una riflessione circa il reale statuto che sorregge l’impalcatura dell’Università italiana. Sembra si renda necessaria, cioè, una messa in discussione dell’ermeneutica di quei processi che spesso rimangono latenti come un sotterraneo intreccio di pilastri e fondamenta nascosti all’ingenuità di uno sguardo passeggero. Una riflessione, abbiamo detto, che dovrebbe avvenire successivamente a una massiccia ondata riformista dal vettore, come si direbbe con la secchezza di un anglicismo, top-down.

Punto iniziale di tale dibattito è infatti la costituzione di un agone retorico all’interno del quale i riformatori e i riformati si sono trovati ultimamente a dover discutere dell’Università Pubblica italiana.

Infatti, a ogni periodo di riforma, non siamo noi i primi a dirlo, si accompagna una teoria del mutamento sociale con la sua specifica retorica. Nel nostro caso, nel caso della riforma dell’Università Pubblica italiana, tale retorica riformatrice ha profuso il suo maggior impegno nel tratteggiare il profilo indistinto dell’Accademia come luogo degli sprechi e dei nepotismi, della gestione torbida dei poteri e della fiacchezza produttiva: in sostanza una riserva satura di garanzie in cui un gruppo esteso di individui opera nell’agio e nella mollezza, occupandosi più di accaparrare e sperperare risorse pubbliche che di proporsi, invece, come risorsa produttrice di altre risorse. La reazione dei riformati a questa trama retorica si è a sua volta proposta di ridefinire il profilo dell’Accademia, ma l’ha fatto da prospettive spesso incompatibili o comunque dissimili, condensando a partire da diversi punti di vista interni la singolarità di differenti prospettive pratiche. È così che nella pletora indistinta dei soggetti appartenenti all’Accademia, dal suo interno, hanno cominciato a strutturarsi diverse rivendicazioni di autonomia e di specificità, tese in sostanza a spostare la retorica riformatrice sul piano della peculiarità dei diversi attori impegnati nel processo di riforma. È così che a una retorica governativa totalizzante si è contrapposta una retorica della parcellizzazione: non esiste soltanto l’Accademia, ma esistono soprattutto diverse sue parti, tutte irriducibilmente differenti tra loro. Gli studenti hanno alzato la voce riempiendo le strade; i ricercatori hanno rivendicato il riconoscimento del loro lavoro grigio; i sedicenti precari della ricerca hanno timidamente tentato di alzare la testa; i professori ordinari e gli associati hanno fatto sfoggio alternativamente di paternalismo e di diplomazia; i rettori hanno continuato a operare nella loro segretezza associazionistica.

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Sicché, da che si proponeva (a livello governativo), in logica top-down, di tradurre in retorica un blocco monolitico di soggetti, ci si è trovati di fronte a un proliferare di rivendicazioni e di richieste di specificità secondo una modalità bottom-up. Ne è venuto fuori un dibattito spesso dissonante, in cui numerose voci si sono impegnate nell’avanzare richieste di settore che portassero al riconoscimento e alla valorizzazione ognuna di un gruppo specifico. Gli studenti per gli studenti; i ricercatori per i ricercatori; i precari per i precari; i rettori per i rettori. Le logiche istituzionali di cui parlava Basaglia restano indistinte sullo sfondo, e non sembra siano state, in questo gioco di parcellizzazione, il collante interpretativo delle diverse istanze parziali. In sostanza si è annullato il contesto per dare spazio all’egoismo e al protagonismo dei diversi soggetti collettivi. Ma, d’altra parte, è proprio così che funziona la logica istituzionale: parcellizzando e settorializzando le rivendicazioni per offuscare la sua entità globale.

È forse questo il motivo per cui un reale dibattito interno, nell’Accademia italiana, ha trovato enormi difficoltà per svilupparsi indipendentemente dalle vertenze dei singoli attori collettivi coinvolti nella riproduzione del sistema istituzionale. Tuttavia, forse proprio grazie a questo enorme parlare, grazie alla recente gemmazione di retoriche oppositive alla retorica riformatrice, una timida discussione sulla natura dell’Istituzione Università, e sui suoi processi di sostentamento, ha preso a farsi largo anche nelle sedi ufficiali della produzione scientifica. La sociologia italiana, nella fattispecie, ha ultimamente prodotto un dibattito che ha lo scopo di gettare luce proprio su quel sistema spesso anonimo ma onnipresente che sorregge le logiche istituzionali all’interno dell’Università Pubblica italiana.

Il numero della rivista Accenti qui introdotto, che vuole discutere della riforma in atto dell’Università italiana a partire da diversi punti di vista, si apre esattamente con una rassegna che sintetizza tale dibattito, in modo da rendere una cornice dovuta a gli altri contributi, che per loro natura restano settoriali, in quanto raccontano, seguendo stili retorici volutamente differenti, di diverse testimonianze prese da tre diversi gruppi di quegli attori di cui sopra si diceva: gli studenti, i ricercatori, i precari della ricerca.

Attraverso tutti questi contributi, che speriamo offrano spunti di interesse a chi è intenzionato a superare le rivendicazioni di maniera dei riformatori e dei riformati, Accenti intende proporre un punto di vista che integri, piuttosto che separare, le diverse istanze, ponendo come cruciale e caratterizzante non la sussistenza del singolo individuo o del gruppo, ma la disciplina e il rigore della scienza e della cultura. Perché, in fin dei conti, è proprio la vocazione per la scienza e la cultura (come dal concetto weberiano di Beruf), e non la riduzione agli interessi corporativi, ciò che deve unire tutti i soggetti dell’Accademia verso un’adeguata difesa dall’ordine riformatore.

Associazione Culturale

“Accenti”

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Ma cosa stiamo difendendo? Cenni al dibattito sullo stato della comunità dei sociologi in Italia di Vittorio Martone

… siamo sempre più allarmati dell’ambiguo torpore che sembra dominare nel campo degli studi sociali, e particolarmente sociologici, del nostro Paese; dalla temperata originalità di molti contributi che appaiono […]; dall’arrotondarsi e assodarsi di conventicole e consorterie, che sono croniche pestilenze della vita accademica, e non solo accademica, in tutto il mondo, ma particolarissimamente in Italia, e massime in materia come la nostra, “giovane” e sempre esposta alle seduzioni e alle manomissioni della politica e dei grandi interessi (Pellizzi 1965 cit. in Sciarrone 2010).

A Livio, collega e amico dottore, che ha raccolto il suo carico etico e ha lasciato questo Paese per attraccare in porti meno corrotti.

La “riforma dell’Università” ci chiama a difendere l’istituzione per la quale molti di noi, pur accademicamente giovani, hanno investito tempo e passione ma che, sarebbe ingenuo negarlo, non è esente da evidenti disfunzioni. È per questo che occorre prima di tutto avere chiare le idee su cosa stiamo difendendo, approfittando del clima “riformatore” come occasione di inevitabile ridiscussione dello statuto della sociologia nelle università, tanto sul fronte delle sue contraddizioni organizzative (assetti istituzionali e di rappresentanza, criteri di selezione e incentivo ecc.) quanto su quello delle sue disposizioni scientifiche (qualità della ricerca e del dibattito interno, paradigmi conoscitivi ecc.).

Le parole di Camillo Pellizzi citate in apertura e riportate da Rocco Sciarrone, mettono in evidenza che in questa disciplina il richiamo periodico a una condizione di crisi rappresenta una componente rituale, in cui si ripropongono – in una strana celebrazione – le debolezze caratterizzanti la difficile affermazione di questa scienza oggi poco meno “giovane”, ma pur sempre – e fortunatamente! – “debole”. Di certo ciò che pare sopravvivere a quasi mezzo secolo di storia è la sua organizzazione universitaria affetta da “conventicole e consorterie”, sempre “croniche pestilenze della vita accademica”. Ed è su questo punto che si vuole portare maggiormente l’attenzione in questa sede, aprendo una finestra al dibattito che da tempo imperversa sulla scena nazionale e che sottolinea la nuova crisi della sociologia e – ancor più – della “comunità dei sociologi” e delle sue forme di riconoscimento e rappresentanza. Dibattito che nasce già con le riflessioni proposte in Sociologica in seguito ai saggi di Burawoy (2005), Goldthorpe (2004) e Boudon (2002) ma che, con lo stimolo di Guido Martinotti sul forum Treccani1, pare essersi rinvigorito in numerose sedi, con interventi su la rivista il Mulino (Cavalli et al.

1 Si veda Guido Martinotti, La scomparsa della sociologia dalla scienza ufficiale italiana: suicidio od omicidio? (http://www.treccani.it/Portale/sito/comunita/forum/).

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2010), sulla stampa2, al Congresso nazionale dell’AIS tenuto nel settembre 2010 a Milano e, in ultimo, in un interessante seminario organizzato dalla Rivista Italiana di Sociologia lo scorso ottobre, sempre a Milano, su “Ruolo della sociologia e professione del sociologo”. In tale scenario, lungi dal voler essere esaustivi e onde evitare dispersioni o ripetizioni, si propone di seguito un racconto circostanziato di quanto sostenuto nel Seminario RIS, a partire dai due interventi previsti, di Rocco Sciarrone e Marco Santoro, arricchiti delle considerazioni emerse durante i dibattiti seguiti alle due presentazioni. Ai due relatori – che casualmente sono anche studiosi di mafie, altre forme di consorteria – è stato richiesto di sviluppare il tema su due versanti differenti, anche se intimamente interconnessi. Rocco Sciarrone si occupa del versante “esterno”, con un paper dal titolo La sociologia studia ancora la società? A Santoro, di converso, è affidata la dimensione “interna”, con il paper Esiste una comunità scientifica per la sociologia italiana? Come anticipato anche nel titolo, per ovvie ragioni di pertinenza, in questa sede si farà solo cenno al fronte esterno per concentrare invece l’attenzione sul secondo versante; una questione delicata, che Santoro affronta con riferimento al concetto di campo scientifico à la Bourdieu, descrivendo come si presenta oggi fenomenologicamente il campo nazionale della sociologia anche a partire da uno speciale fieldwork svolto in occasione dell’ultimo Congresso annuale dell’AIS: un’occasione che per la sua importanza strutturale rivela molto sullo stato della professione sociologica, così come sulla “sociabilità da professore a convegno” (p. 2) 3. Non a caso, alla presentazione di Santoro è seguita una discussione accesa, con interventi anche autorevoli, talvolta in aperta contestazione rispetto all’attuale ordine e agli attuali modelli organizzativi della sociologia italiana. Ho pertanto ritenuto interessante riportarli, seppure in estrema sintesi4, collocandoli in un filo conduttore ordinato a uno scopo complessivo: proseguire in questo esercizio di autocritica della sociologia italiana.

Cominciamo da La sociologia studia ancora la società? Nel suo intervento Rocco Sciarrone affronta la questione della rilevanza della sociologia rispetto alla società, traendo ampio spunto da un convegno del 1971, tenuto all’Università di Torino, su Ricerca sociologica e ruolo del sociologo, i cui atti sono stati pubblicati l’anno successivo, a cura di Pietro Rossi (1972) con contributi di Beccalli, Bravo, Cavalli, Capecchi, Gallino, Martinelli, Martinotti, Pizzorno, Rusconi e Scartezzini. L’intervento assume dunque l’ottica esterna e analizza la crisi su tre fronti: utilità della sociologia; presenza della sociologia nella sfera pubblica; riconoscimento (e uso) pubblico della sociologia.

Dunque, quale utilità per la sociologia? Un interrogativo che Sciarrone, sulla scia di Burawoy (2005), declina sia come in Robert Lynd (1939) – “conoscenza per cosa” – sia come in Alfred McLung Lee (1976) – “conoscenza per chi?”, e che precisa nel modo seguente: la sociologia attualmente si occupa più di problemi interni (problemi sociologici) o di problemi di rilevanza collettiva (problemi sociali)? Pur essendo una distinzione esclusivamente analitica, il peso dell’uno o dell’altro versante influenza oggetto della ricerca e obiettivi che si intendono 2 Si vedano ad esempio gli articoli di Carlo Galli e Franco Ferrarotti su “la Repubblica”; Benedetto Vecchi e Francesco Antonelli su “il Manifesto”. 3 L’indicazione della pagina si riferisce al paper di Santoro. Lo stesso criterio sarà adottato con riferimento a Sciarrone. 4 Allo scopo è stata operata una trascrizione puntuale di circa quattro ore di Seminario.

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perseguire. In questo la distinzione riflette quella adottata da Alessandro Cavalli tra dimensione analitica (che identifica una disciplina in base a una specificazione di punto di vista rispetto al quale è possibile isolare una serie di aspetti rilevanti e trascurare una serie di aspetti non rilevanti) e dimensione concreta (combinata con la precedente nella misura in cui è possibile identificare la disciplina per una specificazione di campo – una serie di fenomeni – in cui gli aspetti rilevanti risultano prevalenti in base al punto di vista della disciplina stessa) (1972, pp. 155-156, cit. in Sciarrone). Secondo Cavalli, quando prevale la dimensione analitica la sociologia appare “residuale” e ausiliaria alle altre scienze; se invece prevale la dimensione concreta si assegna una più specifica designazione di campo. La tesi di Sciarrone è che, nel corso del tempo e per una tendenza connessa all’istituzionalizzazione accademica della disciplina, la sociologia si è sempre più occupata di problemi sociologici, valorizzando la propria dimensione analitica. Non mancano gli interventi che reclamano una crisi della capacità della sociologia di dire qualcosa sulla società5, ma che paventano una accentuata iper-specializzazione, sostenuta da fattori istituzionali – si pensi ai settori disciplinari – ma anche di opportunismo accademico, dalla mancanza di finanziamenti e dalla difficoltà di definire team interdisciplinari. Ciò condurrebbe a una crescente autoreferenzialità, che si arena in concettualizzazioni distanti dalla società6. Eppure resta auspicabile, come sostenuto dallo stesso Talcott Parsons, che la sociologia recuperi la capacità di “mediare tra la professione e il pubblico prendendo talvolta l’iniziativa e scendere nell’arena [senza ritirarsi sul] terreno degli interessi puramente tecnici” (in Martinotti 1972 cit. in Sciarrone). Anche Bagnasco, richiamandosi a Weber, ha osservato che l’intenzione scientifica della sociologia deve sapersi rapportare alla sua “rilevanza pratica” e l’uso pratico della sociologia deve essere “un impegno da valutare positivamente e da sostenere, non da rimuovere o rinviare ad altri” (2007, p. 183, cit. in Sciarrone).

5 Un aspetto centrale anche nelle uscite giornalistiche. Benedetto Vecchi ad esempio ha sostenuto che le “scienze sociali rappresentano oramai un corpus analitico che rifugge ogni tentativo di spiegazione dei conflitti e delle tensioni presenti nella società italiana”, e che evita di “confrontarsi con quel grumo di problemi che si riflettono su scala nazionale da quando il mondo si è accorto dell’alto grado di interconnessione tra la dimensione globale e quella locale. Le scienze sociali, e la sociologia in particolare, si riducono cioè a proporre lettura minimal della realtà italiana (“La società in pillole”, il Manifesto, 22.04.2010). 6 È da sottolineare che, in qualità di discussant, Ota de Leonardis ha in parte dissentito da questa impostazione. La studiosa condivide il rischio di finire in un circolo autoreferenziale, ma ne attribuisce le cause non tanto alla carenza di studi sui “problemi sociali”, quanto alla qualità della ricerca sociale. Citando il suo intervento: “a me pare che normalmente si studino i problemi sociali: chi studia la mobilità, chi studia la famiglia, chi studia la precarizzazione del mercato del lavoro ecc., sta studiando i problemi sociali. […] Qui il problema è se ci si occupa bene o male dei problemi sociali. Perché il modo di occuparsene male è non interrogarsi sulle proprie categorie di analisi, e cioè assumere le idee ricevute e spesso subalterne a un modo di classificazione delle questioni che hanno una matrice “amministrativa”, vedi la povertà. Questa è un’altra discriminante. È anche vero che in questo fare ricerca sui problemi sociali in modo irriflesso c’è effettivamente un rischio di restare chiusi in un circolo autoreferenziale. Maneggiare impianti categoriali e metodologie date per scontate è riprodurre un po’ sempre le stesse cose: qui possono configurarsi dei rischi di condanna alla irrilevanza”.

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Aspetti questi strettamente connessi alla presenza della disciplina nella sfera pubblica e al riconoscimento pubblico della sociologia. Che posizione occupa la sociologia tra i saperi esperti utili per la società? Pizzorno, nel citato Convegno del 1971, spiega che

ogni crisi di un’attività scientifica o intellettuale è innanzitutto crisi di

pubblico, cioè rottura o mutamento di un certo rapporto tra l’intellettuale, o il ricercatore, e il suo pubblico; è cioè crisi di comunicazione. Quando la si vede come crisi dei modi di fare ricerca, o come nuova difficoltà che sorge da nuovi oggetti della conoscenza, si è su una strada sbagliata. Se c’è crisi, ciò che è cambiato è il tipo di pubblico, il tipo di uditorio, e i modi di trasmissione del prodotto scientifico (Pizzorno 1972, p. 328, cit. in Sciarrone).

Se l’«uditorio interno» è oramai consolidato, si acuisce sempre più il rapporto

con quello esterno, rappresentato da «utenti e socializzandi» (ibidem). Rispetto a questi ultimi, come considera opportunamente Sciarrone, l’interesse dei sociologi italiani per la formazione e la didattica è andato scemando nel tempo, e non si rilevano riflessioni critiche e sistematiche sulla qualità della trasmissione del sapere sociologico7. Rispetto agli «utenti», è evidente il declino che tocca la figura del sociologo, in un contesto in cui la diffidenza verso la spiegazione sociologica si concretizza nell’uso sempre più diffuso del termine “sociologismo” per indicare in genere discorsi astratti o vacui, oppure meramente normativi. Una considerazione pubblica in crisi, e questo già dal 1972, quando Vittorio Capecchi sosteneva che “l’immagine più diffusa è quella di un distinto signore pass-partout, capace di intrattenere dal gioco del calcio alla droga e che ha solo l’hobby di intercalare il suo discorso con il termine «classi sociali»” (1972, p. 109, cit. in Sciarrone). Oggi, a mio avviso, non è cambiato nulla, se non che buona parte dei sociologi evita di parlare di classi sociali – in funzione antimarxista – preferendo l’intercalare più politically correct di “capitale sociale”. Da non dimenticare, poi, quegli studiosi che “si esibiscono sui media in qualità di tuttologi e in tal modo sono in effetti in competizione con altri tuttologi di diversa provenienza disciplinare” (Cavalli 2010, p. 659), e che sfruttano la propria popolarità per avere i fondi:

… i De Masi, i De Rita, Mannheimer, Pagnoncelli e simili usano la

loro presenza televisiva o mediatica per finanziare i rispettivi istituti e viceversa [si finisce così per contribuire] a quella circolarità autoreferenziale che contraddistingue la nostra cultura politica, cioè alla produzione di luoghi comuni a mezzo di luoghi comuni (Martinotti 2007, cit. in Sciarrone).

7 In questo quadro mi permetto di aggiungere che l’osservazione e l’interazione quotidiana con studenti di sociologia – in sede di corsi, di esami o di preparazione tesi – potrebbe aggiungere numerose evidenze empiriche dei risultati disastrosi che la generale negligenza nella trasmissione del sapere sociologico ha sui socializzandi, e non è un caso se “il numero di laureati in Sociologia (tre, quattro, cinque non importa) in grado di redigere e condurre un buon disegno di ricerca sia esiguo: molto esiguo” (Guido Martinotti, intervento sul forum Treccani).

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Ripartendo dal conoscenza per cosa? (contenuto e impatto rispetto agli aspetti sociali) e conoscenza per chi? (la crisi di pubblico) Sciarrone prova dunque a riflettere su come la ricerca scientifica si trasferisce sulla prassi. La situazione di crisi è di certo legata a un problema organizzativo interno alla comunità ma anche – e secondo l’Autore ancor più – ad aspetti intrinseci alla condizione del sapere sociologico in seno alla sfera pubblica, riconducibili a due debolezze strutturali. Da un lato, la popolarità della sociologia ha contribuito a diffondere l’idea che sia relativamente “facile” fare ricerca sociale, applicare metodi e tecniche della disciplina anche senza ricorrere al sociologo di mestiere. Dall’altro, lo statuto epistemologico, e il fatto che i sociologi devono precisare condizioni e limiti dei loro asserti scientifici, non rende particolarmente appetibili i risultati delle loro ricerche alla luce della configurazione e delle dinamiche che attualmente caratterizzano il dibattito pubblico e le arene mediatiche (p. 10). Un aspetto questo confermato anche da altri studiosi intervenuti nel dibattito, come Loredana Sciolla, che nella mattinata aveva paventato che “sono di gran moda immagini impressionistiche della società, pass-partout per ogni occasione, ben accolte dai media, che amano la semplificazione, dai politici, che le usano strumentalmente e – quel che è peggio – da molti sociologi”. Uno scenario in cui,

specialmente in Italia, il sociologo è surrogato dal professore di

estetica e dal comico. Niente da dire sulla professionalità di queste figure. Ma non hanno mai fatto una ricerca, come si dice, sul campo. E perché dovrebbero? A loro basta la battuta, la strizzatina d’occhio, il gesto. Non hanno bisogno di fare ricerca. Intuiscono. Vengono direttamente dalla «commedia dell’arte». Sono collegati con la più collaudata tradizione politica e culturale italiana: tradurre i problemi etici in atteggiamenti estetici; far ridere per dimenticare di piangere. Crozza e Benigni invece di Vilfredo Pareto o, più modestamente, Alfredo Niceforo, quello che aveva studiato la pellagra al Nord Est e di cui i nuovi ricchi di quelle parti farebbero bene a ricordarsi8.

E cosa fa la comunità dei sociologi? Non si pronuncia, è indifferente, oppure la

sua voce non trova spazio sufficiente per esprimersi? Rocco Sciarrone, come anticipato, risponde che “pare che siano più interessati a parlare al proprio «uditorio interno» curandosi poco di quello «esterno»”. E non risparmia una critica all’AIS:

È estremamente significativa l’assoluta incapacità dell’AIS di

esprimersi e prendere posizione su questioni che riguardano il riconoscimento pubblico e istituzionale della sociologia. L’Associazione professionale dei sociologi italiani non pare curarsi granché neppure della configurazione della disciplina nell’ambito dei nuovi ordinamenti didattici universitari e del riconoscimento della laurea magistrale in Sociologia nei concorsi pubblici (p. 9).

Un aspetto, questo della capacità del gruppo professionale di rappresentarsi

all’esterno, che è tra i fattori scatenanti quest’ultima ondata di riflessioni sullo stato 8 Franco Ferrarotti, Noi eravamo saliti in cattedra ma oggi un comico conta di più, “la Repubblica”, 01.05.2010.

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della sociologia. Guido Martinotti ha alimentato l’ormai noto dibattito inerente “La scomparsa della sociologia” sul forum Treccani proprio a partire da un esempio di debolezza istituzionale: il rifiuto del CNR di proseguire con l’adesione italiana all’European Social Survey, unico paese su 30. Un esempio che si inscrive nella politica nostrana di concentrare in un’unica sezione tutta la ricerca nelle scienze umane. E ancora, l’assenza della sociologia dal Piano Nazionale della Ricerca, come racconta efficacemente Emilio Reyneri nell’intervento che segue la presentazione di Marco Santoro:

La sociologia non c’è nel Piano Nazionale della Ricerca, non esiste,

non è citata. È citata in modo negativo la sociologia politica, ed è invece citata molto positivamente la scienza della politica. Per iniziativa personale ho scritto una mail e […] ho chiesto il motivo all’unica persona non scienziato duro che faceva parte del Comitato […]. Risposta: “comprendo la tua amarezza, però siccome la sociologia ai massimi livelli è mal rappresentata, cosa potevo fare di diverso?”

Riflessioni queste ultime che ci portano sul fronte «interno» della disciplina,

relativo alla configurazione di una «comunità scientifica» della sociologia italiana, tema centrale dell’intervento di Marco Santoro. Santoro imposta la discussione individuando quattro interrogativi: la sociologia italiana è una comunità? La sociologia italiana è scientifica? C’è posto per una comunità che sia scientifica in Italia e, in ultimo, esiste qualcosa come una “sociologia italiana”? Quattro aspetti che, rispettivamente, rimandano a quattro dimensioni analitiche: l’organizzazione sociale; lo statuto intellettuale della sociologia; il problema istituzionale e il problema dell’identità.

Santoro parte dall’ultima delle quattro dimensioni individuate, e apre con una prima lacuna della comunità sociologica italiana: l’amnesia delle origini. Gran parte dei sociologi italiani non studia o in molti casi ignora la letteratura classica italiana, emersa a cavallo tra XIX e XX secolo con Pareto, Mosca, Michels e poi con Sighele, Ferrero attorno alla “Rivista Italiana di Sociologia” (1897-1921) e alla scuola statistico demografica romana (Gini, Castellano, Vianelli), ben conosciuta oltre i confini nazionali. Oltre a un generale difetto di cultura storica, questa amnesia sembra collegata a un esercizio di negazione della continuità tra origini positiviste, fascismo e post-fascismo: la sociologia in Italia è rinata nel secondo dopoguerra in funzione antifascista (Abbagnano, Ferrarotti, Treves ecc.) e si è professionalizzata negli anni Ottanta in funzione antimarxista. Negare la continuità storica e ripudiare le origini nuoce sia al senso di comunità, “sia all’idea che ci possa essere una tradizione da difendere e da coltivare” (p. 4).

La divisione post-fascista intorno ai due poli – quello cattolico e quello laico e di sinistra – sembra persistere tutt’oggi e si sostanzia nelle rispettive “componenti” – quella cattolica organizzata nella SPE e quella laica del MiTo – cui si è aggiunta una Terza Componente; secondo Santoro, questa tripartizione compromette la configurazione stessa di una “comunità di sociologi” in Italia. Pur venendo meno la congiuntura da guerra fredda che priva le componenti della loro sovrastruttura ideologica, l’organizzazione e la vita associativa resta tripartita: le componenti hanno piena legittimità in seno all’AIS, hanno le loro riviste, le loro case editrici di riferimento, specifiche gerarchie sociali e intellettuali e, su tutto, loro code concorsuali. “Perché le componenti gestiscono di fatto, e ancor prima regolano, la

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gestione delle procedure concorsuali, inclusa la selezione di chi deve entrare nella professione e di chi deve fare carriera” (p. 7). Loredana Sciolla, in qualità di discussant, conferma questa impostazione delle componenti, considerate

… gruppi di potere, ammantati in passato di ideologia ma sono gruppi

di potere. Sono basati su criteri che con la scienza, comunque noi la definiamo, non hanno nulla a che fare. Le cosiddette componenti non sono scuole, non somigliano alle più antiche baronie che operavano gerarchicamente e anche meritocraticamente. Ma, da quando hanno perso il velo delle ideologie sono molto più simili a clan, dove il criterio prevalente è diventato quello dell’appartenenza.

Anche Alessandro Cavalli, intervenuto sul tema, ha condiviso l’idea dei clan,

ma interpretando la tripartizione in componenti alla luce di un elemento strutturale del sistema e aprendo una curiosa parentesi storica:

chi studia le professioni sa bene che nella gestione quotidiana delle

professioni è centrale il processo di cooptazione, ovvero come i gruppi professionali e le comunità professionali si riproducono nel tempo di generazione in generazione. Ora, si dà il caso che, per quanto riguarda le professioni accademiche in Italia, ci sia stato un meccanismo fortemente centralizzato a livello nazionale e fondato su meccanismi elettivi. È questo un elemento di struttura, e un sistema di cooptazione fondato su meccanismi elettivi ha forte tendenza a produrre dei partiti. Le componenti vengono quindi fuori da un meccanismo che produce effetti perversi. Il primo gruppo che si è organizzato è stato il gruppo dei cattolici, che non si sono mai auto-chiamati “cattolici”, […] oggi SPE, senza far riferimento esplicito al cattolicesimo. Sono nati perché i sociologi laici, nati sotto l’influenza della cultura anglosassone, rischiavano di monopolizzare il processo di cooptazione, e dunque c’era la necessità di difendersi. Siccome sono più capaci di difendersi che non gli altri gruppi, il loro gruppo non solo si è rafforzato, ma oggi è diventato quantitativamente egemone. E ha dato luogo, adesso sì, per difesa, agli altri gruppi di darsi un minimo di organizzazione. Ma […] sono dei clan, gruppi per organizzare le elezioni in occasione della formazione delle commissioni dei concorsi.

Tornando all’intervento di Santoro, pare che una tale configurazione

organizzativa, oltre agli inevitabili effetti sulla “comunità di sociologi”, intacchi anche la qualità dei saperi prodotti. I problemi principali sono almeno due: quello della condivisione di standard valutativi; quello della autoreferenzialità. Nel primo caso, come accennato, le componenti hanno proprie gerarchie interne, riviste di riferimento e, su tutto, propri standard di valutazione. Standard non condivisi che hanno effetti delegittimanti non solo tra gruppi (es. le gerarchie tra i cattolici non sono condivise dal MiTo) ma anche all’interno del gruppo, dal momento in cui è quasi impossibile metterli in discussione,

come emerso alla prima plenaria AIS di giovedì scorso, dove dopo 4

relatori impegnati su un tema importante come Modernità multiple e democrazie, si è atteso un quarto d’ora per sentire il primo […] intervento dal pubblico. Le riviste – che come abbiamo detto sono organiche a

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qualche componente, di fatto quando non formalmente – non sono che molto raramente sede di dibattito e di confronto, e quando lo sono è spesso non fra esponenti di componenti diverse, ma all’interno della medesima componente (p. 10).

In generale, l’assenza di qualità e quantità di dibattito e conflitto argomentato

appare in tutta la sua evidenza nel rifiuto diffuso di formule valutative più imparziali, come la peer review. A tal proposito Emilio Reyneri, intervenuto su questo punto, aggiunge altre informazioni interessanti:

Io inviterei a leggere uno dei criteri degli standard internazionali,

ovvero le pubblicazioni su riviste con peer review. Si lamentava che gli italiani pubblicano pochi articoli su riviste, specie internazionali, e invece valanghe di pubblicazioni di quelle in cui c’è Luhmann all’inizio e poi la ricerchina su Borgotaro o su un paesino sotto la propria abitazione. Qual è stata la reazione: applicare i criteri diametralmente opposti. Abbiamo visto come si sia arrivati nelle valutazioni suggerite dalla solita cupola, che privilegiano le monografie […], unica tra le scienze sociali, tranne la filosofia. Invece gli economisti e gli psicologi si sono dotati di standard internazionali. E questo aumenterà la perifericità e la provincializzazione della ricerca sociologica italiana, che predilige la pubblicazione dei mattoni, e invita i giovani a pubblicare i mattoni invece che competere su una rivista internazionale.

Su questo punto mi permetto di richiamare l’esperienza diretta di chi si trova a

vivere sulla soglia dell’Accademia. Non è raro vedere colleghi affannarsi per pubblicare in fretta le loro tesi di dottorato, quasi a confezionare pacchi di fotocopie da inviare a commissioni di concorso che difficilmente le leggeranno. La stessa febbrile corsa a pubblicare propri trafiletti su riviste come Accenti, nate per altri scopi ma dotate del preziosissimo ISSN, può essere in molti casi inscritta in questa frenetica collezione di fotocopie. Ovviamente, complice più o meno consapevole di questo allarmante degrado è la schiera di case editrici “succubi del mondo accademico […] meri stampatori purché vengano garantiti da un contributo economico o un’adozione didattica. È raro trovare nelle redazioni delle case editrici, o tra i referee delle riviste, interlocutori in grado di identificare i punti deboli di un prodotto, suggerire integrazioni, stimolare in maniera critica ma competente la revisione di qualche parte […] le case editrici e le riviste sono invece una sorta di “braccio armato” di qualche consorteria”9.

Sempre sul fronte della qualità della valutazione un altro tra gli intervenuti, Maurizio Pisati, sostiene l’esistenza di un vero e proprio tabù della valutazione pubblica, poiché

nessuno vuole essere valutato e pochissimi vogliono valutare. Alzi la

mano chi conosce una recensione di un libro in una rivista italiana che è particolarmente dura. Io ho smesso di leggere le recensioni perché è come leggere le schede dell’editore, la quarta di copertina. [Qualcuno che, ndr]

9 Intervento di Paolo Volonté su forum Treccani. È quasi ovvio sottolineare, come fa lo stesso Volonté nel suo intervento, che non tutti gli editori seguono questa impostazione, anche se le eccezioni sono purtroppo assai rare.

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mi sappia dire quanti sono gli articoli critici in cui si fa nome e cognome e si dice: questo ha detto una cazzata […]. È così, la sociologia italiana, dal punto di vista qualitativo è abbastanza scarsa […]. Questo è lo spirito che vige nella nostra disciplina: silenzio, è questo il tabù.

A questo punto è chiaro il rischio della autoreferenzialità della conoscenza

proposta, dal momento in cui la produzione scientifica appare spezzettata secondo logiche non scientifiche e solo riconducibili all’appartenenza all’una o all’altra componente. Alcuni “oggetti” di studio (es. media, cultura, comunicazione) sono appannaggio più di una certa componente (in tal caso la SPE) e meno di altre. Ma persino i riferimenti teorici prevalenti sembrano seguire una logica di componente; come spiega Santoro:

Bourdieu va forte nella terza componente e malissimo nel MiTo, dove

predominano Boudon o Goldthorpe; Bauman tira molto tra i cattolici, un tempo fedelissimi di Parsons e poi di Luhmann ecc. Qualcuno ha successo in più di una componente – come accadeva per Parsons e come è adesso per Boltanski (che in quanto cattolico piace a certi cattolici e in quanto sociologo critico piace a certi del MiTo) (p. 9).

Sembra pertanto che siamo di fronte non a una rivalità tra scuole su temi

scientifici (approcci, metodi, visioni del mondo), ma a una coesistenza di gruppi autoreferenziali con pratiche interne consolidate e pressoché totale assenza di confronto intellettuale, il cui unico scopo è il controllo di risorse organizzative (i concorsi), economiche (i finanziamenti) e mediatiche (le riviste). Sul tema della distribuzione dei fondi di ricerca, Antonio Chiesi è intervenuto nel dibattito raccontando la propria esperienza:

ho fatto parte del panel del PRIN10 […] e anche lì ho visto che la

logica è sempre la stessa. All’inizio c’è un peer review cieco, che permette di differenziare. Ed è interessante analizzare le diverse strategie. I commissari che valutano alla cieca talvolta sanno – perché si capisce perfettamente da certe parole chiave – automaticamente chi è il candidato assegnando un voto alto. In altri casi non è così facile, e alcuni danno un voto medio, in modo che solo quando c’è la possibilità di sapere chi è allora si dice che ci sono stati degli errori. E quindi uno che doveva passare ed è stato giudicato male perché effettivamente la qualità era bassa, anche con grandi difficoltà si farà rientrare nell’elenco.

Sul tema del controllo delle Riviste, che informa della pervasività di questa

strategia spartitoria, è esplicativo l’aneddoto raccontato da Emilio Reyneri:

Ricordo, 5 o 6 anni fa, in una di quelle trattative dell’AIS cui ho preso parte, ahimè, per eleggere direttivi eccetera. A un certo punto un noto

10 Il riferimento è ai “Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale”, proposti annualmente dalle Università e cofinanziati dal Ministero dell’Istruzione e dell’Università (MIUR). Questa specifica potrebbe sembrare superflua, ma ho deciso di inserirla proprio per rivolgere questo scritto a un “uditorio” diversificato ed evitare che un semplice acronimo contribuisse alla già lamentata distanza dal pubblico, della quale (come emerso) la disciplina sociologica appare poco attenta.

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esponente, anzi il top di una componente, ha detto: “noi siamo un terzo della sociologia, dovete darci un terzo delle redazioni della Rivista Il Mulino”. Dunque, siamo un terzo, nelle redazioni noi non ci siamo, democrazia, dovete darci un terzo delle riviste. Questa è la mentalità.

In questo quadro esiste ancora lo spazio per una comunità che sia scientifica in

Italia? Santoro sostiene che le difficoltà in tal senso sono di diversa natura, e non possono non dipendere anche dalla localizzazione spaziale del campo sociologico italiano. Esiste prima di tutto il problema della lingua: gli spazi possibili dell’italiano sono limitati e limitanti e – a meno che non si faccia come gli svedesi o gli olandesi – il rischio è di riversarsi esclusivamente sul versante nazionale, con conseguenze immaginabili: “piccolo paese, piccolo mercato editoriale, il che dà forza agli editori prezzolati, lingua poco conosciuta, il che dà spazio a libri che non portano nulla se non traduzioni di cose che circolano altrove da tempo” (p. 16). Poi c’è la questione dell’Accademia e del suo assetto istituzionale, con le sue disfunzioni, la sua penuria finanziaria e il suo persistente policentrismo, in cui risulta impossibile stabilire gerarchie intellettuali e di merito tra le sedi universitarie, e in cui si cancella ogni mobilità territoriale e si alimenta il provincialismo. E proprio qui accade un paradosso, laddove poca mobilità geografica, solidarietà forte in gruppi ristretti e stabili e legami parentali e di vicinato creano quasi un eccesso di comunità: la cattedra. Forma tipicamente accademica di clientelismo, è il fulcro della consorteria locale, con a capo il “professore”, appellativo utilizzato anche tra colleghi per “designare il boss di turno, normalmente non molto dotato di capitale scientifico ma forte di capitale sociale e politico” (p. 12). La cattedra rappresenta una forma di patrimonialismo, è proprietà personale di chi la occupa, che è anche chiamato a difenderla da possibili sfide esterne: di qui la scelta di colleghi non competitivi, mediocri, che a loro volta si circondano, per lo stesso meccanismo, di personalità a loro inferiori. E così tra i corridoi incontriamo “studiosi senza né arte né parte, che non sanno e non leggono, che non scrivono e se scrivono si sarebbe desiderato non lo facessero, persino pericolosi come docenti per la loro ignoranza” (ibid.). Ma, per di più, proprio a chi investe in relazioni e nella sottomissione al boss spettano discreti poteri di reclutamento grazie al controllo dei concorsi, che rappresentano

… assegnazioni ex post di posti la cui titolarità è pre-decisa sulla base

di una logica spartitoria […] dal punto di vista del concorrente a ogni concorso si fa il conto non con gli altri concorrenti iscritti […] ma con i concorrenti delle altre componenti che hanno il loro posto nella loro specifica coda, e che possono anche valere la metà di te ma se nella loro coda sono in testa e se la loro componente risulta vincitrice nei rapporti di alleanze e/o di forza, allora il posto va all’altro e non a te, non solo con le beffe ma anche con il danno perché poi bisogna pur argomentare questa graduatoria e allora dai con aggettivi del tipo “non ancora pronto”, “acerbo” ecc. (p. 11).

Ancora Antonio Chiesi, intervenuto sul tema, individua nella selezione avversa

il principale e più deleterio effetto di questo sistema concorsuale. Nonostante l’introduzione del sorteggio per la formazione delle commissioni dei concorsi – che

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stempera il criterio elettivo oramai fatto proprio dalle componenti – resta il problema della doppia idoneità a livello locale:

… perché sapete benissimo e tutti noi che siamo stati in concorsi

sanno, che con un sistema di questo tipo al di là della questione delle componenti, chi bandisce ha l’assicurazione che il proprio candidato locale comunque passa, e in genere è statisticamente il peggiore, in cambio della seconda idoneità che va a quella componente che in quella commissione ha maggiori voti. È un sistema che funziona come un orologio, nessuno lo mette in discussione. Perché è il modo più chiaro per chiudere la commissione e arrivare alla identificazione dei vincitori […]. Per i ricercatori c’è invece un solo posto, e questo crea maggiore conflitto – come qualcuno di noi ha già sperimentato – perché rimane forte quel che è stato chiamato ius loci e se le commissioni non sono favorevoli si apre il conflitto. Fino a che questo sistema complessivo andrà avanti la selezione avversa tenderà a essere forte.

Difficile ricercare soluzioni in un sistema tanto perverso quanto condiviso al

suo interno, ma Santoro propone comunque una gerarchia di rimedi, sia individuali (emigrare, pubblicare su riviste internazionali e cooperare con studiosi stranieri) che collettivi (valorizzare la storia intellettuale italiana, promuovere e insegnare solo ricerca metodica), ai quali si aggiunge la necessità di abolire gli assi portanti dell’attuale modello organizzativo: superare l’AIS, riorganizzare la disciplina attorno a un’altra associazione valorizzando chi si è tenuto fuori dai giochi attuali, destrutturare la tripartizione in componenti, rifiutare pratiche concorsuali non meritocratiche. Rimedi, questi ultimi, di difficile applicazione, che secondo Santoro potrebbero essere realizzati solo con coraggio e intransigenza, e affidandosi a chi merita: “La scienza è meritocratica, e per sua natura gerarchica e gerarchizzante: ci sono i grandi e i mediocri, ci sono gli innovatori e i seguaci” (p. 19). Ai talentuosi, pochi eletti consapevoli dell’importanza della disciplina e della professione, il dovere del coraggio e della intransigenza? Una proposta senza dubbio intrigante, che amplia lo spettro delle soluzioni spesso ancora centrate sulla necessità di rafforzare la nostra rappresentanza istituzionale, o di “battere i pugni sui tavoli” per non sparire dal panorama delle scienze umane11.

Ma la vera sfida resta a mio avviso etica e individuale. Sostenere la funzione pubblica e sociale del sapere sociologico vuol dire praticare quotidianamente il proprio ruolo con massima dedizione, rifiutando la tendenza dominante ad afferire all’Università con la mentalità da funzionario di medio livello. Occorre avere presente che il trasferimento dei saperi sociologici è una responsabilità notevole, che l’impegno costante nell’accompagnare i socializzandi nei loro percorsi di tesi è un contributo alla crescita collettiva, che l’attenzione nell’esaminare i candidati non è inutile severità ma correttezza nei confronti di chi, ricevendo un buon voto, eleva le proprie aspettative professionali e di vita verso un inesistente standard di “Laureato”. Ma occorre anche non tollerare come date per scontate le continue scorrettezze e ingiustizie che si registrano quotidianamente, dibattere e non abbassare la guardia, mettersi in discussione e leggere, leggere molto. E poi monitorare e pretendere dal corpo docente il recupero di ragionevoli standard di

11 Intervento di Guido Martinotti su forum Treccani.

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qualità nella selezione delle risorse, nella pratica didattica, nell’attività di ricerca. Il richiamo al dibattito sulla crisi tuttora in corso, scopo ultimo di questo contributo, rappresenta pertanto un invito all’uditorio interno a considerare la mobilitazione generale in difesa dell’Università dalle “decisioni assurde degli organi di governo della ricerca”12 come momento di ridiscussione del proprio consistere, una “riflessione critica nei confronti delle strutture sociali tramandate su cui si fonda la propria disciplina (strutture che come abbiamo detto sono intrinsecamente anti-professionali), che poi sono per molti versi solo un microcosmo della società italiana in generale” (Santoro 2007, p. 9). Dunque critica ma anche autocritica, protesta ma anche onestà intellettuale. Con le parole di Franco Ferrarotti

.. non c’è, a mio sommesso parere, contraddizione fra la critica, anche

dura e radicale, alla scuola di élite di ieri e il rifiuto odierno del pressappochismo e del facilismo demagogico di quei professori che hanno perduto la fede nel loro lavoro13.

Bibliografia

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Boudon R. (2002), “Sociology that Really Matters”, European Sociological Review, n. 18, pp. 371-378.

Burawoy M. (2005), “For Public Sociology”, American Sociological Review, n. 70, pp. 4-28.

Cavalli A., della Porta D., Donati P. e Rositi F. (2010), “Sulla sociologia italiana”, Rivista il Mulino, n. 4, pp. 655-669.

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Repubblica, 01 maggio 2010. Ferrarotti F. (1990), “Ecco come nasce il gangster accademico”, L’Unità, 4 giugno 1990. Goldthorpe J. H. (2004), “Sociology as Social Science and Cameral Sociology: Some

Further Thoughts”, European Sociological Review, n. 20, pp. 97-105. Lee A.M. (1976), “Sociology for Whom?”, American Sociological Review, n. 41, pp. 925–

936. Lynd R. (1939), Knowledge for What? The Place of Social Sciences in American Culture,

Princeton University Press, Princeton (NJ). Pellizzi C. (1965), “Migrazioni interne”, Rivista Italiana di Sociologia, n. 1, pp. 3-6. Rossi P. (1972), a cura di, Ricerca sociologica e ruolo del sociologo, il Mulino, Bologna. Santoro M. (2010), Esiste una comunità scientifica per la sociologia italiana?, paper

presentato al Seminario “Ruolo della sociologia e professione del sociologo”, organizzato da Rassegna Italiana di Sociologia, Università di Milano-Bicocca, Milano, 1 Ottobre 2010.

Santoro M. (2007), “Per una sociologia professionale riflessiva (solo così anche pubblica)”, in Sociologica, n. 1, 2007.

12 Intervento di Arnaldo Bagnasco sul forum Treccani. 13 Franco Ferrarotti, “Ecco come nasce il gangster accademico”, “L’Unità”, 4 giugno 1990.

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Sciarrone R. (2010), La sociologia studia ancora la società?, paper presentato al Seminario “Ruolo della sociologia e professione del sociologo”, organizzato da Rassegna Italiana di Sociologia, Università di Milano Bicocca, Milano, 1 Ottobre 2010.

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Le “performance” dell’Università italiana di Ivano Scotti

Introduzione

“L’Università italiana non funziona. Non c’è spazio per l’eccellenza, tutto è controllato dai baroni. Gli studenti universitari italiani non hanno una buona formazione, per questo non possono ambire a occupare posizioni di rilievo nel mondo del lavoro e non reggono il confronto a livello internazionale. Le riforme sull’Università non sono adeguate, ecc.”.

Spesso è questo l’insieme delle idee che circolano nell’opinione pubblica italiana sul sistema accademico nazionale, ma quali sono le performance e i risultati dell’Accademia italiana? Quanto siamo diversi dagli altri Paesi europei? I laureati italiani che chance hanno nel mercato del lavoro interno e quanto sono diversi dai colleghi europei o statunitensi?

Questo breve articolo, pur non potendo offrire risposte esaustive, vuole porre attenzione a taluni dati e considerazioni che possano consentire di avere un quadro sullo stato dell’Università italiana, osservando da un lato i dati sull’Università, sulla sua struttura di comando e sul posto che ha nelle statistiche internazionali, dall’altro ponendo attenzione agli esiti occupazionali e di reddito di laureati e dottori di ricerca che escono dagli atenei italiani.

Il fine di questo contributo è quindi quello di offrire una serie di dati e ragionamenti utili ad orientarsi nel dare un giudizio complessivo sulla condizione in cui versa il mondo universitario italiano.

1. L’Università italiana nel confronto internazionale

Le riforme sono un fatto quasi strutturale nella vita politica italiana degli ultimi 20-25 anni. Nel nostro Paese dalla fine della cosiddetta Prima Repubblica si sono susseguite molte riforme, spesso parziali e non capaci di modificare totalmente le istituzioni, ma che hanno avuto l’intento di ammodernare un sistema-paese sclerotizzato da una gestione della cosa pubblica poco efficiente. Il sistema istituzionale italiano, cioè, ha visto il tentativo di essere modificato nel suo complesso da parte della “nuova” politica post-pentapartito per dare alla Nazione un assetto capace di rispondere alle domande di competitività che l’economia mondiale poneva con evidenza.

Malgrado quanto detto appaia, o possa apparire, retorico, è evidente che la recente storia politica italiana si sia giocata su queste parole d’ordine, peraltro molto sentite dall’opinione pubblica. Da un lato è ormai chiaro che la spesa pubblica italiana sia stata spesso fuori controllo ed incapace di incidere sui processi che avrebbe voluto controllare proprio per una sua gestione poco chiara e trasparente; dall’altro è altrettanto evidente come molte delle polemiche e contestazioni nate intorno a questo tema siano state utilizzate da un po’ tutte le forze politiche della Seconda Repubblica, nel tentativo di accaparrare il consenso dei ceti più sensibili alla questione e lasciati senza rappresentanza dallo

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sfaldamento della Democrazia Cristiana, il maggiore partito politico italiano (Incorvati, Marcelli, 2010; Ignazi, 2008).

In questo contesto nascono le molte riforme dell’Università italiana. Queste riforme hanno tentato, a torto o a ragione, di rendere il più alto grado del sistema formativo italiano competitivo e capace di produrre conoscenze, sapere e esternalità positive per le imprese, la pubblica amministrazione, un tentativo in breve, che si impegnava dell’onere di tentare l’innalzamento delle sue performance.

È infatti noto che le prestazioni delle Università italiane non siano delle più eccellenti, del resto l’ultimo rapporto QS World University Rankings del 2010, che valuta le prime 500 Università del mondo, vede gli atenei italiani collocarsi, nella graduatoria stilata, in posizioni non elevate. A questo si aggiunga come non sono peraltro molte le Università che brillano in ambiti disciplinari particolari. L’Università di Bologna, ad esempio si posiziona al 46° posto ed è l’unica italiana nelle primi cinquanta nel settore Arts and Humanities, mentre nessun ateneo italiano è presente tra le prime cinquanta nel campo Engineering and Technology (il Politecnico di Milano, primo ateneo italiano in classifica, è al 60° posto) e in quello Life Sciences and Medicine (la prima italiana, al 144° posto, è l’Università di Milano). Altre due sono le Università italiane citate nel rapporto che si posizionano tra le top-fifty, l’Università di Roma “La Sapienza”, che è valutata come trentesima nel settore Natural Sciences, e l’Università Bocconi di Milano, al 48° posto nel campo della Social Sciences and Management. Nel complesso, senza cioè considerare le diverse specializzazioni, l’Università di Bologna si posiziona al 176° posto, seguita da “La Sapienza” di Roma al 190° e l’Università di Padova alla 261° posizione. Per trovare la prima Università del Mezzogiorno dobbiamo scendere al 448° posto, dove è collocata l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

I dati ci restituiscono pertanto un quadro complessivo sicuramente non eccellente del sistema universitario italiano, ma non possiamo certo asserire che sia totalmente di pessima qualità. Il nostro sistema, in base ai parametri utilizzati in queste valutazioni internazionali, sicuramente opinabili e discutibili1, segna sicuramente il passo con le altre Università dei maggiori Paesi dell’Unione Europea, come Francia o Germania. Questo ci pare evidente, ad esempio, osservando la posizione che occupano in questa classifica le prime cinque Università di tre Paesi che hanno contribuito a fondare quella che poi sarebbe divenuta l’Unione Europea (tab. 1).

Il sistema italiano, però, non è scevro da ottimi risultati. Se le analisi scientifiche dovessero confermare i risultati ottenuti, ad esempio, in Italia si sarebbe sviluppato il primo sperimentale reattore nucleare a fusione fredda funzionante, un risultato tanto importante da rimettere in discussione persino assiomi della fisica ormai dati per scontati. Questo sarebbe in parte anche un risultato del sistema universitario italiano2. 1 Per avere maggiori informazioni sui criteri utilizzati si vedano le note metodologiche al link http://www.topuniversities.com/university-rankings/world-university-rankings oppure per brevità si veda la voce su Wikipedia, http://en.wikipedia.org/wiki/QS_World_University_Ranking. 2 Si veda Venturi Ilaria, “Fusione nucleare a freddo. A Bologna ci siamo riusciti”, «La Repubblica, Bologna», 14/11/2011.

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In linea generale, tornando alle statistiche internazionali, appare evidente che le rilevazioni sulle prestazioni dell’accademia ci restituiscono un quadro non molto entusiasmante dell’Università Italiana, ma non così povero come spesso sembra essere.

Tab. 1 – Posizione (rank) internazionale dei primi cinque Atenei italiani, francesi e tedeschi.

Italia Francia Germania

Rank Ateneo Rank Ateneo Rank Ateneo

176 Università di Bologna 33 École Normale Supérieure, Paris 51 Ruprecht-Karls-

Universität Heidelberg

190 Università “La Sapienza” di Roma 36 École Polytechnique 58 Technische Universität

München

261 Università di Padova 118 Université Pierre and Marie Curie (UPMC) 66 Ludwig-Maximilians-

Universität München

295 Politecnico di Milano 139 École Normale Supérieure Lyon 70 Freie Universität

Berlin

300 Università di Pisa 186 Université Paris Sorbonne, Paris IV 97 Universität Freiburg

Fonte: QS World University Rankings, 2010. È però evidente che una differenza fondamentale sia percepita e persino

argomentata in diversi lavori tra il nostro mondo accademico e quello di altri Paesi, specie quello inglese e statunitense. La differenza sostanziale tra il mondo universitario italiano e quello straniero sembrerebbe essere la presenza di un vero e proprio ceto di accademici capace di controllare, con una certa facilità, concorsi, carriere e l’intera vita dell’Università in Italia (Carlucci, Castaldo, 2009; Fassari, 2009; Gardini, 2009; Giglioli, 1979; Regini, 2009; Sylos Labini, Zapperi, 2010).

Nel gergo comune questi soggetti, per lo più docenti ordinari, maschi di mezza età se non prossimi al pensionamento, sono definiti baroni. Il termine ha ovviamente una connotazione negativa, ma è poco credibile pensare che questa condizione sia solo una caratteristica dell’Italia. Molte sono infatti le similitudini, stando ad alcuni lavori di ricerca, tra noi e gli altri Paesi europei, come ad esempio la Francia (Boffo, Dubois, Moscati, 2006; Trombetti, Stanchi, 2010), ma il nostro modello avrebbe delle peculiarità che lo renderebbero diverso.

Le riforme e i profondi mutamenti intervenuti nell’Università italiana, ad esempio, hanno trasformato gli atenei italiani da istituti per le élite, tipici delle società borghesi dei primi del Novecento, ad Università di massa, sicuramente necessari ad un Paese che aveva necessità di forza-lavoro qualificata per innovarsi, implementando modelli gestionali, organizzativi e di analisi provenienti dagli Stati Uniti nel dopoguerra, in breve, per poter divenire un Paese al passo con i tempi. In questo percorso, nota però Graziosi (2010), si è ridotta progressivamente l’attesa e la tensione del mondo accademico italiano verso l’eccellenza dei propri studenti e della ricerca.

Interessi corporativi e buone intenzioni si sarebbero cioè spesso saldati, producendo un degrado progressivo della formazione universitaria. Lo stesso

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proliferare di corsi di laurea, master, insegnamenti, poco spendibili nel mercato del lavoro, ma capaci di produrre incarichi da distribuire in modo più o meno discrezionale a promettenti allievi di una cattedra, ne sono un esempio. Questo stato di fatto, se da un lato può essere considerato come vizio antico del ceto accademico italiano, dall’altro non ha una logica necessariamente perversa. Una scuola di pensiero all’interno di una accademia – si pensi ad esempio alla Scuola di Francoforte, a quella di Chicago, a Palo Alto, ecc. – si può costruire solo se intorno ad un progetto di ricerca si riuniscono studiosi che hanno un comune interesse e condividono saperi, risultati di studi, esperienze di ricerca e producono una letteratura specifica. In questo caso il caposcuola è sicuramente un nodo fondamentale per gli “allievi”, non solo per la loro carriera accademica, ma anche per lo sviluppo della conoscenza, che non sempre avviene senza conflitti, ad esempio sull’impostazione teorica tra i diversi componenti della scuola. In Italia questa logica non sembra funzionare ovunque e spesso la figura del caposcuola sembra essersi trasformata in quella di “barone”; tuttavia, come già detto, questa non sembrerebbe essere una peculiarità italiana.

La differenza fondamentale con gli altri Paesi europei, cioè, non risiederebbe sostanzialmente nel ceto accademico quanto, si sostiene ad esempio in un lavoro curato da Regini (2009), nell’atteggiamento di opinione pubblica, media e Governi verso l’Università. All’estero, cioè, la preoccupazione per la perdita di competitività del sistema-paese, e quindi dell’Accademia, avrebbe determinato una maggiore attenzione e selettività negli investimenti di ingenti risorse pubbliche per porre rimedio, non tanto al sistema di potere dell’accademia in sé e per sé, ma alla competitività delle strutture universitarie e della ricerca di base. All’estero, cioè, si sarebbero attuate politiche di miglioramento puntando su segmenti particolarmente importanti per la crescita e lo sviluppo economico del XXI secolo.

Nel nostro Paese, invece, le evidenti carenze e lacune diventano per lo più pretesto per un’ulteriore diminuzione dei già pochi investimenti nella ricerca, cioè nella produzione di sapere e know-how che nella competizione globale potrebbero risultare sicuramente strategici (Sylos Labini, Zapperi, 2010). A conferma di ciò si osservi come dal 2004 al 2008, secondo i dati Istat, la spesa media per addetto del comparto ricerca e sviluppo computabile all’Università italiana vede una riduzione di circa il 15% dell’impegnato, mentre altri partner europei investono in maniera sostenuta, specie nei comparti scientifici e tecnologici. Un dato piuttosto interessante è quello della spesa in ricerca e sviluppo dei soggetti che non sono imprese in Europa. In Italia questo dato, al 2008, è inferiore del 13% rispetto al Regno Unito, del 23% nei confronti della Francia, del 27% rispetto alla Germania ed inferiore del 16% della media dell’UE a Ventisette.

Il testo-denuncia di Carlucci e Castaldo (2009) collega invece in modo più forte lo stato di difficoltà in cui versa l’Università italiana al ceto accademico, mettendo in secondo piano la questione dei finanziamenti. Secondo gli Autori, che hanno condotto una inchiesta intervistando ricercatori precari, professori italiani all’estero, ecc., in Italia, malgrado esistano sacche di eccellenza e meritocrazia, ci si trova di fronte ad un vero e proprio regime basato più sull’obbedienza che sul merito, con la presenza di forti gerarchie nazionali per cui ogni disciplina è organizzata e gestita da una oligarchia che condiziona non solo le carriere, ma che valuta l’attendibilità di un lavoro scientifico con criteri spesso opinabili. Un sistema, sostengono gli Autori del libro, sostanzialmente accettato dalla maggior

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parte dei neofiti ed in cui la cosa importante è rispettare le gerarchie. Un mondo in cui l’impegno didattico del docente ricade su ricercatori e collaboratori e dove sarebbero peraltro evidenti le lobby dei diversi orientamenti politici e delle gerarchie ecclesiastiche (Comunione e Liberazione, Opus Dei, ecc.) nella gestione dell’accademia italiana.

Volendo superare le facili polemiche e tentando di fare una analisi più puntuale, è chiaro, stando alla letteratura, che in Italia si sia di fronte ad un sistema universitario meno produttivo dei maggiori partner europei per due motivi. In primo luogo è evidente che esista un corpo docente organizzato in gruppi professionali distinti per campi disciplinari3 che nella storia del nostro Paese ha tuttavia raggiunto una capacità discrezionale molto alta tale da consentirgli, nelle quotidiane pratiche di lavoro e nella vita stessa dell’organizzazione di cui è dipendente, di poter utilizzare le norme in modo molto più libero di quanto potrebbe accadere per l’idealtipo del professionista dipendente. Da questo punto di vista la sociologia potrebbe essere utile a capire le dinamiche che hanno determinato questo stato di fatto analizzando, con due prospettive teoriche diverse, da un lato il gruppo del ceto accademico e dall’altro l’insieme del sistema universitario. Nel primo caso sarebbe sicuramente proficuo utilizzare le categorie di “campo” e “habitus” di Bourdieu (1994).

È noto come il concetto di “campo” possa essere definito come una configurazione di relazioni oggettive tra posizioni. Tali posizioni costituiscono dei condizionamenti ai soggetti che le occupano, poiché rappresentano la struttura distributiva delle diverse specie di potere (o capitale) il cui possesso governa l’accesso a specifici ambiti di possibilità d’azione e contemporaneamente stabiliscono le relazioni oggettive che questi soggetti possono avere con altri soggetti in diverse posizioni (dominio, subordinazione, omologia). Ciascun campo ha un sistema di relazioni definite in funzione delle dinamiche di produzione, scambio e distribuzione del potere specifico e poiché i campi si strutturano storicamente, vanno indagati nei meccanismi di costituzione e di sviluppo come dei casi unici la cui logica interna regola e influenza degli altri spazi sociali. In breve, sostiene Wacquant (2004), il campo è una configurazione relazionale dotata di una gravità specifica, cioè un sistema strutturato di forze oggettive che il campo è in grado di imporre agli oggetti e agli agenti che sono coinvolti.

Bourdieu introduce però anche il concetto di habitus, che qui per brevità possiamo definire come “struttura strutturante” che organizza i vissuti, le pratiche e le rappresentazioni del mondo degli attori, ma anche “struttura strutturata”, in quanto quei modelli interpretativi, valutativi ed espressivi rimandano a specifiche coordinate, sia di spazi sociali che di tempi storici. Stando a ciò, che relazione sussiste tra campo e habitus? La relazione tra campo ed habitus è innanzitutto una relazione di condizionamento, poiché il campo struttura l’habitus che è il prodotto dell’incorporazione della necessità immanente di quel campo; tuttavia la relazione tra campo e habitus è anche una relazione di costruzione cognitiva, poiché l’habitus

3 Caratterizzato quindi da tutti quegli elementi tipici di questo particolare tipo di lavori e dal modello di regolazione specifico, si pensi alla chiusura sociale, alla difficoltà di accesso al ruolo, alla condivisione interna di un sapere esperto legittimo, ai riti, alla funzione nomica del ruolo e alla costruzione dell’identità del soggetto (Freidson, 2001; Giannini, 2003; Giannini, Minardi, 1999).

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contribuisce a costituire il campo come significato, come elemento dotato di senso e di valore, per il quale i soggetti reputano importante essere attivi.

È piuttosto evidente come con questo bagaglio concettuale sia possibile analizzare il campo accademico italiano, l’habitus del corpo docente ed i percorsi storicamente intrapresi dall’Università italiana per comprenderne il suo strutturarsi e la sua riproduzione. Gli attori del campo sono ovviamente sia istituzionali (lo Stato) che attori collettivi (i movimenti studenteschi, le associazioni nazionali di una certa disciplina, ecc.) i quali occupavano particolari posizioni nel campo dell’Accademia e che nel corso del tempo hanno giocato ruoli diversi. Una analisi di questo tipo, come appare evidente, necessiterebbe di molto più spazio e di una mole di dati di cui non disponiamo in questa sede; tuttavia è chiaro come tale impostazione possa essere utile a gettar luce sul caso in esame.

Interessante sarebbe prendere in considerazione anche quanto espresso da Crozier (1995) nello studio delle organizzazioni e sulla difficoltà che incontrano i gruppi che le governano a riformarsi. Se l’approccio di Bourdieu osserva le relazioni e le dinamiche sociali tra gli attori che si strutturano in un campo, proponendo una teoria sociale di ampio respiro, Crozier si concentra sull’analisi della struttura organizzativa. Il maggior contributo di Crozier allo studio delle organizzazioni sta nell’aver individuato l’autonomia dei soggetti rispetto al sistema di regole e controllo della struttura. Questi osserva come i soggetti che lavorano all’interno di una organizzazione siano capaci di sviluppare delle strategie per tentare di tutelare quelli che reputano i loro interessi, seguendo una razionalità privata spesso antitetica a quella dell’organizzazione. A livello aggregato queste razionalità individuali possono determinare dei circoli viziosi, cioè dei processi degenerativi di malfunzionamento dell’organizzazione stessa.

È evidente come in questa impostazione il potere sia la capacità da parte dei soggetti di controllare i margini di incertezza presenti nei propri rapporti con gli altri soggetti e che derivano dagli spazi lasciati scoperti dall’impalcatura normativa dell’organizzazione stessa. Negli spazi di imprevedibilità che la razionalità organizzativa non contempla, si anniderebbe il potere. Ciò mette in evidenza come l’autorità formale non sia necessariamente coincidente con il potere, inoltre le analisi empiriche effettuate da Crozier evidenziano come chi detiene questo potere dato dai margini di incertezza, tenda a conservarlo, mentre chi lo subisce tenta di eliminarlo o ridurlo. Le organizzazioni sarebbero pertanto attraversate continuamente da lotte di potere volte a mettere in discussione i margini di incertezza. Gli studi dell’autore mettono in evidenza come nelle pubbliche amministrazioni da lui analizzate l’incapacità di gestire era collegata anche all’assenza di un vertice che potesse operare in chiave correttiva, poiché il controllo era politico, quindi poco attento a logiche e criteri meritocratici o di efficienza. Per questo Crozier, riferendosi a queste organizzazioni, parlava di “microcosmo bloccato”. Se in parte le riforme dell’Università hanno teso a migliorare molti di questi aspetti, dall’altro l’autogoverno dell’Accademia appare per molti versi simile a quanto Crozier ci dice nelle sue analisi.

Una impostazione di questo tipo, concentrata sulle dinamiche organizzative, quindi, potrebbe essere utile per capire in che ambiti e a quali soggetti poter imputare buona parte delle responsabilità dello stato del nostro sistema universitario. I quesiti a cui si potrebbe cercare risposta sarebbero rivolti a comprendere se l’amministrazione degli atenei italiani sia adeguatamente

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efficiente, se i margini di libertà degli attori coinvolti si traducono in ambiti di malfunzionamento oppure no, così come si potrebbe tentare di rispondere a quesiti più generali che riguarderebbero più da vicino le capacità di manovra del corpo docente, diviso tra ordinari, associati, ricercatori e tutta una serie di soggetti diversi che svolgono un ruolo nel mondo universitario pur non essendo riconosciuti e strutturati nell’organigramma universitario.

Questi approcci, in un modo o nell’altro, potrebbero anche gettar luce su un secondo aspetto da prendere in considerare per quanto riguarda la nostra Università, vale a dire il generale ridursi dei finanziamenti pubblici destinati all’Accademia italiana e alla ricerca di base. Una Università che funzioni non può non avere budget adeguati alle ordinarie esigenze di una struttura volta alla produzione di conoscenza, ma il ridimensionamento dell’impegno dello Stato nella vita sociale ed economica, con il conseguente inserimento dei privati e del privato sociale in doversi ambiti del welfare, ad esempio, è un elemento ormai tipico della fase storica che stiamo attraversando (Cassese, 2002; Ritter, 2007). La quantità e la modalità attraverso cui si direzionano i finanziamenti dello Stato o del privato verso l’Università, possono trovare una spiegazione non solo nella impossibilità del sistema dello Stato sociale europeo ad impegnarsi per ingenti quantità di denaro, ma va anche spiegato sia come effetto di lotte di campo, sia come tentativi di riformare il sistema bloccato. Del resto, i finanziamenti destinati all’Università oggi non passano più solo attraverso il Ministero, anche le Regioni, ad esempio, ricoprono un ruolo importante, speciale nell’elargizione delle borse di studio attraverso propri enti o aziende pubbliche.

Per evitare di dilungarci oltremisura su questo aspetto, è evidente che le non eccellenti prestazioni dell’Università italiana siano dipendenti da diversi fattori che tuttavia possono trovare una loro spiegazione (e governo?) nell’analisi sociologica.

2. Le performance occupazionali dei laureati e dei dottori di ricerca

Se l’Università italiana ha performance strutturali di non elevato profilo, che tipo di laureati immette sul mercato del lavoro? I suoi dottori di ricerca hanno maggiori chance d’occupazione di altri soggetti? Reggono il paragone con i colleghi europei? In questo paragrafo proveremo a mostrare cosa dicono le più recenti statistiche in merito e cercheremo di mettere in chiaro i livelli di soddisfazione dei soggetti rispetto alla loro occupazione e alla loro posizione sociale.

Un primo dato importante è che, malgrado la riforma degli ordinamenti, nello specifico la creazione del cosiddetto “3+2”4, si registra un’iniziale innalzamento degli iscritti cui segue una riduzione a partire dall’anno accademico 2003-2004 (graf. 1). In termini assoluti nel corso di sei anni il numero di nuove immatricolazioni è calato di circa 37.000 unità. Questo dato non dipende dalla riduzione della coorte 18-19 anni, che del resto si è ridotta dello 0,72% dal 2002 al 2010, ma dalla minore attrattiva che l’Università rappresenta per i giovani. Ciò sembra confermato anche dal fatto che il numero di diplomati che hanno deciso di

4 Il modello “3+2” istituisce un primo livello universitario di tre anni dopo il quale si può conseguire la laurea magistrale e poi un secondo livello che consente, dopo altri due anni di studio, di conseguire la laurea specialistica.

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immatricolarsi ai corsi di laurea si è ridotto. I dati più recenti ci informano come dall’anno accademico 2003-2004 a quello 2008-2009 il numero di immatricolazioni per 100 diplomati è sceso rispettivamente dal 74,4% al 68,3% (Istat, 2009).

Benché si possano trovare andamenti diversi rispetto al dato delle immatricolazioni per aree geografiche, Atenei o in base alle caratteristiche sociografiche degli studenti iscritti per la prima volta per ogni anno di rilevazione, ciò che appare evidente è una certa disaffezione o mancanza di fiducia per lo sforzo universitario. Sembrerebbe che fare l’Università non si percepisca come la possibilità di acquisire una credenziale in più per la ricerca di una condizione di vita migliore nella biografia individuale. Questa spiegazione sembra plausibile perché le riforme attuate permetterebbero, formalmente, di costruire percorsi di studio più mirati e di minore durata, nel tentativo di invogliare i giovani studenti ad iscriversi a corsi più specifici, allo scopo di ridurre alcune caratteristiche negative del profilo medio del laureato italiano.

È infatti evidente che l’intento delle riforme fosse anche quello di aumentare la media di coloro che una volta iscritti potessero concludere il ciclo di studio, ma anche di farlo in tempi ragionevoli. Alcuni dati ci dicono che solo il 50% degli immatricolati raggiunge la laurea, mentre gli abbandoni sfiorano il 18% dei casi. Una percentuale elevata dei laureati, inoltre, è ben oltre la media degli anni previsti istituzionalmente per concludere gli studi (Istat, 2009).

In genere si registra anche una certa insoddisfazione delle opportunità occupazionali che la laurea ha potuto concedere. Dei laureati nel 2004, ad esempio, circa il 51% dei soggetti che hanno conseguito il titolo in corsi triennali e più del 65% di quelli dei corsi lunghi, a tre anni dal conseguimento della laurea si sono dichiarati insoddisfatti (Istat, 2009). Dati più recenti ci dicono che ad un anno dal conseguimento del titolo circa il 27% dei laureati alla triennale reputa il titolo non efficace5, dato che scende al 19% per i laureati della specialistica (Almalaurea, 2010). Questo dato può trovare una spiegazione nel fatto che queste figure non sono riconosciute e ciò non consente loro di accedere a quel segmento più

5 Per “efficacia” si intende sia la richiesta del titolo per il lavoro svolto che il livello di utilizzazione delle competenze acquisite negli anni di studio universitario.

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remunerativo e soddisfacente del mercato del lavoro. Del resto, da un punto di vista occupazionale, i laureati del 2008 ad un anno dal conseguimento del titolo presentano tassi di occupazione che per quelli del primo livello sono più bassi della media generale del Paese di 7,7 punti percentuali, mentre per quelli della specialistica sono più alti di ben 17,7 punti percentuali.

Tra i due gruppi, del resto, sussiste anche una differenza sia di retribuzione che di tipo di occupazione svolta. Mediamente il guadagno netto per i laureati che lavorano ad un anno dalla laurea di primo livello è inferiore dell’8,5% rispetto a quella dei laureati nei corsi della specialistica. La differenza non è molto elevata poiché tra i due gruppi quelli della specialistica sono occupati per una quota maggiore presso imprese private e presentano quindi tipologie contrattuali atipiche in misura maggiore dei laureati del primo livello.

In linea generale possiamo quindi dire che nel complesso l’Università italiana consente di accedere, ai non molti che riescono a concludere il loro percorso di studi, buone chance occupazionali e di reddito, specie nel medio-lungo termine. Malgrado ciò, il nostro sistema accademico non produce laureati competitivi, specie nei settori strategici nell’economia del XXI secolo. Se confrontiamo con i dati disponibili a livello europeo notiamo come da un lato, rispetto alla media dell’Unione e dei maggiori Paesi del continente, l’Italia ha la percentuale più bassa di persone laureate, pari al 19% dei 30-34enni nel 2009. A questo si aggiunga come nel nostro Paese sia presente il più basso numero di laureati in discipline tecnico-scientifiche, il 13,6% contro una media europea del 18,4% (tab. 2).

Tab. 2 – Laureati in percentuale per nazionalità (2009) e laureati in materie tecnico-scientifiche (2008).

Quota di 30-34enni con istruzione universitaria

Laureati in discipline tecnico-scientifiche

Francia 43,3 Francia 29,1

Regno Unito 41,1 Regno Unito 23,7

Spagna 39,4 Germania 17,0

Germania 29,4 Spagna 15,8

Italia 19,0 Italia 13,6

UE 27 32,2 UE 27 18,4

Fonte: Istat (2011). Questi risultati sono in parte spiegabili se consideriamo la struttura produttiva

del nostro Paese. In Italia, come detto, non si investe molto nella ricerca, tuttavia questo dato è caratteristico anche delle nostre imprese. Nel 2008 gli investimenti delle imprese in ricerca e sviluppo in percentuale rispetto al Pil sono stati dello 0,65 contro la media UE a 27 dell’1,21%. Ciò non significa certo che l’innovazione in Italia sia ridotta, del resto le imprese innovatrici – cioè quelle aziende che ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto/servizio o hanno adottato al proprio interno innovazioni di processo – nel triennio 2006-2008, ad esempio, sono state il 37,6%, dato superiore alla media europea (36,2%). Gli studi mostrano come ciò sia possibile poiché siamo in presenza in Italia di imprese di medie-piccole

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dimensioni, spesso artigiane, dove prevale il modello della “innovazione senza ricerca”, benché esistano casi virtuosi di proficua collaborazione tra il mondo universitario e quello delle piccole e medie imprese (Dini, Panieri, Quintavalle 2007; Tassinari, 2009).

Sin qui abbiamo quindi osservato come in linea generale in Italia non solo la struttura dell’Università presenti molti punti oscuri e di inefficienze che dovrebbero essere meglio indagati, ma come persino le performance dei laureati siano sostanzialmente non eccellenti, benché in termini di opportunità occupazionale possano avere più opportunità di chi non è laureato. La ridotta presenza di laureati nella fascia d’età più sensibile, il minor numero di laureati in ambiti disciplinari tecnico-scientifici, nonché un sistema produttivo con poche opportunità per i laureati, ci presentano un quadro complesso e difficile dello stato della nostra Università.

Del resto, anche i dati disponibili per i dottori di ricerca, il più alto titolo accademico conseguibile, non sono dei migliori. Se da un punto di vista lavorativo la quasi totalità dei dottori di ricerca italiani è occupata6, dall’altro per circa il 25% dei casi questi non svolgono attività di ricerca e sviluppo nell’ambito della propria attività lavorativa. Una quota molto alta (il 21,3% dei dottorati del 2004 al 2009 ed il 33,1% di quelli del 2006 al 2009) ha una forma di lavoro a tempo determinato e che può essere verosimilmente ricondotta ad incarichi interni all’Università (assegno di ricerca, borsa di studio, lavoro a progetto, ecc.), mentre solo una quota, pari al massimo al 52% per chi ha conseguito il titolo nel 2004, ha un lavoro a tempo indeterminato (Istat, 2010).

I dati della rilevazione Istat ci dicono che, malgrado i dottori di ricerca che lavorano a 3 e 5 anni dal conseguimento del titolo abbiano un livello medio di retribuzione mensile netta interessante, rispettivamente pari a1.687,00€ e 1.758,00€, quindi si registri una buona capacità di vedere aumentare il proprio guadagno mensile con il passare del tempo, una quota non indifferente pensa di non avere possibilità di carriera o un adeguato trattamento economico. Da un lato i dottori di ricerca italiani sono soddisfatti delle mansioni che svolgono (il 90,8% di media) e del grado di autonomia che possiedono (l’89,9%), tuttavia il 47,4% sostiene di non essere soddisfatto delle possibilità di carriera e il 42,4% pensa che il trattamento economico non sia confacente a mansioni, ruoli e attività svolta.

Questa insoddisfazione può essere collegata sia al fatto che non trovando spazio nell’Università i dottori di ricerca si indirizzano verso occupazioni in enti pubblici o aziende private, dove non necessariamente possono utilizzare in maniera adeguata le conoscenza acquisite o dove la possibilità di svolgere ricerche è nulla o quasi. Si pensi ai dottori di ricerca che nel loro percorso biografico si occupano presso le scuole come insegnanti o a chi svolge mansioni amministrative o dirigenziali negli enti pubblici.

Per quanto riguarda poi l’internazionalizzazione dei dottori di ricerca, lo studio dell’Istat ci informa che solo una quota ridotta, tra il 6,0 e il 7,8% dei dottorandi vive e lavora all’estero, mentre una quota più elevata, tra il 18,7 ed il 17,1% degli addottorati, ha vissuto almeno 3 mesi in altri Paesi. Questo dato sembra segnalarci 6 La rilevazione dell’Istat del 2010 dal titolo L’inserimento professionale dei dottorati. Anni 2009-2010 mostra come i dottori di ricerca addottoratisi nel 2004, a cinque anni dal conseguimento del titolo, siano occupati per il 94,2% dei casi, mentre gli addottorati nel 2006, a tre anni dal dottorato, sono occupati per il 92,8% dei casi.

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come la maggior parte dei dottori di ricerca lavori in Italia e come l’esperienza all’estero possa essere, più che un progetto di lungo periodo, una sorta di ulteriore accumulare di conoscenza e crediti formativi da poter poi utilizzare in patria. Se questo dato può essere quindi considerato come capacità del sistema-paese di utilizzare i giovani con alta formazione, dall’altro va sottolineato come circa l’11-13% dei dottori di ricerca dichiara che nei prossimi 12 mesi pensa di trasferirsi all’estero. Il dato non è elevato, ma non necessariamente può essere considerato come dato positivo.

Per cercare di capire quest’aspetto utilizzeremo i dati del Rapporto Stella sui dottori di ricerca di sette atenei (Bergamo, Brescia, Milano, Milano-Bicocca, Palermo, Pisa, Sant’Anna di Pisa) che hanno conseguito il titolo nel 2007 e nel 2008 e rilevata la loro condizione nel 20107.

La ricerca mostra come, escludendo i missing dal computo, il 22% circa dei dottorandi del campione non ripeterebbe l’esperienza formativa. Una quota molto elevata, il 55% circa delle risposte valide, valuta sull’esperienza formativa negativa, così come il 57% valuta in modo negativo i contenuti della formazione ricevuta e dell’organizzazione didattica. Più della metà (65% circa) valuta però in termini positivi la capacità del corso di dottorato di insegnare cosa vuol dire fare ricerca. In termini di opportunità occupazionali, però, il giudizio è sostanzialmente negativo, così come la valutazione dell’utilità delle relazioni intessute con i docenti del dottorato o con altre persone sono negativi.

I dati di questa ricerca dal punto di vista dell’occupazione sono piuttosto in linea con l’indagine Istat: l’84% circa degli intervistati è occupato, però questo studio ci informa come solo il 45% circa è attivo nel circuito accademico, quasi il 14% in istituti od enti di ricerca. Va da sé che solo questi soggetti occupati in questi settori svolgono principalmente attività di ricerca in senso proprio e una quota di circa il 13% lavora in strutture di ricerca (Università o enti) all’estero. È quindi piuttosto evidente che il dottore di ricerca italiano dia un giudizio non positivo del suo percorso e degli esiti occupazionali. Quest’ultimo aspetto è particolarmente interessante perché va messo in relazione al fatto che la maggior parte dei dottorandi si orienta nel lavoro presso l’Università, ma poiché come abbiamo evidenziato in precedenza, il mondo accademico è una struttura bloccata e costituita da diverse forze in campo, la possibilità di poter trovare una collocazione in Università diverse da quella in cui ci si è formati è difficile. Non avendo dati di facile reperimento, non possiamo dire se il circa 13% dei dottori di ricerca che lavora all’estero sia una percentuale dovuta alla chiusura del mondo universitario alle loro ricerche o invece una scelta dettata dalla volontà di impegnarsi all’estero in strutture prestigiose. Ciò che è evidente è che quasi il 42% dei dottori di ricerca di una certa università lavora o è occupato in maniera instabile presso la facoltà in cui ha conseguito il titolo8. 7 Consorzio Interuniversitario Lombardo per l’Elaborazione Automatica (2010), Laureati Stella - Indagine sui Dottori di ricerca 2007-2008. Il percorso formativo e i suoi esiti occupazionali e sociali, Segrate (MI). 8 Questo dato, certo parziale e limitato, fa riferimento alle statistiche dei dottori di ricerca che l’Ufficio di Supporto all’attività del Nucleo di Valutazione dell’Università della Calabria produce per il suo ateneo. Il file, Indagine sulla soddisfazione e sugli sbocchi occupazionali dei dottori di ricerca. Anno 2009, reperibile al link http://www.unical.it/portale/portaltemplates/view/view.cfm?14045.

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3. Brevi (non) conclusioni

I dati che abbiamo potuto utilizzare mostrano lo stato molto complesso della nostra Università e molti punti oscuri che meriterebbero maggiori approfondimenti e migliori analisi. Ciò che però si può asserire con una certa sicurezza è che l’Università italiana produce, malgrado le ovvie difficoltà ed in numero non così elevato come sembrerebbe, saperi e cervelli che non riesce e collocare adeguatamente, in parte perché il sistema produttivo non ne richiede, in parte perché le logiche di funzionamento dell’Accademia italiana, della modalità di coptazione utilizzata e del modo in cui è reclutato il ricercatore, sono insufficientemente basati sul merito dei concorrenti che si presentano e sulla trasparenza.

Sono molto noti e suscitano scalpore i reportage di giornali e televisione sui ricercatori e dottori di ricerca che esasperati dall’impossibilità di entrare in un sistema chiuso e spesso autoreferenziale come l’Università si rifugiano all’estero con risultati molto importanti, mentre qui le prospettive presentate risultavano poco promettenti. Un caso per tutti è quello di Alessandra Lanzara, oggi docente alla Berkeley University e addottoratasi in fisica presso l’Università di Roma. La vicenda, raccontata nel noto documentario “W la ricerca” di Riccardo Iacona ed andato in onda il 21 giugno 2005, è quella di una brillante dottoressa di ricerca che ha studiato gli iperconduttori, materiali che permettono di trasportare l’energia con dispersioni bassissime, pertanto un tema di studio di estrema importanza per i suoi risvolti applicativi. La dott.ssa Lanzara ha però preferito andare negli States dove ha ricevuto ingenti finanziamenti per poter continuare la sua ricerca in un ambiente estremamente proficuo per la sua attività di studio. Lo stesso documentario, però, ci parla di chi ha intrapreso percorsi inversi, di ritorno, come nel caso del dott. Lucio Luzzatto, genetista ed ematologo di fama mondiale, rientrato e poi purtroppo licenziato dal commissario straordinario Maurizio Mauri dell’Istituto Tumori di Genova per motivi non del tutto chiari e che ha sollevato molte polemiche.

L’Università italiana, quindi, se da un lato ha buoni livelli di preparazione, fondamentali anche per i ricercatori che poi possono sfruttare le loro capacità personali ed il bagaglio di conoscenze acquisito nel corso degli anni di studio, prima come studente universitario e poi come dottorando, dall’altro presenta una struttura ancora burocratizzata, un corpo docente che non costruisce scuole di pensiero, se non in minima parte, e che nel complesso ha come risultato complessivo quello di ridurre la sua competitività e perdere l’intellettualità più promettente.

Una riforma del sistema è quindi necessaria, ma anche queste riforme rischiamo, ad una attenta analisi, di essere l’ulteriore lotta di campo tra gruppi che insistono nell’Accademia con risultati poco importanti dal punto di vista produttivo.

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Universitaria-mente: un discorso di senso comune1 di Michele Scotto

Introduzione

Resta sorprendente, nonostante la sua banalità, quanto possa diventar tedioso descrivere, a qualcuno che non le è presente, una qualsiasi situazione della nostra quotidianità, per quanto spoglia essa possa essere: una semplice conversazione in metropolitana, o alla fermata del bus, a chiarirne i contenuti, può diventare un logorroico fiume d’inchiostro.

Per la stessa ragione però, una frase di poche parole, talvolta, è sufficiente a lasciar prevedere ad un conoscente la nostra intera giornata: nei suoi incontri, nelle sue cadenze, nel suo evolversi, nel suo suscitare le nostre più intime sensazioni.

La nostra vita di tutti i giorni è pregna di significati che i sensi non riescono a catturare, ma il condividerli ci consente d’ignorarlo.

Come chiaramente ci spiega Pecchinenda, il nostro esperire il mondo non è un bruto “puro percepire”, un raccoglierlo; ma è insieme un pensarlo, un raffigurarcelo, un immaginarlo, un “vedere come se ci fosse qualcos’altro”. É un

1 Questo articolo si basa, oltre che sulla letteratura citata, su osservazioni ed interrogazioni puntuali, seppur rapsodiche e “a casaccio”, svolte dal mese di Novembre 2010 a quello di Febbraio 2011, presso la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”; la sua stesura segue inoltre ad una triennale ed assidua frequentazione della stessa Facoltà, a cui chi scrive partecipa in posizione di studente. Lo scritto è scevro da pretese di scientificità e non è diretto ad un pubblico prettamente esperto; scansando preoccupazioni di metodo, si servirà di esempi e citazioni dalla letteratura sociologica per guidare l’interpretazione del lettore, ed evitare la problematizzazione, la rigorosa ed ingombrante definizione, di concetti quali: significato, senso, tempo, società, spiegazione, giustificazione, discorso, memoria, modernità, mercato, economia, ecc. Questa mancanza, altrimenti certamente grave, si giustifica ai fini esclusivamente narrativi e descrittivi del brano, ed invita a considerarlo oggetto d’analisi, più che soggetto, e proposta di ricerca, più che risultato. Duplice è infatti l’obiettivo a cui in queste pagine si tende. Da un lato, l’articolo vuol fornire una testimonianza, si spera utile, per la comprensione degli accadimenti che recentemente hanno interessato l’università italiana, mettendo in risalto come questi possano essere interpretati come indicativi di una pluralità di mondi studenteschi. Si considererà lo spazio-facoltà di cui sopra, infatti, come condiviso da due divergenti rappresentazioni della realtà: l’una, silenziosa nel dibattito pubblico, si presenterà come osservata ed esplicitamente raccontata; l’altra, protagonista delle manifestazioni di critica e dissenso rivolte recentemente alle proposte di riforma dell’Università italiana, è quella propria di chi scrive, e sarà, soprattutto nelle comparazioni e nei giudizi, implicitamente e sottilmente evocata. D’altro canto, lo scopo del testo è pure quello di azzardare un’ipotetica influenza dell’economia sull’immaginario dell’individuo contemporaneo in generale, per trascinare così la discussione sull’Università in un più ampio dibattito sull’economia di mercato e sull’imperialismo del paradigma economico neoclassico-marginalista. Come forse si farà chiaro, i due obiettivi sono strettamente intrecciati, ed accomunati dall’intento di richiamare l’attenzione su alcune specifiche distintività della realtà di cui chi scrive è partecipe.

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vedere attraverso, il nostro, un vedere mediato da lenti socialmente costruite, che fanno della realtà un immaginario (Pecchinenda, 2009).

Per immaginario intendo un insieme di credenze attraverso cui esperiamo e comprendiamo la realtà della vita quotidiana; un insieme di interpretazioni che ci paiono condivise all’interno del nostro mondo sociale, sulle quali ci basiamo per comprendere le azioni degli altri e per organizzare le nostre condotte, e che le ordinano in un mondo significativamente coerente.

Questo insieme di credenze si costituisce in un discorso comune, che ciascuno attivamente produce nello stesso momento in cui ritiene di star semplicemente prendendo le cose per quello che sono; discorso o senso comune che si apprende e ri-costruisce continuamente nel corso dell’interazione con gli altri e che, attraverso complessi meccanismi di feedback, ci permette di essere certi dell’autenticità della nostra vita sociale (Jedlowski, 1994).

Il mondo della vita quotidiana è ri-conosciuto così, dal membro di un gruppo sociale, come indubitabilmente reale, come di fenomeni che non può far sparire semplicemente desiderandolo, la cui esistenza è indipendente dalla sua volontà e dalla sua percezione; fenomeni che possiedono certe caratteristiche vere, lo si voglia o no, e che proclamano le sue intenzioni e quelle dei suoi consimili determinandone il comportamento (Berger, Luckmann, 1966, p.13).

È su tali presupposti che poggia questo breve scritto, il cui intento è di azzardare alcune distintività della visione della realtà contemporanea, o semplicemente della realtà, a partire da uno specifico attore sociale: lo studente universitario. Si proporrà dunque una descrizione, ed un’ipotesi di spiegazione, del sapere di senso comune che pare ri-prodursi e condensarsi all’interno di uno specifico spazio-facoltà universitario.

Accenneremo, per ciò, allo studente; alle sue pratiche e alle immaginazioni o rappresentazioni che paiono cristallizzare: rappresentazioni di sé, dell’azione, del tempo e del mutamento, del più prossimo spazio sociale e dell’organizzazione più in generale; rappresentazioni che si intersecano e sovrappongono, ma che sono probabilmente ricostruibili in modo unitario.

1. Lo studente, il quotidiano e la regola del gioco Ognuno di noi possiede, in ambienti familiari, un ricco e dettagliato insieme di

informazioni, che gli permette di orientarsi e di svolgere, senza grosse difficoltà, una serie di compiti e di scopi; allo stesso modo, in settori della vita con cui ha frequentemente a che fare, possiede un sistema di aspettative sul corso normale delle cose, su come queste dovrebbero evolvere e su cosa potrebbe sviarle dal loro procedere usuale. Nella maggior parte dei luoghi pubblici, sappiamo così che solo una parte degli infiniti corsi d’azione che si potrebbero intraprendere è legittimamente percorribile, e siamo perciò capaci di prevedere, grosso modo, le azioni degli altri presenti.

Tenendo conto di tali premesse, ravvisare il momentaneo spaesamento di un attore competente nello svolgere le sue normali attività, indica la direzione nella quale guardare per rimettere il dubbio, prima sospeso, sulla realtà delle cose.

Una persona non più giovanissima, accedendo alla Facoltà universitaria, imbattendosi in un vociare intenso e in una miriade di interazioni piuttosto

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confusionarie, pare reagire stranita. Ad ascoltare e a guardarsi intorno, quanto più risalta ai suoi occhi è la disinvolta sregolatezza. É come se, per chi vi partecipa, non ci fosse nient’altro all’esterno dei gruppi, della cerchia in interazione; nient’altro degno di nota o di ritegno; come se i singoli agissero senza badare ad essere in quel luogo, ad essere davvero partecipi di un’organizzazione, di un’Università. É come se fossero distanti, distaccati dalle faccende normali, tanto da indurla a chiedersi se sia o meno nel posto giusto. I più sembrano divertirsi però, e la convulsività delle azioni le lascia pensare di una pausa dalle attività ordinarie, di un pausa ricreativa.

A sostare più a lungo, con stupore, si accorge che il ludico non è eccezione, né tantomeno un’attività superflua.

Il gioco2, infatti, si trascina, non ha un suo posto. Tanto gli spazi chiusi, le aule e i corridoi, quanto quelli aperti, come il cortile d’ingresso, non ridestano gli attori a regole. Non bastano gli spazi a determinar le condotte. Il gioco non ha neppure nicchie di tempo prestabilite, o definite: così come ammesso in ogni luogo, è ammesso ad ogni momento, e per molti pare durare l’intera giornata.

Bourdieu, in uno studio sull’attitudine verso il tempo, sottolineava come la cultura algerina agraria ne interdicesse con espliciti divieti qualsiasi calcolo: ‘‘la fretta era vista come una mancanza di decoro combinata con un’ambizione diabolica’’, la pianificazione e l’organizzazione del futuro disapprovate. Dedicarsi con noncuranza ad attività improduttive non equivaleva, per il contadino, ad uno spreco di tempo: il tempo non poteva essere né perso né salvato, né consumato né tantomeno contabilizzato (Bourdieu, 1963, p. 54).

Così lo studente, nelle sue lunghe giornate universitarie, sembra scorrere le situazioni ciondolando senza premura tra chiacchiere e scherzi, facendo assurda la fretta e raro il rammarico del tempo dissipato. Il tempo non ha perso la sua astrattezza, né il suo valore, è soltanto questione del suo buon impiego: l’indolenza è piuttosto nella partecipazione alle attività didattiche.

In alcune società arcaiche, Eliade notava come il comportamento del singolo acquistasse senso solo attraverso la riattualizzazione del mito: nella ripetizione dei gesti paradigmatici, della tradizione, dell’archetipo, l’uomo partecipava alla sacralità del cosmo e diventava reale.

“Il rapporto col tempo si caratterizzava nel tentativo di annientarne l’irreversibilità, di statizzare il divenire attraverso un’ontologia del ciclo” (Eliade, 1949, p.159). “Ogni attività responsabile e che volesse raggiungere uno scopo ben preciso era perciò un rituale: acquisiva efficacia, e si faceva vera, nella misura in cui ripeteva esattamente un’azione compiuta all’inizio dei tempi da un dio, da un eroe, o da un antenato” (ibidem, p. 40). Il fare non privo di funzionalità, era cioè l’iterazione costante di un prototipo; quanto non era invece riconducibile ad un modello esemplare, all’imitazione delle rivelazioni primordiali, ai gesti eterni di qualcun altro, era irreale e svuotato di ogni significato. Il senso, quindi, era nel ritorno, nell’a-storica riproduzione di un comportamento aurorale.

Nel moderno la ripetizione era ancora rilevante, ma soprattutto in quanto tecnica, in quanto modo disincantato, efficace o efficiente, per raggiungere uno

2 Per gioco ci si riferisce al comportamento ludico, scherzoso, piacevole, vitale; non ad un insieme di regole, ad una matrice combinatoria. É ciò che nella lingua inglese si indica con play, e non game (Eco, 1973).

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scopo; modo spesso fatto norma e organizzazione, modo che per le stesse ragioni sarebbe potuto essere innovatore.

Nelle condotte universitarie invece, a cercarla non si trova maniera; non si coglie alcuna regolarità, ritmicità o simmetria; non c’è monotonia che riconduca a norme precostituite. Non c’è modello, né copione, né repertorio: è improvvisazione.

Quanto è ripetizione, quanto è vincolo o schema, perde rilevanza; è vissuto a levar attenzione. Così i doveri giornalieri vengono trascorsi come routinari ed abitudinari: irriflessivamente, a non saper renderne conto poi.

Nelle organizzazioni, siano esse più o meno formali, il comportamento tipico usa dirsi di ruolo. Il ruolo, si legge in Goffman, “consiste nell’attività che una persona svolgerebbe se agisse solamente in funzione delle richieste normative rivolte a un individuo nella sua posizione” (Goffman, 1961, p. 101). Difficile parlare in questi termini, evidenziare quanto è tipico e distintivo dello studente. Per quanto ci si imbatta in ricorsività, nell’adempimento di alcuni compiti che regolarmente cadenzano le giornate, questa è propria di momenti vuoti, chiusi, senza riverbero, senza legame, che si soppiantano l’un l’altro nella memoria. É un lasciarsi fare. A sospendere giudizio.

A chieder senso, lo si scova piuttosto in azioni evidentemente originali e spontanee, nella loro arbitrarietà e nel loro godere della superficie delle cose.

Il presente non è né sacro né strumentale, ma partecipa e ri-produce il gioco. Tanto nei comportamenti, quanto nelle chiacchiere e nelle spiegazioni, ad esser rilevante è l’accadimento e la sua capacità di suscitare emozioni. Il senso è nella singolarità, nella sregolatezza; nell’occasione del gioco, nell’attesa della situazione carica di piaceri.

Nel racconto la vita si fa un pulviscolo di eventi illuminati da una soffusa ilarità. Quanto conta può durare un attimo, ma dilagare e far sensata un’intera giornata.

Messo in atto non è il gioco di Ortega y Gasset: coscientemente ‘‘per evadere, per sospendere virtualmente la schiavitù dentro la realtà; o per fuggire e rifugiarsi in un mondo irreale’’, gioco tanto inevitabile quanto funzionale all’attività seria; ma il comportamento ludico come unica realtà, come ciò che rende autentico (Ortega y Gasset, 1986, p.163).

Il ludico si fa principio e fine, trama e risvolto. Se ‘‘giocando ci si può divertire, ed il divertimento è l’unica ragione per la quale si gioca’’, non si sbaglia a dire che la vita è fatta gioco (Goffman, 1961, p. 31).

Le attività sono tutte sottoposte all’imperativo della piacevolezza e gran parte della giornata è vissuta a voler negare l’incombenza di altre necessità. Ogni fare per obbligo, e tutto ciò che non ricade immediatamente nella categorie dell’emotivamente conveniente, viene eluso, ridotto, rifiutato. É il ben-stare il principio guida di ogni attore, e l’agire che non soddisfa in quanto a piacevolezza è riconosciuto come imposto ed immotivato, irreale ed innaturale.

La vita è al margine delle regole, del lavoro; la soddisfazione non deve attendere; non è nel prodotto materiale della propria azione, o nell’attività creatrice strumentalmente orientata, ma nello scherzo. É diffusa la tendenza a ritrovare anche nel laborioso e nel progettuale, come nell’adesione ad una costellazione valoriale, una giustificazione puramente estetica.

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Nei discorsi, solo quello che piace è da fare, o spesso, tutto ciò che si fa lo si fa perché piace. Le condotte trovano legittimazione, e perciò attuazione, solo nel divertimento e nel benessere che offrono.

É l’etica dell’estetica, “il mito del puer aeternus” (Maffesoli, 2000, p. 12). Cavicchia Scalamonti, nel ricostruire il processo di individualizzazione

nell’occidente medievale, descrive l’Io moderno, con fatica emerso, nei termini di ‘‘un soggetto che si governa da solo, che si auto-governa e scopre la ragione dell’azione non nella tradizione ma in se stesso’’ (Cavicchia Scalamonti, 2007, p. 31); a seguirlo, quello che par di vedere è il culmine di tale processo: il fare è quello di studenti edonisti, che rivolgono verso se l’azione ed in se ne ritrovano risultato e legittimazione. Lo studente decide volta per volta il corso da intraprendere, l’azione da muovere; la sottopone al vaglio: ad un grossolano e rapido calcolo del piacere che ne deriverebbe, o della possibilità che quella si trasformi in gioco.

Non c’è scelta che tenga però, che non sia revocabile; non c’è doverosità a cui badi colpa. Nelle conversazioni non c’è mai ricordo della spinosità della scelta, del dramma dell’indecisione, dell’inesplosa sofferenza maturata nel dialogo tra sé; piuttosto, il riferimento è all’aggiungersi capitolante delle cose, al susseguirsi degli eventi, al precipitare: non pensai, decisi, ero sicuro, ma successe che io, poi feci, e mi ritrovai.

Per quanto atomizzato ed egoista nella delibera seriosa, lo studente si ritrova di rado solo con se stesso. Quello del chiedersi e immaginarsi, del parlarsi, del simulare, del provare l’azione e la reazione, del prevederle e pianificarle, dell’interrogarsi sulla loro bontà, è un momento breve, per lo più contemporaneo all’azione ed alla situazione. É l’homo communicans, dice Breton, che non è più guidato dall’interno, ma che reagisce, completamente riversatosi in relazione (Breton, 1995). Duttile, capace di vivere ogni situazione come se fosse la prima, a-tipica, nuova; non ricerca la legittimità dell’atto nella sua corrispondenza a valori in sé radicati, ma è all’esterno che guarda, che raccoglie, tratta, elabora, analizza e trova il suo modo scansando esperienza: più che a parlarsi, è intento a sentirsi e a sentire. L’interiorità è epidermica, l’io sembra porsi appena dietro le ‘aperture’ sensoriali. L’egoismo spazza via dubbiosità.

Gli attori sembrano rimbalzare tra le situazioni ed i loro significati: è un continuo adattarsi al presente, alle sue condizioni, al suo divenire. Cosa fare viene continuamente negoziato ed appreso nell’interazione con gli altri, e la ricettività, tentacolare, è protesa al momento pieno di soddisfazione.

La giornata all’interno dello spazio universitario si presenta perciò destrutturata ed aperta. I più sono pronti a slegarsi da qualsiasi impegno per vivere l’imprevisto e cogliere l’occasione per uno scambio ludico. Se il fine ultimo è il ben-stare, non c’è fatica che non sia assurda, non c’è rimprovero se non del porre un freno o un limite all’impulso.

Per una siffatta organizzazione del tempo quotidiano, Bauman utilizza la metafora del turista, “che vive in un mondo interamente ed esclusivamente strutturato in base a criteri estetici”, “un mondo fai-da-te, piacevolmente flessibile, impastato con i propri desideri, fatto e rifatto con in mente un solo scopo: eccitare, compiacere, divertire” (Bauman, 1999).

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Del tempo non se ne fa uso; non si razionalizza, contabilizza, organizza, ma per lo più lo si trascorre. Le situazioni non sono pianificate, ma lasciate evolvere arginandole alla gradevolezza.

2. Lo studente. Il tempo, il mutamento e l’organizzazione sociale

L’attenzione è tutta al presente, a quanto sta accadendo; minima la riflessività e quasi assente la pianificazione. All’edonismo si intreccia il presentismo.

Morra, cogliendo il passaggio da faber a ludens, ricorda come nel moderno la dimensione temporale del futuro predominasse sulle altre, sul passato limite da superare, e sul presente ridotto a momento e strumento della decisione: il terzo uomo era costruttore del proprio avvenire e, teso verso l’utopia, di quello del mondo (Morra, 1992). Il meccanismo di differimento delle gratificazioni, della repressione degli impulsi edonistici, era perciò alla base dei processi di socializzazione: l’individuo era determinato a rinviare in là nel tempo la soddisfazione che il presente poteva garantirgli, in vista dei benefici che questa procrastinazione rendeva possibili (Leccardi, 2010).

Un tale meccanismo certo non trova riscontro nelle azioni degli attori universitari; il rifiuto è talvolta esplicito e la giustificazione trapela auto-evidente. L’immediatezza e la spontaneità nelle pratiche quotidiane sarebbe infatti figlia dell’incertezza e dell’indeterminatezza del futuro. Lo studente, post- o tardo-moderno, “in un atteggiamento tragico, di ricerca di un’esistenza di qualità e cura del presente, vive ciò che è, non ciò che dovrebbe e potrebbe essere” (Maffesoli, 2000, p.41). Così come riconosce una frattura tra quanto accadde e quanto sta accadendo, accettando una narrazione del proprio tempo come inspiegabile ed impercorribile con categorie e prescrizioni del passato, distanzia il futuro dal presente e ne smentisce ogni consequenzialità.

Il lungo periodo scompare dalla delibera cosciente, e la progettualità si fa, si dice, insensata per l’impossibilità di prevedere il proprio futuro.

Todorov, sulla conquista dell’America, spiega come per gli aztechi l’avvenire del singolo fosse regolato dal passato collettivo: non era qualcosa che la libera volontà individuale potesse modellare, o costruire, ma gli era rivelato, perché prestabilito in funzione dell’armonia universale. Così dopo una nascita, gli stregoni, gli indovini e gli astrologi, traevano le sorti da calendari religiosi e libri divinatori, e presagivano in tal modo il destino del neonato, un destino che in realtà era già stato. Non si può sfuggire a ciò che deve accadere (Todorov, 1982, pp. 78-81).

Diverso è l’immaginario attuale, nonostante non manchino gli interpreti dei segni. Lo studente, infatti, non solo non riesce a tracciare in anticipo il suo percorso, ma ritiene che la sua stessa mappa sia inservibile, soggetta a veloce obsolescenza: le strade si imbrogliano e ri-districano continuamente, e ciò che ha valore adesso può, tra un attimo, non averne alcuno. La realtà è caotica, in drastica e continua trasformazione. La società scivolata nel nuovo ruzzola in rapido mutamento; si reinventa e ricostituisce, in autonoma caducità, non lasciando possibilità d’appiglio e facendo vano e strano ogni volontarismo.

La pianificazione non trova utilità, a meno che non sia per gioco.

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L’elemento stocastico, casuale, è imperante. Il corso di vita si fa etereo, vago, nebbioso. «Non saranno semplicemente le mie azioni di oggi a determinare il contesto di quelle di domani, né il mio impegno o la mia metodica caparbietà». Lo studente, più che disincantato, si esprime disilluso riguardo alle capacità di intervenire sulla sua situazione.

La reificazione della società è radicale, e così pure la sua complessità. Si immagina che il nuovo emerga imprevedibile e spontaneo, per caso o per

sorte, e all’uomo ragionevole non si concede preoccupazione di ciò che sarà, ma ci si aspetta che trovi senso e motivo nella capacità di adattarsi, e soddisfazione in ogni presente.

Lo studente sembra muoversi tra fatalismo e predestinazione. Il richiamo al fato traspare dalla convinzione di un’organizzazione sociale non

manipolabile, che fa da sé, indipendentemente dal volere degli uomini; ma sembra di scorgere pure il destino, fortunato, nel disinvolto ottimismo che comunque accompagna le pratiche quotidiane. Se il presente ritrova spazio per sé, può nondimeno essere occasione per una fortuita scelta all’ennesimo crocevia. Il futuro, si sa, si schiuderà senza preavviso con le sue possibilità, «forse per me come non per altri, forse allora come non adesso».

Questa fede nel già scritto, seppur nascosta e mai ammessa, potrebbe essere l’unico riparo dagli effetti, altrimenti presumibilmente devastanti, dell’insicurezza e del dubbio kirkegaardiano.

Il tempo si frammenta in piccole durate, dischiuse nel momento stesso del loro consumo: è l’istante il fine dell’azione edonista, ed il presente non è strumento perché manca completamente prospettiva del risultato.

L’impossibilità di determinare per intero il proprio percorso biografico indurrebbe allora a svuotare le sue tappe di senso e, il non voler sacrificare il piacere ed il benessere del presente, suggerirebbe di scansare ogni vano tentativo di critica e di cambiamento a favore dell’adattamento e dell’indifferenza nei confronti del sistema più ampio. L’organizzazione sociale, già ridotta a mezzo per la propria felicità, si fa così cornice e sfondo del ben-stare.

Su questi presupposti, diventa per chi osserva comprensibile il rapporto dello studente con la sua Università.

Il percorso universitario non partecipa di un progetto, e questo lo pone al margine nell’esistenza individuale (Cavalli, 2008). I più infatti lo descrivono come una scelta ovvia, indiscussa, quasi una necessità, un non poter fare a meno che adeguarsi alle richieste del sistema. Insomma un impiccio, un primo intralcio al godersi la vita.

Il ruolo di studente viene spogliato e ridotto al suo fine più palese: fare gli esami e conseguire la laurea; le regole, che non sono convenienti e direttamente utili allo scopo, vengono delegittimate e rifiutate: non c’è posto per buone maniere.

L’Università perde i suoi significati passati e diventa una faccenda da sbrigare, il più presto possibile e senza faticare troppo.

In un agire leggero, fluido, lo studente riesce a ricavare tempo da le costrizioni a cui è sottoposto, e pur non criticando ma attendendo i fini istituzionali socialmente stabiliti, dirige l’attenzione verso il gioco, unico ritaglio di autonomia.

Il rapporto con il sistema sociale, e con la più prossima organizzazione universitaria, è insieme di adeguamento e rassegnazione, resistenza ed indifferenza, indipendenza e subordinazione.

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Fin quanto è possibile, fare minima la legittima invadenza del sociale nel tempo quotidiano, preserva la gradevolezza del presente dal sacrificio a dubbi risultati futuri, e rende meno sofferente l’accettare le imposizioni e l’eterodirezione, evitando sprechi di tempo ed alimentando pure un’illusione di libertà.

La partecipazione all’organizzazione sociale è messa ai lembi; il filo che la lega al singolo, però, non può essere completamente reciso. Gli obiettivi da dover realizzare, come il laurearsi, vengono perciò annuiti ed attesi, ma la scelta dei mezzi e delle pratiche per raggiungerli, e la conseguente organizzazione del tempo, resta privilegio e diritto del singolo: ogni incombenza in tale direzione viene negoziata e ridotta. É solo nel gioco che l’attore universitario si sente veramente se stesso, ricavare spazio e tempo da dedicargli è forse necessaria difesa dall’insensatezza dell’esistenza.

Edonismo, psicologismo, egoismo, interiorità epidermica, coinvolgimento nel gioco e distacco organizzativo, indifferenza e rassegnazione, casualità e necessità, frammentarietà e presentismo: sono queste le caratteristiche dello studente post- o tardo- moderno; caratteristiche variabili in grado, ma che trapelano dai resoconti e dalle affermazioni, e non contraddicono, ma spiegano, le azioni e le interazioni.

Le pratiche osservate, infatti, se da un lato partecipano al gioco, dall’altro sono attente a consolidare la realtà delle cose; a chiedere e dare conferme di un senso comune edonista e certo di non poter modificare l’evolversi della realtà, ma le cui certezze proteggono allo stesso tempo l’individuo, privando di rilevanza la sua inevitabile sottomissione al contesto sistemico e dirigendo l’attenzione verso il godimento del presente.

Per quanto obsoleto sia parlare in termini di nichilismo e forte la tentazione a cadere nell’ammirazione della maniera descritta, elogio al vitalismo, non si può non considerare le esigenti condizioni che la rendono possibile; condizioni aristocratiche, si direbbe. Condizioni che certo non appartengono a tutti, e che forse agli stessi soggetti oggi studenti non apparterranno in futuro; il trarne soddisfazione implica una totale disattenzione alle vicissitudini ed alle difficoltà dell’altro, così come una negazione della contingenza delle proprie possibilità. D’altronde cosa si può davanti alla fatalità delle disuguaglianze sociali o alla cattiva sorte del debole? Null’altro che sperare in un fortunato evento che risollevi ciascuno, e ribadire l’impossibilità del cambiamento per scongiurare ogni vanificazione del proprio privilegio.

Questa è la realtà che vistosamente occupa la scena, quella che le faccende più evidenti all’interno dello spazio Facoltà paiono cristallizzare.

L’apparente omogeneità nei significati, partecipi della situazione studentesca, nasconde però non solo una maggiore complessità e articolazione, ma soprattutto un radicale pluralismo: c’è chi immagina diversamente la realtà, c’è chi, a torto o ragione, vede dell’altro.

Pluralismo, dunque, a stento distinto perché potenzialmente corrosivo della rappresentazione dominante; pluralismo che rende ad ognuno evidente come il proprio mondo non sia inevitabile, come le sue forme siano vacillanti opinioni, e come la certezza possa diventar d’un tratto assurdità.

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3. Lo studente e la riforma universitaria

Per quanto le caratteristiche delineate distinguano l’immaginario dei più, molti sono i portatori di verità differenti, e l’eterogeneità si mostra chiara quando la società più ampia affronta momenti di evidente trasformazione: il singolo si imbatte in oggettualità, cose e comportamenti, che richiedono una spiegazione, un’attribuzione di senso. Così, la giustificazione del nuovo si traduce in una esplicitazione dell’ovvio, del senso che, inconsapevolmente, veniva costantemente riprodotto nelle pratiche, come scontato, indubbio, comune.

Come chiariscono Berger e Luckmann, “la validità della nostra conoscenza della vita quotidiana è data per scontata da noi stessi e da altri, fino a che sorge un problema che non può essere risolto nei suoi termini” (Berger, Luckmann, 1966, p. 68).

Le situazioni, che di volta in volta si presentano al singolo, vengono da lui definite, comprese ed agite in maniera appropriata, quando poste in relazione con il sapere depositato nella sua memoria, sapere fatto soprattutto di esperienze tipiche e schematiche (Berger, Luckmann, 1995). Il senso comune è una memoria sociale. Quando si agisce in gruppo, molto spesso, attraverso un disordinato susseguirsi di negoziazioni ed aggiustamenti, dal bagaglio di qualche partecipante emerge un’etichetta, una parola che, se confermata come referente l’oggettualità in cui ci si è imbattuti, diventa una guida fattuale-cognitiva. In un museo d’arte, ad esempio, se un esperto ci indica un «quadro impressionista», non ci si tappa il naso ma, spesso si indietreggia, con qualche passo o tirando solo collo e testa, e magari si commenta la giustapposizione dei colori, «l’effetto».

La situazione, o l’oggettualità, talvolta risulta di difficile spiegazione: la propria riserva di senso non la esaurisce ed essa viene battezzata come strana, assurda, folle, impossibile.

Così nella situazione universitaria, davanti al nuovo ci si domanda che senso abbia, e la risposta non solo riafferma e fa chiara la concezione presentista-individualizzata, appellandosi alle sue massime ed ai suoi principi, ma svela la presenza di una realtà, tanto minore quanto tenace e, per certi versi, all’altra opposta. C’è un altro mondo.

L’evento problematico è la crisi economica e, le trasformazioni, le risposte politiche a questa.

La riforma del sistema universitario, riconosciuta come parte di una considerevole riduzione della spesa per il welfare, crea occasione per dare voce ad opinioni e credenze finora in disparte, opinioni che da resistenze si trasformano in contro-tendenze.

La riforma, nello spazio-facoltà di cui si sta dicendo, trova accesso da una bacheca: è una comunicazione scritta, tacita; un foglio silenzioso, scarno, che scrive del cambiamento mancando di precisazioni e giustificazioni, che non tollera replica, né si apre al dibattito.

É una tabella di orari e date. A leggerla alcuni sembrano stupiti, manca qualcosa. «Che succede?» Domandano. «È La riforma», rispondono altri. Il foglio allora si fa chiaro, e la reazione è piuttosto blanda. Il cambiamento è avvenuto, la verità è rivelata; non resta che prenderne atto, leggerlo ed accettarlo. La forma ne da conferma. È irrilevante sapere chi e perché: è stato deciso. C’è da industriarsi e

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smussare quelli che sono i suoi risvolti pratici più spigolosi, e poi nient’altro che adeguarsi.

La reazione dello studente, in ragione di quanto già detto, è scontata e prevedibile; non è l’unica però, e certo non la più rumorosa. Forse senza mai imbattersi in alcuna bacheca, migliaia di persone, studenti ma anche ricercatori e professori, per cui l’evento è una drammatica conseguenza già da tempo annunciata, minacciano rivolta dentro e fuori l’università. L’intero paese si ritrova in subbuglio.

Lo spazio-facoltà si fa surreale: i movimenti che invadono le piazze sembrano lontani anni luce; l’agitazione sociale resta fuori, non interessa; la partecipazione allo scontento è minima, di pochi; pochi che espresse le loro motivazioni sono stati delegittimati, emarginati, etichettati nel discorso comune, non più studenti ma, «casi a parte».

Pochi casi a parte, allora, che si sono costituiti in gruppi, riversati all’esterno e, confluendo in altri più numerosi, per giorni, per settimane, hanno espresso a gran voce il loro malcontento, rivendicando diritti e prerogative.

«Ma che succede?» «Che fanno?» «Sono matti?» «Non serve a nulla!» «Lasciali fare che si divertono» «Che senso ha?».

Appunto. Che senso ha? La riforma, prima che accettata, deve essere nondimeno riconosciuta sensata, ed

è la convinzione che essa sia nient’altro che un adeguarsi a farlo possibile. In ogni caso, tra le righe delle reazioni descritte, ritroviamo altresì conferma

dell’indifferenza della maggioranza degli studenti nei confronti del procedere dell’organizzazione sociale. É attorno questa distintività che quanto segue si muove; attorno cioè all’individualizzazione dello studente, al suo egoismo-edonismo ed alle rappresentazioni del tempo e del mutamento a cui si associa.

Nonostante l’articolo scansi pretesa di giungere a conclusioni generalizzabili, le ipotesi che più o meno dichiaratamente porterà avanti travalicano ampiamente il ritaglio di cui ha finora descritto: nelle pagine che seguono si sosterrà da un lato, e molto meno esplicitamente, la diffusione di atteggiamenti ben al di là della situazione universitaria, e dall’altro, più chiaramente, il loro radicamento e la loro legittimazione ad opera di un discorso specificamente economico. Di quest’ultimo si tenterà, ripercorrendone per sommi capi la costruzione, di chiarirne i contenuti ed i loro naturali corollari, e di sottolinearli come sintesi e distintività della realtà contemporanea su descritta. É bene spiegare.

4. Il corso naturale delle cose

Ogni essere umano vive in un mondo, ed ogni mondo ha un suo ordine sociale, con le sue regole e con le sue tecnologie, con i suoi modi di percepire, valutare ed agire. Ogni ordine sociale bisogna inoltre di una legittimazione, di un racconto che lo spieghi e lo giustifichi, che guidi le azioni dei suoi membri, e consenta alla società di originarsi e riprodursi in queste continuamente. Come un insieme di idee che infonde un significato trascendente nella vita degli uomini, trascendente rispetto alle consuetudini ed alle preoccupazioni ordinarie, sono stati i miti

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storicamente a raccontare, e così a legittimare e determinare, l’ordine3 come risultato di specifici comportamenti dei suoi singoli membri. Attraverso il mito l’uomo viene posto in una qualche relazione, di coinvolgimento o distacco, con l’universo naturale e sociale, relazione che con le sue azioni è chiamato a confermare e riprodurre più o meno consapevolmente.

Dumont, in un saggio sull’”ideologia4 moderna”, sottolineava come la nostra civiltà fosse eccezionalmente individualistica, pure rispetto a quelle dell’occidente passato (Dumont, 1977). Tra le grandi civiltà che il mondo avrebbe conosciuto, il tipo di società predominante, caratterizzato da un orientamento valoriale olistico, subordinerebbe infatti i bisogni dell’uomo come tale al tutto sociale, valorizzando la conformità di ogni elemento al suo ruolo nell’insieme. Nella società contemporanea, viceversa, sembrerebbe chiaro in quanto precedentemente detto, il singolo individuo frequentemente subordina ed ignora, nel suo fare, i bisogni del sistema più vasto. Lo studente, già detto individualizzato, lo si è scoperto socializzato ad una radicale noncuranza dell’altro, all’inosservanza di tutto ciò che egli stesso giudichi epidermicamente indesiderabile: le regole altre da quella egoistica sembrano per lui finzione, o un labile strascico del passato; il rapporto tra il singolo ed il suo gruppo sociale pare da lui inteso di compresenza, o al più di rispetto ed indifferenza.

Nondimeno però è di codeterminazione. Come già ricordato, è nell’interazione che l’agente trova esempio e conferma, o

eventualmente rimprovero e sanzione, e nella stessa apprende dell’ordine e del “mito dell’integrazione”. Nel caso in esame, l’ordine e il mito che si ipotizza giustifichino i moventi e le rappresentazioni, è l’economia di mercato; il mercato regolatore è caratteristica, quanto l’individualismo, della nostra società più che di ogni altra, e nel contemporaneo pare la sola in grado di spiegare in modo coerente il «pensa a te, così funziona» che regola le azioni.

Delineare, anche solo grossolanamente, alcuni tratti dell’affermarsi storico di queste distintività può aiutare a chiarire.

Nella letteratura, il dibattito sulla nascita dell’individuo e dell’individualismo è annidato soprattutto sulle tecnologie della comunicazione, e sulla loro capacità di trasformare la coscienza umana. Il passaggio dal coinvolgimento olistico al distacco individualistico equivarrebbe a quello da un mondo sonoro del verbo pronunciato ad uno visivo di quello scritto.

A tal proposito, Davis ribadisce come sia “nostro destino vivere in comunità che inventano strumenti, tecnologie, che modellano la società e gli individui che ne fanno parte” (Davis, 1998, p.30). “L’alfabeto frantuma l’affascinante cerchio e la risonante magia del mondo tribale facendo esplodere l’uomo in un agglomerato di individui”, sentenzia McLuhan (ibidem, p.46).

É la scrittura, afferma Ong, ad introdurre il solipsismo; a frammentare l’universo unitario, centralizzante, continuo, avvolgente, aggregante ed integrante del suono: la fenomenologia della scrittura entra in profondità nel senso che l’uomo 3 “Ordine” sempre inteso come “ordinamento”, affine ad “organizzazione”. 4 Louis Dumont definisce “ideologia” come “l’insieme delle idee e dei valori o delle rappresentazioni comuni in una società”; quando mancherà riferimento all’autore, sarà invece più precisamente inteso nel testo come sinonimo di narrazione, cioè come un insieme teoretico di spiegazioni e giustificazioni che sottendono i fatti del mondo e che hanno perciò valore normativo (Dumont, 1977).

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ha della vita. La parola scritta, diffusa quando a stampa, ha estrapolato l’uomo dal suo cosmo e spostato quest’ultimo davanti ai suoi occhi: gli ha permesso il distacco, la distinzione da ciò che è fuori, il riconoscimento dell’interiorità, l’esplorazione, un pensiero astratto più che situazionale; tirandolo fuori da un’ancestrale oralità primaria, gli ha permesso la critica dell’autorità sociale (Ong, 1982).

La spazializzazione e la scomposizione del pensiero spinta dalla scrittura, diffusa e completata dall’invenzione di Gutenberg, rintoccherebbe insomma l’ingresso dell’uomo nell’individualismo moderno, con la possibilità di scindersi ed estraniarsi dalle leggi cosmiche; destando il pensiero lineare, consequenziale, echeggerebbe inoltre nelle sue rappresentazioni del tempo e del mutamento, segnando l’avvio del superamento della ciclicità.

Se per questa via, è plausibile considerare le tecnologie della comunicazione necessaria premessa delle trasformazioni del rapporto tra l’uomo e ciò che poi lo circonda, più difficile è sostenere che da sole ne spieghino le conclusioni. Altra è, come già anticipato, la tecnologia che in questa sede si ipotizza influenzi la direzione e gli esiti dei più recenti cambiamenti sociali e il modo in cui lo studente contemporaneo pensi il mondo: è al mercato regolatore dei prezzi che si suggerisce guardare5 e alla forza del suo riverbero mitico.

Nel passaggio dal tradizionale al moderno, uno dei maggiori sconvolgimenti nell’organizzazione sociale sarebbe infatti riconosciuto nell’istituzione dell’economia di mercato (Polanyi, 1944); inestricabilmente, nella rivoluzione dei valori che caratterizzerebbe tale passaggio, una posizione rilevante andrebbe attribuita pure alle ideologie economiche. É dell’economia come teoria, e come narrazione o ideologia, che si congettura in queste pagine una funzione creatrice, creatrice della tecnologia di mercato e di una realtà che ribadisce continuamente quanto annunciato.

Il carattere normativo della teoria si palesa leggendo la storia della sua stessa evoluzione. Per meglio dire “l’economia politica”, ricorda Roncaglia, nacque dalla congiunzione di due questioni: una morale, riguardo le regole di comportamento che l’uomo, il mercante o il sovrano, dovesse adottare; l’altra scientifica, riguardo il funzionamento di una società basata sulla divisione del lavoro. Le due questioni però erano allora sovrapposte: secondo la dominante concezione aristotelico-ierocratica6, l’azione era moralmente giusta se conforme a leggi di natura (Roncaglia, 2003).

Gurevic, in uno scritto sulla cultura medievale, ci racconta come la società feudale europea si caratterizzasse per la rigida distribuzione dei ruoli sociali, nettamente fissati dalla consuetudine o dalla legge, ed inscindibili dalla persona. Ogni membro della società, teorizzata dalla chiesa cristiana come un’unità organica, aveva fin dalla nascita un posto preciso, immutabile ed indiscusso, e in 5 Certo il successo di questo è dalla scrittura e dalla stampa plausibilmente imprescindibile; se non altro, per il ruolo svolto da quest’ultime nell’accendere il dibattito scientifico, e nella diffusione del sistema di numerazione posizionale decimale, che rese più agevole il calcolo e la contabilità a partita doppia, sostituendo l’abaco col foglio e la penna. 6 Si aggettiva come “ierocratco-petrinologico […] quel complesso di realtà virtuale che struttura l’immaginario e l’agire nella vita quotidiana, in un periodo cha va dal 500 d.C. al 1300 d.C. circa” e che trova “più sintetica espressione nella filosofia sociale di Tommaso d’Aquino” (Lentini, 2003, p. 11).

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quanto parte necessaria del tutto, non poteva non adempiere agli obblighi che gli erano assegnati.

Così come ogni attività umana, pure la condotta economica, nel senso di diretta alla sussistenza, era soggetta a regole sociali, e le norme morali la condizionavano a con-fondere gli interessi particolari con fini superiori, ultraterreni, generali. Esemplare l’esplicita condanna del prestito ad interesse, sacrilego perché oltraggioso tentativo di speculare sul tempo, su di un tempo che apparteneva a Dio (Gurevic, 1972) .

“L’economia dell’uomo di regola è immersa nei suoi rapporti sociali”, rimbomba Polanyi, e di conseguenza sottoposta a leggi, spesso attribuite a volontà divina, che a questi sottendono (Polanyi, 1944).

Le attività di produzione e allocazione delle risorse per la sussistenza dell’uomo però, in quell’occidente medievale, videro lentamente sgretolarsi l’universo divino che le inglobava, e le incertezze sul mondo divennero dilemmi etici sulla loro conduzione e sul come giudicare l’appropriatezza di ogni altra azione sociale. La tecnologia-mercato fece allora il suo ingresso e gradualmente, definendosi il suo funzionamento, andò imponendo le sue regole e le sue verità ed aprendo le porte all’individuo e alle sue proprie ragioni7.

Il mercato nasce irretito all’interno di una matrice di significati, di miti e metafisiche, ma irrompendo con la sua realtà, la trasforma diventandone esso stesso il centro. Etiche e filosofie contrapposte divennero ibrida base della sua rappresentazione, rappresentazione che trovata la sua coerenza le condusse fino ai giorni nostri. Tra queste, lentamente, il riconoscimento di condotte distanti dai precetti religiosi si trasformò nella legittimazione e nella naturalizzazione del vizio umano; la convinzione contrattualistica, dell’antecedenza dell’individuo rispetto al gruppo sociale ed alle regole di convivenza, contribuì ad allontanare la vita dell’uomo dall’immemore ordine divino e dai suoi comandamenti; il diritto fu progressivamente laicizzato e, da Grozio a Locke, la proprietà privata divenne diritto naturale dell’essere umano; l’etica consequenzialista, sintetizzata da Bentham nella “massima felicità del maggio numero”, sostenne che la moralità di un’azione sarebbe stata giudicata dall’utilità dei suoi risultati, e si affiancò alla preesistente concezione deontologica (Roncaglia, 2003; Lentini, 2003).

Si andò allora sostenendo che “il carattere socievole dell’uomo nascesse dalla molteplicità dei suoi desideri e dall’opposizione continua, ad opera della natura, che egli incontrerebbe nei suoi sforzi per soddisfarli” (Dumont, 1977, p. 115). Che gli uomini fossero stati per convenienza spinti a vivere in società, e dunque i rapporti tra essi sarebbero secondari e subordinati rispetto ai rapporti tra essi e le cose, naturale sarebbe la propensione al baratto ed allo scambio e conseguente l’identificazione del bene pubblico con la prosperità economica.

Inedita fu la diffusione dei commerci, degli scambi di merce contro denaro, antagonistici, mossi dalla prospettiva di profitto e d’accumulazione di ricchezza.

La società mutò radicalmente la sua organizzazione, e le teorie che intesero spiegarla ne diressero le trasformazioni. 7 Esula dalle speranze di questo scritto, e dalle intenzioni di chi scrive, ostentare una spiegazione adeguata o esauriente di questa trasformazione, o tantomeno ricostruire i saperi sociali di cui si riconosce maggiore influenza nella costruzione dell’immaginario moderno; è doveroso tuttavia anche solo accennare ad alcuni principi fondamentali sedimentati nella narrazione ipotizzata ad oggi determinante nella strutturazione della realtà.

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Così si può azzardare che la descrizione del funzionamento dell’economia di mercato contribuì a costruire un nuovo uomo, ed aver consecutivamente ragione della realtà narrata.

La costruzione teorica del mercato ebbe infatti come principale fondamento la credenza che il comportamento economico, teso esclusivamente al soddisfacimento egoistico dei bisogni individuali, fosse di per se stesso orientato verso il bene comune; credenza che convinse dell’inevitabilità tanto del mercato quanto dell’azione mossa dal desiderio di guadagno. Se già dalla Favola delle api, ovvero vizi privati, benefici pubblici di de Mandeville alla “Indagine sulla natura e le cause della Ricchezza delle Nazioni” di Smith, avanzava l’idea che, grazie ad una naturale armonia degli interessi particolari, l’egoismo, intrinseco alla condizione umana, fosse alla base pure del benessere sociale, la giustificazione di una condotta mossa solo dall’amor di sé, trovò l’apice del suo percorso nella narrazione neoclassico-marginalista8, e nel pensiero forte dell’autoregolazione del sistema economico, inizialmente formulato dalla “scuola economica di Losanna” (ibidem, p. 124; Roncaglia, 2005, pp. 354-384).

Riconsiderando la fisiocratica interdipendenza delle parti del sistema la si riconobbe come risultato dell’integrazione, ad opera del mercato, di una miriade di azioni d’individui atomizzati, attenti nel perseguimento del massimo godimento col minimo sforzo; azioni che piuttosto che sgretolare la società, attraverso una guerra di tutti contro tutti, la conducevano verso il benessere e la civilizzazione.

Grazie al mito del mercato autoregolato, ed all’equilibrio economico generale teorizzato dalla scuola di Walras in un insieme di equazioni, gli uomini, agendo per la massima soddisfazione dei propri bisogni, lavorerebbero infatti inconsapevolmente per il bene sociale, portando il sistema al migliore, ottimo, utilizzo delle risorse (“non ad una loro più equa distribuzione!”) (Roncaglia, 2005). L’egoismo sarebbe allora non solo giustificato, ma auspicabile, in quanto fondamentale al buon funzionamento della macchina economica, ed al naturale a-teistico spontaneismo delle trasformazioni sociali e dei risultati socialmente auspicabili. L’intrinseca moralità della ricerca del proprio esclusivo bene confermò definitivamente l’innatezza di tale movente, ed allo stesso tempo, la naturalezza e l’importanza della regolazione di mercato.

La narrazione della realtà e della reificazione della tecnologia, ne favori la sovranità e convinse dell’impossibilità di opporsi ad essa

La teoria certo trovò anche fermi oppositori ed aspre critiche, ma ineguagliabile fu la sua capacità di far virtualmente coincidere il bene di tutti con quello d’ognuno, capacità che ne determinò probabilmente il successo9.

8 Per alcune ragioni a cui è imputato il successo paradigmatico della teoria marginalista o neoclassica e la considerazione di questa come teoria economica tout court, ma pure per l’introduzione alle principali critiche “sociologiche” mosse ai suoi presupposti microeconomici, il riferimento è a Cerase (2008). 9 Il successo e la tenuta della teoria neoclassica potrebbe plausibilmente discendere pure dalla sua capacità di meticciare gran parte delle filosofie sociali, come l’illuminato ottimismo nel progresso sociale, il giusnaturalistico appello all’innatezza del comportamento massimizzatore di soddisfazione, o il riconoscimento dell’uomo raziocinante, libero di scegliere e slegato da incombenze ultraterrene. La considerazione dell’evoluzione dei saperi, sociali e naturali, e la precisazione dell’eterogeneità di quelli

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Ad ogni modo, il meccanismo regolatore dei prezzi si fece, per i più, ineguagliabile in efficienza, e la mercatizzazione dell’esistenza si disse progetto per il bene universale. La tecnologia economica mosse mostruosamente lunghi passi, travolgendo ed invadendo la sfera sociale, ed il suo procedere, storicamente tutt’altro che lineare ed omogeneo, conobbe fasi di forte accelerazione. Ad oggi, la sfera sociale è ridotta ad epifenomeno di quella economica. Nel quotidiano si assiste così all’esplicitazione ed alla contabilizzazione dei contenuti economici delle relazioni interpersonali; le richieste di redistribuzione vengono aggirate, ammonite, e l’allocazione delle risorse lasciata sempre più in balia degli automatismi del mercato. Sono lentamente ri-demoliti i meccanismi di protezione del singolo e la mercificazione e privatizzazione riprende consistenza, trasformando i diritti di cittadinanza in privilegi del consumatore, ed annullando la polisemia della parola valore.

5. Lo studente. Economica-mente

Il modello teorico neoclassico ci induce ormai a sospendere il dubbio sulla validità di un lettura della realtà nei suoi termini, e a prendere in scarsa considerazione il suo ruolo normativo e manipolativo; i suoi principi, e le ambivalenti verità mutuate dal passato, si fanno nocciolo di un discorso economico-mercatista che sembrerebbe essere rimasto l’unico modo di rappresentazione della realtà sociale: l’ingurgitazione economica può dirsi forse ultimata.

Un segnale di questa capitolazione lo si ha quando, leggendo parole come società, organizzazione sociale, sistema sociale, così pure futuro, avvenire, possibilità, si è portati a pensare alla sfera della produzione, della distribuzione e dello scambio, insomma alla sfera delle attività economiche.

«E l’Università?» Si chiederà il lettore, «non era ad essa che eravamo attenti?» L’Università? É scomparsa come il resto, ingoiata e fatta circuito

dell’economico. Gli effetti della tecnologia del mercato, e dell’insieme di credenze che la

riconosce e la crea, si ipotizzano primeggiare nella psicologia individuale quando, dopo la morte da Dio, il crollo del comunismo, ed il soffocamento del contenuto utopico della democrazia ad opera della crisi degli anni novanta, l’immaginario sembra ormai sgombro da grandi narrazioni, e privo di giustificazioni e guide all’agire.

Quanto qui si azzarda è allora che, per comprendere il comportamento dello studente, non si possa prescindere dal mito del mercato autoregolato: la stessa riforma universitaria sarebbe stata accettata soprattutto perché da quest’ultimo spiegata e giustificata, perché grazie ad esso è sensata.

Le politiche educative, ci ricorda Serpieri, non portano mai cambiamenti solo di forma, di riorganizzazione, ma veicolano, più o meno esplicitamente, costellazioni di significati, ed esercitano potere attraverso la produzione di verità e conoscenza (Serpieri, 2008). É a questi significati che bisogna guardare, ed alla congruenza con

pure economici, non rientra però nelle possibilità e nei propositi di questo scritto. Si rinvia il lettore alle opere citate, ed in particolare a Lentini (2003) e a Roncaglia (2003).

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quelli già evidenziati, per meglio capire gli accadimenti, le reazioni degli studenti e dei casi a parte, l’indifferenza alla riforma o l’ opposizione violenta.

La riforma dell’università italiana, incapsulando idee ed imperativi economici, da un lato testimonierebbe, legittimandola, la sua subordinazione al funzionamento del mercato, e dall’altro riprodurrebbe, proclamandole, le caratteristiche della realtà già definite dall’ideologia che la produce.

“Le parole descrivono la realtà della vita umana. Ma hanno anche il potere di crearla e modellarla” (Berger, 1974, p. 9). La narrazione economica, battezzata qui forse incautamente come ideologia mercatista10, diventa argomento privilegiato dei discorsi della politica, dei mass media e delle conversazioni dell’uomo della strada, senza quasi mai perdere verità ma ribadendo certi principi e non altri; essa anche così riesce ad investire il mondo ben al di là della seppur vasta sfera d’azione del processo: a plasmare l’immaginazione della realtà attribuendogli alcune caratteristiche proprie di un’immateriale tecnologia, a crea e definire l’individuo divulgandone la “vera natura” e determinandone la condotta.

Sorprendente è inoltre la sua congruenza con le principali forme e movenze che i nuovi media, ponendosi come filtro dell’esperienza del singolo, attribuirebbero anch’essi al mondo. Le stesse rappresentazioni della realtà dello studente, sopra ipotizzate, paiono allora ritrovare unità e coerenza all’interno dell’ideologia, e specchio nel nuovo intreccio delle tecnologie della comunicazione.

La frammentarietà del racconto per immagini, di quello schermico, non contraddice, infatti, una vita frantumata in transazioni, scisse e separate l’un dall’altra, galleggianti in un unico, grande, etereo mercato. La durata si fa breve, quella della delibera cosciente; il processo si sgretola in piccoli istanti: un insieme sconnesso di scelte individuali tra mezzi per raggiungere fini dati. L’homo videns, come quello oeconomicus, è schiacciato nel consumo del presente. La simultaneità è centrale, come pure l’istantaneità: è quella degli equilibri e dello scambio. La trasformazione resta inspiegata, indeterminata, sarà: tutto procederà come mosso da una mano invisibile, come da impercepibili flussi. La realtà ritorna ad essere inconfinabile, sfuggente. Il singolo non è più in grado di intervenire nel processo, di determinarne gli esiti; è solo tra numerosissimi altri.

La condotta è surfing, rimbalzo, rimando, come nel web; ma è pure adeguamento, come della domanda e dell’offerta, del produttore e del prezzo in concorrenza perfetta. Nella situazione descritta, se nel gioco il coinvolgimento con gli altri è implicito, nelle scelte coscienti il singolo è più che mai distaccato, calcolatore, egoista. Minimo il suo sé, poco profonda la sua coscienza: ossessionato dal guadagno, anche se emotivo, soppesa ogni azione nei suoi costi e nei suoi benefici, e solo se del profitto è certo smette il gioco11.

Fromm, nella sua opera forse più celebrata, ci ricordava come, il crollo del sistema sociale medievale e l’ascesa dell’economia di mercato, avessero slegato l’uomo delle classi medie dall’irreggimento del sistema feudale corporativo: il suo destino, non più frenato dall’appartenenza o dalla tradizione, poté dipendere dal

10 Dire «ideologia mercatista» è sottolinearne la distanza dalla rigida formulazione neoclassica, dal liberismo o dal neo-liberalismo, e lasciarne aperta la definizione dei confini teoretici. 11 Nella società più grande, sempre più spesso, c’è chi percepisce ogni possibile azione come più costosa dei benefici che ne deriverebbero, e resta così a far niente.

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suo sforzo e dalle sue capacità. “Il denaro si mostrò più potente della nascita e la casta” (Fromm, 1941, p .58).

Perso il suo posto in un mondo chiuso ed immutabile, all’uomo venne però a mancare anche la risposta sul significato dell’esistenza, e si aprirono le porte al dubbio su se stesso e sullo scopo della sua vita. La crescente importanza del capitale e del mercato assoggettavano la sua riuscita a fattori che esulavano dalle sue possibilità di controllo; i rapporti collaborativi e d’alleanza con i suoi simili, ad opera della concorrenza, si trasformavano in rapporti competitivi di ostilità e di estraneità. L’individuo restò perciò isolato, solo, irrilevante ed impotente, minacciato da una crescente insicurezza ed ansietà, dai monopoli e del mercato.

Se pure col mercante si diffuse la scrittura, quella dei calcoli e degli elenchi, la parola stampata fu l’arma del protestantesimo.

Le dottrine di Lutero e Calvino, contemporanee all’innescarsi degli stravolgimenti, liberarono l’uomo dall’autorità della Chiesa, ma predicandone l’innata malvagità e viziosità, e l’incapacità di fare il bene per proprio merito, ribadirono come solo l’accettazione della propria irrilevanza, solo l’estrema umiliazione e rinunzia ad ogni residuo di volontà personale potevano farlo accetto a Dio.

Il dubbio sulla propria predestinazione alla salvezza, come quello sulla propria riuscita economica e sociale, poteva essere messo a tacere solo attraverso la prostrazione, la sottomissione, solo riducendosi a strumento al servizio di forze soverchianti e sovrapersonali: di Dio, e così pure del mercato e del capitale.

Se da un lato l’individuo poté emergere, trovandosi libero di perseguire i propri interessi e di migliorare la propria condizione, dall’altro dovette accettare un sistema economico, autonomo dalla morale comune, che presto lo fece piccolo ingranaggio mosso a fini a lui estranei (ibidem, pp. 89-112).

Allo stesso modo, l’individuo contemporaneo, lo studente, si sottomette alla mercatizzazione della sua sfera di vita e, nonostante l’esistenza si rifaccia precaria, accetta l’illusorietà di una contingente libertà da come unica possibile, inevitabilmente, perché naturale e sensata: parte di un racconto unitario, ampiamente narrato e condiviso perché vero.

Uno specifico discorso attorno alla tecnologia mercato, come riletto e divulgato dai mass media, e come incarnato dagli oggetti da essa creati e manovrati, raccoglie e sostiene le immaginazioni della realtà, contribuendo a costruirle e a paralizzarne la critica.

Frammentando le durate ed animando il mondo con il sostegno delle tecnologie elettriche e degli schermi, l’ideologia mercatista spinge il sistema verso lo spontaneismo e l’automatismo: la legittimazione è nel risultato, nell’ordine raggiungibile, nella crescita senza fine, “nelle navi, guidate da antenati , che presto arriveranno dalla terra dei morti ricolme di doni e ricchezze”. La realtà viene per questo narrata, e poi immaginata, evolvere autonomamente, reinventarsi continuamente, farsi imprevedibile, labirintica, inafferrabile, indeterminabile; ma le cose umane pare si muovano naturalmente “in alto e in avanti”, verso il progresso, il miglioramento, la beatitudine (Berger, 1974, pp. 21-23).

Così davanti al mercato, il singolo sembra ancora possedere la luterana convinzione della sua impotenza difronte a forze divine, come pure la fiducia nel miglioramento spontaneo della propria situazione, nella propria predestinazione alla salvezza. Senza grossa fatica accetta che le cose facciano il loro corso,

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perdendo ogni convinzione nella propria possibilità di manipolarlo, di farsi ingegnere e costruttore dell’avvenire.

Tuttavia ciò che lo incatena gli offre, allo stesso tempo, una via di fuga: l’edonismo; sovrapponendo le proprie teodicee ad una cosmogonia e cosmografia biologico-evoluzionista. L’innovazione, come la nascita dell’uomo e del cosmo, seguono il caso e la necessità. Il mondo, come il mercato, come il villaggio globale, è costituito da un numero infinito di corpi, organismi, uomini, utenti, imprese, che interagiscono e lottano per l’autoconservazione, che nell’opulenza facilmente degenera nella più vaga soddisfazione, arbitrariamente e senza remore.

Il comportamento egoistico è giustificato, fatto strumento attraverso cui partecipare del cosmo, della sua armonia, del sistema sociale, del suo senso. Unico imperativo, unico dovere sociale, il solo ormai capace di ricongiungere l’uomo con la natura, di liberarlo dal dubbio e dalla colpa appellandosi alle leggi del mondo, all’innatezza, alla spontaneità, all’istinto.

Per ciò, l’agire tanto egoistico quanto adattivo, e tanto distante quanto dipendente dal resto, sosterrebbe e riprodurrebbe un’ideologia che sottilmente costruisce il suo contesto, e pone al centro il mercato come realtà ed utopia. Un’ideologia che paradossalmente riaffida il mondo al magico; che riduce la scelta all’adeguamento, al consumo ed al gioco; che spaccia per ovvietà l’impossibilità di dirigere volontariamente il processo, costringendo a rifugiarsi nell’indifferenza e a restare per questo intrappolati in gabbie immaginarie.

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Conversazione con Luigi Caramiello∗ a cura di Tommaso Ederoclite

Negli ultimi mesi si è discusso di tagli all’università e di mancata riforma, qual

è il suo punto di vista al riguardo? Il punto essenziale sono i tagli che hanno riguardato tutti i capitoli di spesa della

politica governativa di tutti i governi dell’Europa e dell’Occidente. Quindi se noi discutessimo di questo vorrebbe dire che questa sarebbe la domanda, prima di qualunque iniziativa legislativa fatta da qualunque governo europeo e occidentale negli ultimi quattro anni. Ergo, è una domanda priva di significato! Cioè non è il dato qualificante, i tagli hanno investito tutte le voci di spesa.

Più che una domanda si tratta di un punto di partenza adottato dalla

maggioranza di ricercatori e studenti… Il fatto che tutti i ricercatori del ‘500 pensassero che la terra fosse piatta e c’era

un ricercatore invece che sosteneva che avrebbe raggiunto l’oriente navigando verso occidente dimostra che a volte è una buona idea andare controcorrente. In altre parole, non tutti i ricercatori salgono sui tetti, si tratta di quelli che lei conosce, quelli che sono stati maldestramente assunti in questi anni per soddisfare gli appetiti indecenti di baronie di basso conio, una cosa che lei ben sa. Raccontano anche che c’è l’effetto serra, raccontano anche che noi guadagneremo utilizzando i pannelli solari, raccontano che non occorreranno le discariche perché faremo rifiuti zero. Raccontano un sacco di cose. Questa è la prova che la scienza è ridotta veramente male nel mio paese.

Lei sta dicendo che il gruppo di ricercatori italiani racconta un sacco di balle e

menzogne? No, è ancora più grave. Nell’intera Europa e nell’intero Occidente ci sono

problemi di questo tipo, con proporzioni diverse. Ritornando alla sua domanda, io vorrei dimostrare che iniziare una discussione mettendo al centro la questione dei tagli significa iniziare con il piede sbagliato. Diceva Pietro Nenni: “Fate le riforme che non costano, perché quelle sono le prime che si possono fare”.

Non sono venuto qui per esprimere una mia posizione, ma per ascoltare e

raccogliere il suo punto di vista… Lei ha già espresso una posizione, perché nel momento in cui mi dice “il primo

tema sono i tagli” lei ha già espresso la sua posizione. Nel modo in cui ha formulato la domanda è compreso il suo punto di vista, è compreso il punto di vista sia di chi interroga che di chi deve rispondere! Non funziona così. Se lei avesse detto “Qual è il punto qualificante della riforma?”, la cosa sarebbe stata diversa.

∗ Ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia G. Germani, Napoli

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Riformulo la domanda. Quali sono per lei i punti più importanti della riforma? Benissimo. Secondo me uno dei punti più importanti della riforma è, intanto,

l’introduzione di un principio meritocratico all’interno dell’organizzazione accademica. Per esempio la possibilità di ancorare la dinamica delle retribuzioni ai tassi di produttività accertati secondo parametri condivisi. Produttività scientifica, produttività didattica, qualità della ricerca. Questo mi sembra un punto qualificante, nel senso che prima la meritocrazia è stata contrastata in ogni modo sulla scorta di una malintesa ideologia massificante, falsamente egualitaristica e sostanzialmente omologante. Tutto ciò mortifica la ricerca perché la ricerca, contrariamente a quello che si crede, non è eguaglianza ma differenza. Se ci fosse l’eguaglianza non ci sarebbe la ricerca. La ricerca implica la possibilità di avere idee diverse, nuove, e che talvolta queste idee diverse possono essere produttrici di nuovi paradigmi, di nuovi percorsi, di nuovi tracciati. E questo avviene anche legando la sua attività a una premialità connessa agli incentivi. Non è vero che nell’ambito scientifico la dinamica degli incentivi non debba avere un peso e un valore, anche in ambito scientifico i ricercatori hanno bisogno di incentivi. Diceva Adam Smith: “Noi dobbiamo pensare alla possibilità che sul nostro piatto arrivino le salsicce non in virtù della benevolenza del macellaio, ma in virtù del suo egoismo”, cioè in rapporto alla volontà di trarne profitto. È questa la condizione necessaria. Quindi il fatto che la Gelmini ancori la dinamica delle retribuzioni a questo elemento della produttività e della qualità scientifica mi sembra una rivoluzione nel mio paese, una vera e propria rivoluzione! Non a caso è stata avversata dai conservatori di destra e di sinistra che tengono in mano l’apparato accademico, come lei sa bene.

La meritocrazia alla quale lei fa riferimento riguarda la produttività scientifica,

però per meritocrazia si fa riferimento anche a un altro elemento, quello della selezione. In merito al problema della selezione, all’interno della riforma Gelmini, è noto che le commissioni saranno composte da cinque ordinari. Molti sostengono che ciò contribuirà ad un’ulteriore verticizzazione della piramide accademica, lei che cosa pensa a riguardo?

La questione è molto semplice. I ricercatori e gli associati non vi hanno mai

partecipato, perché nelle commissioni obbedivano semplicemente alle indicazioni dei capi bastone. Questa era la condizione in virtù della quale avrebbero probabilmente ottenuto una promozione al prossimo concorso. Quindi, quando lei mi fa questa domanda o mi reputa ingenuo o è ingenuo lei. La verità è che adesso poiché saranno dentro le commissioni e saranno fatte le idoneità nazionali – e poi ci saranno le chiamate – non avranno nessun interesse a non far passare i più bravi. Perché se li ritroveranno che magari vincono da un’altra parte, sulla base di un altro capo bastone, e lo perdono! In realtà la questione dei sorteggi era stata già aggirata come lei sa, e le dico come, visto che dobbiamo lavare i panni sporchi in pubblico. Fatta la legge trovato l’inganno; quando il primo progetto di riforma sorteggiò le commissioni l’unica cosa che cambiò è che a quel punto le componenti accademiche dei capi bastone decidevano prima – decidono prima, fino a sei mesi fa – chi erano quelli che devono vincere i concorsi, dopodiché si siglava l’accordo

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delle componenti e chiunque andava in commissione doveva far passare quel candidato, perché altrimenti non passa quell’altro concorso o quell’altro ancora.

È come formalizzare una cosa che prima già esisteva implicitamente! Alla fine

sono sempre gli ordinari che decidono i concorsi… Allora perché mi hai fatto la domanda se già conosce la risposta! Vorrei cercare di capire in maniera più accurata alcune dinamiche sottotraccia

e, come me, vorrebbero farlo tanti aspiranti ricercatori. L’ordinario non ha nessun interesse a non far passare uno bravo, perché dopo

sei anni lo perde se questo è scarso. Questo è un punto chiave, poiché lo perde comunque gli conviene far passare uno di valore, perché altrimenti quello lì se ne va! Questa è una cosa che, tra l’altro, è stata detta anche dall’Espresso.

Lei, all’interno del Dipartimento di Napoli, è l’unico a difendere questa

posizione tra i ricercatori. Crede che la valutazione dei ricercatori a tempo determinato possa quindi incidere profondamente nei meccanismi di selezione?

Guardi la questione è molto semplice. Noi laureiamo circa cento persone

all’anno, di questi cento, due diventano dottori di ricerca, di questi due, uno proseguirà la carriera accademica in maniera stabile. Questo è un dato, è una piramide. Il problema è: come facciamo a capire che questo “uno” sia il più meritevole? Il più meritevole è anche una categoria molto complessa, perché significa il più meritevole dal punto di vista dei parametri accademici. Perché io posso avere un sociologo che sarà bravissimo come addetto alle relazioni esterne di Fiat o della Luxottica, che potrà essere bravissimo come capo dell’ufficio stampa della Uil, che potrà essere un padreterno come giornalista del Mattino, ma che non è vocato per la ricerca, per la riflessione teorica e per la didattica. Oppure posso avere addirittura un ricercatore bravissimo, che scrive dei testi deliziosi, ma più adatto al CNR perché quando entra in aula annoia gli studenti e dunque non è tagliato per fare l’accademia. L’accademia è un mix di ricerca scientifica e capacità di divulgazione, di coinvolgimento. Quindi deve essere una figura particolare, deve essere il numero uno dal punto di vista della detenzione di queste prerogative. Ora, è possibile che noi facciamo accedere un giovane studioso a una carriera che è quella del vecchio ricercatore e che magari può rimanere per sempre così, nella stessa posizione, senza avere dei riconoscimenti per la didattica. Un’attività, quest’ultima, che poi in realtà esercita, perché sappiamo benissimo che tutti i ricercatori sono professori aggregati da almeno cinque anni nell’università italiana. Quindi stiamo parlando semplicemente di una cosa ridicola. Però questa cosa della didattica avviene surrettiziamente. Con il progetto Gelmini invece noi abbiamo una cosa molto semplice: con il “tre più tre” noi andiamo a testare questo giovane studioso. Questo giovane studioso in tre anni più tre anni avrà dato la possibilità alla comunità scientifica di appurare non solo se è bravo dal punto di vista della ricerca scientifica – pubblicazioni, libri, articoli, qualità della ricerca empirica, partecipazione a progetti, team di ricerca e quant’altro – ma anche la sua tenuta dal punto di vista didattico, attraverso contratti, supplenze, attraverso collaborazioni

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seminariali che farà con i docenti accreditati nella sua facoltà di riferimento. Appurato che esiste la qualità dal punto di vista della produzione scientifica e la qualità dal punto di vista dell’attività didattica questo signore deve passare di ruolo, come docente, senza ulteriori step, punto! Se invece in questi sei anni – che non sono pochi – abbiamo accertato che, pur essendo una persona di valore, non ha maturato le caratteristiche complessive di qualità, produttive sul terreno scientifico e divulgative sul terreno didattico, per essere un accademico, prende un punteggio premiale che gli permetterà di accedere a dei concorsi pubblici. Penso a dei concorsi per l’insegnamento nelle scuole medie e superiori, per le scuole dell’obbligo.

Tutto ciò sulla carta e poi lei sa che i tre più tre sono vincolati alle risorse che

ogni dipartimento metterà a disposizione, e se le risorse sono scarse i rischi di una rinnovata forma di cooptazione sono evidenti. Lei che cosa ne pensa?

Si può cooptare una puttanella che si è scopata il capo bastone di riferimento,

che è una cosa legittima, oppure si può cooptare uno che ha scritto cinque libri e trenta pubblicazioni. Io faccio parte della seconda categoria. Quando sono entrato qua già avevo scritto cinque libri e trenta pubblicazioni, adesso ho al mio attivo dieci libri e settanta pubblicazioni, mi comprendi? Io sono stato cooptato a quarantadue anni con cinque libri e trenta pubblicazioni e sono fiero di essere stato cooptato, mi comprendi? Alcuni docenti dovrebbero essere arrestati perché mi hanno tenuto fuori alla porta per quindici anni. Perché io ho pubblicato Il Medium nucleare per Edizioni Lavoro nella collana di Edgar Morin nel 1986, quando tenevo ventiquattro anni! Mi comprendi? E ho avuto trenta recensioni che se vuoi ti faccio vedere. Lo salutarono come la svolta della sociologia italiana ed io avevo ventisei anni, mi comprendi? In quel momento decisero che io ero morto!

Lei, poi, ha intrapreso l’attività giornalistica se ricordo bene… Dovevo pur vivere… Mi dissero che avevo scritto un libro bellissimo ma non

potevano ammettere che un ragazzo che non avevano controllato potesse aspirare a una carriera accademica. Risultato: faccio il giornalista!

Lei ritiene che sia corretto tenere un ragazzo vincolato alle risorse finanziarie

di un dipartimento per sei anni e poi fargli correre il rischio di perdere il lavoro senza nessun paracadute?

Guardi il mio caso è emblematico. Io ho lavorato altrove, ho fatto il giornalista

per la Rai, per il Corriere della Sera, ho lavorato a Tempo Reale con Michele Santoro, ho fatto l’opinionista per il Corriere della Sera a ventisei anni. All’epoca al Corriere c’eravamo solo io e Alberoni. Insomma, sono sceso e mi sono andato a guadagnare la pagnotta, io ho fatto il direttore artistico a Città della Scienza, sono fondatore di Città della Scienza. Non so se è chiaro… ho fatto molte cose!

Vorrei ritornare sui cambiamenti introdotti dalla riforma Gelmini relativamente alla governance universitaria

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Piuttosto che pormi il problema del rafforzamento dei poteri del rettore guarderei oltre il punto di vista dei movimenti, ad esempio. Il tratto qualificante non sono i tagli e nemmeno il rafforzamento dei poteri del Rettore, ma il fatto che può fare due mandati e basta! E poi deve andare via, con potere retroattivo. Noi avevamo nelle università italiane, compresa quella di Napoli, la possibilità di avere dei rettori per trent’anni. La Gelmini, a prescindere da tutto, dice: tu puoi fare due mandati da quattro anni e poi te ne vai, pure se sei il più bel rettore che noi possiamo immaginare. Questo è un tentativo di immettere la dinamica della democrazia liberale – in ambito scientifico si chiama falsificazione, in ambito politico si chiama alternanza – dentro la struttura ossificata ed ingessata del mondo accademico. Dopo i mandati devi andare via e basta! Come se uno dicesse: tu sei Winston Churchill, hai sconfitto Hitler, sei stato un grande eroe ma vai alle elezioni e perdi! Perché non puoi stare per vent’anni nello stesso posto dopo che hai messo, che hai sistemato tutti i nipoti, tutti i cugini, tutti i parenti, poi tutti gli amici, poi tutti gli amici dei parenti. Devi andare via! Ora questa cosa è il tratto qualificante, il fatto che dia poi più potere è un bene. Perché il problema della democrazia, della governance democratica, non è l’indebolimento dei poteri, come si è creduto in questo paese dal ‘45 a oggi. Un governo ostaggio del parlamento, un governo ostaggio dei partiti non è possibile. Mi ripeto, la questione è questa: tu hai il potere di decidere però poi devi andare via! Questo è un punto chiave sollevato dall’ultima riforma. Il rettore ha potere decisionale autentico e non solo, all’interno vengono inseriti – come in tutte le università del mondo – rappresentanti del mondo esterno, della società civile, mondo dell’impresa, del sindacato, mondo delle professioni. Quest’ultimo è un altro punto molto importante. Perché? Perché l’Università è un’azienda. Così come l’azienda Camel produce sigarette, l’Università produce laureati, che significa professionisti, competenze. Ora queste competenze dove vanno a spendersi? Chi le acquista? Chi acquista il nostro prodotto? Le imprese, la pubblica amministrazione, l’informazione, l’industria culturale, ecc. Naturalmente nei limiti di una dinamica economica congiunturale di un paese o di una determinata comunità internazionale. Ora che questa società, in qualche misura, agisca dentro il terreno della direzione della governance a me pare un bene. Pensa che nelle università americane il rettore non può essere un docente, perché si fa il ragionamento per il quale il rettore per favorire la sua cordata accademica potrebbe depotenziare il potere attrattivo sul mercato della sua azienda e anche il rapporto con la direzione economica. Allora – gli americani – dicono che quello non deve essere un accademico, deve essere un manager e poi c’è il direttore scientifico che è un’altra cosa. E quest’ultimo deve fare i conti con il manager per decidere come procedere. Per capirci, all’interno di un’università americana non sarebbe mai potuto accadere che mentre l’ottanta per cento degli studenti – a prescindere se è una scelta saggia o giusta – sceglie di studiare i processi culturali e comunicativi, si chiamano nel frattempo tutti docenti di sociologia economica! Tutto questo non poteva accadere nell’università americana! Ma in qualche università italiana è accaduto per anni e anni. Perché? Perché i docenti di quella cordata facevano parte della loro cordata, mentre quelli dei processi culturali erano percepiti male perché non erano della stessa parrocchia. Ma nel frattempo gli studenti facevano le loro scelte. Come fare? Così prendono i docenti di sociologia economica e li camuffano, li fanno specializzare in marketing e risolvono la pratica. Le risulta che esistono facoltà dove è accaduto questo?

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Un altro punto riguarda il centro nazionale di valutazione, organismo

strutturato da poco e circondato da diverse considerazioni contrastanti. Tra queste, quelle relative alla rappresentanza dell’organismo mi sembra stiano creando non pochi problemi, lei che cosa pensa a riguardo?

Io credo che in realtà questo tentativo addirittura fu operato anche nel passato

ma non è stato mai portato a termine. Tenga presente che al momento queste iniziative meritorie dovranno fare i conti con il materiale umano che c’è in circolazione. Il materiale umano è quello! Quindi chi ci metti dentro? Metti uno delle vecchie cordate, quindi bisognerà aspettare che nell’università maturino nuove generazioni con una visione più originale, più nuova, più dinamica e che questi organismi possano essere arricchiti di nuove emergenze culturali, scientifiche. Emergenze per le quali potrà determinarsi anche un clima di maggiore pluralismo, è un meccanismo che va rodato. La botte ha il vino che ha e si fa quel che si può!

L’ultima domanda si rivolge più al sociologo che all’osservatore della riforma

Gelmini. Potrebbe spiegarmi quali sono le differenze tra i movimenti che hanno agito tra gli anni Sessanta e Settanta – quelli che per intenderci hanno contribuito ad alcune storiche riforme economiche e sociali – e i movimenti attuali, quelli che ad esempio sono nati per contrastare l’ultima riforma dell’istruzione?

Le dirò una cosa molto importante. La differenza sostanziale è che questi

movimenti attuali, allontanandosi dai movimenti degli anni Sessanta e Settanta, sono conservatori. Mi spiego meglio. I vecchi movimenti io li analizzo alla luce di due diversi livelli d’interpretazione, sono due infatti le traiettorie ermeneutiche che mi hanno interessato. Non mi sono mai chiesto che cosa proponessero i movimenti perché poi sostanzialmente io c’ero nei movimenti, ho potuto osservarli da vicino. Ricordo un movimento nel quale la prima parte del corteo inneggiava con il libretto di Mao Tse-Tung alla comune agricola, mentre la parte successiva del corteo invocava le teorie di Tronti, Negri e di potere operaio, l’automazione totale della società agricola e quindi l’automazione tecnologica come liberazione dal lavoro. Lei capisce che si tratta di due movimenti diversi ma che stavano in mezzo al corteo e non si capiva come era possibile. Quindi di quello che diceva il corteo a me non importava niente, perché sono forme retoriche che servono a costruire una fabula. Però una cosa che avevano quei movimenti era la rivendicazione in modo composto, caotico e contraddittorio della necessità di adeguamento dell’assetto istituzionale italiano a una realtà che era già cambiata. In altri termini, l’Università che era passata da centomila studenti a un milione, la scuola che era passata da cinquecentomila studenti a quattro milioni, quindi la scolarità di massa, masse di contadini poveri che dal Mezzogiorno avevano invaso le metropoli produttive del Nord e che erano diventate classe operaia. La terziarizzazione che già invadeva il territorio della configurazione produttiva, l’operaio con il figlio dottore, le donne con la minigonna, i diritti civili, il ruolo delle donne lavoratrici. Voglio dire che la società era più avanti delle istituzioni e quel movimento ha funzionato nell’intero Occidente, ma in Italia in modo particolare con un pizzico di ritardo perché c’è stata più tardi la rivoluzione industriale. Quel movimento in realtà rivendicava un

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adeguamento, non è un caso che l’unica sfera dove il movimento storicamente ha denunciato le sue vittorie e i suoi traguardi è la sfera dei diritti, del costume. Quindi è la prova, questa, che il movimento interpretava maldestramente la società. Per capirci io da sociologo leggo i movimenti di contestazione degli anni Sessanta non come la proposizione di un progetto, di un’ideologia; tutto ciò non m’interessa proprio, chiacchierologia allo stato puro! Li leggo dal punto di vista sintomatologico, erano il sintomo – quello che i medici vecchio stampo chiamavano febbri di crescenza – di una società che stava crescendo, stava modernizzandosi, aveva un apparato istituzionale che era ancora della vecchia Italietta post-contadina del dopoguerra, intrisa di vecchi strascichi di quell’Italietta liberale e poi fascista. Una società che doveva cambiare e di cui questi movimenti erano il sintomo di una necessità di cambiamento, che si esprimeva addirittura in forme reazionarie. Basti pensare al maoismo che si candidò ad interpretare la società dei consumi! Come poteva il pasolinismo nostalgico interpretare la modernizzazione? Erano distorsioni ideologiche, in realtà a me non interessa quello che dicevano i movimenti, a me interessa quello che esprimevano nei fatti. Ed esprimevano il desiderio di modernizzare. Insomma, i consigli di istituti, i consigli di facoltà, l’ingresso della democrazia nella scuola, l’ingresso della democrazia nelle università in un mondo in cui vigevano baronie che erano persino peggiori di quelle che ci sono attualmente! Quindi quei movimenti hanno avuto una funzione. E poi la democratizzazione sindacale, lo statuto dei lavoratori in fabbrica, i diritti sindacali, i diritti di libertà, i diritti delle donne, il divorzio, l’abolizione del delitto d’onore! Non so se riesco a spiegarmi su che cosa c’era in questo paese in quegli anni! Mentre invece i movimenti attuali sono esattamente il contrario. In altre parole, la società cambia, la società richiede liberalizzazioni, meritocrazia, competitività, logiche degli incentivi, logiche della ricerca, logica del rischio, logica dell’intrapresa e invece, paradossalmente, i movimenti frenano. Perché sono, nei fatti, cani da guardia della difesa di un vecchio assetto! Poiché proposte alternative non ci sono mai – mi assumo la responsabilità di quello che dico – nei fatti i movimenti agiscono per preservare la configurazione presente. Una configurazione che è il risultato distorto di quei movimenti precedenti.

Quindi non inventori ma conservatori del presente… Si, è la definizione più corretta. Grazie per la sua disponibilità.

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Conversazione con Luciano Brancaccio∗ a cura di Tommaso Ederoclite ed Enrico Sacco

Luciano, ci piacerebbe ascoltare il tuo punto di vista sulla protesta dei

ricercatori e sul più generale moto di dissenso del corpo docente nei confronti della riforma Gelmini.

A dire il vero, io, negli ultimi tempi, sono andato a poche riunioni. Sono stato

quello più presente in Facoltà, ho cercato di tenere insieme i ricercatori, ho cercato nei consigli di Facoltà di smuovere un po’ le acque, ma non sono stato il più attivo sul fronte della “rete di coordinamento 29 Aprile” di Ateneo – che negli ultimi incontri si è riunita insieme ad alcuni rappresentanti del Compass, la rete nazionale dei professori associati, per portare avanti assieme le istanze, come la questione della Commissione Statuto, il documento su come dovrà essere lo statuto di Ateneo, eccetera.

Comunque, cercherò di aiutarvi in questo sforzo di ricostruzione e riflessione. Il documento potete trovarlo on line, contiene le linee generali che dovrebbero essere fatte valere nelle commissioni statuto di tutti gli atenei. Quindi per la Federico II, per la Seconda Università e anche per altri atenei in Italia.

C’è stata, quindi, all’interno della Federico II una forma di dibattito e

discussione tra ricercatori e professori associati? Guarda no, la rete 29 Aprile è nata innanzitutto come rete dei ricercatori e ci

sono state grandi difficoltà poi a coinvolgere su queste iniziative anche le altre fasce docenti. Poi si è formata la rete Compass, la rete degli associati, che, però, è molto meno rappresentativa degli associati di quanto non sia invece la rete 29 Aprile per i ricercatori. In quest’ultimo caso la partecipazione è stata massiccia, mentre nel Compass sono poche le persone in questa Facoltà che hanno aderito, anzi nella nostra Facoltà non c’è nessuno che appartiene alla rete Compass.

A livello nazionale, poi, c’è anche un’altra rappresentanza. Il Coordinamento Nazionale dei Ricercatori Universitari, con cui c’è stata un po’ di disparità di vedute. Semplificando, diciamo che la rete del CNRU tende a tutelare di più i ricercatori anziani, mentre la rete 29 Aprile spinge di più sulla meritocrazia; spinge un po’ di più sul concetto di merito.

Vorremmo discutere con te su due punti. Quali sono le motivazioni che hanno

sostenuto la vostra protesta, attraverso le quali siete riusciti a mettere in atto nell’ultimo anno diverse iniziative? E cos’è quello che, passata la riforma Gelmini, volete continuare a portare avanti? Passato e futuro in sostanza…

I punti su cui ci siamo concentrati sono questi. Il primo è che i provvedimenti

precedenti e la riforma Gelmini sono sostanzialmente un taglio all’Università. Quindi c’è il problema quantitativo di voler affossare in qualche modo l’Università ∗ Ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia G. Germani, Napoli

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pubblica, tagliando consistentemente le risorse, e di merito. Su questi la rete 29 Aprile si è sempre espressa in maniera favorevole ma la critica era che si trattava di elementi irrisori rispetto al quadro generale. Quindi non è che la rete fosse contro tali provvedimenti, anzi proprio la rete 29 Aprile nasce come movimento che cerca di valorizzare l’esperienza di chi è stato all’estero, cerca di valorizzare i ricercatori più giovani, che ha posto il problema del reclutamento, di come si fa il reclutamento, e di come si passa dal dottorato all’attività successiva, all’attività di ricerca e agli avanzamenti successivi eccetera. La rete è stata molto attenta da questo punto di vista. Il secondo punto è il problema della democrazia interna, il problema della governance universitaria. Perché questa legge – forse diciamo la cosa più mastodontica – verticizza gli organi di governo dell’università. È per questo che la Conferenza dei rettori è stata così passiva nei confronti della legge.

Ma ritorniamo sugli elementi critici della riforma. Uno è la difesa dell’università pubblica che significa la difesa di risorse sostanziali per l’Università. Non si era in astratto contrari all’ingresso dei privati negli organi decisionali, ma il punto dal quale si partiva era che un paese avanzato non può non destinare al settore Ricerca e innovazione una percentuale significativa, come fanno altri paesi. Due, c’è il problema che noi abbiamo – anche per ragioni di reclutamento e di blocco del reclutamento avuto negli anni precedenti – un problema di sovra-rappresentazione delle fasce più alte, quelle con più potere. Per cui abbiamo molti ordinari, pochissimi associati e pochi ricercatori. La legge Gelmini, di fronte a questa fotografia dell’Università, rafforza questo stato di cose. Nelle Commissioni, per esempio, ci saranno solo gli ordinari, rafforzando gli elementi di gestione verticistica. Per queste ragioni noi ci siamo mobilitati.

Adesso, però, alcune cose la legge le dice chiaramente, ma in altre parti è generica e rimanda a decreti attuativi e alla riscrittura degli statuti degli atenei. Un esempio dell’indirizzo politico che sarà dominante – e che ci preoccupa molto – è rappresentato dal decreto attuativo uscito a gennaio riguardo i contratti d’insegnamento. Forse lo conoscerete. Alla faccia delle giovani generazioni, come dice la Gelmini! I nuovi contratti non andranno mai ai neo-dottori di ricerca, perché vanno a chi supera una certa soglia di reddito: ai professionisti della pubblica amministrazione, ai pensionati eccetera. E questa è la prova di qual è l’impostazione con cui si gestisce questa materia.

Riguardo poi la rappresentazione della vostra protesta occorre dire qualcosa.

Non sempre si è tratto di una rappresentazione positiva. In molti, all’interno e all’esterno delle università, hanno interpretato il malcontento dei ricercatori come una forma di rivendicazione corporativa, chiusa, strumentale. Tu che ne pensi?

Io penso che si tratti di un’immagine falsa. Forse inizialmente qualche elemento

di verità c’era. Nella bozza della prima versione del disegno di legge c’era forse il problema di un doppio trattamento, cioè i ricercatori a tempo indeterminato avevano una regolamentazione giuridica altra rispetto ai ricercatori nuovi che sarebbero entrati a tempo determinato. Per cui questi secondi avevano un accesso agevolato ai concorsi associati. Però questa cosa era enorme e insostenibile anche da un punto di vista costituzionale. E per questo, forse, all’inizio la protesta è stata letta come una protesta di categoria, però quella cosa è rientrata subito proprio perché era insostenibile costituzionalmente. Non l’avrebbero mai approvata, in

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sostanza. Per cui io non credo ci siano elementi per dire che la nostra sia stata una protesta corporativa, come si è sostenuto. Adesso non so su che cosa si basi quest’immagine prevalente. Tutto ciò s’interseca con un ulteriore punto che noi abbiamo sostenuto e cioè il problema di: come si fa il reclutamento, quali sono le risorse destinate al reclutamento e cosa debba fare un ricercatore. Il punto è questo. Noi veniamo da decenni in cui, in deroga alle intenzioni con cui era stata istituita la figura del ricercatore, il ricercatore strutturato e, ancor peggio, tutti quelli che a titolo precario – o con nessun titolo, cioè gratuitamente – collaborano con l’Università hanno sostenuto i corsi di laurea. Cioè noi, perlomeno dalla metà degli anni Novanta, andiamo avanti con i corsi e con gli esami grazie al lavoro gratuito, volontario, oppure dei ricercatori che, piuttosto che fare ricerca, si mettono a fare didattica dodici mesi all’anno. Senza queste risorse i corsi non si attivavano. Quindi noi abbiamo avuto un sovra-dimensionamento dell’offerta didattica e questo è il punto che poi ha anche caratterizzato una certa difficoltà dei rapporti interni alla nostra facoltà. Perché noi abbiamo avuto, a mio giudizio – anzi a nostro giudizio, perché la maggioranza dei colleghi è d’accordo – una programmazione didattica sovradimensionata. Noi abbiamo quattro corsi di laurea con 45 strutturati. Uno è stato eliminato, perché non c’erano i requisiti minimi, ma anche gli altri non possono essere portati avanti con le risorse attualmente disponibili. Allora noi abbiamo insistito sul fatto che i ricercatori a tempo determinato non dovessero essere impegnati nella didattica durante i primi anni di attività. Perché noi pensiamo che la figura del ricercatore è quella che manda avanti la ricerca, anche nelle nostre materie questo è molto importante. Quindi pensiamo che per un certo numero di anni il ricercatore dovrebbe dedicarsi davvero alla ricerca pubblica e accrescere la sua esperienza, andare all’estero eccetera. Poi dopo magari potrebbe iniziare ad insegnare, ma non – come l’ho fatto io – con 21 crediti perché alla fine non fa altro che quello. Ci sarebbe poi una ricaduta positiva anche in termini di didattica se ci fosse un corpo che si dedica alla ricerca dentro l’università e che mettesse nella didattica l’esperienza che ha maturato. Perché i docenti che oggi sono ordinari e che noi consideriamo i nostri maestri – e che stimiamo dal punto di vista scientifico – hanno a lungo svolto solo attività di ricerca e non si sono dedicati a tempo pieno alla didattica!

In questo modo, molti ricercatori non raggiungeranno mai il livello accademico

e l’anzianità conquistata dai vecchi ordinari… Esatto, qui c’è un problema sindacale riguardante le carriere, le remunerazioni,

gli scatti e le pensioni. Proprio per questo la nostra protesta non è corporativa, perché non ci siamo posti il problema delle retribuzioni e degli scatti.

Anche se inizialmente i ricercatori hanno proposto una sorta di sanatoria che li

avrebbe condotti alla fascia di professori associati… Si, la sanatoria. Questa era una proposta del CNRU, per questo poi c’è stata la

differenziazione tra le due reti di rappresentanza. Noi alla fine abbiamo fatto un passo indietro in questo senso, indirizzando l’attenzione su altro. Abbiamo faticato per fare questa cosa perché non è stata semplice; è da due anni che facciamo le riunioni. Sempre faticosamente. All’inizio della mobilitazione, quando la rete 29

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Aprile non si era ancora formata, il rappresentante del CNRU, Merafina, che è il rappresentante dei ricercatori ‘anzianotti’, ha detto: “Benissimo, siccome io rappresento tutti quelli che da più di dieci anni fanno didattica io cosa ottengo di diverso?”. Dal loro punto di vista era pure ragionevole, faccio lo stesso mestiere suo, identico, semplicemente ho meno potere accademico, ho uno stipendio un po’ più basso. Allora, il CNRU propose che chi faceva didattica da sei anni poteva essere considerato come associato, senza ulteriori aggravi per le casse dello stato. Cioè, io mantengo la mia forma stipendiale ma mi date il titolo di professore associato. Su questo la rete 29 aprile si è spaccata con il CNRU e ha detto no. Perché, per noi, ricercatori che, pur svolgendo la loro attività da vent’anni, non sono in grado, non meritano lo scatto a professore associato. E dunque noi, attenendoci a un criterio di merito, riteniamo che invece vadano fatti i concorsi e vanno valutati i migliori. E invece ci vogliamo concentrare su un altro tipo di discorso: vogliamo salvaguardare quella parte dell’accademia che si dedica alla ricerca, perché questa è la parte che consente poi di accrescere il sapere e che poi verrà trasmesso nella didattica.

Adesso una domanda sul Centro nazionale di valutazione. Ricordo che al suo

interno non erano ben rappresentate le scienze umane… E aggiungo che si trattava soprattutto di docenti del Nord. Senza entrare nel merito della rappresentatività dell’organismo, ti chiediamo

una riflessione generale sulla sua utilità. In linea generale, penso che il principio sia giusto, ma su queste cose – ve lo

dico sinceramente – sono poco informato. In linea di massima, la valutazione come principio guida era uno dei cardini su cui la rete 29 aprile ha insistito, ma su come si sta facendo io ho dei dubbi. Ed è un parere che si è formato leggendo – come fate voi – le informazioni e i documenti che circolano in rete e sui giornali. Voglio aggiungere però una cosa sull’offerta didattica. Al di là di quello che è passato, la mobilitazione ha raggiunto un buon risultato, quello di emancipare un po’ i ricercatori dal gioco classico, che fino ad oggi c’è stato ed era pesante fino a due anni fa. Nel senso che la programmazione didattica la decidevano gli ordinari, i quali poi assegnavano ai ricercatori di riferimento – anche in buona fede, perché è una prassi inveterata ormai – gli insegnamenti. Si dovevano fare gli insegnamenti, chi copre questo e chi copre quest’altro.

Con tutto quello che noi abbiamo fatto, con la rinuncia alla didattica, con gli scontri che abbiamo avuto in consiglio di facoltà, l’anno prossimo non sarà più così. L’anno prossimo rifaremo probabilmente la didattica, però piuttosto che caricarmi acriticamente sedici crediti, il mio corso sarà di sei crediti, quelli faccio! E il resto, se la facoltà non è in grado di sostenere la didattica perché non ha le risorse – e questo è il discorso anche di remunerare gli insegnamenti si chiudono i corsi. Perché la logica fino ad oggi è stata “buttiamo dentro quanto più iscritti è possibile, quanto più corsi di laurea è possibile e prima o poi ci arriveranno i soldi per coprire quest’offerta didattica”. Non è così adesso. Il criterio è cambiato ed è tutto basato sulla qualità. A caricarmi di troppi corsi, oggi, non faccio il mio bene e non faccio il bene della facoltà, perché le pubblicazioni contano e il dipartimento

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prende soldi dal centro di valutazione sulle pubblicazioni che io faccio. Dal punto di vista materiale, la mobilitazione ha portato che io sia libero di dire “faccio un solo corso l’anno prossimo”, e come me tanti altri ora saranno in grado di farlo. Quando qualcuno ha ricevuto pressioni individuali noi nel consiglio di facoltà ci siamo alzati e abbiamo detto “guardate ci sono queste cose e non si può più andare avanti così”. È stato un passaggio che ritengo epocale e che spero non sbiadisca nel corso dei prossimi anni.

Perché in passato non c’è stata una mobilitazione simile, quando già erano

chiare le condizioni a cui sono stati poi sottoposti i ricercatori? Perché tutto il malcontento è emerso con la riforma Gelmini?

Perché questa riforma Gelmini coincide con l’oggettivo peggioramento delle

cose. Ma la domanda è giusta. Non subito si comprende perché a un certo punto una massa così vasta (più del settanta per cento) di ricercatori si mobilita. A un certo punto è stato chiaro per i ricercatori che le prospettive di avanzamento di carriera non c’erano più. Concorsi non ce n’erano all’orizzonte, le risorse non c’erano. Erano già state tagliate in precedenza e ulteriormente quando Tremonti è diventato ministro delle finanze. Per cui, diciamo, ci siamo fatti dei calcoli. Ciascuno di noi si sarà fatto dei calcoli. Un calcolo razionale, anche opportunistico, ma legittimo. Io nei prossimi tre anni, se devo aspirare a un concorso per associato, che faccio? Faccio il corso per il mio professore e, quindi, mi piglio acriticamente i corsi? Oppure mi metto a pubblicare? È giusto che vengano valutate le pubblicazioni e mi metto a pubblicare, faccio il mio mestiere, faccio il ricercatore. Io non sono tenuto a fare la didattica. Per la mia carriera non va più bene strategicamente che io segua pedissequamente il mio mentore! Va meglio che io dica al mio mentore: “Troviamo un accordo. Io ti faccio un corso, non te ne faccio tre e il resto dell’anno vado all’estero e pubblico”. Questo accresce l’esperienza di ciascuno di noi e fortifica la credibilità dell’università in cui lavoriamo e arrivano anche più soldi.

Chiaro. Ora vorremmo rivolgere una domanda al sociologo Luciano

Brancaccio e non al partecipante della rete 29 Aprile. Tu conosci la storia dei movimenti in Italia, si tratta di realtà profondamente mutate nel corso degli ultimi due decenni. I movimenti diventano più frammentati, arroccati dietro singole tematiche. Perché non riescono più ad essere costruttori del presente? Ciò che è accaduto intorno alla riforma Gelmini è significativo, prima una grande mobilitazione e poi lo sgretolamento della protesta in mille rivoli. Una mobilitazione, oggi, che paradossalmente sembra ripiegarsi sotto i colpi dei decreti attuativi.

Non so se oggi i movimenti sono meno in grado di produrre realtà, diciamo

così, di quanto non fossero capaci quelli del passato. Io ho partecipato a molti movimenti – ricordo ad esempio la mia esperienza con la pantera – ma non ricordo esiti concreti di quei movimenti. Io non darei la colpa al calo della partecipazione politica, al calo della cura del ‘pubblico’ da parte delle generazioni di giovani. Ci sono, secondo me, degli snodi congiunturali che spiegano le grandi mobilitazioni e anche il loro occasionale successo. Negli anni Sessanta c’era una evidente

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pressione di generazioni che entravano nell’università dopo il miracolo economico. Bisognava, dunque, riformarla. Come dire, i movimenti sono efficaci oggi e lo erano anche allora, il punto è che quei movimenti poi agiscono in degli snodi storici strutturali che gli consentono di ottenere risultati oppure di non ottenerli.

E come spieghi la frammentarietà delle iniziative movimentiste: l’onda, il

popolo viola, la difesa della donna eccetera? Ho capito, io se penso alla pantera, a cosa ha lasciato sul territorio la pantera, il

discorso cambia. Tutto ciò che è successo nella prima metà degli anni Novanta, l’occupazione dei centri sociali e tutto quello che si verificò. Qualcosa si riuscì a cambiare. Però, in questo caso, la spiegazione è più di carattere politico, di cultura politica, di ideologia. Ci si trovava ancora in un momento d’identificazione collettiva che aveva una sua pregnanza, per cui l’esperienza nata, cresciuta, nell’università dava luogo anche all’esterno a dei presidi e ad altri tipi di iniziative con cui poteva collegarsi. Oggi, per esempio, quando c’è stata la manifestazione a Roma e hanno sfilato insieme gli studenti, i ricercatori e gli operai della Fiat è stato un momento interessante, però – come dire – era un po’ forzata questa cosa, non era perché davvero c’era un confluire oggettivo di interessi. Mentre i movimenti passati, in epoca prima repubblica – in epoca pre-ristrutturazione politica – le cose erano molto diverse. Quindi, che cosa si perde e che cosa si guadagna? È vera questa cosa che non si sedimentano più questi movimenti come succedeva con quelli del passato, però è pur vero che forse il venir meno di alcune bandiere ideologiche consente un maggiore pragmatismo e forse l’apprezzamento di qualche risultato che sul terreno concreto si ottiene. Per esempio uno di questi è quello che vi dicevo, cioè noi da oggi in poi non saremo più yes men degli ordinari di questa facoltà e come noi tanti altri. Certo, sono risultati parziali e direi sindacali quasi, corporativi, ottenuti da uomini che reagiscono dentro un mondo del lavoro circoscritto. C’è, però, un problema generale di narrazione della società. Non voglio fare discorsi troppo vaghi, ma noi abbiamo il problema di capire come si tiene assieme la società oggi, e i movimenti in questa fase storica non possono avere una sedimentazione più ampia, e forse è pure giusto così.

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Diversamente Strutturati? Il precariato universitario e le proteste a Milano di Alberta Giorgi

Tra i soggetti che hanno preso parte alle mobilitazioni universitarie degli ultimi anni, i non strutturati sono una categoria particolarmente interessante. Si tratta di un insieme di persone definito per differenza: sono, infatti, non strutturati, tutti coloro che collaborano a vario titolo con l’università, ma senza avere con essa un rapporto di lavoro subordinato o stabile. Assegnisti, dottorandi, docenti a contratto, tutor, cultori della materia, sono persone che insegnano, fanno ricerca, svolgono mansioni burocratiche e amministrative e lavorano spesso per anni nella stessa sede universitaria. L’importanza di tali figure all’interno dell’accademia è, tuttavia, in larga parte sottovalutata, per diverse ragioni. Innanzitutto, si tratta di personale considerato “in formazione”: dunque, il contributo fornito in termini di attività didattiche, paradidattiche e di ricerca, così come lo svolgimento di mansioni burocratiche e amministrative sono talvolta considerati parte integrante di un processo di crescita professionale, piuttosto che un lavoro. Anche in relazione a questo, molte attività svolte dai non strutturati sono fornite a titolo gratuito – risultando, quindi, poco visibili. In secondo luogo, la scarsa visibilità delle attività svolte dai non strutturati e la volatilità e la variabilità dei rapporti contrattuali dei singoli con l’accademia rendono difficile considerarli come una vera e propria categoria. Risulta quindi particolarmente complesso, anche per gli stessi docenti che con i non strutturati lavorano, dare una misura precisa del contributo che tali persone forniscono al buon funzionamento delle attività accademiche.

In un recente notiziario, pubblicato nel 20101, il MIUR conteggia 57000 collaboratori alla ricerca (assegnisti e collaboratori con contratti di ricerca di vario genere), 23000 persone coinvolte in attività didattiche e paradidattiche e 43899 docenti a contratto. Tali dati non sono di immediata interpretazione poiché si tratta, in primo luogo, di dati che enumerano contratti, non persone: è possibile quindi una stima per eccesso. Le docenze a contratto, infatti, possono essere svolte sia da personale completamente esterno all’università, come nel caso di professionisti affermati nel proprio settore che svolgono un’attività di docenza parallela alla propria attività lavorativa principale, sia da personale strutturato nell’università che insegna in altri atenei, sia da non strutturati. In secondo luogo, visto che i dati MIUR si basano sul numero di contratti, sono escluse dal conteggio tutte quelle persone che svolgono la propria attività a titolo gratuito – quindi è possibile che la stima sia per difetto. D’altra parte, però, in nessuna categoria sono inclusi i dottorandi.

A dispetto della varietà dei tipi di rapporto con l’università, sia in termini contrattuali che di “carriera”, e della difficile misurazione del contributo fornito all’accademia, i non strutturati sono accomunati dallo scarso riconoscimento attribuito al lavoro che svolgono. Fin dal movimento della Pantera i non strutturati 1 Vedi il Notiziario MIUR 5/2010, “Il personale a contratto 2008/2009”, disponibile sul sito internet del MIUR, all’url: statistica.miur.it/data/notiziario_5_2010.pdf (link aggiornato al 17/1/2011).

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hanno manifestato come categoria, ma è, in particolare, durante le manifestazioni contro la riforma Moratti del 2005 e, soprattutto, durante l’Onda, che l’auto-riconoscimento di una soggettività “non strutturata” ha trovato larga diffusione, a partire dalla comune sensazione che i vari tentativi di riforma dell’università trattano i giovani ricercatori precari non come una risorsa o un potenziale di innovazione sul quale investire, bensì in termini di costi da ridurre o tagliare.

All’interno degli atenei milanesi il riconoscimento di una comune condizione di non strutturati è stata la base per la costruzione di un coordinamento cittadino, nel 2008, e di azioni comuni nelle singole sedi universitarie. Il coordinamento dei ricercatori precari delle università milanesi, il cui nucleo portante è costituito da personale di facoltà umanistiche, si è dato il nome di “Diversamente Strutturati”, per indicare ironicamente il paradosso della propria condizione lavorativa. Gli obiettivi del coordinamento sono stati in primo luogo organizzativi: il blog http://diversamentestrutturati.noblogs.org/ e le riunioni periodiche (a cadenza variabile) avevano in primo luogo lo scopo di tessere una rete di contatti e di costituire un luogo di riflessione e di confronto comune per la componente non strutturata attiva nelle università pubbliche milanesi. In secondo luogo il coordinamento aveva gli stessi obiettivi del movimento: il ritiro dei tagli al fondo di finanziamento universitario previsti dalle finanziarie 2009 e 2010 e del DDL, poi legge, presentata dal ministro Gelmini. I membri del coordinamento hanno lavorato alla definizione di una soggettività di ricercatori precari e partecipato come componente attiva alle mobilitazioni universitarie, con manifestazioni, lezioni in piazza e nelle periferie (ma anche in metropolitana e in una moschea), incontri e confronti, sia locali che nazionali, con le diverse componenti mobilitate2.

Sebbene il coordinamento avesse come riferimento l’orizzonte nazionale, le mobilitazioni più significative si sono svolte a livello locale, nelle singole sedi universitarie. Nell’università di Milano-Bicocca, in particolare, a partire soprattutto dal settembre 2010 i non strutturati del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale hanno costruito un fronte comune di protesta che ha coniugato riflessioni di respiro nazionale sulle trasformazioni in corso nel mondo universitario (Riforma Gelmini, tagli agli investimenti) con istanze di natura più locale, volte a migliorare il contesto lavorativo e a responsabilizzare il personale docente nei confronti di una situazione di vita precaria, che diventa il simbolo della crisi in cui versa l’intero sistema universitario. Oltre agli strumenti “tradizionali” di protesta, come riunioni, volantini, assemblee, i non strutturati di sociologia si sono dichiarati indisponibili all’attività didattica e paradidattica, appropriandosi del e adattando alle proprie esigenze lo strumento principale di mobilitazione della componente dei ricercatori strutturati. Le attività didattiche dei non strutturati consistono generalmente in assistenza a corsi ed esami, laboratori e talvolta docenze a contratto. La facoltà di sociologia di Milano-Bicocca prevede nel piano di studi di tutti i corsi di laurea un certo numero di crediti da assegnare tramite la partecipazione degli studenti a laboratori didattici organizzati in larga parte da non strutturati. In concreto, i non strutturati hanno risposto ai bandi per l’assegnazione di tutorship e laboratori ma non hanno firmato i contratti e, di conseguenza, non hanno svolto le attività 2 Alcuni membri del coordinamento hanno dato vita ad un’auto-inchiesta per riflettere sulle mobilitazioni e contribuire al dibattito, i cui risultati sono pubblicati sul blog Diversamente Strutturati e in Caruso L., Giorgi A., Mattoni A. e Piazza G. (2010), a cura di, Alla ricerca dell’Onda. I nuovi conflitti nell’istruzione superiore, FrancoAngeli, Milano.

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previste3. Tale blocco dei laboratori e delle attività paradidattiche ha creato un certo disagio alla facoltà, soprattutto perché queste attività sono state svolte per anni dalle medesime persone che, quindi, risultano difficilmente sostituibili.

L’obiettivo della mobilitazione era sostanzialmente l’ottenimento di un riconoscimento sul piano simbolico della propria condizione di lavoratori importanti per l’università, attraverso due tipi di richieste. Il primo tipo di richieste verteva sul miglioramento delle condizioni di lavoro dei non strutturati, attraverso l’attivazione di tesserini di riconoscimento nominali per accedere agli strumenti di lavoro (come la biblioteca), il mantenimento della mail di ateneo allo scadere del contratto, lo stanziamento di fondi per attività come conferenze e periodi di studio all’estero. La seconda richiesta, più generale, prevedeva il coinvolgimento e l’attivazione delle componenti strutturate della facoltà, attraverso la promozione di un’assunzione di responsabilità rispetto alla condizione di lavoro dei non strutturati. I non strutturati hanno quindi stilato un documento di richieste4 puntuali dirette ai docenti del Dipartimento e sono stati varati quattro tavoli di lavoro, che hanno visto la partecipazione congiunta di docenti e non strutturati, sui seguenti temi: miglioramento delle condizioni di lavoro, relazioni tra università e aziende (tavolo spin-off), ri-organizzazione delle attività della scuola di dottorato, trasparenza nelle procedure di valutazione. Ciascun tavolo ha prodotto un documento di risoluzioni e di impegni da far votare ai consigli di Dipartimento e di Facoltà.

Il processo decisionale interno al gruppo dei non strutturati si è svolto attraverso riunioni periodiche e discussioni all’interno di una mailing list dedicata; le proposte emergenti sono state votate periodicamente attraverso la costruzione di sondaggi on line per permettere la partecipazione anche di chi non poteva essere presente fisicamente alle riunioni. Dal punto di vista dei non strutturati, infatti, oltre alle richieste specifiche e alla mobilitazione del personale strutturato, lo scopo era anche quello di aprire una discussione e un confronto aperto a tutti i non strutturati e in effetti, alle riunioni e alla mobilitazione interna hanno partecipato sia persone attive sul piano della protesta nazionale, sia persone non totalmente critiche verso la riforma Gelmini, che non si sono mobilitate sul piano nazionale e che tuttavia hanno visto nei tavoli un’opportunità per il miglioramento delle condizioni di lavoro in università.

Essendo la comunicazione delle ragioni della protesta e delle istanze un aspetto molto rilevante, particolare cura è stata data in primo luogo al confronto interno alla sede universitaria di Milano-Bicocca, con gli studenti, i docenti, e i non strutturati degli altri dipartimenti. In secondo luogo, sono state organizzate diverse iniziative di visibilità pubblica. Da questo punto di vista, rappresentanti degli attivisti hanno partecipato alle diverse riunioni locali e nazionali del movimento universitario, a confronti e incontri con movimenti diversi (del mondo dello spettacolo, contro la precarietà…) a trasmissioni radiofoniche e televisive; infine, diverse iniziative sono state sviluppate in Bicocca per ‘raccontare’ la protesta.

È presto per trarre un bilancio dell’esperienza di mobilitazione ancora in corso. Tuttavia, alcuni spunti possono risultare utili ad una riflessione più generale sul 3 I ricercatori della facoltà, invece, non si sono dichiarati indisponibili. 4 Il documento è scaricabile all’URL: http://diversamentestrutturati.noblogs.org/post/2010/10/11/sociologia-bicocca-blocco-della-didattica/

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sistema di vincoli ed opportunità della protesta dei ricercatori precari5. In altre sedi universitarie la componente non strutturata è minore in termini numerici e più frammentata: la possibilità di mobilitazione a Milano è legata anche all’elevato numero di non strutturati concentrati in un unico dipartimento e particolarmente impegnati nelle attività didattiche della facoltà. Le maggiori difficoltà sono relative alla categorizzazione dei non strutturati: i docenti, infatti, spesso manifestano una forte resistenza a considerare assegnisti, dottorandi, cultori della materia come una componente unitaria. L’attribuzione della categoria di precariato ai non strutturati, inoltre, ha suscitato parecchie perplessità tra il personale strutturato. Peraltro, una mobilitazione di lungo periodo che coniuga aspetti di rivendicazione sindacale con riflessioni più generali (e con un’agenda di protesta nazionale) è difficile da mantenere, in termini di impegno personale. Tuttavia, si tratta di un’esperienza finora positiva, che ha strutturato tra gli attivisti una rete di solidarietà, a dispetto della frammentazione delle condizioni di lavoro, e una maggiore consapevolezza rispetto alla propria condizione e all’importanza del proprio lavoro all’interno dell’Ateneo.

5 Per meglio conoscere ed affrontare le questioni relative al precariato in università, anche i Diversamente Strutturati partecipano all’auto-inchiesta promossa da Saperi Precari (http://saperiprecari.noblogs.org/).

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Il nostro tempo è adesso (ma sarebbe stato meglio nove anni fa) di Francesco Antonelli, Robert Castrucci, Giulio Marini

Abbiamo iniziato a vederci spontaneamente, come naturalmente si possono formare dei gruppi di amici nell’ambito di un corso post-universitario. E discutendo ci siamo accorti di avere in comune molto di più che non una semplice, reciproca simpatia. Da più o meno tempo eravamo tutti alle prese con un mercato del lavoro penalizzante. Tutti lavoravamo e tutti eravamo atipici: chi sgobbava nell’università, facendo corsi ed esami a titolo gratuito, chi nel mondo della ricerca privata, chi vagava tra improbabili contratti a cottimo nel commercio, chi, al netto di numerose esperienze pregresse, ancora non aveva capito cosa fare “da grande”. Tutti avvertivamo un senso di spaesante solitudine nel nostro individuale approccio con i vari datori di lavoro.

Forti di queste comuni condizioni decidemmo di approfondire le nostre differenze, di confrontarci astraendo dal concreto e di analizzare con piglio metodico cosa stava succedendo a livelli più generali: perché il mercato del lavoro si stesse strutturando in quel modo in quegli anni in Italia; cosa avesse a che fare questo con l’allora molto citata “economia della conoscenza”; cosa avremmo potuto fare di noi stessi e con noi stessi e l’un con l’altro per vivere questo tempo instabile.

Così nacque Sa-La, gruppo o collettivo “Sapere Lavoro”, dedito all’indagine sociale e al confronto sui temi del lavoro atipico nel campo della produzione di conoscenza. Affrontammo il tema del precariato, del lavoro autonomo di seconda generazione, dell’autoimpiego e del capitalismo personale. Ci esaltammo con l’ascesa della Classe creativa di Richard Florida, e ci abbattemmo con il “cognitariato” di Bifo, riflettemmo sull’immateriale con Andrè Gorz, cercammo di capire l’etica hacker e la società in rete con Himmanen e Castells. Ci incazzammo con la deresponsabilizzazione di borghesia e classi dirigenti e approfondimmo i limiti del Sindacato e della sinistra lavorista. Insomma: studiammo e discutemmo. Davanti a un piatto di pasta o a un bicchiere di vino (le nostre cene di Sa-La), mettendo in piedi una mailing-list, aprendo un blog e fondando un’associazione culturale.

Si può dire molto sugli obiettivi raggiunti e su quelli non raggiunti da Sapere Lavoro. La nostra ricerca è proseguita e progredita con pubblicazioni, articoli, libri e seminari. Il sostegno reciproco non è mai mancato e siamo riusciti ad aiutarci l’un con l’altro anche nel lavoro (interpretando e ridefinendo a nostro modo il ritorno al mutualismo operaio di cui si parlava allora). Abbiamo creato una comunità di lavoro, intrecciando rapporti fluidi, più o meno occasionali, con altre persone e altri progetti. In questo senso ci sentiamo di dire che Sapere Lavoro ha funzionato.

Non siamo invece riusciti a redigere un manifesto o a scrivere un libro collettivo, come pure altri gruppi simili al nostro avevano fatto (Laser, Ippolita e altri). E non siamo riusciti a dare impulso a un movimento più ampio contro il precariato, che pure era tra i nostri obiettivi (almeno, tra quelli di chi firma questo articolo).

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Perché non passammo dalla teoria alla prassi? In parte le ragioni di questa mancanza si ritrovano fin dall’eterogeneità del gruppo – chi ritiene il “precariato” una forma in cui essere al mondo e considera la propria condizione preferibile all’ingabbiamento in una posizione “dipendente”, chi quella posizione da dipendente l’ha cercata e vi si adatta – , in parte esse sono inscritte nella condizione sociale dei knowledge workers, un po’ cognitariato, un po’ intellettuali individualisti. Ma in buona parte la ragione risiede nell’assenza di sponde sociali e politiche adeguate.

C’era San Precario, soprattutto a Milano, ma era un movimento che richiedeva di aderire a una piattaforma politico-sindacale molto ampia: troppo ampia per un gruppo vario come il nostro. C’era il Sindacato ma era come se non ci fosse: a parole tutti contro il precariato, nei fatti nessuna proposta o soluzione che migliorasse la condizione nostra e di quelli come noi. Qualcuno di noi pensava che l’essere contro il precariato da parte del sindacato fosse un essere contro i precari, percepiti come una minaccia. Una minaccia a condizioni di lavoro e diritti acquisiti dalla sempre più esigua maggioranza dei lavoratori. Qualcun altro partecipava alle adunanze di massa contro l’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori e poi se ne tornava a casa solo e il giorno successivo continuava a sperare che gli rinnovassero il contratto per altri sei mesi. Qualcuno infine tentò l’approccio con una nuova forma di sindacalismo del lavoro autonomo.

Nessuno di noi ha capito perché alcuni continuano a sostenere che la flessibilità, il precariato, dovrebbero essere solo condizioni transitorie, momenti di passaggio verso una condizione altra, quella del lavoro fisso, a tempo indeterminato – negando così diritti a queste crisalidi in attesa di divenire farfalle – anche quando questo lavoro fisso, alcuni di noi, lo hanno trovato.

Nel frattempo sono passati nove anni, abbiamo vissuto e amato. Abbiamo lavorato. Parecchio e con passione. Con contratti di collaborazione occasionale, di collaborazione coordinata e continuativa, di collaborazione a progetto, a tempo determinato, senza contratto, pagati al nero, non pagati al nero, pagati in natura, non pagati punto. Con partita Iva, con ritenuta d’acconto, con cessione di diritti d’autore, con il fischio, senza raschio.

Ci siamo scontrati con le banche che ci rifiutavano il credito (per comprare casa ma anche per avere una semplice carta di plastica), con lo Stato che ci prelevava contributi previdenziali che non sappiamo dove siano finiti ma che sappiamo che non ci ridaranno mai sotto forma di pensione, abbiamo lottato con controparti datoriali sempre più ciniche – e in modo sempre più disinibito – nello sfruttare una legislazione del lavoro troppo generosa per loro. Qualcuno ha messo su famiglia, qualcuno è andato all’estero, qualcuno è tornato.

Ora che abbiamo i capelli un po’ più grigi e un po’ più radi e un lavoro un po’ più stabile (ma per quanto? e a quale prezzo?).

Ora che il senso di fragilità dell’esistenza si è instillato giorno dopo giorno, goccia dopo goccia, anno dopo anno, e che ci accompagnerà per tutta la vita, non importa quanto “sicuro” possa essere l’attuale posto di lavoro.

Ora che siamo meno giovani ma non più stanchi. Ora che è sempre stato il nostro tempo. Ora. Il nostro tempo è adesso.

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Accenti – Periodico telematico di Scienze Politiche e Sociali N° 2, anno 2011

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Hughes E. C., The Sociological Eye: Selected Papers, Transaction Publishers, New Brunswick 1984, ed. it. Lo sguardo sociologico, Il Mulino 2010 di Antonietta De Feo

In Italia, il pensiero di Everett C. Hughes (1897-1983) ha ottenuto una più rilevante diffusione e notorietà solo di recente, con la prima traduzione di saggi dell’Autore raccolti in un’antologia di grande interesse per la ricerca sociale.

“Lo sguardo sociologico” rappresenta un pezzo dell’eredità intellettuale della Scuola di Chicago e più precisamente una riserva di istanze, indizi e osservazioni, di proposte interpretative e concettuali sulla realtà sociale, cui hanno tratto ispirazione sociologi del calibro di Erving

Goffman, Howard S. Becker e Eliot Freidson. A un’attenta lettura ci si rende subito conto che la straordinaria varietà di

“rompicapi” della vita umana che Hughes prende in esame è informata di uno “sguardo” singolare e orientato dalla pratica di ricerca sul campo (fieldwork). In altri termini, l’Autore si muove su differenti campi di studio – dalle relazioni etniche alla natura delle istituzioni fino alla divisione del lavoro –, tutti declinati in immagini concepite a partire da una stessa prospettiva metodologica. Fare sociologia per Hughes significa, infatti, intrattenere un dialogo continuo con il mondo empirico, sporcarsi del “fango della quotidianità” (Riesman, 1983), fare in modo che le idee e i concetti si pongano sempre in un rapporto stretto di “autocorrezione” con le contingenze dell’esistenza.

Così Hughes resta sospettoso della Teoria (quella con la T maiuscola), ritenendo un’impervia ambizione la volontà di purificare la struttura logica delle idee dal caos dell’esperienza umana. Questo si riflette, tra l’altro, nella limitata sistematicità del suo pensiero: il linguaggio non eccede mai in specialismi disciplinari, è poco conforme agli stilemi classici di pubblicazione nel campo delle scienze sociali ed anzi appare, come afferma Chapoulie (1984), espressione di una libera associazione di idee. Nondimeno sarebbe inesatto definire l’opera di Hughes come “ateoretica”. Semplicemente, egli suggerisce cautela nell’uso di generalizzazioni, che possono pregiudicare la comprensione del carattere distintivo di ogni istanza empirica. Nessun concetto, seppur formulato secondo le esigenze del protocollo scientifico, può dunque descrivere in maniera completa la pienezza dei processi reali dell’esistenza1. Da cui il rifiuto delle operazioni di classificazione

1 Si tratta di un discorso su cui è di sorprendente evidenza l’influenza esercitata dal pensiero di Georg Simmel, uno dei maestri di Robert Park di cui Hughes fu allievo. Il noto sociologo tedesco, infatti, rileva che i concetti di cui ci serviamo sembrano condensare in sé e quasi rendere “maneggevoli” i campi sconfinati della vita sociale. In realtà questi concetti “proiettano la totalità delle cose sussunte sotto di esse su un nuovo piano, in formazioni autonome sebbene tratte dal materiale dei fenomeni immediati” (Simmel 1982, ed it. p. 464-465). In Hughes queste considerazioni sembrano svilupparsi ulteriormente, dal momento che l’Autore americano ne trae indicazioni sul piano della pratica di ricerca. In effetti, se i concetti sono forme incomplete, occorre per essi una costante manutenzione che

à Recensioni

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nonché l’uso limitato di metodi quantitativi di gestione dei dati sociali, a cui Hughes preferiva la pratica dell’osservazione delle persone in situ.

Dal punto di vista degli interessi tematici, quello relativo alle “professioni” attraversa pressoché tutto l’arco della biografia intellettuale di Hughes e rappresenta il contributo più originale – se non per certi versi pionieristico – su cui la recente sociologia dei gruppi professionali2 prende spunto.

Hughes parte da una critica all’idea funzionalista di professione – allora predominante – come attività nobile, prestigiosa e disinteressata. Questa costruzione concettuale quasi mitologica è secondo l’Autore ben lungi dall’essere esente da pregiudizi. In altre parole, la prospettiva funzionalista riproduce ingenuamente il discorso che i professionisti – si pensi al medico o all’avvocato – fanno su loro stessi per legittimare una posizione sociale di privilegio. L’errore sta, dunque, nel trattare come pura categoria analitica ciò che è invece un costrutto storico, legato ai processi di costruzione sociale degli agenti:3

“Dal momento che il linguaggio riguardante il lavoro è così carico di giudizi di valore e di prestigio e di una scelta difensiva di simboli, non dovremmo stupirci che i concetti degli scienziati sociali che studiano il lavoro siano portatori di un tale carico, poiché il legame dei concetti della scienza sociale con il linguaggio comune rimane stretto a dispetto dei nostri sforzi di separarli. La differenza è che il giudizio di valore nel discorso comune è naturale ed appropriato [...] mentre nel discorso scientifico il concetto carico di valore può oscurare la vista” [p. 268].

La sospensione di giudizio richiesta dall’esperienza di studio del mondo del lavoro diventa un problema metodologico che si risolve – parafrasando Thomas Kuhn – nei puzzle-solving della tradizione di Chicago. Hughes si avvale, in particolare, del metodo comparativo, che gli permette di collocare ogni professione nei termini del posto che occupa in mezzo ad altre attività lavorative. In questo quadro, egli ottiene una maggiore profondità analitica applicando allo studio di quelle professioni cui generalmente si attribuisce valore elevato, i concetti sviluppati in relazione alle occupazioni più basse e viceversa. Così, la ricerca dell’autonomia e di una posizione protetta speciale nel mercato del lavoro è una dimensione comune a tutti i gruppi occupazionali, seppur declinata in forme e livelli diversi.

Per sottrarsi ad ogni specie di stereotipo o retorica, l’Autore invita inoltre a situare l’oggetto di studio in una dinamica temporale. Egli considera cioè la traiettoria biografica e professionale degli individui, ma entro i movimenti ininterrotti che si manifestano all’interno delle formazioni collettive e istituzionali alle quali gli stessi individui appartengono. Questa prospettiva definisce la pratica di ricerca come tensione costante verso la scoperta di relazioni di interdipendenza della singola parte con il tutto: ogni occupazione è analizzata sia come processo

si elabora attraverso un impegno di campo, “a contatto con il succo empirico della vita” [p. 111]. 2 Come precisa Claude Dubar (1998), la Sociologia dei gruppi professionali si distingue dalla più tradizionale Sociologia delle professioni per l’importanza che, attraverso il termine “gruppo”, attribuisce alle pratiche relazionali e alle forme identitarie connesse allo svolgimento di una particolare attività professionale. 3 Hughes sposta il focus d’analisi su un’idea di “professione” che è stata più tardi definita come folk concept: una categoria, cioè, di uso comune disponibile ai membri dei vari gruppi sociali per organizzare la loro percezione della realtà.

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soggettivamente significante sia come forma di interazioni tra i suoi membri orientata alla creazione di un “ordine interno” sempre provvisorio ma necessario.

Su questo sfondo, Hughes passa ad osservare la situazione dei sociologi prendendo le mosse proprio dal termine professione. Si tratta di una riflessione di insieme sulla sociologia come fenomeno sociale, sulla sua storia e sui suoi problemi “professionali e di carriera”, che pone interrogativi ancora oggi al centro del dibattito accademico internazionale.

Egli individua nell’organizzazione dell’attività sociologica (quella statunitense tra gli anni Quaranta e Sessanta) un processo di professionalizzazione nei termini di sforzi collettivi per il riconoscimento di uno status analogo a quello di altri campi disciplinari presenti nel mondo accademico e scientifico. Questo processo pone una prima questione di rilievo: la definizione dei confini della sociologia rispetto agli altri rami della scienza sociale, dal punto di vista sia teorico-disciplinare che pratico. Hughes si interroga su quale possa essere il campo di indagine che fa della sociologia una scienza autonoma e dai confini limitati. Come già per Simmel, il sociologo americano individua nei modelli dell’interazione sociale e nelle loro molteplici variazioni l’interesse strictu sensu della sociologia, piuttosto che in un’idea di società priva di realtà effettiva. In questi termini, oggetto di studio della sociologia non è la sostanza specifica dei fenomeni sociali, politici, economici, giuridici, ma sono le forme di interazione che ad essi sottostanno. Vista così, la definizione dei confini di competenza rispetto agli altri campi del sapere e della pratica sociale (dall’economia al diritto, dalla psicologia alle scienze politiche) può non implicare alcun conflitto giurisdizionale e al contrario può essere compiuta in un rapporto di complementarietà, senza precludere cioè la costruzione di ben più proficui percorsi multidisciplinari. Ciò apre una questione di ordine pratico, che include “il problema del grado ottimale di separazione della carriera sociologica dalle altre” [p. 339]. In effetti, ciò che osserva Hughes negli anni Cinquanta è un movimento professionalizzante della sociologia americana che agisce lungo la direzione di una maggiore specializzazione delle conoscenze e di una distinzione più netta tra chi è dentro e chi è fuori. La chiusura che ne deriva, tradotta poi in regole rigide di accesso alla formazione, se da un lato permette il costituirsi di un forte spirito di appartenenza tra i membri del gruppo, dall’altro può impedire una più libera circolazione delle menti nonché generare difficoltà di assorbimento dei sociologi al di fuori del mercato accademico. La sua posizione al riguardo è chiarita – in modo magistrale – da questo breve passaggio a conclusione della sua riflessione sull’attività professionale e di formazione della sociologia:

“La specializzazione e la professione ‘chiusa’ dovrebbero esser strumenti, non fini in se stessi. Può ben essere che in molti paesi la sociologia debba essere combinata con altre attività per poter raggiungere un tasso di circolazione tale da continuare a far sì che nuove reclute optino per essa e da creare un gruppo di collaboratori sufficientemente numeroso da stimolare l’interazione reciproca e contribuire all’analisi sociologica della vita di quei paesi. Una di queste combinazioni più immediate è quella con altri rami della scienza sociale o con vari tipi di pratiche sociali” [p. 338].

Le dinamiche di distinzione e riconoscimento della sociologia non sono, tuttavia, solo di ordine intraprofessionale, ma per Hughes vanno analizzate in rapporto al pubblico di riferimento. I dilemmi richiamati a questo proposito sono diversi: qual è il compito principale del sociologo? Che tipo di servizio

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professionale fornisce? Qual è, in altri termini, la natura del suo mandato? La riflessione dell’Autore va oltre l’arbitraria separazione tra la sociologia come professione puramente accademica e la sociologia come ambito di intervento su problemi pratici della vita sociale. Di certo, ci sono alcuni che sono più inclini a fornire consulenze dietro pagamento, altri che preferiscono separare il proprio lavoro da qualsiasi influenza che deriva dall’idea di un’applicazione a beneficio di una committenza. Al di là di queste differenti finalità, le scelte del sociologo sono sempre informate di un’apprensione per i problemi del mondo contemporaneo, il mondo in cui egli vive e osserva:

“È improbabile che saremo sempre esonerati dalla richiesta di mostrare un interesse specifico delle condizioni e dei cambiamenti del mondo intorno a noi […]. Interpretare il ruolo dell’outsider disinteressato e fuori dal tempo è una parte importante nel repertorio dello scienziato sociale, ma non è tutto. Il nostro ruolo richiede sempre un’intensa curiosità e preoccupazione personali per gli individui e i problemi studiati” [p. 336].

Un’analisi sociologica che si propone come distaccata e oggettiva è la più insidiosa poiché implica il disconoscimento del ruolo giocato dai sentimenti nel lavoro sociologico, e non solo. Precisamente, “il fatto che la nostra conoscenza non è mai socialmente indifferente continuerà a metterci sempre nella posizione di persone che forniscono un servizio (o un disservizio) al proprio cliente, la società” [p. 332].

Chiaramente emerge la questione della neutralità intellettuale. Per Hughes il sociologo ha di sicuro anche un suo “universo di discorso”, che attinge a un immaginario professionale e scientificamente condiviso, il quale tuttavia interagisce con il pubblico profano che avrà anch’esso un sua definizione di ogni problema della vita sociale, espressa in termini morali, politici, religiosi o altro.

Il trucco sta dunque nel collocarsi nell’infinita dialettica tra il ruolo di membro (partecipante) e di estraneo (osservatore), trucco che costituisce il nucleo portante della ricerca sul campo. Questa proposta metodologica richiede un’abilità che va maturata nel tempo ed è per certi versi non priva di difficoltà perché mette in gioco aspetti morali, personali e insieme scientifici; di contro, consente di uscire dall’autoreferenzialità in cui non poche volte incorriamo.

In conclusione, l’invito che andrebbe condiviso, già elemento distintivo della prima generazione di studiosi della Scuola di Chicago, è promuovere uno sforzo continuo e sistematico da profondere nel fieldwork. La tensione a una costante etnografia del sociale basata sull’analisi di campo, sui case studies, sull’uso di “documenti umani” che spaziano dall’osservazione partecipante alle storie di vita ha fatto di Chicago un laboratorio vivente e ha permesso di cogliere l’universo referenziale dell’individuo calandosi nel suo vissuto soggettivo e nel suo punto di vista.

Bibliografia Chapoulie J.M. (1984), “Everett C. Hughes et le développement du travail de terrain en

sociologie”, Revue française de sociologie, n. 4, pp. 582-608. Dubar C. (1998), “Sociologia dei gruppi professionali e analisi biografica: categorie e

forme identitarie”, Sociologia del lavoro, n. 70-71, pp. 67- 80

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Riesman D.(1983), “The Legacy of Everett Hughes”, Contemporary Sociology, n. 12 (5), pp. 477-481

Simmel G. (1983), Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung, trad. it. Sociologia, Edizioni di Comunità, Torino, 1998

Dal Lago A., Eroi di carta, Manifestolibri, Roma 2010 di Livio Santoro

Bisogna dirla tutta, dal 2006 in poi la sociologia italiana è stata inghiottita da un tremendo dibattito, in cui, a suon di pubblicazioni, si è discusso su un argomento delicato tanto dal punto di vista etico quanto da quello scientifico: la camorra. Alla base di questo dibattito sembra stia non soltanto l’esigenza di discutere del fenomeno in sé, come esigenza nata originariamente da un interrogativo scientifico. Alla base di questo dibattito c’è anche (verrebbe da dire soprattutto) la

originaria pubblicazione di Gomorra, libro definito con l’aggettivo ottimo addirittura dal premio Nobel Mario Vargas Llosa. A partire dal 2006, in ogni caso, la sociologia italiana ha trovato molto di che parlare (si pensi al fatto che due delle maggiori riviste nazionali di scienze sociali, Rassegna italiana di sociologia ed Etnografia e ricerca sociale, hanno negli ultimi anni dedicato un numero monografico alla camorra, ma entrambe a partire dalla pubblicazione di Gomorra). All’interno di questo ampissimo dibattito si è, su tutte, evidenziata una rivalità scientifica, quella che coinvolge Roberto Saviano e Alessandro Dal Lago. Il primo, giovane e inesperto scienziato sociale, è l’autore di Gomorra, un libro di massa che in soli quattro anni è diventato non solo best seller, ma addirittura pietra di paragone della letteratura italiana. Il secondo, studioso d’esperienza, è un antropologo arrabbiato a cui l’enorme successo di pubblico e di critica dell’inesperto scienziato sociale proprio non va giù. Il risultato ultimo di questa rivalità è Eroi di carta, libello scritto dall’antropologo arrabbiato in cui il libro Gomorra viene ispezionato medicalmente, con la precisione del chirurgo e con la profondità dello sguardo di un gastroscopio (chi deciderà di leggere il libro di Dal Lago saprà perché qui s’è scelto questo strumento d’ispezione, tra tutti quelli possibili, e non un altro).

In Eroi di carta, inquadrando il lavoro di Saviano all’interno di un processo di tendenziale decadenza stilistica della produzione letteraria italiana, Dal Lago s’indigna con il legittimo furore di un accanito lettore a cui la deriva industriale e sensazionalistica della più recente produzione di massa della letteratura italiana fa rovesciare i visceri. Rovesciamento che s’incrementa al solo pensiero che Roberto Saviano possa essere citato in un elenco che comprende nomi come quello di Italo Calvino, di Carlo Emilio Gadda e di Beppe Fenoglio, per dirne solo tre. Perché Gomorra di Saviano, come dice Dal Lago, è un libro squilibrato (non è romanzo, non è inchiesta, non è etnografia), dove i personaggi compaiono d’improvviso e poi scompaiono senza che in questo si possa scorgere alcuna apparente volontà narrativa da parte dell’autore. È un libro, in sostanza, che evade dagli stilemi del buon narrare, oltre a essere un libro che non può essere promosso a letteratura scientifica, va da sé. Gomorra è un libro chiaramente raffazzonato, i cui vari

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capitoli sembrano incollati con lo sputo, per usare un’altra di quelle espressioni che si aggrappano tenacemente al senso di ribrezzo del lettore, espressioni comuni in Gomorra, espressioni che Dal Lago, nel suo Eroi di carta, indica giustamente come uno dei peggiori elementi sensazionalistico-gastrico-organico-repellenti dell’opera di Saviano. Per non parlare del protagonista-narratore, affetto da una sorta di schizofrenia narrativa e da una disposizione geografico-catastrofista all’ubiquità, come se, girando per le strade di una regione, il solo suo passaggio calamitasse disgrazie, morti ammazzati, sparatorie, retate delle forze dell’ordine e altri eventi esiziali. Tutto questo Dal Lago lo individua con pertinenza, lo indica, lo definisce e lo palesa con la precisione dell’uomo di scienza, dell’uomo di scienza esigente, per di più. Forse un po’ duro nei toni, ma che diavolo, la letteratura (sia essa narrativa o scientifica) è una cosa seria! Saviano, diciamola tutta, confortando anche Dal Lago, è figlio di quella stessa deriva hollywoodiana con cui lui stesso, con una certa sfortunata ironia antistorica e con una certa spocchia dell’«io conosco perché ho studiato», prova a leggere da etnografo pasticcione fantasiosi nuovi comportamenti della camorra campana: così Gomorra racconta di boss che pronunciano la mascella come il Marlon Brando de Il padrino, di donne di camorra vestite come la Uma Thurman di Kill Bill, di scagnozzi della mala che sparano con la pistola impugnata di piatto, come in tutti i film di Quentin Tarantino. Non fosse che anche Roberto Saviano, nel suo conformarsi ai film piuttosto che alla realtà, cita nel suo libro un passo della Bibbia raccattato da un film, Pulp Fiction, guarda caso proprio di Quentin Tarantino, mettendolo in bocca a un ragazzino arrabbiato e violento intento in un’azione criminale. L’autore, il narratore, e non solo il ragazzino, credono che questo passo appartenga davvero alla Bibbia. Quando in realtà, questo stesso passo è una citazione che Quentin Tarantino fa di un film precedente: la Bibbia, quella vera, quella del Pentateuco e dei profeti, quella della collera divina e degli uomini antichi vissuti centinaia d’anni, non c’entra proprio niente. Roberto Saviano, coraggioso ragazzo ma scienziato e narratore inesperto, è credulone e mediatizzato quanto uno dei suoi stessi personaggi. E questo nulla toglie al giudizio che si può avere di lui come soggetto depositario del più nobile civismo, ci mancherebbe altro.

E Dal Lago, tutte queste cose le sostiene a gran voce facendo del suo Eroi di carta un libro dal titolo programmatico. Saviano in carne e ossa, il Saviano mediatico che il mondo incensa non solo per il suo coraggio quanto per le sue doti di etnografo e di narratore, come surrogato fastidioso di uno dei suoi stessi personaggi. Ed è giustissimo, per carità. Ma sarebbe anche il caso di chiedersi il perché di un fatto, al di là della palese superficialità di un libro come Gomorra, e qui torniamo al principio di quanto si sta dicendo: come mai la comunità scientifica italiana ha dovuto aspettare che Gomorra vendesse centinaia di migliaia di copie prima di discutere apertamente e con acribia della camorra? Come mai ha dovuto aspettare che da Gomorra venisse tratto un film quasi candidato agli oscar prima di affrontare la criminalità organizzata campana come oggetto specifico da raccontare alla gente? Come mai questa stessa comunità ha dovuto costruire un’immagine di Saviano etnografo per criticarlo sul campo delle scienze? Forse che la comunità scientifica italiana (quella della sociologia, s’intenda), o quello che ne rimane, stando a quanto ultimamente ha sostenuto Marco Santoro, per certi aspetti utilizza stilemi etici simili a quelli che strutturano la camorra stessa? Nel caso, sarebbe un bel problema.

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Calise M., Il partito personale. I due corpi del leader, Laterza 2010 di Tommaso Ederoclite

Come ben spiega l’autore nell’introduzione: “già nella sua prima edizione, il libro metteva in risalto come il processo di personalizzazione non riguardasse solo la neonata creatura del Cavaliere, ma investisse, in varie forme, l’universo dei partiti italiani. In particolare, erano tre i tipi di partito personale che affiancavano il new model army di Berlusconi: il partito dei sindaci, quello dei notabili, e quello che traeva la sua forza dalle leve istituzionali di Palazzo Chigi. Negli ultimi dieci anni. Questi tre partiti hanno avuto alterne vicende”.

A dieci anni dalla prima edizione, Il partito personale di Mauro Calise non perde dunque il suo peso analitico, anzi, rimane un testo che fa tuttora da sfondo a gran parte dei contributi orientati a comprendere il rapporto tra i partiti e il sistema politico teso sempre di più alla personalizzazione dei contenuti politici, delle strategie elettorali, della comunicazione mediatizzata.

Su tale questione, non vi è articolo che non rimanda alla nota locuzione del politologo napoletano, non v’è riflessione sulla trasformazione della comunicazione politica che non riprenda sistematicamente il processo di personalizzazione come una variabile che ha influito sul modo di fare le campagne elettorali.

In questi anni la personalizzazione è diventata anche di uso giornalistico: sempre più spesso gli editoriali dei maggiori quotidiani italiani – da Ilvo Diamanti su Repubblica a Giovanni Sartori sul Corriere – rimandano alla intuizione di Mauro Calise sul sistema partitico italiano, e spesso durante i talk show politici il partito personale è tirato in ballo come metro di misurazione del rapporto che sussiste tra leader e sistema politico, tra elettore e partiti.

Il testo, nel suo frame teorico originale, rimane quasi intatto rispetto all’edizione originale. Vi sono però diversi aggiornamenti che rimandano soprattutto al processo di presidenzializzazione – ripreso anche nell’ultimo testo La terza repubblica (2009) – e alla cosiddetta personalizzazione locale, fenomeno che si è radicalizzato in seguito alla riforma del titolo V della Costituzione e al processo federale del nostro sistema istituzionale.

Infatti, Calise insiste sul rafforzamento di tali dinamiche a livello locale sostenendo che sono spuntati i neo-notabili […] riesumando le reti e i linguaggi degli scambi interpersonali, la ragnatela dei piccoli interessi nascosti sotto le bandiere. Federalismo, autonomia, territorio sono stati i cavalli di Troia al ritorno del ceppo più antico della politica italiana: quello dei capi e i loro seguiti di conoscenti e parenti, amici, e amici degli amici.

Dieci anni dopo il partito personale ha compiuto una mutazione genetica che è anche una regressione storica. Giano bifronte, la sua penetrazione guarda al futuro, e affonda nel passato. Il partito virtuale e di plastica inventato da Silvio Berlusconi “ha trovato imitatori di rango per il pianeta […] tra i potenti di tutto il mondo, Berlusconi è diventato il battistrada di un’ambizione a lungo proibita: fondere il potere dei soldi con quello delle istituzioni politiche, non più nel chiuso delle lobby ma in diretta tv” [p. 123].

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Resta ancora forte l’idea dei due corpi del leader – presa in prestito da i due corpi del re di Kantorowicz – nel quale Calise spiega che i moderni capi non sono in rotta con la democrazia, anzi, per molti versi, ne incarnano l’estremo sviluppo. Godono di un ampio consenso popolare, in forme più plebiscitarie e sondocratiche che non possono, tuttavia, essere tacciate di violare il principio base della democrazia : l’investitura da parte della maggioranza degli elettori. In questo testo Calise avanza anche l’ipotesi di un partito del premier entrato solo recentemente nelle parole della politica, che mette in risalto un esecutivo rinforzato e allargato nelle sue competenze. Da primus inter pares il premier diventa dominus incontrastato acquisendo lentamente il peso e il prestigio di un leader, da organo collegiale debole il governo diventa sempre di più un organo monocratico: con un centro decisionale che monopolizza gran parte delle attività dei ministeri che gli fanno corona. Calise tiene e a precisare che in questo processo di accentramento dei ministeri resta fuori quello del Tesoro, cui spetta un ruolo di primo piano sulla scena internazionale e che riesce a stare al passo con l’ammodernamento tecnocratico.

La nuova edizione si chiude con un capitolo inedito (Ragioni, interessi, passioni) dove l’autore si interroga sulle dinamiche di voto che – oltre a quello razionale, di scambio e voto di opinione – oggi vede una nuova tipologia: il voto al leader. Un voto in cui conta moltissimo la personalità e il carisma del leader.

Calise riassume la tipologia di voto in una matrice – che è parte di un progetto più ampio dal titolo Hyperpolitics – nella quale attraverso i quadranti disegna i rapporti che intercorrono tra i diversi tipi di voto.

Figura: Quattro tipi di voto4 Una critica al testo di Calise è stata mossa recentemente da Ernesto Galli della

Loggia durante la presentazione del libro presso il SUM (Istituto Italiano di Scienze Umane) di Napoli. Lo storico ed editorialista del Corriere della Sera 4 Per approfondimenti si rimanda a Calise M., Lowi T., Hyperpolitics. An interactive Dictionary of Political Science Concepts. University of Chicago Press, Chicago 2010.

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sostiene che l’accento posto sull’accentramento dei poteri sul premier andava rivisto, riportando l’esempio del governo Prodi (2006/2008) bloccato dai suoi ministri – in particolare dall’allora ministro della Giustizia Mastella – su quasi tutte le decisioni. In effetti la tesi di un governo monocratico regge se la si concepisce come una tendenza – che in verità si esprime maggiormente a livello locale – piuttosto che come un processo in atto.

Sono in molti a ritenere che il testo di Calise debba la sua fortuna all’affermazione del partito di Silvio Berlusconi, in quanto il gergo corrente negli ultimi dieci anni ha sempre più spesso legato il Cavaliere alla locuzione partito personale, e in parte è vero, ma ciò che rimane da chiedersi è – come lo stesso Calise indica – riuscirà il partito personale a resistere alla fragile fisicità del capo e al suo inevitabile cortocircuito biologico? Alecci E.; Bottaccio M. (a cura di), Fuori dall’angolo. Idee per il futuro del volontariato e del terzo settore, L’Ancora del Mediterraneo 2010 di Riccardo Muro

Una coscienza politica si forma in noi solo se: ci apriamo al desiderio ed alla fatica di conoscere sul territorio la vita reale della gente – guidati dalla strategia dell'attenzione agli altri – attraverso un obiettivo spirito di ricerca; avvertiamo la necessità di mutare, di migliorare, di perfezionare quanto deve essere cambiato con lo studio, la sperimentazione, la dedizione, per assicurare a tutti una vita degna dell'uomo – a livello nazionale ed internazionale – rimuovendo quelle centrali che generano e rigenerano l'emarginazione di ogni tipo; adottiamo

uno spirito di comprensione, di tolleranza, soprattutto un atteggiamento di reciprocità, nel riconoscere che ci arricchiamo camminando insieme, ci liberiamo ed educhiamo a vicenda. Luciano Tavazza, 1992.

Con la parola di Tavazza, fondatore del Movimento di Volontariato Italiano da

sempre impegnato a costruire la cultura e la prassi della solidarietà e della difesa del bene comune, si apre il volume Fuori dall’angolo. Idee per il futuro del volontariato e del terzo settore, a cura di Emanuele Alecci e Mariano Bottaccio, edito da Ancora del Mediterraneo.

I curatori del testo non nascondono la preoccupazione rispetto alla deriva che pervade il volontariato ed il terzo settore in Italia e sono ben consci della marginalità che questi ultimi ricoprono nel dibattito pubblico. Come e quanto le organizzazioni del volontariato e del terzo settore riescono ad incidere sulla politica nazionale? In che modo partecipano alla programmazione delle politiche? Riescono ad influenzare la progettazione delle politiche stesse? Che tipo di rapporto si instaura con le istituzioni, da un lato, ed il mercato dall’altro? Sono stati fagocitati da una svolta securitaria di natura politica? Che ruolo hanno ricoperto e ricoprono i media in questo processo? Sul piano culturale è stato vanificato lo sforzo verso il “cambiamento sociale” a cui il volontariato e del terzo settore protendono? Come si declinano i nuovi diritti di cittadinanza? E quali e quante manifestazioni assumono questi diritti nei contesti urbani? Accanto a queste domande e alle relative risposte di natura teorica, il volume affronta aspetti

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congiunturali, per molti versi materiali, relativi all’accesso al credito, al ruolo delle banche, nel sostenere dal punto di vista finanziario le imprese sociali (concetto problematico e oggetto di riflessione), al profilo organizzativo, ai rapporti e alla divisione del lavoro all'interno del volontariato e del terzo settore.

Va aggiunto, inoltre, che la crisi globale dell’economia, la riduzione delle garanzie poste a salvaguardia del lavoro, l’erosione del welfare ed il deteriorarsi delle relazioni sociali, rendono ancora più complicate le condizioni degli operatori, dei gruppi di volontariato e delle imprese sociali. In tali condizioni la capacità di dialogo con le istituzioni diventa prerogativa di pochi (grossi) soggetti che invadono il mercato dell'economia sociale a scapito dei soggetti più piccoli, più radicati sul territorio e portatori autentici di istanze contemporanee di marginalità.

Il lettore troverà interessante riconoscere nei contributi proposti la differente impostazione degli autori coinvolti, l’eterogenea provenienza culturale, le differenti storie, le singolari chiavi di lettura che propongono e l’approccio che adoperano. Non sfuggirà al lettore attento il file rouge che tiene insieme l’intero lavoro; e sono gli stessi curatori a rimarcarlo: La verità è che, per tutti noi, la voglia di operare nel volontariato, in una associazione o in una cooperativa sociale, è nata proprio da questo: dal sentire che in essi c’era qualcosa di vitale, di significativo per la nostra vita, di valore. Il problema è che anche il volontariato e il terzo settore oggi, al pari di altri soggetti, non scaldano più i cuori.

Per uscire dall’angolo, dalla condizione di subalternità politica entro cui il volontariato ed il terzo settore sono stati relegati in questi anni, gli autori propongono un progetto ad ampio raggio di convivenza che ne riaccenda la forza di civilizzazione. Essa consiste nella capacità di rivitalizzare la cultura per l’interesse generale attraverso un linguaggio nuovo che sia in grado di connettere e radicare, includere e promuovere, formare e organizzare, progettare e sostenere pratiche di relazioni diffuse che non rappresentino più il fine verso cui tendere, quanto piuttosto il mezzo, la pratica per tessere reti di relazioni nel territorio e ridurre gli squilibri, favorire la solidarietà sociale. Quello che viene proposto è un passaggio di prospettiva: concentrare l'azione non più sull'individuo, ma sul e nel contesto. Perché sono questi, prima ancora che gli individui, ad essere vulnerabili.

Uscire dall’angolo significa farsi carico di nuove responsabilità, condividerle e creare nuove forme di rappresentanza e nuovi progetti con e per la comunità. Rivolgersi non solo a chi vive ai margini, ma promuovere un progetto di convivenza, di prossimità. Solo così, sostengono gli autori, il volontariato ed il terzo settore non resteranno più ai margini, e con loro, le buone idee.

Fuori dall’angolo. Idee per il futuro del volontariato e del terzo settore

raccoglie gli interventi di Lucio Badolin, Mariano Bottaccio, Marco Cremaschi, Carlo Donolo, Alessandro Gozzo, Stefano Lenzi, Ota de Leonardis, Franco Lorenzoni, Giorgio Marcello, Giulio Marcon, Alessandro Messina, Giovanni Moro, Nicola Negri e Andrea Volterrani.

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ISSN 2036-9174