Acc Bud ZEN Dogen e S. Francesco Celestino

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1 Cos'e' lo Zen ? Il segreto dello zen consiste nel sedersi, semplicemente, senza scopo ne' spirito di profitto, in una postura di grande concentrazione. Questo fondamento disinteressato e' chiamato za-zen; za significa sedersi, e zen meditazione, concentrazione. L'insegnamento della postura, che e' trasmissione dell'essenza dello zen, ha luogo in un dojo (luogo della pratica della Via). Esso e' impartito da un maestro, iniziato tradizionalmente, nella linea dei patriarchi e del Buddha. La pratica dello za-zen e' di grande efficacia per la salute del corpo e della mente, che essa conduce verso la loro condizione normale. Lo zen non puo' essere racchiuso in un concetto, ne' reso attraverso il pensiero, chiede di essere praticato; e' essenzialmente, un'esperienza. L'intelligenza non e' sottovalutata, soltanto si ricerca una piu' alta dimensione della coscienza non stagnante su una visione unilaterale degli esseri e delle cose. Il soggetto e' nell'oggetto, e il soggetto contiente l'oggetto. Si tratta di realizzare, attraverso la pratica, il superamento di tutte le contraddizioni, di tutte le forme di pensiero. L'espressione filosofica del Buddhismo Zen non ha dunque nulla di un sistema di pensiero costrittivo e rigido, e' la trasmissione di concetti formati da un'esperienza millenaria e sempre nuova allo stesso tempo, quella del risveglio. Qualche formula-forza, qualche parola-chiave polarizzano e ordinano il campo del vissuto. Le parole si rispondono, comunicano, senza alterare la continuita', l'insaziabile fluidita' del reale, che aiutano ad accerchiare. Illuminano l'esistenza quotidiana, presa alla sua radice. Qui ed ora nozione-chiave; l'importante e' il presente. La maggior parte di noi ha la tendenza a pensare ansiosamente al passato o all'avvenire, invece di essere completamente attenti ai nostri atti, parole e pensieri del momento. Conviene essere completamente presente in ogni gesto: concentrarsi qui ed ora, cosi e' la lezione dello Zen. Del tutto essenziale e' anche la formula "sedersi semplicemente" (shikantaza), "gratuitamente, senza scopo ne' spirito di profitto" (mushotoku). Il maestro Dogen diceva: "Imparare lo Zen, e' trovarci, trovarci, e' dimenticarci, dimenticarci, e' trovare la natura di Buddha, La nostra natura originale". Ritorno all'origine. Comprendere noi stessi, conoscerci prodondamente, trovare il nostro vero se'. La si trova l'essenza di tutte le religioni e di tutte le filosofie, la sorgente della saggezza, l'acqua viva che sgorga dalla pratica regolare za-zen. Natura di Buddha significa: la condizione piu' normale che possa essere, quella naturale, originale, del nostro spirito. Piu' ci avviciniamo a questo stato normale di coscienza, a questo spirito puro, piu' possiamo creare intorno a noi una atmosfera raggiante, feconda, benefica. Piu' ce ne allontaniamo piu' diventiamo la preda dell'ambiente. Se apriamo le mani, possiamo ricevere ogni cosa. Se siamo vuoti, possiamo contenere l'universo intero. Vuoto e' la condizione dello spirito che non si attacca a nessuna cosa.

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Cos'e' lo Zen ? Il segreto dello zen consiste nel sedersi, semplicemente, senza scopo ne' spirito di

profitto, in una postura di grande concentrazione. Questo fondamento disinteressato e' chiamato za-zen; za significa sedersi, e zen meditazione, concentrazione. L'insegnamento della postura, che e' trasmissione dell'essenza dello zen, ha luogo in un dojo (luogo della pratica della Via). Esso e' impartito da un maestro, iniziato tradizionalmente, nella linea dei patriarchi e del Buddha.

La pratica dello za-zen e' di grande efficacia per la salute del corpo e della mente, che essa conduce verso la loro condizione normale. Lo zen non puo' essere racchiuso in un concetto, ne' reso attraverso il pensiero, chiede di essere praticato; e' essenzialmente, un'esperienza.

L'intelligenza non e' sottovalutata, soltanto si ricerca una piu' alta dimensione della coscienza non stagnante su una visione unilaterale degli esseri e delle cose. Il soggetto e' nell'oggetto, e il soggetto contiente l'oggetto. Si tratta di realizzare, attraverso la pratica, il superamento di tutte le contraddizioni, di tutte le forme di pensiero.

L'espressione filosofica del Buddhismo Zen non ha dunque nulla di un sistema di pensiero costrittivo e rigido, e' la trasmissione di concetti formati da un'esperienza millenaria e sempre nuova allo stesso tempo, quella del risveglio.

Qualche formula-forza, qualche parola-chiave polarizzano e ordinano il campo del vissuto. Le parole si rispondono, comunicano, senza alterare la continuita', l'insaziabile fluidita' del reale, che aiutano ad accerchiare. Illuminano l'esistenza quotidiana, presa alla sua radice.

Qui ed ora nozione-chiave; l'importante e' il presente. La maggior parte di noi ha la tendenza a pensare ansiosamente al passato o all'avvenire, invece di essere completamente attenti ai nostri atti, parole e pensieri del momento.

Conviene essere completamente presente in ogni gesto: concentrarsi qui ed ora, cosi e' la lezione dello Zen. Del tutto essenziale e' anche la formula "sedersi semplicemente" (shikantaza), "gratuitamente, senza scopo ne' spirito di profitto" (mushotoku).

Il maestro Dogen diceva: "Imparare lo Zen, e' trovarci, trovarci, e' dimenticarci, dimenticarci, e' trovare la natura di Buddha, La nostra natura originale". Ritorno all'origine. Comprendere noi stessi, conoscerci prodondamente, trovare il

nostro vero se'. La si trova l'essenza di tutte le religioni e di tutte le filosofie, la sorgente della saggezza, l'acqua viva che sgorga dalla pratica regolare za-zen. Natura di Buddha significa: la condizione piu' normale che possa essere, quella naturale, originale, del nostro spirito.

Piu' ci avviciniamo a questo stato normale di coscienza, a questo spirito puro, piu' possiamo creare intorno a noi una atmosfera raggiante, feconda, benefica. Piu' ce ne allontaniamo piu' diventiamo la preda dell'ambiente.

Se apriamo le mani, possiamo ricevere ogni cosa. Se siamo vuoti, possiamo contenere l'universo intero. Vuoto e' la condizione dello spirito che non si attacca a nessuna cosa.

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Il Maestro Sekito, celebre maestro cinese, ha scritto: "Anche se il luogo di meditazione e' stretto, racchiude l'universo. Anche se il nostro spirito e' piccolo, contiente l'illimitato..........". Lo Zen e' al di la di tutte le contraddizioni. Le include e le sorpassa. Tesi, antitesi,

sintesi e al di la'. Quando i maestri Zen rispondono alle domande dei loro discepoli con un enigma che assomiglia ad uno sproposito assurdo, non si tratta di uno scherzo. Il maestro si sforza sempre di portare l'allievo ad andare al di la' del pensiero. Ad esempio, voi gli dite "bianco", lui risponde "nero", affiche' facciate voi stessi il passo al di la'.

Non sostiene una tesi, ma presenta l'altra estremita' della proposizione, affinche' l'interlocutore trovi lui stesso il giusto mezzo. Se dico: "Quando si muore, ogni cosa muore", questo non e' falso, ma non e' tutta la verita'. Dobbiamo andare al di la'! Alla domanda: "Cos'e' l'essenza del Buddha?", Huang-Po risponde: "La scopa della toilette". Io dico talvolta:

"Questa statua del Buddha davanti la quale mi inchino non e' che legno, non e' niente, puo' bruciare, essa non ha alcuna importanza: tuttavia mi inchino con il piu' profondo rispetto per tre volte davanti ad essa, perche' simbolizza l'assoluta buddhita', la natura divina". Si tratta di vedere tutte le facce d'un fenomeno.

Certo, le forme religiose sono eccellenti nei luoghi e nei tempi dati. Pratica dell'essenza, esperienza dell'origine, lo Zen sorpassa lo spazio-tempo, puo' essere un perno dell'Evoluzione per la sua semplicita' e il suo carattere universale. Come un torrente primaverile risveglia la prateria, lo Zen provoca una rivoluzione interiore, una mutazione dell'essere. Quando non si evolve, si involve. Se non si crea, si muore. Se la tua mano destra e' impedita, utilizza la tua mano sinistra. Svegliarsi, creare, intuitivamente: ognuno di noi fa la civilta'.

Lo Zen e' l'educazione silenziosa. "Nel silenzio si alza lo spirito immortale e senza parlare la gioia viene". L'insegnamento moderno da' il primo posto al discorso ma sovente le parole non

esprimono il vero pensiero o l'atteggiamento profondo. La parola e' quasi sempre incompleta. Quando trova la sua precisione, trasmettiamo la nostra esperienza "dal mio cuore al tuo cuore".

Lo Zen raggiunge la piu' alta saggezza, l'amore piu' profondo. La saggezza e' per forza fredda, essa e' il padre senza la madre. Epurata di tutti i formalismi, la religione puo' dare lo spirito d'amore. La grande saggezza e' fondamentalmente ritorno all'origine, verita' dell'universo, base della nostra vita, al di la dei fenomeni. L'esperienza religiosa puo' ridiventare la sorgente vivificante dell'esistenza umana, che essa si apre alla sua piu' alta dimensione.

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Lo zen e l’occidente

Conversazione con il maestro Taisen Deshimaru Perché lei è venuto in Francia? Amo molto la Francia, l'Europa, e così sono venuto. Sono venuto per insegnare l'autentico Zen agli europei, che ne hanno una

conoscenza distorta, libresca. Il mio Maestro, Kodo Sawaki, mi disse: « E’ necessario andare in Europa.

Bodhidharma portò le Zen indiano in Cina, Dogen lo trasmise dalla Cina al Giappone e ora dal Giappone deve diffondersi in Europa.

E’ decisivo che ciò avvenga ».Se la terra si estenua, il grano non può crescere. Ma se la terra si rinnova, il grano cresce rigoglioso. L’Europa è una terra vergine per lo Zen, e io spero che il suo grano possa attecchirvi e fiorire.

Le culture indiane, cinesi e giapponesi hanno influenzato lo Zen. Ritiene che nella nostra cultura vi siano elementi in grado a loro volta di

influenzarlo? E’ ormai da più di dieci anni che ho portato lo Zen in Europa. Attualmente la civiltà

europea è estenuata, e quando una civiltà si estenua solo lo Zen può ridonarle una potenza vitale. Accadde così anche in Cina: la cultura intellettuale si era sviluppata in modo eccessivo, e fu lo Zen a vivificarla. In Giappone, ai tempi di Dogen, il Buddhismo tradizionale si era chiuso in un totale esoterismo. I giapponesi erano estenuati perché si servivano troppo dell'immaginazione e dell'intelletto.

Dogen restituì, con lo Zen, l'equilibrio al loro spirito. La spiritualità e l'immaginazione non bastano: anche la pratica è necessaria.

Praticare la meditazione, lo zazen, è facile, ma anche difficile. La posizione è semplice, e però comporta delle difficoltà e richiede la più alta

maestria. Oggi in Europa, in tutto l'occidente scientifico, la civiltà è in decadenza. Se gli

occidentali praticheranno la meditazione, la loro civiltà tornerà forte. Io lo credo fermamente.

Gli occidentali hanno una grande intelligenza. Praticando la meditazione diverranno più attivi e più equilibrati. E la civiltà europea continuerà ad essere potente nei secoli a venire.

Ma la meditazione non è evasione dall'economia, dal sociale, dal mondo? No. Non lo credo. Il neonato è attratto dal seno della madre. L'adolescente è

affascinato dalla sessualità. Il denaro e il possesso materiale attirano gli adulti. E infine vengono gli onori.

Ma se l'essere umano scopre che tutto questo non dona la felicità a cui aspira e si rivolge alla spiritualità, non si tratta di evasione, bensì di una prova di realismo, di evoluzione. Solo l'essere umano può accedere al mondo dello spirito.

lo non ho mai negato l'importanza del lavoro e della vita quotidiana. Ogni uomo deve guadagnarsi da vivere.« Qui e ora »: è importante. La meditazione deve essere il sostegno della vita quotidiana, e attraverso la meditazione tutta la nostra vita diviene Zen, diviene vita spirituale.

Ma cos'è la vita spirituale? E’ conoscere se stessi. Tutti i grandi uomini l'hanno detto, tutti hanno compreso

questa verità: « lo sono il Nulla assoluto ». Solo comprendendo che l'« io » è interdipendenza, che è il risultato delle influenze

del nostro ambiente, che in tutto questo non c'è posto per il « me », che tutta la

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nostra vita è priva di noumeno, solo così potremo aprirci alle dimensioni del cosmo, solo così potremo accogliere la sua energia e potremo creare.

Aprite le mani, e riceverete tutto, anche i beni materiali. Non abbiate paura: tutto questo è l’illuminazione, è il Satori.

Qual è la situazione del mondo in rapporto all'evoluzione umana? Vi sono cose che non si sviluppano, che si involvono. questo, un grande problema

di civiltà. Alcuni pensano che la civiltà favorisca il progresso, altri ritengono che sia il progresso a sviluppare la civiltà.

Chi ha ragione? L’uomo si evolve o si involve? Se il cervello centrale, l'ipotalamo, si indebolisce, questa non è un'evoluzione. E cervello interno si indebolisce, quello esterno si rafforza. Ma l'armonia, l'equilibrio tra loro è indispensabile. Solo quando il cervello interno e l'ipotalamo si rafforzano armonicamente, si ha

vera evoluzione. E’ per questo che la meditazione è così importante. lo parlo sempre di equilibrio. Se non esiste equilibrio tra il cervello interno,

primitivo, e il cervello esterno, intellettuale, si determina una situazione di debolezza. Com'è possibile armonizzarli? Si pone qui il problema dell'educazione dell'uomo. Cosa pensa dell'educazione dei fanciulli? E’ un problema arduo e decisivo. Educare è come far volare un aquilone: talvolta

bisogna tirare il filo, talvolta bisogna allentarlo. Se lo si tira troppo, o troppo poco, l'aquilone cade.

I bambini moderni sono viziati, in pericolo. Nell'educare è necessario trovare un equilibrio tra severità e gentilezza.

Se la madre possiede una tale forza, la trasmetterà al figlio. L’educazione della madre è decisiva. Se la madre sbaglia, il figlio sbaglia.

Anche l'onestà è necessaria: il bambino deve poter vedere nell'animo della madre. Se la madre sbaglia, deve chiedere scusa al figlio. Perché siamo imperfetti? Eravamo forse perfetti, un tempo, e dobbiamo

ridiventarlo? E’ il problema della civiltà. La civiltà antica era più perfetta di quella moderna? E’

un falso problema, perché non ha risposta. Originariamente, il cervello interno era particolarmente sviluppato, e la civiltà ha

portato alla sua involuzione. Più il cervello esterno cresce, più si atrofizza quello interno. E così nascono squilibri, malattie mentali, nevrosi, follia, come accadde a Nietzsche e a molti altri filosofi. L’educazione moderna si rivolge unicamente al cervello esterno. Come possiamo ridar forza al cervello interno?

Ho visitato le grotte di Lascaux e di Tassiffi. In epoca remota degli uomini, in queste grotte, fecero dei disegni. Sono opere belle e delicate, e io le preferisco a quelle di Picasso.

L’evoluzione dell’uomo è un problema enorme. L’intelligenza si è grandemente sviluppata dal Medioevo ad oggi, ma che ne è

stato della saggezza? Si può parlare di evoluzione nell'epoca attuale? I muscoli si indeboliscono, il cervello si indebolisce.

L’Occidente deve ritornare forte. Non ha la stessa religione dell'Asia e dell'Africa, ma io auspico una fusione. Gli africani sono combattivi. E’ la caratteristica del deserto. La loro religione è forte. I musulmani si battono e si organizzano. Gli asiatici sono più calmi. Dipende dall'influenza del monsone, che devasta tutto: la pazienza è necessaria.

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Il Buddha non voleva la guerra. Amava la pace. E il Buddhismo si è sviluppato e ha influenzato tutta l'Asia. Ma come giungere a una vera pace tra gli uomini? I problemi economici e quelli politici ci influenzano. Dobbiamo accogliere gli influssi benefici e rifiutare quelli malefici. Lo sforzo che

dobbiamo fare è decisivo, è uno sforzo nuovo. E’ un nuovo stile di sforzo. Gli europei non si sforzano abbastanza. Si stancano subito. Proprio per questo la pratica della meditazione è per loro così importante. La meditazione rende forti. Se siete forti, nasce in voi il desiderio di diffondere la vostra forza. Ma se la rivolgete al male, essa si trasforma in aggressività, e questo è funesto All'aggressività bisogna opporre la saggezza. Bisogna praticare la saggezza, rivolgere la forza verso il bene. Bisogna creare un equilibrio. Non si può agire come belve, ma non si può neppure

agire come esseri puramente spirituali, come fantasmi. L’equilibrio è decisivo, va nel senso dell'evoluzione. Lei ha citato il Buddhismo. Quali sono le diversità tra questa religione e il

Cristianesimo? Se si pensa che ci siano diversità, ci sono. Se si pensa che non ce ne siano, non ci

sono. Considerati dall'esterno, il Buddhismo e il Cristianesimo differiscono totalmente. Ma io non vedo differenze, nel loro spirito profondo. Sono interdipendenti. Le influenze reciproche sono state profonde, hanno portato a un'unica religione, almeno nell'essenza.

Alcuni pensatori ritengono che cinque grandi Iniziati abbiano dato origine al Buddhismo, al Cristianesimo, all'lslamismo, all'Ebraismo e al Taoismo. E’ dunque necessario risalire alle loro radici. Lo Zen aspira a comprendere le radici di tutte le religioni. Il resto è pura decorazione, nient'altro.

Lo Zen non può identificarsi con il Buddbismo, pur essendosi sviluppato nel suo

seno. Cos'è dunque lo Zen? E’ forse una filosofia? Lo Zen non è una filosofia, né una psicologia, né una dottrina. Lo Zen è al di là delle filosofie, dei concetti, delle forme. L’essenza dello Zen non è esprimibile in parole. Solo praticandolo lo si può comprendere. Il segreto dello Zen consiste nel rimaner seduti, semplicemente, senza scopo e

senza spirito di profitto, in una posizione di grande concentrazione. Lo Zen è essenzialmente un'esperienza. Certo, vi è anche il Buddhismo Zen, un'istituzione tradizionale con le sue

discipline, i suoi riti e le sue regole. E vi è uno Zen aperto a tutti in ciò che esso rappresenta di universale nella

coscienza e nella pratica della meditazione. Un mezzo per « svegliarci » a noi stessi, « qui e ora », nella perfezione

dell'istante, per apprendere a liberare e a dominare tutte le energie che sono in noi, partecipando così alla creazione che in ogni istante si realizza attraverso di noi e per mezzo nostro.

E’ comunque importante far risalire lo Zen alle sue origini - la fonte indiana e poi quella cinese - e riconoscere la discendenza dei grandi Maestri, dai tempi antichi sino ai nostri giorni.

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Attualmente viviamo in un'epoca di grande decadenza, in Occidente come in Oriente. Lei ritiene che la civiltà possa salvarsi?

Sì, io ritengo che la civiltà si salverà e che l'uomo diverrà migliore. Quel che è malvagio, si trasformerà. Tutto è molto difficile, ora, ma tutto si trasformerà, ne sono certo. Una nuova civiltà sta per nascere. Cosa dobbiamo fare, nella vita di ogni giorno, per favorirne la nascita? Dobbiamo vivere! La meditazione del mattino influenza tutta la vita quotidiana e abitua a reagire in

ogni istante secondo il suo spirito. Il cervello è chiaro, tranquillo, vigile. Ríalzate la nuca e fate rientrare il mento, affinché il cervello sia irrorato dal

sangue e le vostre idee si rischiarino! Nella meditazione bisogna essere senza scopo e senza spirito di profitto. Non si pratica la meditazione per essere in buona salute, o per divenire calmi, o

per progredire nello Zen, o per raggiungere I'Iluminazione. Avere uno scopo, non soltanto nella meditazione ma in ogni istante della vita, è

una malattia dello spirito. Bisogna concentrarsi sulla posizione, sulla respirazione. Questo basta, e questo è

lo Zen. Non bisogna avere uno scopo, ma avere un ideale è necessario. Ideale e scopo sono cose del tutto diverse. Il più grande ideale è l'amore universale. Anche la speranza è necessaria. Ma cos'è la speranza? E’ l'azione senza idea di profitto, è Mushotoku, è la pratica della meditazione

senza scopo e senza idea di profitto, è zazen... Noi viviamo in un mondo di paura. Come superarla? Vi sono molte paure, diverse tra loro. C'è, ad esempio, la paura di non riuscire, di essere sconfitti. Ma quando si è Mushotoku si è sempre liberi, anche se si perde. Perché allora avere paura? Si è troppo attaccati al proprio io, per questo si ha paura. Abbandonate il vostro io e non avrete più paura. Se sarete sempre giusti, sarete forti, senza paura. Ma fuggite il demonio e il pericolo. Si può giungere, come afferma lo Zen, a un superamento radicale dell'io? Superare l'io è molto arduo; non ho mai detto che può essere totalmente

annullato. Lo si può credere nella propria coscienza o nel proprio spirito, ma il corpo non

segue. Lo Zen, attraverso la. pratica della meditazione, ci porta all'abbandono

incosciente, involontario, dell'io. L’abbandono dell'io non è poi così importante negli atti della vita quotidiana, ma

come abbandonare l'io nell'estremo istante della nostra vita? Non possiamo conferire un senso alla nostra morte? Quando si deve morire, si muore. « Qui e ora »: è questo l'importante. Quel che è importante è la « decisione di morire ». Questa decisione non ha un senso: si deve morire, ed è tutto.

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Attraverso la pratica della meditazione impariamo ad abbandonare il nostro corpo, e le nostre angosce svaniscono.

La morte diviene facile, con l'abbandono del corpo. Si può accettare di morire con il pensiero, ma è necessario che anche il corpo

prenda questa « decisione ». Morire con il cervello, con il pensiero, non è possibile. Nelle religioni tradizionali vi è sempre un paradiso, oppure la reincarnazione, dopo

la morte. E’ un metodo per preparare gli uomini a morire. Ma anche chi pensa alla morte con la speranza di una vita futura, vive

nell'incessante paura di quell'istante in cui entrerà nel suo cerchio. Lei dice spesso che la pratica della meditazione permette di entrare nel cerchio

della morte. Cosa intende con questo? La meditazione e la morte non sono la stessa cosa, è ovvio. La morte significa la cessazione del respiro. La meditazione richiede di concentrarsi sul respiro. Un bosco si trasforma in cenere, ma la cenere non può tornare a esser bosco, e il

bosco non può vedere le proprie ceneri. E’ questa la relazione tra la meditazione e la morte. Tuttavia, la meditazione permette di entrare nel cerchio della morte, di vivere il

Nirvana, simile alla morte. Il Nirvana è il perfetto compimento, il totale annullamento. Si dimentica tutto. Si abbandona l'io, come si abbandona il proprio corpo quando si entra nel cerchio

della morte. Ma come può lo Zen chiamare questo il « risveglio »? Gli europei non tollerano le contraddizioni, vogliono imprigionare tutto in

categorie. « Svegliarsi » non significa soltanto aprire gli occhi: anche morire è svegliarsi. La vita e la morte sono identiche. Se accettate la morte « qui e ora », la vita diverrà più profonda. Non bisogna essere radicati alla vita. Né alla morte. Ma soltanto i grandi Maestri non hanno paura di morire. Quando devono morire, muoiono. Inconsapevolmente, naturalmente, come sono

vissuti. Perché hanno consacrato la loro vita all'amore universale. Nota biografica Il maestro Taisen Desbimaru nacque il 29 novembre 1914 in Giappone, nella

provincia di Saga. Risale all'ínfanzia il suo incontro con il monaco Kodo Sawaki, energico riformatore dello Zen in direzione di un ritorno alle origini.

Taisen Deshimaru studia all'Università di Yokohama, quindi occupa un posto di responsabilità nelle attività minerarie di una società industriale.

Durante la guerra viene inviato in Indonesia, senza per questo interrompere i contatti con Kodo Sawaki e la pratica della meditazione Zen.

Al suo ritorno in Giappone, fonda l'Istituto culturale asiatico. Prima di morire, il maestro Kodo Sawaki lo nomina suo successore e gli conferisce

la trasmissione (shiho).

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Il maestro Desbimaru si trasferisce a Parigi alla fine del 1967,nella veste di responsabile per l'Europa dello Zen Soto, con l'appoggio di tutte le scuole Zen del Giappone.

A Parigi fonda un dojo, un luogo di meditazione, elevato alla dignità di tempio Zen nel 1975, e un monastero Zen nei pressi di Blois.

Negli anni successivi diviene superiore generale dello Zen Soto per l'Europa e l'Africa, e lo resterà sino alla morte che lo coglie a Parigi nel 1984.

Cristianesimo e Zen. Opposizioni e convergenze tratto da La Civiltà Cattolica, 6 febbraio 1999

Molte persone oggi in Italia e in altri Paesi europei sono attirate dal buddismo. I

motivi che le spingono alla pratica buddista sono di diversa natura. Non prendiamo qui in considerazione quelli che cercano in qualche pratica buddista il mezzo per stare fisicamente in forma, per acquistare calma e concentrazione allo scopo di compiere meglio e senza subire stress psicologici il proprio lavoro.

Per queste persone il buddismo ha un valore terapeutico di ordine psicofisico: cosa certamente apprezzabile; ma che non costituisce né lo scopo né il valore del buddismo.

Le riflessioni che qui facciamo riguardano quelle persone che sono scontente del vuoto spirituale della civiltà occidentale materialista e consumista e non sono soddisfatte di quanto offre il cristianesimo, sia perché esso esige la fede in verità e dogmi che a loro paiono contraddire la ragione, sia perché impone pratiche religiose che a loro sembrano avere del magico, sia perché impone la sottomissione all'autorità della Chiesa avvertita come minaccia alla libertà religiosa, sia infine perché nel cristianesimo attuale sembrano trascurate la dimensione meditativa e contemplativa e la ricerca interiore.

Tali persone si rivolgono al buddismo, perché lo ritengono capace di rispondere al loro bisogno di dare un senso alla vita e alla loro ricerca spirituale di una profonda vita interiore, senza imporre loro né dogmi incomprensibili né pratiche religiose obbligatorie, né sottomissione ad autorità umane.

In particolare, in queste nostre riflessioni, abbiamo presenti due categorie di cristiani: quelli che da cristiani divengono buddisti attraverso un processo di vera e seria "conversione" al buddismo, per cui abbandonano la fede cristiana e la Chiesa e fanno dell'insegnamento del Buddha il loro sistema di pensiero e il principio del loro agire morale, e diventano monaci in qualche monastero buddista oppure diventano abituali praticanti buddisti; e quelli che mantengono salda e ferma la loro fede cristiana e la loro adesione alla Chiesa e non hanno nessuna intenzione di divenire buddisti, ma ritengono che la meditazione buddista praticata nello zen possa aiutarli a rendere più profonda, più attenta e più intensa la loro preghiera; più calma, più tranquilla e più serena la loro vita di relazione e di lavoro; più profonda e contemplativa la loro vita interiore e, perciò, divengono "praticanti" di corsi di zazen.

Quello che diremo non ha intenti polemici né didattici, perché sarebbe ben strano che un cristiano volesse insegnare ai buddisti di nascita o convertiti o praticanti da lungo tempo che cosa sia il buddismo e come lo si debba giudicare.

Vuole soltanto essere la riflessione di un cristiano di fronte al fenomeno buddista, data la presenza di consistenti comunità buddiste nel nostro Paese e, soprattutto, dato un certo fascino che il buddismo esercita su non pochi italiani, cristiani e non cristiani.

Non vogliamo però parlare del buddismo in generale, […], ma soltanto di una forma di buddismo che oggi gode nel nostro Paese di un particolare favore: il buddismo zen.

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Ci sono in Italia, stabilmente o per qualche tempo, maestri di zen (zenji), che provengono dal Giappone, ma ci sono anche maestri di zen italiani, come Fausto Taiten Guareschi.

Questi, dopo essere stato discepolo di Taisen Deshimaru e poi di Narita Shuyu, abate del tempio Tōdenji in Giappone, dal quale ha ricevuto la "trasmissione" secondo la linea sōtō, ha fondato sulle colline di Bargone, tra Fidenza e le terme di Salsomaggiore, il primo tempio zen sōtō italiano, Shōbōzan Fudenji, il "Tempio dell'universale trasmissione del puro Dharma".

Questo tempio zen è organizzato nella maniera più tradizionale dei templi zen giapponesi: ospita monaci stabili ed è frequentato da molte persone che si recano a "praticare" lo zen per alcuni giorni sotto la guida di un maestro.

È anche un centro di studi buddisti. In Italia ci sono poi molti libri, di autori stranieri e italiani, dedicati allo zen.

Esistono traduzioni di opere dei grandi maestri zen, come il Breviario di Soto Zen di Reiho Masunaga, che traduce il Sho-begenzo Zuimonki del fondatore del sōtō zen, Eihei Dōgen (1200-53), pubblicato da Ubaldini (Roma, 1971).

Ci sono infine cristiani che hanno parlato della possibilità di conciliare zen e cristianesimo, usando il metodo zen per giungere a una preghiera cristiana più "profonda". Così, W. Johnston ha scritto Lo Zen cristiano (Roma, Coines, 1974); Th. Merton è autore di Mystique et Zen (Paris, 1972); il gesuita missionario in Giappone per molti anni, H. M. Enomiya Lassalle, ha scritto Zen, via verso la luce (Roma, Ed. Paoline, 1961) e Meditazione Zen e preghiera cristiana (Roma, Ed. Paoline, 1979).

Particolarmente trattato è stato il tema del rapporto tra lo zen e la mistica cristiana: i mistici cristiani più citati sono Meister Eckhart, Tauler, Ruysbroek, santa Teresa di Gesù, san Giovanni della Croce e l'anonimo autore della Nube della non conoscenza (The Cloud of Unknowing.

Il primo - e il più difficile - problema che si pone è quello di capire che cos'è lo zen. È facile conoscere l'origine e tracciare le linee del suo sviluppo storico; ma è difficilissimo capirne la natura, perché, quando si crede di averla afferrata, essa sfugge, come un'anguilla sfugge di mano al pescatore.

Zen è un termine giapponese: esso è la lettura giapponese dell'ideogramma cinese ch'an, che è l'equivalente della parola sanscrita dhyāna, che significa meditazione ed è una delle sei "perfezioni" (paramita) che rendono possibile il conseguimento dell'"illuminazione" (bodhi),

Zen significa dunque meditazione. Essa si compie "stando seduti" (za): donde la parola zazen che significa "sedere in

meditazione" in una apposita stanza che si trova in ogni monastero zen e che si chiama sendo (stanza [do] della meditazione).

Lo zen è una forma di buddismo: perciò il suo fondo dottrinale è il buddismo, nel senso che esso fa proprie alcune essenziali dottrine buddiste.

Esse sono principalmente tre: anattā, anicca e dukkha. Anattā, in sanscrito anātma, ("non-io", "non-sé"), significa che l'"io", la "persona", il "soggetto", come centro spirituale, stabile e duraturo, che unifica tutte le attività dei sensi, dell'intelligenza, della volontà e dell'affettività, non esiste, o meglio ha un'esistenza illusoria.

L'individuo umano è formato da cinque gruppi di "aggregati" (skandha) che sono in rapporto tra loro, senza però avere un unico referente.

Essi sono il corpo con i suoi sei sensi: l'occhio, l'orecchio, il naso, la lingua, il tatto e l'organo del pensiero; le sensazioni che sorgono quando i sensi entrano in contatto con gli oggetti materiali; le percezioni che nascono dall'elaborazione delle sensazioni; gli impulsi spirituali, cioè le idee, le volizioni e desideri, che hanno origine dalle percezioni; e infine la coscienza, che è la consapevolezza delle percezioni e delle idee, delle volizioni e dei desideri.

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L'anattā è il concetto centrale del buddismo: senza di esso questo non esisterebbe.

Esso significa che l'uomo, ritenendosi un "io", una "persona", vive nell'"ignoranza" (avidyā) del suo vero essere che non è l'"io" fenomenico, e quindi vive nell'"illusione" (māyā), da cui si libera con l'"illuminazione" (bodhi). Con questa egli prende coscienza che la sua vera natura è il "Sé", assoluto e infinito, con il quale l'"io" fenomenico si identifica.

Tutti i mali dell'uomo vengono dalla credenza di essere un "io", un "sé" individuale, perché tale credenza "è la causa di tutti i pensieri pericolosi di "io" e di "mio", dei desideri egoisti e insaziabili, dell'attaccamento, dell'odio e della malevolenza, dei concetti di orgoglio, di egoismo e di altre sozzure, impurità e problemi.

Essa è la sorgente di tutti i turbamenti del mondo, dai conflitti personali fino alle guerre tra le nazioni. In breve si può far risalire a questa falsa visione tutto ciò che c'è di male nel mondo" (Walpola Rahula, L'enseignement du Buddha, Paris, 1977, ch. VI: La doctrine du Non-Soi: “anattā".

Se la prima caratteristica fondamentale dell'esistenza umana è l'anattā, la seconda è l'anicca, in sanscrito anitya, che significa "impermanenza" e "insostanza": per il buddismo niente è durevole, niente ha consistenza e niente è sostanziale.

Se a noi sembra che ci sia qualcosa di duraturo e di consistente, lo si deve al fatto che noi viviamo nell'ignoranza della realtà e quindi nell'"illusione". Perciò non ci si deve appoggiare su nulla né aggrapparsi a nulla, perché nessun essere ha consistenza e quindi non può offrire un punto di appoggio stabile e duraturo.

La terza caratteristica della vita umana è il dukkha, in sanscrito duhkha, che significa "sofferenza, dolore". Esso è causato in noi dalla "sete" (tanhā) del piacere e da ogni specie di "desiderio": "sete" e "desideri" che tengono legato l'essere umano al "ciclo delle rinascite" (samsāra) e dal quale ci si libera con l'"estinzione del desiderio", praticando il "nobile ottuplice sentiero", insegnato dal Buddha.

Chi, col percorrere la "via" che egli ha indicato, giunge alla "saggezza" (prajñā), che consiste nella comprensione intuitiva, sperimentale, dell'impermanenza, della sofferenza e della non-sostanzialità di tutte le forme di esistenza, e quindi giunge alla "liberazione" (moksha) totale e definitiva dalla necessità di rinascere e da ogni sofferenza, ha accesso al nirvāna (o nibbāna), che letteralmente significa "estinzione", vale a dire "estinzione delle turpitudini", ed è una maniera negativa di designare l'uscita definitiva dal mondo del dolore e dell'impermanenza.

Tuttavia è importante notare che queste dottrine buddiste restano nello sfondo dello zen, sia perché esso non è un sistema filosofico ma una "pratica", sia perché sono da esso reinterpretate.

In realtà, se lo zen ha una matrice buddista, essa non è il buddismo primitivo, insegnato e praticato dal Buddha storico Sakyāmuni (sec. VI a.C.), cioè il buddismo theravāda o "dottrina degli anziani (theravādin)".

Questo dai suoi avversari è detto sprezzantemente hinayāna o "piccolo veicolo (di liberazione)", in quanto riserva la salvezza (moksha) soltanto ai monaci e ha come ideale di santità l'arhat o arahant, cioè il monaco che con estrema decisione e grandi sforzi ha percorso il "nobile ottuplice sentiero" e si è liberato da ogni influsso karmico (il karma è l'"azione" o il "frutto dell'azione", buona o cattiva, che lega l'uomo alla necessità di rinascere, dopo la morte, in una successiva esistenza, migliore o peggiore, secondo che il karma sia positivo o negativo).

La matrice dello zen è il buddismo mahāyāna o "grande veicolo (di salvezza)". Questa forma di buddismo è nata agli inizi della nostra era, perciò 500 anni dopo Sakyāmuni, e si oppone al buddismo hinayāna, perché afferma che non solo i monaci, ma anche i laici, restando nella vita laicale, possono giungere al nirvāna: perciò è una "grande" via, possibile a tutti.

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Il suo ideale di santità non è l'arhat, ma il bodhisattva, cioè colui che per la ricchezza dei suoi meriti è "destinato al risveglio" (bodhi) ma che per la "compassione" (karunā) che nutre verso gli altri esseri viventi fa il voto di restare nel samsāra e quindi di non giungere al "risveglio" e perciò alla salvezza definitiva, vale a dire al nirvāna, finché non ha aiutato tutti gli esseri, con la ricchezza dei suoi meriti, a giungere alla liberazione totale.

In tal modo la realizzazione del suo voto di divenire un Buddha, cioè un "risvegliato", è rinviata all'infinito. Di qui la grande devozione di cui sono oggetto i bodhisattva nel buddismo mahayana: essi per la loro "compassione" sono considerati veri salvatori.

Ma ciò che maggiormente qualifica e specifica il buddismo mahāyāna è il "vuoto", la "vacuità" (shunyatā), che non significa, come per gli occidentali, privazione, assenza di qualche cosa (una bottiglia è "vuota" quando non c'è acqua dentro), ma significa "vuoto" di determinazioni e di identificazioni, quindi la realtà assoluta. Infatti tutto ciò che è determinato e qualificato, ha un'esistenza relativa e non assoluta.

Quindi la realtà assoluta è "vuota" di ogni forma determinata e in quanto tale limitata e condizionata. Perciò la "vacuità" è l'essenza profonda della realtà.

Questo significa che per raggiungere la realtà assoluta bisogna "svuotare" la mente da ogni idea, da ogni pensiero, e "svuotare" il cuore da ogni attaccamento e da ogni desiderio. Questo è ciò che intende realizzare lo zen.

Quando il buddismo mahāyāna si diffonde in Cina, si formano due scuole: quella del Nord e quella del Sud. Sono scuole diverse tra loro in molti punti, ma tutte considerano la pratica della meditazione in posizione seduta come la base del buddismo.

Tale pratica in cinese è detta ch'an. Colui che l'ha introdotta in Cina nel 540 d.C. è il monaco indiano Bodhidharma, che perciò è considerato il primo patriarca della scuola ch'an. Questa, portata nel secolo VIII da alcuni monaci cinesi in Giappone, diventa scuola zen.

Attualmente ci sono in Giappone due scuole di zen, che differiscono sia per la maniera di concepire l'"illuminazione" (satori), sia per la maniera di raggiungerla: lo zen rinzai e lo zen sōtō.

Il primo, fondato in Cina da Linji (Rinzai, in giapponese, 867) e introdotto in Giappone dal monaco Eisai (1141-1215), mette l'accento sull'effetto di scossa psicologica prodotto dal satori e sulla meditazione del kōan, come mezzo per raggiungere il satori.

Il secondo, portato in Giappone dal monaco Eihei Dōgen al suo ritorno dalla Cina nel 1227, pone l'accento unicamente sul meditare quietamente seduti (zazen). Ecco che cosa insegna Dōgen: "Il punto pił importante nello studio della Via è lo zazen [...].

Perciò i discepoli dovrebbero concentrarsi unicamente sullo zazen e non confondersi con altre cose. La via dei Buddha e dei Patriarchi è soltanto zazen. Non occupatevi d'altro".

E al discepolo Ejo che gli chiede se è utile combinare lo zazen con la lettura dei testi e con la meditazione dei kōan, Dōgen risponde: "Quantunque una certa comprensione sembri emergere dall'analisi del kōan, ciò produce l'effetto di allontanare ancora più la via del Buddha e dei Patriarchi.

Se consacrate il vostro tempo a fare lo zazen senza desiderare di sapere nulla e senza cercare l'illuminazione (satori), ecco, questa è proprio la via dei Patriarchi.

Quantunque i vecchi maestri insistessero su entrambe le cose, cioè sulla lettura delle scritture e sulla pratica dello zazen, è tuttavia chiaro che ponevano l'accento sullo zazen. Taluni guadagnavano l'illuminazione attraverso il kōan, ma il merito spettava allo zazen. In realtà, il merito è solo dello zazen" (Reiho Masunaga, Breviario di Solo Zen, cit., 101 s).

Tre dunque sono i termini che definiscono lo zen: zazen, kōan, satori.

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Lo zazen consiste nel sedere su un cuscino nella "posizione del loto", cioè con le gambe incrociate, il busto eretto e tenuto perfettamente verticale, in modo che la punta del naso sia verticale all'ombelico, il capo leggermente inchinato in avanti, le mani aperte l'una sull'altra, gli occhi semichiusi e fissi su un punto.

La respirazione deve farsi ordinariamente attraverso il naso, non attraverso la bocca: quando si è assunta la posizione giusta, si inspira profondamente attraverso il naso, si trattiene l'aria per un certo tempo e poi la si lascia uscire attraverso le labbra leggermente aperte, il più lentamente possibile, finché i polmoni siano completamente svuotati.

Il sedere nella posizione del loto e la inspirazione ed espirazione, tranquilla e regolare, hanno lo scopo di favorire la meditazione, per la migliore circolazione del sangue e per la calma e il rilassamento che producono: cosicché, oltre a favorire la meditazione, sono giovevoli alla salute psicofisica.

Ma, parlando di meditazione zen, bisogna mettere da parte ogni idea occidentale di meditazione: questa consiste nel riflettere su un'idea, su un testo scritto, per cercare di comprenderlo, di vederne i nessi logici e le possibili applicazioni alla realtà concreta.

In campo religioso, la meditazione è una riflessione prolungata su un'idea o un fatto di natura religiosa, su un testo della Sacra Scrittura, per cercare di comprenderlo con l'intelligenza, gustarlo col cuore e applicarlo alle circostanze della propria vita, per conformare il proprio modo di pensare e i propri comportamenti a quanto si è meditato.

Poiché ci si rende conto che con le proprie forze non si può realizzare nella propria vita quanto si è meditato, spontaneamente la meditazione si risolve in colloquio con Dio, sia per lodarlo e ringraziarlo di quanto ci ha detto attraverso la meditazione della sua parola, sia per chiedergli la grazia di compiere quanto egli ha fatto conoscere nella meditazione.

La meditazione zen al contrario consiste nel non riflettere su nulla, neppure sulle dottrine e sui testi sacri buddisti.

In realtà, "lo zen aspira ad essere buddismo ma tutti gli insegnamenti buddisti esposti nei sutra [i testi che riportano i discorsi di Buddha] e nei sastra [i trattati buddisti] non sono per lo zen che mera carta straccia [...].

Lo zen non ha una filosofia, nega ogni autorità dottrinaria e respinge qualsiasi letteratura sacra come un cumulo di sciocchezze [...].

Non è una religione nel senso che comunemente s'intende: infatti lo zen non ha un Dio da adorare, non riti cerimoniali da osservare, non un aldilà da promettere oltre la vita, né, infine, un concetto salvifico dell'anima che inviti ansiosamente a preoccuparsi della sua immortalità.

Lo zen è libero da tutti questi ingombri dogmatici e "religiosi" [...]. Nello zen non c'è Dio; ma ciò non significa che lo zen neghi l'esistenza di Dio; nessuna affermazione o negazione interessa lo zen [...].

Nello zen Dio non è negato né postulato. Per questo, per lo stesso motivo per cui non è una filosofia, lo zen non è una religione" (D. T. Suzuki, Introduzione al Buddismo Zen, Roma, Ubaldini, 1970, 41 s).

In che cosa allora consiste la meditazione zen? Risponde D. T. Suzuki: "Per meditare, l'uomo deve concentrare il suo pensiero su qualcosa, ad esempio, l'unicità di Dio o il suo infinito amore o la temporaneità delle cose. Ma questo è proprio quanto lo zen respinge" (ivi, 43).

Infatti la meditazione zen vuole svuotare la mente da ogni pensiero, da ogni affermazione e da ogni negazione, da ogni elaborazione concettuale per giungere al puro vivere, al puro essere, spoglio di ogni determinazione: "Ciò che lo zen aspira a cogliere nel suo modo più vivido e diretto è il fatto fondamentale della vita nel suo darsi [...].

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Una volta che l'uomo l'abbia raggiunto in profondità, una pace assoluta subentra nella sua mente ed egli vive come dovrebbe vivere" (ivi, 47), cioè "vive", "è", semplicemente.

La meditazione zen perciò tende a porre la mente in uno stato di perfetta immobilità e incoscienza.

Afferma un vecchio maestro zen, Sekiso: "Ferma tutti i tuoi desideri; lascia che la muffa cresca sulle tue labbra; renditi come un perfetto pezzo di seta candida; lascia che un tuo solo pensiero sia un'eternità; fatti diventare come morta cenere, inerte e fredda; lascia che il tuo corpo e la tua mente si trasformino in un oggetto inanimato, simili nella natura a una pietra o un pezzo di legno; quando avrai raggiunto uno stato di perfetta immobilità e incoscienza, ogni segno di vita si partirà da te ma anche ogni traccia di limite.

Non una sola idea disturberà la tua coscienza, quando allora all'improvviso tu giungerai a percepire una fulgida luce di compiuta felicità [...].

La tua esistenza è stata liberata da ogni impaccio; sei divenuto esperto, luminoso e trasparente.

Raggiunta una chiarissima percezione dell'autentica natura delle cose, esse ora ti si manifestano come screziati fiori di inafferrabile realtà. Qui si manifesta quel semplicissimo sé che è il volto originario del tuo essere" (citato in D. T. Suzuki, Introduzione al Buddismo Zen, cit., 49).

La meditazione zen ha dunque lo scopo di portare chi la pratica alla radice dell'essere, alla realtà ultima che è senza determinazioni e quindi è vacuità, al puro Sé, nel quale si dissolve l'io individuale, che l'illusione fa credere di essere il vero Io.

Bisogna abolire ogni dualità, che è frutto di erronea immaginazione. L'"io" personale non esiste; esiste la Natura, la Vita, l'Uno, il Sé.

Ma come si può raggiungere questo scopo? Risponde lo zen: non attraverso il pensiero concettuale e logico, che perciò

dev'essere abolito e distrutto, ma attraverso l'intuizione, frutto di un'esperienza interiore personale.

Per abolire il pensiero logico, ci sono tre mezzi. Il primo è lo shikantaza, praticato dallo zen sōtō: esso significa "stare

quietamente seduti senza fare nulla". Si tratta di fare zazen di fronte a un muro: "Immobili come una roccia. / Pensate al non-pensiero. / Come pensare al non-pensiero? / Non pensando". Come fare? Non compiere alcuno sforzo per bloccare i pensieri che inevitabilmente vanno e vengono, ma lasciare che la mente si calmi e poi si fermi da sola.

Il secondo mezzo per abolire il pensiero è la concentrazione sulla respirazione, che può avvenire in due modi: il primo consiste nel contare i ritmi della respirazione da 1 a 10, usando i numeri dispari (1, 3, 5...) per contare le inspirazioni e i numeri pari (2, 4, 6....) per contare le espirazioni; quando si è giunti alla fine, si comincia da capo; il secondo consiste nel concentrare l'attenzione sulla respirazione senza contare, ma facendo attenzione, quando si inspira, soltanto all'inspirazione, e, quando si espira, solamente all'espirazione. Con questo metodo si elimina ogni altra preoccupazione e si raggiunge la pace interiore.

Il terzo mezzo per svuotare la mente dal pensiero razionale è l'uso del kōan. Questo mezzo può essere abbinato allo shikantaza, cosicché non è esclusivo dello

zen rinzai. Il kōan è un aneddoto che non ha un senso logico oppure è una domanda a cui non si può rispondere in maniera sensata. Chiede un maestro al discepolo: "Mostrami il tuo volto prima della nascita".

Un monaco chiede al maestro zen Chao-Chou: "Qual era l'intenzione di Bodhidharma quando venne in Cina?" Risposta: "Guarda il cipresso nel giardino". Il maestro Hakuin batte le mani, poi alza una mano e chiede al discepolo: "Senti il rumore di una sola mano?". Un novizio chiede a Chao-Chou: "Parlami dello zen".

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Chao-Chou lo interroga: "Hai fatto colazione?". "Sì, maestro, ho fatto colazione". "Allora va' a lavare i piatti".

Qual è lo scopo del kōan? È quello di umiliare la ragione e di mostrarne l'impotenza. In pratica, è quello di mettere il discepolo - è sempre il maestro zen che dà a ogni

discepolo il kōan adatto per lui - di fronte a un vicolo cieco e a una strada senza uscita, da cui deve cercare in ogni modo di uscire.

Quando, dopo inutili sforzi, si accorgerà di non poter trovare una soluzione logica e quindi si convincerà di dover abbandonare la ragione logica, egli comincerà a praticare il kōan nella maniera giusta, riflettendo giorno e notte su di esso con grande intensità fino a che diventerà egli stesso il kōan.

Continuando ad applicarsi, tutto a un tratto, il kōan scomparirà dalla sua coscienza e questa si troverà completamente vuota. Basterà allora una qualsiasi occasione - un suono che colpisce l'udito, la vista di un oggetto, una sensazione forte - perché il suo spirito si apra a una "nuova visione" della realtà: è l'"illuminazione" (satorì).

Questo processo può durare anche alcuni anni e può essere necessario ricorrere a diversi kōan; però chi si applica con costanza al kōan sotto la direzione di un maestro zen giunge necessariamente al satori.

Questo consiste in una "nuova visione" delle cose, cioè nel vedere la realtà "come realmente è".

Infatti la realtà è unitaria, non duale, come appare al pensiero logico che distingue soggetto e oggetto, essere e non-essere, sì e no, l'io empirico e l'Io (o il Sé) assoluto.

Chi giunge al satori vede la realtà non attraverso il pensiero logico, ma intuitivamente: non dunque come appare illusoriamente attraverso lo schermo del pensiero discorsivo, ma come è realmente.

È essenziale però notare che il satori non si comprende mediante un'analisi intellettuale, ma soltanto per esperienza personale.

Chi non lo ha sperimentato non può dire che cosa esso sia. E neppure può dire che cosa sia lo zen, perché - come dice D. T. Suzuki - "senza il raggiungimento del satori nessuno può penetrare nella verità dello zen" (Introduzione al Buddismo Zen, cit, 95).

A questo punto si pongono spontaneamente due domande. La prima: che rapporto c'è - o può esserci - tra cristianesimo e zen, tra fede

cristiana e pratica zen? La seconda: che rapporto c'è - o può esserci - tra preghiera cristiana e zazen. Tra cristianesimo e zen ci sono - bisogna riconoscerlo - opposizioni radicali. La prima, e la più grave, è che lo zen è "ateo", nel senso che si disinteressa di

Dio: non ne afferma l'esistenza, né la nega; semplicemente lo ignora. Esso rigetta ogni "idea" di Dio. Infatti per lo zen ogni idea, ogni pensiero logico dev'essere abolito in quanto è

ostacolo a cogliere la realtà come veramente è, e lo scopo dello zazen è precisamente quello di svuotare la mente da ogni idea e da ogni pensiero.

Del resto, lo zen aspira a porsi al di sopra della logica, a raggiungere un superiore stato affermativo, in cui non vi siano antitesi, o meglio, in cui sia superata l'antitesi del "sì-no", dell'affermare e del negare, ma in cui si raggiunge un'affermazione più alta nella quale non ci sia contrasto tra assenso e diniego.

Infatti quando io dico "sì" o "no" accetto una realtà ed escludo il suo contrario, e quindi colgo soltanto una parte della realtà: per coglierla tutta, devo affermare il "sì" e il "no".

Per essere libera la mente deve trascendere ogni limite, deve poter fare un'affermazione assoluta, liberandosi dalla prigione della logica aristotelica, fondata

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sul principio che A è A e non può essere B. Invece, per lo zen, questo è dualismo, oppure sono parole e nulla più.

La logica ha un valore pratico e in tal senso essa va usata; ma essa non deve limitare la libertà di affermare che il fiore è rosso e non è rosso e il salice è verde e non è verde.

"Questo - dice ancora D. T. Suzuki - i seguaci zen considerano del tutto soddisfacente.

Tanto a lungo la logica è stata data per noi definitiva che ci siamo fatti legare, abbiamo perduto la nostra libertà di spirito e i fatti della vita reale ci sono sfuggiti.

Ma ora disponiamo di una chiave per risolvere il problema; siamo ridivenuti i maestri della realtà; le parole hanno perduto il loro dominio su di noi. Se non ci va di definire vanga una vanga, abbiamo l'assoluto diritto di farlo; non sempre una vanga ha da essere tale; il che, secondo i maestri zen, esprime nel modo più appropriato lo stato di realtà che rifiuta di farsi soffocare dai nomi.

Lo scavalcare la tirannia dei nomi e della logica è, allo stesso tempo, un'emancipazione spirituale, l'anima non essendo più divisa da se stessa.

Con l'acquisto della libertà dello spirito l'anima ottiene il pieno possesso di sé; la nascita e la morte cessano di tormentarci, dato che non esiste altro luogo in cui si diano simili dualità; e noi viviamo anche attraverso la morte" (ivi, 63).

È quanto è espresso nel famoso gāthā di Jenye: "A mani vuote io vado, e la vanga è portata dalle mie mani; / A piedi io cammino, ma sulla groppa di un bue io incedo; / Quando traverso un ponte, o stupore, l'acqua non scorre, ma è proprio il ponte a fluire".

Questo è lo zen: la vanga è nelle mani vuote e non è l'acqua ma il ponte che scorre. È la "nuova visione" della realtà intuita nello zazen.

Perciò per lo zen non ha senso la struttura dogmatica, rituale e morale del cristianesimo, fondata sulla rivelazione di Dio, ma espressa nei termini della ragione umana, per la quale il mistero è "sopra" di essa, ma non "contro" di essa.

C'è poi una seconda opposizione tra cristianesimo e zen; nello zen è ignorata ogni idea di grazia, di aiuto soprannaturale, ma tutto è dovuto allo sforzo dell'uomo, che giunge all'illuminazione (satori) con le sole sue forze; nel cristianesimo, lo sforzo spirituale dell'uomo è suscitato e sostenuto dalla grazia di Dio, e negli stati propriamente mistici è Dio solo che agisce mentre l'essere umano è unicamente recettivo dei doni di grazia di Dio.

La conseguenza di questa duplice radicale opposizione è che un cristiano che diviene un vero e serio praticante zen e fa propria la "via dello zen", vedendo in essa la "via della salvezza", rinuncia per ciò stesso alla fede e alla salvezza cristiana, di cui è autore Gesù Cristo.

Non si può essere nello stesso tempo vero cristiano e vero seguace dello zen, sempre che, evidentemente, la pratica dello zen comporti l'adesione ai suoi princìpi buddisti.

Ci sono tuttavia alcuni specialisti cristiani dello zen - a cui abbiamo accennato all'inizio - i quali ritengono che esso, in base all'esperienza che ne hanno fatto, giungendo nella pratica integrale dello zazen fino all'illuminazione (satori), possa conciliarsi con il cristianesimo.

Anzitutto essi affermano che, se "nello zen non si parla di Dio, ci si tiene a non essere considerati atei".

Nel buddismo zen "ci si rifiuta di esprimere Dio in concetti e parole", ma "anche se l'illuminato zen si rifiuta di parlare di Dio in connessione con la sua esperienza spirituale, non per questo si deve designare lo zen come ateistico [...].

Il fatto è comunque che vi sono in Giappone bonzi che hanno praticato lo zen per molti anni e sono arrivati alla fede in Dio" (H. M. Enomiya Lassalle, Zen, via verso la luce. Roma, Ed. Paoline, 1961, 99; 101).

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Lo stesso autore aggiunge che "l'illuminazione dispone l'uomo alla fede religiosa" e "aiuta, o per lo meno può aiutare, all'approfondimento delle verità religiose"; che "il distacco dalle creature come viene compiuto nello zen, può senza dubbio aiutare indirettamente a un avvicinamento a Dio", anche se "il buddismo interpreta la sua esperienza in senso monistico" e "ha ampiamente utilizzato l'illuminazione per approfondire la sua concezione dell'universo, il monismo", perché "l'illuminazione in sé non afferma niente su monismo, panteismo o monoteismo" e chiunque l'abbia sperimentata, lo interpreterà con la sua concezione dell'universo" (ivi, passim).

È francamente difficile accettare queste affermazioni e altre simili fatte da alcuni studiosi pur cattolici, dopo quanto si è detto precedentemente sulla scorta di autori zen, come T. D. Suzuki, R. Masunaga, Tich Nhat Hanh, T. Deshimaru, i quali certamente non sarebbero d'accordo col tentativo di elaborare uno "zen cristiano", per il fatto che la pratica dello zen - lo zazen - nella sua integralità non può essere avulsa dai princìpi teorici dello zen e della sua matrice buddista, che sono inconciliabili col cristianesimo.

Non sarebbe giusto piegare lo zen a ciò per cui non è fatto, col pericolo di sincretismo.

Questo però non significa che talune pratiche dello zen - fatte col necessario discernimento e avendo una solida formazione cristiana - non possano aiutare la preghiera cristiana.

Certamente, è necessario evitare di assimilare la "mistica" dello zen alla mistica cristiana, facendo appello ai grandi mistici cristiani.

Si tratta di due realtà che, se hanno indubbiamente taluni punti di convergenza, sono nella sostanza molto diverse.

"La contemplazione buddista - osserva il p. J. López Gay, professore di missiologia all'Università Gregoriana - è un'autentica esperienza interiore che tende a illuminare il più profondo dello spirito umano.

Non si tratta di un'esperienza di tipo religioso, di un incontro amoroso con Qualcuno, ma di divenire partecipe cosciente della realtà di ciò che è l'Uno, e della

sua unione con una dottrina della Natura universale". Nello zen l'esperienza della meditazione va approfondendosi verso il "centro" del

proprio essere, e in ciò lo zen può essere avvicinato alla tradizione mistica cristiana, nella misura in cui questa aspira a incontrare nel fondo dell'anima Dio-Trinità che vi risiede.

In questo itinerario il contemplativo dello zen traversa il vuoto e il nulla, abbandonando pensieri, immagini e giunge a uno stato psichico provocato artificiosamente mediante diverse tecniche. Invece, nella mistica cristiana, "l'incontro con Dio - che è incontro con il Dio uno e trino nella luce della fede - non potrà mai essere ottenuto per mezzo di una qualsiasi tecnica o sforzo umano: esso è dell'ordine del dono gratuito.

È qui che appare ciò che separa più radicalmente le due mistiche. Il cammino dello zen è così uno sforzo per oltrepassare ogni presupposto

metafisico o dogmatico, mentre nell'itinerario cristiano le luci della rivelazione e l'amore per Cristo hanno dovuto necessariamente crescere con la frequentazione della Sacra Scrittura e dei sacramenti" ("Zen", in Dictionnaire de Spiritualité, vol. XVI, 1622 s).

Quanto alle tecniche zen, bisogna rendersi conto che un metodo non si può mai del tutto separare dalla dottrina che lo ha fatto nascere.

Perciò chi usa il metodo zen deve aver presente questo fatto, per non cadere nel sincretismo.

Detto questo, si può affermare che alcune pratiche dello zazen, come lo stare seduti nella posizione del loto, il controllo della respirazione, possono aiutare a

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migliorare la propria maniera di pregare, in quanto possono facilitare la concentrazione e il raccoglimento.

Senza tuttavia dimenticare che la preghiera cristiana è un atto di fede e, soprattutto, un atto di amore.

Essa perciò sarà tanto più "profonda" quanto più grande e intensa sarà la fede e quanto più profondo sarà l'amore per Cristo, più intenso il desiderio di Dio uno e trino e più totale l'adesione alla volontà di Dio in tutte le circostanze, liete e tristi, della vita; soprattutto, senza dimenticare che la fede si approfondisce con la meditazione contemplativa della parola di Dio e che l'amore per Cristo cresce col riceverlo nell'Eucaristia.

In particolare non bisogna dimenticare che metodi efficaci di concentrazione e di raccoglimento si trovano nella spiritualità cristiana.

Nella spiritualità occidentale è molto noto - ma non è il solo - il metodo (o i metodi) degli Esercizi Spirituali di sant'Ignazio di Loyola; nella spiritualità orientale sono ben conosciuti e praticati l'esicasmo e la "preghiera di Gesù".

Perché non ricorrere a tali metodi cristiani per rendere più profonda e raccolta la propria preghiera?

Tanto più che si tratta di metodi "cristiani", che non solo hanno dimostrato di essere efficaci per il miglioramento della preghiera cristiana, ma non hanno bisogno, come i metodi non cristiani, di essere "trasposti" e adattati - cosa non facile e non scevra di gravi pericoli e di equivoci - alla preghiera cristiana.

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ZEN E CRISTIANESIMO Attraverso un confronto fra

il Maestro Doghen e Francesco d'Assisi

Prefazione A quasi due anni dalla stesura di questa tesi mi sono deciso a fare una traduzione

italiana, sperando che possa trovare qualche interesse. L'argomento del Buddismo Zen mi appassiona, pero' mi accorgo sempre piu'

quanto sia difficile da capire nella sua profondita', e quanto tempo richieda. All'universita' Komazawa di Tokyo, l'universita' della Soto Zen giapponese che ho

frequentato, ho avuto la fortuna di trovare insegnanti molto preparati e alcuni come Kagamishima Ghenryu e Sakai Tokughen che sono fra i piu' quotati nella ricerca sul maestro Doghen, e Nara Yasuaki, esperto del Buddismo indiano delle origini, mi sono stati di grande aiuto.

Questo lavoro e' stato apprezzato, anche se e' stata notata una certa carenza nel sottolineare le differenze fra pensiero zen e pensiero cristiano.

La traduzione dei passi citati nella parte che riguarda lo Zen, e' fatta tutta dai testi originali.

Dove ci sono, ho consultato traduzioni in giapponese moderno o in inglese, pero' nella maggior parte dei casi ho preferito una traduzione e interpretazione personale suggerita dalla comprensione avuta dallo studio e dai colloqui con gli insegnanti, e in modo particolare col maestro Yamada Koun.

Inoltre rispetto alla tesi consegnata all'universita', per questa traduzione ho aggiunto spiegazioni e note nella parte che riguarda il pensiero Zen per renderne piu' facile la comprensione.

Per i nomi dei maestri e delle opere cinesi, eccetto alcuni casi, ho preferito lasciare la lettura normalmente usata in Giappone.

Avendo la possibilita' di essere sempre a contatto con questo mondo, sto continuando il lavoro di studio e di ricerca, e questa tesi e' solo un primo passo iniziale.

Mi sto preparando per un lavoro che possa dare ai lettori italiani una visione piu' ampia e comprensibile del pensiero del Buddismo Zen, e specialmente del pensiero di Doghen, ancora poco conosciuto in occidente, ma questo richiedera' ancora qualche anno.

A chi leggera' questa tesi esprimo la piu' profonda gratitudine se mi fara' pervenire qualche commento o parere, o mi fara' notare punti poco comprensibili o errori, sia sulla parte che riguarda Francesco, che sul pensiero buddista Zen o su un confronto fra Zen e Cristianesimo.

Celestino CAVAGNA Kofu, Giappone 26 novembre 1988.

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Cap. 1. Il Dialogo Interreligioso Durante gli studi teologici ho avuto modo di studiare un po' le altre religioni, e in

particolare sono stato attratto fin dall'inizio dal Buddismo. Un missionario tornato dal Giappone ci parlo' dello Zen e in quell'occasione ci

sedemmo insieme in meditazione. Incrociare le gambe, svuotare il cuore da ogni pensiero e stare seduto immobile

era la mia prima esperienza di meditazione Zen. Fu per me come una nuova scoperta. Mi sembrava che fosse quello che il mio corpo e il mio cuore cercavano da tempo.

Per qualche tempo continuai a sedermi in posizione Zen seguendo le indicazioni di quel missionario e leggendo qualche libro per conoscere un po' questo mondo.

Dopo l'ordinazione presbiterale, in occasione dell'invio in missione, probabilmente questo mio interesse per il Buddismo Zen ebbe influsso per scegliere come missione il Giappone. E in Giappone, oltre al lavoro missionario ebbi la possibilita' di ricevere un'ottima guida nella meditazione Zen, prima dal gesuita P.Lassalle (1) e poi dal maestro Yamada Koun di Kamakura (2).

Oltre alla pratica cominciai a studiare Buddismo Zen all'Universita' Komazawa di Tokyo per avere anche una comprensione culturale di esso.

Molte volte mi fu fatta la domanda: "Come puo' un cristiano, e specialmente un prete studiare Buddismo e praticare meditazione Zen?". Certamente quando si e' troppo attaccati al pensiero e alla forma esterna della propria religione si evita di avere contatti con le altre religioni. Pero' a me sembra che da circa 20 anni a questa parte si sia sviluppato un movimento di apertura, e gli uomini cerchino di superare barriere di razza, nazionalita' e religione per un mondo unito nella pace e nel rispetto vicendevole.

In questo movimento di apertura vorrei porre il Concilio Ecumenico Vaticano II (1963-65), in cui la Chiesa Cattolica si e' rinnovata nella mentalita', nella liturgia e nell'organizzazione.

Nei documenti del Concilio si nota anche attenzione al dialogo interreligioso e al bisogno di conoscenza e interscambio con le altre religioni.

Nella Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane "Nostra Aetate" si legge:

La Chiesa Cattolica nulla rigetta di quanto e' vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e

quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verita' che illumina tutti gli uomini. Essa pero' annuncia, ed e' tenuta ad annunziare, il Cristo che e' "via, verita' e vita" in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato a se stesso tutte le cose. Essa percio' esorta i suoi Figli affinche', con prudenza e carita', per mezzo del dialogo e la collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana essi riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi (3).

In questi 20 anni altre volte sono state fatte dichiarazioni simili. Per fare solo un esempio, nella dichiarazione ufficiale a chiusura della prima assemblea plenaria della Federazione delle Conferenze Episcopali Asiatiche (FABC) svoltasi a Taipei dal 22 al 27 aprile 1974 si dice:

La Chiesa Locale e' una chiesa incarnata nella gente, una chiesa indigena e inculturata.

E questo significa in concreto una chiesa in continuo, umile e amoroso dialogo con le tradizioni vive, le culture, le religioni - in breve con tutte le realta' vive della gente in mezzo a cui ha affondato profondamente le sue radici e di cui fa propria la storia e la vita.

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Cerca di partecipare in ogni cosa che veramente appartiene alla sua gente: i suoi significati e i suoi valori, le sue aspirazioni, i suoi pensieri, il suo linguaggio, i suoi canti e le sue manifestazioni artistiche. Perfino le sue debolezze e gli sbagli essa assume, perche' possano essere sanati.

Nello stesso modo il Figlio di Dio assunse la totalita' della nostra condizione umana caduta (eccetto che per il peccato) in modo che Egli potesse veramente farla propria e redimerla nel suo mistero pasquale.

In Asia questo comporta specialmente un dialogo con le grandi tradizioni religiose della nostra gente. In questo dialogo noi le accettiamo come significanti e come elementi positivi nell'economia del disegno divino di Salvezza.

In esse riconosciamo e rispettiamo profondi significati e valori spirituali ed etici. Per molti secoli esse sono state il tesoro dell'esperienza religiosa dei nostri

antenati, e da cui i nostri contemporanei non cessano di attingere luce e forza. Esse sono state e continuano ad essere l'autentica espressione dei piu' nobili

desideri del loro cuore e il luogo della loro contemplazione e preghiera. Esse hanno aiutato a dare forma alla storia e alla cultura delle nostre nazioni (4).

Seguendo questi ed altri consigli simili, molti cristiani e missionari in tutto il mondo hanno cominciato a studiare le altre religioni, ad approfondirne il pensiero e l'insegnamento, a praticarne il modo di pregare e di meditare. Anche in diversi istituti missionari si consiglia che in ogni nazione qualche missionario entri in dialogo in modo specializzato con le religioni del luogo.

Il tema di questa tesi di licenza di buddismo all'Universita Komazawa di Tokyo e' un confronto fra Zen e Cristianesimo; pero' invece di paragonare le due religioni in modo completo ho preferito accostare Francesco d'Assisi (1181-1226) e il maestro Doghen (1200-1253), vissuti nello stesso periodo.

Una volta che stavo praticando meditazione Zen allo Zendo San'un di Kamakura, il maestro Yamada Koun cito' le seguenti parole dall'opera Shobo-Ghenzo di Doghen:

So con certezza: il mio cuore sono i monti, i fiumi e la terra; sono il sole, la luna e le stelle. (5)

La spiegazione che diede il maestro Yamada fu la seguente: Il cuore qui indica tutto il proprio essere, e Doghen si sente in profonda unita', si sente una cosa sola con la natura e con tutto l'universo. E' come se dicesse: "Io sono i monti, i fiumi e la terra; sono il sole, la luna e le stelle."

Sentite queste parole mi e' venuto subito in mente il Cantico delle Creature di Francesco.

Nel cantico, Francesco chiama il sole fratello e la luna sorella. In lui non c'e' l'espressione Io sono un tutt'uno col sole e con la luna.

Se avesse detto "Io sono il sole, sono la luna", questo non avrebbe avuto senso secondo la filosofia e la mentalita' occidentale; se l'avesse detto sarebbe stato preso per pazzo.

Gia' i contemporanei lo definirono "pazzo" per il suo comportamento prima di scoprire in lui il "santo". Francesco chiamando tutte le creature fratelli e sorelle esprime la sua unita' spirituale con esse, anche lui sentiva di essere una cosa sola e di vivere in intima unione con la natura e tutte le creature dell'universo.

Queste sono le parole del Cantico delle Creature: Altissimu, onnipotente, bon Signore, Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfane, et nullu homo ene dignu Te mentovare. Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo quale e' iorno, et allumini noi per lui. Et ellu e' bellu e radiante cum grande splendore:

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de Te, Altissimo, porta significatione. Laudato si', mi' Signore, per sora Luna e le stelle: in celu l'ai formate clarite et pretiose et belle. Laudato si', mi' Signore, per frate Vento et per aere et nubilo et sereno et et onne tempo, per lo quale a le Tue creature dai sustentamento. Laudato si', mi' Signore, per sor'Acqua, la quale e' multo utile et humile et pretiosa et casta. Laudato si', mi' Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la nocte: ed ello e' bello et iocundo et robustoso et forte. Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba. Laudato si', mi' Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli ke'l sosterrano in pace, ka da Te, Altissimo, sirano incoronati. Laudato si', mi' Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po' skappare: Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovara' ne le Tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no'l farra' male. Laudate et benedicete mi' Signore et rengratiate e serviateli cum grande humilitate. (6) Poiche' il maestro Doghen e Francesco appartengono a mondi e culture diverse,

naturalmente non usano le stesse espressioni, pero' a parte le idee e le parole, mi pare che fossero in una simile posizione di Satori (7).

La grande illuminazione di aver dimenticato e annientato il proprio Io e essere diventati un tutt'uno con gli altri uomini e con tutto l'universo e' il loro punto in comune.

Attraverso una ricerca comparata vorrei approfondire questa grande percezione di unita' con l'universo e le creature in Francesco e Doghen, inquadrandoli nella situazione storica e religiosa del loro mondo.

NOTE (1).. Il padre gesuita Hugo Lassalle nacque in Germania nel 1898. Venne in

Giappone da giovane, e inizio' il suo approccio al mondo dello Zen verso i 40 anni. Costrui' un centro di meditazione Zen cattolico chiamato "Shinmeikutsu" sulle montagne alla periferia di Tokyo, e tuttora dirige ritiri di meditazione in Giappone e in Europa. Avendo preso la cittadinanza giapponese il suo nome giapponese e' Enomiya Makibi.

(2)..Yamada Koun, nato nel 1907, e' un maestro Zen laico. Dopo Harada Sogaku e Yasutani Hakuun e' alla guida di una scuola Zen detta "Sambo- Koryukai (Associazione per far rifiorire i tre tesori), che nella pratica Zen cerca di unire il meglio delle scuole Rinzai e Soto. E' abbastanza aperto alle altre religioni e offre la sua guida a numerosi stranieri, fra cui anche fedeli e religiosi cattolici.

(3).."Concilio Ecumenico Vaticano II. Costituzioni, Decreti, Dichiarazioni", Ed. Ancora, Milano 1966. Pg. 367.

(4)..Tradotto da "Evangelization in modern day Asia, The first plenary assembly of the Federation of Asian Bishops' Conferences, 3rd ed. 1981. Publ. by Office of the Secretary General, Hong kong-Manila. N. 12-14.

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(5)..Tradotto da "Shobo-Ghenzo", capitolo "Sokushin-zebutsu". (6)..Fonti Francescane, Editio Minor, Editrici Francescane 1986, pg.136. (7)..Satori e' una parola giapponese che indica "la chiara comprensione" di

qualcosa. E' generalmente tradotta "Illuminazione", oppure "Risveglio"; in inglese si usa

anche il termine "Realization". Come forma verbale "Satoru" e' tuttora comunemente usata. Nello Zen indica una

profonda esperienza di comprensione della Verita'. A volte e' usata per indicare un'esperienza mistica temporale, e' un po' l'obiettivo

che ci si propone con la pratica religiosa. Altre volte, come intende Doghen, e' usata per indicare uno stato permanente di

comprensione e di apertura mentale, che di per se' e' innata nell'uomo, ma si sviluppa e si chiarifica con la pratica religiosa.

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Cap. 2. Francesco d'Assisi 2. 1. L'Europa medioevale. 2. 2. Fonti per la ricerca su Francesco. 2. 3. Il periodo giovanile. 2. 4. La conversione. 2. 5. Francesco il santo. 2. 1. L'Europa medioevale. Guardando la storia europea, l'epoca in cui visse Francesco fu un'epoca piena di

guerre e di perturbazioni politiche, sociali e religiose, pero' si puo' dire che fu anche un'epoca di ricerca di liberta'.

Il Sacro Romano Impero iniziato da Carlo Magno, dopo aver riunito gran parte dell'Europa nell'VIII secolo, continuava ancora, ma d'altra parte il Papa esercitava su tutta l'Europa un'autorita' a volte piu' grande di quella dell'imperatore stesso.

A meta' fra i due iniziavano qua e la' movimenti di indipendenza e in Italia era il periodo in cui si sviluppavano i Comuni. Questi riuscivano a esercitare una vita politica democratica come entita' a se' con una relativa indipendenza sia dal papa che dall'imperatore. Circondavano la citta' di mura per l'autodifesa, possedevano leggi che trattavano tutti i cittadini in modo uguale e tutti potevano partecipare alla vita politica guidata dal Podesta' e dal Gran Consiglio. In caso di pericolo tutti i cittadini in grado di combattere diventavano soldati, con le armi che riuscivano a trovare.

L'imperatore Federico Barbarossa della casa Hohenstaufen che cerco' piu' volte di impedire lo sviluppo dei comuni, fu sconfitto nel 1176 dalla Lega Lombarda e dovette riconoscerne l'autorita' indipendente.

Nel 1178 con l'elezione pontificale di Innocenzo III inizio' un periodo in cui si arrivo' al culmine del potere papale. Innocenzo oltre ad attuare notevoli riforme nell'amministrazione ecclesiastica e nel diritto, riusci' a sottomettere la nobilta' romana che aveva sempre avuto una forte influenza, ed estese ampiamente il suo potere anche nella politica del tempo. Presto' la sua forza ed autorita' per l'elezione a imperatore di Ottone IV della casa di Braunshwaig, ma piu' tardi questi si allontano' dalle direttive di Innocenzo e fu scomunicato e al suo posto fu riconosciuto imperatore Federico II.

Quando Francesco cerco' di suscitare una ventata di freschezza nella chiesa del tempo si trovo' di fronte un papa come Innocenzo III.

Ancora, come grande avvenimento di questo periodo si possono citare le Crociate. Fu questo un fenomeno storico ancora oggi difficile da spiegare, e che nelle altre religioni lascia molti dubbi verso un cristianesimo che ha sempre predicato l'amore. Certamente al motivo di liberare dalle mani musulmane la Terra Santa dei cristiani, si mescolavano il desiderio di glorie militari e lo spirito di avventura per dei cavalieri senza lavoro, e gli interessi dei commercianti che volevano avere la strada libera sulla Via della Seta.

Anche Francesco che da giovane abbracciava in cuore l'ideale di cavaliere era affascinato dalle Crociate. In effetti a 23 anni dopo la prigionia di Perugia e la lunga malattia, parti' per prendere parte alla Quarta Crociata; ma quando non era ancora molto lontano da Assisi ricadde ammalato e quella malattia fu la causa della sua conversione.

Piu' tardi nel 1219 parti' per l'Oriente, non piu' come un cavaliere alla ricerca di glorie militari , ma come il cavaliere spirituale di Cristo e pote' dialogare col Sultano riguardo alla Verita'.

Nella storia Europea di quel tempo, un'altro fatto importante che rivela la ricerca di liberta' degli uomini del medioevo fu il riconoscimento della Magna Carta proposta dai vassalli inglesi al re Giovanni e approvata nel 1215.

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Questa puo' essere chiamata la prima costituzione che pone dei limiti al potere assoluto del re.

2. 2. Fonti per la ricerca su Francesco. Gli scritti di Francesco sono relativamente pochi. Piu' che scritti sistematicamente

organizzati, si tratta di brevi scritti stesi secondo la necessita' del momento. Oltre alle due Regole vi sono Lettere, Laudi e Preghiere.

Francesco non aveva molta affinita' con gli studi, anzi per tutta la vita ne dimostro' sempre una certa avversione, e per quanto riguarda la sua educazione non era niente di piu' di quella di un normale ragazzo di quel tempo. Pero' fin da ragazzo gli piacevano canzoni e poesie e nei suoi scritti si nota un forte sentimento poetico che sgorga dal cuore.

L'opera fondamentale che raccoglie gli scritti di Francesco e le sue biografie scritte da altri e' "Analecta Franciscana" in 10 volumi, edita da Quaracchi fra il 1885 e il 1941. Inoltre le "Fonti Francescane" delle Editrici Francescane, di cui la Editio Minor (formato tascabile) del 1986 e' facile da usare ed accessibile a tutti. Nelle citazioni mi atterro' principalmente a questa edizione.

L'opera piu' antica che racconta la vita di Francesco e' la "Vita Prima" di Tommaso da Celano (1). Nel 1228, due anni dopo la morte di Francesco, in occasione della sua canonizzazione si cerco' di raccogliere tutto il materiale concernente e il papa Gregorio IX stesso incarico' di questo lavoro Tommaso, uno dei discepoli di Francesco (1229).

Piu' tardi nel 1246 Tommaso fu nuovamente incaricato dall'Assemblea Generale dell'Ordine Francescano e scrisse la "Vita Seconda" (2).

Fra gli scritti non ufficiali di quel tempo troviamo la "Leggenda Perugina" (3), "I Fioretti di San Francesco" (4), la "Leggenda dei tre compagni"(5) e altri.

Ma nell'Assemblea Generale del 1260 il Superiore Generale di allora Bonaventura, per lasciare ai posteri un'immagine ideale del fondatore, ricevette l'incarico di una nuova stesura ufficiale della biografia di Francesco e scrisse la "Leggenda Maggiore" (6), basandosi sugli scritti precedenti. In seguito Bonaventura ordino' che fossero bruciate le altre biografie ma qualche copia segretamente sopravvisse e possiamo vederle negli "Analecta Franciscana".

Numerose sono le opere scritte su Francesco in questi ultimi tempi e le piu' famose anche tradotte in diverse lingue, e mi limito a citarne alcune nella Bibliografia.

2. 3. Il periodo giovanile Francesco nacque nel 1181 ad Assisi, cittadina dell'Italia centrale, figlio maggiore

di Pietro Bernardone mercante di stoffe e di Madonna Pica. Era una famiglia arricchita col commercio e per commercio il padre Pietro si recava spesso in Francia. In questo primo figlio, Pietro aveva riposto grandi speranze: lo avrebbe aiutato nel negozio e avrebbe contribuito ad un ingrandimento delle proprieta'.

Gli diede il nome di Francesco, nome che ricorda il suo amore per la Francia, dove si recava spesso per i suoi viaggi di commercio. In realta' essendo questo figlio nato durante uno dei suoi viaggi in Francia, fu dapprima chiamato Giovanni dalla madre.

Francesco trascorse la sua giovinezza fra il negozio, aiutando il commercio del padre e il divertimento con gli amici. In negozio sapeva il suo mestiere; aveva un carattere aperto e gioviale che sapeva mettere i clienti a proprio agio e un conversare molto abile che prima o poi convinceva sicuramente a comperare. Era il vanto di suo padre.

Pero' alla sera e nei giorni di festa trascorreva il tempo con numerosi amici mangiando, bevendo, cantando e danzando senza mai conoscere la stanchezza. Esercitava su tutti uno strano fascino ed era sempre alla testa in tutto, tanto da essere chiamato il "re dei giovani". Usando con abbondanza i soldi del padre sapeva sempre rendere felici i suoi amici.

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A motivo del commercio aveva spesso contatti con la Francia; inoltre al suo negozio si fermavano mercanti venuti da lontano da cui sentiva numerosi racconti e leggende, un ottimo materiale per rendere interessanti le serate con i suoi amici. Conosceva bene il francese e sapeva cantare; imitava i trovatori della Provenza cantando racconti di guerra, leggende e storie d'amore e di cavalieri e faceva sognare i suoi ascoltatori.

Francesco aveva sempre abbracciato in cuore l'ideale di cavaliere, e assommato a questo l'orgoglio del padre e il suo denaro arrivo' presto il momento di partire per la guerra in cerca di gloria.

Nel 1202 scoppio' la guerra fra Assisi e la vicina citta' di Perugia e la battaglia principale avvenne a Collestrada, ma questa in un solo giorno si traformo' in un massacro per i giovani di Assisi e Francesco fu fatto prigioniero. I fanti e gli arceri furono tutti uccisi; solo i cavalieri furono risparmiati e condotti a Perugia prigionieri.

Possedere un cavallo voleva dire essere ricco almeno da poter pagare il riscatto. Anche per Francesco c'era in attesa un anno di dura prigionia.

A Francesco che fino ad allora aveva conosciuto solo la felicita' e il piacere, il massacro di Collestrada, la dura prigionia e la malattia che ne segui' trasformarono il cuore. Pero' pur soffrendo in prigione, non perse mai il suo carattere gioviale; anche in mezzo ai piu' duri tormenti, sapeva divertire e consolare gli amici sull'orlo di un collasso nervoso.

Dopo che il padre Pietro Bernardone pago' il riscatto e pote' tornare ad Assisi, per qualche tempo la malattia, che pare fosse una forma di tubercolosi, continuo'. Finalmente ristabilito in salute, nel 1204 Francesco si prepara di nuovo per la guerra. Il famoso condottiero Gautier di Brienne stava combattendo nell'Italia meridionale per riportare un feudo in possesso al Papa, e da li' si preparava a partire per la crociata in Palestina.

Francesco pensando di ottenere la gloria come cavaliere parti' per unirsi all'esercito di Gautier.

Essendo nato da una famiglia di commercianti era ricco, ma questo non bastava a metterlo al pari della nobilta'. Solo ricoprendosi di gloria come cavaliere poteva colmare la distanza che separava la sua famiglia dalla nobilta', e perche' questo potesse avverarsi, da dietro Pietro Bernardone che aveva riposto tutti i suoi sogni in questo figlio non risparmiava denaro. Ma la sera dello stesso giorno della partenza mentre dormiva in una locanda a Spoleto, Francesco senti' una voce in sogno che gli diceva di abbandonare la guerra e di tornare ad Assisi.

Si potrebbe pensare che fosse ritornato alla sua memoria il massacro di Collestrada e fosse rimasto paralizzato dalla paura. Ma questo non basta a spiegare la decisione di Francesco che aveva sempre ardentemente desiderato la gloria e dimostrato coraggio e serenita' anche nei piu' duri tormenti della prigionia; soprattutto una decisione che non voleva dire tornare alla sicurezza e agiatezza della casa paterna, ma l'inizio di una vita completamente nuova, forse piu' pericolosa della guerra.

Certamente il sogno di quella notte rimane una cosa misteriosa, si potrebbe dire un'esperienza mistica. Tornato ad Assisi, Francesco continuo' per qualche tempo la vita di prima, ma da quel momento comincio' a ritirarsi spesso in una grotta fuori Assisi per pregare.

Cercando di non farsi notare da nessuno, conducendo con se' solo un amico di cui non si conosce il nome pregava, pensava e conversava con l'amico riguardo alla vita e all'esperienza religiosa.

Verso la fine del 1205 mentre pregava nella vecchia cappella di San Damiano, senti' una voce che veniva dal Crocifisso sopra l'altare:

"Francesco, va, ripara la mia casa che, come vedi, e' tutta in rovina" (7).

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Le parole "ripara la mia casa che e' tutta in rovina" ora normalmente vengono interpretate come riformare la Chiesa che era in uno stato di degradazione, pero' Francesco prese queste parole alla lettera e con tutte le sue forze inizio' a riparare la vecchia cappella di San Damiano.

Per aver usato a piu' riprese il denaro del padre e venduto stoffe preziose per comperare il materiale necessario scoppio' una lite in famiglia. Il padre Pietro Bernardone condusse Francesco dal vescovo per ottenere il Giudizio. Si era stancato di questo figlio che recentemente era diventato stravagante; distribuiva ai poveri il suo denaro e le proprieta' di famiglia ed era giunto perfino a rubare in casa per riparare una vecchia chiesa cadente. A questo figlio avrebbe negato l'eredita' e il diritto di successione.

Ma non era solo un problema di denaro: Pietro Bernardone era adirato e non sopportava che Francesco in cui a motivo della sua abilita' aveva riposto tutte le sue speranze per ampliare il giro di commercio e i capitali di famiglia, avesse abbandonato il negozio, avesse abbandonato perfino la guerra e la speranza di gloria e si fosse dedicato a strane abitudini mistiche, a un tipo di vita religiosa non ancora approvata dalla Chiesa e derisa dalla gente di Assisi per la sua stravaganza.

Francesco di fronte al Vescovo e a tutta la gente di Assisi restitui' al padre il denaro che gli era rimasto in mano, e come segno che iniziava una nuova vita di liberta' si spoglio' dei vestiti che indossava e li restitui' a Pietro Bernardone:

"D'ora in poi -esclamo'- potro' dire liberamente: Padre nostro, che sei nei cieli, non padre Pietro di Bernardone.

Ecco, non solo gli restituisco il denaro, ma gli rendo pure tutte le vesti. Cosi' andro' nudo incontro al Signore" (8). 2. 4. La conversione. Francesco che aveva tanto amato le feste e il divertimento, lasciati gli amici spese

il suo tempo a pregare nella grotta e a riparare con assiduita' la cappella di San Damiano. Egli che aveva sempre tanto ricercato il denaro, la raffinatezza, il piacere e la gloria, ora era sporco di fango e vestito di stracci e le mani ferite dalla durezza del lavoro e del freddo invernale.

Ora i suoi amici non erano piu' i nobili di Assisi a cui aveva sempre offerto da bere e da mangiare: ora i suoi amici erano i poveri, erano le persone rifiutate da tutti.

Francesco che aveva gusti raffinati nel mangiare e nel bere, diventato mendicante, si cibava degli avanzi che le gente gli dava. Ma egli ora capiva bene le parole del Vangelo e gustava la vera liberta' del cuore, dopo essersi liberato dalle preoccupazioni del mondo.

"Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono nei granai, e il vostro Padre celeste li nutre. Or non valete voi piu' di loro?" (Matteo 6,26).

Dopo essere stato nascosto in una caverna per piu' di un mese, la prima volta che Francesco torno' ad Assisi incontro' l'ira della gente:

"Tutti quelli che lo conoscevano, vedendolo riapparire e mettendo a confronto il suo stato attuale col passato, cominciarono a insultarlo, a chiamarlo mentecatto, a lanciargli contro pietre e fango.

Quell'aspetto macerato dalla penitenza, e quell'atteggiamento tanto diverso dal solito, li inducevano a pensare che tutti i suoi atti fossero frutto di fame patita e di follia.

Ma poiche' la pazienza val piu' dell'arroganza, Francesco non si lasciava disanimare ne' sconfiggere da insulto alcuno, e ringraziava Dio per quelle prove (9).

Ma nonostante tutti lo chiamassero "pazzo", c'erano anche persone che non riuscivano a sfuggire al fascino di questo mendicante. Anche fra gli amici di prima alcuni come Francesco abbandonarono tutto, si vestirono di stracci e iniziarono la vita di mendicante con lui.

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Fra di essi Bernardo, un benestante di Assisi e dottore in legge alla famosa universita' di Bologna; l'amico e avvocato Pier Cattani; il sacerdote Silvestro; Egidio, il discepolo piu' semplice che non aveva mai studiato; Angelo Tancredi, un cavaliere ritornato dalle crociate e altri, tutti seguirono Francesco.

Le caratteristiche del comportamento di Francesco dopo la conversione e dei suoi discepoli, erano un atteggiamento cosi' diverso da quello comune tanto da essere chiamati pazzi, una vita di estrema poverta' e il servizio ai poveri specialmente il servizio ai lebbrosi che erano i piu' rifiutati nella societa' del tempo.

Innanzitutto un giovane di famiglia ricca che lascia il commercio e tutte le proprieta' e si fa povero e si mette al servizio di Dio da solo senza entrare in nessun ordine religioso, per gli abitanti di Assisi sorpassava ogni limite del buonsenso.

Inoltre quello che Francesco aveva fatto quando condotto dal padre davanti al vescovo, cioe' spogliarsi completamente nudo davanti a tutti non poteva che far pensare a pazzia.

Francesco dava un particolare significato allo spogliarsi ed essere nudo: per lui era un modo di indicare il rifiuto dell'attaccamento a qualunque cosa e il vivere completamente libero. Anche prima di morire volle essere spogliato ed essere adagiato nudo sulla terra.

Nel 1219 quando i suoi seguaci erano diventati numerosi e non erano piu' chiamati pazzi ma tutti avevano capito che si trattava di religiosi con una nuova e vivace spiritualita', fu aperta un'assemblea appena fuori Assisi a cui presero parte circa 5000 frati poveri e vestiti di stracci. A quella assemblea partecipo' anche il Cardinale Ugolino (il futuro papa Gregorio IX) come Legato Papale. Ugolino voleva osservare bene il nuovo gruppo di frati per trovare il modo di convogliarli in qualche ordine religioso gia' esistente o iniziare un nuovo ordine con una struttura e una regola ben precisa.

Francesco davanti a Ugolino e a tutti esclamo': "Fratelli, fratelli miei, Dio mi ha chiamato a camminare la via della semplicita' e

me l'ha mostrata. Non voglio quindi che mi nominiate altre Regole. Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un pazzo nel mondo: questa e' la scienza alla quale Dio vuole che ci dedichiamo! Egli vi confondera' per mezzo della vostra stessa scienza e sapienza..." (10).

I 5000 fratelli a sentire queste parole e pensando che c'era li' presente un rappresentante della Chiesa cominciarono a tremare. Ma il cardinale Ugolino capi' che il pazzo Francesco stava parlando mosso dalla forza dello Spirito.

C'e' un altro racconto che dimostra la liberta' e l'illuminazione del cuore di Francesco staccato da ogni attaccamento alle cose, al potere, alla conoscenza e sapienza umana, e si trova oltre che nei Fioretti di San Francesco fra le "Laudi e preghiere" col titolo "Della vera e perfetta Letizia".

Lo stesso fra Leonardo riferi' che un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria

degli Angeli, chiamo' frate Leone e gli disse: "Frate Leone, scrivi!". Questi rispose: "Eccomi, sono pronto". "Scrivi - disse - quale e' la vera letizia". "Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell'Ordine; scrivi:

non e' vera letizia. Cosi' pure che sono entrati nell'Ordine tutti i prelati d'Oltr'Alpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d'Inghilterra; scrivi: non e' vera letizia.

E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io ho ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da fare molti miracoli; ebbene io ti dico: in tutte queste cose non e' la vera letizia".

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"Ma qual'e' la vera letizia ? ". "Ecco, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed e' un inverno fangoso e cosi' rigido che, all'estremita' della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d'acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: "Chi e'?".

Io rispondo: "Frate Francesco". E quegli dice: "Vattene, non e' ora decente, questa, di andare in giro, non entrerai". E poiche' io insisto ancora, l'altro risponde: "Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te".

E io sempre resto davanti alla porta e dico: "Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte". E quegli risponde: "Non lo faro'. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi la'".

Ebbene, se io avro' avuto pazienza e non mi saro' conturbato, io ti dico che qui e' la vera letizia e qui e' la vera virtu' e la salvezza dell'anima. (11)

Questo racconto rassomiglia molto ad alcuni degli aneddoti dei maestri Zen, e rivela come il cuore di Francesco fosse libero da ogni soddisfazione egoistica e attaccamento e come superasse di gran lunga il modo di pensare religioso e comune del tempo: aveva visto con chiarezza la Verita'.

La prima cosa che Francesco capi' dopo la conversione fu che per ottenere la liberta' del cuore e superare l'attaccamento alle cose e' necessario abbandonare le cose e vivere una vita povera. Percio' restitui' tutto al padre, perfino i vestiti che aveva indosso.

Egli stesso e i suoi discepoli ogni giorno mangiavano quello che ottenevano mendicando.

Francesco personificando la poverta' usava chiamarla "Madonna Poverta'", e ne fece la cosa piu' preziosa per tutta la vita. Coloro che vedevano Francesco e il primo gruppo di discepoli camminare di citta' in citta', attraverso campi e boschi accompagnando col canto il loro cammino si accorgevano di una notevole forza spirituale che operava in essi.

Come i mendicanti indossavano un vestito lungo che rassomigliava un sacco con un'apertura per la testa e al posto della cintura usavano una corda. Pero' erano sempre felici e gioviali come ragazzi e sembravano essere venuti da un altro mondo dove non esiste il dolore e la tristezza. Davvero in questa vita di poverta' avevano trovato la perfetta letizia.

Vorrei citare due fatti che dimostrano come Francesco avesse cara la poverta'. Nel 1219 all'assemblea generale dei 5000, gli abitanti di Assisi avevano offerto il cibo necessario e inoltre avevano costruito per loro una grande casa che servisse a ripararli. Francesco che arrivo' sul posto senza sapere nulla si adiro', sali' sul tetto e comincio' a far volare per aria lastre e tegole ordinando ai frati di fare lo stesso. Quale vergogna e disprezzo della santa poverta' l'aver costruito questa casa cosi' vistosa.

Solo i soldati e il rappresentante dei commercianti di Assisi riuscirono a fermarlo dicendogli che quella non era proprieta' dei frati ma del Comune.

Nel 1220 Francesco passando da Bologna si fermo' per visitare la casa ivi costruita da Bernardo per la comunita' dei frati; questa gli sembro' troppo vistosa e ordino' che tutti uscissero e andassero in un luogo piu' povero, facendo trasportare persino gli ammalati.

Pensava che se i frati fossero vissuti in case confortevoli si sarebbe subito attenuato l'amore per Cristo che dovevano annunciare agli uomini (12).

Per descrivere l'attivita' di Francesco e dei suoi frati, bisogna dire che camminavano girando di citta' in citta' predicando, annunciando alla gente la salvezza di Dio e l'amore di Gesu' Cristo, e aiutavano quelli piu' poveri di loro, specialmente i lebbrosi che tutti evitavano.

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Al tempo di Francesco per il susseguirsi di siccita' e di alluvioni i raccolti erano sempre scarsi, e alla carestia si aggiungevano le guerre, e innumerevoli poveri giravano le citta' e le campagne mendicando. Oltre a questi c'erano i lebbrosi, completamente al di fuori della societa' e rinchiusi in lazzaretti. Tra questi alcuni riuscivano ad avere una relativa liberta' e col corpo quasi completamente avvolto in una lunga stoffa grigia, giravano per i campi scuotento un bastone con il sonaglio, quasi fantasmi a spaventare la gente.

Francesco da giovane, quando lavorava nel negozio del padre, dava sempre l'elemosina ai poveri, ma la vista dei lebbrosi proprio non riusciva a sopportarla. Quando passava vicino al lazzaretto si turava il naso con la mano per non sentirne l'odore (13).

Ma dopo la conversione si penti' di questo suo comportamento, che ricorda perfino nel suo testamento:

"Quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia." (14)

Subito dopo la conversione, passando a cavallo nei pressi di Assisi incontro' per strada un lebbroso. Provo' all'inizio una certa ripulsione, ma superata questa scese da cavallo e gli si avvicino'. Guardando questo volto coperto di piaghe gli prese la mano, la porto' alla bocca e la bacio' (15).

Piu' tardi si dedico' con fervore al servizio dei lebbrosi, li visitava nei lazzaretti con i suoi frati, toglievano le croste dalla carne marcia di questi esseri compassionevoli, li lavavano e ripulivano dalla materia infetta, e li trattavano con amore come se stessero lavando le piaghe del Signore.

Avendo capito l'amore di Cristo amavano come se stessi i lebbrosi che pure erano parte del Corpo di Cristo. E non c'era niente che li impauriva, non c'era nulla da cui temere del danno, il loro Io era scomparso e il loro cuore si fondeva con ogni altro essere.

Era questa una specie di illuminazione interiore; non era solo qualcosa capito con la testa, ma era accompagnato dalla pratica quotidiana di servizio.

2. 5. Francesco il santo. Qual'era la situazione della Chiesa al tempo di Francesco? Com'era visto

Francesco dagli ecclesiastici di allora? Francesco a diversita' degli altri religiosi e degli altri ordini aveva abbandonato gli

ideali del mondo e cercava di vivere con purezza e alla lettera il messaggio del Vangelo. Pero' la sua fortezza e la sua purezza di cuore erano qualcosa che non poteva essere imitata facilmente.

Pur essendo vero che la sua vita e le sue parole facevano tremare la chiesa, ancora prima che egli morisse l'ordine dei suoi frati era diventato un ordine religioso non molto diverso dagli altri di quel tempo.

In generale, riguardo alla chiesa del XIII secolo non si puo' che dipingere

un'immagine piuttosto scura. Francesco aveva capito bene che la Chiesa stava passando un periodo di crisi e di confusione.

Da una parte anche le bolle di papa Innocenzo III piu' volte descrivono i difetti della chiesa del tempo: riguardo agli ecclesiastici si parla di pratica dell'usura, di compravendita di cariche ecclesiastiche, di vita lussuosa, di ricerca di raffinatezza nei cibi e di intemperanza sessuale.

Dall'altra il papa stesso che accusa questi difetti rivela attaccamento alla politica e al potere temporale. La Chiesa mostrava agli uomini la gloria di Dio attraverso cerimonie solenni, cattedrali imponenti, costruzioni e opere d'arte ma era sull'orlo della rovina spirituale e ignorava o prendeva alla leggera le richieste del Vangelo.

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Papa Innocenzo III aveva una spiritualita' propria e inizio' una profonda riforma della Chiesa, ma riteneva se stesso l'esecutore assoluto sia del potere spirituale che del potere temporale, affidati a lui dalla grazia di Cristo. Pensava di essere un uomo superiore a tutti gli altri uomini, da poter essere giudicato solo da Dio.

Se qualche re o signore si ribellava alle sue direttive andava incontro alla scomunica. E per quanto riguarda i sacerdoti di allora, a parte poche eccezioni, non pensavano a nessun modo di annunciare la parola di Dio alla gente, oltre alla predica della messa domenicale.

Le persone che con fervore cercavano la verita' erano affascinate dagli ideali rivelati nella Bibbia, e vedendo che non potevano ottenere questo dalla Chiesa andavano a cercarli altrove.

La Chiesa medioevale soffri' molto i movimenti eretici. Questi movimenti avevano come punto in comune la critica alla decadenza della Chiesa, lo studio libero e l'insegnamento della Bibbia. Essi stessi erano poveri e parlavano soprattutto ai poveri.

Per citare solo qualche nome, Pietro Valdo in Francia, Gioacchino da Fiore in Italia meridionale, Arnaldo da Brescia in Italia settentrionale, i movimenti Catari e altri.

Anche Francesco che come loro citava spesso la Bibbia, era diventato povero, parlava di preferenza ai poveri e criticava i difetti della Chiesa all'inizio corse il pericolo di essere preso per un eretico, ma Francesco, come figlio fedele della madre Chiesa non disobbedi' mai ai suoi ordini.

Per spiegare la sua posizione critica bisogna dire che egli bruciava dell'amore divino che aveva scoperto nel vangelo, e bruciava dallo zelo di trasmettere questo amore al piu' grande numero possibile di persone.

Nel 1209, quando ebbe radunato 11 discepoli ando' a Roma per avere dal papa il riconoscimento dell'ordine, portando con se' la sua regola, fatta principalmente di citazioni bibliche.

Ma Innocenzo III che aveva il terrore degli eretici, appena vide quegli 11 straccioni e senti' il parlare infuocato di Francesco rifiuto' di continuare ad ascoltarli. Con l'aiuto del vescovo di Assisi che si trovava allora a Roma e dopo aver potuto parlare col Cardinale Giovanni di San Paolo in carica del controllo degli eretici, poterono avere un'altra udienza col papa.

L'ordine fu riconosciuto, ma la regola non fu approvata subito per la ragione che era impossibile da praticare. Il Cardinale Giovanni di San Paolo fu stabilito rappresentante papale presso il nuovo ordine francescano.

Nel 1221 Francesco che era gia' ammalato e aveva rinunciato ad essere il Superiore dell'ordine, scrisse una nuova regola che fu presentata all'assemblea generale di quell'anno. Anche stavolta, triste a dirlo, la regola fu rifiutata perche' troppo lunga e perche' c'erano troppe citazioni bibliche. La regola fu riscritta una seconda e una terza volta con l'aiuto di altri; era stata resa piu' breve, leggera e facile da praticare, aveva meno citazioni bibliche e piu' codici legali e fu approvata da papa Onorio III nel 1223.

Ma quella non era piu' la regola di pura vita evangelica che Francesco aveva desiderato.

Il piccolo gruppo iniziale di fratelli aveva posto l'abitazione prima a Rivotorto e poi alla Porziuncola, nei pressi di Assisi, e si dedicava con entusiasmo alla predicazione del Vangelo. Dopo due o tre anni il numero di fratelli aumento' enormemente e allargo' l'attivita' di predicazione in tutta Italia e nelle nazioni vicine.

Nel 1212 la giovane Chiara supplico' Francesco di poter condurre la stessa vita e prese l'abito religioso. Insieme alle altre ragazze che la seguirono poterono risiedere nella cappella di San Damiano, e fu iniziato l'ordine femminile delle "Povere Dame".

La vita di Chiara e il suo incontro con Francesco sono un argomento di estremo interesse. Pero' qui non toccando direttamente il tema di questa tesi rimando per una

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conoscenza degli scritti di Chiara e delle biografie su di lei alle Fonti Francescane (pg. 1151-1279).

Col passare degli anni l'ordine di Francesco si ingrandiva sempre piu', e per il poverello di Assisi la fama di santo si allargava in tutta la Chiesa. A prova di questo nel 1218 il Cardinale Ugolino di Ostia, nuovo rappresentante papale presso l'ordine, chiese a Francesco di predicare davanti al papa e ai cardinali riuniti. Lo stesso Ugolino preparo' una bella predica in latino e la passo' a Francesco perche' la imparasse a memoria.

Francesco si preparo' con impegno, ma davanti a tante persone importanti quanto aveva imparato a memoria svani', e fattosi coraggio comincio' a predicare in dialetto con le parole che gli sgorgavano ardentemente dal cuore. Si dice che quel giorno fra i prelati della Chiesa si videro lacrime di gioia e di pentimento (16).

Nel 1219 Francesco visito' la terra santa. Da giovane pensava di andarvi come cavaliere delle crociate ma ora vi ando' portando la parola di Dio e l'amore di Cristo per convertire al Vangelo i mussulmani. Pote' incontrare a Damietta il Sultano che era piu' o meno della sua stessa eta' e parlare con lui circa la verita' e la religione.

Ma in seguito a quanto vide fra i crociati, specialmente il massacro di Damietta quando la citta' cadde, perse completamente il fascino per i cavalieri, e con il cuore stretto dal dolore torno' in Italia.

Gli ultimi anni di Francesco si possono chiamare una "passione" per i dolori della malattia.

Nel 1220 rinuncio' a essere superiore dell'ordine perche' non si sentiva piu' in grado di guidare gli oltre 5000 fratelli e al suo posto fu eletto Pier Cattani. L'anno dopo questi mori' improvvisamente ed Elia da Cortona divenne il nuovo superiore dell'ordine.

Francesco si era ammalato di tubercolosi durante l'anno di prigionia a Perugia quand'era ventenne, e la sua salute fu sempre debole. Oltre a quello bisogna aggiungere la vita estremamente povera, il cibo scarso e i lunghi digiuni e penitenze, e la salute peggioro' continuamente.

Quando visito' la Palestina, il sole del deserto gli brucio' gli occhi e divenne quasi completamente cieco.

Nel 1223 dopo aver ottenuto l'approvazione della regola, alterno' la vita eremitica e il riposo per curarsi con i viaggi per confortare e stimolare i suoi fratelli e predicare alla gente comune. Anche se il suo corpo era gravemente ammalato il suo spirito sembrava essere mosso da una forza misteriosa.

L'amore di Cristo bruciava dentro quel corpo straziato e lo muoveva lo zelo di predicare a tutti gli uomini l'amore e la pace. Da dopo la conversione il cuore di Francesco era un tutt'uno con il cuore di Cristo. Recitava sempre il nome di Gesu', sulle vesti e sui muri disegnava sempre la croce e molto spesso faceva il segno di croce sulle persone e sugli animali come benedizione.

Passando davanti a una chiesa o a qualche forma della natura che assomigliasse a una croce si fermava in adorazione.

Nel settembre del 1224 all'eremitaggio dell'Averna, mentre meditava i dolori della passione di Cristo, in una visione cosi' forte da spaventare i tre fratelli che erano al suo fianco, apparve un blocco di fuoco nel cielo.

Il fuoco si avvicino' al corpo di Francesco e sulle mani, i piedi e il costato causo' delle ferite come quelle di Gesu' sulla croce.

Francesco cerco' sempre di nascondere queste stimmate avvolgendo delle bende intorno alle mani, ma per il sangue che talvolta ne fuorusciva, fu risaputo a tutti quelli che l'incontrarono (17).

Nel 1225 gli fu praticata un'operazione agli occhi e fino all'anno dopo ricevette cure continue, ma gli giovarono a poco.

Il 4 ottobre 1226 mori' alla Porziuncola.

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Quando mi vedrete ridotto all'estremo, deponetemi nudo sulla terra come mi avete visto ieri l'altro, e dopo che saro' morto lasciatemi giacere cosi' per il tempo necessario a percorrere comodamente un miglio.

Ben venga, mia sorella morte! (18). Furono le sue ultime parole prima di morire. NOTE (1)..Fonti Francescane pg.197. (2)..Fonti Francescane pg.325. (3)..Fonti Francescane pg.747. (4)..Fonti Francescane pg.863. (5)..Fonti Francescane pg.695. (6).. Fonti Francescane pg.513. (7).. Celano, Vita seconda, 10. (8)..Celano, Vita Seconda, 12. (9)..Celano, Vita Prima, 11. (10)..Leggenda Perugina, 114. (11)..Fonti Francescane pg. 144. (12)..Per i due fatti vedere Celano, Vita Seconda, 57-58. (13)..Cfr. Celano, Vita Prima 17. (14).. Fonti Francescane pg.66. (15)..Celano, Vita Seconda, 9. (16)..Celano, Vita Prima, 73. (17)..Celano, Vita prima, 94. (18)..Celano, Vita Seconda, 217.

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Cap. 3. Fratelli e Sorelle Creature 3. 1. Francesco amato dalle creature. 3. 2. Il Cantico delle creature. 3. 3. Il significato di "fratello". 3. 1. Francesco era amato dalle creature. Dopo la conversione l'atteggiamento di Francesco verso le ceature cambio'.Non le

vedeva piu' come strumenti o materiale per il suo piacere, ma qualcosa che come lui viveva all'interno della stessa grande vita.

Francesco dopo la guerra con Perugia e la prigionia che ne segui' aveva capito bene che era l'attaccamento alle cose, al denaro, alla gloria e al potere che spingeva gli uomini a ferirsi e a uccidersi a vicenda. In un lungo anno di vita in prigione aveva percepito in profondita' la futilita' e stupidita' dell'odio, della guerra e della ricerca del potere.

Inoltre dopo essere tornato a casa ed essere guarito dalla malattia aveva capito la bellezza e il valore di tutte le cose, le persone innanzitutto. Nell'incontro col lebbroso, Francesco aveva superato la paura e il ribrezzo che tutti avevano, e lo aveva baciato riconoscendolo un fratello che come se stesso viveva della vita di Dio.

Dal momento della conversione per tutta la vita continuo' a insegnare agli uomini la forza dell'Amore di Dio che unisce tutti. Gli uomini sono tutti figli di Dio e nascono per amarsi e vivere insieme in pace e felicita', e questa pace non e' solo fra gli uomini ma deve comprendere tutte le creature.

Francesco vedeva anche gli animali come suoi fratelli e sorelle e ad essi parlava con gentilezza, e da parte loro c'era una reazione inaspettata. Gli episodi piu' famosi sono quelli della predica agli uccelli e del lupo di Gubbio.

(Verso il 1214) Mentre, come si e' detto, il numero dei frati andava aumentando, Francesco percorreva la valle Spoletana. Giunto presso Bevagna, vide raccolti insieme moltissimi uccelli d'ogni specie, colombe, cornacchie e "monachine".

Il servo di Dio, Francesco, che era uomo pieno di ardente amore e nutriva grande pieta' e tenero amore anche per le creature inferiori e irrazionali, corse da loro in fretta, lasciando sulla strada i compagni.

Fattosi vicino, vedendo che lo attendevano, li saluto' secondo il suo costume. Ma, notando con grande stupore che non volevano volare via, come erano soliti fare, tutto felice, li esorto' a voler ascoltare la parola di Dio. E tra l'altro disse loro:

"Fratelli miei uccelli, dovete lodare molto e sempre amare il vostro Creatore, perche' vi diede piume per vestirvi, ali per volare e tutto quanto vi e' necessario. Dio vi fece nobili tra le altre creature e vi concesse di spaziare nell'aria limpida: voi non seminate e non mietete, eppure Egli vi soccorre e guida, dispensandovi da ogni preoccupazione".

A queste parole, come raccontava lui stesso e i frati che erano stati presenti, gli uccelli manifestarono il loro gaudio secondo la propria natura, con segni vari, allungando il collo, spiegando le ali, aprendo il becco e guardando a lui.

Egli poi andava e veniva liberamente in mezzo a loro, sfiorando con la sua tonaca le testine e i corpi. Infine li benedisse col segno di croce dando loro licenza di riprendere il volo. Poi anch'egli assieme ai suoi compagni riprese il cammino, pieno di gioia e ringraziava il Signore che e' venerato da tutte le creature con si' devota confessione (1).

Anche il miracolo del lupo di Gubbio, avvenuto verso il novembre del 1221 mostra come Francesco fosse rispettato e venerato dagli animali. Il racconto e' riportato dai Fioretti al cap.21, e qui lo riassumo:

Gli abitanti di Gubbio vivevano in preda al terrore a causa di un lupo grosso e feroce come se ne vedono pochi. Avevano chiuso le porte della citta' e non ne

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uscivano se non in caso di necessita' e armati come se andassero a combattere. Questa bestia feroce simile a un demonio, era solita apparire dalla foresta e rapire e divorare animali e uomini.

Francesco, sentito questo ando' a Gubbio con alcuni frati per metter rimedio alla situazione, e prese la strada per la foresta dove c'era il covo della bestia. Gli abitanti di Gubbio tentarono di fermare Francesco, ma egli non aveva paura.

Quando apparve il lupo, Francesco avanzo' verso di lui, gli fece un grande segno di croce e gli disse: "Vieni qui, frate lupo. Io ti comando da parte di Cristo che tu non faccia male ne' a me ne' a persona alcuna". Con sorpresa di tutti il lupo chiuse la bocca e smise di correre; si avvicino' e si mise a giacere ai piedi di Francesco mansueto come un agnello.

Francesco continuo': "Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti, e hai fatto grandi malefici, guastando e uccidendo le creature di Dio senza sua licenza; e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto ardire d'uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se' degno delle forche come ladro e omicida pessimo, e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t'e' nemica.

Ma io voglio, frate lupo, far la pace fra te e costoro, sicche' tu non li offenda piu', ed essi ti perdonino ogni passata offesa, e ne' gli uomini ne' i cani ti perseguitino piu'".

E dette queste parole, il lupo con atti di corpo e di coda e di orecchi e con inchinare il capo mostrava d'accettare cio' che santo Francesco diceva e di volerlo osservare. Come segno di promessa Francesco gli stese la mano e il lupo si rizzo' in piedi e vi pose la sua zampa.

Poi Francesco lo condusse dentro la citta', davanti agli abitanti di Gubbio. E predico' loro che questa disgrazia era stata permessa da Dio a causa dei loro peccati, e che dovevano convertirsi, far la pace con frate lupo, trattarlo con gentilezza e dargli da mangiare.

Il lupo visse ancora per due anni abitando in Gubbio, addomesticato e benvoluto dagli abitanti, che si ricordarono sempre questo insegnamento di Francesco.

In questo racconto, non solo si vede come Francesco si sentisse in intima unione con tutto l'universo e le creature, compresi gli animali, ma si puo' anche notare l'insegnamento cristiano che vede nei peccati degli uomini e nel loro comportamento egoista la causa del ribellarsi della natura verso gli uomini causando varie disgrazie.

3. 2. Il Cantico delle creature. Francesco dal momento della conversione comincio' a vedere tutte le creature con

occhi nuovi e a portare continuamente nel cuore un canto di lode. Pur nell'estrema poverta' e in mezzo ai tormenti dal suo cuore sgorgava la gioia. Non era piu' la gioia dei divertimenti e degli schiamazzi del periodo giovanile, ma era la grande gioia e serenita' che proveniva dall'illuminazione di vivere in un rapporto di fratellanza e di amore con tutte le creature, avvolto insieme ad esse dall'amore di Dio.

Questa gioia semplice e spontanea di Francesco e dei suoi discepoli era una delle caratteristiche del primo gruppo di "frati". E questo canto di lode che sempre portava nel cuore, nel maggio del 1225 divento' il "Cantico delle Creature".

In quel periodo Francesco, impossibilitato a muoversi per la malattia e il dolore agli occhi, che teneva fasciati anche di giorno perche' non vi entrasse la luce, riposava in una celletta di stuoie, fatta costruire nella casa di S.Damiano. Una notte, quando era arrivato all'apice della sofferenza, ricevette da Dio in sogno la promessa che sarebbe entrato nel Regno di Dio. Pur tra atroci dolori il suo cuore era colmo di gioia, e in unione con tutte le creature dell'universo innalzo' a Dio il canto di lode.

Quando fu mattino, con gli occhi fasciati perche' non entrasse la luce ad aumentare il bruciore, chiamo' i frati che lo assistevano, disse loro di scrivere il cantico che avrebbe dettato, di impararlo e cantarlo agli altri. Questo e' raccontato nella Leggenda Perugina, (n.43) e nella Vita Seconda di Celano, (n.213).

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Il testo originale di questo cantico si trova nel n.43 della Leggenda Perugina e in alcuni vecchi codici degli Opuscoli. Il testo piu' usato e' quello n.338 della Biblioteca Comunale di Assisi. Il fatto che mentre la Leggenda Perugina e' scritta in latino, e solo questo cantico che vi leggiamo nel n.43 sia scritto in volgare, fa pensare alla sua autenticita'.

Al tempo di Francesco nelle chiese e nelle scuole era usato comunemente il latino, ma la gente comune parlava solo la lingua volgare. Francesco che non aveva fatto studi particolari, non sapeva esprimersi in latino neppure nei discorsi: e' normale che volendo esprimere quanto di piu' prezioso aveva in cuore abbia usato la lingua volgare.

In seguito la lingua volgare della Toscana e Umbria divento' la lingua italiana, e il "Cantico delle Creature" riveste una particolare importanza nella storia della letteratura italiana.

Il contenuto di questo cantico, di cui ho riportato il testo nel primo capitolo, non e'

qualcosa di assolutamente nuovo. Se guardiamo l'Antico Testamento e specialmente i Salmi, cantare le lodi di Dio era una forma di preghiera molto usata dagli Ebrei.

Si potrebbe pensare anche che il Cantico di Francesco sia stato ispirato dal canto di lode che troviamo nel terzo capitolo del libro del profeta Daniele. Questo libro non si trova nella Bibbia Ebraica (Testo Masoretico), ma si puo' leggere nella Volgata, la traduzione in Latino che S.Gerolamo fece nel quarto secolo dai testi siriaci, ed e' la traduzione da allora usata nella chiesa cattolica, e che anche Francesco conosceva bene.

E' il canto dei tre ragazzi giudei fatti gettare nella fornace ardente da Nabucodonosor, re babilonese. Pur in mezzo alle fiamme i tre ragazzi non furono bruciati, e cantando a voce alta invitano tutte le creature a lodare Dio.

Benedite, opere tutte del Signore, il Signore. Lodate ed esaltatelo nei secoli. Benedite, angeli del Signore, il Signore. Benedite, o cieli, il Signore. Benedite, acque tutte che siete sopra i cieli, il Signore. Benedite, potenze tutte del Signore, il Signore. Benedite, sole e luna, il Signore. Benedite, stelle del cielo, il Signore. Benedite, piogge e rugiade, il Signore. Benedite, o venti tutti di Dio, il Signore. Benedite, fuoco e calore, il Signore. Benedite, freddo e caldo, il Signore. Benedite, rugiade e brine, il Signore. Benedite, gelo e freddo, il Signore. Benedite, ghiacci e nevi, il Signore. Benedite, notti e giorni, il Signore. Benedite, luce e tenebre, il Signore. Benedite, folgori e nubi, il Signore. Benedica la terra il Signore. Benedite, monti e colline, il Signore. Benedite, o cose tutte che siete sulla terra, il Signore. (Libro di Daniele 3, 57-90) La somiglianza con il cantico di Francesco e' evidente, pero' c'e' una differenza che

fa del cantico di Francesco qualcosa di caratteristico e propriamente suo: Francesco si rivolge alle creature a una per una chiamandole "fratello" e "sorella".

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Provando a distinguere per gradi il possibile atteggiamento verso le creature: un uomo normale si trova in mezzo alla natura e alle cose e usa delle cose secondo le proprie necessita' senza pensarci troppo;

un uomo con spirito religioso prova meraviglia di fronte alla forza e alla bellezza delle cose e le adora, oppure come nel caso del Cristianesimo e del Giudaismo adora Dio creatore delle cose e rispetta le cose e le usa con attenzione.

In questo cantico Francesco pensa l'universo come una grande famiglia che vive della vita di Dio. In questa famiglia non c'e' opposizione fra la natura, le cose e l'uomo che le usa, ma l'uomo, la natura e le cose sono tutti fratelli, vivono tutti della stessa vita di Dio, respirano dello stesso respiro. Per questo l'attaccamento alle cose viene annullato. Non c'e' bisogno di prendere le cose per se', sia nel caso del cibo che del vestito o di altro, "fratello pane", "fratello vestito" ecc. quando c'e' necessita' vengono da noi per essere mangiati, essere indossati. O meglio secondo le parole di Gesu' Cristo il nostro Padre che e' nei cieli ci da' ogni giorno il pane quotidiano e non c'e' alcun bisogno di preoccuparsi.

Inoltre Francesco non pensava le creature "fratelli" e "sorelle" solo razionalmente, ma esprimeva questo con tutto il suo corpo e il suo spirito. Per questo gli uccelli che normalmente fuggono gli uomini e il lupo si avvicinavano a Francesco con simpatia, come a un fratello. Francesco aveva un carattere che a volte si adirava fortemente, ma quello era solo lo zelo di fronte alla debolezza degli uomini per portarli alla conversione. In realta' era uno che portava sempre la pace in mezzo agli uomini dovunque andasse.

Provo qui a commentare il Cantico delle Creature per una migliore comprensione. Altissimu, onnipotente, bon Signore, Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfane, et nullu homo ene dignu Te mentovare. Il canto di lode a Dio dovrebbe essere qualcosa di normale per un cristiano. Pero' proviamo a pensare alla situazione di sofferenza di Francesco in quella

notte: Francesco soggiorno' a San Damiano per 50 giorni e piu'. Non essendo in grado di sopportare di giorno la luce naturale, ne' durante la notte

il chiarore del fuoco, stava sempre nell'oscurita' in casa e nella cella. Non solo, ma soffriva notte e giorno cosi' atroce dolore agli occhi, che quasi non poteva riposare e dormire, e cio' accresceva e peggiorava queste e le altre sue infermita'.

Come non bastasse, se talora voleva riposare e dormire, la casa e la celletta dove giaceva (era fatta di stuoie, in un angolo della casa) erano talmente infestate dai topi, che saltellavano e correvano intorno e sopra di lui, che gli riusciva impossibile prender sonno (2).

Continuando, la Leggenda Perugina riporta la preghiera di Francesco: "Signore, vieni in soccorso alle mie infermita', affinche' io possa sopportarle con

pazienza!", e la promessa del Signore che gli fu detta in spirito: "fratello, sii felice ed esultante nelle tue infermita' e tribolazioni, d'ora in poi vivi nella serenita', come se tu fossi gia' nel mio Regno".

Francesco chiama "Altissimu, onnipotente, bon Signore", colui che gli ha fatto la promessa di essere gia' nel Regno e questa ispirazione si collega alla grande serenita' che aveva nel cuore per essere amato da Dio ed essere amato da fratelli e sorelle creature.

Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo quale e' iorno, et allumini noi per lui. Et ellu e' bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione.

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In molte religioni dell'antichita' e anche nella religione di Roma era comune considerare il sole una divinita' ed adorarlo. Pero' nella Bibbia o nelle preghiere della Chiesa ci sono casi in cui si paragona Dio o Gesu' Cristo al sole.

Francesco in questo influsso dice a Dio: "de Te, Altissimo, porta significatione". Egli pensava il sole come la piu' bella delle creature, e poiche' Dio lo fa sorgere ogni giorno perche' noi possiamo vederci, tutti gli uomini dovrebbero ringraziarlo.

All'inizio questo cantico, come si vede nella Leggenda Perugina era chiamato "Cantico di Frate Sole". Poi nelle biografie di Tommaso da Celano, di Bonaventura, ecc. fu cambiato il titolo.

Laudato si', mi' Signore, per sora Luna e le stelle: in celu l'ai formate clarite et pretiose et belle. Se il sole e' simbolo di fortezza e stabilita', la luna e' simbolo dei cambiamenti

attraverso cui passiamo nella nostra vita. Attraverso tutte le fasi del suo ciclo, da luna nuova a luna piena, dall'antichita' e' stata presa come simbolo delle varie eta' in cui passiamo: il concepimento, il feto, l'infanzia, la giovinezza, l'eta' adulta, la vecchiaia e la morte. Per questo la luna ha relazione simbolica con la fertilita', con la crescita e la morte.

Secondo il famoso antropologo Mircea Eliade "fin dall'antichita', con la scoperta dell'agricoltura, lo stesso simbolismo ha

collegato insieme la luna, le acque del mare, la pioggia, la fertilita' delle donne e degli animali, la vita delle piante, il destino dell'uomo dopo la morte e le cerimonie di iniziazione" (3).

Per quanto riguarda le stelle, la ricerca scientifica in astronomia ha portato a scoperte difficili da immaginarsi. Solo per dare qualche esempio della grandezza dell'universo intorno a noi, la Via Lattea, la galassia a cui appartiene la Terra e il sistema solare, e' larga da 80 a 100.000 anni luce, e il sole e' distante dal centro 27.000 anni luce. Pensando che la velocita' della luce e' di circa 300.000 km al secondo, un anno luce e' di circa 10.000.000.000.000 (diecimila miliardi) di Km.

Inoltre nella Via Lattea ci sono circa 100 miliardi di stelle come il sole. Se prendiamo la galassia Andromeda, essa dista dalla terra circa 2.300.000 anni luce (23.000.000.000.000.000.000 Km), e' larga 200.000 anni luce, e contiene circa 300 miliardi di stelle (4).

Per riuscire a rendersi conto anche minimamente di queste cifre e capire la grandezza dell'universo e delle stelle, ci vuole una forte immaginazione da artista.

Nell'universo di grandezza inimmaginabile, vi e' un numero inimmaginabile di stelle, ma quando fissiamo il cielo stellato in una notte chiara e osserviamo gli innumerevoli puntini luminosi che brillano di una luce debole e tremolante, proviamo per essi una specie di simpatia, e sentiamo di avere qualcosa in comune con loro, quella simpatia e comunanza per cui Francesco le chiamava "sorelle". Dentro questo universo infinitamente grande, ogni cosa anche la piu' piccola puo' essere chiamata fratello o sorella.

Laudato si', mi' Signore, per frate Vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le Tue creature dai sustentamento. Francesco personificando i vari fenomeni del tempo atmosferico li chiama con

simpatia fratelli e sorelle. Attraverso di essi Dio, il principio dell'universo, sostiene la vita quotidiana degli uomini.

Chi lavora e si guadagna la vita da solo ed ha indipendenza economica, ha spesso l'illusione di essere sufficiente a se stesso. Col salario del suo lavoro puo' comperare quello che vuole e non ha bisogno dell'aiuto di nessuno.

Ma Francesco non era indipendente: viveva di elemosina, di quanto la gente nella loro bonta' gli offrivano, a volte del buon pane, a volte rifiuti. Francesco era abituato

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ad aver bisogno degli altri ogni giorno per poter mangiare. Aveva sempre la coscienza di essere sostenuto dagli altri; non solo dalla gente, ma anche dalle creature.

Il vento che muove le barche e le pale dei mulini; la pioggia che bagna e feconda la terra permettendo la crescita dei vegetali che noi senza pensarci comperiamo al supermercato; il sole e il bel tempo che fan maturare le messi e i frutti; l'aria che respiriamo e di cui abbiamo bisogno istante per istante per poter rimanere in vita.

Questi fenomeni atmosferici, o meglio questi fratelli come dice Francesco, sono sempre al lavoro, e ogni momento sostengono la nostra vita, ed e' triste pensare che la maggior parte degli uomini non ci pensano e ritengono tutto scontato, e pensano inoltre di essere sufficienti a se stessi.

Francesco dal momento della conversione non e' quasi mai abitato in una casa, ma di giorno camminava e di notte dormiva quasi sempre in capanne di frasche, e sentiva sulla sua pelle la presenza del sole, del vento e della pioggia.

Laudato si', mi' Signore, per sor'Acqua, la quale e' multo utile et humile et pretiosa et casta. In ogni epoca, in ogni religione l'acqua ha sempre avuto un particolare significato,

usata con riguardo e occupato un posto importante nella liturgia e nelle cerimonie. Francesco la usava con una particolare attenzione. "Quando si lavava le mani, sceglieva un posto dove l'acqua non venisse pestata coi piedi" (5).

Vicino ad Assisi e in tutta l'Umbria le sorgenti sono numerose e nei suoi continui pellegrinaggi Francesco probabilmente beveva ogni giorno l'acqua che "umile, preziosa e casta" sgorgava dalla sorgente. E pensandola sua sorella non aveva il coraggio di sporcarla.

Francesco sia verso gli animali che verso l'acqua, il fuoco e le altre creature esercitava una forza particolare. Un contadino che seguiva Francesco arrampicandosi per sentieri di montagna verso un eremo, ad un tratto si senti' venir meno stanco e riarso dalla sete. Francesco si inginocchio' per terra e prego', e ne sgorgo' una sorgente d'acqua per dissetare il contadino (6).

Nella provincia di Rieti un tempo infieri' un'epidemia che sterminava buoi e pecore senza possibilita' di rimedio. Un uomo ando' all'eremo di Francesco e si fece dare l'acqua con cui Francesco si era lavato. Con quella ne asperse gli animali e l'epidemia fu scongiurata (7).

Per una persona come Francesco che aveva dimenticato se stesso e si era risvegliato al fatto di essere una sola vita con tutte le creature, non c'e' da meravigliarsi che le creature dimostrassero verso di lui una particolare reazione.

Laudato si', mi' Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la nocte: ed ello e' bello et iocundo et robustoso et forte. Sia il sole che il fuoco sono fonti di calore e di energia. Il sole illumina il giorno,

mentre il fuoco illumina la notte. Per dire meglio come Francesco, il Signore illumina il giorno per mezzo del sole e illumina la notte per mezzo del fuoco. E Francesco conosceva bene il calore del fuoco durante la notte:

Quando da giovane trascorreva le notti divertendosi con gli amici in cene e baldorie, assaporava la gioia di mangiare, bere, cantare e danzare vicino al fuoco. Anche piu' tardi, quando passava la notte in preghiera e in penitenza, lo scoppiettio di un focherello lo scaldava e gli dava gioia.

Ci sono alcuni racconti che mostrano l'atteggiamento di amore che Francesco aveva verso fratello fuoco.

Stando alla Leggenda Perugina, un giorno che Francesco era seduto presso il fuoco, questo si attacco' ai suoi panni. Un frate che era seduto di fianco a lui cerco' di spegnerlo, ma Francesco glielo impedi' "Carissimo fratello, non fare male a fratello fuoco!", finche' dovette intervenire il frate guardiano e si spense il fuoco contro la volonta' di Francesco.

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Per l'affettuosita' che aveva verso il fuoco non voleva mai spegnere la candela e nemmeno voleva che i frati gettassero via i tizzoni accesi, ma raccomandava che si ponessero delicatamente per terra.

"Non deve stupire che il fuoco e le altre creature talvolta lo onorassero. Come abbiamo visto noi, vissuti con lui, Francesco aveva un grande affettuoso amore e rispetto per esse, e gli procuravano tanta gioia. Dimostrava a tutte le creature cosi' spontanea pieta' e comprensione che, quando taluno le trattava senza riguardi, egli ne soffriva. Parlava con esse con cosi' grande letizia, intima ed esteriore, come ad esseri dotati di sentimento, intelligenza e parola verso Dio, che molto spesso, in quei momenti, egli era rapito nella contemplazione di Dio" (8).

Un altro racconto mostra come anche il fuoco ricambiasse l'amore a Francesco. Nel 1225, un anno prima di morire ricevette una pericolosa operazione agli occhi.

Sperando di guarire l'infiammazione agli occhi, e perche' questa non si trasmettesse attraverso il nervo ottico al cervello, gli fu applicato un ferro rovente sopra le tempie. Francesco pur tremando di paura si rivolse a fratello Fuoco con queste parole:

"Fratello mio Fuoco, nobile e utile fra le creature dell'Altissimo, sii cortese con me in quest'ora. Io ti ho sempre amato, e ancor piu' ti amero', per amore di quel Signore che ti ha creato. E prego il nostro Creatore che temperi il tuo ardore, in modo che io possa sopportarlo". (9)

L'operazione non ebbe l'esito che si sperava, ma in quell'occasione Francesco non senti' alcun dolore.

Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba. Anche la Madre Terra e' qualcosa che ebbe una origine, o come insegna il

cristianesimo, fu creata nel lontano passato (si parla di 4,7 miliardi di anni fa). Anche la "Madre Terra" e' una immagine primordiale. Diverse mitologie per

spiegare l'inizio delle cose, dicono che la Terra, dalla profondita' del suo interno abbia dato alla luce tutte le cose. E in epoche primitive le caverne avevano un particolare significato religioso. Come dice Mircea Eliade:

"Penetrare in un labirinto o in una caverna era l'equivalente di un mistico ritorno alla Madre: un fine perseguito nei riti di iniziazione come pure nelle onoranze funebri". (10)

Francesco, al tempo della sua conversione usava trascorrere lunghe ore nelle tenebre di una caverna fuori di Assisi. Il fatto che chi cerca un'esperienza mistica si ritiri spesso in una caverna a pregare o meditare, non e' solo per avere un luogo tranquillo lontano dal chiasso del mondo: come dice Eliade, non si puo' negare un mistico desiderio di ritornare dentro il corpo della madre e di rinascere a una nuova vita.

Anche le parole che Francesco pronuncio' appena prima di morire: "Quando mi vedrete ridotto all'estremo, deponetemi nudo sulla terra..." dimostrano l'affettuosita' di Francesco per sorella madre terra.

Nella prima stesura il "Cantico delle Creature" terminava qui; in seguito furono aggiunte le due strofe sul perdono e su sorella morte.

Laudato si', mi' Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli ke'l sosterrano in pace, ka da Te, Altissimo, sirano incoronati. Circa un mese dopo la prima stesura del Cantico, scoppio' una lite fra il nuovo

podesta' di Assisi e il vescovo Guido, e Assisi vide il pericolo di una guerra civile. Il vescovo scomunico' il podesta' e questi a sua volta nego' tutti i diritti civili su ogni azione del vescovo. Francesco per riportare la pace ad Assisi mando' due dei suoi frati

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perche' cantassero il Cantico, con l'aggiunta di questa strofa davanti al vescovo, al podesta' e ai potenti della citta' di Assisi.

Si dice che tutti furono colpiti da questo canto di amore, si pentirono della loro stoltezza e fecero la pace (11).

Francesco che amava tutte le creature, naturamente amava anche gli uomini, la piu' nobile delle creature, e non poteva sopportare che gli uomini si odiassero e si uccidessero a vicenda. E pur essendo egli stesso ammalato e in mezzo alla sofferenza, uso' tutta la forza che aveva per poter riportare la pace.

Per tutta la vita non riusci' a dimenticare le atrocita' che lui stesso vide nella strage di Collestrada, quando a 20 anni combatteva contro Perugia.

Laudato si', mi' Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po' skappare: Cosa si puo' dire di fronte alla misteriosita' della morte? Soltanto "nessun uomo

vivente puo' sfuggire ad essa". Francesco aveva capito con chiarezza che la morte non e' soltanto la fine della vita corporale, ma e' la dolce sorella che accompagna l'uomo alla casa del Padre, la sua piu' grande speranza.

Tutte le fonti ci assicurano che Francesco accolse la morte con gioia. Francesco pur essendo in preda a una terribile malattia non si lasciava vincere dalla sofferenza. Di giorno trovava consolazione al suo cuore facendo cantare ai suoi frati le canzoni che lui stesso aveva scritto; e anche di notte voleva che si cantasse per consolare coloro che lo assistevano.

Frate Elia, Superiore Generale dell'ordine, disse che non era conveniente che si sentisse cantare notte e giorno vicino a uno che stava per morire, ma Francesco rispose che si era preparato da lungo tempo a questo momento, e non poteva che gioire per il fatto di ritornare ad essere uno con Dio.

Quando il medico gli disse che sarebbe morto entro pochi giorni, Francesco esclamo' "Ben venga la mia sorella Morte!" (12).

Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovara' ne le Tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no'l farra' male. Infine, rivelando il pensiero cristiano circa il peccato, chiama infelici coloro che

sono in peccato mortale, lontani dall'amore e dalla intimita' con Dio, e che terminano una vita condotta in modo egoistico. Sono invece beati coloro che fino alla fine hanno saputo mantenere una relazione di intimita' con Dio, e hanno sempre messo in pratica l'insegnamento di Dio che e' amore. Essi non devono temere la seconda morte, la morte dell'anima, la distruzione completa, che segue alla distruzione del corpo che ritorna in polvere. Essi sono beati perche' il loro spirito puo' ritornare alla casa del Padre.

Laudate et benedicete mi' Signore et rengratiate e serviateli cum grande humilitate. 3. 3. Riguardo al significato di "Fratello". Cosa voleva intendere Francesco chiamando tutte le creature fratelli e sorelle? E'

vero che egli non aveva studiato profondamente la Teologia e la Sacra Scrittura, ma fu educato fin da piccolo con una educazione cristiana, da solo gli piaceva leggere la Bibbia, e anche dopo essere diventato il capo di un grande ordine di frati aveva sempre al suo fianco frati esperti di Teologia, di Diritto, e di ogni altra scienza, e pur essendo i suoi scritti molto brevi e semplici, non hanno nessun difetto per quanto riguarda il pensiero cristiano.

Pero' il chiamare tutte le cose fratelli e sorelle e' pittosto raro nel cristianesimo, e si puo' dire che sia un pensiero e un'espressione tipica di Francesco.

Questo pensiero mi pare che sia il corrispondente di quanto nel Buddismo si dice "La Terra e io abbiamo la stessa radice, le Creature e io siamo un corpo solo" (13).

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Per cui vorrei spiegare un po' meglio cosa intende il cristianesimo per "Fratello" e qual'e' il significato particolare che Francesco da' a questa parola.

"Fratello" e' un termine molto usato nella Bibbia, e fra gli ebrei non indicava solo coloro che avevano lo stesso padre e la stessa madre, ma indicava anche i parenti e spesso gli amici. Inoltre era frequente chiamarsi fratelli fra membri dello stesso popolo ebreo.

Alla fine di ogni settimo anno farai la remissione. E questa e' la legge della remissione. Ogni creditore rimetta cio' che avra' prestato al suo prossimo; non lo riscuota dal

suo prossimo, dal suo fratello, quando sia proclamato l'anno della remissione del Signore.

Tu potrai esigere il tuo credito dallo straniero, ma rimetti al tuo fratello quello che avra' del tuo... Se un tuo fratello, ebreo o ebrea, si vende a te, ti serva per sei anni, ma al settimo anno lo rimanderai libero. (Deuteronomio, 15, 1-3.12).

Gli Ebrei si consideravano tutti discendenti di Abramo, colui a cui per primo Jahve' si manifesto'.

Per questo Abramo era chiamato "padre", e fra membri dello stesso popolo si chiamavano "fratelli".

Rompendo la barriera dell'individualismo si riconoscevano un'unica famiglia. Risposero i Giudei a Gesu' "Il nostro padre e' Abramo". (Giovanni 8,39) Pero' il termine fratello non e' rivolto a persone che non sono dello stesso popolo,

cioe' ai Gentili. Il cristianesimo, pur essendo fondato sul pensiero biblico ed ebraico, supera il concetto di nazionalita' ed allarga il significato di fratello oltre ai legami di sangue, di parentela e di nazionalita':

Uno gli disse, "Ecco tua madre e i tuoi fratelli son la' fuori e desiderano parlarti". Ma Gesu' rispondendo a chi gli aveva parlato, disse: "Chi e' mia madre, e chi sono i miei fratelli?"

Poi, stendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: "Ecco la mia madre e miei fratelli. Perche' chi fa la volonta' del Padre mio che e' nei cieli, egli e' mio fratello e mia sorella e mia madre". (Matteo 12, 47-50).

Tutti gli uomini di ogni nazione e razza sono fratelli, all'interno della famiglia di coloro che compiono la volonta' di Dio.

Qui la parola "Dio", che nell'Antico Testamento era chiamato "Jahwe", e' la personificazione dello stesso principio dell'esistenza, e nel Nuovo Testamento Gesu' Cristo lo chiama con affettuosita' "Padre nostro che sei nei cieli".

Nella prima comunita' cristiana tutti i credenti si chiamavano fratelli, non solo a parole, ma dimostrando questa fratellanza fino a vendere i loro beni e tentando una vita comune di condivisione di ogni cosa.

Essi erano assidui all'insegnamento degli apostoli, alle riunioni comuni, alla frazione del pane e alle preghiere.

Or tutti erano presi dal timore; e molti segni e miracoli si compivano dagli apostoli.

E tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano tutto in comune, e vendevano i loro possessi e i beni, e ne distribuivano il prezzo fra tutti, secondo il bisogno di ciascuno. (Atti, 2, 42-45).

Con l'aumentare del numero dei credenti fu impossibile continuare questo stile di vita, pero' la vita comune fu continuata piu' tardi nelle comunita' monastiche. Per prima cosa veniva rifiutato l'individualismo e tutti si sentivano un cuore solo dentro la comunita'.

Rigettando il diritto di proprieta' tutto veniva condiviso, e si conduceva una vita il piu' possibile povera.

Con questo stile di vita si riusciva ad allontanarsi dall'attaccamento alle cose e al proprio Io, e ottenuta la perfetta liberta' di cuore, si poteva vivere in pace e in felicita'

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come fratelli. Per questo i religiosi vengono spesso chiamati "frati" (fratelli) e anche l'ordine francescano era chiamato l'ordine dei fratelli.

La Chiesa attuale, specialmente col Concilio Vaticano II ha riveduto la sua vocazione verso il mondo, e con chiarezza chiama "fratelli" tutti gli uomini, senza distinzione di razza, nazionalita' o religione, e si sforza continuamente perche' tutto il genere umano possa sempre vivere in pace come un'unica famiglia. Le parole di Paolo VI "Ogni uomo e' mio fratello", lasciarono su tutti una profonda impressione.

Il decreto "Ad Gentes" sull'attivita' missionaria della Chiesa del Concilio, al n.12 dice: Effettivamente la carita' cristiana si estende a tutti, senza discriminazioni, etniche, sociali o religiose, senza prospettive di guadagno o di gratitudine... Cosi' anche la Chiesa per mezzo dei suoi figli si unisce a tutti gli uomini di qualsiasi condizione, ma soprattutto con i poveri e i sofferenti, prodigandosi volentieri per loro.

Essa infatti condivide le loro gioie ed i loro dolori, conosce le aspirazioni ed i misteri della vita, soffre con essi nell'angoscia della morte. A quanti cercano la pace, essa desidera rispondere con il dialogo fraterno e porta loro la pace e la luce del Vangelo.

Come si e' potuto vedere finora, la parola "fratello", superando la relazione carnale della famiglia, e' usata negli ordini religiosi per indicare tutti i membri della comunita', tra gli ebrei per indicare le persone dello stesso popolo, da Cristo per indicare tutti gli uomini del mondo che obbediscono alla volonta' di Dio, e dalla Chiesa Cattolica attuale per indicare tutti gli uomini uno per uno, senza alcuna distinzione.

Cosa si puo' dire dell'uso della parola "fratello" che Francesco fa in modo tutto particolare? Pur avendo nello sfondo l'uso biblico e cristiano di questa parola, egli chiama con questo nome oltre ai suoi discepoli e a tutti gli uomini anche tutti gli animali, le piante, tutte le cose dell'universo, i fenomeni della natura, perfino la morte. Francesco dopo aver fatto l'esperienza della guerra, della vita lussuosa e del piacere si e' risvegliato alla vera vita: ha scoperto la grande famiglia del creato.

Paragonando questa coscienza di Francesco con il pensiero del maestro Zen Doghen: "Il mio cuore sono i monti, i fiumi, la terra; sono il sole, la luna e le stelle", si puo' notare in quest'ultima affermazione una piu' profonda identita' di se' con l'universo.

Nel pensiero di Francesco rimane ancora una certa distinzione fra oggetto e soggetto. Pero' se si guarda a come Francesco in realta' usasse le cose, oppure guardando la reazione che le cose avevano verso Francesco, la distinzione fra soggetto e oggetto che il termine "fratello" lascia, non e' che una distinzione di parole; in realta' Francesco e le creature con coscienza vivevano della stessa vita di Dio "come una cosa sola".

NOTE (1)..Celano, Vita Prima, 58. (2)..Leggenda Perugina, 43 (3)..Mircea Eliade, "Patterns in Comparative Religions", p.155. (4)..Asimov, "The Universe", pg.93. (5)..Leggenda Perugina, 51. (6)..Celano, Vita Seconda, 46. (7)..Bonaventura, Leggenda Maggiore, 13,6. (8)..Leggenda Perugina, 49. (9)..Leggenda Perugina, 48. (10)..Mircea Eliade, "Myths, Dreams and Mysteries", pg.172. (11)..Leggenda Perugina, 44. (12)..Leggenda Perugina, 65. (13).. Parole del maestro cinese Jo. Vedi per questo il n. 5. 2. della tesi, pg 53.

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Cap. 4. Il mondo di Doghen. 4. 1. Sfondo storico e religioso. 4. 2. Lo Zen in Cina nel periodo Sung. 4. 3. La vita di Doghen. 4. 4. Le opere e il pensiero Zen di Doghen. 4. 1. Sfondo storico e religioso. Il periodo in cui visse Doghen, in Giappone e' chiamato Epoca di Kamakura (1), e

fu un periodo di disordini politici e di lotte. Nel 1185 scomparve dalla scena politica la famiglia Taira, e approfittando dell'indebolimento del potere imperiale, Minamoto Yoritomo inizio' a Kamakura il Bakufu, il governo militare dei Generali (Shogun), e organizzo' una nuova struttura politica. Questo e' conosciuto anche come il potere della classe dei samurai, e continuo' fino alla scomparsa del Bakufu nel 1333 (2).

All'interno della struttura politica del Bakufu, gli organi piu' importanti erano tre: il Samuraidokoro (il Dipartimento dei Samurai), che presiedeva a tutto l'apparato militare e poliziesco; il Kumonjo (il Dipartimento degli Affari Pubblici e della Cultura), che presiedeva ai normali affari di stato, e il Monchujo (la Corte Suprema di Giustizia) che presiedeva a tutti gli affari legali. I problemi piu' importanti erano risolti dai direttori di questi tre Dipartimenti, ma le decisioni ultime spettavano a Yoritomo stesso e in seguito ai successivi generali.

Inoltre in ognuno dei Kuni, le regioni che formavano il Giappone, furono inviati dei Jito (Amministratori Generali) e Shugo (Governatori). In ogni Kuni c'era un Shugo, e per questo incarico furono scelti i samurai che avevano avuto meriti particolari nella formazione del governo militare. Il loro compito di essere la forza dell'ordine e il controllo degli altri samurai, investigare e arrestare i traditori e gli omicidi. I Jito, anche questi scelti fra i samurai, erano incaricati dei latifondi in ogni regione, raccoglievano anche le tasse, amministravano i terreni, e avevano anche il compito di mantenere l'ordine e giudicare le cause di liti nel loro latifondo.

Il Bakufu di Kamakura era basato completamente sul rapporto di stretta fiducia e obbedienza fra i generali e le famiglie di samurai. E questa unione permetteva loro di controllare e dominare tutto il Giappone. Le famiglie di samurai che avevano promesso obbedienza ai generali erano chiamate Gokenin ed erano la base che sosteneva tutto il sistema del Bakufu. In questo sistema feudale, i Gokenin assicuravano fedelta' e servizio ai generali e questi dimostravano in vari modi la loro gratitudine ai samurai. Come gratitudine i generali difendevano i loro possedimenti, oppure donavano nuovi possedimenti a coloro che si erano distinti per meriti militari, oppure affidavano loro incarichi importanti di Jito o di Shugo. In compenso il servizio dei samurai consisteva in tempo di guerra in una pronta obbedienza agli ordini dei generali e nel fornire forze umane e materiali; invece in tempo di pace consisteva nel fornire guardie per proteggere il palazzo imperiale di Kyoto e il quartiere generale di Kamakura, inoltre sostenere le spese di mantenimento e riparazioni di questi due luoghi, e le spese per i templi shintoisti, per le cerimonie e le feste.

Dopo che nel 1199 Minamoto Yoritomo mori' di malattia, e pian piano sparirono gli altri generali della famiglia Minamoto, la famiglia Hojo, vincendo gli altri potenti generali riusci' a prendere il potere e instauro' il suo nuovo governo. Hojo Tokimasa e Yoshitoki padre e figlio, riuscirono ad uccidere Yorie e Sanetomo della famiglia Minamoto, che erano diventati generali dopo Yoritomo e in breve tempo riuscirono a distruggere anche le famiglie dei samurai rimasti fedeli a Yoritomo

Nel 1203 Hojo Tokimasa prese il comando supremo del Mandokoro, il ministero degli Affari di Stato che prima era chiamato Kumonjo, e il figlio Yoshitoki aiutando nel Mandokoro prese il comando supremo del Samuraidokoro (Esercito e Polizia). Cosi'

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pur rimanendo di nome il Bakufu, in realta' tutto il potere era in mano alla famiglia Hojo.

A Kyoto le famiglie nobili, i templi buddisti e shintoisti fedeli al palazzo imperiale si sostenevano economicamente con i latifondi che avevano da lungo tempo, ma ne persero molti e si indebolirono economicamente per la prepotenza dei samurai fedeli alla famiglia Hojo. In quel periodo l'imperatore a riposo Gotoba (3) tento' di restaurare il potere imperiale, e aumento' le forze militari nella regione del Kansai. Questo pero' causo' subito l'opposizione da parte di Hojo Yoshitoki. L'imperatore Gotoba ordino' l'esilio di Yoshitoki, e questo causo' lo scoppio della rivolta detta di Shokyu, dal nome della dinastia del momento (1221). Ma i samurai che obbedirono all'imperatore furono pochi, molti di piu' rimasero fedeli a Yoshitoki, per lo stretto legame di fiducia e obbedienza che era stato imposto, e le forze imperiali furono sconfitte. Come risultato di questa rivolta il potere dell'imperatore e dei nobili subi' una ulteriore perdita mentre si rinsaldo' il potere della famiglia Hojo, e l'invasione dei latifondi dei nobili da parte dei samurai aumento'. I tre imperatori a riposo Gotoba, Juntoku e Tsuchimikado furono esiliati. I loro territori, quelli dei nobili, dei samurai e dei templi che erano stati loro alleati furono confiscati e dati ad altri samurai fedeli alla famiglia Hojo.

Tutti questi disordini politici, guerre e rivolte certamente esercitarono un influsso sul giovane Doghen. Anche la rivolta di Shokyu aveva per centro Kyoto dove Doghen abitava. E la sua famiglia, specialmente il padre Michichika aveva uno stretto legame di parentela con la famiglia imperiale, e in questa rivolta diversi dei suoi parenti ebbero una fine sfortunata. Ogni giorno sentendo notizie dell'esilio dei tre imperatori, di esecuzioni e di esili di samurai e nobili, Doghen che era nel suo piu' importante periodo di formazione, assoporo' profondamente l'instabilita' e la vanita' di questo mondo.

Dopo la morte di Hojo Yoshitoki, al governo successe Yasutoki, molto dotato di capacita' politica. Egli riformo' il Bakufu e nel 1232 per risolvere il problema delle cause legali delle famiglie di samurai, sempre in aumento, fece pubblicare il Codice Joei (dal nome dell'anno), appositamente inteso per la classe dei samurai. Dopo di lui successe Tokiyori, che si sforzo' di migliorare la relazione fra la Corte Imperiale e il Bakufu fino a far nominare Generale ed accogliere nel Bakufu Munetaka Shinno, figlio dell'imperatore GoSaga. Da questo momento fino alla fine del Bakufu nel 1333 si successero quattro Generali membri della famiglia imperiale.

Il giovane Generale Tokiyori nel 1247 invito' Doghen a Kamakura e ricevette da lui i Precetti del Bodhisattva (4). Cerco' anche di fermare Doghen a Kamakura perche' educasse nella via dello Zen la classe militare, ma poiche' Doghen rifiuto' e torno' a Eiheiji, Tokiyori invito' il maestro cinese Rankei Doryu e fece costruire il monastero Kenchoji.

Pur essendo l'Epoca di Kamakura un periodo politicamente molto travagliato, nella produzione agricola vi fu uno sviluppo: i prodotti dei latifondi venivano commerciati in ampie zone e si vide un notevole incremento di mercati e negozi. Inoltre fu particolarmente notevole lo sviluppo della circolazione della moneta, del commercio e dell'attivita' finanziaria. Ancora il commercio fra il Giappone e la Cina esercito' un grande influsso sull'economia giapponese. Il Bakufu di Kamakura era molto interessato agli scambi con la Cina meridionale e sotto il controllo del Governatore del Kyushu le navi facevano la spola fra il porto di Hakata (Fukuoka) e la provincia Ming, esportando legname, zolfo, spade, ventagli oggetti in lacca, ecc. e importando spezie, medicinali, porcellane, tessiture in seta, manoscritti, e monete cinesi.

Fin dalla fine dell'epoca Heian vi fu un susseguirsi di guerre che portarono la popolazione a un'estrema insicurezza e ansieta'. La nobilta' rappresentante del vecchio regime si era indebolita e le vecchie correnti buddiste Tendai e Shingon (5) erano interessate solo alla ricerca scolastica e al precettualismo; avevano preso un forte aspetto magico -esoterico e legate alla nobilta' non avevano piu' la forza di

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offrire la salvezza al popolo. Per cui sorsero presto nuovi gruppi religiosi staccati dal buddismo tradizionale che si rivolgevano ai militari e alla gente comune. Fra di essi: la Scuola della Terra Pura (Jodo-shu), la Vera Scuola della Terra Pura (Jodo-shinshu), la Scuola del Momento (Jishu), queste tre nel movimento Amidista; la Scuola del Loto (Hokkeshu) e la Scuola Zen, divisa nelle due correnti Rinzai e Soto. La caratteristica principale di queste scuole dette del Nuovo Buddismo dell'Epoca di Kamakura e' di dare molta importanza alla fede personale e di rivolgersi soprattutto ai samurai, ai contadini e ai commercianti. Pero' non bisogna dimenticare che tutti i fondatori di queste nuove scuole del Nuovo Buddismo di Kamakura studiarono al monastero di Hieizan (Kyoto), il centro del buddismo tradizionale Tendai.

Fra i fondatori delle scuole del Nuovo Buddismo oltre a Doghen bisogna ricordare Honen-shonin, che inizio' la Scuola della Terra Pura; Shinran che inizio' la Vera Scuola della Terra Pura, Myoan Eisai che trasmise la Scuola Rinzai Zen dalla Cina della dinastia Sung; Ippen, fondatore della Scuola del Momento e Nichiren, fondatore della Scuola del Loto.

Honen (1133-1212). Studio' il Buddismo Tendai al monastero Hieizan ma in seguito fondo' la Scuola della Terra Pura. In opposizione al pensiero Jiriki (fare il bene con la propria forza), insegno' il pensiero Tariki, credere e affidarsi completamente alla forza dell'Altro. Tutti gli uomini si salvano credendo fermamente al desiderio salvifico universale di Amida Buddha e affidandosi completamente a lui recitando il Nome del Buddha (Nenbutsu) (6).

Shinran (1173-1262). Si baso' fondamentalmente sul pensiero di Honen della Scuola della Terra Pura, ma fondo' la Vera Scuola della Terra Pura. Diede importanza all'atto di fede totale (Shinjin) nella forza salvifica di Amida Buddha, piu' che al recitare il Nenbutsu, le varie forme di esso e il numero di volte di recitarlo.

Eisai (1141-1215). Porto' dalla Cina della dinastia Sung l'insegnamento Zen della Scuola Rinzai, un insegnamento che pone al centro la meditazione (Zazen) e la concentrazione sugli aneddoti degli antichi maestri (Koan), come mezzo per arrivare all'illuminazione (Satori).

A Kamakura egli inizio' alla fede buddista il secondo generale Minamoto Yoriie e sua madre Hojo Masako, e apri' a Kamakura il monastero Jufukuji e a Kyoto il monastero Kenninji. La sua corrente si diffuse presto in tutto il Giappone e fra i suoi seguaci vi sono a Kamakura Rankei Doryu iniziatore del monastero Kenchoji e Mugaku Soghen iniziatore del monastero Enkakuji; a Kyoto Enni Ben'en iniziatore del monastero Tofukuji. Rimane un problema non risolto se il giovane Doghen abbia incontrato direttamente o meno Eisai a Kyoto, ma in ogni modo Doghen ricevette fortemente l'influsso del pensiero di Eisai attraverso il suo successore Myozen. Per altro verso, quando il monastero Tofukuji iniziato da Enni arrivo' alla massima prosperita', Doghen che dopo il ritorno dalla Cina aveva aperto li' vicino il monastero Koshoji fu notevolmente disturbato e costretto a trasferirsi.

Ippen (1239-1289). Inizio' la Scuola del Momento, intendendo che il mondo nel momento attuale era in estremo bisogno dell'insegnamento buddista della Terra Pura. Egli era solito girare ovunque per tutto il Giappone recitando il Nenbutsu (il nome del Buddha) e danzando, e per questo fu chiamato "Il Monaco Vagante".

Nichiren (1222-1282). Egli inizio' la Scuola del Loto (Hokkeshu o Nichirenshu). Ricevette la sua formazione al monastero Hieizan e come la tradizionale Scuola Tendai pose al centro dell'insegnamento il Sutra del Loto, pero' affermo' la necessita' della pratica religiosa piu' che lo studio e le discussioni religiose. Insegno' anche il "Sokushin-jobutsu" (Salvezza immediata) (7), la possibilita' di diventare un Buddha immediatamente, recitando le parole "Namu-myo-ho-renghe-kyo" (Venero il meraviglioso insegnamento del Sutra del Loto).

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4. 2. Lo Zen in Cina nel periodo Sung. Doghen, come tutte le persone del suo tempo, sentiva profonda incertezza per i

travagli sociali, e dal buddismo del tempo non riusciva ad ottenere la soluzione al problema religioso che sentiva. In particolare, dopo la formazione nel buddismo Tendai al monastero di Hieizan, studio' il pensiero e la pratica Zen del maestro Eisai al monastero Kenninji, e per approfondire questo ando' a studiare lo Zen direttamente in Cina. Ma qual'era la situazione dei monasteri Zen nella Cina della dinastia Sung?

In Cina, fin dall'inizio della dinastia T'ang (618-907) era molto fiorente la corrente del Sesto Patriarca Eno (8), con la teoria dell'improvvisa illuminazione sviluppatasi nel sud (specialmente con i discendenti di Seighen Gyoshi e Nangaku Ejo (9), due dei discepoli di Eno). Ma quando si arrivo' al periodo delle Cinque Dinastie (907-960) e anche durante la dinastia Sung del Nord (960-1127), lo Zen cinese si divise nelle Cinque Scuole e Sette Case.

Le Cinque Scuole sono: nella discendenza di Nangaku la Scuola Rinzai che prese il nome dal maestro Rinzai Ghighen; la Scuola Igyo che prese il nome dai due maestri Isan Reiyu e Kyozan Ejaku; e nella discendenza di Seighen la Scuola Soto che prese il nome dai due maestri Tozan Ryokai e Sozan Honjaku; La Scuola Unmon che prese il nome dal maestro Unmon Bun'en; e la Scuola Hoghen che prese il nome dal maestro Hoghen Bun'eki. Le Sette Case indicano le Cinque Scuole piu' la Corrente Yoghi e la Corrente Oryu in cui piu' tardi si devise la Scuola Rinzai.

Con l'inizio della dinastia Sung per prima la Scuola Igyo venne a finire e anche la Scuola Hoghen si indeboli'. Dapprima la Scuola Unmon era fiorente, ma poi la Corrente Oryu e la Corrente Yoghi della Scuola Rinzai si diffusero dappertutto. La Scuola Soto era all'inizio molto debole, poi con il susseguirsi dei tre maestri Fuyo, Wanshi e Shinghetsu (10) riprese vigore ma eventualmente non riusci' a sopravvivere a lungo.

Fra gli eventi principali dello Zen Cinese della dinastia Sung dobbiamo ricordare la composizione del "Keitoku Dentoroku" e "Seccho Juko" e l'affermarsi dei due metodi "Zen dell'Illuminazione Silenziosa" di Wanshi Shogaku e "Zen della Concentrazione sui Koan" di Daiei Soko.

Keitoku Dentoroku. E' la Cronaca della Trasmissione dell'Insegnamento Buddista redatta nell'anno primo Keitoku (1004) da Eian Doghen, e fu subito inserita nel Daizokyo (11). Questa cronaca, si baso' su altre cronache precedenti come Horinden e Sodoshu (12), e fu la prima delle cique cronache conosciute come "Goto", le Cinque Cronache dell'Insegnamento. Siccome vi si riportano le brevi biografie di 1701 maestri, e' derivato da qui il numero comunemente conosciuto di 1700 Koan dello Zen.

Poco dopo (1129), il maestro Seccho Juken della Scuola Unmon compose l'opera Seccho Juko, (I Versi di Seccho), che esprime in poesia il mondo del Satori, la realta' vista dai maestri illuminati. Engo Kokugon (1063-1135) aggiunse un commento a ognuno dei 100 brani e due secoli piu' tardi (1300) fu ripubblicata con il titolo "Hekiganroku" (Cronaca della Scogliera Azzurra). A proposito di quest'opera una leggenda dice che Doghen riusci' a trovarne una copia quando stava per lasciare la Cina e tornare in Giappone. Comincio' subito a trascriverla ma non aveva speranza di finire il lavoro in tempo, quando gli apparse un angelo dalle bianche vesti che lo aiuto' e fini' in una notte la trascrizione.

Proprio in questo periodo inizio' in Cina la stampa, per cui la dimensione degli scritti si ridusse, e le cronache storiche e gli insegnamenti dei maestri si diffusero molto rapidamente, permettendo a molti monaci un facile accesso allo studio delle opere piu' famose.

In quest'epoca si diffusero particolarmente i due metodi di meditazione Mokusho-Zen e Kanna-Zen, e i sostenitori dei due metodi erano sempre in competizione criticandosi aspramente l'un l'altro.

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Il metodo Mokusho-Zen, o della Illuminazione Silenziosa fu reso popolare dal maestro Wanshi Shogaku, successore di Tanka Shijun che fu in carica per piu' di 30 anni al monastero Tendozan. Questo metodo da' poca importanza al meditare i Koan, gli aneddoti degli antichi maestri, ma da' importanza al solo sedere in meditazione. Affermando la purezza della natura umana originale, non ricerca nulla, neppure il Satori, ma ha come scopo l'essere sempre a contatto con il Se', nella sua natura originale pura e in piena liberta' interiore. Anche il maestro Nyojo, che Doghen dopo tante ricerche scelse come il vero maestro seguiva questo metodo ed egli pure fu in carica del monastero Tendozan un po' di tempo dopo Wanshi.

D'altra parte Daiei Soko (1089-1163), discepolo di Engo Kokugon, inizio' il metodo Kanna-Zen. Questo metodo, detto anche della Concentrazione sui Koan, pone come obiettivo della pratica religiosa il raggiungere il Satori concentrandosi e lasciandosi stimolare dai Koan per superare il livello razionale e ottenere l'intuizione diretta.

Ma la critica vicendevole non era fatta dai due iniziatori Wanshi e Daiei, che peraltro erano in rapporto amichevole, quanto piuttosto da Shinghetsu Seiryo, discepolo di Wanshi e Daiei Soko, e ancora di piu' dai rispettivi discepoli. Questa opposizione continuo' anche in seguito e ancor oggi questi due metodi distinguono le due principali scuole Zen del Giappone attuale.

In un certo senso si puo' dire che la Scuola Rinzai segue di piu' il metodo Kanna-Zen e la Scuola Soto segue di piu' il metodo Mokusho-Zen. Pero' questi due metodi provengono entrambi dalla scuola del Sesto Patriarca Eno, per cui piu' che una differenza di contenuti dell'insegnamento bisogna vederli come una differenza di metodo nella guida alla pratica religiosa nella formazione monastica.

Lo Zen della dinastia Sung e' caratterizzato da diversi aspetti negativi: una formalizzazione del pensiero Zen; una presenza notevole di membri della nobilta' fra i monaci e nei templi, e una conseguente secolarizzazione.

Doghen passo' circa due anni e mezzo in Cina girando numerosi monasteri, specialmente della scuola di Daiei, e praticando la meditazione con il massimo impegno, sempre ricercando un maestro vero. Ma non riuscendo a trovare quello ideale che lui cercava, ormai deluso stava pensando di tornare in Giappone.

Per un altro verso bisogna ricordare che durante la dinastia Sung la pratica dello Zen si era molto diffusa anche fra la gente comune e questo insegnamento esercitava un grande influsso anche sugli altri gruppi religiosi.

Il pensiero Zen contribui' specialmente alla formazione dello Zenshinkyo (13), la religione della Verita' Totale, uno dei movimenti di rinnovamento del Taoismo. Inoltre fu un'epoca in cui Confucianesimo, Taoismo e Buddismo, le tre principali religioni cinesi cercavano l'armonizzazione con un dialogo vicendevole.

4. 3. La vita di Doghen. Per quanto riguarda la vita di Doghen, la ricerca continua sempre, perche' a causa

della scarsita' di materiale originale ci sono alcuni punti che non si riescono a chiarire. Seconda la tradizione sono 6 i punti su cui non si puo' fare un'affermazione sicura:

1) Dove e quando con precisione e' nato e chi erano i suoi genitori; 2) Da giovane fu molto influenzato dal pensiero Zen di Eisai (14), ma non lo

incontro' mai direttamente? 3) Fra le diverse esperienze mistiche di cui egli parla, qual'e' che si puo' chiamare

la sua esperienza di Satori? 4) Circa la sua opera principale "Shobo-ghenzo", penso' egli stesso a un'opera

unica oppure erano opuscoli diversi scritti in diverse circostanze, che i discepoli poi riunirono?

5) Cos'era effettivamente la Scuola Dharma Giapponese, da cui provenivano i suoi migliori discepoli?

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6) Qual'e' l'origine e il motivo della versione in cinese che scrisse dello Shobo-ghenzo? Questi punti sono i piu' discussi dagli studiosi, ma non si riesce ancora ad avere un'unita' su di essi.

Doghen nacque a Kyoto nel 1200 (Shoji anno 2). Il padre Koga Michitomo (o secondo la versione tradizionale il padre di questi, Michichika) era un discendente dell'Imperatore Murakami (reggente nel 946-957), ma non se ne parla mai. La madre sembra fosse una delle figlie di Matsudono Motofusa della famiglia Fujiwara, che adotto' Doghen da piccolo, ma e' difficile precisarne il nome.

Fin da piccolo egli dimostro' grande interesse per gli studi e la religione. Si dice che fra i 4 e i 7 anni leggeva alcune delle opere cinesi piu' famose, come "Rikyo Zatsuei", le Poesie di Rikyo (poeta di corte cinese della dinastia T'ang, 644-713); "Saden", la tradizione di Sakyumei (fine della prima dinastia Han, 1 sec. AD); "Moshi", le Poesie di Mocho. (poeta della prima dinastia Han, 1 sec. a.C.).

A 9 anni comincio' a studiare il "Kusharon", (Abhidharmakosa-sastra), una delle opere fondamentali del Buddismo Theravada, scritta da Vasubandhu (15)verso il 450. Inoltre si dice che verso i 18 anni, dopo qualche anno di formazione al monastero Hieizan, aveva gia' letto 2 volte il Daizokyo, la raccolta di tutti i sutra in 50 grossi volumi. Per questa eta' aveva studiato tutto quanto si poteva studiare del Buddismo, l'insegnamento tradizionale Tendai, l'insegnamento del Theravada e del Mahayana e inoltre anche l'insegnamento del Buddismo Tantrico dell'India meridionale. Egli inizio' a rivolgere il suo interesse alla religione verso gli 8 anni.

A otto anni ebbe la disgrazia di perdere la madre. Durante il funerale vedendo il fumo dell'incenso che saliva dal braciere,

improvvisamente capi' l'impermanenza delle cose mondane e fece dentro di se' il proposito di ricercare la Verita' entrando nella vita monastica. (16)

Doghen fu allevato in una famiglia di nobili, in un periodo di grandi travagli politici e sociali. Non si riesce a sapere con precisione come fu la sua vita da bambino, ma si puo' indovinare che avesse sempre davanti a se' la vanita' e l'impermanenza di tutto. La morte della madre fu solo l'occasione che lo spinse verso la vita religiosa.

A 13 anni, una notte di primavera fuggi' di nascosto dalla villa di Matsudono e arrivo' ai piedi del monte Hiei dove chiese l'iniziazione alla vita religiosa al monaco Ryoken. Poco dopo entro' nel monastero Hieizan e ricevette la tonsura e i Precetti del Bodhisattva dall'abate Koen diventando cosi' ufficialmente un monaco, e si impegno' assiduamente nello studio dei testi buddisti. In particolare fu attratto dal pensiero Hongaku Homon (17), della Illuminazione

Originale, che afferma che l'Uomo e' originalmente il Buddha stesso. Pero' a questo punto sorse in lui una grande domanda: Se l'uomo all'origine e' il Buddha stesso, perche' non riesce a vivere come tale, ma ha bisogno di una lunga pratica religiosa per capire questo?

Studiando l'essenza della religione e l'insegnamento del Buddhismo ho conosciuto che la propria natura e' una cosa sola con la Verita' Assoluta Originale.

Sia il Buddismo tradizionale che il Buddismo esoterico insegnano questa stessa cosa. Qui sorge un grande dubbio: Se la propria natura e' la Verita' Assoluta, perche' i Buddha di ogni tempo hanno bisogno di diventare monaci e impegnarsi nella pratica religiosa? (18)

Doghen credeva fermamente all'Illuminazione originale e all'idea che Questo-Stesso-Corpo-e'-il-Buddha (Sokushin-zebutsu), pero' allora a cosa serve lo studio, la morale e l'attivita' religiosa? Non riuscendo a trovare risposta a questo grande dubbio per quanto studiasse, a 18 anni lascio' il monastero Hieizan e dopo essersi consultato con il monaco Koin al tempio Miidera, decise di andare in Cina per imparare l'insegnamento Zen, detto anche "il Sigillo del Cuore del Buddha", ancora poco conosciuto in Giappone.

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Preparandosi ad andare in Cina, peraltro a quel tempo un'avventura per niente facile, ando' al monastero Kenninji aperto dal maestro Eisai che aveva portato per la prima volta l'insegnamento Zen in Giappone, e continuo' la pratica religiosa con Myozen, un discepolo di Eisai. Nel 1221, a causa della Rivolta di Shokyu, che a Kyoto travolse la vita della corte imperiale e della nobilta' la partenza di Doghen per la Cina fu ritardata. Fu solo nella primavera del 1223 che egli insieme a Myozen (discepolo di Eisai), partiti da Kenninji poterono imbarcarsi ad Hakata verso la Cina.

Raggiunta la costa della provincia Ming dovette aspettare tre mesi prima di poter ottenere il permesso di sbarcare ed entrare nella provincia.

E' di questo periodo il famoso episodio raccontato nell'opera "Tenzo-Kyokun" (Istruzioni al monaco cuciniere). A Doghen che era venuto in Cina cercando la risposta al problema piu' grande di tutta la sua vita, un vecchio monaco cuciniere venuto dal monastero di Aikuozan per comperare dei funghi giapponesi in vendita sulla nave dov'egli era, gli fece capire che la verita' che egli era venuto a cercare fin li', non era lontana dalla "vita quotidiana".

Sia dalle parole di questo vecchio monaco che dall'insegnamento del famoso maestro Musai Ryoha della Scuola di Daiei nel monastero Tendozan, allora famoso in Cina e sotto la cui guida Doghen si mise, capi' che non bastava la formazione intellettuale per ottenere l'illuminazione, ma era necessaria una intensa pratica religiosa fondata nella vita quotidiana.

Ebbe la possibilita' di vedere dei Shisho, genealogie di discendenza dal Buddha secondo il Dharma, che i maestri davano ai loro discepoli come riconoscimento dell'esperienza di Satori. L'anno seguente, dopo che il maestro Musai mori', Doghen lascio' il monastero Tendozan e si mise in viaggio per visitare i vari monasteri Zen alla ricerca di un maestro vero per poter approfondire l'essenza dell'insegnamento del Buddha.

L'esperienza di Tendozan gli servi' molto: dovunque andava la sua pratica religiosa e la sua comprensione della Verita' veniva apprezzata, e piu' di un maestro gli chiese di diventare suo successore, cosa che Doghen rifiuto' sempre. Non aveva interesse a diventare l'abate di monasteri pieni di monaci provenienti dalla nobilta', dove le cerimonie religiose erano il centro dell'attivita'. Per due anni e mezzo continuo' a visitare monasteri diversi, impegnandosi al massimo nella meditazione dovunque andava, e sempre alla ricerca del maestro ideale.

Proprio in quel periodo il maestro Nyojo divenne abate del monastero Tendozan, e Doghen quando ormai aveva perso la speranza di trovare il maestro che cercava e si preparava a tornare in Giappone, consigliato da un vecchio monaco ando' ad incontrare Nyojo. Appena lo incontro' Doghen intui' che egli era il maestro vero che aveva cercato per tanto tempo. E anche Nyojo si accorse che il discepolo che chiedeva la sua guida era eccezionalmente deciso e impegnato, un discepolo come da tempo non ne vedeva.

Il primo maggio del primo anno Hokyo (1225) della grande dinastia Sung incontrai per la prima volta il maestro l'abate Tendo nella sua stanza; bruciai l'incenso e mi inchinai davanti a lui. Anche il maestro vide me per la prima volta. In quel momento offrendomi l'insegnamento (menju) disse: "Si sta compiendo qui la trasmissione della Verita', trasmessa direttamente da Buddha a Buddha, da Patriarca a Patriarca.

Questo e' il momento in cui Shakamuni Buddha prese in mano il fiore sul monte Ryo; questo e' il momento in cui Eka ottenne il midollo sul monte Su; questo e' il momento in cui Obai diede a Eno la veste; questo e' il momento in cui Tozan trasmise l'insegnamento. Questa e' la trasmissione dell'Occhio e Tesoro della Verita' dai Buddha e dai patriarchi. Solo dentro di me c'e' questo, per altri e' solo un sogno: ne' l'han visto ne' sentito." (19)

Nel momento stesso in cui incrocio' gli occhi col maestro Nyojo, Doghen intui' con certezza che la verita' trasmessa dal Buddha era arrivata a lui. Sul monte Ryo

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Shakamuni Buddha davanti a centinaia di discepoli aveva preso in mano un fiore e a quella vista Mahakasyapa, unico a comprendere la Verita', sorrise.

Sul Monte Su il secondo Patriarca Eka, mostrando soltanto un inchino alla domanda del maestro Bodhidarma, aveva ottenuto il midollo del suo insegnamento. Il quinto patriarca Konin, al monastero Obai dando di nascosto la sua veste a Eno lo aveva dichiarato suo successore.

Esattamente nello stesso modo ora l'essenza della Verita' veniva trasmessa dal maestro Nyojo a Doghen, nell'istante in cui gli occhi si sono incrociati. Si puo' gia' chiamare questa un'esperienza di satori per il giovane Doghen, la cui pratica di meditazione Zen era arrivata a un alto livello di maturita', pero' normalmente la tradizione fissa l'esperienza di satori di Doghen a un'altro momento.

Nel terzo anno Hokyo (1227), un giorno nel Sodo (20)mentre Doghen era impegnato al massimo nella meditazione, un altro monaco si addormento' per la stanchezza. Il maestro Nyojo vedendolo lo sgrido' ad alta voce:

"Questo e' il momento di dedicarsi completamente alla meditazione, lasciando cader via il corpo e la mente (Shinjin-Datsuraku), e come mai tu dormi?"

In quell'istante Doghen che era nella piu' profonda concentrazione ebbe un'esperienza di satori. Piu' tardi ando' a trovare il maestro Nyojo- nella sua stanza e come saluto brucio' l'incenso davanti a lui.

"Cos'e' questo bruciare l'incenso?" gli chiese il maestro. "Eccomi, il corpo e la mente sono caduti via!". Nyojo replico': "Il corpo e la mente sono caduti via! Cader via e' il corpo e la mente!" e con queste parole approvo' l'esperienza di satori del discepolo. Questo e' quanto si legge nella "Seconda Cronaca di Nyojo". Il corpo e la mente

erano stati liberati da ogni legame e attaccamento ed era entrato nella dimensione del satori.

Quello che in quel momento Doghen aveva capito con chiarezza e' che l'essere seduto in meditazione con impegno, correttezza di posizione e liberi da ogni pensiero e preoccupazione (Shikantaza), questo stesso e' il significato di "Lasciar cader via il corpo e la mente".

Il tempo trascorso col maestro Nyojo e il suo insegnamento era quanto Doghen era venuto a cercare in Cina: nell'autunno dello stesso anno si preparava a tornare in Giappone. Nyojo gli diede il Foglio genealogico buddista e la veste (21), dichiarandolo con questo suo successore e lo consiglio', una volta tornato in Giappone di non stare nelle citta' ma ritirarsi in eremitaggio sulle montagne e continuare la pratica di meditazione, aver cura di proteggere il vero insegnamento del Buddha e diffonderlo fra la popolazione in Giappone.

Tornato in Giappone stette per un po' al monastero Kenninji di Kyoto, da dove era partito quattro anni prima. Disse a tutti di non aver portato a casa nulla dalla Cina, ne' rotoli di sutra, ne' statue di Buddha, come erano soliti fare gli altri monaci che andavano a studiare in Cina, disse di essere "tornato a casa a mani vuote". Quello che ha e' solo "il Vero Insegnamento del Buddha Trasmesso Correttamente". Quasi subito' scrisse l'opera "Fukan-Zazenghi" (Consigli per tutti circa i Principi della Meditazione Zen). Il suo insegnamento, che diceva essere il vero insegnamento del Buddha e non voleva accettare i compromessi con le altre scuole, gli creo' fastidi. Presto subi' l'opposizione dei monaci di Hieizan e degli stessi monaci di Kenninji discepoli di Eisai, per cui dovette lasciare Kenninji e ando' ad abitare nel vecchio tempio Gokurakuji a Fukakusa, nella periferia sud di Kyoto. Qui scrisse l'opera "Bendowa" (Discorsi sulla Pratica della Via).

Nel 1233 usando una parte del tempio Gokurakuji (il Kannon-doriin) costrui' il suo primo Centro di Meditazione Zen e lo chiamo' Koshoji (Il Tempio per la Prosperita' del Santo Insegnamento). Nei seguenti dieci anni in cui rimase a Koshoji si dedico'

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soprattutto all'insegnamento, scrivendo numerosi dei capitoli che formano la sua opera fondamentale, lo Shobo-ghenzo.

Il monastero Koshoji che Doghen aveva aperto a Fukakusa, divenne presto famoso come luogo di intensa pratica Zen, in contrapposizione allo scolasticismo e ritualismo degli altri monasteri. La meditazione Zen in quel tempo era gia' conosciuta in Giappone, ma nessun altro monastero gli dava cosi' importanza da metterla al centro della pratica religiosa. Da tutta la nazione, monaci di ogni scuola buddista, nobili di corte e samurai vennero a Koshoji per imparare e praticare la meditazione Zen.

E' da notare in modo particolare l'ingresso in massa a Koshoji della Scuola Dharma Giapponese (22), che comprendeva persone come Koun Ejo, Ekan, Tetsu Ghikai, Ghien, ecc. In seguito a questo la sua comunita' religiosa aumento' in numero e importanza. Pero' a partire da questo periodo l'atteggiamento di Doghen riguardo al metodo Kannazen della corrente Rinzai di Daiei divenne particolarmente severo, e questo fu per educare e staccare completamente Ejo e gli altri discepoli provenuti dalla Scuola Dharma Giapponese dal metodo Kannazen e dal modo di pensare precedente.

Nonostante questo metodo Kannazen fosse molto diffuso in Cina, esso era il metodo della Scuola di Daiei, ormai secolarizzata e profondamente legata alla nobilta'. Doghen aveva preferito scegliere l'insegnamento di Nyojo trasmesso con purezza. Anch'egli per poter trasmettere questo insegnamento con purezza divento' molto severo nei confronti del metodo Kannazen.

La comunita' di Doghen a Fukakusa aumentava regolarmente di numero e si sviluppava diventando un centro molto famoso in tutta la nazione, e non pote' evitare le ire e le persecuzioni del monastero tradizionale Tendai di Hieizan.

Per far fronte a questo Doghen scrisse "I Principi del Vero Insegnamento a Favore della Nazione", sperando in un appoggio della corte imperiale, ma fu piu' forte l'influenza del monastero di Hieizan e Doghen non riusci' ad avere il riconoscimento ufficiale.

Inoltre nel 1243 Enni ritorno' dalla Cina come successore del maestro Mujun Shian della scuola Rinzai, e proprio vicino a Fukakusa apri' il monastero Tofukuji, dove proclamo' il suo insegnamento, che era un misto del Buddismo tradizionale Tendai, del Buddismo esoterico Shingon e del Buddismo Zen, ed ebbe subito molto successo.

Doghen infine non pote' piu' sopportare la persecuzione e nello stesso 1243 lascio' il monastero Koshoji di Fukakusa, trasferendosi sulle montagne della regione di Echizen, dove era stato invitato dal governatore Hatano Yoshishighe che aveva molta stima di lui. La partenza da Koshoji avvenne il 17 luglio, esattamente nel 15x anniversario della morte del suo maestro Nyojo, e con questo metteva in pratica il consiglio di Nyojo di lasciare le citta' e ritirarsi sulle montagne.

Arrivato nella regione di Echizen, l'attuale provincia di Fukui verso il mar della Cina, si fermo' temporaneamente a Yamashibu, poi costrui' un secondo centro di meditazione a Yoshiminedera. Nonostante la pratica Zen anche a Kyoto fosse severa, per Doghen e i suoi discepoli la severita' era inasprita dal freddo durissimo dell'inverno di quelle montagne a cui non erano abituati.

Per quasi un anno fece la spola fra Yamashibu e Yoshiminedera continuando a insegnare con forza ai suoi discepoli nei due piccoli monasteri, e scrivendo circa un terzo (31 capitoli) dello Shobo-ghenzo.

Questo e' il periodo in cui Doghen si esprime piu' liberamente e appare con chiarezza la caratteristica del suo pensiero. Nel successivo 1244 essendo continuato ad aumentare il numero dei discepoli e il posto diventava stretto, si trasferi' nel vicino tempio Daibutsuji (il tempio del Grande Buddha, il cui nome sara' poi cambiato in Eiheiji, attualmente il tempio centrale della corrente Soto Zen).

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Daibutsuji, come i precedenti Yamashibu e Yoshiminedera erano piccoli templi della corrente Shirayama di Tendai e questo fa pensare che i monaci Tendai di questi luoghi si siano uniti alla sua comunita'. In queste montagne, ormai completamente libero e ottenuto un luogo ideale, si sforzo' di esporre il meglio dell'insegnamento e di impegnarsi con i suoi discepoli in una fervente pratica religiosa. Come ultimo ritocco nel 1246 cambio' il nome Daibutsuji in Eiheiji.

Ora, si dice che l'insegnamento buddista fu portato in Cina per la prima volta nell'anno Eihei 11 della seconda dinastia Han (AD 68), e chiamando Eiheiji il suo monastero era come se volesse affermare che il Vero Insegnamento buddista per la prima volta era con lui arrivato in Giappone.

Nell'agosto del 1247 parti' per Kamakura, invitato dal Reggente del Bakufu Hojo Tokiyori. E' anche questo qualcosa di strano, che Doghen abbia lasciato Eiheiji in un momento molto importante per la vita del monastero per andare nella citta' centro del governo, in mezzo ai potenti, qualcosa che lui non avrebbe mai accettato.

Qual'e' il motivo che lo spinse a questo viaggio? Se ne possono pensare diversi, ma certamente ha contato anche il suo desiderio

di insegnare la Verita' e portare la salvezza a tutti. L'altro consiglio che Nyojo gli diede prima di tornare in Giappone era di aver cura

di proteggere il vero insegnamento del Buddha e diffonderlo fra la popolazione del Giappone.

Aveva forse Doghen, dopo essere stato rifiutato a Kyoto dal Buddismo tradizionale e dalla Corte Imperiale, la speranza di essere accolto a Kamakura e poter diffondere li' il suo insegnamento? Per prima cosa introdusse alla fede buddista il reggente Tokiyori, e gli impose i Precetti del Bodhisattva, ma poi rimase deluso dei samurai di Kamakura che del Buddismo preferivano le preghiere e i riti esoterici e dopo qualche mese torno' a Eiheiji.

Il freddo dell'inverno sulle montagne e la vita dura di Eiheiji non giovarono alla sua salute e nell'estate del 1252 si ammalo'. La malattia non accennava a guarire, anzi progrediva e il suo corpo pian piano si indeboliva. Continuo' a scrivere alcuni capitoli dello Shobo-Ghenzo e infine espresse il suo supremo ideale nel capitolo "Hachi-Dainin-Gaku" (Gli Otto Aspetti dell'Illuminazione dei Grandi). Nel luglio 1253 affido' al discepolo Ejo la responsabilita' suprema del monastero di Eiheiji, e parti' per Kyoto per curarsi. Il 28 di agosto del 1253 a 54 anni Doghen moriva, seduto in posizione di meditazione, nella casa di un discepolo laico.

4. 4. Le opere e il pensiero Zen di Doghen. Le opere scritte da Doghen sono numerose e riguardano vari aspetti della pratica

religiosa e monastica, ma fra di esse la piu' importante e la piu' conosciuta e' quella chiamata Shobo-Ghenzo (Occhio e Tesoro della Verita'). Fu scritta nell'arco di 23 anni, iniziando il primo capitolo "Bendowa" nel 1231 quando lascio' Kenninji per andare a stabilirsi a Fukakusa, e l'ultimo "Hachi-Dainin-Gaku" nel gennaio 1253 alcuni mesi prima di morire.

Fu scritta nella lingua giapponese del tempo, e questa e' una cosa molto rara, in un periodo dove la cultura era fondamentalmente di influsso cinese e specialmente le opere religiose erano tutte scritte in cinese.

Nella scuola Soto Zen Giapponese fu sempre considerata l'opera fondamentale per lo studio del pensiero buddista. Il titolo Shobo-Ghenzo potrebbe essere tradotto "L'Occhio - Tesoro della Verita'". Shobo e' infatti la Vera Realta', la Verita' Assoluta; Ghen e' l'occhio che riflette ogni cosa e Zo- , tradotto qui "Tesoro", alla lettera e' il magazzino, che contiene tutte le cose preziose della famiglia (23).

Indica quindi la Verita' Assoluta in cui ogni cosa si riflette e che contiene e protegge tutti gli innumerevoli esseri dell'universo.

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Si pensa che Doghen, nonostante avesse scritto questi capitoli indipendentemente e in varie occasioni, avesse in mente di formare un'opera completa in 100 capitoli, che pero' non riusci' a portare a termine. I discepoli ne fecero diverse edizioni, man mano che venivano scoperti i rotoli dei vari capitoli.

Fra le principali edizioni ce n'e' una di 60 capitoli, una di 75 e una di 95 capitoli. Oltre all'opera Shobo-Ghenzo in giapponese ce n'e' un'altra breve dello stesso titolo, scritta in cinese e composta da 300 brevi aneddoti.

Fra le altre opere principali, quasi tutte scritte in cinese, sono da ricordare le seguenti:

"Hokyoki". (Memorie del periodo Hokyo) scritta nel 1225 (anno 1x Hokyo della dinastia cinese Sung). Questa raccoglie gli appunti dell'insegnamento del maestro cinese Nyojo, quando Doghen era sotto la sua guida al monastero Tendozan.

"Fukan-Zazenghi". (Consigli per tutti circa i Principi della Meditazione Zen). Fu scritta nel 1227 a Kenninji appena tornato dalla Cina. Questi sono i suoi primi insegnamenti circa la meditazione Zen. E' un'opera breve e intesa come il libro fondamentale per chi vuole accostare correttamente l'insegnamento buddista.

"Gakudo-Yojinshu". (Raccolta di Avvisi per chi Studia la Via). Scritta nel 1234 a Koshoji. Sono 10 capitoletti per chi inizia a studiare la Via e a praticare la meditazione Zen.

"Shobo-Ghenzo-Zuimonki". (Detti e Commenti circa lo Shobo-Ghenzo). Sono appunti dell'insegnamento quotidiano di Doghen a Koshoji fra il 1235 e il 1238, editi dopo la sua morte dal discepolo e successore Ejo. E' ritenuta questa l'opera piu' chiara per conoscere il suo pensiero.

"Eihei-Shinghi". (Regole per il monastero di Eiheiji). E' una raccolta di regole per il monastero e la spiegazione di esse. Comprende diversi scritti, a partire dal 1237 fino al 1249.

"Eihei-Koroku". (Ampia raccolta degli insegnamenti di Doghen). E' una estesa raccolta in 10 volumi del suo insegnamento, nei vari periodi di Koshoji, Daibutsuji e Eiheiji, e contiene lezioni, detti occasionali e versi: fu redatto dopo la sua morte dai discepoli Senne, Ejo e Ghien.

Per quanto riguarda invece le caratteristiche del pensiero Zen di Doghen penso che basti ricordare i seguenti quattro punti:

1) Nonostante il Buddismo sia diviso in tante correnti, la corretta trasmissione della Verita' insegnata dal Buddha e' unica (Shoden Tanden no Buppo).

2) Pone al centro della pratica Zen la meditazione intesa come il semplice stare seduti in una posizione e concentrazione corretta, senza pensare a niente, senza preoccuparsi di niente e senza cercare nulla, neppure il Satori (Shikantaza).

3) Considera i detti dei maestri Zen come una manifestazione della Verita' nella realta' quotidiana (Ghenjo-Koan), da cui prendere esempio, piu' che dei paradossi a cui pensare durante la meditazione per lasciarsi stimolare a superare il pensiero logico (Kufu-Koan), come inteso nella scuola Rinzai.

4) La pratica religiosa e il satori sono una cosa sola (Shusho-Itto). Doghen era convinto che l'insegnamento del Buddha che lui ha ricevuto e insegna,

e' la Verita' Suprema, trasmessa correttamente dal Buddha attraverso i patriarchi e maestri precedenti e la chiama Shobo-Ghenzo-Nehan-Myoshin: l'Occhio-Tesoro della Verita', il Cuore Misterioso del Nirvana.

E questa e' unica, e' il tutto, non e' solo una parte dell'insegnamento del Buddha o un filone del suo pensiero.

Egli non voleva mai usare la parola Shu (traducibile in setta, corrente, scuola...), non ci sono sette o correnti diverse nella Verita'. Inoltre non si puo' imparare la Verita' Suprema da soli, senza maestro, bisogna imparare seguendo la guida di un maestro vero, a cui e' stata trasmessa la Verita' correttamente.

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In questo modo, ogni generazione di patriarchi e maestri sono venuti trasmettendo la Verita' direttamente, nell'incontro da volto a volto fra maestro a discepolo. Nessun patriarca, nessun maestro, nessun discepolo ha mai potuto diventare un Buddha o un patriarca senza questa trasmissione diretta da volto a volto. (24)

La retta trasmissione del Buddismo dice: "L'unica e corretta tradizione della Verita' e' fra tutte la cosa suprema. Dal momento in cui si comincia la pratica con un eccellente maestro, non e' necessario offrire l'incenso, fare prostrazioni, recitare l'invocazione del nome di Buddha, fare atti di pentimento, o studiare i sutra.

Una sola cosa e' necessaria: stare seduti in meditazione (Zazen) e cercare di lasciar cader via il corpo e la mente. Se uno anche solo per un momento manifesta la Verita' del Buddha nel corpo, nelle parole e nel pensiero e si siede in profonda meditazione, tutto il mondo e' la Verita' del Buddha e l'universo intero e' la realta' del Satori. (25)

Come anche da queste parole si capisce, il contenuto della retta tradizione dell'insegnamento del Buddha e' la meditazione Zen e specialmente nella forma Shikantaza (Stare semplicemente seduti).

L'offrire incenso e fare prostrazioni durante le cerimonie, le lunghe preghiere di invocazione, gli atti di pentimento oppure lo studio, non sono il centro dell'insegnamento del Buddha: lo e' il semplice stare seduti in meditazione, uno Zazen che non pretende nulla, che non pretende neppure il Satori, uno zazen che non si lascia sporcare da nessun attaccamento alle cose o alle esperienze mistiche. Una meditazione Zen intesa come Opera del Buddha (Butsugyo) e' lo Zen di Doghen.

Non vede la meditazione come una pratica che mira ad arrivare all'esperienza del Satori, ma vede la meditazione stessa come l'espressione del mondo del Satori. Quando uno medita in profonda concentrazione, l'universo intero appare come la figura del Buddha, come il mondo del Satori.

In Doghen i detti e gli aneddoti degli antichi maestri Zen (Koan) da Kufu-Koan si sviluppano in Ghenjo-Koan.

Non sono solo dei mezzi, degli ostacoli da superare uno per uno per arrivare al Grande Satori: il pensiero del Ghenjo Koan indica che tutte le cose sono dei Koan viventi; la realta' che appare davanti agli occhi cosi' com'e' (Ghen), e' la Verita' Assoluta, perfetta e senza difetti (Jo).

La posizione Kanna Zen della scuola Rinzai fa studiare e concentrarsi sugli insegnamenti dei maestri, uno per uno per far capire nella sua pienezza la Verita'. Il metodo di Doghen invece porta il discepolo a capire la Verita' attraverso tutte le cose e i fenomeni che compaiono davanti agli occhi nella vita quotidiana. Per cui i Koan non si limitano piu' ai detti dei maestri, anche le montagne sono Koan, i fiumi sono Koan, i fiori, gli uccelli, il vento, la luna, tutto appare davanti agli occhi ed esiste come Koan.

Oltre al metodo Shikantaza e alla posizione Ghenjo-Koan un'altra caratteristica del pensiero di Doghen e' l'unita' fra Pratica e Satori (Shusho-Itto). Non c'e' una pratica (Shu) che gradualmente progredisce e matura fino ad arrivare all'illuminazione, al Satori (Sho).

Doghen sottolinea che dall'inizio alla fine Pratica e Satori non si possono separare: e' una Pratica basata sul Satori innato in ogni persona; e' un Satori che appare dalla pratica costante di ogni giorno.

Oppure per dirlo con altre parole, non pone come il Kanna-Zen il Satori, la comprensione in pienezza della Verita' come un obiettivo verso cui si procede, ma la Verita' appare continuamente davanti agli occhi e la Comprensione e' innata, per cui con il Satori alle spalle si procede nella Pratica.

Che la Pratica e il Satori non siano una cosa unica e' quanto pensano le false dottrine. Nell'insegnamento Buddista Pratica e Satori sono una cosa identica. Poiche'

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la Pratica e' fondata sul Satori, anche la pratica della Via di un principiante e' la totalita' del vero Satori. (26)

Queste sono le caratteristiche principali del pensiero di Doghen, pero' bisogna ricordare una cosa: nel Giappone del tempo l'insegnamento Zen era principalmente quello della scuola Rinzai nella corrente di Daiei, cioe' il metodo Kanna-Zen, insegnato cosi' come era stato portato dalla Cina.

Anche Doghen ricevette questo insegnamento portato da Eisai, e anche in Cina all'inizio pratico' nei monasteri della corrente di Daiei. Pero' da quando incontro' il maestro Nyojo e si mise alla sua guida imparo' il pensiero Mokusho-Zen di Wanshi Shogaku e una volta tornato in Giappone non si limito' a trasmettere fedelmente questo metodo, ma lo ando' sviluppando in una visione piu' tipicamente giapponese, cioe' con le caratteristiche citate sopra, e si puo' dire che qui stia la sua grandezza.

NOTE (1)..Nella storia giapponese si parla principalmente delle seguenti epoche: Epoca

arcaica (fino a circa il VII secolo). Epoca di Nara con capitale a Nara (710-784). Epoca Heian con capitale a Kyoto (794-858). Epoca di Kamakura con l'imperatore a Kyoto ma il governo effettivo dei Generali a Kamakura (1192-1333). Epoca di Muromachi (1336-1573). Epoca di Edo (l'attuale Tokyo, 1603-1868). Epoca moderna che comincia con la restaurazione Meiji del 1868.

(2).."Bakufu" significa alla lettera "il governo nell'accampamento" e indica il potere militare che controlla tutta la nazione, lasciando all'imperatore una funzione simbolica subordinata. Il governo militare di Kamakura termino' nel 1333, ma anche i successivi governi che seguirono fino alla restaurazione Meiji erano governi militari e spesso ripresero il nome di Bakufu.

(3)..In questo periodo succedeva spesso che l'imperatore abdicasse in favore del figlio o di un fratello piu' giovane, si faceva monaco e rimaneva nelle vicinanze della corte come consigliere. Questo piu' che un rifiuto era un modo per esercitare piu' effettivamente il potere sfuggendo all'attenzione del governo militare di Kamakura.

(4)..Il Ricevere i Precetti, e' la cerimonia di iniziazione alla fede buddista. In particolare i Precetti del Bodhisattva sono quelli del buddismo Mahayana, di cui fa parte anche lo Zen.

(5)..Tendai (cinese T'ien-t'ai) e' una delle principali scuole del buddismo Mahayana, fondata dal maestro cinese Chighi (538-597) e trasmessa in Giappone da Saicho nell'805. Si fonda principalmente sull'insegnamento del sutra del loto (Hokke-kyo) e in Giappone ha il suo centro al monastero Hieizan di Kyoto. La scuola Shingon (Mantra) ha le sue origine nel Buddismo tantrico dell'India meridionale, passo' poi in Cina e in Giappone fu trasmessa dal monaco Kukai (774-835). Ha il suo centro al monastero Koyasan vicino a Kyoto. Saicho e Kukai sono le due figure piu' grandi del Buddismo dell'epoca Heian.

(6)..Amida e' il Buddha della luce infinita o della vita infinita. L'Amidismo e' un movimento nato all'interno del Buddismo Mahayana ed e' caratterizzato dalla fede totale nel Buddha, dall'invocazione ripetuta del suo nome (Nenbutsu) e dalla promessa di rinascere nella Pura Terra (Jodo), il paradiso buddista. E' una fede molto particolare nel Buddismo, e sembra abbia collegamenti col pensiero Indu' della Devozione (Bacti) e con le altre religioni mediterranee.

(7).."Sokushin-jobutsu" significa alla lettera: Questo stesso corpo realizza la pienezza del Buddha. E' un pensiero gia' presente nella scuola Tendai e sviluppatosi specialmente nella scuola Shingon. Si contrappone all'idea di una lunga pratica necessaria per poter portare a compimento la propria natura Buddica.

(8)..Eno (cinese Hui-Neng, 638-713) e' il Sesto Patriarca Zen; egli ricevette il Dharma da Konin e riusci' a stabilire fermamente la Scuola Zen in Cina.

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(9)..Seighen Gyoshi (?-740) e Nangaku Ejo (677-744) fecero ulteriormente fiorire la scuola Zen in Cina. Dai discendenti di Seighen sorgera' poi la scuola Soto, e da Nangaku quella Rinzai, le due correnti Zen giapponesi piu' famose.

(10)..Fuyo Dokai (1043-1118); Wanshi Shogaku (1091-1157), che fu maestro di Nyojo, maestro di Doghen; Shinghetsu Seiryo (1088-1151).

(11).."Daizokyo" significa il grande magazzino dei sutra. E' la traduzione cinese delle opere fondamentali del Buddismo ed e' centrato sul Tripitaca: i sutra, le regole e i commenti filosofici, ma contiene anche numerose opere del Buddismo cinese.

(12).."Horinden" (Tradizione del Tesoro della Foresta) fu scritta nell'801 ed e' l'opera piu' antica; tratta dei 28 patriarchi indiani e dei sei patriarchi cinesi, in particolare di Eno ed influenzo' tutte le opere seguenti. "Sodoshu" (Raccolta della Stanza dei Patriarchi) fu scritta nel 952, basata su Horinden ne continua la storia.

(13)..Zenshinkyo (cinese Quan-Zhen-Jiu) fu fondato da Wang-Chong-Yang (1112-1170). Lo stile di vita di questo monaco taoista e il suo insegnamento sono molto simili a quelli dello Zen. E anche le altre scuole taoiste ricevevano un grande influsso dal Buddismo Zen.

(14)..Myoan Eisai (detto anche Yosai, 1141-1215) fu il primo che porto' l'insegnamento Zen in Giappone nella forma della scuola Rinzai. Fu dapprima perseguitato dalle altre scuole tradizionali Tendai e Shingon, ma alla fine riconosciuto. Fondo' i monasteri di Jufukuji a Kamakura e Kenninji a Kyoto.

(15)..Vashubandu, conosciuto in Giappone come Seshin (330-400), era originario della regione di Gandhara. Espresse il pensiero Theravada nell'opera Abhidharmakosa-sastra. Fu dapprima molto critico al Buddismo Mahayana, ma poi si converti' ad esso e scrisse numerosi commenti ai sutra Mahayana.

(16)..Citazione da "Sandaison-gyojoki", (Atti dei tre grandi Venerabili). Breve opera che racconta gli atti di Doghen, Koun Ejo, e Tetsu Ghikai, i primi tre abati del monastero di Eiheiji.

(17)..Hongaku Homon e' una tendenza di pensiero all'interno del Buddismo Tendai e Shingon del Giappone di quel tempo. Contro l'idea che si ottiene il Satori in seguito a una lunga pratica, afferma che il Satori (Kaku) c'e' dall'origine (Hon), e' innato nell'uomo. Doghen fu molto influenzato da questo pensiero.

(18)..Citazione da "Sandaison-gyojo-ki". (19)..Doghen, "Shobo-ghenzo", Capitolo Menju. (20)..Sodo, detto anche Zendo e' la stanza dove i monaci fanno meditazione Zen.

Ogni monaco ha disposizione lo spazio di una stuoia (190 x 80 cm.) e in molti casi questo spazio serve anche per mangiare e per dormire.

(21)..Shisho e' il foglio indicante la genealogia di discendenza dal Buddha, che il maestro da' al discepolo che considera suo erede del Dharma. Normalmente i nomi sono scritti in cerchio come i petali di un fiore. Kesa (Kasaya), era originalmente il vestito del monaco; passo' poi ad indicare un quadrato di stoffa composto da varie striscie che si appende al collo come segno di appartenenza alla comunita' buddista.

(22)..Di questa scuola si conosce molto poco, pero' si pensa sia la vecchia Corrente Dainichi, un filone della Scuola Rinzai di Daiei.

(23)..E' il Kura. Essendo le case giapponesi di legno con finestre di carta, le scorte di riso e i preziosi kimono sono sempre in pericolo per l'umidita', e il denaro e altri oggetti preziosi sono facilmente preda dei ladri. Per cui fin dall'antichita' si usa costruire vicino alla casa questo magazzino, in pietra o mattoni, molto asciutto e robusto.

(24).."Shobo-Ghenzo", cap. Menju. (25).."Shobo-Ghenzo", cap. Bendowa. (26).."Shobo-Ghenzo", cap. Bendowa.

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Cap. 5. Essere un tutt'uno con l'universo e le creature. 5. 1. Il "cuore" secondo Doghen. 5. 2. Il cielo, la terra e io abbiamo la stessa radice, tutti gli esseri e io siamo un corpo solo. 5. 3. I monti, i fiumi e la terra. Il sole, la luna e le stelle. 5. 1. Il "cuore" secondo Doghen. Come ho detto nell'introduzione, l'occasione di questa ricerca comparata sono

state le parole "Il mio cuore sono i monti, i fiumi, la terra; sono il sole, la luna e le stelle", che appaiono nel capitolo Sokushin-Zebutsu dello Shobo-Ghenzo, e qui vorrei

parlare un po' piu' precisamente di cosa intendeva Doghen per "cuore". Innanzitutto bisogna pensare che nella lingua giapponese la parola "cuore"

(Kokoro, oppure Shin) e' usata per indicare una vasta gamma di fenomeni psicologici, e per lo meno comprende i sentimenti, i pensieri e le intenzioni e puo' essere tradotto "cuore" o "mente" oppure "cuore-mente". Anche solo nello Shobo-Ghenzo sono molti i capitoli che hanno il cuore come argomento principale o danno importanti insegnamenti su di esso. Per fare qualche esempio, vi sono i capitoli "Bendowa" (Discorsi sulla Pratica della Via), "Shinjin-Gakudo" (Imparare la Via con il corpo e col cuore), "Sokushin-Zebutsu" (Questo stesso corpo e' il Buddha), "Shin-Fukatoku" (Il cuore e' inafferrabile), "Kobutsushin" (Il cuore degli antichi Buddha), "Sangai-Yuishin" (L'unico cuore del triplice mondo), Sesshin-Sessho (Dire cuore e' dire Essenza), "Hotsu-Bodaishin" (Il risveglio dell'Illuminazione), "Tashintsu" (Il potere di conoscere il cuore altrui), ecc.

Nel Buddismo vi sono diverse teorie riguardo al cuore: la teoria del duplice cuore (del sutra Ryoga), quella del triplice cuore (dell'opera Shikan del buddismo Tendai), quella del quadruplice cuore (del Commento al sutra Dainichi), ecc. (1). Doghen che da giovane studio' il Buddismo al monastero Hiezan tiene la posizione Tendai classica del triplice cuore. I diversi aspetti del triplice cuore sono chiamati:

Chittashin, che e' la reazione della mente ai fenomeni dell'ambiente circostante, e' la percezione, il giudizio, l'immaginazione, e' insomma il lavoro mentale di una persona comune.

Karidashin, che e' detto anche "cuore dell'erba e delle piante"; e' il cuore purissimo per sua natura, detto anche Nyoraizo-shin (il Cuore, Natura del Buddha), e' il cuore nella sua immagine originale, il cuore vero.

Iritashin, che indica l'essenza delle cose, e non rientra nell' attivita' mentale. La scuola Zen, detta anche la "Scuola del Cuore" cerca attraverso la pratica

religiosa di meditazione di portare i discepoli all'autointuizione diretta di questo secondo aspetto del Cuore Purissimo per sua Natura, il Cuore Vero Originale (l'Origine del Cuore) e cosi' estinguere naturalmente l'attivita' di percezione discriminante, che durante la meditazione impedisce la visione diretta della Verita'.

Quando quindi Doghen parla di cuore, indica questo cuore vero originale e purissimo, la Natura Essenziale, la Natura Buddica del se', il Vero Se', di cui tutti gli esseri e i fenomeni sono manifestazione.

Il cuore correttamente trasmesso e' un "cuore uno con tutti gli esseri", e' "tutti gli esseri una cosa sola col cuore". Percio' un antico maestro disse: "Se qualcuno potesse comprendere veramente il cuore (Natura Essenziale), in tutto il mondo non ci sarebbe un pugno di terra. Bisogna sapere che quando si comprende veramente il cuore il cielo intero crolla e la terra viene ridotta a pezzi. Oppure la terra intera aumenta di tre pollici lo spessore.

Un antico maestro disse: "Cos'e' il cuore purissimo e luminoso? Sono le montagne i fiumi e la terra; sono il sole, la luna e le stelle". So con certezza: il mio cuore sono i

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monti, i fiumi e la terra; sono il sole, la luna e le stelle. Inoltre quando si parla di questo, se eccedi un attimo esso diventa scarso, se ti trattieni un poco esso diventa di troppo. Il cuore "monti-fiumi-terra" e' soltanto "monti-fiumi-terra", non ci sono onde, vento e fumo; Il cuore "sole-luna-stelle" e' soltanto "sole-luna-stelle", non c'e' nebbia e foschia. (2)

Il pensiero circa il "Cuore" trasmesso a Doghen e' il pensiero dell'"Unico Cuore" fondato sul sutra Kegon. Tutti gli esseri e tutti i fenomeni dell'universo non sono altro che apparenze dell'Unico Cuore e nulla puo' esistere staccato da esso. Anche il cosiddetto "mondo oggettivo" non ha un'esistenza propria. Doghen scrisse il capitolo "L'unico cuore del triplice mondo" prendendo queste parole dal sutra Kegon.

"Il triplice mondo e' soltanto l'Unico Cuore. All'infuori di questo cuore non c'e' nessuna esistenza. Non c'e' nessuna differenza fra il Cuore, il Buddha e le Creature". (3)

Il triplice mondo, nella visione cosmica buddista indica i tre mondi di illusione degli esseri: il mondo delle passioni e dei desideri, il mondo della forma (e' sopra il mondo delle passioni, dove non c'e' piu' ne' passione sessuale ne' avidita') e il mondo della non-forma (il mondo puramente spirituale che ha superato il livello delle cose con forma).

Doghen afferma con chiarezza questa verita' che tutte le cose sono il cuore: Blu, giallo, rosso e bianco: questo e' il cuore. Lungo, corto, quadrato e rotondo: questo e' il cuore. Vita, morte, passato e futuro: questo e' il cuore. Anni, mesi, giorni e ore: questo e' il cuore. Sogni, visioni e fiori nel cielo: questo e' il cuore. Acqua, pioggia, schiuma e fumo: questo e' il cuore. Fiori in primavera e luna d'autunno: questo e' il cuore. Costruire e in seguito inevitabilmente crollare: questo e' il cuore. Per cui nulla viene distrutto, tutti gli esseri e la verita' sono il cuore, la trasmissione da un Buddha a un Buddha e' il cuore. (4) Nel Buddismo Mahayana e quindi anche nello Zen, tutti gli esseri esistono in base

a questo Cuore-Mente. Quando si dice: "Il mio cuore sono i monti, i fiumi e la terra; sono il sole, la luna e le stelle", oppure si dice che tutti gli esseri sono il cuore, questo pensiero puo' essere criticato come semplice idealismo e spiritualismo.

Pero' qui il "Cuore" e' inteso nel senso del Nulla (Ku, Sunyata) e nel senso di legge della causalita' (Enghi). Per cui quello che nel Buddismo e' detto Unico Cuore e' diverso dall'Idealismo e Spiritualismo. Questo Unico Cuore inteso come Nulla e Causalita' e' pensare tutte le cose esistenti in base a un rapporto di relazione reciproca.

Una teoria che esprime bene il rapporto fra il Cuore-Mente e tutti gli esseri e i fenomeni dell'universo e' quella della scuola Kegon, detta Shi-Hokkai (I quattro mondi del Dharma, della Verita').

Questa teoria parla di quattro aspetti del Cosmo: Ji-Hokkai, il mondo fenomenico; Ri-Hokkai, il mondo dei Noumeni, della razionalita' pura; Rijimughe-Hokkai, il mondo in cui fenomeni e principi puri sono in una relazione di unita' e indivisibilita'; Jijimughe-Hokkai, il mondo in cui tutti gli esseri e i fenomeni cosmici si relazionano in un misterioso rapporto di causalita' vicendevole, senza ostacolarsi l'un l'altro.

Ji: Indica tutte le cose concrete, gli esseri e i fenomeni cosmici; in questa categoria rientrano le montagne, i fiumi, la terra, il sole, la luna, le stelle e le miriadi di esseri. Ri: Indica il Cuore-Mente come principio assoluto su cui si basa l'esistenza di tutti gli esseri.

Nel primo aspetto Ji-Hokkai, tutte le cose che esistono, sono cosi' come sono, come compaiono davanti agli occhi. E' una posizione molto semplice e potrebbe essere detta quella del materialismo.

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Nel secondo aspetto Ri-Hokkai, tutte le cose che esistono davanti agli occhi sono guardate dal punto di vista del Cuore-Mente che le fa esistere. E questa e' la posizione dell'idealismo e spiritualismo.

La teoria della Scuola Kegon parte dalla prima posizione materialistica e procede nella seconda, quella spiritualistica, ma non si ferma qui: continua nella terza posizione, quella detta Rijimughe-Hokkai.

Qui non si pone al centro ne' gli esseri e i fenomeni, ne' il Cuore-Mente come principio puro, ma i due sono in relazione e non si ostacolano a vicenda: e' una posizione che superando il materialismo e lo spiritualismo li armonizza. Questa posizione e' la visione esistenziale comune in tutto il Buddismo, pero' la Scuola Kegon va ancora oltre con l'aspetto Jijimughe-Hokkai. Non solo gli esseri e il principio puro sono in relazione e non si ostacolano, ma anche gli stessi esseri e fenomeni sono tra di loro in relazione senza ostacolarsi.

Questo quarto aspetto sembra un ritorno al primo aspetto, al punto di partenza. Anche qui si tratta solo di esseri concreti e fenomeni, pero' gli esseri e fenomeni del primo aspetto Ji-Hokkai sono individuali, indipendenti e in contrapposizione fra loro, e questa e' la visione del mondo della gente comune (Bonpu).

Nella visione del Jijimughe-Hokkai, tutti gli esseri sono in profonda relazione e solidarieta' fra di loro e la loro e' un'esistenza di inter-azione. Per citare l'esempio del sutra Kegon, l'universo e' come una rete: qualunque nodo di essa si prenda, tutta la rete viene trascinata. Cosi' nella visione del quarto aspetto Jijimughe-Hokkai ogni esistenza e' collegata e inter-agisce con tutte le altre. Questa e' la visione del mondo della Scuola Kegon, pero' anche lo Zen e tutto il Buddismo Mahayana condivide questa visione.

Anche nello Zen tutte le cose che esistono davanti agli occhi non sono qualcosa di completamente indipentente e in contrapposizione con il se'. Di solito si dice che e' tipico delle filosofie occidentali il porre la distinzione soggetto-oggetto e vedere tutte le cose in un rapporto di contrapposizione con il se', per cui si pensa la natura e l'universo come qualcosa che debba essere assoggettato all'uomo.

Naturalmente non si puo' generalizzare, perche' anche in occidente ci sono diverse filosofie e diverse visioni del mondo. Per esempio Francesco d'Assisi, di cui tratto in questa tesi, pur non dicendo direttamente di essere una cosa sola con le creature, non e' lontano dalla visione cosmica dello Zen di unita' totale fra il se' e tutti gli esseri.

Chiamava infatti tutti gli esseri e i fenomeni naturali fratelli e sorelle e viveva in una profonda relazione di intimita' fraterna con tutte le cose, gli uomini, gli animali e le piante. Qui lascio da parte il problema della visione esistenziale tipica dell'occidente, e vorrei citare un esempio per mostrare concretamente nel pensiero Zen la differenza fra la prima visione materialistica degli esseri individui indipendenti e in contrapposizione e la quarta visione degli esseri in profonda unita' e inter-azione.

Il maestro Seighen Yuishin disse: Trent'anni fa, quando la mia pratica religiosa era ancora immatura, nel vedere una

montagna quella era solo una montagna; nel vedere dell'acqua quella era solo acqua. Poi in seguito quando fui piu' maturo arrivai all'esperienza mistica in cui vedendo la montagna quella non era piu' una montagna e vedendo l'acqua quella non era piu' acqua.

Pero' in questi tempi sono tornato come all'inizio: vedendo la montagna quella non e' nient'altro che la montagna; vedendo l'acqua quella non e' altro che acqua. (5)

Le parole di Seighen secondo la teoria della Scuola Kegon, indicano il processo che parte dalla visione materialistica Ji-Hokkai per arrivare alla visione del Jijimughe-Hokkai, dove il materiale e lo spirituale sono armonizzati e non c'e' piu' nessun ostacolo o differenza fra soggetto e oggetto.

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La prima espressione "Nel vedere una montagna quella era solo una montagna" e' la posizione materialistica che pone al centro le cose e i fenomeni e non ammette nessun principio spirituale. La seconda espressione

"Nel vedere la montagna quella non e' piu' la montagna", e' la posizione spiritualistica che pone al centro il principio puro, non si vede piu' la montagna come tale ma si percepisce il principio assoluto di cui la montagna e' un'espressione. Ma qui c'e' ancora contrapposizione fra il cuore-mente che vede e conosce e la montagna che e' veduta. La terza posizione

"Nel vedere la montagna, quella non e' nient'altro che la montagna", e' il massimo dell'esperienza religiosa: la montagna, l'acqua, gli alberi gli uomini e se stesso non sono piu' in contrapposizione. Si e' dimenticato completamente se stesso, non c'e' differenza fra la cosa percepita e il cuore-mente che percepisce. La contrapposizione soggetto-oggetto e' scomparsa e si vedono le cose cosi' come sono nella loro completa verita'.

Anche quando Doghen dice nel capitolo Sokushin-Zebutsu "il mio cuore sono i monti, i fiumi e la terra; sono il sole, la luna e le stelle", questa non e' una posizione spiritualistica e idealista che vede le cose come

apparenza, come manifestazione del cuore principio assoluto, ma e' la posizione in cui le montagne ecc. e il cuore-mente sono perfettamente armonizzati e non vi e' piu' contrapposizione fra il se' e tutti gli esseri e i fenomeni dell'universo. Come egli stesso subito aggiunge per spiegare,

"Inoltre quando si parla di questo, se avanzi un attimo esso diventa scarso, se indietreggi un poco esso diventa di troppo. Il cuore monti-fiumi-terra e' soltanto monti-fiumi-terra".

Fra i monti i fiumi la terra e il se', non c'e' nessun ostacolo, non c'e' nessuna idea o giudizio che si interpone, c'e' unita' perfetta.

Ho spiegato il pensiero di Doghen riguardo al cuore come fondato sul "Triplice mondo, Unico Cuore". Il cuore, inteso come il se' ideale, la figura originale dell'uomo, supera la contrapposizione soggetto-oggetto, supera la contrapposizione fra cio' che percepisce e cio' che e' percepito e tutti gli esseri dell'universo e i fenomeni della natura diventano una sola cosa con il se'. Questa e' la posizione di tutto il Buddismo Mahayana, pero' Doghen ha dato particolare risalto a questo pensiero. Il cuore nella sua figura originale e' detto nel Buddismo classico Tendai anche "il cuore dell'erba e delle piante" e anche Doghen usa altri nomi per indicarlo.

Nel Buddismo vi sono due metodi di formazione per imparare la Via: imparare col cuore (pratica mentale) e imparare col corpo (pratica fisica).

Imparare col cuore significa imparare con tutte le diverse forme del cuore. Queste diverse forme del cuore sono: Chitta-shin (mente discriminativa), Karida-shin (mente essenziale), e Irita-shin (mente universale).

In una completa comunione, dopo essersi risolti all'illuminazione ci si rifugia nella grande via dei Buddha e dei patriarchi e si pratica il risveglio del cuore illuminato.(Hotsubodai-shin). Se per esempio il vero cuore illuminato non si e' ancora sviluppato, bisogna praticare l'insegnamento dei Buddha e patriarchi illuminati prima di noi.

Questo e' il risveglio del cuore illuminato (Hotsubodai-shin), questo e' il cuore rosso ovunque presente (il massimo dell'amore e della compassione, Seki-shin-henpen), questo e' il cuore degli antichi Buddha (Kobutsu-shin), questo e' il cuore della vita quotidiana (Heijo-shin), questo e' l'unico cuore del triplice mondo (Sangai-Yuishin). Si impara rilasciando questi tipi di cuore, si impara afferrando questi tipi di cuore. (6)

Le parole Hotsubodai-shin, Seki-shin Henpen, Kobutsu-shin, Heijo-shin e Sangai-Yuishin sono parole che esprimono connotazioni diverse della stessa realta': il cuore vero, il vero se', il cuore come figura originale del se'.

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Hotsubodai-shin e' il cuore-mente (shin) che ricerca e sviluppa (Hotsu) l'illuminazione (Bodai), la Via del Buddha, e' diventare una cosa sola con la Via, e' il desiderio insaziabile di salvare tutti gli esseri dell'universo con il cuore colmo della grande compassione del Tathagata. Indica anche la disposizione fondamentale del Bodhisattva: cercare la propria salvezza solo dopo essere riuscito a salvare tutti gli esseri dell'universo.

Seki-shin Henpen e' come il Karida-shin, il cuore purissimo per sua natura, e' il cuore vero, il cuore originale di cui l'uomo e' dotato, e' il cuore del Buddha. Seki-shin (letteralmente cuore rosso), indica il cuore messo a nudo, che non ha assolutamente niente da nascondere, che appare chiaramente davanti agli occhi di tutti. Henpen indica la sua totalita' cosi' com'e', non una parte o degli aspetti. "La foglia del loto e' rotonda, la foglia della noce d'acqua e' appuntita", ogni cosa e' cosi' com'e'. Cosi' anche il cuore e' cosi' com'e', non ha niente di impuro o di aggiunto. E' il cuore messo a nudo, perfettamente puro e semplice.

Kobutsu-shin e' il cuore vero dei patriarchi (Kobutsu) e dei maestri. Questa espressione ha origine dal koan di Nan'yo Echu:

Un monaco un giorno chiese al maestro Nan'yo: Cos'e' il vero cuore degli antichi Buddha?

Il maestro rispose: Sono i muretti del giardino, sono i ciottoli e i sassi. (7) Quello che il maestro Nan'yo Echu vuol dire e' che il cuore vero universale

traspare da qualunque cosa, da qualunque oggetto. Non c'e' nulla che non ne sia il riflesso. Anche i muretti di cinta del giardino e i ciottoli e i sassi buttati la' in un angolo sono tutti l'espressione del vero cuore originale.

Heijo-shin indica anch'esso il cuore del Buddha, la Verita', il cuore senza alcuna macchia, il cuore degli antichi Buddha. Questo e' il cuore fondamentale di cui siamo dotati e che appare nella quotidianita' (Heijo).Questo indica che tutte le azioni della vita quotidiana: mangiare il riso, bere il te' ecc. sono tutte, cosi' come sono, espressioni della vita di satori. Per cui anche la vera pratica Zen, oltre che nella meditazione si misura in ogni azione della vita quotidiana, nell'andar fuori, nel rimanere in casa, nel sedersi, nel dormire...

Questo pensiero dell'importanza della quotidianita', apparso all'inizio negli insegnamenti del maestro Baso Doitsu (8)dalla meta' della dinastia T'ang e' diventato il pensiero fondamentale comune a tutte le scuole Zen.

5. 2. Il cielo, la terra e io abbiamo la stessa radice, tutti gli esseri e io siamo un

corpo solo. Nel Buddismo, e' normale pensare che tutti gli esseri dell'universo esistano in

profonda unita' fra di loro: questo stesso e' il contenuto dell'illuminazione di Shakamuni Buddha. Questa idea compare nelle parole "Tutti gli esseri dell'universo vivono della stessa natura del Buddha", che troviamo nel capitolo 27 del sutra del Nirvana, ed e' un insegnamento buddista fondamentale. Il maestro Keizan Jokin, il secondo fondatore della scuola Soto giapponese oltre a Doghen, nella sua opera Denkoroku (Memorie della trasmissione della Luce) nel capitolo che riguarda il satori di Shakamuni Buddha dice:

Shakamuni Buddha, vedendo la stella del mattino ebbe l'illuminazione e disse: "in questo stesso istante Io e tutti gli esseri del mondo abbiamo avuto l'illuminazione".

Keizan inoltre, commentando questo verso aggiunge: Quello che qui e' detto Io, non si tratta della persona di Shakamuni, anche

Shakamuni Buddha e' nato da questo Io. E non solo Shakamuni Buddha e' nato da quest'Io, anche tutti gli esseri dell'universo sono nati da esso. Quando si afferra e si alza la Grande Rete tutti gli esseri dell'universo ne vengono trascinati. Nello stesso modo quando Shakamuni Buddha ottiene l'illuminazione anche la grande terra e tutti gli esseri vengono illuminati.

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E non solo la grande terra e tutti gli esseri ottengono l'illuminazione, ma anche i numerosi Buddha del triplice mondo ne vengono illuminati. Pero' pure stando cosi' le cose, Shakamuni Buddha non si preoccupo' della sua illuminazione. Non cercare Shakamuni Buddha all'infuori della grande terra e di tutti gli esseri. Per esempio i monti, i fiumi e la terra, gli innumerevoli esseri e miriadi di fenomeni, pur essendo infiniti nel numero e nella varieta', essi non riescono a colmare la pupilla del Buddha.

Quello che qui e' chiamato Io non e' la persona storica di Shakamuni Buddha, Questo Io e' Shakamuni Buddha inteso come l'universo intero e tutti gli esseri che vi sono compresi. Questo e' chiamato Nyorai Hosshin. Anche il Buddha storico e tutti gli esseri, tutte le cose, derivano da questo Corpo del Buddha che riempie l'universo. Poiche' tutto e' un corpo solo, l'illuminazione di Shakamuni Buddha e' l'illuminazione di tutti gli esseri (tutti i Buddha del triplice mondo e tutti gli esseri della grande terra). Non c'e' nessuna cosa nell'universo che non sia compresa nello Shakamuni Buddha inteso come Corpo Universale del Buddha. Il tutto e' una cosa sola con la pupilla del Buddha, con il midollo del Buddha, con la sua figura originale.

Doghen citando le parole del maestro Nyojo dice: Puro e' il vento d'autunno, luminosa e' la luna d'autunno. La terra, i monti e i

fiumi manifestano la pupilla del Buddha. (9) Col vento fresco dell'autunno la luna risplende luminosa. L'ombra scura dei monti,

dei fiumi e della terra sotto di essa: questa e' la realta' assoluta, e' la pupilla del Buddha.

Ancora nella seguente canzone Doghen esprime questa verita' con parole bellissime:

Il colore delle montagne, il mormorio del fiume nella valle, nella loro realta' essi sono la voce e la figura del mio Shakamuni Buddha.

Questo modo di pensare sembra che esistesse gia' in Cina prima che vi fosse portato l'insegnamento buddista. Nell'opera "Soshi" (Zhuang-tsu) che rappresenta il pensiero Taoista e risale alla dinastia Chou (4-3 secolo aC.) si dice:

Il cielo, la terra e Io siamo nati insieme, tutte le miriadi di esseri e Io siamo una cosa sola. (10)

Quando si arriva a riconoscere l'esistenza di tutti gli esseri cosi' come sono si puo' dire che la nostra conoscenza si sia avvicinata alla vera realta' degli esseri. Poi quando non c'e' piu' nemmeno la coscienza del "riconoscere" gli esseri cosi' come sono, si e' un solo corpo con la Via.

L'infinitamente lunga esistenza del cielo e della terra e' la stessa della mia vita e la multiformita' degli innumerevoli esseri e' la mia stessa esistenza.

Se si abbandonano le cose, il corpo non si stanca; se si dimentica la vita lo spirito non si perde. Se il corpo e' integro e lo spirito perfetto si diventa una cosa sola col cielo. Il Cielo e la Terra sono i genitori delle miriadi di esseri. Quando si uniscono producono gli esseri, quando si separano si ritorna all'inizio. (11)

Quando si abbandonano gli affari e le preoccupazioni del mondo il corpo non si stanca, non deperisce. Quando si dimenticano gli affanni della vita lo spirito si mantiene integro e sereno. Quando con il corpo e lo spirito intatti si ritorna alla situazione umana originale, si e' una cosa sola con la vita e l'attivita' del cielo e della terra. Il cielo e la terra, intesi come i due principi complementari Yin e Yang, sono i genitori, cio' che da' origine a tutti gli esseri e i fenomeni dell'universo. Quando questi due principi si uniscono sorgono nuove forme e nuovi esseri e quando i due principi si separano gli esseri scompaiono per ritornare a nuove possibilita' di formazione.

Io conosco il centro del cielo e della terra: questo e' a nord di En e a sud di Etsu. Se ami intensamente tutti gli esseri dell'universo, il cielo e la terra sono un corpo solo. (12)

Nella grande Cina del tempo En era la nazione piu' a nord e Etsu era la nazione piu' a sud. Di fronte alla larghezza infinita dell'universo una distanza come tutto il

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continente cinese e' cosi' piccola da poter essere detta un punto al centro. Una volta capito che la differenziazione spaziale e temporale del pensare mondano e' una cosa relativa, si possono amare tutti gli esseri e unire il cuore con essi, e si capisce molto bene come il cielo, la terra e tutti gli esseri siano una cosa sola.

Nell'opera Soshi, prima che il Buddismo venisse portato in Cina era gia' diffusa l'idea di una unita' totale fra il cielo, la terra e tutti gli esseri dell'universo. Pero' c'e' un problema: l'opera Soshi che di solito si fa risalire alla dinastia Chou (4-3 secolo aC.), secondo le ricerche piu' recenti sembra sia un'opera raccolta ed edita da Kakusho, un religioso taoista verso il quarto secolo dopo Cristo.

Si era soliti pensare che il buddismo Mahayana in Cina fosse stato influenzato dal pensiero taoista del Soshi, ma non e' piu' cosi' sicuri, anzi si puo' sospettare il contrario.

In Cina questo pensiero di unita' totale dell'universo che troviamo nel Soshi appare chiaramente con il maestro buddista Jo dell'epoca Chin (265-416), nell'opera Joron (I discorsi del maestro Jo). Il fatto che quest'opera buddista sia molto vicina per tempo di composizione al periodo in cui il religioso taoista Kakusho fece l'edizione del Soshi e' di estremo interesse per la ricerca.

La misteriosa Via e' nel perfetto Satori, il perfetto Satori e' nella Verita'. Se si e' nella Verita', l'essere e il non-essere sono percepiti come la stessa cosa. Se sono visti come la stessa cosa l'Io e l'altro non sono due cose distinte. Per cui il cielo, la terra e Io abbiamo la stessa radice; tutti gli esseri e Io siamo un solo corpo. (13)

Il maestro Jo era uno dei cosiddetti 4 sapienti fra i 3000 discepoli del maestro Kumarajiwa (344-413) e inoltre era lodato come il primo nella comprensione del Nulla (Sunyata). E fu colui che diffuse in tutta la Cina il pensiero della Sapienza del Nulla del Buddismo Mahayana trasmesso da Kumarajiva. Originario di Choan, dopo aver studiato il pensiero di Roshi (Lao-tzu) e Soshi (Zhuang-tsu), l'occasione di aver letto il sutra di Vimalakirti fu cio' che lo spinse a mettersi al seguito di Kumarajiva, e ad aiutarlo nella traduzione in cinese dei sutra buddisti. Scrisse il Joron, composto da quattro discorsi e si dice che mori' nel 414. Anche nello Zen, che usa molto il pensiero della Sapienza del Nulla, le sue parole furono molto citate, specialmente l'idea che il cielo e la terra e tutti gli esseri sono cosi' come sono la manifestazione della natura del Buddha e non sono per nulla diversi dal cuore originale del vero Io. Come esempio vorrei citare il Koan n.40 dello Hekiganroku:

L'ufficiale Rikko parlando col maestro Nansen (14) disse: "Il maestro del Dharma Jo disse: Il cielo, la terra e Io abbiamo la stessa radice; tutti gli esseri e Io siamo un corpo solo. Non e' questa una cosa meravigliosa?"

Il maestro Nansen indicando un fiore del giardine disse a Rikko: "Per la gente d'oggi vedere un fiore come questo e' soltanto un sogno!"

Il maestro Nansen col semplice gesto di puntare il dito al fiore, spiego' con un segno concreto le parole del maestro Jo: mostro' che il proprio cuore vero e il fiore del giardino sono una cosa sola. Di solito quando si vede un fiore c'e' sempre una chiara distinzione e contrapposizione fra l'Io che vede e il fiore che e' visto; e questo non e' il vero "Vedere il fiore", e' soltanto un sogno. Un fiore compare davanti agli occhi e "Ah!": il fiore riempie tutto il proprio cuore e il proprio corpo, riempie tutto l'universo. E' un modo di vedere molto semplice che non lascia spazio a nessuna idea personale (15).

Anche il maestro Doghen nell'opera Eihei-Koroku, cita le parole del maestro Jo: Un tempo qualcuno disse "Il cielo, la terra e Io abbiamo la stessa radice; tutti gli

esseri e Io siamo un solo corpo". Il maestro punto' il bastone e disse: "Questo e' il mio bastone, cos'e' che ha il corpo uguale a questo; cos'e' che ha la radice uguale a questo? Ora qui non risparmio la vita e vi dico la verita'". Dopo un momento di silenzio continuo': "Il riso di Royo e' caro; le rape di Chinshu sono grosse". Poi butto' via il bastone e lasciata la lezione se ne ando'. (16).

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Cosa c'e' che ha lo stesso corpo e la stessa radice con il bastone che il maestro mostro' ai discepoli? Il distretto di Royo in Cina era famoso per la produzione di riso di alta qualita', e la provincia di Chinshu era famosa per le rape. Non aggiunge niente a queste parole ma butta via il bastone e se ne va. Il riso e' caro, le rape sono grosse, la realta' e' cosi' com'e'. Il bastone buttato via: quando non c'e' nessuna idea attaccata alla realta' delle cose, il discepolo che pratica la Via capisce di essere una cosa sola col riso, con le rape e col bastone. In quell'istante non puo' evitare di perdere se stesso, essere ingoiato dal bastone del maestro e diventare una cosa sola con esso.

5. 3. I monti, i fiumi e la terra. Il sole, la luna e le stelle. Il maestro Doghen usa spesso esprimere tutto l'universo e tutti gli esseri esistenti

con le parole "I monti, i fiumi e la grande terra; il sole, la luna e le stelle", cosa che imparo' dallo Zen cinese. Queste parole sono tramandate nel capitolo 7 del "Rento-Eyo" in un dialogo fra il maestro Isan Reiyu (771-853) e Kyozan Ejaku (807-883).

Isan chiese a Kyozan: "Cos'e' secondo te la meravigliosa purezza e il cuore meraviglioso?" Kyozan rispose: "Sono i monti, i fiumi e la grande terra; il sole, la luna e le stelle".

Doghen nello Shobo-Ghenzo usa queste parole per esprimere che il cuore, il vero se' e tutti gli esseri dell'universo sono una cosa sola.

Il cuore sono i monti, i fiumi e la grande terra; il sole, la luna e le stelle. (17) L'Unico Cuore sono i muretti del giardino, sono i ciottoli e i sassi; sono i monti, i

fiumi e la grande terra. (18) Ora i monti, i fiumi e la grande terra; il sole, la luna e le stelle, questi sono il

cuore. I monti, i fiumi e la grande terra, questi non sono esseri. Non c'e' il grande e il piccolo. Non c'e' il raggiungere e il non raggiungere. Non c'e' il conoscere e il non conoscere. Non c'e' l'essere in unione e il non essere in unione. Non c'e' differenza fra il satori e il non satori. (19)

Qui Doghen urge i suoi discepoli a essere una cosa sola con tutte le cose cosi' come sono. Quando uno pensa agli innumerevoli esseri o cerca di capirli, c'e' contrapposizione fra il se' e gli esseri; non si e' un solo corpo.

Un giorno un monaco chiese al maestro Chosa Keijin: Come possiamo far diventare i monti, i fiumi e la grande terra noi stessi? Il maestro rispose: Come possiamo noi far diventare noi stessi montagne, fiumi e la grande terra? Questo significa che il se' e' originalmente il se'; ma non bisogna mai perdere se stessi anche quando diciamo: "noi siamo montagne, fiumi e la grande terra". (20)

Doghen continua: Il monaco Egaku di Roya, detto "il grande maestro ampiamente illuminato" era un

lontano discendente di Nangaku. Un giorno Shisen, un insegnante del Buddismo scolastico gli chiese: Com'e' che la natura originale purissima si manifesta nelle montagne, nei fiumi e nella grande terra?

A questa domanda il monaco rispose soltanto: Com'e' che la natura originale purissima si manifesta nelle montagne, nei fiumi e nella grande terra?

Qui noi sappiamo che non dobbiamo confondere la natura purissima originale delle montagne, dei fiumi e della grande terra con le montagne, i fiumi e la grande terra. Di questo fatto i maestri dei sutra non ne hanno mai sentito parlare nemmeno in sogno. Non sanno che le montagne, i fiumi e la grande terra sono le montagne, i fiumi e la grande terra. (21)

Qui il maestro Egaku e l'insegnante Shisen ripetono le stesse parole, ma il significato che gli danno e l'atteggiamento spirituale e' diverso. Shisen guarda le montagne, i fiumi e la grande terra oggettivamente, pero' diversamente da Egaku, non conosce per nulla le montagne, i fiumi e la grande terra nella loro vera natura purissima originale.

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E in alcuni casi usa queste parole per indicare l'universo e tutti gli esseri come manifestazione della Natura del Buddha.

Queste montagne, questi fiumi e la grande terra, sono tutti il grande mare della Natura del Buddha. Se e' cosi' quando si vedono le montagne e i fiumi, si vede la Natura del Buddha. (22)

Poiche' i vari Buddha e Thatagata rendono l'universo intero ampiamente illuminato, tutti i fenomeni del mondo esprimono l'illuminazione dei Buddha. Per cui le montagne, i fiumi e la grande terra, il sole, la luna e le stelle, tutti sono l'illuminazione del Thatagata; vedere le montagne e i fiumi e' vedere il Tathagata. (23)

Se si fosse un corpo solo con l'universo e con tutti gli esseri, la "pratica" e' la pratica delle montagne, dei fiumi e della grande terra; non e' soltanto una pratica mentale o una pratica fisica, e' la pratica di tutto il se', del se' che e' una cosa sola con le montagne, i fiumi e la grande terra. Piu' che una pratica religiosa che ha al centro le scritture, si tratta di una pratica religiosa che e' a stretto contatto con tutti gli esseri.

In questo modo si conducono alla pratica religiosa le montagne, i fiumi e la grande terra, e a loro volta le montagne, i fiumi e la grande terra conducono noi alla pratica religiosa. (24)

Si imparano e si insegnano i sutra con le montagne, i fiumi e la grande terra. Si imparano e si insegnano i sutra con il sole, la luna e le stelle. (25)

Quando si studia la Via seguendo i rotoli dei sutra, in verita' i sutra balzano fuori dai rotoli. Questi rotoli di sutra sono l'universo nelle sue infinite dimensioni; sono le montagne, i fiumi e la grande terra; sono le erbe e le piante, sono il se' e l'altro. (26)

In Cina le parole: "le montagne, i fiumi e la grande terra; il sole, la luna e le stelle", erano usate per indicare l'universo e tutti gli esseri, e lo Zen le usa in modo particolare per sottolineare che l'universo e gli esseri sono un corpo solo con il se'. Il maestro Doghen uso' queste in modo particolare e nella pratica religiosa sviluppo i Koan da un mezzo di concentrazione (Kosoku-Koan) al diventare una cosa sola con la natura, le montagne, i fiumi e la grande terra, ecc, che compaiono davanti ai nostri occhi (Ghenjo-Koan).

Quando egli abbandono' Kyoto e ando' a costruire il suo nuovo monastero di Eiheiji sulle montagne di Echizen, certamente il motivo principale era quello di sfuggire alla persecuzione delle altre scuole buddiste. Pero' non bisogna dimenticare la scelta dell'ambiente: piuttosto che l'ambiente di Kyoto, citta' centro del buddismo scolastico tradizionale, le montagne e le profonde valli della provincia di Echizen dove la natura nel suo splendore era sempre davanti agli occhi, era l'ambiente ideale per la sua pratica religiosa che aveva come scopo di far vivere i discepoli come un tutt'uno con la natura.

Doghen, prima di tornare a casa dalla Cina, fu consigliato dal maestro Nyojo di non stare nelle citta' ma ritirarsi in eremitaggio sulle montagne e continuare la pratica di meditazione per proteggere il vero insegnamento del Buddha. Il fatto che la sua partenza per la provincia di Echizen sia avvenuta il 17 luglio 1243, l'anniversario di morte del maestro Nyojo, avvenuta 15 anni prima, fa pensare che questa decisione fosse il desiderio di mettere in pratica i consigli del maestro.

Qui ho citato solo i passi dove Doghen esprime l'universo intero e tutti gli esseri con le parole "le montagne, i fiumi e la grande terra; il sole, la luna e le stelle". Pero' ci sono altre parole con cui egli esprime l'universo e gli esseri che appaiono davanti agli occhi e manifestano la Verita' Assoluta.

Per esempio: "L'unico cuore del triplice mondo" (Sangai-Yuishin); "Esseri sensibili-esseri non sensibili" (Ujo-Mujo);"La grande terra e la nazione" (Daichi-Kokudo); "Gli innumerevoli esseri e le miriadi di fenomeni" (Shinra-Bansho); "Le erbe, le piante, i ciottoli e i sassi" (Somoku-Garyaku), ecc.

Inoltre una espressione che Doghen ha molto a cuore e' "Il Corpo della Verita' diffuso nelle dieci direzioni dell'universo" (Jinjippokai-Shinjitsunintai). Questo indica

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tutti i mondi e tutte le cose dell'universo diffuse nelle dieci direzioni (27), che sono cosi' come sono il Vero Corpo del Buddha, la manifestazione della natura del Buddha. Oppure cambiando le parole, il se' e tutti gli esseri sono la vera realta' che riempie l'universo, sono il Corpo del Buddha. Anche pensando alla nostra vita, noi siamo solamente fatti vivere all'interno della realta' assoluta che qui e' paragonata a un corpo. Questa espressione Doghen la prese da "Keitoku Dentoroku", 21 al capitolo del maestro Ankoku Ekyu, dove e' riportata come un detto del maestro Ghensha Shibi (28)

L'universo nelle dieci direzioni, questo e' il Corpo della Verita'. La vita e la morte, il passato e il futuro, questo e' il Corpo della Verita'. Pensando a questo corpo allontanarsi dai dieci mali, osservare gli otto precetti, abbandonare il mondo per la vita religiosa, questo e' il vero studio della Via. Per questo si dice che e' il Corpo della Verita'...

Il tu di adesso, l'io di adesso, siamo persone nel Corpo della Verita' diffuso nelle dieci direzioni dell'universo. Senza avere incertezze su di questo, bisogna impegnarsi nello studio della Via. (29)

La mia esistenza e' il Corpo della Verita' diffuso nelle dieci direzioni dell'universo; e' un monaco con due occhi diffuso nelle dieci direzioni dell'universo; tutti gli esseri sono il Corpo della Verita' diffuso nelle dieci direzioni dell'universo. (30)

Il vero pellegrinaggio per visitare i maestri (Hensan) e' la comprensione totale del Corpo della Verita' diffuso nelle dieci direzioni dell'universo. (31)

Secondo Doghen, la pratica religiosa e' praticare il Corpo della Verita' diffuso nelle dieci direzioni dell'universo. E' una pratica religiosa che e' risvegliarsi (illuminazione) al fatto che stiamo vivendo nella Verita' Assoluta che riempie l'universo, alla coscienza di essere un corpo solo con tutti gli esseri.

NOTE (1).."Ryogakyo" (Lankavatara-sutra) e' uno dei piu' rappresentativi del Mahayana.

Parla soprattutto del Buddha innato (Nyoraizo) e della Coscienza Originale piu' profonda e innata in tutte le creature (Araya - shiki). "Shikan", (Chih-kuan, Fermare le illusioni e ottenere l'Illuminazione), e' l'opera principale di Chighi (Chih-i, 538-597), fondatore del Buddismo Tendai. Shikan e' anche un esercizio di concentrazione paragonabile allo zazen. "Dainichikyo" (Mahavairocana-sutra) e' la scrittura fondamentale del Buddismo tantrico.

(2).."Shobo-Ghenzo", cap. Sokushin-Zebutsu. (3)..Citazione dal capitolo "Le 37 vie di separazione dal mondo" del Kegonkyo,

Avatamsaka-sutra, Hua-yen-ching. (4).."Shobo-Ghenzo", cap. Sangai-Yuishin. (5)..Seighen Yuishin era discepolo di Kaido Soshin della scuola Rinzai, corrente

Oryo. Visse durante la dinastia Sung, ma le date precise non si sanno. Questo passo e' citato dal cap. 6 del Futoroku, uno dei cinque Toroku (Le Cinque cronache dell'insegnamento).

(6).."Shobo-Ghenzo", cap. Shinjin-Gakudo. (7).."Shobo-Ghenzo", cap. Kobutsu-shin. Nan'yo Echu (Nan-yang Hui-chung, 675-

775) e' uno dei discepoli del Sesto Patriarca Eno. (8)..Baso Doitsu (709-788) e' il successore di Nangaku Ejo. (9).."Shobo-Ghenzo", cap. Ganzei (la pupilla del Buddha). (10).."Soshi" secondo cap. Saibutsuron (Discorso sull'unita' delle cose). (11).."Soshi", cap. 19 Tasseihen (Chi e' arrivato a capire la vera realta' della vita). (12).."Soshi", cap. 33 Tenkahen (Sotto il Cielo). (13).."Joron", 4x capitolo "Nehan-mumyoron" (Il Nirvana senza nome), numero 7. (14)..Nansen Fugan (Nan-ch'uan P'u-yuan, 748-835) fu uno dei discepoli di Baso

Doitsu, e Rikko probabilmente un ufficiale governativo suo discepolo laico.

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(15)..Questo racconto di Nansen e Rikko e' riportato quasi ugualmente anche dal maestro Wanshi nelle sue poesie (Wanshi Juko) poi raccolte nell'opera Shoyo-roku al caso 91 dal titolo: "La peonia di Nansen".

(16)..Doghen, "Eihei Koroku", secondo capitolo, n.24. (17).."Shobo-Ghenzo", cap. Sokushin-Zebutsu). (18).."Shobo-Ghenzo", cap. Sangai-Yuishin. (19).."Shobo-Ghenzo", cap. Shinjin-Gakudo. (20).."Shobo-Ghenzo", cap. Keisei-Sanshiki (il voce del torrente e l'immagine

delle montagne). Questo racconto e' un koan riportato anche in "Eihei-Koroku", 9.42 e nello "Shobo-Ghenzo" in cinese, 1.16. C'e' anche nell'opera di Wanshi Shogaku "Wanshi Nenko", 66 e originalmente appare nell'opera "Dentoroku", 10 e "Rento-Eiyo", 6.

(21).."Shobo-Ghenzo", cap. Keisei-Sanshiki. Questo racconto e' riportato anche in "Eihei-Koroku", 9.46; nello "Shobo-Ghenzo" in cinese, 1.6; in "Hekiganroku", 35 e in "Shoyo-roku", 100; la versione originale si trova in "Futo-roku", 3.

(22).."Shobo-Ghenzo", cap. "Bussho" (La Natura del Buddha). (23).."Shobo-Ghenzo", cap. "Shizen-Bhiku" (Un monaco al quarto stadio della

meditazione). (24).."Shobo-Ghenzo", cap. "Shoaku-makusa" (Non commettere il male). (25).."Shobo-Ghenzo", cap. "Bukkyo" (I sutra del Buddha). (26).."Shobo-Ghenzo", cap. "Jisho-zanmai" (Il samadhi dell'auto-illuminazione). (27)..Le dieci direzioni sono: nord, est, sud, ovest; nord-est, sud-est, sud-ovest,

nord-ovest; sopra e sotto. (28)..Ankoku Ekyu e' un monaco della discendenza di Seighen, morto nel 913.

Ghensha Shibi (835-908) insieme a Unmon Bun'en era discepolo di Seppo Ghison. (29).."Shobo-Ghenzo", cap. "Shijin-Gakudo". (30).."Shobo-Ghenzo", cap. "Sangai-Yuishin". (31).."Shobo-Ghenzo", cap. "Hensan".

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Cap. 6. Un tentativo di confronto. 6. 1. Il Dio cristiano, il Mu dello Zen. 6. 2. Pratica e Satori. 6. 3. Responsabilita' di un credente. 6. 1. Il Dio cristiano, il Mu dello Zen. Non e' una cosa facile confrontare due fedi come il Cristianesimo e il Buddismo

Zen. Anche se si possono notare alcuni punti in comune, esse sono fondamentalmente su posizioni diverse. Poiche' lo Zen non afferma un Assoluto personale come il Cristianesimo e' spesso criticato come ateismo; oppure per il fatto che spesso chiama "Mu" (il Nulla) la realta' assoluta, puo' essere visto come nihilismo. Inoltre poiche' nella pratica religiosa Zen non c'e' nessuno che aiuta con la grazia soprannaturale gli sforzi del religioso, e' chiamata spesso una fede nella propria forza (jiriki), e sembra che tutto sia lasciato allo sforzo della meditazione.

Nel mio caso, la prima volta che ho conosciuto la meditazione Zen e ho provato a sedermi e a concentrarmi, ho gustato una profonda serenita' nel cuore, e senza troppi problemi ho continuato in questa forma di meditazione. Specialmente dopo essere venuto in Giappone ho continuato questa meditazione con impegno e ho avuto la possibilita' di partecipare a numerosi ritiri di meditazione zen (sesshin) e di avere la guida di maestri eccellenti.

Quando siedo in meditazione Zen o quando studio l'insegnamento dei maestri buddisti e confronto la mia visione di esso con il maestro, noto che dentro di me non c'e' nessuna contraddizione fra la mia fede cristiana e questo insegnamento. Mantenendo la mia fede cristiana, continuando la pratica di preghiera, e sforzandomi ogni giorno di praticare l'insegnamento evangelico, mi sembra di non avere difficolta' ad attingere anche all'insegnamento del Buddha e dei maestri Zen. Anche il maestro Yamada Koun del San'un Zendo (La casa di meditazione delle tre nuvole) di Kamakura, che mi sta guidando in questo cammino mi ha chiesto: "Tu che sei un credente cristiano e per di piu' un missionario cattolico, quando pratichi meditazione Zen cosa avviene dentro di te?

Quello che nello Zen e' chiamato il mondo del Mu, e la realta' assoluta che nel cristianesimo e' chiamata Dio, in che relazione stanno dentro di te? In fondo in fondo, si puo' dire che siano la stessa cosa?".

Ci penso spesso, ma non riesco a dare una risposta precisa. Quando ci si pensa e si formulano pensieri e categorie, certamente il Mu e Dio sono due cose completamente diverse, due categorie appartenenti a religioni e culture diverse. Pero' quando nella meditazione abbandono le parole, i pensieri e le categorie e sto solamente seduto (Shikantaza) il Mu, Dio e io scompaiono. Non c'e' nulla che si contrapponga a nulla. C'e' solo la coscienza chiara dell'esistenza pura. Con che parola posso chiamare questa?

Il Mu dello Zen e' diverso dal nihilismo; esso e' quello che fin dal Buddismo delle origini e' detto "impermanenza delle cose" ("Shogyo-Mujo"). Tutte le cose sono transitorie, non c'e' nulla di assolutamente stabile e permanente. Oppure con altre parole e' detto anche "Shoho-Muga": non c'e' nessun essere che esista di per se stesso. Questa idea chiamata "Ku" (Sunyata, il vuoto) nel Buddismo Mahayana e "Mu" (il nulla) nello Zen cinese significa che tutte le cose che esistono, esistono secondo la legge delle cause. Ku e Mu indicano che tutte le cose sono transitorie, non possono esistere di per se stesse ma esistono in una relazione di causalita' vicendevole.

E' questa realta' della impermanenza delle cose e della causalita' afferrata intuitivamente che viene chiamata il Vuoto, il Nulla.

Nel Buddismo si usa anche personificare questa realta' dell'impermanenza e della causalita' (l'universo intero) e chiamarlo "Hosshin" (il Corpo del Dharma; e' questo

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uno degli aspetti del Triplice Corpo del Buddha). Dainichi Nyorai (il Thatagata del grande sole, Vairochana Buddha) diversamente da Shakamuni Gotama Buddha non e' una persona storica; oppure diversamente da Amidha Nyorai (il Thatagata della luce infinita) o Kannon Bosatsu (il bodhisattva Avalokitesvara), non e' nemmeno la figura idealizzata del Buddha che ha raggiunto la perfezione tramite innumerevoli vite di pratica religiosa.

Egli e' la vita dell'universo, e' il Corpo del Buddha come personificazione della Verita' Assoluta. (1)

Nel Buddismo Zen cinese non si sentiva la necessita' di personificare la realta' assoluta di tutto l'universo, anzi si temeva con questo di confondere i discepoli, per cui nella massima concretezza, tipica della mentalita' cinese si chiamava la realta' assoluta "i monti, i fiumi, la grande terra; il sole, la luna e le stelle" (Sanga-daichi, Nichighetsu-seishin); oppure "le erbe, le piante, i ciottoli e i sassi" (Somoku-garyaku), "la pianta di quercia nel giardino" (Teizen no hakujushi), ecc. Si usava mostrare concretamente come tutte le cose cosi' come appaiono agli occhi sono manifestazioni della realta' assoluta.

Anche il maestro Doghen che assorbi' molto bene lo Zen cinese usava spesso le parole sopra citate, pero' nel suo uso dell'espressione "Jinjippokai-Shinjitsunintai" (il Corpo della Verita' diffuso nelle dieci direzioni dell'universo), rivela una certa personificazione della realta' assoluta. Attribuisce la parola "corpo" alla Verita' universale, ma qui non si tratta di un corpo individuale e limitato come quello umano. E' solo un esempio, un mezzo per esprimere qualcosa peraltro inesprimibile a parole.

Per cercare la differenza fra Buddismo Zen e Cristianesimo nell'esprimere la realta' assoluta, bisogna dire che mentre nel Buddismo Zen la realta' assoluta e' vista nella vita dell'universo e della natura, nel Cristianesimo (come pure nel Giudaismo) essa e' vista nella storia, e particolarmente in un processo storico di salvezza. Questa puo' anche essere detta una differenza tipica fra occidentali e orientali, pero' specialmente il Giudaismo e il Cristianesimo piu' che nella vita della natura hanno individuato negli eventi storici la realta' assoluta, la sua rivelazione e la sua attivita' salvifica.

Se si osserva la Bibbia, la piu' importante esperienza religiosa degli Ebrei fu l'esodo dall'Egitto, avvenuto verso il 13�Esecolo aC. Mose' incontro' Dio, la realta' assoluta, in un'esperienza religiosa davanti al roveto che bruciava e con la sua forza libero' il popolo ebreo dalla schiavitu' a cui era stato sottoposto dagli Egiziani. Il nome di questa realta' assoluta che Mose' incontro' non e' una parola presa dalla natura ma indica il principio stesso dell'esistenza (Jahwe', Io sono colui che sono).

E Mose' disse a Dio: "Quando io saro' andato dai figli d'Israele ed avro' detto loro: Iddio dei padri vostri mi ha mandato a voi, se essi mi domanderanno: Qual'e' il suo nome? che cosa rispondero' loro?". E Iddio rispose a Mose': "Io son colui che sono!". Poi disse: "Cosi' dirai ai figli d'Israele: Io Sono mi ha mandato a voi". (Esodo 3, 13-14)

Molto tempo prima dell'esodo dall'Egitto il patriarca Abramo (19�Esecolo aC.) aveva sperimentato la realta' assoluta in un evento storico di promessa: accrescera' e proteggera' la sua stirpe e ne fara' un grande popolo.

Dopo l'esodo gli Ebrei si stabilirono in Palestina, la Terra Promessa e sperimentarono continuamente una forza di gran lunga superiore alla loro forza umana, che con braccio forte agiva nella storia proteggendo la loro nazione e dando loro vittoria sui nemici.

Continuarono anche in seguito a sperimentare Jahwe' come salvezza. Le sue parole erano rivelate ai profeti e quando gli Ebrei obbedivano a queste parole la loro nazione prosperava; quando invece le dimenticavano, si rivolgevano ad altri dei e diventavano egoisti, la nazione si indeboliva fino a venire distrutta. Gesu' di Nazaret

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detto il Cristo, pur essendo nato all'interno del Giudaismo chiamava Jahwe', con il nome "padre".

Ora chiamare "padre" l'Assoluto e' qualcosa di piu' di una semplice personificazione. Indica un profondo senso di intimita' e di unita' con l'Assoluto, Signore del cielo e della terra, colui che origino' e continua a dare la vita all'universo intero. Il nome "padre" indica si' un'Assoluto personale, ma sottolinea soprattutto la relazione di profonda unione fra il se' di Gesu' e l'Assoluto. Come il figlio riceve la vita dal padre e ogni giorno riceve la sua protezione e tutto quanto ha bisogno per vivere, e' in profonda unita' con lui e per crescere e svilupparsi obbedisce alle sue parole.

Ora nello Zen invece dell'Assoluto personale c'e' l'universo e la natura con cui il praticante si sente in profonda unita'. Egli sente di essere fatto vivere da questa realta' che appare nei monti, nei fiumi e nella grande terra, e per crescere e diventare un essere perfetto sente di dover obbedire, di dover adattare la sua vita e la sua pratica religiosa a quella realta' che e' il Corpo della Verita' diffuso nelle dieci direzioni dell'universo.

Il Cristianesimo insegna che Dio e' Creatore e l'universo e tutti gli esseri e anche l'uomo sono stati creati da lui. Se si personifica la realta' assoluta, e' ovvia conclusione dire che tutto l'universo e gli esseri che hanno la loro origine in essa "sono stati creati da essa".

Il racconto della creazione del cielo e della terra si trova all'inizio della Bibbia nel primo capitolo della Genesi, pero' bisogna pensare che questo racconto nella forma che noi leggiamo adesso e' stato scritto verso il 6x secolo aC., ed erano passati piu' di sei secoli dall'esodo dall'Egitto, l'evento storico che per il popolo ebreo segno' il definirsi della fede in Jahwe'. Durante questo periodo gli Ebrei avevano sperimentato nella storia l'opera di Jahwe' come salvatore: a volte come un padre tenero, a volte un signore severo.

Cosi' Dio creo' l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creo', maschio e femmina li creo'. (Genesi, 1.27)

Queste parole della Genesi, spesso sono capite al contrario, che cioe' Dio e' a immagine dell'uomo, ma certamente questa uguaglianza fra Dio e l'uomo non riguarda la forma del corpo o la struttura della mente e del cuore, e oserei dire che anche la forma "personale" dell'Assoluto e' una forma scelta per il rapporto storico con l'uomo. E si capisce anche perche' Gesu', che si sentiva una cosa sola con l'assoluta realta' si rivolgesse a questa con il nome "Padre".

E' vero che nel Buddismo non ci si rapporta a un Assoluto Personale, pero' ci sono alcuni esempi in cui il Buddha come realta' assoluta e' paragonato ad un padre. Per esempio fra le parabole del "Sutra del Loto", ne cito due: quella della casa in fiamme e quella del figlio miserabile. (2)

La prima parabola parla della grande casa di un padre ricchissimo. Durante la sua assenza i figli sono immersi nei giochi piu' svariati, quando ad un tratto scoppia un incendio che avvolge la casa. Proprio in quel momento il padre ritorna e da fuori chiama i figli e li invita a fuggire dalla casa per salvarsi, ma essi non capiscono il pericolo e non ne vogliono sapere di abbandonare i loro giochi.

Per convincerli il padre dice che fuori dalla casa vi sono i tre carri che essi avevano sempre desiderato: il carro tirato da pecore, il carro tirato da cervi e il carro tirato da buoi. I figli a sentire questo escono di corsa, appena in tempo per non essere travolti dalle fiamme, pero' si adirano col padre quando si accorgono di essere stati ingannati. Il padre spiega che era stato necessario dire cosi' per salvarli dalle fiamme e mantiene la sua promessa facendo preparare per loro un grande carro tirato da buoi bianchi e ricoperto di gemme preziose.

Questa parabola indica che gli uomini per il loro attaccamento ai piaceri mondani vanno incontro al pericolo e alla morte, ma il padre, il Buddha, la realta' assoluta cerca in tutti i modi di salvarli, offrendo loro l'insegnamento, il veicolo per arrivare alla

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salvezza. Qui c'e' inoltre un accenno alla superiorita' del grande veicolo (Mahayana) che da' la salvezza a tutti, contro i piccoli veicoli (Hinayana) su cui ognuno sale da solo per salvarsi.

La seconda parabola parla di un ragazzo, figlio di un padre ricchissimo che cercando la liberta' fugge di casa. Per lunghi anni vive in un paese straniero, ma non avendo fortuna e caduto nella piu' misera poverta' comincia a viaggiare mendicando e cercando lavoro. Nello stesso tempo il padre ormai vecchio aveva cominciato a cercare il figlio fuggito per potergli lasciare l'eredita'.

Un giorno per caso alla porta di un nuovo palazzo dove il padre si era trasferito, arriva un mendicante e il padre si accorge che questo mendicante e' suo figlio. Manda subito un servo per farlo entrare in casa, ma il mendicante spaventato alla improvvisa gentilezza fugge. Il padre gli manda dietro altri servi e lo convince a rimanere nelle vicinanze e lavorare in cambio del cibo e lo fa abitare in una capanna poco lontano dal palazzo.

Il mendicante abita per anni li' vicino e il padre ogni tanto si traveste da povero per poterglisi avvicinare e vederlo. In seguito altre volte tenta di farlo entrare in casa, ma egli rifiuta sempre, temendo questo ricco. Alla fine quando il padre sta per morire raduna tutti i ministri e i servi, racconta quello che e' successo e dichiara suo erede questo povero davanti allo stupore di tutti.

Anche questa parabola indica il desiderio del Buddha-padre di salvare tutti gli esseri. Inoltre fa notare come la causa della miseria e della sofferenza sia l'ignoranza, il non sapere chi l'uomo veramente e'.

In conclusione il Dio del Cristianesimo e il Mu dello Zen, sono si' due cose diverse a livello di parole e di concetto, come e' diversa la cultura e il pensiero religioso che vi sta dietro, pero' e' chiaro che tutte e due vogliono esprimere la Realta' Assoluta, realta' che peraltro supera ogni parola e ogni concetto umano. Infatti le parole Dio, Padre, Mu oppure Hosshin, sono tutte parole limitate dalla capacita' umana di comprensione. Mentre da una parte la teologia cerca di definire l'indefinibile e dargli un nome, la mistica cerca di rifiutare ogni definizione dell'indefinibile per arrivare a una esperienza diretta e intuitiva di esso. In questo senso "Dio" e' un'espressione teologica, mentre "Mu" e' un'espressione mistica.

6. 2. Pratica e Satori. Anche nel Cristianesimo la pratica religiosa e' sempre stata tenuta in grande

considerazione. A partire dal 4x secolo specialmente in Palestina, in Grecia, in Italia e nell'Africa Settentrionale sono numerose le esperienze di vita monastica. Fra le piu' famose, in Egitto e' quella di Antonio (251-356) e di Pacomio (292-346); in Italia quella di Benedetto da Norcia (morto nel 604), quella di Francesco d'Assisi, ecc.

Anche nella attuale Chiesa Cattolica vi sono comunita' monastiche come quella Trappista del ramo Benedettino che si impegnano nella pratica religiosa senza fare nessuna attivita' sociale. Esse hanno una regola simile alle regole dei monasteri Zen, vi si conduce una vita povera e si fonda la vita quotidiana sulla preghiera e il lavoro manuale. E anche in queste comunita' si da' grande importanza alla direzione spirituale. Oltre alla preghiera vi e' la meditazione, pero' a differenza della meditazione Zen insegnata da Doghen, non e' shikantaza, cioe' stare seduti in silenzio e in concentrazione senza pensare a niente; la meditazione cristiana normalmente ha un oggetto su cui fissare l'attenzione. Possono essere parole della Sacra Scrittura, parole di Gesu' Cristo, parole o esempi dei santi o insegnamenti della Chiesa. Nel silenzio e nell'immobilita' si fissa l'attenzione su questo oggetto per farlo entrare profondamente nel cuore.

Pero' oltre a questa nel Cristianesimo c'e' anche la meditazione senza oggetto. Per esempio quella chiamata "la preghiera del nome di Gesu", conosciuta anche come "la preghiera del pellegrino russo", che consiste nel ripetere continuamente senza

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stancarsi le brevi parole "Gesu' Cristo Figlio di Dio, abbi pieta' di me peccatore", ritmando le parole sul respiro, puo' essere considerata la versione cristiana del Nenbutsu, l'invocazione del nome di Buddha.

Oppure vi e' anche la meditazione che consiste nel rimanere immobili in silenzio svuotando il cuore. Specialmente nel periodo medioevale mistici come Ugo di S.Vittore, il maestro Eckhart, John Tauler, l'autore sconosciuto della "Nube della non Conoscenza" e piu' tardi in Spagna Teresa d'Avila e Giovanni della Croce hanno praticato e insegnato questo tipo di meditazione. Anche Bonaventura, che fu Superiore Generale dell'Ordine Francescano scrisse:

Lo spirito, per poter raggiungere la contemplazione perfetta ha bisogno di essere purificato. L'intelletto e' dapprima purificato quando non tiene in conto le impressioni dei sensi; e' ulteriormente purificato quando e' libero dalle immagini della fantasia; ed e' perfettamente purificato quando e' libero dalle conclusioni logiche della filosofia. (3)

Per quanto riguarda la pratica religiosa, a parte i metodi concreti, il punto in cui il Cristianesimo e lo Zen sono maggiormente simili penso sia l'annullamento dell'Io (kenosi), il farlo morire per risvegliarsi alla Verita'.

Questo, detto con le parole di Doghen sarebbe "Lasciar cader via il corpo e la mente" (Shinjin-Datsuraku) oppure con i detti Zen "l'uomo che ha raggiunto la Grande Morte" (Daishitei no hito), "la Grande Morte prima di tutto, e la Grande Vita appare" (Daishi-ichiban, Taikatsu-Ghenjo). Quando si ha il coraggio di tuffarsi nella Grande Morte, di lasciar morire completamente l'Io, e' allora che si puo' vivere e agire in piena liberta'. Questo non indica la morte fisica, la morte del corpo, ma indica quella situazione in cui si e' abbandonato tutto, il proprio Io per prima cosa e si e' capita la Verita' e si e' ottenuta la salvezza.

Al giovane ricco che chiedeva cosa era necessario per ottenere la vita eterna, Gesu' disse:

Se vuoi essere perfetto, va', vendi quanto hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi. (Matteo, 19.21)

Altre citazioni riguardo a questo: Il regno dei cieli e' simile ad un tesoro nascosto in un campo; l'uomo che lo ha

scoperto, lo nasconde di nuovo, e pieno di gioia, va, vende quanto possiede e compra quel campo. (Matteo, 13.44-46)

Cosi' pure, chiunque di voi non rinunzia a quanto possiede, non puo' essere mio discepolo. (Luca 14.33)

Diceva poi a tutti: "Se uno vuol venire dietro di Me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e Mi segua! Poiche' colui che vorra' salvare l'anima sua , la perdera'; ma colui che perdera' l'anima sua per Me, la salvera'. Cosa giova infatti, all'uomo l'aver guadagnato il mondo intero, se poi perde se stesso, o si procura la dannazione?" (Luca 9.23-25)

In verita' Gesu' Cristo mori' a 33 anni inchiodato su una croce. Il motivo fu che la Verita' del Regno di Dio che egli aveva scoperto mostrava la futilita' della struttura religiosa giudaica di quel tempo. Specialmente affermazioni come quella di essere una cosa sola col Padre, non potevano essere capite dai maestri giudaici che fondavano il loro insegnamente su innumerevoli leggi e sull'idea di premio per i buoni e castigo per i cattivi.

Pero' Gesu' che abbandono' tutto e non ebbe paura di abbandonare anche la vita fu risuscitato, e per quelli che credono in lui e' diventato un'esistenza eterna e universale. Nel Cristianesimo si da' molto risalto al morire per avere la vita eterna.

Questo significa morire con Cristo per essere con lui risuscitati a vita nuova. Anche il battesimo, la cerimonia di iniziazione alla vita cristiana, una volta

consisteva nell'essere immersi nell'acqua di un fiume. Non si tratta solo di essere aspersi con dell'acqua di purificazione, ma indica l'uomo vecchio che affonda nell'acqua del battesimo e muore e uscendone rinasce alla nuova vita eterna con

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Cristo. Anche le parole della cerimonia sottolineano il fatto di morire con Cristo per rinascere a vita nuova.

Quando si parla di "Satori", si e' soliti pensare a un'esperienza psicologico-spirituale molto particolare. Anche nel Cristianesimo qualche volta si ricerca attraverso la preghiera e la meditazione l'unita' mistica con Dio e questa puo' essere indicata come estasi.

Pero' secondo l'insegnamento del maestro Doghen, il mondo del Satori sono le montagne, i fiumi e la grande terra; sono tutti gli esseri e i fenomeni naturali come compaiono davanti agli occhi. Quando si riesce a vedere che si e' una cosa sola con tutte le cose intorno, con tutti gli uomini intorno a noi e si riesce a vivere coerenti con questa intuizione quello e' il Satori nel suo splendore, e' l'illuminazione perfetta. Questo che nello Zen e' chiamato Satori con parole cristiane vorrei chiamarlo "il Regno di Dio".

Gesu' ando' in Galilea predicando il Vangelo di Dio e dicendo: "il tempo e' compiuto e il Regno di Dio e' vicino; convertitevi e credete al Vangelo". (Marco 1.14)

Il tempo della salvezza e' adesso. Il Regno di Dio non e' una cosa lontana, e' qui, ora. La vita quotidiana e' il tempo della salvezza, e' la vita eterna. Il Regno di Dio e' rinnovare il cuore e vivere con questa chiarezza, e' abolire ogni barriera fra se' e gli altri, fra se' e tutte le creature.

Anche l'"amore", che il Cristianesimo mette al centro del suo insegnamento e' la stessa cosa. Quando si dice "amatevi a vicenda", "amate i vostri nemici", questo amore nella parola originale greca si dice "agapes". Nella lingua greca ci sono tre parole che si possono tradurre con amore: oltre ad "agapes" c'e' "eros" che indica l'amore e la passione sessuale, e "fili'a" che indica predileggere qualcosa o qualcuno. "Agapes" e' tradotto anche "amore fraterno" e indica l'essere un cuore solo con l'altro.

Significa che le sofferenze dell'altro sono le mie sofferenze, che le gioie dell'altro sono le mie gioie. Colui che seguendo l'esempio della croce di Cristo muore a se stesso e col cuore pieno di amore diventa una cosa sola con tutti gli altri e si impegna per la realizzazione del Regno di Dio, ha realizzato cio' che nello Zen e' detto l'aver "lasciato cader via il corpo e la mente" (Shinjin-datsuraku), e l'agire nella "Grande Vita in piena liberta' (Taikatsu-Ghenjo).

Paolo, il grande missionario della chiesa primitiva sentiva di essere una cosa sola con Cristo e consumava la sua vita per la salvezza di tutti.

Sono stato crocifisso insieme con Cristo. Vivo, ma non io, vive invece Cristo in me. (Galati, 2.19)

Anche Francesco d'Assisi, come ho detto nel secondo e terzo capitolo di questa tesi, si sentiva una cosa sola con tutte le creature e chiamava tutto "fratello" e "sorella", e anche le creature rispondevano miracolosamente a questa intimita'. Inoltre le "stimmate" che Francesco ricevette, indicano che egli era sempre in profonda unione con Gesu' Cristo. Francesco era colui che aveva abbandonato tutto, si era fatto completamente povero e viveva come dice il maestro Doghen "lasciando cader via il corpo e la mente". Inoltre vivendo come un corpo solo con l'universo intero e con tutti gli esseri; con i monti, i fiumi e la grande terra, con le erbe, le piante, i ciottoli e i sassi era sempre ricolmo della "perfetta letizia" della grande illuminazione, e mori' nella perfetta felicita'.

6. 3. Responsabilita' di un credente. Sia nello Zen che nel Cristianesimo colui che si impegna nella pratica religiosa,

dimentica completamente se stesso e diventa un corpo solo con l'universo e tutti gli esseri, nota pian piano nella sua vita un cambiamento di atteggiamento. Tratta con attenzione e con cura tutte le cose, gli altri uomini, gli animali e le piante e si impegna nella protezione dell'ambiente circostante. In ogni momento ricerca la pace con gli

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altri uomini che sente essere una parte di se stesso. Inoltre sente la grande responsabilita' di guidare anche gli altri su questa via.

Colui che ha capito le parole di Doghen: "il cuore sono i monti, i fiumi e la grande terra; sono il sole, la luna e le stelle", oppure ha capito in pienezza le parole di Cristo: "ama il prossimo tuo come te stesso", vede il mondo e la societa' con occhi nuovi. Egli sperimenta continuamente l'unita' e indivisibilita' fra Dio e le creature; l'unita' e indivisibilita' fra se stesso e la Realta' Assoluta.

Quando una tale persona usa le cose, non le usa come materiale o strumenti per soddisfare le proprie necessita', ma le vede come qualcosa che vive della sua stessa vita. In questo modo si puo' capire perche' Francesco facesse attenzione a non calpestare l'acqua con cui si era lavato. Oppure come dice il maestro Doghen nei capitoli Senmen (Lavarsi la faccia) e Senjo (Lavarsi e purificarsi) dello Shobo-Ghenzo, le cose piu' semplici e umili come il lavarsi la faccia e andare al gabinetto sono esse stesse la Via del Buddha, sono la manifestazione del Satori.

La persona egoista si accorge solo delle sue cose, delle cose di cui ha bisogno, delle cose che hanno relazione con se stesso. Al contrario colui che pratica la Via del Buddha oppure colui che si mette alla sequela di Gesu' Cristo, si accorge subito di tutte le cose che vivono o accadono intorno a se'; se e' buddista capisce che esse sono la manifestazione della vita del Buddha, oppure se e' un cristiano gioisce perche' le creature intorno a lui, con la loro stessa esistenza stanno lodando il Creatore.

Nella societa' attuale si e' cominciato a preoccuparsi per l'inquinamento dell'aria, dell'acqua e di tutto l'ambiente, e si pensano e ricercano i mezzi per purificare l'ambiente che e' stato inquinato da un uso indiscriminato delle cose. Pero' di solito ci si preoccupa perche' l'inquinamento dell'ambiente minaccia e mette in pericolo la stessa esistenza dell'uomo.

Sono molto pochi a preoccuparsi perche' la vita degli animali, delle piante o dell'aria e dell'acqua o delle altre creature e' in pericolo. Il credente non guarda alle cose puramente come mezzi per soddisfare i propri bisogni, ma come cose viventi; e viventi della sua stessa vita; per cui se come Francesco si guardasse l'acqua come "sorella acqua", nell'acqua, cioe' nel corpo della propria sorella non si scaricherebbero acidi, veleni e scorie radioattive.

Anche nel corpo di sorella aria non si scaricherebbero tanti fumi nocivi. Allo stesso modo si deve dire delle sorelle montagne, sorelle foreste e sorella madre terra. Se si capisse in pienezza che le montagne, i fiumi e la grande terra sono parte del nostro stesso corpo, non si distruggerebbero per egoistico interesse. Nel complesso, bisogna dire che l'attuale inquinamento del pianeta terra e gli altri problemi sorgono perche' gli uomini non capiscono di essere una cosa sola con l'universo e tutti gli esseri, e si comportano egoisticamente; e qui oltre all'egoismo individuale non bisogna dimenticare l'egoismo collettivo.

D'altra parte se si capisse questa unita', si capirebbe che non c'e' contrapposizione fra il se' e l'altro, non si odierebbero gli altri e non si sarebbe piu' capaci di ferire o uccidere nessuno. La pace internazionale dovrebbe essere la situazione normale del genere umano, e la guerra, nonostante approvata e voluta dai grandi del mondo, non e' che il risultato della pazzia di persone illuse, che credono di risolvere i problemi distruggendosi a vicenda e distruggendo il creato.

Nell'Europa del 18x secolo il razionalismo dichiarava la religione inutile e senza significato per la societa' attuale, ma non e' forse soltanto la religione, piuttosto che la scienza che puo' salvare il mondo e il genere umano? Infatti le piu' importanti scoperte e i piu' grandi progressi della tecnica, a seconda del cuore degli uomini possono diventare mezzi per migliorare il mondo o armi per distruggerlo. Le religioni uniscono il cuore degli uomini e li guidano a costruire con la propria forza un mondo di pace e a preparare un mondo migliore per i loro figli e nipoti.

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La vera religione non e' limitata alla severa meditazione in templi oscuri che profumano incenso, o alle lunghe preghiere e cerimonie nelle chiese, per sua natura si sviluppa nell'azione.

Quando si capisce di essere un corpo solo con gli altri, non si puo' stare col cuore in pace di fronte alle loro sofferenze, ma ci si da' da fare per alleviarle e guarirle, perche' e' il proprio corpo che fa male. E' come per Francesco d'Assisi e i suoi discepoli che oltre alla preghiera e alla predicazione non potevano fare a meno di andare a lavar le piaghe e curare i lebbrosi del vicinato. Ancora non si potrebbe resistere alla sofferenza della natura inquinata, e per purificarla vi si impegnerebbe tutta la forza, l'intelligenza e la tecnica a disposizione.

Come se la fratellanza universale con tutti gli uomini e con la natura, insegnata da Francesco fosse stata recepita da tutto il mondo, il 27 ottobre 1986, ad Assisi si e' svolto un raduno di preghiera per la pace del mondo. Rappresentanti di numerose religioni venuti da tutto il mondo hanno pregato insieme, ognuno nel proprio modo per la pace. E fu una cosa senza precedenti che tante persone religiose si siano trovate per invocare la pace nel mondo, senza nessuna interferenza politica.

I rappresentanti giapponesi che vi parteciparono prepararono poi l'anno successivo in Giappone al monastero Hieizan di Kyoto un summit delle religioni mondiali.

Alla preghiera di pace di Assisi, la citta' di Francesco, rispose la preghiera di Kyoto, citta' di Doghen. E' questo forse soltanto un puro caso?

NOTE (1)..Nel Buddismo si parla dei tre corpi del Buddha: 1. Hosshin (Dharma-kaya), e' il supremo dei tre, e' la Verita' Assoluta che pervade

l'universo, ineffabile, non sostanziale, idealizzata e personificata in Dainichi Nyorai (Vairocana).

2. Hojin (Sambhoga-kaya), e' il Buddha che ha raggiunto la suprema perfezione attraverso innumerevoli vite di pratica religiosa. Come esempio si puo' pensare ad Amida, Yakushi, o Miroku.

3. Ojin (Nirmana-kaya), e' il corpo del Buddha che prende diversi aspetti per poter salvare tutti gli esseri. Il principale e' il Buddha storico Shakamuni; inoltre vi sono quelli che cambiano gli aspetti a seconda delle necessita' degli esseri, come Kwannon, Jizo, Fudo-Myoo, ecc.

(2)..Il Sutra del Loto (Myoho-renghekyo, Saddharma-pundarika-sutra), e' uno dei sutra principali del Buddismo Mahayana. E' il testo base della scuola Tendai e in Giappone delle correnti derivate da Nichiren. In esso vi sono diverse parabole che spiegano la verita' del Buddha con immagini facili.

(3).."Detti di Bonaventura", primo libro, seconda distinzione. (Citato in Enomiya Lassalle, "Zen Meditation for Christians", 1974, pg.79.

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Cap. 7. BIBLIOGRAFIA 7. 1. Opere che riguardano Francesco d'Assisi 7. 2. Opere che riguardano lo Zen e Doghen. 7. 1. Opere che riguardano Francesco d'Assisi: -- "ANALECTA FRANCISCANA", 10 Volumi pubblicati da Quaracchi dal 1885 al

1941. -- "FONTI FRANCESCANE" (Editio Minor), Editrici Francescane, 1986. -- "I Fioretti di San Francesco", Einaudi, Torino, 1964. -- "Opuscula S. Patris Francisci Assisiensis", Quaracchi, 1949. -- Carretto Carlo, "Io Francesco", Cittadella, Assisi, 1982. -- Doyle Eric, "Francesco e il Cantico delle Creature", Cittadella, Assisi, 1982. -- Englebert Omer, "San Francesco d'Assisi", Mursia, Milano, 1975. -- Green Julian, "Frere Francois", Editions du Seuil, Paris, 1983. -- Guardini Renato, "San Francesco d'Assisi", Cammino, Milano, 1968. -- Manselli Raoul, "San Francesco d'Assisi", Bulzoni, Roma, 1980. -- Sabatier Paul, "Vie de saint Francois d'Assise", Fischbacher, Paris, 1922. 7. 2. Opere che riguardano lo Zen e Doghen. Nota: Per questa tesi ho usato prevalentemente opere in Giapponese. Pero' in

questa traduzione cito solamente opere in lingua inglese e italiana, rimandando per le opere in lingua giapponese e cinese al testo originale della tesi.

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1962. -- Dumoulin Heinrich, "A History of Zen Buddhism", Pantheon Books, New York,

1963. -- Enomiya Lassalle, "Zen - Way to Enlightment", Sheed and Ward, London, 1966. -- Enomiya Lassalle, "Zen Meditation for Christians", Open Court, La Salle (USA),

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