ABRIELE CAIAZZA UCI E OMBRE DELLA FAMA - Aquileia · 2015. 1. 8. · GABRIELE CAIAZZA LUCI E OMBRE...

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GABRIELE CAIAZZA L UCI E OMBRE DELLA FAMA Storia della città di Aquileia nel Medioevo Introduzione Quando si parla di Aquileia, l’attenzione è quasi sempre rivolta all’epoca romana: da un lato perché il medioevo è ancora considerato un’epoca “buia”; dall’altro perché si dà per scontato che “a quei tempi” l’antica capitale della Venetia et Histria fosse ridotta a un luogo desolato, spopolato e malsano… Invece il medioevo fu tutt’altro che “tenebroso”: miniature, vetrate, affreschi e araldica testimoniano il contrario e sarebbe ben poco credibile parlare di “oscurità” per quei circa dieci secoli in cui furono inventati occhiali, bottoni, carriole e orologi, furono messi i vetri alle finestre e le forchette in tavola, furono introdotte la bussola nella navigazione e i numeri “arabi” nell’arte del “far di conto” ecc.! Parimenti, possibile che la città da cui il cristianesimo si diffuse in buona parte dell’Europa centro-orientale abbia vissuto nell’ombra per un intero millennio? Possibile che Aquileia fosse niente più che una cava di pietre, un pascolo per armenti, un paesello in balia delle acque? Come per troppo tempo si è denigrata un’era che in realtà è stata la fucina del mondo moderno, così da troppo tempo si preferiscono i riflettori dell’Aquileia antica e ben conosciuta alla ricerca degli interruttori giusti per ridare corrente a tante luci che aspettano solo di essere riaccese. Certo tra alto e basso medioevo alcuni blackout si verificarono, ma solo temporanei e seguiti da “riavvii” anche notevoli. Senza dubbio Aquileia ha fornito per secoli materiale lapideo pronto da riutilizzare, ma in questo non è stata diversa dalle altre città romane, e comunque tale materiale è stato impiegato prima di tutto per costruire le sue case, chiese, mura e torri, compreso il campanile della basilica, innalzato impiegando anche pietre tratte dall’anfiteatro. Spesso il buio avvolge il basso medioevo, la «fase più accessibile» per gli scavi: il periodo meglio documentato sottoterra e negli archivi, oltre a essere inevitabilmente il più esposto «ai pericoli del rinnovamento edilizio», è stato pure il più a lungo trascurato

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GABRIELE CAIAZZA

LUCI E OMBRE DELLA FAMA Storia della città di Aquileia nel Medioevo

Introduzione Quando si parla di Aquileia, l’attenzione è quasi sempre rivolta all’epoca romana: da un lato perché

il medioevo è ancora considerato un’epoca “buia”; dall’altro perché si dà per scontato che “a quei tempi”

l’antica capitale della Venetia et Histria fosse ridotta a un luogo desolato, spopolato e malsano… Invece

il medioevo fu tutt’altro che “tenebroso”: miniature, vetrate, affreschi e araldica testimoniano il contrario e

sarebbe ben poco credibile parlare di “oscurità” per quei circa dieci secoli in cui furono inventati occhiali,

bottoni, carriole e orologi, furono messi i vetri alle finestre e le forchette in tavola, furono introdotte la

bussola nella navigazione e i numeri “arabi” nell’arte del “far di conto” ecc.! Parimenti, possibile che la

città da cui il cristianesimo si diffuse in buona parte dell’Europa centro-orientale abbia vissuto nell’ombra

per un intero millennio? Possibile che Aquileia fosse niente più che una cava di pietre, un pascolo per

armenti, un paesello in balia delle acque?

Come per troppo tempo si è denigrata un’era che in realtà è stata la fucina del mondo moderno,

così da troppo tempo si preferiscono i riflettori dell’Aquileia antica e ben conosciuta alla ricerca degli

interruttori giusti per ridare corrente a tante luci che aspettano solo di essere riaccese. Certo tra alto e

basso medioevo alcuni blackout si verificarono, ma solo temporanei e seguiti da “riavvii” anche notevoli.

Senza dubbio Aquileia ha fornito per secoli materiale lapideo pronto da riutilizzare, ma in questo

non è stata diversa dalle altre città romane, e comunque tale materiale è stato impiegato prima di tutto

per costruire le sue case, chiese, mura e torri, compreso il campanile della basilica, innalzato

impiegando anche pietre tratte dall’anfiteatro. Spesso il buio avvolge il basso medioevo, la «fase più

accessibile» per gli scavi: il periodo meglio documentato sottoterra e negli archivi, oltre a essere

inevitabilmente il più esposto «ai pericoli del rinnovamento edilizio», è stato pure il più a lungo trascurato

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dall’archeologia urbana. L’intera cittadina medievale erede dell’urbs romana ha subito negli ultimi secoli

notevoli “manomissioni” per la costruzione di nuovi edifici, il riassetto urbanistico, l’esecuzione di lavori di

pubblica utilità ecc.: in tali occasioni si è venuti senz’altro a contatto con il “livello” medievale, ma quasi

sempre senza lasciare adeguata documentazione.

Ora, unendo le ricerche pionieristiche di alcuni storici e topografi alle indagini di archivisti e

archeologi e ai dati emersi dai numerosi recuperi occasionali, è finalmente possibile delineare

sinteticamente una storia di Aquileia nel medioevo. Non una storia del Friuli durante il governo dei

patriarchi, ma proprio una storia della città di Aquileia, finora sempre relegata a fare da sfondo o da

contorno alle loro imprese, con la notevole quantità di inesattezze che a ogni retroscena tocca

normalmente subire a vantaggio di chi veste i panni del protagonista… Nella convinzione che solo

l’intreccio «di quante più informazioni è possibile, può garantire fondamento alla conoscenza», si è

attinto ai lavori pubblicati da specialisti delle più diverse discipline, si è fatto ricorso all’esame diretto dei

reperti e all’analisi dei dati di scavo, e si è condotta una serie di ricerche documentarie.

Per convenzione si considera “medioevo” il millennio circa intercorso fra la deposizione dell’ultimo

imperatore romano Romolo Augustolo (476) e la cosiddetta “scoperta” dell’America (1492). È chiaro che

nessuna epoca ha un inizio e una fine ben precisi, ma per favorire una migliore comprensione degli

eventi è necessario ricorrere a schematizzazioni, anche se spesso si fondano su dati considerati

acquisiti e che invece non di rado vengono poi smentiti … Dunque, dopo qualche essenziale premessa,

anche questa sintesi partirà dal V secolo d.C. e si concluderà alla fine del XV o poco più.

Fra tarda antichità e alto medioevo Superati senza troppi danni i primi attacchi da parte di popoli “barbari” (Quadi e Marcomanni, 167-

170), l’assedio dell’imperatore Massimino il Trace durante il bellum aquileiense che gli costò la vita

(238), le lotte fratricide fra i troppi pretendenti al trono di Roma nel IV secolo (compresa la “riconquista”

di Aquileia da parte di Teodosio ai danni dell’usurpatore Massimo, 388), nella prima metà del V secolo

Aquileia era ancora fiorente.

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Dopo aver funzionato da residenza temporanea e sede legislativa per i sovrani Graziano,

Valentiniano II e Teodosio il Grande (379-394), dopo essere stata assediata ma non espugnata dai

Visigoti di Alarico (401) ed evitata o soltanto sfiorata dalle successive irruzioni di Radagaiso, dello stesso

Alarico e di suo cognato Ataulfo (405-409), e dopo essere stata ripresa per conto di Teodosio II

all’usurpatore Giovanni, giustiziato nel locale “ippodromo” (425), Aquileia ancora ospitava le prestigiose

costruzioni e gli importanti uffici che ne avevano fatto la quarta città d’Italia e la nona dell’impero.

Innanzitutto la residenza (palatium) della corte e la cancelleria imperiale, di cui si servì

Valentiniano III per promulgare le ultime leggi di emanazione aquileiese che la storia ricordi (425); quindi

le mura, gli edifici e il porto che l’avevano fatta definire «famosissima» dal poeta Ausonio alla fine del

secolo precedente; infine, quantunque in città esistessero luoghi di culto di altre religioni prima fra tutte

l’ebraica, una sede episcopale autorevole, ecclesia mater di numerose diocesi in Italia e al di là delle

Alpi, dotata di una cattedrale all’avanguardia e arricchitasi di una basilica Apostolorum dall’ultimo

decennio del IV secolo.

Poi arrivò Attila… La città fu conquistata, ma le cose non andarono esattamente come da secoli si

favoleggia. Gli Unni non erano più malvagi, disumani o avidi dei Romani: avevano solo un modo di

intendere la vita, un sistema di valori e dei modi di produzione diversi; erano cavalieri specializzati ben

conosciuti e in molti militavano nell’esercito romano. Lo stesso Attila era magister militum e la sua azione

non fu un fulmine a ciel sereno: l’impero romano andava sfaldandosi e con esso l’organizzazione

territoriale e militare, sicché anche nell’aquileiese il sistema portuale, la difesa e i campi coltivati

perdevano a poco a poco la loro efficienza. Attila, dopo aver stabilito buoni rapporti con Costantinopoli,

rivolse le proprie “attenzioni” alla Romània con la nuova capitale Ravenna: incominciò con la diplomazia,

per passare all’azione militare solo in un secondo tempo, essendo mutate le condizioni politiche a suo

sfavore. L’ambizioso «re guerriero» si mosse per liberare la Gallia dai Visigoti (451) e per riprendersi la

promessa sposa Onoria “detenuta” a Roma (452): infliggere ai Romani d’occidente una disfatta totale –

ammesso fosse possibile – avrebbe significato distruggere il sistema tributario dal quale dipendeva lui

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stesso (l’oro garantiva la fedeltà dei guerrieri)… Al di qua delle Alpi, però, il pericolo unno era

sottovalutato, eppure il 18 luglio 452 il temibile condottiero prese Aquileia solo dopo un assedio tanto

estenuante che i suoi uomini avevano cominciato a scoraggiarsi: la città era ancora grande e fortificata,

e le difese approntate dagli abitanti ressero per mesi l’urto delle “macchine” da assedio nemiche. Poi

essa pagò la debolezza dell’esercito regolare e cadde.

Ciononostante “rinacque” in fretta, a breve distanza dal presunto “annientamento” (eversio). Fu

saccheggiata e incendiata ma non distrutta: infatti le mura rimasero efficienti e nella seconda metà del

secolo le zone urbane settentrionali continuarono a essere frequentate. E le perdite tra gli assediati

furono inferiori a quelle subite dagli assalitori: durante l’assedio verosimilmente avvenne il graduale e

provvisorio trasferimento degli aquileiesi a Grado (dapprima le donne con i bambini, le reliquie e i tesori,

quindi la maggioranza degli uomini, poco prima dell’espugnazione). Ciò non contraddice le distruzioni

materiali e le deportazioni descritte dagli storici, ma ne ridimensiona ampiamente la portata (le narrazioni

antiche erano fortemente ideologiche, retoriche, solo in parte legate alla realtà dei fatti) e spiega la

successiva «resurrezione» della città, che rimase «sede effettiva dell’autorità spirituale».

Per qualche tempo il governatore provinciale si trasferì altrove (forse a Cividale) e anche la sede

episcopale fu provvisoriamente spostata nel castrum di Grado: il territorio intorno ad Aquileia era terra di

passaggio di truppe e poteva risultare un rischio rimanere in città, sebbene essa avesse scarsa

importanza tattico-strategica durante il regno dell’erulo Odoacre e all’epoca della sua sconfitta (489) ad

opera degli Ostrogoti di Teodorico. Non vi fu dunque una definitiva migrazione da Aquileia in laguna e, tra

la seconda metà del V secolo e il terzo decennio del VI, i vescovi Niceta, Marcelliano e Marcellino e le

autorità gote si diedero da fare per ripristinare gli edifici di culto aquileiesi, rimediare ai danni prodotti dagli

eventi bellici e riportare alla normalità la vita in città, dove tornarono a risiedere per circa un quadriennio

Marcelliano, per oltre quindici anni Marcellino e almeno in parte il successore Stefano. Tutto ciò conferma

che dopo le pesanti incursioni “barbariche” si verificò «una pronta ricostruzione e una tenace ripresa

d’attività» poiché «l’insediamento svolgeva ancora una funzione importante rispetto a un territorio che

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verso di esso convergeva»: i ripetuti assalti subiti non risultarono dannosi quanto lo sarebbero stati in

seguito il dissesto idrogeologico o la posizione marginale nei nuovi assetti politico-economici.

Gli interventi maggiori della “silenziosa ripresa” si ebbero nella cattedrale, perché era considerata

caput civitatis; ma si intervenne anche sul battistero, si ricostruì l’episcopio, si ristrutturarono le

cosiddette “grandi terme”, si rifece il mosaico pavimentale della basilica di Monastero, si completarono la

basilica dei Santi Felice e Fortunato (dove cominciarono a concentrarsi le sepolture ad sanctos) e quella

più grande in località Beligna, presso la quale sarebbe più tardi sorta l’abbazia di San Martino. Nell’età di

Teodorico, insomma, Aquileia era ancora una città importante, vitale, abitata – anche da personalità

d’alto rango – e ben difesa, tanto che nel 533-534 i suoi magazzini pubblici permisero di superare una

momentanea crisi alimentare e nel 535 l’imperatore d’Oriente Giustiniano ne parlò come di una città

«grandissima» nella quale «spesso» soggiornavano gli imperatori: del resto anche altre località, messe a

soqquadro dagli Unni, in epoca giustinianea risultavano efficienti.

Il periodo bizantino Entrati in Italia seguendo una direttrice costiera per evitare i siti fortificati, Aquileia compresa, dal

552 i Bizantini comandati di Narsete soppiantarono i Goti ed eseguirono altre opere di ricostruzione e

abbellimento nella città, la cui Chiesa aveva allora addirittura accresciuto la propria autorevolezza,

intervenendo nelle vivaci discussioni dottrinali fino al punto di contrapporsi alla Sede romana e allo

stesso imperatore in occasione del cosiddetto scisma “dei Tre Capitoli”, qualche tempo dopo avere

attribuito ufficialmente al proprio vescovo il titolo di “patriarca” in virtù del primato esercitato sull’intera

regione ecclesiastica mitteleuropea.

Durante gli anni del dominio bizantino dovettero avere luogo l’ingegnosa progettazione e la costosa

realizzazione delle mura settentrionali “a denti di lupo”: unendo le estremità della doppia cerchia formata

mediante l’aggiunta di una seconda cinta (parallela) alle muraglie che già proteggevano su tre lati la parte

sud della città, l’innovativa serie di bastioni triangolari dimezzò la vecchia Aquileia, secondo il «fenomeno

della città retratta».

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Rimasero fuori i quartieri settentrionali gravitanti sul polo politico-economico romano (foro, porto,

palatium imperiale e circo), ma furono compresi il nucleo religioso, parte del futuro centro

amministrativo-residenziale e alcuni “spazi marginali” che fra la fine del VI secolo e gli inizi del VII

sarebbero stati usati per le sepolture: non per una estemporanea volontà di eliminare la parte nord, ma

per un diverso uso dello spazio urbano, con il nuovo centro direzionale “arroccato” a mo’ di cittadella

intorno alla cattedrale entro un più ristretto circuito murario. Al di fuori, nuovi modelli edilizi più sobri

(meno pietra, più materiali deperibili, riuso del preesistente), una nuova articolazione degli spazi (più

aree aperte), nuove funzioni residenziali e produttive (es. il foro romano divenne luogo di ammasso e

rilavorazione di materiale lapideo, per il successivo riutilizzo a scopi edilizi e fortificatori), con un

generale cambiamento in senso “rurale” in linea con la diminuzione delle attività mercantili seguita ai

nuovi equilibri delle correnti di scambio adriatiche e continentali (es. l’interruzione dei commerci con il

Norico e la Pannonia), allo spostamento degli itinerari del traffico sia a livello regionale sia a livello

internazionale, e al rinnovato ruolo attribuito ad Aquileia dai Bizantini nell’Italia riconquistata.

Essa dunque si “comportò” esattamente come ogni altra civitas d’Europa fra IV e VII secolo: gli

edifici e monumenti intorno ai quali si era sviluppata nell’antichità scomparvero o cambiarono

radicalmente funzione; il nuovo fulcro divenne la cattedrale, sorta a ridosso delle mura tardoimperiali in

un luogo prima periferico; la nuova comunità si concentrò all’inizio in uno spazio esiguo tra vaste distese

scarsamente popolate; il rinnovamento urbano assorbì le successive “folate” di genti provenienti

dall’esterno, accomunate anche dalla conversione al cristianesimo.

L’epoca longobarda Nel 569, la relativa calma raggiunta si interruppe e i Longobardi con i loro alleati occuparono gran

parte dell’odierno territorio regionale, compresa Aquileia. Forse anche a causa delle controversie

religiose, la città fu abbandonata dall’esercito bizantino: eppure, contrariamente alle distruzioni narrate

da alcune fonti, non subì danni particolari dal nutrito gruppo di genti barbare emigrato dalla Pannonia

sotto la guida di Alboino, che – verosimilmente – non attraversò la bassa pianura proprio per non

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affrontare le fortificazioni di Aquileia, occupata con calma dopo il ripiegamento bizantino in laguna.

Per evitare rischi, il vescovo aquileiese Paolo trasportò provvisoriamente la sede ecclesiale a

Grado: sull’isola fortificata l’antistite Elia consacrò nel 579 la nuova cattedrale di Sant’Eufemia e ivi

decise di fermarsi l’episcopus Candidiano verso il 610, ma la città vetus non fu mai realmente

abbandonata, anzi dovette rimanere piuttosto efficiente visto che ad Aquileia morì il patriarca Probino nel

571 e meno di quarant’anni dopo risiedette Giovanni, eletto dagli “scismatici” al momento del ritorno alla

comunione con Roma della cattedra “gradese”.

Le autorità longobarde appoggiarono il neoletto, che ebbe giurisdizione sulle diocesi rientranti

sotto il dominio longobardo pur senza smettere di rivendicare anche quelli del patriarca di Grado, il quale

mantenne la competenza sui vescovadi dei territori sottoposti a Bisanzio (“tendenza” mediterranea che

più tardi ereditò Venezia): questa frattura non si rimarginò più e da allora il Friuli aquileiese cominciò a

gravitare verso l’Europa continentale, avviando quel processo che l’avrebbe poi reso la “regione” più

meridionale del “mondo” germanico.

Sotto il dominio longobardo ebbe inizio per Aquileia un periodo di eclissi parziale, anche se non ci

furono interruzioni della frequentazione e non mancarono tentativi di bonifica della zona del foro romano,

interessata dall’impaludamento e comunque tendente al degrado a seguito dello spostamento del

baricentro urbano verso la zona episcopale, laddove si concentrarono le sepolture e i possedimenti di

importanti membri della nobiltà del ducato.

Allo “sdoppiamento” della cattedra patriarcale si aggiunse però lo spostamento del centro politico a

Forum Iulii, capitale del ducato longobardo friulano, che in epoca franca sarebbe poi stata ribattezzata

Civitas Austriae, in quanto estremità sud-orientale dei domini carolingi. Mentre Cividale cresceva,

Aquileia però non sparì affatto dalla storia: dovette semplicemente accontentarsi di vivere un po’ meno di

luce propria che dei bagliori provenienti dal glorioso passato. Ma i patriarchi, oltre a tentare di

riconquistare Grado, non risparmiarono energie a vantaggio dell’antica capitale, che rimase il “cuore”

della più vasta provincia ecclesiastica d’Europa.

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Dai Franchi agli Ottoni Il patriarca Paolino, collaboratore di Carlo Magno celebre anche come poeta e poi canonizzato,

cantò l’abbandono delle chiese, il traffico delle antiche pietre e la decadenza anche morale di Aquileia:

ma riferendosi all’incursione degli Àvari del 788 (durante le lotte che si conclusero nel 799 con la

definitiva vittoria dei Franchi) più che all’ormai lontana scorreria attilana («non si comprenderebbe il suo

pianto se l’antica sede del Patriarcato non avesse ripreso una certa attività prima di quella» avarica) e

calcando la mano con intento retorico, poetico e anche etico. In realtà egli stesso avviò lavori nella

basilica, ottenne favori e privilegi dall’imperatore, rivalutò l’autorità della sede aquileiese e ne rivendicò la

piena autonomia, creando le premesse affinché i successori Orso e Massenzio potessero rimediare

anche ai danni prodotti dagli Àvari, portando avanti il recupero dell’antica metropoli, completando il

ripristino della basilica entro la metà del IX secolo (compresa l’elegante e innovativa cripta sotto l’altar

maggiore che ancora possiamo ammirare nonostante i rifacimenti e gli affreschi dell’XI-XII secolo) e

restituendo «un certo movimento al porto e al mercato» di Aquileia, punto di scambio dei prodotti fra

l’area continentale e quella costiera. Tutto con il sostegno di Carlo Magno, che in un diploma dell’811

appoggiò Massenzio nel suo intento di «riportare al precedente decoro» l’antica cattedrale, «rimasta

trascurata per la minaccia o la perfidia di Goti, Àvari od altre genti» contro la città, di cui si ricordano le

mura e il porto sul fiume «chiamato Natisone», base interna dei perduranti commerci marittimi lagunari e

adriatici.

Massenzio ebbe a proprio favore anche il Concilio di Mantova (827): tra le tante delibere, i padri

conciliari espressero anche il desiderio che la basilica «venisse riformata nell’antico decoro».

L’ex capitale visse allora un nuovo periodo di buona salute, confermato non solamente dalla

sopravvivenza delle mura e dalla “rinascita” artistica sulla scia delle novità provenienti da Cividale, ma

anche dalla ripresa economica, che intorno all’880 fruttò l’accordo con cui il doge Orso I Partecipazio

garantì al patriarca Valperto il libero uso del porto aquileiese chiamato Pylum in cambio della rinuncia a

rivendicare Grado e della protezione delle quattro stationes (i fondaci ove avvenivano lo stoccaggio delle

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merci e i traffici tra mercanti locali, istriani, veneti o transalpini) veneziane nel mercato di Aquileia. E

ulteriormente ribadito dal fiorire di alcuni dei principali conventi e monasteri della regione proprio attorno

alla città: in periferia quello femminile di Santa Maria (nell’odierna frazione di Monastero) e quello

maschile di San Martino (il località Beligna); non molto distanti, quelli di San Michele a Cervignano, di

San Canzian d’Isonzo e di San Giovanni al Timavo.

Questa ripresa fu accompagnata dal favore dei sovrani, come dimostra la cessione da parte di

Berengario I al patriarca Federico di diritti regi sull’ultimo tratto del Natissa nell’anno 900, ma fu messa a

rischio da nuove incursioni da est: dall’899 al 951 gli Ungari attraversarono più volte la pianura, senza

però causare i danni enormi tramandati dalle leggende, in particolare alla città di Aquileia, che durante la

prima scorreria fu aggirata dall’«immenso esercito» invasore che evitava le «città ben fortificate» e forse

fu colpita solo nel 904. Ancor meno si sa dell’espugnazione (950 ca.) operata da Enrico duca di Baviera

e Carinzia: fratello di Ottone I di Germania ricevette la Marca veronese e aquileiese con l’Istria e volle

cacciarne gli Ungari, ma per motivi ignoti «prese Aquileia» e «fece castrare il patriarca» (forse Lupo II),

salvo poi confessarsi «in colpa riguardo all’Aquileiese».

Il patriarca Poppone Scampato il pericolo ungarico, la “rinascita” aquileiese ricevette nuova linfa grazie al patriarca

Poppone, molto vicino all’imperatore Enrico II il Santo e al suo successore Corrado II il Salico. Di origini

germaniche, cercò di rianimare la città e di farle recuperare l’antico prestigio: puntando sul porto e sul

mercato per risollevare le attività economiche; ricostruendo e impreziosendo di affreschi la basilica in linea

con i dettami dell’architettura e della pittura del tempo, sotto la decisa influenza dall’arte figurativa

nordeuropea; costruendo la massiccia turris celsa (“torre alta”) nata con funzioni difensive e presto usata

pure come campanile; impostando il palazzo patriarcale sugli imponenti resti del grande granaio (horreum)

urbano romano ubicato presso il tratto sudorientale delle mura; dotando di beni e privilegi il Capitolo dei

canonici della cattedrale (ad Aquileia esistevano anche i Capitoli “minori” di Santo Stefano e dei Santi

Felice e Fortunato) che egli stesso portò a cinquanta membri; e infine attaccando Grado per rilanciare

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l’immagine della civitas mater. Si è a lungo attribuito a Poppone anche il rifacimento delle mura, ma al

massimo poté curarne il restauro: se non altro perché l’irregolare circuito murario già racchiudeva entro un

perimetro lineare di oltre 2 km una superficie di quasi 32 ettari, ampiamente sufficiente per la popolazione

dell’epoca oltre che pienamente in linea con le “misure” di molte altre città d’Italia (e non solo) fra alto

medioevo e XII secolo (fatto che smentisce una volta di più la presunta “inferiorità” di Aquileia rispetto ad

altre realtà).

Il rilancio del mercato avvenne grazie alla costruzione di nuove stationes nel “foro” e nel porto di

Pilo: il presule tedesco, che mantenne il controllo diretto su una trentina di quelle ubicate sulla piazza

principale e su venti di quelle portuali, ne concesse altre trenta in foro Aquileiensi e una quindicina in

portu Pili al Capitolo, che dovette così incamerare non poco grazie alle relative rendite per i diritti di

deposito pagati dai mercanti. Se si considera che un fondaco o statio poteva comprendere l’attracco per

le imbarcazioni, il magazzino per le merci, la bottega per la vendita e talvolta pure l’abitazione dei

commercianti stranieri, è evidente che, essendo dotati di diverse decine di stationes, il mercato e il porto

di Aquileia non erano poi tanto piccoli…

Nel periodo “popponiano” ripresero vigore anche le comunicazioni terrestri (in particolare fra l’area

germanica e l’Adriatico, ma non solo), che avrebbero poi raggiunto il culmine tra la fine del XII e l’inizio

del XIII secolo, accompagnate dal diffondersi di fondazioni monastiche e ospedaliere lungo le principali

arterie di transito di merci e persone.

Uno Stato in ascesa I tentativi armati, invece, non portarono al recupero dell’isola di Grado: tuttavia rientrarono nel

disegno politico teso a rilanciare la posizione del patriarca aquileiese sullo scacchiere centroeuropeo e

sulla scena italiana, che culminò nel riconoscimento ufficiale del 1077, allorché l’imperatore Enrico IV

investì della contea del Friuli (poi anche della marca di Carniola e del comitatus d’Istria) il patriarca

Sigeardo, rimastogli fedele nelle difficiltà, suo ospite durante le feste pasquali e unico a consentirgli il

rientro in Germania. Nacque allora lo Stato patriarcale, «un principato ecclesiastico su modello tedesco

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ma in territorio italiano», appartenente al regnum Italicum ma di fatto inserito nel regnum Teutonicum,

almeno fino alla metà del Duecento propaggine più meridionale dell’impero germanico affidata a un

senior feudale contemporaneamente principe italiano e tedesco.

I secoli XI-XIII segnarono per la città una nuova, lenta ripresa e una costante crescita

dell’economia. Varie notizie testimoniano «l’intensità del commercio» ad Aquileia e l’importanza del suo

scalo è sottolineata dal passaggio di pellegrini o crociati di fama, da Raimondo di Tolosa (1096) a

Corrado III di ritorno dalla Terrasanta (1149) e forse Riccardo Cuor di Leone reduce dalla terza crociata

(1192). In città è inoltre documentata la presenza di un’attiva comunità ebraica e a tutto ciò va aggiunta

la riattivazione della zecca nel corso del XII secolo, quando Aquileia (dove, se si eccettua l’emissione

attribuita a Poppone su concessione di Corrado II, non si coniavano monete dal 425) passò dalla

dipendenza dai denari veneziani e veronesi al predominio della moneta frisacense, sulla quale

inizialmente modellò la propria monetazione. Ciò significò grande attività anche per il forum, dotato di

speciali franchigie (sulle quali nel 1176 si esemplarono quelle concesse al mercato di Cividale): se a fine

XII secolo cinque stationes fruttavano non poco alla badessa benedettina Ermelinda, da diversi decenni

il patriarca Vodolrico aveva donato quattro fondaci del mercato ai canonici del Capitolo, che nel 1203 ne

ricevettero dal vescovo di Concordia Romolo un’altro che rendeva annualmente una marca e sedici

denari («somma per quei tempi rilevante», commentò un noto studioso), così come piuttosto

remunerative dovevano essere le stationes dei tanti esercenti laici menzionati dalle fonti.

Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo ad Aquileia dovette avvenire una svolta importante: se

prima il controllo del “foro”, l’amministrazione della iustitia e la conduzione della terra erano stati affidati

all’advocatus patriarcale coadiuvato nel giudizio – durante l’annuale placitum avocatiae – dall’avvocato

del Patriarcato (il conte di Gorizia), allora l’ufficiale fu sostituito dal podestà del Comune di Aquileia, nato

verosimilmente a seguito del graduale inserimento degli abitanti nel governo accanto all’advocatus

(formando così il primo Consiglio, dal quale pare fossero esclusi ecclesiastici e feudali), accompagnato

dalla «lenta conquista» delle franchigie municipali e dalla parallela organizzazione degli indispensabili

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obblighi militari. Il podestà, che nelle altre Comunità friulane (e nella giurisdizione capitolare dal 1480)

era chiamato gastaldus, ad Aquileia svolgeva le funzioni già attribuite all’advocatus più altri incarichi di

pubblica autorità assegnati con il garritus, per i quali prestava giuramento il giorno in cui riceveva

l’investitura dal patriarca che l’aveva scelto e che gli avrebbe consentito a proprio beneplacitum di

svolgere il suo ufficio, assistito dal Consiglio e da alcuni delegati (iudices) oltre al cancelliere, al

camerarius addetto alle finanze, all’arengum dei capifamiglia e ai nuncii che partecipavano alle riunioni

del parlamento della Patria, nel quale Aquileia «teneva sempre il primo posto» fra le comunità friulane

pur non rientrando più fra le tre maiores. Inoltre egli versava alla chiesa aquileiese un canone

(podestaria) che andava ad aggiungersi ai redditi della muta, del casaticum, del dazio del vino, del

ripaticum, del teloneum, della sclusa ecc.

La sede ben difesa dei patriarchi Anche se i patriarchi con la loro Curia “itinerante” giravano il Friuli (da Soffumbergo a Sacile, da

Gemona a Monfalcone a Portogruaro) e magari preferivano risiedere a Cividale, il duomo di quest’ultima

ospitò al massimo la cerimonia dell’investitura temporale dei principi ecclesiastici, poiché la sede ufficiale

– non solo spirituale – rimase senza dubbio Aquileia, dove continuò sempre a svolgersi, con grande

concorso di popolo, la «presa di possesso dei patriarchi», cioè la cerimonia formale di insediamento dei

successori di sant’Ermacora. E anche quando, con Bertoldo di Andechs, la residenza preferita cominciò

a diventare Udine, Aquileia rimase fra le piazze commerciali più importanti del Friuli insieme a Cividale e

Sacile, occupando quel posto eminente nella storia regionale che avrà per tutto il tardo medioevo. Essa

traeva grande vantaggio dalla presenza del Capitolo della cattedrale (che aveva il diritto di eleggere il

patriarca «novello» e che all’inizio del XIII secolo contava ancora cinquanta membri, mentre i Capitoli

minori di Santo Stefano e dei Santi Felice e Fortunato erano composti di otto canonici l’uno),

dell’arcidiacono di Aquileia (erede dell’unico arcidiacono che originariamente affiancava il patriarca e

dalla metà del Duecento titolare del solo arcidiaconato inferior, preposto alla assistenza e sorveglianza

delle parrocchie della bassa pianura), di una delle canipe del Patriarcato e – saltuariamente – della Curia

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patriarcale e del Parlamento della Patria.

Oltre a poter contare sulla presenza di strutture importanti: la cattedrale, che rimase sede dei

concili provinciali; l’arteria fluviale su cui si affacciava la banchina lunga oltre 300 m dello scalo portuale

posto a sud dell’abitato, dal 1248 riaperto e nuovamente fornito del diritto doganale detto portorium la cui

riscossione per un po’ era stata spostata a Gemona; o la cerchia delle mura, che nel primo terzo del

Duecento fu ampliata verso sud e sud-ovest per “munire” il porto stesso e proteggere il borgo da tempo

sviluppatosi spontaneamente ex illa ripa, cioè sulla sponda meridionale del Natissa, al di là del quale

intorno al 1230 fu scavato il «fossato» significativamente chiamato «della Comunità» (in quanto voluto

dal Comune e non dal patriarca) ed entro il 1234 fu costruito il ponte della Beligna. Con l’acqua derivata

dal Natissa, il canale «bagnava» le nuove «mura di mezzodì e poi piegava verso il mare, senza più

riunirsi al primo» ramo del fiume, che lambiva le mura orientali e poi «facendo angolo verso ponente…

attraversava tutta la città» fuoriuscendo all’altezza della “bocca” del porto medievale aquileiese, dove si

riuniva al ramo secondario che, staccatosi presso Monastero, «correva fuori delle mura di settentrione e

di ponente». Il “fossato castellano” di Aquileia era valicabile solo in quattro punti: a nord presso la porta

Omnium Sanctorum, “di Tutti i Santi” (nome dell’omonima chiesa vicina), più tardi ribattezzata Utina (“di

Udine”) e quindi dell’Ospitale (dall’antistante xenodochium di Sant’Ilario); a sud presso la porta Belinie,

“della Beligna” (nome della località ubicata a mezzogiorno della città); a ovest presso la porta de Faytiula

(nome connesso al friulano faéit o faiét, “faggeta”) e a nord-ovest presso la porta Molendini, “del Mulino”

(vicino al mulino del Comune), poi detta Sancti Siri, “di San Siro” (titolare della chiesa vicina) e in seguito

Montoni, “di Montono” (“mucchio”, dal latino mons; nome della zona urbana ove si trovava la contrata di

S. Siro). Nella seconda metà del Duecento dovette aver luogo la ristrutturazione o rifacimento del

palazzo patriarcale: i documenti citano il «nuovo palazzo patriarcale» e la contrata «del nuovo palazzo

del patriarca».

Quello che si sarebbe in seguito rivelato l’ultimo ampliamento delle mura di Aquileia, portò la

superficie urbana a circa 53 ettari, mentre con il chilometro e mezzo di nuove muraglie la cinta sfiorò i 3

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km complessivi: dimensioni certo inferiori a quelle di altre città italiane dell’epoca, ma comunque

attribuibili a una città in espansione, seppure di proporzioni limitate. In effetti, se è vero che

«l’espansione urbana della sede del principe» risultò «modesta», essa rappresentò in maniera

esemplare quella «serie di centri tendenzialmente urbani» friulani «di antica origine» che al di là delle

proprie mura non svolsero un effettivo «ruolo di organizzazione complessiva del territorio rurale», ma il

cui processo di espansione «seguì un ritmo non dissimile da quello del resto d’Italia», pur senza che si

registrasse «lo sviluppo di una città egemone».

L’economia Va ricordato che la riapertura del porto fluviale avvenne su richiesta della Serenissima («Bertoldo

promise alla Signoria di Venezia di togliere la catena del porto»), che nel Duecento aveva nel «centro

portuale» di Aquileia interessi notevoli (per il resto, i possessi veneziani si concentravano nel Friuli

occidentale), testimoniati non solo dallo speciale privilegio concesso ai portulani (membri degli

equipaggi) veneziani di esportare dal Friuli le granaglie necessarie alle loro famiglie, ma anche dal

frequente appalto a veneziani della muta aquileiese e soprattutto dal fatto che la Dominante aveva in

Aquileia un proprio vicecomes o vicedominus, ufficiale rappresentante il comune Veneciarum, per il

quale aveva giurisdizione in tutto il patriarcato sulle controversie tra i mercanti veneti operanti in loco e

su quelle insorte fra questi e i sudditi patriarcali, controllava le misure, apponeva il marchio sulle merci in

partenza per la città marciana e verificava quelle di lì provenienti esigendone i relativi diritti. Per questi

uffici, in cui era assistito da un notaio veneziano, riscuoteva “la quarantesima” sugli introiti delle due

stationes spettanti ai mercanti veneziani, una ubicata nella Ruga de draparia, “via dei drappieri”

(venditori di drapi, tessuti molto fini soprattutto da abbigliamento), e l’altra nella piazza principale (in

foro).

Chiamando gli aquileiesi cives, lo stesso patriarca moravo nel 1231 attestò la piena efficienza del

libero comune di Aquileia, che l’anno seguente ebbe l’onore di ospitare l’imperatore Federico II

(fermatosi in Friuli con il figlio per ben due mesi) e che, come ogni comune degno di tale nome, poteva

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contare su un fiorente mercato e su dettagliati ordinamenti civici, i celebri “statuti”.

Durante gli oltre trent’anni del mandato di Bertoldo, «Aquileia ci appare insieme a Cividale e a

Sacile come una delle piazze commerciali più importanti del Friuli» e «nella seconda metà del secolo XIII

il commercio doveva essere abbastanza vivace», tanto che fino allo scoppio della guerra (1283) fra

Raimondo della Torre e la Repubblica marciana, Aquileia era uno dei tre porti friulani (gli altri erano

Portogruaro e Latisana) in cui il Maggior Consiglio consentiva il commercio ai mercanti veneziani: dalle

marche orientali tedesche le merci puntavano sui porti del Friuli e da questi proseguivano verso Venezia

via mare o per canali interni, come confermano le delibere dello stesso organismo che nel 1268/71

accomunano Theotonici e Furlani.

Nel territorio aquileiese si producevano ed esportavano orzo, miglio, sorgo, miele, vino, olio e

pesce, si importavano sale e altri victualia (fra cui altri vini e animali acquatici), si lavoravano e

negoziavano drapi, si commerciavano sale, pece, legname, ferro e altri metalli, per cui «dovevano poi

esistere ad Aquileia numerosi commercianti al minuto, osti e macellai, ed artieri». Le fonti parlano di

sarti, drappieri, tessitori, conciapelli, maniscalchi, pescivendoli, falegnami, calzolai, fabbri, barbieri,

farmacisti, fornai e così via, ma non possiamo certo escludere la presenza di altri importanti artigiani

medievali, fiolarii e figuli (vetrai e vasai). Tutti costoro erano soggetti a «gravi restrizioni» legate ai diritti

feudali del patriarca e del suo avvocato (l’infido conte di Gorizia), in particolare per quei beni che erano

goduti “a censo aquileiese”: proprio su tale punto intervenne Bertoldo nel 1231, favorendo le alienazioni

e le successioni testamentarie fra privati per contribuire a dare ulteriore slancio all’economia cittadina.

La citata guerra fra Patriarcato e Serenissima (1283/91) dimostrò l’efficienza militare di Aquileia

alla fine del XIII secolo, giacché dal suo porto salpò nel 1290 una spedizione navale che arrecò gravi

danni a Caorle e sottrasse ai Veneziani diverse navi; ma ciò provocò «l’ira di Venezia», «stroncò per

lungo tempo le pacifiche relazioni commerciali fra il Friuli e la grande città Adriatica» e segnò l’inizio della

crisi: anche se fin dai primi anni novanta ripresero i contatti e Venezia consentì l’importazione di tessuti e

altre merci (drapi et alia) dal Friuli e rimise in attività le sue due stationes, il commercio aquileiese

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«aveva ricevuto però dalla lunga guerra grave detrimento».

Il primo Trecento Di lì a poco, la città fu colpita da una grave inondazione: l’8 settembre 1317 le acque del Natisone

allagarono la pianura sommergendo anche Aquileia e provocando danni tali che venti giorni dopo il papa

Giovanni XXII scrisse da Avignone al neoeletto patriarca Gastone della Torre promettendo indulgenze a

chi avesse contribuito al rifacimento e rafforzamento degli argini. La submersio fu l’ennesima di una

lunga serie che – come ricorda il testo pontificio – andò via via sgretolando le rive e minando alle

fondamenta le costruzioni, oltre a contribuire a rendere precario l’equilibrio di un territorio ricco di zone

palustri fin dall’antichità, come già notarono un acuto erudito settecentesco, sottolineando «l’azione

prodotta dalle alluvioni dei corsi d’acqua alla città», e poi uno storico degli anni Trenta del Novecento,

evidenziando la «funestamente grave e potente azione distruggitrice della Natissa… con le sue alluvioni,

alimentate dal concorso dei fiumi vicini».

L’ex arcivescovo di Milano in esilio morì prima di giungere in Friuli a prender possesso della nuova

cattedra, ma si ritiene che il suo successore Pagano della Torre abbia dato esecuzione alla lettera

pontificia: operò infatti in favore della ripresa degli scambi e per il restauro di quella che il papa aveva

definito città «eminentissima e nobile» e che dal 1323 – in piena “fioritura” delle comunità urbane

regionali – fu dotata del palazzo comunale, opera che non sarebbe stata nemmeno concepita se le

condizioni generali della cittadina non fossero perlomeno migliorate.

Un segno del discreto stato di “salute” dell’Aquileia del primo trentennio del Trecento è anche dato

dal sussistere dei pellegrinaggi: l’ex capitale della decima regio augustea infatti non solo era uno dei

punti d’imbarco sulle rotte dei pellegrini provenienti dall’Europa settentrionale e orientale e diretti a

Roma, Santiago de Compostela o Gerusalemme (come pure ad Assisi, Bari o altrove), ma costituiva

anche di per sé una meta di pellegrinaggio. Al di là dei peregrini romei, jacopei o palmieri, l’epistola di

Giovanni XXII attesta che in Aquileia si registrava un «grande afflusso di fedeli» che «per devozione»

raggiungevano la cattedrale patriarcale «a motivo della sua grande dignità», provenienti non soltanto dai

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territori del Patriarcato «ma da regioni lontane». Come fin dall’epoca paleocristiana era accaduto per le

“memorie” dei martiri, dal santuario dei fratelli Canziani a quello sorto alle sorgenti del Timavo, alle

numerose chiese aquileiesi in cui si veneravano reliquie di diversi santi, prima fra tutte la cattedrale:lì

esse venivano esposte solennemente in occasione della Settimana Santa o di specifici pellegrinaggi: lì si

potevano lucrare le indulgenze legate al pellegrinaggio gerosolimitano grazie alla fedele riproduzione

marmorea in scala del Santo Sepolcro che tuttora si può ammirare (“segno” della Terrasanta voluto

verosimilmente da Poppone per il millenario della Redenzione, esso era pure usato per l’annuale

“riposizione” del Signore, il giovedì santo); lì una lapide ancora ricorda le indulgenze concesse da papa

Giovanni XIX (1033) ai pellegrini in visita e lì si possono persino leggere graffiti commemorativi lasciati

da sconosciuti devoti su affreschi della cosiddetta “chiesa dei pagani” a partire dal Quattrocento e

analoghe incisioni votive eseguite almeno dal primo Duecento da ignoti viatores ad martyres su

affreschi della cripta.

L’inizio della decadenza… Dagli anni trenta del XIV secolo incominciò la crisi. Il patriarca – e futuro beato – Bertrando di Saint

Geniès ripristinò il palazzo patriarcale, convocò il sinodo del clero diocesano (1338) e il suo secondo

concilio provinciale (1339) proprio ad Aquileia, alla cui massiccia torre campanaria fece aggiungere lo

slanciato coronamento conico mentre per la basilica fece scolpire l’urna per le reliquie dei patroni

Ermacora e Fortunato (nelle cui marmoree geometrie invece avrebbero di lì a poco trovato pace le sue

spoglie mortali), e cercò in tutti i modi «di rianimare i traffici, ma poco poté giovare date le continue

guerre che sconvolsero il paese durante il suo lungo principato», conflitti ai quali si sommarono molti altri

problemi, rendendo la situazione piuttosto precaria.

Innanzitutto la crisi economica: nonostante «un notevole movimento d’affari derivante dal

commercio del vino» rendesse al Comune di Aquileia ben 40 marche di denari, essa ebbe due

evidentissimi riflessi nell’«imperversare dell’usura», che costrinse il presule guascone nel 1341 a vietare

prestiti agli abitanti di Aquileia a tassi superiori a «un denaro per marca alla settimana» (pari al 32 %

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ca.), e nella «diminuzione dei redditi derivanti alla finanza patriarcale dai proventi dei dazi», malgrado la

decisione (1337) che i «carri di mercanzia» in transito alla muta di Gemona dovessero raggiungere la

pianura percorrendo la strada diretta ad Aquileia.

Inoltre, già dallo scorcio del Duecento le condizioni igienico-sanitarie di Aquileia erano andate

peggiorando di pari passo con l’impaludamento dei terreni circostanti, che procedeva da secoli favorito

dalle esondazioni dei corsi d’acqua (già nel 1275 tutti i fiumi del Friuli avevano rotto gli argini e inondato

la pianura come all’epoca dell’aquae diluvium delle Venezie del 589 descritto da Paolo Diacono) o altre

cause naturali e dall’assenza di “cure” umane, ed era causa a sua volta di un certo ristagno

demografico.

Riguardo la popolazione dell’Aquileia trecentesca sono state proposte cifre oscillanti fra i cento e i

cinquecento abitanti: in realtà, come per l’antichità, anche per il medioevo «un calcolo effettivo degli

abitanti non è mai stato appoggiato su elementi credibili e condivisibili»; e la stima pare approssimata

per difetto anche se riferita alla seconda metà del secolo, dopo che terremoto, peste e carestia (1348)

avevano infierito sui cittadini.

È vero che nel 1353/54, d’intesa con i canonici, il patriarca Niccolò di Lussemburgo propose al

pontefice Innocenzo VI di trasferire la sede diocesana a Udine in quanto la cattedrale di Aquileia era

terremotata e la zona circostante comunque malsana a causa dell’impaludamento, ma è risaputo che il

presule nutriva una spiccata predilezione per Udine e che la sua proposta trovò ascolto solo

inizialmente, poi non ebbe seguito. Pur tramontando lentamente, Aquileia manteneva intatto il suo “mito”

anche presso la Sede romana, ciò che non avrebbe potuto avvenire in… assenza di popolazione.

D’altronde, escludendo dal conteggio «un buon terzo della popolazione» in quanto costituito da canonici,

religiosi e religiose, e calcolando che un nucleo familiare dell’epoca annoverava almeno tre bambini oltre

alla coppia dei genitori, neppure nella migliore delle ipotesi riportate (cinquecento residenti) la città

avrebbe potuto soddisfare le richieste di armati (elmos, balistas e soprattutto pedones) per le varie

incombenze di carattere militare: dei due terzi laici della popolazione solo un quinto (circa 67 homini)

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sarebbe stato teoricamente in grado di “usare le mani”, ma da esso avrebbe dovuto essere escluso

almeno un piccolo numero di individui – anziani e/o disabili – non idonei al combattimento e d’altra parte

i soli equites (i soggetti obbligati per vincolo feudale e status economico a servire a cavallo: una

minoranza rispetto all’intera popolazione) richiesti erano sempre almeno un’ottantina…

Una «progressiva decadenza» del Comune nel corso del secolo XIV è attestata dall’indebolimento

della sua «efficienza politica» tra le Comunità parlamentari friulane e confermata proprio dalla

«diminuzione degli obblighi militari», ma è meno drastica di quanto si pensi. La talea militiae o impositio

equitum richiesta al Comune aquileiese per la difesa del Patriarcato, dagli otto elmi (24 uomini e

altrettanti cavalli, essendo costituito l’elmus almeno da cavaliere, scudiero e servente, con destriero da

battaglia, palafreno e ronzino) e quattro baliste (da 8 a 12 uomini e altrettante cavalcature, essendo

formata la balista da 2 o 3 balestrieri e altrettanti equini) del 1327 fu ridotta a quattro elmi e quattro

baliste «a causa dello stato deteriorato della città» nel 1352, dopodiché scese a tre elmi e tre baliste nel

1360 e si ridusse infine a un solo elmus nel 1402, poi due equos (almeno due milites) per la cavalaria

patriarcale nel 1413. Va però detto che, oltre alla talea spettante al Comune, Aquileia contribuiva alla

milizia patriarcale con i contingenti forniti dalle altre entità feudali che avevano “voce” in parlamento e

dalle benedettine: al Capitolo erano richiesti dieci elmi e due baliste nel 1327, rimasti invariati fino al

1413 quando si parlò di ventidue equi; l’abbazia della Beligna doveva fornire due elmi nel 1327,

anch’essi costanti fino al 1413, quando divennero quattro equi; la prepositura di Santo Stefano nel 1327

inviava tre elmi e una balista, divenuti nel 1413 sette equi; la prepositura dei Santi Felice e Fortunato

aveva l’obbligo di una sola balista, confermata fino al solo equus previsto nel 1413; il monasterium

maius delle benedettine nel 1327 era tenuto a fornire due elmi e una balista, accresciuti di un’altra

balista nel 1352 e poi rimasti stabili fino ai tre equi del 1413. Dunque, Aquileia fornì in tutto 25 elmi più 9

baliste nel 1327, 21 più 10 nel ’52, 20 più 9 nel ’60, 18 più 6 nel 1402 e 39 equi nel 1413, per un totale di

un centinaio di armati nel 1327, una novantina nel ’52, un’ottantina nel ’60, nel 1402 e nel 1413, con un

decremento non così accentuato.

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Alla richiesta di armati dotati di cavalcature si aggiungeva la impositio peditum riguardante i

popolani in grado di usare le armi (homini da fatti), che costituivano le centinaia di pedoni da presentare

suddivisi in decene per le cernide o i numerosi uomini da fornire per le guardie (diurna e notturna) e nel

caso di attacco alla città: anche se molti di essi provenivano dal contado, non è possibile che – per

esempio – tutte le sedici decine di pedoni (160 uomini) della badessa aquileiese risiedessero fuori città…

Terremoti, malaria e conflitti Ma anche altre furono le concause del declino. Innanzitutto i terremoti, che a più riprese colpirono

il Friuli. In particolare, dopo il grande sisma del 1279, che causò danni alla cattedrale aquileiese e

all’intera regione, e quello violento del 1301, che ebbe il suo epicentro nel cividalese ma si fece sentire

anche ad Aquileia, fu devastante il terremoto del 1348, che – in un anno funestato anche dalla

famigerata peste nera e dalla carestia, tanto da diventare tristemente proverbiale – danneggiò

pesantemente la basilica (ecclesiam aquilegensis propter terremotum corruit) e provocò lesioni e crolli in

tutta la città. Nel primo pomeriggio del 25 gennaio 1348 una leggera scossa ne preannunciò una

seconda forte e una terza rovinosa, che causarono gravissimi “guasti” a case, chiese e castelli, da

Villaco (l’epicentro fu in Carinzia) ad Aquileia, dove oltre alla basilica dovettero subire danni anche altri

edifici, tra cui le botteghe del forum. Se infatti è ben noto che restauri della basilica furono avviati dal

patriarca Bertrando (m. 1350) e portati a compimento da Marquardo di Randeck e dai successori, la

momentanea scomparsa dai documenti delle stationes, in precedenza menzionate spesso, è stata

ipoteticamente ricollegata proprio al terremoto del ’48. Tutto però lascia ritenere che nel XV secolo esse

abbiano ripreso a funzionare: durante la Settimana Santa, che si apriva con la processione della

Domenica delle Palme dalla cattedrale alla basilica dei Santi Felice e Fortunato e ritorno con l’ulivo

benedetto (ne ebbe poi origine una sacra rappresentazione) e che proseguiva con le liturgie dei giorni

seguenti fino all’affollata celebrazione pasquale, ad Aquileia si teneva la «grande fiera» a cui

partecipavano anche mercanti da Udine e Venezia, ai quali il Capitolo «affittava le botteghe» mentre il

Comune dava in affitto «lo spazio per tener depositate le loro merci», così come accadeva anche in

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occasione del mercato che accompagnava l’altra «solennissima» e frequentatissima festa dei santi

patroni Ermacora e Fortunato, il 12 luglio.

Sul “tramonto” di Aquileia pesò notevolmente anche il progressivo peggioramento della salubrità

del clima, con il pericolo costante rappresentato dalla malaria, sempre più consistente in seguito

all’estendersi dell’impaludamento. D’altronde, la bassa pianura friulana è tuttora costituita da «suoli

grassi e umidi, su cui ha potuto svilupparsi nel passato una ricca vegetazione, ma che hanno sofferto

per lunghi periodi del ristagno delle acque, il cui deflusso al mare è ostacolato dalla debole pendenza e

dalla presenza di depressioni», cosicché «nelle aree paludose la malaria insidiò per secoli

l’insediamento e limitò le utilizzazioni». In effetti, dalla seconda metà del Duecento in poi la malaria fu un

grave problema per la città e l’hinterland aquileiese: proprio per l’insalubrità dell’aria, nel 1299 il Maggior

Consiglio della Serenissima concesse al proprio vicedomino di risiedere nei mesi peggiori in altra località

friulana dove il clima gli sembrasse più sano; per lo stesso motivo, nella seconda metà del Trecento fu

attivo ad Aquileia il Magister aquarum (“Magistrato delle acque”) patriarcale, incaricato di evitare il

ristagno delle acque controllando che i canali fossero costantemente “spurgati” ed emettendo ordinanze

da osservare senza eccezioni; e sempre per la medesima ragione, lo Statuto del 1475 legherà privilegi

speciali all’ottenimento della cittadinanza, dato che «Aquileia, a cagione della malaria, era povera di

abitanti» ed era quindi «necessario attrarre abitatori» con concessioni straordinarie di «immunità,

privilegi, esenzioni…».

Infine, il fattore forse decisivo per la decadenza della civitas vetusta fu costituito dalle numerose,

dispendiose e sanguinose guerre che costellarono il XIV secolo e culminarono nella guerra di Chioggia

(1378/81), alla fine del patriarcato di Marquardo. Proprio durante il mandato del presule tedesco,

Aquileia aveva ritrovato un periodo di pace e stabilità politica, che aveva permesso di rilanciare i

commerci e riavviare l’agricoltura, ma dopo quella guerra che devastò i territori di Aquileia, Marano,

Muggia e Portogruaro, le contrapposizioni proseguirono quasi senza tregua e finirono per infliggere il

colpo di grazia al commercio locale e ai movimenti del porto aquileiese. I conflitti «dovettero inaridire le

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fonti della ricchezza aquileiese, deviando le correnti commerciali», anche se «finché durò il governo

civile dei patriarchi, un certo volume di affari vi si dovette svolgere, perché Aquileia, insieme a Cividale e

a Udine, era sede d’una delle tre canipe patriarcali ove affluivano i prodotti dovuti al grande principe

ecclesiastico dalle sue gastaldie ed altri proventi in natura».

Quindi la bassa congiuntura economica, il ristagno demografico, la perdita di “peso” politico, i

terremoti, la malaria e le guerre furono i principali «flagelli» – strettamente correlati – che contribuirono

«a stroncare la rinascita medievale del porto e del mercato Aquileiese che s’era abbastanza bene

avviata nel secolo XIII» e che accompagnarono l’ultima fase, di graduale ridimensionamento, del potere

temporale dei patriarchi, che si esaurì completamente alla fine del secondo decennio del XV secolo, con

la conquista militare veneziana. L’ultimo a curarsi della sopravvivenza di Aquileia fu Antonio I Caetani

sullo scorcio del Trecento, ma con scarsa decisione.

Un Comune comunque vivo Nonostante tutto, bisogna ammettere che Aquileia, «seppure come città in declino», visse

ugualmente la sua «fase comunale»: certo, come nel resto del patriarcato anche qui il Comune ebbe

uno sviluppo ridotto, ancor più che altrove frenato dagli strettissimi vincoli nei confronti del patriarca,

eppure, se anche la città conobbe proprio allora un periodo di depressione, «non bisogna pensare che

commerci, mercati, artigianato, la stessa vita sociale e urbana fossero cessati».

Una prima conferma viene dal settore notarile, giacché nel corso del XIV secolo in città

esercitarono almeno venti notai, spesso investiti di alti incarichi, dal cancellierato alla rappresentanza

della Comunità nel Parlamento: in ordine alfabetico, gli aquileiesi Antonio, Cichinus, Francesco,

Giovanni Guglielmo quondam Martino, Lorenzo (al quale si devono anche dei versi in lingua volgare

friulana), Maffeo di Biagio, Michilusius o Nicolussio, Moretto, Nicolò Guillelmi, Vito e Zanino, oltre ai

friulani Dorlico de Alturis, Iacopo di Tura da Cividale, Martino di Stefano da Flambro e Odorico da

Gonars, più i cremonesi Bartolomeo di Guglielmo de Casanova e Gabriele di Enrigino, il milanese

Filippino di Leone da Farra, il bergamasco Tealdo e il veneziano Tommaso Tebaidi, degni “eredi” del

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dominus Artusio da Lienz, attestato dal 1248 al 1289, e di Alberto figlio di Negro e Merla, documentato

magister, medico, notarius e cancelliere fra il 1193 e il 1217.

Anche recenti scavi archeologici hanno fornito dati risalenti a questo periodo. Si è avuta tra l’altro

conferma che all’epoca ad Aquileia non mancava la produzione ceramica: la fornace era «necessaria nei

principali insediamenti abitativi e in ogni territorio sottoposto a feudo o a giurisdizione ecclesiastica»

anche per le numerose attività di cui diventava il fulcro. Secondo le fonti d’archivio, fra metà XIII secolo e

fine XIV, in città funzionò almeno una fornace sulla riva sinistra del braccio meridionale del Natissa, fra le

poche case e i numerosi campi affacciati sulla via pubblica parallela all’argine, nell’insediamento sorto

attorno alla chiesa di S. Cosma sull’area già occupata da un mercato romano. D’altronde, una città nel

cui hinterland la materia prima era abbondante e il combustibile per la cottura dei manufatti non

scarseggiava era l’ideale per l’attività del figulus, che garantiva ai residenti perlomeno i prodotti seriali di

uso domestico quotidiano. Lo studio dei reperti fittili e vitrei ha confermato per Aquileia la funzione di

nodo d’interscambio fra centro Europa e mondo veneto/bizantino svolta dal Friuli e ha ribadito la

possibilità di produzioni locali prima aprioristicamente escluse a vantaggio di sedi (Venezia o la

Romagna per la ceramica; Murano per il vetro) la cui egemonia durante il medioevo non è affatto certa

né assoluta.

Una città turrita Malgrado le scoperte fatte negli ultimi decenni, resta difficile ricostruire l’effettivo aspetto della

Aquileia medievale, a causa delle trasformazioni, talvolta rovinose, subite dalla cittadina: tuttavia è

possibile farsi un’idea piuttosto vicina alla realtà, poiché le mura merlate “alla guelfa” e parte delle

abitazioni medievali rimasero quasi intatte fino al Settecento e furono viste da diversi testimoni attendibili

che le descrissero fedelmente, ognuno a modo suo, usando la penna o il pennello.

Si può allora provare a immaginare l’aspetto di quella Aquileia così lontana da noi eppure così

familiare: le strade e le piazze principali erano intersecate e collegate tra loro e con l’argine del

Natissa da viuzze secondarie dette androne, da quella «presso la chiesa» a quella «per la quale si va

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al fiume»; le case erano generalmente costruite secondo progetti collettivi piuttosto dettagliati, erano

simmetriche e sufficientemente uniformi. Anche ad Aquileia molte architetture spiccavano nel tessuto

urbano per lo sviluppo in altezza: una casa con due torri (domus duarum turri) appartenente al

Capitolo (turres Capituli) è ricordata nelle fonti come concessa, dal 1222 in poi, ai nobili di Villalta,

della Torre, di Strassoldo, di Castello e Savorgnan, il cui nome rimase legato al rudere finché

sopravvisse («torri Savorgnane»); e altre case a forma di torre o dotate di torri dovevano appartenere

ai membri delle altre casate feudali residenti in Aquileia nel XIII-XIV secolo, dai de Aquileia agli

Ungrispach; né dovevano esserne privi i borghesi più abbienti, come l’“uomo d’affari” Marco Zorzani la

cui torre è ricordata alla fine del Duecento, mentre nessuna notizia è finora emersa su quella inglobata

nella futura casa Moschettini poi Brunner affacciata sull’attuale via Roma; evidente doveva poi essere

la “spinta” verticale della turris Fossule, ubicata nell’omonima zona della città, e della «torre

dell’Arena», chiaro prodotto del riuso a fini abitativo-difensivi di una torre per le scale dell’antico

anfiteatro, infeudata a partire dal 1300 successivamente ai nobili di Trussio, di Villalta, di Spilimbergo,

di Gemona e Savorgnan. E a tutto ciò andavano ad aggiungersi le torri difensive delle mura, quelle

delle porte urbiche (torri portaie) e i campanili delle numerose chiese, primo fra tutti quello della

cattedrale: strutture che conferivano anche ad Aquileia il tipico «profilo verticale di tante città

medievali», benché in questo caso «i motivi difensivi e di prestigio» abbiano sicuramente prevalso

sulla «ristrettezza degli spazi orizzontali» verificatasi in altre città in piena crescita demografica, e la

presenza di terreni non edificati entro la cinta muraria ampliata abbia senza dubbio consentito alla

comunità di dotarsi di “aree di riserva” indispensabili in caso di assedio prolungato, oltre che zone «di

osmosi e di compenetrazione tra campagna e città». A questo proposito, bisogna sottolineare

un’interessantissima connessione fra il patrimonio edilizio e quello fondiario: nel XIV secolo ad

Aquileia uno dei normali redditi dei fondi era il sistematico «asporto di pietre» destinate al reimpiego

come materiali da costruzione, particolarissimo tipo di rendita documentato da precisi riferimenti

contrattuali a operarii addetti a fodere lapides, cioè a “scavare” (estrarre) materiale lapideo da

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riutilizzare.

Topografia... divisa Dal punto di vista topografico, una delle due principali arterie urbane aquileiesi bassomedievali era

la contrata S. Andreae, tra le zone più frequentate e abitate della città: oltre alla chiesa dedicata al primo

apostolo (con annesso cimitero) che dava il nome alla strada, «tanto verso mezzodì, quanto verso

settentrione» su di essa si affacciavano le abitazioni di diversi calzolai (l’altro nome con cui era

conosciuta era non a caso quello di contrata de Caligareciis), muratori, fabbri, maniscalchi e altri

artigiani, qualche dimora di famiglie dal tenore di vita medio-alto (uno scavo nell’attuale via Roma restituì

un ragguardevole quantitativo di maiolica arcaica, pregiata tipologia ceramica indice di situazione

economica piuttosto buona), oltre ai palazzi della zecca (domus Monete) e delle carceri (Vincula), alle

abitazioni di alcuni mansionarii e a due case di proprietà dei Frati minori di Cividale. Poco più a nord

erano la contrata e la via publica che tra il XIII e il XV secolo venivano chiamate de Zadris, cioè “dei

teatri”, in riferimento alla presenza in quella stessa zona del teatro romano e alla vicinanza

dell’anfiteatro, dal quale prendeva nome nel Trecento la già citata torre “dell’Arena” e al quale erano

pure collegati nel XII-XIII secolo il toponimo Rena e il cognome locale de Rena.

La “via di Sant’Andrea” partiva dalla porta de Faytiula e si snodava verso levante, parallela al tratto

meridionale delle mura eretto lungo la sponda del Natissa e a stretto contatto con il centro politico-

economico, il Forum Civitatis Aquileiae o Platea Comunis. La “piazza del Comune” era costituita da

un’ampio slargo sul quale si affacciavano gli edifici più rappresentativi della comunità civile aquileiese,

ovvero il Palacium Comunis o Publicum, “palazzo municipale” (a sud prospiciente la strata regalis), e la

Lobia Comunitatis, “loggia civica”. Oltre alla statio Comunis, la panataria Comunis, gli staria Comunis, le

numerose stationes compresa la statio apotecarie, la Piscaria (posta a chiudere la piazza verso sud, in

riva al fiume presso l’omonimo ponte) e numerose abitazioni: le prime due espressioni designavano la

“rivendita” e il panificio del Comune, la terza faceva riferimento alle misure legali cui si faceva ricorso in

caso di controversie tra esercenti e avventori, la quarta e la quinta definivano genericamente le

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botteghe, i magazzini e gli spacci di vendita dei vari stationarii (commercianti o artigiani) nonché la

farmacia, e l’ultima designava il banco di vendita del pesce fresco. Ma soprattutto sulla piazza si

affacciava, con l’antistante portico (auditorium) e l’annessa cappella mortuaria (carnale), la chiesa di San

Giovanni Evangelista, erede diretta dell’omonima basilica sorta in area cimiteriale fuori dalle mura in

epoca paleocristiana (le reliquie dell’apostolo più longevo giunsero in città alla fine del IV sec.). Tutte le

piante e le vedute della città eseguite fra il Quattrocento e il Settecento raffigurano dettagliatamente la

city del comune medievale di Aquileia, sulla quale gravitavano anche il forno, almeno una fornace e più

di qualche locanda, ma il cui ricordo oggigiorno è mantenuto vivo soltanto da un nome, il toponimo

“piazza San Giovanni”. A sud di essa scorreva, inglobato nell’ultima “addizione” delle mura, il braccio

meridionale del Natissa, lungo il quale le fonti menzionano terreni ed edifici costruiti ex ista parte (o

super ripam fluminis) oppure ultra flumen (o ex illa ripa), cioè entro la sponda destra o al di là del corso

d’acqua.

Sia le contrade sia la piazza del Comune erano poste sotto il governo del podestà, il cui territorio di

competenza coincideva con quello della parrocchia di San Giovanni “in Piazza”, estendendosi a ponente

della contrata de Pala Crucis. Questa limitazione al potere comunale, tuttavia, non pare di origini

particolarmente antiche, poiché non se ne trova traccia prima del XV secolo inoltrato: come toponimo

Pala Crucis è infatti attestato almeno dal 1248, ma prima del 1460 esso non compare mai in documenti

ufficiali distintamente dal resto del territorio urbano, sicché si ritiene che la parte orientale della città sia

stata sottratta al governo comunale – con conseguenze non sempre pacifiche – e affidata al Capitolo

durante il patriarcato di Ludovico Trevisan, colui che nel 1445/51 dovette sottoscrivere gli accordi con

Venezia che sancirono la fine dell’indipendenza della Patria.

La contrada di Pala Crucis costituiva il cardo maximus della città medievale e si snodava

grossomodo lungo il tracciato dell’attuale via Giulia Augusta, dalla settentrionale porta Omnium

Sanctorum alla meridionale porta Belinie. A est di tale confine stava l’altro polo della città medievale: la

pieve di San Pietro o appunto Pala Crucis, che ricadeva sotto la Iurisdictio Capitularis, cioè sotto la

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giurisdizione del Capitolo della cattedrale patriarcale, esercitante il “mero e misto imperio” mediante il

gastaldus in Pala Crucis eletto a propria discrezione. La giurisdizione capitolare comprendeva la basilica

con l’alta torre campanaria e il battistero, il palazzo patriarcale (Patriarchatus o Patriarchale palacium)

dotato di cappella palatina e zardino, due torri “delle ore” (Turres Horarum) più tardi ridotte a una, il

camposanto, i magazzini (canepa o celarium Capituli) e le case dei canonici, la loggia capitolare (Logia

Capituli), il forno (domus furni Capituli), la «stufa pei bagni» (stupa Dominorum o Balnearis) e numerose

abitazioni private con orti.

Nel tardo medioevo, Aquileia era dunque una città a due “polmoni”, con l’angolo nord-occidentale

– la zona chiamata Fossula – riservato alle attività e alle persone legate a certi tabù dell’epoca, dagli

Ebrei (con sinagoga e cimitero proprio) ai beccai o macellai, dalle prostitute (postribulum) agli usurai,

veneziani o fiorentini che fossero; a nord delle mura si estendevano invece i possedimenti del monastero

benedettino femminile di Santa Maria extra muros e della prepositura di Santo Stefano, mentre le terre

meridionali intramurarie costituivano la terra S. Felicis, cioè il circondario della prepositura dei Santi

Felice e Fortunato, e quelle a sud delle mura erano di pertinenza dell’abbazia maschile di San Martino in

località Beligna.

In seguito alla morte di Marquardo (1381), la città conobbe un nuovo periodo difficile, che fu

ulteriormente aggravato dal saccheggio operato nel 1386 dalla banda di mercenari comandati da Facino

Cane, al soldo di Francesco da Carrara, nel corso della lunga guerra scatenatasi al momento

dell’elezione di Filippo d’Alençon a patriarca “commendatario”.

La conquista veneziana Il XIV secolo vide un’involuzione generale delle città in tutta l’Europa occidentale, ma Aquileia

subito dopo dovette fare i conti con un improvviso – benché non del tutto inatteso – cambio della

guardia, che ebbe effetti ambivalenti. Nel biennio 1418/20 la Serenissima condusse una rapida

campagna di annessione ai danni del Patriarcato, che se innegabilmente significò la fine

dell’indipendenza del Friuli, d’altro canto soddisfece alla «necessità vitale» veneziana di un

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potenziamento territoriale verso occidente e preservò l’individualità storico-culturale di un territorio già

nel mirino dei potentati transalpini, che avrebbero presto e facilmente inglobato una compagine politica

ormai anacronistica e soggetta a una progressiva, inarrestabile disgregazione causata da dissidi interni

insanabili e pressanti ingerenze dall’esterno. La conquista del Friuli si inserì nel processo di

ampliamento della Terraferma, territorio che garantiva alla Dominante rifornimenti d’ogni tipo e

interponeva un amplissimo “cuscinetto” fra il “cuore” della superpotenza lagunare e i suoi nemici.

La “rinascenza” aquileiese, avviata nel XIII secolo, venne così definitivamente stroncata dalla

conquista veneziana, «dopo un lungo alternarsi di tentativi di rilancio della città e fenomeni di segno

contrario: bellici, economici e naturali». Sgombrando il campo da affermazioni chiaramente esagerate

che descrivono Aquileia alla vigilia della conquista veneziana come «una tomba di patriarchi e un covo di

malfattori», occorre piuttosto mettere in risalto il fatto che ancora nel 1418 essa doveva poter contare su

difese alquanto efficienti se è vero che per conquistarla partirono da Venezia, «in appoggio alle truppe di

terra, oltre sessanta barche con quaranta balestrieri ciascuna»: ciononostante, soltanto il 3-4 agosto del

1420 essa venne annessa al dominio veneziano, ultima fra le storiche comunità friulane a capitolare

davanti allo strapotere di un vincitore che tuttavia le riconobbe il mantenimento delle antiche

consuetudines e svariati privilegi, fra cui il diritto «che per quattro miglia all’intorno non si potesse tener

mercato per salvaguardare quello di Aquileia».

L’assetto urbanistico della città subì in quel lasso di tempo delle modifiche sostanziali: per

esempio, la piazza del Comune cominciò a essere chiamata Platea Vetus, per distinguerla dal Forum

Novum Aquileiense, lo slargo di fronte alla chiesa di San Siro.

Concluso il mandato del primo patriarca non residente in Friuli (il Trevisan), durante il patriarcato

del suo successore Marco Barbo anche Aquileia temette di essere investita dalle incursioni delle bande

“turchesche” provenienti dai Balcani: per prepararsi a contrastarle, già nel 1478 il Capitolo decise di

fortificare il circondario della cattedrale compreso il palazzo patriarcale (in pratica, la zona urbana

chiamata Pala Crucis), attuando l’ultimo intervento di un certo rilievo sul sistema difensivo aquileiese,

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che era ancora fermo all’ampliamento duecentesco delle mura e in seguito non avrebbe conosciuto

ingrandimenti ma nemmeno ulteriori restauri, in ciò differenziando Aquileia dalle altre città, regionali,

italiane ed europee, a testimonianza del «venir meno della» sua «funzione economica, politica e

strategica».

In ogni caso, le mura “funzionarono” e, passata la nuova grave minaccia (che nelle leggende

popolari finì per confondersi con i racconti relativi alle nefande imprese degli Ungari e degli Unni), per

Aquileia incominciò a prospettarsi il declino definitivo, favorito dai nuovi patriarchi, che non vennero più a

vivere in Friuli ma governarono tramite vicari: in temporalibus per la gestione dello Stato, in spiritualibus

per la guida della diocesi, in pontificalibus per gli “uffici” prettamente episcopali. Non sempre esistono

prove di un vero disinteresse, «ma è certo che la lontananza del patriarca contribuì ad accelerare

l’abbandono di Aquileia».

Anche se l’iniziativa non ebbe poi gli effetti sperati, proprio in quel periodo (1495) il vacillante

Comune aquileiese rivolse una supplica al ben più prospero Comune di Udine (magnifica Comunitas

Utini), ottenendo l’aggregazione degli aquileiesi alla cittadinanza udinese e concedendo parimenti ai

cittadini di Udine il riconoscimento di cives aquileienses.

Ridimensionamento annunciato

Scelti fra i rampolli del patriziato veneto, i nuovi presuli rimasero “aquileiesi” solo nominalmente,

ma di fatto risiedettero dapprima a Udine e poi addirittura fuori dal Friuli, mentre l’antica capitale fu

annoverata fra le tante cittadine di terraferma della Serenissima fino al 1509 quando, allo scoppio del

conflitto fra Venezia e Massimiliano, le truppe imperiali la occuparono. E nonostante la pace di Worms

(1521) riconoscesse i diritti patriarcali sulla città, compresa la giurisdizione civile e criminale del Capitolo

su Pala Crucis e Beligna, gli abitanti di queste località si considerarono fin da allora «sotto i Regii». Più

tardi Aquileia fu posta ufficialmente «alla mercé degli imperiali» entro il territorio della contea di Gorizia

(ironia della sorte: quel che non era riuscito ai “goriziani” conti di Lurn riuscì agli Asburgo…) e andò

incontro a un lungo oblio, segnato dalla trascuratezza delle strutture architettoniche, dal calo della

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popolazione, dall’abbandono del rito patriarchino (la stessa solenne «presa di possesso dei patriarchi»

ben presto «passò in dimenticanza totale») e infine dalla soppressione della «seconda dignità dopo la

romana».

Dunque, la vera “rovina” di Aquileia non furono tanto gli Unni, i Longobardi, gli Ungari o i Turchi,

quanto l’incuria, l’indifferenza e la perdita di interesse a favore di altre località, in particolare Udine e

Cividale, che già dal XIV secolo si disputavano «il primato in Friuli» e che nel Quattrocento tentarono più

volte di assicurarsi almeno la residenza temporanea (estiva) dei canonici del Capitolo aquileiese, non

essendo neppure in discussione «per il momento di trasportare la sede patriarcale fuori di Aquileia».

Una parte dell’Aquileia medievale fu danneggiata o addirittura scomparve a causa della

trascuratezza a cui furono condannati i beni dati in commenda a ecclesiastici non del luogo, che si

limitavano a incamerare le cospicue rendite dei diversi “benefici” in barba a tutti i solleciti a restaurare gli

edifici e risiedere in loco. Ma ancor più pesanti furono le perdite negli ultimi tre secoli.

All’incendio appiccato dai soldati francesi il 23 luglio del 1703 nel corso di una delle tante scorrerie

di truppe austriache e transalpine nei territori di una Serenissima impegnata a mantenere la propria

neutralità fra le potenze europee in lotta per la successione spagnola, fecero riscontro le fiamme che

avvolsero e distrussero il palazzo comunale trecentesco nel 1749, alle quali seguì la sistematica

soppressione degli istituti religiosi – con conseguente demolizione degli edifici di culto, dalla “memoria”

dei Santi Ilario e Taziano alla basilica dei Santi Felice e Fortunato – favorita nella seconda metà del

Settecento dall’imperatore Giuseppe II d’Asburgo, riformatore “illuminato” anticlericale e accentratore,

alla cui opera devastatrice scamparono solo la basilica metropolitana e la chiesa di Sant’Andrea, rinata

in forme barocche dal 1697 e reintitolata a Sant’Antonio da Padova.

Altre vestigia furono demolite o decaddero per incuria nell’Ottocento e nel secolo scorso, quando si

arrivò perfino all’eccesso, seppellendo sotto il cemento armato una porzione del “sagrato” della basilica

e inserendo tra le sue navate romanico-gotiche e intorno alla base della torre campanaria dei “circuiti”

turistici in cristallo e metallo, tutto con l’avallo delle autorità preposte alla tutela dei beni culturali…

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Conclusione Al termine di questa “galoppata” attraverso i secoli, è del tutto evidente come la storia medievale

della città di Aquileia sia perfettamente in linea con quella di moltissime altre comunità urbane: una storia

fatta sì di momenti di decadenza, ma alternati ad altrettanti periodi di ripresa se non addirittura di

splendore. Unica vera differenza rispetto ad altre città, la mancata “ricrescita” dopo il forzato

ridimensionamento: ciononostante Aquileia, pur fortemente rimpicciolita rispetto all’antichità, visse!

In questo avvio del ventunesimo secolo, la speranza è che in un futuro non troppo lontano si

programmino anche ad Aquileia come già altrove seri interventi di tutela, sistematici scavi archeologici e

approfondite ricerche storico-archivistiche in ambito medievale, perché nel millennio intercorso fra

l’intervento attilano e quello veneziano essa fu – insieme a Udine, Cividale e poche altre località – uno

dei centri urbani più importanti dello compagine teocratica patriarcale, senza dubbio quello ancora per la

maggior parte da “svelare”, soprattutto a causa di un glorioso passato remoto che ha spesso finito per

costituire un ostacolo sulla strada della riscoperta della civitas medievale.