Abolizione della Pena di Morte in Italia

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L’ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE IN ITALIA Di Alessandra Rinaldi ed Erika Rotatori Sommario 1 : 1. In cammino verso la civiltà, pag. 1; 2. Il dibattito parlamentare, pag. 4; Bibliografia, pag. 8. 1. Il cammino verso la civiltà Dopo l’unificazione italiana si aprì aspro il dibattito circa l’abolizione della pena di morte come fulcro nodale inerente il sistema penale del regno, caratterizzato, come in molti altri campi, da grande eterogeneità. Le discrepanze tra le zone a dominio Sabaudo, che prevedevano la pena capitale, e la Toscana, dove al contrario era radicata la tradizione abolizionista, impedirono per oltre un ventennio di giungere ad un diritto penale unico nella penisola. L’opinione pubblica, per quanto frammentata e spesso d’elité, partecipò a tale dibattito grazie alla diffusione sempre maggiore di una serie di riviste, che spesso seguivano correnti più o meno conservatrici o progressiste. Il Giornale per l’abolizione della pena di morte, pubblicato da Pietro Ellero fino al 1864 è uno dei maggiori esempi di tali fermenti culturali appena fioriti, ma già così profondamente catalizzanti l’attenzione della borghesia, da essere seguiti anche da Mazzini e Garibaldi, che sappiamo essere legati da un ideale comune di unità nazionale, e tuttavia di estrazione profondamente diversa. Associazioni, adunanze popolari, riviste, circoli accademici, univano le più diverse e importanti personalità italiane verso questo nuovo ideale comune di stampo liberale e nello stesso tempo quasi-socialista, che il reo meritasse un’attenzione nuova, volta alla rieducazione e al reinserimento nella società, non solo sulla carta, come era stato per molti illuministi del secolo precedente ancora acerbi verso l’applicazione concreta, ma nella pratica penale di ogni giorno in un’Italia ormai tanto faticosamente unita. Il Congresso Giuridico Italiano del 1872 creò un’apposita commissione che esaminò la questione della pena di morte attraverso studi specifici e propose l’abolizione nel codice tramite il Presidente Mancini, che il Congresso votò all’unanimità. Tra le posizione più estreme la Rivista penale pubblicata nel 1874 da Luigi Lucchini auspicò l’abolizione perfino per i militari. 1 Il paragrafo 1. è da attribuirsi ad Alessandra Rinaldi; il paragrafo 2. ad Erika Rotatori.

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L’ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE IN

ITALIA Di Alessandra Rinaldi ed Erika Rotatori

Sommario1: 1. In cammino verso la civiltà, pag. 1; 2. Il dibattito parlamentare, pag. 4;

Bibliografia, pag. 8.

1. Il cammino verso la civiltà

Dopo l’unificazione italiana si aprì aspro il dibattito circa l’abolizione della pena di morte

come fulcro nodale inerente il sistema penale del regno, caratterizzato, come in molti altri

campi, da grande eterogeneità. Le discrepanze tra le zone a dominio Sabaudo, che

prevedevano la pena capitale, e la Toscana, dove al contrario era radicata la tradizione

abolizionista, impedirono per oltre un ventennio di giungere ad un diritto penale unico

nella penisola.

L’opinione pubblica, per quanto frammentata e spesso d’elité, partecipò a tale dibattito

grazie alla diffusione sempre maggiore di una serie di riviste, che spesso seguivano correnti

più o meno conservatrici o progressiste. Il Giornale per l’abolizione della pena di morte,

pubblicato da Pietro Ellero fino al 1864 è uno dei maggiori esempi di tali fermenti culturali

appena fioriti, ma già così profondamente catalizzanti l’attenzione della borghesia, da

essere seguiti anche da Mazzini e Garibaldi, che sappiamo essere legati da un ideale

comune di unità nazionale, e tuttavia di estrazione profondamente diversa. Associazioni,

adunanze popolari, riviste, circoli accademici, univano le più diverse e importanti

personalità italiane verso questo nuovo ideale comune di stampo liberale e nello stesso

tempo quasi-socialista, che il reo meritasse un’attenzione nuova, volta alla rieducazione e

al reinserimento nella società, non solo sulla carta, come era stato per molti illuministi del

secolo precedente ancora acerbi verso l’applicazione concreta, ma nella pratica penale di

ogni giorno in un’Italia ormai tanto faticosamente unita. Il Congresso Giuridico Italiano

del 1872 creò un’apposita commissione che esaminò la questione della pena di morte

attraverso studi specifici e propose l’abolizione nel codice tramite il Presidente Mancini,

che il Congresso votò all’unanimità. Tra le posizione più estreme la Rivista penale

pubblicata nel 1874 da Luigi Lucchini auspicò l’abolizione perfino per i militari.

1 Il paragrafo 1. è da attribuirsi ad Alessandra Rinaldi; il paragrafo 2. ad Erika Rotatori.

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Tuttavia non tutta l’opinione pubblica appoggiò le tesi abolizioniste emergenti,

caratterizzate dal grande attivismo dei fautori, che spesso si ispirarono alla precedente

esperienza Toscana della Leopoldina, con l’obiettivo di creare un nuovo codice depurato

dalle pene più aspre e inumane. Perplessità e ostilità maggiori si trovarono soprattutto in

ambiente clericale che, come ha sottolineato il Professor Caravale, hanno sin dai Padri

Fondatori tollerato la pena capitale come prerogativa del potere temporale per il

mantenimento dell’ordine costituito di volere divino2.

Dai risultati delle inchieste sull’argomento svolte dal Prefetto del Ministro Vigliani nel 1873

28 province erano favorevoli e 41 contrarie, anche se si nutrono dubbi sull’attendibilità di

tali sondaggi.

La posizione della magistratura si evince da due consultazioni del 1868 e del 1876 che

evidenziano una diversità di atteggiamento delle Corti di Cassazione3 e d’Appello: le prime,

in entrambe le occasioni si pronunciarono tutte per il mantenimento della pena capitale

con la sola eccezione, piuttosto prevedibile, di Firenze; le seconde furono in gran parte per

la conservazione della pena in prima battuta, e successivamente favorevoli all’abolizione

nella seconda consultazione. In queste stesse occasioni il Consiglio di Stato sostenne la

necessità di mantenere la pena di morte solo in casi di grave urgenza, per poi procedere

gradualmente verso l’abolizione, ponendosi quindi al centro del conflitto con una posizione

di tendenziale prudenza.

In quegli anni numerosi discorsi per l’inaugurazione degli anni giudiziari si occuparono del

tema dell’abolizione con orientamenti contrastanti e posizioni sfumate, tuttavia spesso

accadde che anche i più convinti sostenitori della pena capitale sarebbero stati disposti ad

accettare la sua cancellazione pur di giungere ad un’unificazione del codice penale sempre

più urgente e necessaria, in un’Italia unita ma caratterizzata da situazioni quali il

banditismo, il brigantaggio e la criminalità organizzata, che richiesero più di una volta la

proclamazione dello stato d’emergenza con l’uso delle forze militari tra i cittadini.

I verdetti delle giurie popolari che implicavano la condanna a morte sono stati interpretati

in diversi modi: per alcuni indicavano che il popolo fosse intimamente contrario

all’abolizione, per altri derivavano dal fatto che certamente la pena non sarebbe stata

concretamente applicata. In ogni caso tali sentenze tendono globalmente verso l’esigenza

dell’abolizione che è sempre più sentita.

Il numero delle condanne portate ad esecuzione diminuì sempre più dopo l’unificazione.

Già dopo il 1859 con l’annessione della Toscana il Regno Sabaudo, che fino ad allora aveva

2 Lectio Magistralis Pena senza morte del Professor Mario Caravale. 3 N.B. Ancora non si erano unificate in un’unica Corte di Cassazione.

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applicato la pena capitale con una discreta frequenza, subì l’influenza delle correnti

abolizioniste radicate in ambiente toscano. Tuttavia se in generale si può rilevare una

tendenza, sia pure tutt’altro che lineare, alla diminuzione quanto meno delle esecuzioni, il

fenomeno sino al momento della sospensione di fatto è tutt’altro che irrilevante. I reati per

i quali era comminata restarono per lo più omicidi, con però una particolare attenzione alle

sollevazioni popolari, sempre mal viste. Secondo i dati raccolti da Mancini tra il 1815 e il

1855, una volta abolita la prova legale e sostituito ad essa il criterio del libero

convincimento del giudice e l’istruzione orale col pubblico dibattimento, si ebbero in media

17 condanne e 9 esecuzioni l’anno e il numero dei crimini puniti con la pena capitale

diminuì sensibilmente anche dopo l’unificazione.

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2. Il dibattito parlamentare

Il lungo dibattito parlamentare prende piede già nel Regno di Sardegna prima

dell’unificazione. Nel 1856 Broferio rivolge alcune interpellanze riguardo al numero

eccessivo di esecuzioni al Ministro di grazia e giustizia De Foresta. Broferio pone

l’attenzione sull’inadeguatezza dei codici penali, dei giudizi criminali e delle condizioni

sociali, richiedendo la riduzione delle pene capitali e l’unanimità dei voti per pronunciarle.

Egli sostiene inoltre che non sia possibile cancellare la pena di morte senza rivedere

l’intera scala penale. Pochi giorni dopo Annoni propone di lasciare al giudice «la facoltà di

commutare la pena di morte in quella dei lavori forzati, ogniqualvolta concorrano

circostanze mitiganti a favore del colpevole…». Tuttavia De Foresta invita la Camera a

non aderire alla proposta di Annoni, poiché sono già in atto i lavori per un progetto di

riforma del codice penale, e inoltre cerca di bloccare tale proposta considerata contraria al

principio base del nostro diritto penale che vieta qualsiasi arbitrio del giudice

nell’applicazione della pena. Infatti la Camera non prenderà in considerazione il progetto

di Annoni.

Nel 1857 De Foresta presenta alla Camera il suo progetto di codice penale che prevede una

drastica riduzione dei casi in cui è comminata la pena di morte. Questo scatena un ampio

dibattito che comporterà l’arresto dell’ iter di formazione del progetto di De Foresta. Il 20

Novembre 1859 vengono conferiti al governo i pieni poteri esecutivi e legislativi a causa

della guerra con l’Austria. In questa occasione il ministro Rattazzi emana il nuovo codice

penale, con una riduzione dei casi in cui è comminata la pena di morte (di numero

maggiore rispetto al progetto di De Foresta), il quale viene esteso alla Lombardia e alle

altre province annesse dell’Italia centro settentrionale, ad eccezione della Toscana che

continuava a seguire il codice penale Lorense del 1853.

Nel 1860 il deputato Mazzoldi propone L’abolizione della pena capitale considerandola

«marchio di ferocia...», ma la Camera decide di seguire la proposta di La Farina, che

consiglia di rinviare la questione al momento in cui si prenderà in esame l’unificazione

legislativa. Con l’Unità d’Italia del 1861 sorge il problema sull’unificazione dei codici penali

allora vigenti: il codice in uso nel Regno di Sardegna, che prevede la pena capitale e il

codice del Granducato di Toscana, che in data 30 novembre 1786, sotto il regno di Pietro

Leopoldo Asburgo Lorena, è il primo Paese civile al mondo ad aver abolito la tortura e la

pena capitale con il codice Leopoldino, c. d. Leopoldina, l'insieme delle leggi penali in una

complessiva riforma della legislazione criminale toscana.

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Nel 1862 Miglietti propone di estendere il codice penale sardo del ’59, con alcune

modifiche, ma con il mantenimento della pena di morte se pur riservata ai casi

“atrocissimi”, poiché non ritiene ancora opportuno per le condizioni del Regno

promuovere l’abolizione completa della massima pena, tuttavia il progetto non viene

discusso a causa della caduta del Ministero e non viene neppure riproposto.

Dopo un tentativo del ‘64 di un nuovo codice penale bloccato dal parere sfavorevole del

Senato, i lavori riprendono quasi subito con la nomina di due commissioni:

- per la riforma del sistema carcerario

- per la compilazione di un nuovo codice penale.

Nella seduta del 25 marzo «la commissione delibera doversi costituire nel nuovo codice

penale, una scala di pene, in cui non figuri la pena di morte» accettata all’unanimità.

Il risultato è l’elaborazione di un progetto di codice senza pena di morte, accompagnato da

una relazione in cui si spiegano le ragioni di tale scelta.

Il Guardasigilli chiede il parere dell’Alta magistratura: si costituirà una nuova commissione

per stendere un nuovo testo, la quale deciderà che si debba limitare la comminazione,

poiché considerata prematura l’abolizione completa.

La commissione decide anche di non introdurre variazioni dei codici militari, si procede ad

una ulteriore stesura del codice penale nel quale viene reintrodotta la pena capitale in

pubblico mediante decapitazione, ma anche questo progetto però viene interrotto.

Nel frattempo viene esteso il codice del ’59 anche alla provincia di Roma ,Veneto e

Mantova.

Il governo continua a portare avanti l’idea che ancora non sia prudente eliminare una pena

che dalle autorità competenti è dichiarata ancora necessaria alla tutela della pubblica

sicurezza, tuttavia viene limitata a pochissimi reati come regicidio, parricidio, omicidio

premeditato.

L'orientamento abolizionista degli intellettuali italiani in generale, e degli studiosi di diritto

penale in particolare era ormai consolidato.

Nel 1976 Vigliani propone una serie di emendamenti e li affida ad una commissione,

tuttavia, mentre questa sta iniziando i lavori sul secondo libro, la Camera si scioglie.

Mancini, in attesa della riapertura della legislatura, chiede i pareri alle facoltà di

giurisprudenza, alla Corte di Cassazione, alle Accademie mediche e dei cultori di medicina

legale e psichiatrica; rivede il progetto e lo ripresenta alla Camera, seguito da una

relazione, e questa lo discute e lo approva.

Continuano i lavori per il secondo libro, ma senza grandi risultati, fino a che Zanardelli,

divenuto ministro, rivede tutto ed elabora nel 1883 un nuovo progetto di codice penale che

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conferma l’abolizione della pena capitale anche per dare sanzione legale allo stato di fatto

che si era creato già da tempo. Tuttavia anche Zanardelli lascia il Ministero senza aver

completato il lavoro.

Il suo progetto viene rielaborato durante l’estate e il 22 novembre viene ripresentato al

Parlamento con una relazione: sia la Camera che il Senato approvano il progetto e viene

pubblicata la legge che autorizza il Governo a pubblicare il codice entro il 30 giugno

dell’anno seguente.

Nell’udienza del 30 giugno Zanardelli presenta al Re il codice che entra in vigore il 30

giugno 1890.

Da questo momento, sino all’avvento del fascismo si avrà «la definitiva e irrevocabile

abolizione del patibolo».

Tuttavia la pena di morte era stata de facto abolita fin dal 1877, anno dell'amnistia generale

di Umberto I di Savoia (Decreto di amnistia del 18 gennaio 1878).

Il Codice Zanardelli sostituì il Codice penale del 1865 che era il Codice del Regno di

sardegna esteso (con qualche modificazione) all'intero territorio del Regno d’Italia, ad

esclusione della Toscana. Per tale ragione è solo con il presente Codice Zanardelli che si

raggiungerà la effettiva unificazione legislativa del Regno. Zanardelli ritiene che la legge

penale non debba mai dimenticare i diritti dell'uomo e del cittadino e che non debba

guardare al delinquente come ad un essere necessariamente irrecuperabile: non occorre

solo intimidire e reprimere, ma anche correggere ed educare.

La pena non è eliminata completamente dall’ordinamento italiano, è prevista dal codice

penale militare al quale il Governo regio fa ricorso in momenti giudicati di eccezionale

pericolo per l’ordine costituito.

Con l’istaurarsi del Fascismo, a seguito dell’attentato subito da Mussolini, la pena capitale

è reintrodotta per punire coloro che hanno attentato alla vita o alla libertà della famiglia

reale o del capo del governo e per vari reati contro lo stato. Nel 1930 è definitivamente

accolta nel nuovo codice penale.

Il c. d. codice Rocco, entrato in vigore il 1° luglio 1931, aumenta il numero dei reati contro

lo stato punibili con la morte e reintroduce la pena di morte per alcuni gravi reati comuni.

Dopo la caduta del regime fascista (25 luglio 1943), il 10 agosto 1944 il decreto legge n. 224

abolisce la pena di morte per tutti i reati previsti dal codice penale del 1931; essa è però

mantenuta in vigore in base al decreto n. 159 del 27 luglio 1944 per i reati fascisti e di

collaborazione con i nazi-fascisti. Dopo la fine della guerra il decreto luogotenenziale del 10

maggio 1945 ammette nuovamente la pena di morte come misura temporanea ed

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eccezionale anche per gravi reati come 'partecipazione a banda armata', 'rapina con uso di

violenza' ed 'estorsione'.

La Costituzione del 1948, ha dichiarato solennemente l’abolizione della pena capitale, che

solo nel 1994 l. n. 589 è completamente scomparsa dal nostro paese con l’eliminazione dal

codice militare di guerra4.

4 Lectio Magistralis Pena senza morte del Professor Mario Caravale.

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Bibliografia:

Mario Da Passano, La pena di morte nel Regno d'Italia, 1859-1889, in

AA.VV. I codici preunitari e il Codice Zanardelli, Padova 1993;

Sergio Vinciguerra (a cura di), I codici preunitari e il codice Zanardelli,

ed. Cedam, 1999.

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