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«Nominativi fritti e mappamondi»Il nonsense nella letteratura italiana Atti del Convegno di Cassino9-10 ottobre 2007a cura diGIUSEPPE ANTONELLIE CARLA CHIUMMO

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STU D I E SAG G I

COLLANA DIRETTA DA

PAO LO O RVI ETO

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SALERNO EDITRICEROMA

« NOMINATIVI fRITTI E MAPPAMONDI »

IL nonsense NELLA LETTERATURA ITALIANA

Atti del Convegno di Cassino 9-10 ottobre 2007

a cura di

GIUSEPPE ANTONELLI E CARLA CHIUMMO

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ISBN 978-88-8402-684-2

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Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.

Alla realizzazione della presente pubblicazione ha concorso con i propri fondi l’Università degli studi di Cassino -

Dipartimento di Filologia e storia.

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PREMESSA

Come dare un senso al nonsenso? Il terreno è scivoloso, ma proprio per questo invitante. Da una parte, la sfida critico-metodologica del definire e delimitare un genere (o una tecnica? o uno stile? o un linguaggio?) che di per sé non può essere rigidamente imbrigliato, pena la dissoluzione. Dall’altra, l’attraversamento di una tradizione nonsensical italiana che, pur con le sue specificità, si inserisce a pieno titolo nella grande tradizione europea: dalle fratrasies a Beckett, passando per Rabelais, Sterne, Lear, Carroll, Jarry.

Da qui il Convegno organizzato presso il Dipartimento di filologia e Storia dell’Università di Cassino (« nominativi fritti e mappamondi ». Il non-sense nella letteratura italiana, 7-9 ottobre 2007). Gli interventi partono dall’indagine su una possibile preistoria medievale del nonsense italiano (Berisso) per passare subito alla nascita “ufficiale” e al trionfo di questa tradizione poetica, con il nome di Burchiello e dei cosiddetti burchielle-schi ad occupare, con discrezione ora minore ora maggiore, l’àmbito quattro-cinquecentesco (Zaccarello, Decaria, Chiummo). Una tappa obbligata si rivela il Seicento in versi e in prosa (Crimi, Guaragnella) e, dopo una pausa settecentesca, ecco dispiegarsi un variegato e a tratti pi-rotecnico spazio tra fine Ottocento e, ancor piú, primo e secondo Nove-cento: non a caso, in questi Atti, con il maggior numero di interventi ad occuparsi di “lingue inventate” e strane miscele di surrealismo e nonsen-so vero e proprio, nel secolo post-cartesiano (e post-hegeliano: e si po-trebbe continuare con molti altri aggettivi accanto a quel prefisso squisi-tamente novecentesco) appena trascorso (Castoldi, Iermano, Anglani, Cedola, Baglioni, Afribo, Serianni).

Romanzi, poesie, opere e autori piú o meno noti, ma comunque illu-minanti per una nuova rilettura del rapporto antico/moderno e soprat-tutto per la fondazione del concetto stesso di modernità (Antonelli), a conferma della carica eversiva, e allo stesso tempo tutt’altro che pura-mente comico-autoreferenziale, del nonsense, parziale o assoluto, in un contesto refrattario alle barriere alto/basso, d’élite/di consumo, che vive anzi di travasi e travisamenti di ogni tipo. Come nella speciale e ricorren-

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premessa

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te contiguità, quando non sovrapposizione, con i piú svariati settori e linguaggi: da quello pittorico a quello teatrale e persino da schietto avan-spettacolo, o dalla trattatistica (paradossalmente) piú seria alla riscrittura tra parodia e metaletteratura. Si tratta di una sfida metodologica e di un’indagine storico-letteraria che nel presente volume interessa, nello specifico, un territorio come quello italiano, nel quale questa tradizione è tanto ricca quanto ancora poco indagata. forse perché troppo anticano-nica in una storia letteraria considerata fin troppo classicistica, o perché ritenuta poco rappresentativa, sebbene annoveri tra i suoi incunaboli l’enigmatico « Pape Satàn Pape Satàn Aleppe », insieme ad autori, ben oltre Dante, quali Pulci, Burchiello, folengo, e via di seguito, che hanno portato frutti tra i piú ricercati in ogni angolo d’Europa. E sebbene pro-prio negli ultimi anni sempre piú studiosi si siano impegnati a raccoglie-re e commentare un materiale cospicuo, per quantità e qualità, che fa ben sperare in un futuro ancora assai ricco di sorprese in questo peculia-re campo d’indagine.

Desideriamo qui ringraziare il Dipartimento di filologia e Storia dell’Università di Cassino, e in particolare i direttori, Silvana Casmirri e poi Edoardo Crisci, che hanno seguíto con generosità e sollecitudine l’organizzazione del Convegno e la pubblicazione degli Atti.

Cassino, dicembre 2008Giuseppe Antonelli

e Carla Chiummo

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Giuseppe Antonelli

Il nonSoché dEl nonSEnSo*

1. L’essenza del nonsenso

Dare un senso al nonsense può essere rischioso. In un divertissement di qualche anno fa, Umberto Eco sottoponeva una delle piú note filastroc-che infantili italiane – quella che comincia « Ambarabà ciccí coccò / tre civette sul comò » – a una dottissima analisi in cui l’erudita (e immagina-ria) bibliografia ostentava il ricorso ai piú raffinati, e all’epoca modaioli, strumenti d’indagine testuale.1 Prima la filologia, con la fissazione del testo critico in lingua originale e nelle traduzioni francese, tedesca e in-glese; poi la semiotica strutturalista, per evidenziare simmetrie semanti-che e opposizioni fonologiche, la psicanalisi di stampo lacaniano e la linguistica trasformazionale di Chomsky (« la WP ambarabà ciccí coccò – dove WP sta per “What? Phrase”, dalla esclamazione di Dwight Bolin-ger quando era stato esposto, come native informant, alla utterance del qui-nario »). Tutto questo per giungere – passando per gli pseudo Bloom e Derrida, Searle, Greimas – a un parziale scacco ermeneutico: « questo, e non altro, chiede a noi la Poesia ».

Il nonsense al quadrato prodotto da una simile parodia (ancor piú effi-cace perché applicata a un testo irrilevante, oltre che insignificante)2 suo-na quasi come un ammonimento: l’essenza del nonsense sfugge a una

* Devo preziose indicazioni a Carla Chiummo, Giuseppe Crimi, Luca Serianni, Elisa-betta Tarantino, Michelangelo Zaccarello: a tutti loro va il mio piú sentito ringraziamen-to. Una versione in inglese di questo contributo è stata pubblicata come introduzione al volume nonsense and other senses. Regulated Absurdity in Literature, a cura di Elisabetta Ta-rantino con la collaborazione di Carlo Caruso, Cambridge, Cambridge University Press, 2009, pp. 1-21.

1. U. Eco, Tre civette sul comò, in Id., Il secondo diario minimo, Milano, Bompiani, 20012, pp. 164-75.

2. Ciò non toglie che ci sia stato chi ha tentato sul serio una ricostruzione etimologica della filastrocca, ipotizzando un antenato latino *hanc para ab hac quidquid quod­quod: « non è che la filastrocca latina offra molto piú senso di quella italiana, ma questo è un dato costante delle filastrocche infantili » (V. Brugnatelli, Per un’etimologia di « am ba-

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lettura meccanicamente scientifica; anzi: la scienza del nonsense può dare come risultato il nonsense della scienza. Eppure, s’intitolava proprio The science of nonsense uno dei primi interventi critici dedicati alla questione. Nel saggio, apparso sullo « Spectator » il 17 dicembre 1870, i versi di Lear erano definiti « a trifle nearer to the grave talk of an idiot asylum, than to the nonsense of sane people ». Il nonsense di Lear, d’altra parte, aveva rap-presentato una decisa novità nel quadro della letteratura inglese dell’epo-ca, e in particolare della letteratura per l’infanzia:

when Lear’s first work appeared, the children’s literature market was in a fairly dire state, being dominated on one hand by utilitarian efforts at edification and on the other hand by moralistic and didactic religious works. To the children and adults forced to read such works, Lear’s nonsense must have displayed a remarkable freshness and originality.3

2. La sensazione del nonsenso

Com’è noto, Lear – che aveva già viaggiato a lungo in Italia – scelse di trascorrere gli ultimi anni della sua vita sulla costiera ligure (morí a San-remo nel 1888). A quel tempo, in un paese che aveva da poco compiuto il processo di unificazione nazionale, il campione della letteratura per l’infanzia era il burattino Pinocchio (1873) con il suo naso rivelatore di bugie: una deformazione punitiva che, pur in un contesto comico-fan-tastico, agiva ancora in senso pedagogico-moralistico.4 Niente che vede-

rabà ciccí coccò », www.brugnatelli.net/vermondo/articoli/ambara.html; tutta la sitografia è aggiornata al 30 novembre 2009).

3. M.B. Heyman, Isles of Boshen. edward Lear’s Literary nonsense in Context, Thesis sub-mitted for the degree of PhD, Univ. of Glasgow, Department of English Literature, June 1999 (https://dspace.gla.ac.uk/bitstream/1905/330/1/HeymanThesis.pdf, p. 271). Tra l’altro, una delle opere piú fortunate di Lear (The owl and the Pussycat, pubblicato per la prima volta nel 1869 e a tutt’oggi un classico della letteratura per l’infanzia) ha per prota-gonista una civetta e, come le tre civette di Eco, è stata recentemente oggetto di una pa-radossale – e anche in questo caso ironica – interpretazione esoterica: « the poem by Edward Lear might not have been just nonsense. Is it possible that beneath this innocent poem lurked a dark and sinister tale? » (S. Ward, The owl and The Pussycat: a Conspiracy Theory, www.authorsden.com/categories/article_top.asp?catid=19&id=34621).

4. Perché il nonsense trovasse ufficialmente posto nella letteratura italiana per l’infanzia

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re con i nasi allegramente iperbolici svettanti nei limerick di Lear, in cui « la deformità non è mai vissuta come un dramma » e « la parte del corpo in grottesca espansione è anzi spesso orgogliosamente esibita »:5

There was an Old Man with a nose,Who said, « If you choose to suppose,That my nose is too long,You are certainly wrong! »That remarkable Man with a nose.

There was a Young Lady whose nose,Was so long that it reached to her toes;So she hired an Old Lady,Whose conduct was steady,To carry that wonderful nose.

There was an Old Man, on whose nose,Most birds of the air could repose;But they all flew away, at the closing of day,Which relieved that Old Man and his nose.6

si sarebbe dovuto aspettare esattamente un secolo: nella Grammatica della fantasia di Gian-ni Rodari (1a ed. 1973), uno dei capitoli s’intitola proprio Come si costruisce un limerick. Va detto – tuttavia – che la storiografia recente (vd. da ultimo P. Boero-C. De Luca, La let-teratura per l’infanzia, Roma-Bari, Laterza, 2007) ha individuato una linea maestra che da Collodi porta giusto a Rodari, passando per due scrittori-disegnatori come Antonio Ru-bino (nato a Sanremo nel 1880, pochi anni prima che vi morisse Lear) e Sergio Tofano, e per la produzione fantastica di Italo Calvino: cfr. C. Schwarz, Capriole in cielo. Aspetti fantastici nel racconto di Gianni Rodari, Tesi di Dottorato pubblicata dal Dipartimento di francese, italiano e lingue classiche dell’Univ. di Stoccolma nel 2005 (http:/ /s.diva-por-tal.org/smash/get/diva2:200325/fULLTEXT01, p. 29).

5. « Il piú soggetto a deformazioni è il naso che, com’è noto, è fra i motivi grotteschi piú diffusi e si conserverà molto a lungo in questo tipo di “imagery” » (A. Caboni, non-sense: edward Lear e la tradizione del nonsense inglese, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 110 e 109). Già C. Izzo aveva notato « che il libro di Lear è pieno di nasi spropositati » (L’umorismo alla luce del ‘Book of nonsense’, in « Ateneo veneto », ccxxvi 1935, vol. 119 pp. 211-19, a p. 217). Si può ricordare qui, di sfuggita, che prima di Pinocchio Collodi aveva pubblicato (nel 1880) una raccolta di bozzetti intitolata occhi e nasi: « non è una mostra di figurine intere. È piuttosto una piccola raccolta d’occhi e di nasi, toccati in punta di penna e poi lasciati lí, senza finire » (si cita dalla rist. an., firenze, Bemporad, 1980).

6. E. Lear, The Complete Verse and othier nonsense, a cura di V. Noakes, London, Pen-

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Per capire il differente contesto nel quale ci si muove in Italia, basta leggere le parole che – nella sua fondamentale storia della letteratura italia-na (1870-1871) – francesco De Sanctis dedicava al Giorno di Parini, messo a confronto con i modelli di Boccaccio e di Ariosto: « lí era l’ironia del buon senso, qui è l’ironia del senso morale ».7 Non stupirà piú di tanto, allora, che nello stesso periodo in cui il dibattito sul nonsense conosce in Inghilterra alcuni dei suoi episodi fondativi (il saggio di Edward Strachey nonsense as a Fine Art esce nel 1888, Defense of nonsense di Gilbert Chester-ton nel 1901), Pietro Micheli pubblichi a Livorno il suo Letteratura che non ha senso,8 in cui ignora sia Lear sia Carroll, per dedicarsi piuttosto al sim-bolismo di Verlaine:9 « quando queste allitterazioni, ripetizioni di suono, non vanno d’accordo con l’idea, si ha il bisticcio; quando sopprimono assolutamente l’idea, si ha il non senso ».10

guin, 2001, pp. 158, 91, 178. Potrebbe essere proprio Lear, forse, la fonte di una delle tante interpolazioni del Pinocchio disneyano (cfr. M. Bernardinis Pellegrini, Il comico nel Pi-nocchio cinematografico: la versione di Disney e di Comencini, in Pinocchio sullo schermo e sulla scena, a cura di G. Flores d’Arcais, firenze, La Nuova Italia, 1994, pp. 29-43). L’immagine degli uccellini che si appoggiano sul naso manca infatti nella versione collodiana, dove si può trovare tutt’al piú una scena di timbro ben diverso: « alcuni uccellacci notturni, traversan-do la strada da una siepe all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale facendo un salto indietro per la paura gridava: – Chi va là? – » (Le avventure di Pinocchio, ed. critica a cura di O. Castellani Pollidori, Pescia, fondazione Nazionale Carlo Collodi, 1983, pp. 41-42).

7. storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, Torino, Einaudi, 1958, vol. ii p. 912.8. Livorno, Raffaello Giusti, 1900; ma alcune parti erano uscite in rivista già nel 1895:

cfr. infra il contributo di Massimo Castoldi.9. L’accostamento col simbolismo rimarrà piuttosto comune almeno fino alla metà del

secolo: nella sua Antologia burchiellesca recensita da Emilio Cecchi (1950), Eugenio Giovan-netti spiega ancora « come il simbolismo, in ultima analisi, non sia che un burchielleggia-mento squisito, in guanti bianchi », mentre « la gazzarra parolibera cui abbiamo assistito in questi ultimi anni » sarebbe da considerarsi « un burchielleggiare truculento » (Burchiel-lesca, in E. Cecchi, Libri nuovi e usati. note di letteratura italiana contemporanea, Napoli, Esi, 1958, pp. 33-37; la citaz. a p. 34).

10. P. Micheli, Letteratura che non ha senso, Livorno, Raffaello Giusti, 1900, pp. 77-78. Ancora nella monografia La poesia giocosa e l’umorismo, di C. Previtera, Mi lano, Vallardi, 1939-1942 (due volumi poi ripubblicati nel 1953 dalla Vallardi di Milano), pur in presenza di una panoramica piuttosto ampia dedicata alla letteratura inglese (« per molti l’humour è proprietà esclusiva degl’Inglesi o almeno dei popoli anglosassoni: una pianta indigena che vegeta fra le brume di Albione », vol. i p. 36), manca qualunque riferimento a Carroll e

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La tentazione, a questo punto, sarebbe quella di dar ragione a Giusep-pe Tomasi di Lampedusa, che in una delle sue lezioni di storia della let-teratura inglese (1953-1954) scriveva:

La letteratura italiana è la piú seria delle letterature. Un libro che sia nello stesso tempo ben scritto e umoristico si può quasi dire non esista. Siamo costretti a fingere di sbellicarci per l’umorismo con il quale è disegnato Don Abbondio e a trovare Ariosto divertentissimo. […] In Inghilterra lo scrittore comico ha da circa cento anni scelto la strada del nonsense, della cosa scritta che non ha senso alcuno, formata da un (apparentemente) fortuito accozzamento di associazioni le quali, suscitando una serie di immagini disparate, riescono ad un effetto talvolta forte-mente umoristico. […] Chi non è capace di ridere di un limerick in fondo non capirà mai nulla dell’Inghilterra e della sua letteratura: l’Inghilterra è il paese dell’irrazionale nel quale la logica val pochino. […] Il nonsense qui non può aver successo. Come dice france, « nous sommes sérieux comme des ânes ».11

E invece, se si attraversa con sguardo diverso la storia della letteratura italiana, ci si rende conto che una certa erosione (un volontario occulta-mento) del senso ha agito in momenti a volte lontani tra loro, dando vita a un filone carsico rispetto al codice dominante. Scrive in proposito Ales-sandro Caboni:

Una letteratura tradizionalmente considerata poco incline al fantastico come quella italiana, è tutt’altro che priva di esempi di nonsense: basti pensare al ricco repertorio della poesia giullaresca medievale, a quella burlesca del Burchiello, di Berni, ai capricci dei poeti barocchi popolareggianti quali Giulio Cesare Cro-ce e Anton francesco Doni, o alle mirabolanti metafore di Giambattista Basile; una tradizione che sopravviverà nella cultura popolare dei secoli successivi, fino a trovare poi, con la rivalutazione dei “generi minori”, degli sbocchi autonomi, ad es. nelle misteriose filastrocche della poesia pseudo-simbolistica di Aldo Pa-lazzeschi, nel nonsense cripto-satirico di Petrolini, in quello comico-surreale di Achille Campanile, nei sofisticati e oscuri paradossi di Tommaso Landolfi. fra i tentativi contemporanei di poesia nonsensical – riportata all’originaria destinazio-

Lear e alla nozione stessa di nonsense (anche se cronologicamente ci si spinge fino a Geor-ge Bernard Shaw).

11. G. Tomasi di Lampedusa, opere, intr. e premesse di G. Lanza Tomasi, Milano, Mondadori, 1995, nella sez. Letteratura inglese, pp. 527-1330, alle pp. 1167-69.

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ne infantile – si possono ricordare autori quali Nico Orengo, Antonio Porta, Toti Scialoia.12

Il culmine potrebbe essere indicato nelle esperienze neoavanguardi-stiche degli anni Sessanta e nella loro successiva presa di coscienza. Il Poema Chomsky di Alfredo Giuliani (1979) affronta di petto la questione teorica, versificando in variazioni diverse la frase che il linguista ameri-cano aveva addotto a modello di nonsense (« furiosamente verdi dormono idee senza colore / tra rosee zampe a becco furiosamente il prato /dor-me del verde fuori alato corpo d’acqua pietra »).13 I titoli scelti da Edoardo Sanguineti per due sue raccolte –Bisbidis (1987) e la riassuntiva Il detto del gatto lupesco (2002) – sembrano voler chiudere deliberatamente il cerchio di questa linea, riallacciandosi a produzioni medievali in cui Zaccarello riconosce « a non-sense effect ».14

La letteratura italiana, insomma, è un territorio nel quale il nonsense si aggira come la pantera odorosa dei bestiari medievali, di cui dappertutto si sente il profumo senza che nessuno sia mai riuscito a vederla.

3. L’estensione del nonsenso

Siamo nell’àmbito di quelle che Andrea Afribo chiama – in riferimen-to alla poesia tardonovecentesca – « approssimazioni al nonsense » (cfr. infra, p. 000), o di quello che – per risalire all’altro capo della cronologia – Paul Zumthor definiva il « nonsense relativo » di alcuni componimenti medievali.15 La nozione di nonsense letterario, d’altra parte, ha assunto ben presto tratti metastorici e metanazionali. Dal nonsense propriamente

12. Caboni, nonsense, cit., p. 15.13. L’episodio è valorizzato da S. Bartezzaghi nella sua Prefazione all’antologia di P.

Rinaldi, Il piccolo libro del nonsense, Milano, Vallardi, 1997, pp. 17-32.14. M. Zaccarello, off the Paths of Common sense: From the “frottola” to the “per motti” and

“alla burchia” Poetic styles, in nonsense and other senses, cit., pp. 89-116, alle pp. 93, 97, 100 e passim.

15. P. Zumthor, Fatrasie, fratrassiers, in Id., Langue, texte, énigme, Paris, Seuil, 1975, pp. 68-88, a p. 77. Cfr., da ultimo, J.V. Molle, oscurità e “straniamento”. Per un’interpretazione del nonsenso fatrasico, in obscuritas. Retorica e poetica dell’oscuro, a cura di G. Lachin e F. Zambon, Trento, Univ. di Trento, 2004, pp. 131-51.

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detto (istituzionale o – per quanto possa suonare assurdo a proposito di un genere come questo – ortodosso) si è sviluppata progressivamente una serie di proiezioni e di recuperi tale da creare, rispetto al nucleo vit-toriano, un complesso albero genealogico di antenati e successori con discusse paternità ed eredità molto contestate.16 Il tempo del nonsense si è cosí dilatato, fino a comprendere secoli e secoli di nonsense ante litteram.

Stando ai dizionari, la prima attestazione di nonsense in inglese risale (in accezione generica: « Often used exclamatorily to express disbelief of, or surprise at, a statement »; cfr. oeD, s.v., par. 1a)17 al 1614, nella spe-cifica accezione di « A meaning that makes no sense » (par. 4) al 1650; l’aggettivo nonsensical è attestato invece dal 1655. In francese, la prima ci-tazione di nonsense è databile al 1672 (Le spectateur, ed. 1737); l’adattamen-to non-sens è impiegato da Voltaire av. 1778 (cfr. TDF, s.v. non-sens; « le comp. nonsens existait, au sens de ‘deraison, sottise’, en a. fr. »), ma ancora nel 1769 lo stesso Voltaire usava nonsense in corsivo18 e l’anglicismo crudo entrerà nell’uso solo dal tardo Novecento: LGR, s.v. nonsense, lo data al 1962, specificando: « une fois en 1829, Jacquemont, avec la valeur non-sens: “Caractère absurde et paradoxal, en littérature” ».

Quanto all’italiano, nonsenso è attestato la prima volta il 15 aprile 1754, in una lettera di Baretti scritta da Londra al canonico Agudio19 (cfr. DeLI,

16. « La relativa maggior fama dei generi nonsensical della poesia francese medievale [rispetto alle corrispondenti esperienze dell’area italiana] andrà imputata piú ai recuperi e alle predilezioni novecentesche dei surrealisti che ad una loro effettiva incidenza sul panorama ad essi coevo » (M. Berisso, infra, p. 000); sulle forzature derivanti da letture proiettive insiste anche Molle, oscurità e “straniamento”, cit., pp. 136-37.

17. Di seguito lo scioglimento delle abbreviazioni usate: oeD = oxford english Dictio-nary, Oxford, Oxford Univ. Press, 19892; TDF = Trésor de la langue française. Dictionnaire de la langue du XIXe et du XXe siècle (1789-1960), Paris, Gallimard, 1971-1994; LGR = Le Grand Robert de la Langue Française, Paris, Le Robert, 198512.

18. I. Klajn, Influssi inglesi nella lingua italiana, firenze, Olschki, 1972, pp. 120-21.19. « Della poesia ne faccio molto moderato uso; e una tenebrosa meditazione di Sher-

lock o di Young sopra la morte o una filosofichissima dissertazione morale di Tillotson o di Johnson, ti dico il vero, calonaco, mi cominciano a quadrar piú che non tutto il nonsen-so del Petrarca e del Berni, che un tempo mi parvero il non plus ultra dell’umano intelletto » (G. Baretti, epistolario, a cura di L. Piccioni, Bari, Laterza, 1936, vol. i pp. 96-99, alla p. 98). Sul rapporto di Baretti con l’opera di Berni: G. Bàrberi Squarotti, Baretti: in rima,

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s.v.);20 poi, con una certa continuità, a partire dal primo Ottocento (nes-suno degli esempi riportati dal GDLI, s.v., si riferisce però alla letteratu-ra). Mentre il DeLI parla di nonsenso come di un « calco sull’inglese » (anche sulla scorta del fanfani-Arlía, cit. ivi, che lo considera un « modo di dire angloitaliano »), il GDLI lo ritiene giunto per tramite francese (forse sulla scorta del Panzini s.v.: « dal fr. non-sens, locuzione con valore di sostantivo che i francesi tolsero a loro volta dall’inglese nonsense »); cosí anche il DeI, s.v. non (« dal fr. non-sens, ingl. nonsense »), che data generi-camente non-senso al XIX secolo.

nonsense e nonsensical compaiono la prima volta in un articolo del « Conciliatore » (13 settembre 1818) a firma di Grisostomo (pseudonimo di Giovanni Berchet), in bocca a un Mylord che « intende perfettamente l’italiano; ma nol parla troppo bene, ed usa d’intarsiarvi talvolta vocaboli inglesi ».21 L’acclimarsi dell’anglicismo integrale risulta, comunque, mol-to piú tardo: il supplemento del GDLI, s.v. nonsense riporta solo un passo di Giorgio Manganelli (1986) in cui il sostantivo indica un componimen-to letterario; senza riportare esempi, lo Zingarelli data 1985, il GRADIT 1975, il Devoto Oli 1967 e il Sabatini Coletti Grav. 1967.

Quando, nel 1908, Camilla Del Soldato traduce per la prima volta al-

anzitutto il Berni, nel vol. Giuseppe Baretti: Rivalta Bormida, le radici familiari, l’opera, a cura di C. Prosperi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1999, pp. 21-40.

20. DeLI = M. Cortelazzo-P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bolo-gna, Zanichelli, 2a ed. a cura di M. Cortelazzo e M.A. Cortelazzo, Bologna, Zanichel-li, 1999; GDLI = Grande dizionario della lingua italiana, fondato da S. Battaglia, Torino, Utet, 1961-2002, con il supplemento 2004, diretto da E. Sanguineti, ivi, id., 2004; Panzini = A. Panzini, Dizionario moderno, Milano, Hoepli, 1942; DeI = C. Battisti-G. Alessio, Dizionario etimologico italiano, firenze, Barbèra, 1950-1957; GRADIT = Grande Dizionario Italiano dell’uso, ideato e diretto da T. De Mauro, Torino, Utet, 20072; Zingarelli = Lo Zingarelli 2008. Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 2007; Devoto Oli = G. Devoto-G.C. Oli, Il Devoto-oli 2008. Vocabolario della lingua italiana, a cura di L. Serianni e M. Trifone, firenze, Le Monnier, 2007; Sabatini Coletti = Il sabatini Coletti. Diziona-rio della lingua italiana 2008, di F. Sabatini e V. Coletti, firenze, Sansoni, 2007.

21. Oltre a esclamare continuamente « All nonsense! » (in un caso: « What a positive token of nonsense! »), il Mylord considera « a very nonsensical petulancy » la disinvoltura con cui le signore milanesi straparlano di classico e di romantico: « amereste voi che la prediletta del vostro cuore fosse una delle nonsensical creatures, di cui v’ho parlato? » (Il Conciliatore. Foglio scientifico-letterario, a cura di V. Branca, firenze, Le Monnier, 1965, vol. i pp. 62-70).

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cuni limerick di Lear nella versione italiana della londinese The Children’s encyclopaedia (L’enciclopedia dei ragazzi, Milano, Cogliati),22 li fa precedere da una presentazione (intitolata Le sciocchezze di edoardo Lear), in cui i nonsense sono definiti « ciuccherie ». Anche la prima traduzione integrale (a cura di Carlo Izzo, Vicenza, Il Pellicano, 1946, e in ristampa, Venezia, Neri Pozza, 1954) esce con il titolo Il libro delle follie, che solo nel 1970 di-venterà Il libro dei nonsense (Torino, Einaudi; la nuova traduzione di Otta-vio fatíca, ivi, id., 2002, s’intitola Limericks). Lo stesso Izzo, tuttavia, aveva pubblicato nel 1935 il testo di una sua conferenza (L’umorismo alla luce del ‘Book of nonsense’, cit.) in cui « nonsense » (sempre tra virgolette) è utiliz-zato in diversi contesti e con diverse funzioni23 (di nonsense – stavolta in corsivo – si parla anche nella sua postfazione alla traduzione del ’46), mentre al nonsense verse (ancora in corsivo) accennava già Mario Praz in suo articolo del ’38.24

Il vocabolo inglese nonsense penetra in tempi diversi nelle grandi lin-gue di cultura europee, nelle quali oggi mantiene spesso – proprio per il suo riferirsi a una specifica categoria letteraria – una certa autonomia rispetto agli adattamenti e ai calchi sviluppatisi in precedenza (fr. nonsens, it. nonsenso, ma anche ted. Unsinn, sp. sinsentido).25 Solo che questa catego-ria, nelle diverse tradizioni di studi, ha finito con l’espandere sempre di piú i suoi confini, fino a inglobare territori un tempo dominio della reto-rica tradizionale come il paradosso, l’ossimoro, l’adunaton.26 Il risultato

22. Per la storia della ricezione di Lear in Italia, cfr. P. Rinaldi, Un girotondo intorno al limerick, postfaz. a M. Manfredi e M. Trucco, Il libro dei limerick, Milano, Vallardi, 1994, pp. 143-246, con bibliografia ivi citata (sull’enciclopedia dei ragazzi, le pp. 196-204).

23. Tra le altre: « la letteratura del “nonsense”, del non-senso, dell’assurdo » (p. 213); « è il “nonsense” schietto umorismo? » (ibid.); « è risibile: un “nonsense” » (p. 217); « addito nel “nonsense” il sale di cui sarebbe condito l’umorismo » (p. 218).

24. « La Stampa », 4 giugno 1938; poi in M. Praz, Motivi e figure, Torino, Einaudi, 1945, pp. 92-95, a p. 93.

25. Ad es., « in German scholarship on the subject, a useful distinction is made betwe-en Unsinn (in Hildebrandt’s terms: folk and ornamental nonsense) and nonsense (literary or “pure” nonsense) » (W. Tigges, An anatomy of literary nonsense, Amsterdam, Rodopi, 1988, p. 18).

26. Sulla fortuna antica e moderna di queste figure, cfr. G. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, Torino, Boringhieri, 1963.

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è – a tutt’oggi – l’estendersi di una periferia (il near-nonsense, come lo chiama Heyman)27 sempre piú affollata di « satelliti circanonsensical ».28

Una delle cause di questa situazione andrà ricercata nella sproporzio-ne fra gli studi dedicati alla dimensione « anacronica » del nonsense (per usare la terminologia di Lecercle)29 e quelli che ne hanno indagato la dimensione diacronica. Piú che dedicarsi alla ricerca di anelli di congiun-zione (nel tempo e nello spazio) che potessero dimostrare lo sviluppo di una tradizione con alcuni elementi condivisi, come ad esempio fonti co-mu ni,30 ci si è impegnati in uno strenuo tentativo di classificazione del nonsense come nozione universale (senza spazio e senza tempo). Per giu-dicare l’eventuale corrispondenza al profilo tracciato, si sono poi calate queste definizioni nella storicità dei singoli prodotti: il momento indut-tivo ha finito cosí per prevalere su quello deduttivo e l’effetto paradossa-le – in un continuo gioco di agnizioni e disconoscimenti – è stato quello di sfumare i confini della categoria proprio mentre si cercava di circoscri-verla con maggiore precisione (« unfortunately, there are as many defini-tions of sense, nonsense, and literary nonsense as there are critics »).31

Un secolo di questi sforzi si trova magistralmente riassunto nel primo capitolo del cruciale lavoro di Tigges32 e, in maniera meno sistematica ma non meno efficace, nella tesi di dottorato di Heyman, premessa indi-spensabile per la sua introduzione a The Tenth Rasa33 intitolata An Indian nonsense naissance.

27. Heyman, Isles of Boshen, cit., p. 1.28. Vd. il saggio di A. Afribo, infra, p. 000.29. J.J. Lecercle, Philosophy of nonsense. The Intuitions of Victorian nonsense Literature,

London, Routledge, 1994, p. 2.30. Incontrando in una poesia di Scialoja « la gazza fragorosa / che fa gli stridi in greco »,

Serianni riporta infra (p. 000) una segnalazione di Zaccarello e Crimi che riguarda un precedente burchiellesco (« et una gazza che parlava in greco », xviii). Anche io devo a Crimi l’indicazione di alcune analogie tra Lear e Burchiello; tra queste, l’immagine degli uccelli che studiano: « There was an Old Person of Hove, / Who frequented the depths of a grove; / Where he studied his Books, / With the Wrens and the Rooks »; cfr. « e le civette studiano in gramatica » (viii 17 dell’ed. Zaccarello).

31. Heyman, Isles of Boshen, cit., p. 203.32. An anatomy of literary nonsense, cit., pp. 47-88.33. The Tenth Rasa. An Anthology of Indian nonsense, ed. by M. Heyman, S. Satpathy and

A. Ravishankar, New Delhi, Penguin, 2007.

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4. La rinascenza del nonsenso

Questa tradizione di studi si è fondata soprattutto su testi dell’area an-glofona (in seconda e terza battuta francofona e germanofona), riser-vando scarsa attenzione – almeno fino a qualche tempo fa – al filone nonsenselike della letteratura italiana e al suo contributo nel formarsi del nonsense propriamente detto. Il riferimento è in primo luogo alla cosid-detta « funzione-Burchiello ». Come dimostra con dovizia di riscontri te-stuali un recente libro di Giuseppe Crimi,34 quel modello (solo in parte riconducibile a precedenti medievali) influenzò profondamente la poe-sia rinascimentale italiana: bastino i nomi di Luigi Pulci, di Lorenzo de’ Medici e appunto del Berni tanto caro al Baretti. Di certo quel modello giunse anche, direttamente o indirettamente, alle altre letterature euro-pee.

La fortuna del Burchiello fuori d’Italia è un tema che – a quanto mi risulta – aspetta ancora di essere esplorato sistematicamente. Noel Mal-colm,35 tuttavia, ritiene che John Hoskyns (l’iniziatore del filone nonsense della letteratura inglese secentesca) dovesse avere ben presente quel mo-dello:

the widespread popularity and frequent reprintings of Burchiello’s verses thou-ghout the sixteenth century make him – and his well-known imitators, such as Croce – by far the most likely model for Hoskyns’s own poem; so too does the very Burchiellesque density of absolute nonsense which Hoskyns achieved. The case of transmission from Italy to England is very strong, although direct proof is lacking.

Quanto alla francia, Zaccarello segnala l’evidente presenza del Bur-chiello in alcuni componimenti di Mellin de Saint Gelais;36 per la Spa-

34. G. Crimi, L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello, Manziana, Vecchiarelli, 2005.

35. The origins of english nonsense, London, fontana-H. Collins, 1997, pp. 76-77.36. Cfr. L. Spitzer, Zur nachwirkung von Burchiellos Priameldichtung, in « Zeitschrift für

Romanische Philologie », lii 1932, pp. 484-89 (si tratta del sonetto In n’y a tant de barques en Venise di Mellin, che – con no tiene tanta miel Ática hermosa di Lope – è citato come esempio di Priameldichtung mutuata da Burchiello, son. lxvi, non è tanti babbion nel mantovano. Cen-ni sulla fortuna del Burchiello in francia si trovano inoltre in J. Vianey, La part de l’imita-

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gna, Spitzer aveva già indicato calchi burchielleschi in Lope de Vega e piú di recente uno studio di Adrienne Laskier Martín riconosce che

the pre-Cervantine burlesque sonnet in Spain still operates clearly within the Renaissance tradition of imitatio; the Spanish comic poets of this period remain closely tied to their Italian models. The types of comicity in which they indulge are those popularized by the classical and by the Italian burlesque sonnet tradi-tion: anti-Petrarchism, eroticism, burlesque Anacreontic themes, adoxography, facetiae, and the beginnings of personal and professional invective. While “se-rious” Renaissance poets continue to look to Petrarch and Garcilaso for their inspiration, “comic” poets still look to the comic hyperbole of Berni and his followers.37

Posto fuori del suo contesto originario, il senso preciso dei sonetti alla burchia era cosí opaco da risultare oscuro già ai commentatori cinque-centeschi (come il Lasca) e poi – a fortiori – a quelli secenteschi (come il Cinelli Calvoli) e primosettecenteschi (come il Salvini).38 Inevitabile, anche per questo, che nella tradizione dei testi s’incrostassero lezioni sempre piú divergenti rispetto alla vulgata quattrocentesca, solo da poco restituita dall’edizione critica di Michelangelo Zaccarello.39 fino a que-sta edizione – e da oltre due secoli – il testo di riferimento era rappresen-tato, com’è noto, da una raccolta pubblicata nel 1757 a Livorno con la falsa indicazione di Londra.40 In quegli anni, i versi del Burchiello veni-

tion dans les ‘Regrets’, in « Bullettin italien », iv 1904, fasc. 1 pp. 30-48; P. Toldo, Études sur la poesie burlesque française de la Renaissance, in « Zeitschrift für romanische Philologie », xxv 1901, fasc. v pp. 71-93, 257-77, 385-410, 513-32, e Id., Ce que scarron doit aux auteurs burlesques d’Italie, Pavia, fusi, 1893.

37. A. Laskier Martín, Cervantes and the Burlesque sonnet, Berkeley-Los Angeles-Ox-ford, Univ. of California Press, 1991 (content.cdlib.org/xtf/view?docId=ft4870069m&brand=eschol).

38. Cfr. M. Zaccarello, La dimensione vernacolare nel lessico dei ‘sonetti’ di Burchiello, in « Cuadernos de filología Italiana », 3 1996, pp. 209-19 (www.ucm.es/BUCM/revistas/fll/11339527/articulos/CfIT9696110209A.PDf), alle pp. 209-11.

39. sonetti del Burchiello, ed. critica della vulgata quattrocentesca, Bologna, Commissio-ne per i testi di lingua, 2000; poi, con ampio commento, I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Torino, Einaudi, 2004.

40. sonetti del Burchiello del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca, London [ma Livorno, Masi] 1757: cfr. M. Berisso, La poesia del Quattrocento, in storia della letteratura ita-

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vano considerati alla stregua delle « stravaganze d’un ubbriaco »;41 quello che nella Londra reale era il nonsense, nella Londra immaginaria diventa-va un insieme di corbellerie.42 Né le cose sarebbero cambiate per tutto il secolo successivo: anzi, ancora alla metà del Novecento c’è chi continua a parlare di « un faticoso e noioso accumularsi di stupidaggini idiote e goffe ».43

« Al di là del riconosciuto carattere enigmatico di buona parte dell’ope-ra di Burchiello », scrive Zaccarello, « lo scacco esegetico palesato dalla critica » anche in anni piú recenti è da ricondursi a un problema di stori-cizzazione: « al momento della ricezione moderna del testo, […] il ri-schio è la mancata contestualizzazione del dato espressivo, se non la perdita o l’appiattimento di una prospettiva storico-linguistica ».44 Sulla stessa linea anche Danilo Poggiogalli che, in apertura di un suo recen-te saggio, ricostruisce il lungo dibattito tra chi di quei sonetti ha cercato il senso e chi invece ha preferito attribuirli al nonsenso: per parte sua, « quello burchiellesco è un non-sense fittizio, cioè solo superficiale e appa-rente, elaborato mediante una tecnica combinatoria razionale, decrip-tabile ».45 Secondo Crimi, d’altra parte, il rubricare questa poesia come nonsense ha rappresentato spesso una soluzione di comodo, visto che « l’etichetta di “non senso” […] permette di congedarsi con facilità senza sforzi dall’argomento ».46

Insomma: i filologi (almeno quelli italiani) sembrano oggi piuttosto compatti nel negare che all’epoca di Burchiello – o addirittura prima – « si potessero dare casi di nonsense volontario », mostrandosi convinti (co-me nota Berisso, infra, p. 000) che « le zone di oscurità piú o meno ampia presenti in determinati testi siano da attribuire a difficoltà interpretative

liana, dir. E. Malato, vol. x. La tradizione dei testi, coord. C. Ciociola, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 493-544, alle pp. 524-26.

41. Saverio Bettinelli (in Crimi, L’oscura lingua, cit., p. iv).42. Cosí Baretti traduce nonsense nel suo A Dictionary of the english and Italian Languages,

London, C. Hitch and L. Hawes et al., 1760.43. Previtera, La poesia giocosa, cit., vol. i p. 261.44. Zaccarello, La dimensione vernacolare, cit., p. 209.45. D. Poggiogalli, Dalle acque ai nicchi. Appunti sulla lingua burchiellesca, in « Studi di

lessicografia italiana », xx 2003, pp. 65-126, alle pp. 66-71; la citaz. da p. 71.46. Crimi, L’oscura lingua, cit., p. iv.

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dovute al gap storico-culturale ». Ma quanto di questo rifiuto, si chiede lo stesso Berisso, è legato a una particolare forma mentis? Quanto al deside-rio di mantenere l’interpretazione nell’àmbito delle proprie competen-ze? Si potrebbe rispondere che la sfida esegetica avrà sempre bisogno di un senso da trovare e i vuoti di senso tenderanno sempre a essere satura-ti dall’interpretazione. Solo, altre scuole critiche reagiscono in modo di-verso all’horror vacui: vale a dire cercando un senso a posteriori che spesso consiste in un meta-senso.

Anche rimanendo all’interno della letteratura, si dovranno distingue-re allora due nonsense diversi tra loro: da una parte, il nonsense filosofico dello strutturalismo, del decostruzionismo, della psicanalisi, ecc.; dall’al-tra, il (non)nonsense filologico della tradizione storicistica. Ciò che nel primo va letto come il « rimosso », ad esempio, nel secondo andrà ascritto al « represso »;47 ciò che per gli uni si spiega ricorrendo a definizioni ana-cronistiche come « scrittura automatica » o « fantasia diluita di alcuni in-consci collettivi »,48 per gli altri può essere compreso solo rifacendosi al contesto linguistico e culturale in cui i testi sono stati prodotti.

5. Il suono del nonsenso

L’oscurità nasce spesso dalla frantumazione del testo,49 che ha l’effetto d’indebolire anche il significato delle singole parole: come nota Zacca-rello, « the text progresses through strategies of verbal association, such as wordplay, and the interconnecting elements seem to be predominan-

47. « Ci sono buonissime ragioni culturali per sostenere che determinati temi di ordine sessuale, soprattutto quelli relativi a pratiche ritenute degne addirittura di condanna pe-nale (come la sodomia, etero ed omosessuale), potessero essere espressi solo attraverso la creazione di una sorta di codice cifrato il quale, una volta organizzato in un testo, finiva con l’originare evidentemente un nonsense anche se solo apparente » (Crimi, loc. cit.). Il riferimento è al discusso lavoro di J. Toscan, Le carnaval du langage. Le lexique érotique des poètes de l’équivoque de Burchiello à Marino (XVe-XVIIe siècles), 4 voll., Lille, Presses Univ. de Lille iii, 1981; cfr. infra il contributo di Carla Chiummo.

48. Cfr. Molle, oscurità e “straniamento”, cit., p. 140.49. Nel caso di Sacchetti, « l’autore stesso specifica come il sonetto sia stato “costruito”

per motti, cioè montato in modo che prevalga il gusto per le parole, per le locuzioni e per le espressioni singolari » (Crimi, L’oscura lingua, cit., p. 172).

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tly formal and non-semantic (mainly of a rhythmic and phonic kind); moreover, such texts often escape the logical concatenation that charac-terizes poetry with traditional content ».50 L’insignificanza (vera o pre-sunta) esalta quella che Gian Luigi Beccaria chiamava « l’autonomia del significante »,51 tanto da aprire le porte a significanti dal significato evane-scente, come le parole inventate52 o – nei casi piú estremi – a sequenze di significanti irrelati, come quelli delle lingue inventate.53

Lo scivolamento dal piano fonematico a quello puramente fonetico rende il suono del nonsense una sorta di mantra che acquista un suo senso grazie alla rigida (a volte rigorosa) messa in forma; come osserva Lecer-cle, « there is an excess of phonetic rules in nonsense: rules of phonotac-tics, of accentuation, of prosody and metrics ».54 E qualcosa di analogo avviene anche sul piano della testualità: in Scialoja è ancora frequente « un procedimento, ampiamente praticato già dal Burchiello, per il quale la perdita di coerenza si accompagna a un forte aumento degli indicatori della coesione testuale, cioè dei connettivi tipici di un discorso organiz-zato razionalmente » (Serianni, infra, p. 000). È questa, in fondo, la diffe-renza con le parole degli ubriachi, che di solito « non solo non hanno senso, ma non fanno vista di averlo: condizione necessaria in un libro stampato ».55

Piacere del significante può significare – nell’eccesso – forma senza contenuto, affabulazione senza fabula, mutilazione zoppa del bicipite se-

50. Zaccarello, off the Paths of Common sense, cit., p. 93.51. G.L. Beccaria, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante, Pascoli,

D’Annunzio, Torino, Einaudi, 1975.52. Come accade, ad esempio, nelle Fànfole di fosco Maraini: « Il lonfo non vaterca né

gluisce / e molto raramente barigatta, / ma quando soffia il bego a bisce bisce / sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta » (cfr. D. Baglioni, Poesia metasemantica o perisemantica? La lingua delle ‘Fànfole’ di Fosco Maraini, in studi linguistici per Luca serianni, a cura di V. Della Valle e P. Trifone, Roma, Salerno Editrice, 2007, pp. 469-80).

53. Nel Dialogo dei massimi sistemi di Landolfi, ad esempio, il protagonista ha scritto una poesia in una lingua sconosciuta, da lui stesso dimenticata: « Aga magéra difúra natun gua mesciún / Sánit guggérnis soe-wáli trussán garigúr / Gúnga bandúra kuttávol jerís-ni gillára. / Lávi girréscen suttérer lunabinitúr » (cfr. infra il contributo di Baglioni).

54. Lecercle, Philosophy of nonsense, cit., p. 38.55. Come nota Manzoni a proposito dei discorsi di Renzo ubriaco (A. Manzoni, I

Promessi sposi, a cura di L. Caretti, Torino, Einaudi, 1971, vol. ii p. 339).

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gno linguistico, corpulenza senz’anima; ma anche, e converso, ludico e lucido calembour capace di sprigionare concetti originali, gioco coi topoi che fa della lingua il luogo del’entropia. A partire almeno dal nonsense vittoriano, significa contestare la rappresentazione realistica della realtà per creare una realtà diversa (il nonsense non è figurativo: nella sua forma piú pura è, potremmo dire, astratto). A quest’obiettivo risponde una scrittura che per certi versi è l’equivalente letterario delle geometrie non euclidee o anche di quella logica onirica a cui Ignacio Matte Blanco darà l’antiaristotelico nome di logica simmetrica.

6. Il dissenso del nonsenso

La dissimulazione del dionisiaco sotto mentite spoglie apollinee è alla base dell’ambiguo statuto del nonsense, che « is on the whole a conserva-tive-revolutionary genre. It is conservative because deeply respectful of authority in all its forms: rules of grammar, maxius of conversation and of politeness, the authority of the canonical author of the parodied text ».56 Questo rispetto esteriore – che corrisponde in realtà a uno svuo-tamento dall’interno di modelli, codici, canoni – accomuna il nonsense ottonovecentesco a precedenti molto piú antichi:

il sonetto “alla burchia” può essere descritto come una forma di duplice attacco alla poetica tradizionale, dall’interno e dall’esterno: da un lato la peculiare sin-tassi di quei versi sovverte le piú elementari concatenazioni logiche, impiegan-do in modo volutamente incongruo gli operatori sintattici; dall’altro le molte-plici forme di satira del falso sapiente […] collocano la polemica sulla rivendica-zione di un linguaggio concreto.57

La parodia si conferma uno dei tratti costitutivi del genere già nei suoi piú remoti antecedenti. Prima della dicotomia senso/nonsenso viene quella codice/trasgressione, che si risolve in una resa deformata e stra-

56. Lecercle, Philosophy of nonsense, cit., pp. 2-3.57. Zaccarello, Burchiello e i burchielleschi. Appunti sulla codificazione e sulla fortuna del

sonetto ‘alla burchia’, in Gli “irregolari” nella letteratura. eterodossi parodisti funamboli della parola. Atti del Convegno di Catania, 31 ottobre-2 novembre 2005, Roma, Salerno Editrice, 2007, p. 117-43, a p. 142.

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volta del primo elemento. Un saggio di qualche anno fa dedicato ad al-cune Considerazioni sul ritratto poetico e la comunicazione lirica era stato sug-gestivamente intitolato da Amedeo Quondam Il naso di Laura;58 la già citata recensione di Emilio Cecchi a un’Antologia burchiellesca del 1950 s’intitolava Il naso di Burchiello.59 nasi cornuti e visi digrignati si apre il sonet-to di franco Sacchetti ritenuto il primo esempio di questo genere di poesia (in principio era il naso, dunque) e una galleria di nasi deformi occupa un trittico di sonetti che la tradizione attribuisce al Burchiello;60 queste, rispettivamente, le quartine iniziali:

Io vidi un naso fatto a bottoncini,che paion paternostri di corallo,et ha la cresta rossa com’un gallotutta coperta di balasci fini;

Un naso Padovano è qui venuto,che si berebbe ottobre, e San Martino;sed egli avesse in suo potenza el vino,berebbe una ricolta con un fiuto.

Se tutti i nasi avessin tanto cuoredi vivere a comune, e fare anziani;i’ ve ne metterei uno alle mani,che par de’ nasi natural signore.

Ma il naso del Burchiello potrebb’essere anche quello del Burchiello-maschera, il personaggio Burchiello che – secondo una sorte toccata molto piú tardi anche a Edward Lear –61 diventa, fin dalla sua morte,

58. Ora in A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classici-smo, Modena, Panini, 1991, pp. 291-328; la domanda è, con le parole della Civil conversazio-ne di Stefano Guazzo: « per qual cagione Petrarca, nel lodar l’altre parti belle di madonna Laura non avesse mai fatto menzione di questa, se forse egli la tacque perch’ella avesse il naso o schiacciato o camuso o gibbuto o torto o smisurato in grossezza o in lunghezza » (p. 293).

59. Poi ripubblicata col titolo Burchiellesca, cit.60. Si cita dall’ed. Einaudi cit., pp. 290-92. Come specifica Zaccarello nell’introduzione

all’ed. del 2000, si tratta di testi infiltrati, che attribuzioni piú affidabili assegnano a Barto-lomeo da Lucca; una rubrica indica forse che si tratta di un sottogenere: soneti nasorum.

61. Cfr. www.nonsenselit.org/wordpress/archives/2007/02/13/fictional-edward-lear.

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l’icona da affiancare a quella del Petrarca come modello di una poesia di-versa: « Petrarca e Burchiello piacevole, / che per sonetti han cotanta me-moria / l’un per dir bene e l’altro dilettevole ».62

Rispetto al senso della poesia laureata, quello della frottola e della ri-meria alla burchia si presenta – secondo l’indovinata definizione di Rus-sell –63 come un controsenso; allo stesso modo, il nonsense veniva defini-to, nel classico saggio di Strachey, « the proper contrary of Sense ».64 Il senso del nonsenso – potremmo dire allora – è nel suo essere il versante cattivo del buonsenso. Una modalità (non solo linguistica) che demoli-sce l’interpretazione del mondo dominante e condivisa, e su quelle ma-cerie costruisce un mondo rovesciato,65 altro rispetto al senso comune: « in un certo modo, un non-luogo referenziale ».66

62. Cfr. G. Crimi, Burchiello e le sue metamorfosi: personaggio e maschera, in Auctor/Actor. Il personaggio scrittore nella letteratura italiana. Atti del Convegno di Roma, 16-17 giugno 2005, Roma, Univ. di Roma « Sapienza », i.c.s. (www.disp.let.uniroma1.it/fileservices/filesDISP/07_CRIMI.pdf); la citaz., tratta da un manoscritto quattrocentesco, è riporta-ta a p. 91.

63. R. Russell, senso, nonsenso e controsenso nella frottola, in Ead., Generi poetici medievali. Modelli e funzioni letterarie, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1982, pp. 147-61.

64. Il testo in www.nonsenselit.org/Lear/pdf/nonsense.pdf (la citaz. a p. 515).65. Cfr. G. Angeli, Il mondo rovesciato, Roma, Bulzoni, 1977. Per il nonsense ante litteram,

il discorso incrocia qui l’altro – assai complesso e ancor piú vasto – del rovesciamento parodico, apotropaico associato alle festività carnevalesche e ai testi ad esse collegati. Il buonsenso potrebbe cosí parallelamente ricondursi alla polarità quaresimale (per l’intrec-cio di leggi, costumi, rituali associati a questi due universali del mondo medievale e rina-scimentale: cfr. G. Ciappelli, Carnevale e quaresima, Roma, Edizioni. di Storia e Letteratu-ra, 1997).

66. Molle, oscurità e “straniamento”, cit., p. 146. Il non-luogo (recente calco dal non-lieu del francese Marc Augé) come il non-compleanno (calco piú vecchio dall’un-birthday dell’in-glese Lewis Carroll): « bella proprietà della lingua italiana, massime antica, proprietà in mille casi utilissima al dir breve, anzi all’evitare un lunghissimo circuito di parole, pro-prietà d’altronde comune anche al francese (nonchalance, nonchaloir […]), all’inglese (non-sense, nonsensical ec.) ec., è quella di certi negativi, sia nomi, sia verbi, avverbi ec. fatti dal positivo, premessavi la non, congiunta o disgiunta da essa voce » (G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 17 ottobre 1826, p. 4223 si cita dall’edizione commentata e revisione del testo critico a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, 1997, p. 000).

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Marco Berisso

PREIStoRIA (MAncAtA) dEl nonsense nEllA PoESIA MEdIEvAlE ItAlIAnA

Credo sia prima di tutto necessario premettere qualche parola a spie-gazione del titolo che ho scelto. Quello che volevo suggerire, proprio in via preliminare, è che, ponendo come punto di avvio della storia del nonsense in Italia il nome e il caso di Burchiello (come è corretto fare), risulta molto difficile poi recuperare una rete piú o meno coerente di testi e autori tale da poter giustificare la gestazione di quell’esperienza, una tradizione che a quel nome e a quel caso abbia condotto. In realtà, come preciserò tra poco, abbiamo già a disposizione oggi un’utile guida alle tracce di una possibile tradizione del nonsense italiano che dai testi del Due-Trecento conduca ai primissimi decenni del Quattrocento, e qual-che altro piccolo elemento ulteriore è forse possibile aggiungerlo, o al-meno cercherò di farlo. Detto questo, però, nulla di quanto si può arri-vare a dedurre seguendo questa strada è assimilabile a quanto si è già da tempo verificato in territori a noi limitrofi, come quello della poesia oi-tanica con le fatrasies/fatras e le resveries e persino di quella occitana con i devinalhs, dove pure qualche distinguo andrebbe fatto.1

1. Del corpus (non imponente: si veda quanto verrà detto tra poco) delle fatrasies e delle fatras abbiamo un’ottima traduzione italiana, Fatrasies. Fatrasies d’Arras, Fatrasies di Beauma-noir, Fatras di Watriquet, a cura di D. Musso, Parma, Pratiche, 1993, che si raccomanda anche per la dettagliata Introduzione (pp. 7-34). La bibliografia in merito è piuttosto ampia: si vedano almeno P. Bec, La lyrique française au Moyen Âge (XIIe-XIIe siècles). Contribution a une typologie des genres poétiques médiévaux, Paris, Picard, 1977, 2 voll., i pp. 167-83; P. Zumthor, Fatrasie, fatrassiers, in Id., Langue texte énigme, Paris, Éditions du Seuil, 1975 (cito dalla trad. it. Lingua testo enigma, Genova, Il Melangolo, 1991, pp. 99-126); P. Uhl, La constellation poétique du non-sens au moyen âge. onze études sur la poésie fatrasique et ses environs, Paris, L’Harmattan, 1999; M. Suchet, Les Fatrasies: une expérience de la lecture, mémoire de maîtrise de Lettres Modernes, École Normale Supérieure Lettres et Sciences Humaines- Univ. Lumière Lyon ii, a.a. 2003-2004 (consultabile in rete all’indirizzo http://perso.ens-lyon.fr/florent.bouchez/myriam.suchet/maitrise.php#htoc60). Sulla resverie (oltre a Bec, La lyrique française, cit., pp. 163-66) si tenga conto di G. Angeli, Il mondo rovesciato, Roma, Bulzoni, 1977. Per il devinalh rimane ancor oggi imprescindibile N. Pasero, Devinalh, “non senso” e

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Anche a questo proposito, comunque, va aperta una breve parentesi. Trascuriamo pure il caso dei devinalhs, che si presenta controverso anche sotto il rispetto della appartenenza o meno di alcuni testi al genere, e restiamo a quello molto piú pacifico delle fatrasies (e fatras) e delle resveries. Il numero dei testi, e soprattutto quello dei testimoni, pertinenti è tutt’al-tro che cospicuo, come noto: due raccolte di fatrasies, una piú ampia (Fa-trasies d’Arras, 54 poesie) ed una seconda molto piú esile (Fatrasies di Beau-manoir, 11 poesie), piú una di fatras (Fatras di Watriquet, 30 poesie), tutte e tre a tradizione unica.2 Stessa cosa per quel che riguarda le resveries: sono solo tre i testi riconducibili al genere, ognuno riportato da un solo codi-ce.3 A questo non amplissimo patrimonio si potranno aggiungere le due fatras (seppure a schema anomalo) e la lista di incipit non meglio precisa-bili quanto al genere che sono conservati nelle interpolazioni di Chail-lou de Pesstain al Roman de Fauvel riportate nel manoscritto fr. 146 della Bibliothèque Nationale di Parigi (il cosiddetto ms. E).4 Insomma, il qua-dro complessivo che ne deriva sembra suggerirci che ci troviamo di fron-te a testi (e quindi a generi) marginali, anche considerando (e non è ele-mento secondario) la data relativamente alta a cui essi possono ricondur-si (tra metà e fine XIII secolo per fatrasies e resveries, addirittura primo decennio del XIV per i fatras). È certo vero, come dichiara Daniela Mus-so, che questa « esiguità […] probabilmente non rispecchia affatto la rea-le diffusione dei due generi […] (e lo stesso discorso vale, ovviamente,

“interiorizzazione testuale”: osservazioni sui rapporti fra strutture formali e contenuti ideologici nella poesia provenzale, in « Cultura Neolatina », xxviii 1968, pp. 1-34, a cui si aggiunga adesso M. Lecco, Gli enigmi del ‘devinalh”, in L’enigma. Atti del Seminario di Genova, 23 maggio 2008, a cura di M. Lecco, i.c.s.

2. Per la tradizione testuale delle fatrasies e fatras cfr. la nota informativa in Fatrasies. Fatra-sies d’Arras, Fatrasies di Beaumanoir, Fatras di Watriquet, cit., pp. 35-38.

3. Cfr. Bec, La lyrique française, cit., pp. 164-6, anche per la tradizione manoscritta: i testi in questione sono l’anonima e anepigrafa nus ne doit estre jolis, la resverie di Philippe de Beaumanoir en grant esveil sui d’un conseil e l’anonimo Dit des traverces (tutti pubblicati e tradotti in appendice a Angeli, Il mondo rovesciato, cit., pp. 107-41).

4. Del ms. E del Roman de Fauvel esiste una riproduzione in facsimile: Le Roman de Fauvel in the edition of Mesire Chaillou De Pesstain: a reproduction in facsimile of the complete ma-nuscript Paris, Bibliotheque nationale, Fond Francais 146, a cura di E H. Roesner, F. Avril e N. Freeman Regalado, New York, Broude Brothers, 1990 (il testo del Roman de Fauvel è stato pubblicato e tradotto in italiano da M. Lecco, Milano-Trento, Luni, 1998).

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per le resverie) »5 e forse dobbiamo perciò ipotizzare un piú ampio patri-monio perduto, magari di diffusione primariamente orale come sembra appunto suggerire la didascalia che introduce i fatras interpolati del Fauvel col suo esplicito riferimento a « sotes chançons que […] font le chalivali chantent ». È però altrettanto vero che casi paralleli dal punto di vista sia dell’ideologia di riferimento sia dell’esecuzione (penso ad esempio ai fa-bliaux) hanno avuto ben altra fortuna e che, insomma, una tale latenza testimoniale e recenziorità cronologica potrà ben rispecchiare la margi-nalità piú o meno “eretica” dei generi di cui stiamo discutendo: generi che, non a caso, verranno in parte addomesticati (è il caso dei fatras) nei secoli successivi. Nulla di paragonabile insomma, per intenderci, alla clamorosa fortuna manoscritta di Burchiello, fortuna che nel suo caso va a compensare la tarda, anche in questo caso, collocazione cronologica del genere. Insomma, la poesia del nonsense non sembra aver avuto uno spazio particolarmente ampio nella mappa dei generi e degli stili dei primi secoli neppure in letterature che, all’apparenza, le hanno concesso un’udienza ben piú antica della nostra. E va aggiunto, per concludere davvero, che la relativa maggior fama dei generi nonsensical dell’antica poesia francese andrà forse imputata piú ai recuperi e alle predilezioni novecentesche dei surrealisti che ad una loro effettiva incidenza sul pa-norama letterario medievale.

In Italia, come dicevo, e per riprendere il filo, non è comunque possi-bile rinvenire neppure una simile tradizione, residuale forse ma almeno morfologicamente piuttosto compatta e come tale riconoscibile in quan-to genere autonomo. La stessa etichetta con cui comunemente vengono indicate le poesie del nonsense a partire dal Cinquecento, quella cioè di poesie “alla burchia” o “alla burchiellesca”, indica del resto come piú esplicitamente non si potrebbe desiderare una definizione di ordine an-tonomastico, non formale: e che poi tale primogenitura sia probabil-mente da togliere a Burchiello per essere spostata all’indietro di qualche decennio ed essere devoluta all’Orcagna (il nipote Mariotto, morto nel 1424, non il ben piú famoso Andrea, di cui non si hanno notizie dopo il 1368) è oggi un dato di fatto che però non cambia piú di tanto i termini

5. Fatrasies. Fatrasies d’Arras, Fatrasies di Beaumanoir, Fatras di Watriquet, cit., p. 8.

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della questione, come si vede, né come ambiente culturale né cronolo-gicamente (siamo sempre insomma nella firenze medicea della prima metà del secolo).6 Può essere interessante, semmai, verificare cosa la tra-dizione critica antica percepisse come assimilabile al gusto “alla burchia” nel momento in cui essa si allontanava dalla pure già altamente infida vulgata esplicitamente riconducibile a Burchiello, nel tentativo di recu-perare testi sparsi da ricondurre alla medesima costellazione. Mi riferi-sco, insomma, alla famosa e quasi famigerata stampa pseudo-londinese del 1757 e in particolare alla terza sezione di essa, quella in cui, secondo l’esplicita ammissione introduttiva dei curatori, vengono travasati sonet-ti che « si sono trovati in altri Testi sotto suo nome ».7 Le presenze allotrie, come noto, sono qui molte, e alcune clamorosamente due-trecentesche: notissimo il caso dei due sonetti Bicci novel e Ben so che fosti, conclusivi della tenzone tra Dante e forese, ma non manca addirittura un sonetto, Messer Tortoso, quanto piú ripenso, che riproduce, mutato il destinatario, la dispersa petrarchesca Conte Ricciardo, quanto piú ripenso.8 Un controllo si-stematico rivela altre acquisizioni trecentesche: intanto, topografica-mente lontano dal testo petrarchesco che gli risponde, si trova anche il missivo di Ricciardo il Vecchio Ben che ignorante sia, io pur mi penso.9 Si

6. Per l’identificazione di Orcagna con Mariotto di Nardo di Cione cfr. riassuntiva-mente su tutto F. Bausi, orcagna o Burchiello? (sul sonetto ‘Molti poeti han già descritto Amore’), in « Interpres », xiii 1993, pp. 275-93.

7. Cfr. i Sonetti | Del Burchiello | Del Bellincioni | e D’Altri Poeti | Fiorentini | Alla Burchiellesca, in Londra [ma Livorno, Masi] 1757: la cit. è dalla didascalia intro-duttiva della terza parte, p. 145.

8. Il sonetto è presente a p. 153 dell’ed. pseudo-londinese. Cfr. in proposito I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2000, pp. cx-cxi.

9. Il sonetto è a p. 241 dell’ed. pseudo-londinese. Lo si può leggere in D. Piccini, Un rimatore trecentesco che non c’è piú: i due conti Ricciardo e l’ignoto Guido di Bagno, in « Studi petrar-cheschi », n.s., xiv 2001, pp. 115-97, a p. 160. Dalle non poche testimonianze del sonetto nella tradizione manoscritta non risulta alcuna attribuzione a Burchiello (cfr. le pp. 127-37) ma la coppia (in ordine inverso rispetto al corretto e con attribuzione al Burchiello del-l’anta petrarchesca del dittico) è già nell’edizione burchiellesca del 1490 (sonecti del Bur-chiello, s.i.t. ma firenze, Bartolomeo de’ Libri, 1490), mentre la sostituzione incipitaria di « Messer Tortoso » a « Conte Ricciardo » risale al Doni (Rime del Bvrchiello comentate dal Do-ni, Venezia, francesco Marcolini, 1553; cfr. Piccini, Un rimatore trecentesco, cit., p. 192).

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possono trovare poi un rifacimento piuttosto libero (viene rimaneggiato anche lo schema, che passa da ABAB ABAB CDC DEE a ABBA ABBA CDC DCD, ed aggiunta una coda DEE) del sonetto di Niccolo de’ Rossi La femena ch’è del tenpo pupilla10 e il sonetto di Ventura Monachi a Giovan-ni frescobaldi Giovanni, io son condotto in terr’aquatica.11 Procedendo un po’ avanti con gli anni e verso autori attivi sul finire del secolo XIV, andran-no segnalati cinque sonetti attribuibili con varia attendibilità ad Antonio Pucci, uno conteso tra Burchiello e Niccolò Soldanieri12 e la seconda pa-ne ruzzola in terza rima di Nicolò Povero, sí duramente un sonno mi percosse;13 quindi, passando ai primi decenni del Quattrocento (e dunque ai con-

10. Il sonetto è a p. 173 della pseudo-londinese. Per il testo di partenza cfr. F. Brugno­lo, Il canzoniere di niccolò de’ Rossi, 2 voll., Padova, Antenore, 1973-1977, vol. i p. 155. Cfr. anche Rimatori del Trecento, a cura di G. Corsi, Torino, Utet, 1969, p. 686, che segnala la presenza del sonetto con attribuzione a Burchiello anche nei mss. Laurenziano XL 48 e Riccardiano 1109. Niccolò de’ Rossi è autore che peraltro si presta bene a riscritture: una, particolarmente articolata e tràdita da tre codici (i mss. Conventi Soppressi 122 e Redi 184 della Biblioteca Laurenziana e il codice C 43 della Biblioteca Comunale « Augusta » di Pe rugia), del sonetto A fare una donna bella soprano (per cui cfr. Brugnolo, Il canzoniere di niccolò de’ Rossi, cit., p. 57) segnala M. C. Camboni, sulla fortuna di niccolò de’ Rossi, in « Stu-di di filologia italiana », lxiv 2006, pp. 21-31.

11. Il sonetto è a p. 228 dell’ed. pseudo-londinese. L’unica edizione integrale di Ventu-ra Monachi (morto nel 1348) è sonetti editi ed inediti di ser Ventura Monachi rimatore fiorentino del sec. XIV, a cura di A. Mabellini, Torino-Roma-Milano-firenze-Napoli, Paravia, 1903, tutt’altro che attendibile. Una scelta di sonetti (da cui Giovanni, io son condotto è però esclu-so) è anche in Rimatori del Trecento, cit. Il sonetto riportato nell’edizione burchiellesca è comunque di uno dei maggiormente attestati di Ventura (anzi, l’unico, visto che il piú diffuso di tutti, se la Fortuna t’ha fatto signore, non è di attribuibilità indiscussa).

12. Si tratta di Posto m’ho ’n cuor di dir ciò che m’aviene, a p. 175 della pseudolondinese. Zac­ca rello, nell’editio minor delle Poesie del Burchiello (Torino, Einaudi, 2004, p. 276) segna-la la non inappuntabile attendibilità dell’attribuzione a Burchiello, stante i due soli codici (Riccardiano 1109 e Vaticano Barb. lat. 3917) che riportano il sonetto e ne corroborano l’inclusione nella vulgata quattrocentesca istituita dalla princeps. Per altro l’attribuzione a Niccolò si regge anch’essa su un’unica esplicita didascalia, quella del ms. 1147 della Biblio-teca Nazionale « Vittorio Emanuele II » di Roma, di contro alla diffusa adespotia del so-netto (cfr. Rimatori del Trecento, cit., pp. 736-37).

13. È alle pp. 177 e sgg. della pseudolondinese. Alla riedizioni dei due capitoli di Nico-lò ha atteso nella sua tesi di laurea Vittorio Celotto (tesi specialistica discussa presso l’Uni-versità di Napoli, a.a. 2008-2009, relatore Andrea Mazzucchi): nel frattempo rimane im-prescindibile E. Levi, niccolò Povero, giullare fiorentino, in Id., Poesia di popolo e poesia di corte nel Trecento, Livorno, Giusti, 1915, pp. 79-114 (i testi alle pp. 105-14; già apparso col titolo Le

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temporanei di Burchiello) ritroviamo parecchie figure dell’ambiente fiorentino (da Antonio Matteo di Meglio a Anselmo Calderoni a filippo Brunelleschi) non di necessità, però, in contatto diretto col barbiere. In-fine, con clamoroso ma eloquente anacronismo, la silloge pseudo-londi-nese finisce con l’includere anche due sonetti di Luigi Pulci in tenzone con Matteo franco.14 Il quadro che viene fuori di quella che potremo definire la “funzione-Burchiello” secondo la stampa pseudo-londinese è dunque particolarmente variegato. fermiamoci anche ai soli testi due-trecenteschi. Il Niccolò de’ Rossi en travesti, la tenzone Petrarca-conte Ricciardo, i vari Pucci e il conteso Soldanieri rinviano tutti insieme ad un generale gusto per il sonetto gnomico15 che poteva tranquillamente ap-parire ai curatori (e tale era in effetti) come pertinente in pieno alla tem-perie stilistica quattrocentesca ma che non ci riguarda in questa sede specifica. Un po’ piú vicino risulterebbe invece Ventura Monachi, che col suo sonetto ipertecnico (infatti, come molti dei suoi, è interamente costruito su rime sdrucciole) e a tratti involontariamente oscuro rinvia comunque ad un settore ben presente nel Burchiello (e non solo), vale a dire quello dell’invettiva contro popolazioni e città italiane reputate bar-bare di costumi e spesso anche di lingua (qui ad essere sottoposta a repri-menda è Venezia).16 Con lo scambio di sonetti tra Dante e forese, inve-

paneruzzole di nicolò Povero (contributo alla storia della poesia giullaresca nel medio evo italiano), in « Studi medievali », iii 1908, pp. 81-108).

14. Per i rapporti tra Pulci e Burchiello cfr. G. Crimi, L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello, Manziana, Vecchiarelli, 2005, pp. 317-53.

15. Magari espressionisticamente un po’ piú acceso nel primo testo della sequenza, giusta la tematica misogina: ma dal punto di vista linguistico e stilistico il sonetto subisce dalla versione veneta a quella toscana un evidente depauperamento (stante comunque la già non eccelsa fattura del testo di partenza). Basti qui a dimostrazione mettere idealmen-te a fronte anche solo la prima quartina derossiana (« La femena ch’è del tenpo pupilla / le plu parte si trova glotta e ladra; / e quando viene en etate nubilla, / sendo ben puita, alor se tien liçadra ») col suo piú tardo remake (« La femina, che del tempo è pupilla, / Le piú volte si trova ghiotta, e ladra, / Sendo ben brutta allor si tien leggiadra, / Mentre che giovinezza il fior distilla »).

16. In un altro scambio con Ventura, sarà Giovanni a insinuare nel sonetto Due foresette, ser Ventura, bionde 20 che a Pisa « […] ogni femmina v’è per lo ber crespa » (cito dall’edizio-ne di Ventura che sto allestendo da ormai troppo tempo). Il motivo è comunque ben trecentesco e lo si ritrova ad es. in Giovanni Quirini, nei due sonetti Io sum tra gente barba-

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ce, siamo arrivati davvero molto prossimi all’area del nonsense: non in senso stretto, ovviamente, ma in quanto una certa cripticità probabil-mente indotta dal genere tenzone (in cui i due corrispondenti non ne-cessariamente hanno interesse a che le allusioni siano comprensibili an-che, per dir cosí, all’esterno)17 poteva suggerire il sospetto di una inten-zionale sospensione del significato. Cosí ad esempio ai vv. 3-4 e 9-11 del sonetto di Dante (« Giú per la gola tanta rema ha messa / Che a forza gli convien tor dell’altrui / […] / E tal giace per lui nel letto tristo / Per tema non sia preso il Lombolare / Che gli appartien quanto Giuseppe a Cri-sto ») oppure nelle terzine intere del sonetto di forese (« Buon uso ci ha recato, ben tel dico / Che quel ti caricò ben di bastone / Colui hai per fratello, o per amico. / Ed il nome ti diè delle persone, / Che fanno poca stima del panico; / Dillomi, ch’i’ vuo’ metterlo a ragione »).18 E non sarà allora un caso, sia detto di velocissimo passaggio (su questo tornerò tra poco), che della tenzone Dante-forese sia stata fornita in tempi recenti un’interpretazione (per quanto scarsamente fondata) all’insegna dell’e-qui vocità linguistica a sfondo (omo-)sessuale, in accordo a quanto accade spesso con testi riconducibili all’area del nonsense. Infine pienamente per-tinente al nostro ambito è il capitolo di Nicolò Povero, ricetta medica parodizzata la cui aggregabilità, quanto al tema, all’ambito burchiellesco

re e crudele e s’io torno al bel paese di Franchia (cfr. G. Quirini, Rime, a cura di E.M. Duso, Roma-Padova, Antenore, 2002, risp. pp. 78 e 80). Per un parallelo in Burchiello basterà citare Crimi, L’oscura lingua, cit., p. 22, che ricorda come gli « abitanti di Arezzo » vengano « citati nel corpus in piú di un’occasione per la loro stupidità ».

17. Incidentalmente, ma forse non casualmente, si noti come siano proprio i testi in tenzone quelli preferibilmente cooptati nell’organismo della pseudo-londinese dal con-testo due-trecentesco: oltre a Dante-forese e Petrarca-Ricciardo è un missivo altrove dotato di risposta (anzi, di piú risposte) anche il sonetto di Ventura.

18. Cito ovviamente dal testo della pseudo-londinese. Il testo critico è per molti versi piú lineare (risp.: « giú per la gola tanta rob’ hai messa, / ch’a forza di convien tôrre l’altrui / […] / E tal giace per lui — nel letto tristo, / per tema non sia preso a lo ’mbo lare, / che gli apartien quanto Giosep a Cristo » e « Buon uso ci ha’ recato, ben ti ·l dico, / che qual ti carica ben di bastone, / colu’ ha’ per fratello e per amico. / Il nome ti direi delle persone / che v’hanno posto sú; ma del panico / mi reca, ch’i’ vo’ metter la ragion »: cito da D. Alighieri, Rime, a cura di D. De Robertis, firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005, pp. 465-72, edizione commentata che è anche revisione del testo critico fissato nell’editio maior firenze, Le Lettere, 2002, 3 voll. in 5 to.).

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è stata ampiamente chiarita in questo nostro convegno da Michelangelo Zaccarello (e ancor piú pertinente sarebbe stata l’altra, prima, paneruz-zola, non inclusa nella pseudo-londinese).

La chiamata in causa di Nicolò mi dà finalmente il pretesto per citare quella mappa per i territori del nonsense pre-burchiellesco a cui allude-vo all’inizio. Si tratta, come si sarà capito, del saggio di Giuseppe Crimi L’oscura lingua e il parlar sottile, dedicato appunto, come recita il sottotitolo, alla Tradizione e fortuna del Burchiello.19 Un libro importante e ricco di in-formazioni e analisi (persino troppe, se si vuole, tanto che occorre per-correrlo senza impazienza) e al quale bisogna riconoscere, per quel che riguarda il tema che sto cercando di frequentare, di aver quasi esaurito il discorso. In particolare, i tre capitoli iniziali esaminano minuziosamente le interazioni possibili tra Burchiello e, nell’ordine, fatrasies e fatras, tradi-zione giocosa mediolatina e volgare, Niccolò Povero (appunto) e l’opera di franco Sacchetti, incluse per quest’ultimo possibili intersezioni con il Trecentonovelle. Il percorso affrontato da Crimi è largamente sottoscrivi-bile: e varrà infine la pena di ricordare, per riprendere in mano un’ultima volta l’edizione pseudo-londinese, che il sonetto di Sacchetti nasi cornuti e visi digrignanti, attentamente analizzato in L’oscura lingua e tradizional-mente indicato come il piú rilevante precedente della poesia del nonsense, è anch’esso incluso in quell’edizione, anche se (con lapsus di prospettiva che mi pare particolarmente significativo) non nella terza ma nella quar-ta parte, quella dedicata ai sonetti “alla burchiellesca” di tarda imitazio-ne.20 Un rilievo particolare assume, nella prospettiva di Crimi, il doppio binario dell’analisi, che da un lato si richiama alle tecniche compositive, retoriche e sintattiche, dall’altro scava in un serbatoio metaforico e figu-rativo che sembra ripresentarsi immutato da un secolo all’altro. Proprio a partire da queste premesse mi pare specialmente persuasiva la rivaluta-

19. Cfr. sopra, n. 14.20. Il lapsus insomma fa coppia con quello prima segnalato, e di segno inverso, circa

Luigi Pulci arretrato cronologicamente a ridosso di Burchiello, a conferma dell’appiatti-mento generale di prospettiva che sottende all’edizione pseudo-londinese e di lí si propa-ga alla vulgata editoriale e interpretativa per lungo tempo. Sul sonetto di Sacchetti (il testo è leggibile in F. Sacchetti, Il libro delle rime, a cura di F. Brambilla Ageno, firenze-Perth, Olschki-Univ. of West Australia Press, 1990) cfr. Crimi, L’oscura lingua, cit., pp. 166 sgg.

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zione compiuta dell’opera di franco Sacchetti, anche attraverso la messa a sistema degli sparsi rilievi recuperabili nella storia critica sull’autore,21 cosí da riuscire a raggruppare attorno a nasi cornuti alcuni, seppur non moltissimi, episodi del suo sin troppo ampio Libro delle Rime. E qui apro una velocissima parentesi per esortare ad un rilancio degli studi su que-sto tutto sommato non cosí frequentatissimo rimatore, per il quale ab-biamo ottime analisi linguistiche e filologiche che sono però controbi-lanciate da una sostanziale povertà sul versante interpretativo e dei rap-porti intertestuali.22

Affermato dunque il ruolo di rilievo che va attribuito a Sacchetti e Niccolò Povero (due esperienze poetiche, va aggiunto, fondamental-mente provinciali se non addirittura anguste, che ribadiscono una volta di piú come la preistoria di Burchiello sia, come peraltro la sua storia, in buona sostanza tutta fiorentina), bisognerà precisare che l’individuazio-ne di ulteriori tessere per il mosaico incontra, tra gli altri. anche un osta-colo quasi insormontabile in una peculiare condizione psicologica di noi moderni lettori ed esegeti di poesia medievale e che, molto semplice-mente, ci rende difficile o addirittura impossibile ammettere che prima di Burchiello si potessero dare casi di nonsense volontario. Da qui ne con-segue che le zone di oscurità piú o meno ampia presenti in determinati testi sarebbero da attribuire semmai a difficoltà interpretative dovute al gap storico-culturale che ci separa dalla poesia dei primi secoli. La stessa ben nota e discussa operazione di Jean Toscan, per non dire di alcune applicazioni condotte a ritroso su testi due e trecenteschi (a cui neppure io mi sono sottratto, anche se spero in maniera sufficientemente cauta),23

21. Cfr. ivi, p. 165 n. 1.22. Basti ricordare che la magistrale ed. cit. di franca Ageno è corredata da un com-

mento inappuntabile, certo, ma tutt’altro che ampio e prevalentemente di carattere lin-guistico.

23. Il riferimento è ovviamente a J. Toscan, Le carnaval du langage. Le lexique érotique des poètes de l’équivoque de Burchiello à Marino (XV e-XVII e siècles), 4 voll, Lille, Presses Univ. de Lil le iii, 1981. Non rari gli esempi di applicazione del lessico di Toscan alla poesia duecen-tesca, soprattutto da parte di Mauro Cursietti: oltre che sulla tenzone Dante-forese (da lui considerata una falso quattrocentesco, contro ogni evidenza paleografica: cfr. M. Cur­sietti, La falsa tenzone di Dante con Forese Donati, Anzio, De Rubeis, 1995), lo studioso ha sperimentato il medesimo metodo soprattutto su Cavalcanti, sempre deducendone con-

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è forse leggibile anche in questa chiave, come sintomo di un rigetto di fronte alla possibile assenza di un significato logicamente restituibile. Il terreno è scivoloso e sicuramente non da attraversare in questa occasio-ne. Va detto che ci sono buonissime e condivisibili ragioni culturali per sostenere che determinati temi di ordine sessuale, soprattutto quelli re-lativi a pratiche ritenute degne addirittura di condanna penale (come la sodomia, etero ed omosessuale), potessero essere espressi solo attraverso la creazione di una sorta di codice cifrato il quale, una volta organizzato in testo, finiva con l’originare evidentemente un nonsense apparente. Non sarà un caso, a riprova di questo, che marcate allusioni alla sessualità sia-no rinvenibili in quasi tutti i testi che sino ad oggi sono stati ricondotti alla pratica del nonsense, dalle fatrasies, appunto, sino a Burchiello, ma an-che alle per molti versi analoghe coplas de disparates iberiche. Detto que-sto, però, pretendere di fornire all’anagrafe di questo codice linguistico il nome di un padre ed una precisa data di nascita (come pure si è credu-to possibile fare) o utilizzare tutto questo come improbabile passepartout per superare difficoltà che forse sono insuperabili (perché il significato in quel testo o in quella zona di quel testo è, molto semplicemente, sospe-so) sono nel complesso operazioni che a mio avviso eccedono la verosi-miglianza.

In questa chiave è possibile indicare almeno un caso notevole in cui l’utilizzo dell’equivoco linguistico ottiene esiti che ormeggiano molto da vicino il nonsense, ed è quello di alcuni sonetti opera di quell’“enclave” di poeti operanti nella Perugia di metà Trecento dei quali mi sono occupa-to ormai parecchi anni fa.24 Da quel corpus, in realtà tutt’altro che vasto rispetto all’insieme della silloge, mi limito a segnalarvi come esemplare

seguenze di ordine cronologico (cfr. in partic. Id., Una beffa parallela alla falsa ‘Tenzone di Dante con Forese Donati’: la berta di Cavalcanti “cavalcato”, in « L’Alighieri », xl 1999, pp. 91-110, e Id., I doppi sensi del sonetto ‘s’e’ non ti cagia la tua santalena’, in « La parola del testo », iii 1999, pp. 75-83). Una sistematica interpretazione basata sull’equivoco linguistico a sfondo ses-suale è stata di recente avanzata da Silvia Buzzetti Gallarati in piú studi sul Rustico filip-pi comico, culminati in una nuova edizione commentata (R. Filippi, sonetti satirici e gioco-si, a cura di S. Buzzatti Gallarati, firenze, Carocci, 2005). L’autoallusione è a M. Beris­so, La raccolta dei poeti perugini del Vat. Barberiniano lat. 4036. storia della tradizione e cultura poetica di una scuola trecentesca, firenze, Olschki, 2000, in partic. pp. 257-322.

24. Appunto in Berisso, La raccolta dei poeti perugini, cit. Per i testi cfr. Poeti perugini del

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il sonetto di Cecco Nuccoli, Andando per via nova e per via maggio. Che si tratti di un caso eccezionale pure per l’epoca e per quel contesto lettera-rio dove certo non mancavano eccessi stilistici è segnalato dalla presenza, nel codice che solo lo riporta, il Barb. lat. 4036, di una manicula a margine, una delle due uniche che un lettore ancora trecentesco (forse lo stesso copista) vi ha apposto. Altrettanto indubbia è la prossimità al nonsense del testo. In effetti, se anche le tecniche retorico-sintattiche utilizzate da Nuccoli non si avvicinano molto a quelle caratteristiche del sonetto bur-chiellesco, qualche punto di contatto mi pare degno di nota: penso qui soprattutto all’uso degli antroponimi e piú ancora di una toponomatica “irrazionale” che accosta Etiopia e Parigi, fiandra e francia e Galizia.25 Ammessa però la superficie del testo para-burchiellesca, il sonetto An-dando per via nova riceve comunque una luce forse non totale ma neppu-re episodica se lo si legge in chiave di racconto cifrato di una anche due avventure erotico-amorose, magari usufruendo all’occasione proprio del lavoro di Toscan.26 Procedure analoghe a quella da me operata sul sonetto di Nuccoli sono applicabili anche a qualche altro testo di appar-tenenti alla scuola, soprattutto quelli in tenzone (il che ci riporta a quan-to detto in precedenza a proposito di Dante e forese), spesso confer-mando intuizioni critiche già presenti nella invero non ampia bibliogra-fia su questi autori. Va però aggiunto che la superficie dei sonetti in que-stione non forma mai un intrico di sistematica insensatezza come An-dando per via nova. fa parziale eccezione il sonetto di Cione a Neri Mo-scoli Da po’ ch’io foi ne la cità del Tronto, con la risposta (ben piú lineare, al punto che è a partire da essa che è possibile decifrare almeno in parte il missivo) di Moscoli Ben ve mostra fornito, el vostro conto.27 Anche in que-st’altro caso la formulazione nonsensical del testo viene prevalentemente a coagularsi attorno ad una serie di elementi geografici, qui però regio-nalmente congruenti (Tronto, Pugnano, Offida), nonché al campo lessi-

Trecento (Codice Vaticano Barberiniano Latino 4036), a cura di F. Mancini, 2 voll, Perugia, Guerra, 1996-1997.

25. Al proposito cfr. ad es. Crimi, L’oscura lingua, cit., pp. 24-25.26. Gli esiti dell’esperimento si possono leggere in Berisso, La raccolta poeti perugini,

cit., pp. 257-69.27. Cfr. ivi, pp. 301-9.

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cale della guerra, ben familiare tanto ai frequentatori delle fatrasies quan-to a quelli del sonetto burchiellesco (ma nemmeno paragonabile per ol-tranza d’uso, sia chiaro). Ancora una volta però il nonsense è in realtà solo apparente, è il segnale codificato che l’autore invia al lettore (che spesso è un lettore ben determinato, vale a dire il destinatario del sonet-to) per segnalargli l’entrata nei territori del linguaggio erotico equivoco. Da tutto quanto detto sin qui, insomma, spero risulti ben evidente che il ricorso ad un lessico cifrato di matrice oscena in concomitanza con un primo livello testuale organizzato intorno al nonsense è rinvenibile episo-dicamente anche ben prima del Quattrocento. Non meraviglieranno, al-lora, le concordanze rinvenute da Crimi tra Burchiello e l’autore che piú sistematicamente ha praticato l’equivoco linguistico, Stefano fininguer-ri, se le si interpreta come tracce di una relazione piú ampia e forse in parte ancora da indagare.28 Nello stesso tempo, però, non dobbiamo di-menticarci che nel caso dei poeti perugini ci troviamo di fronte ad un contesto socio-culturale molto particolare, ad un gruppo di poeti che condividono il medesimo milieu sociale e politico e che, per di piú, af-fiancano a complessivamente pochi sonetti di questo tipo altri sonetti comici in senso piú tradizionale (oltre, va aggiunto, ad una strabordante quantità di testi lirici). Insomma, sono appunto casi eccezionali. Altro conto sarà dunque estendere la toscanizzazione (mi si permette il gioco di parole, che però non va lontano dal vero, per la magica virtú che tal-volta i giochi di parole hanno) a testi che non rispondono a queste carat-teristiche socio-culturali o ad interi corpora testuali.

Per tornare al punto lasciato in sospeso, la resistenza ad ammettere che anche prima del Burchiello vi sia la possibilità di organismi testuali all’insegna del nonsense, come dicevo, è comunque fortissima. Vorrei fare un caso recentemente tornato in discussione, quello del Pataffio, per il quale federico Della Corte ha avanzato di recente la candidatura alla paternità di franco Sacchetti, rovesciando (a mio avviso in modo con-vincente) l’interpretazione delle concordanze lessicali e stilistiche tra il poeta fiorentino e l’autore del poemetto che la tradizione critica aveva già indicato, salvo vedere nel secondo un imitatore/emulatore del pri-

28. Cfr. Crimi, L’oscura lingua, cit., pp. 261-316.

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mo.29 Ma la novità piú consistente dell’operazione editoriale di Della Corte sta nell’aver creduto di potere individuare attraverso il dipanarsi dei dieci capitoli del Pataffio una vera e propria trama, sviluppata nelle forme di un’autentica pièce teatrale con tanto di scambi di battute. E quando dico “trama” non eccedo quanto proposto dallo studioso ma ne cito esattamente i termini. Ecco infatti quanto dice Della Corte: « Ma se il Pataffio avesse invece una trama e un senso? discontinui e arruffatissimi quanto si vuole, ma li avesse? ».30 Prima ancora,31 a rendere ancora piú perspicua l’ipotesi interpretativa di fondo, veniva fornito uno schemati-co ma ben conseguente « plot » (è di nuovo un termine usato da Della Corte) per la vicenda. Restituita coerenza alla macrostruttura, l’oltranza lessicale del poemetto finirà per nascondere, secondo lo studioso (o tra-vestirà, magari, per sovrappiú di carica ludico-grottesca), un « triangolo erotico […] con la presenza del seduttore, della donna disponibile »32 che getta ponti altrimenti insospettabili verso il fabliaux e che però, per col-mo di ironia, si dimostra anche e al tempo stesso un preciso camuffa-mento di vicende biografiche sacchettiane, che vedono coinvolti franco, il fratello di lui Giannozzo (anch’egli rimatore, come si sa)33 e la moglie

29. Cfr. f. Sacchetti, Il Pataffio, a cura di F. Della Corte, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2005 (da integrare con il preparatorio F. Della Corte, Proposta di attribu-zione del ‘Pataffio’ a Franco sacchetti, in « filologia e critica », xxviii 2003, pp. 41-69). Sull’edi-zione si vedano le recensioni di G. Marrani, in « Medioevo romanzo », a. xxxi 2007, pp. 221-25, e di G. Crimi, in « Bollettino di italianistica », n. s., v 2008, pp. 144-56. Va sottoline-ato che un netto avvicinamento tra Sacchetti e il poemetto era già stato effettuato da Roberto Ballerini, prima per cenni nell’articolo R. Ballerini, Rebus di lingua nelle liriche del sacchetti, in « Studi e problemi di critica testuale », num. 21 1980, pp. 25-47, poi piú espli-citamente (anche se non proponendo la paternità del fiorentino ma dettagliando la rete delle coincidenze) in Id., Per la fortuna di Franco sacchetti nel Quattrocento: il caso del ‘Pataffio’, ivi, num. 25 1982, pp. 5-17.

30. Sacchetti, Il Pataffio, cit., p. xxiv.31. Ivi, pp. xvii-xviii.32. Ivi, p. xxvii.33. Come ricorda Crimi, rec. cit., p. 145, la candidatura di Giannozzo come autore del

Pataffio è stata affacciata da D. Puccini, rec. a Della Corte, Proposta di attribuzione, cit., in « Lingua nostra », lxvi 2005, pp. 127-28. Delle poesie di Giannozzo abbiamo una recente edizione critica, G. Sacchetti, Rime, a cura di T. Arvigo, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2005.

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di costui Ghita, al punto da far supporre allo studioso che ci si trovi di fronte al « volontario oscuramento del senso » di un « canovaccio biogra-fico […] ingombrante e imbarazzante ».34 L’operazione, sia chiaro, è con-dotta da Della Corte con la debita prudenza, molto maggiore di quella che forse potrebbe apparire da questa mia sintesi. Ma resta il fatto che anche in questo caso l’interprete moderno, posto di fronte ad un agglo-merato testuale che appare rispondere solo alla logica del puro e sempli-ce accumulo di riboboli linguistici senza preoccupazioni ulteriori, reagi-sce cercando una chiave, magari parziale ma che comunque cerchi di disserrare uno spiraglio di senso.

Sin qui ho parlato di esperienze trecentesche, anzi, prevalentemente tardo-trecentesche: ci si chiederà quindi come mai il Duecento sia rima-sto fuori dal discorso. In realtà per il XIII secolo il raccolto è, se possibile, con ancor meno frutti. Andranno intanto escluse in primo luogo dal no-stro orizzonte le prove di vera e propria enigmistica letteraria ad opera di Guittone e di alcuni altri autori a lui in varia misura riconducibili, perché appunto di enigmi che prevedono una soluzione si tratta.35 Non sembra richiamabile qui neppure il Rustico filippi comico, che pure presenta zone non limpidissime e che ha perciò suggerito di recente una lettura, al solito, in chiave equivoco-erotico che ha suscitato resistenze penso condivisibili nella sostanza.36 Allo stesso alveo, e con le stesse pre-messe e ricadute in ambito critico, andranno ricondotti pure altri, spo-radici sonetti cavalcantiani di piú o meno controversa interpretazione,

34. Sacchetti, Il Pataffio, cit., p. xvii.35. Penso soprattutto ai due sonetti guittoniani Deporto - e gioia nel mio core à·pporta,

edito e decifrato in Guittone d’Arezzo, Canzoniere. I sonetti d’amore del codice Laurenziano, a cura di L. Leonardi, Torino, Einaudi, 1994, pp. 230-32, e A far meo porto, c’à ’n te, part’e’ cheo, su cui si veda, anche per l’edizione, d’A. S. Avalle, Un « vanto » di Guittone, in Id., La doppia verità. Fenomenologia ecdotica e lingua letteraria del Medioevo romanzo, firenze, Edizioni del Galluzzo, 2002, pp. 197-204. Per altri casi mi permetto di rinviare al mio Crittografie predan-tesche, in L’enigma, cit. Aggiungo comunque che, almeno nel caso di Guittone, opzione enigmistica ed espressione della sessualità procedono ancora una volta affiancate.

36. Cfr. la già cit. ed. a cura della Buzzetti Gallarati: la proposta ha avuto appunto riscontri contrastanti, dalla radicale opposizione manifestata da U. Carpi, stupri filologici: il caso del Barbuto, in « Allegoria », n.s., xviii 2006, pp. 196-201, alla convintissima adesione di S. Trousselard, in « Italies », xi 2007, pp. 697-700.

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nonché la già citata tenzone tra Dante e forese. Infine non mi pare che i non molti testi de oppositis della nostra tradizione, a partire da Umile sono ed orgoglioso di Ruggieri Apugliese, possano essere qui evocati. Il ricorso agli opposita è certo una tecnica frequente nel devinalh, ma non è esclusiva di esso, come ha mostrato qualche decennio fa Nicolò Pasero, e dunque non basta al nostro caso.37 Rimarrebbe il Detto del gatto lupesco, sul quale Gianluca Lauta proporrà dopo di me una specifica comunicazione, esi-mendomi perciò da ulteriori approfondimenti. Se però posso avanza-re una mia personale opinione, credo che tra i due poli del nonsense ed dell’allegoria richiamati nel suo titolo da Lauta, sia di gran lunga il secon-do a fornire la chiave ideale per accedere al testo, sia l’allegoria da inten-dere in senso stretto, alla Guerrieri Crocetti, o (come mi pare piú verosi-mile) in chiave parodica, alla Jauss.38 Insomma, quella duecentesca sem-bra una strada chiusa: se preistoria del nonsense si dà, e per quel che poco che di essa si dà, si tratta comunque di preistoria molto recente.

Concluderò dunque queste veloci note col genere che forse piú ci si aspettava che io evocassi in questa occasione, vale a dire quello della frottola. È infatti proprio a proposito della frottola che l’apparentamento col nonsense è stata tradizionalmente evocato in passato. Una tradizione critica che risale almeno a francesco flamini ha sempre visto in essa un genere caratterizzato dall’unione di una struttura metrica arbitraria e di un procedimento discorsivo all’insegna dell’incoerenza e dell’accumulo: « viluppo di proverbi e di allusioni difficili a spiegare, con poche traccie di burlesco, ma con bizzarria di modi e punture di sarcasmo ».39 Solo in tempi recenti questa ipotesi è stata sottoposta ad una radicale revisione,

37. Su Ruggieri (e sulla sua fonte Raimbaut de Vaqueiras) cfr. Pasero, Devinalh, “non senso” e “interiorizzazione testuale”, cit., pp. 16-19 (altre considerazioni sul contesto italiano ivi, pp. 27-31).

38. Per un’esposizione precisa delle varie interpretazioni succedutesi sul Detto del Gat-to lupesco rinvio all’Introduzione a Il Gatto Lupesco e il Mare Amoroso, a cura di A. Carrega, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, pp. 6-21.

39. Questa la nota diagnosi di F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, rist. an. a cura di G. Gorni, firenze, Le Lettere, 1977, p. 494. Natural-mente occorre ricordare che il suo giudizio va riferito, giusta la sede in cui è espresso, alla frottola quattrocentesca, che dal punto di vista dell’organizzazione discorsiva è cosa un po’ diversa da quella del XIV secolo.

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con gli interventi, a voler citare i piú notevoli e in ordine di neutra suc-cessione cronologica, di Paolo Orvieto, Rinaldina Russell, Sabrine Ver-hulst e Alessandro Pancheri.40 Direi, anzi, che il percorso di studi appena evocato ha operato per un progressivo spostamento dal nonsense al senso piú o meno compiuto. Se Orvieto infatti impostava il suo ragionamen-to recuperando l’opposizione zumthoriana (su cui tornerò tra poco) tra non-senso relativo e non-senso assoluto ed anzi lo applicava alla tradi-zione italiana opponendo la frottola al sonetto burchiellesco come già Zumthor aveva fatto con resverie e fatrasie,41 la Russell riduceva ulterior-mente lo spazio del non-senso ad una « coerenza logica che s’interrompe a intermittenza »42 in alcuni (pochi) testi. Il non-senso relativo insomma riceveva un’ulteriore relativizzazione, tanto che la studiosa poteva affer-mare apertamente nel caso delle frottole gnomico-politiche che in tali casi l’autore « mira sempre al significato, anzi intende rafforzarlo e con-ferirgli autorità inoppugnabile », dal momento che « la tiritera di motti, sentenze e proverbi ha la funzione di sottolineare i fatti e i concetti, le minacce e i moniti che si vogliono imprimere nella coscienza dell’inter-locutore e del pubblico ».43 Ipotesi verificabile puntualmente nella lettu-ra della frottola di fazio degli Uberti, la prima che ci è nota, databile al 1336, o tu che leggi e persino nella risposta di Tommaso di Giunta negl’i-gnoranti seggi,44 una volta che venga districata con fatica (e spesso cronisti

40. Cfr. P. Orvieto, sulle forme metriche della poesia del non-senso (relativo e assoluto), in « Metrica », i 1978, pp. 203-18; R. Russell, senso, nonsenso e controsenso nella frottola, in Ead., Generi poetici medievali. Modelli e funzioni letterarie, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1982, pp. 147-61; S. Verhulst, La frottola (XIV-XV sec.): aspetti della codificazione e proposte esegetiche, Gent, Rijksuniversiteit Gent, 1990 (preceduto da Ead., note per una nuova impo-stazione delle ricerche sulla frottola, in « Studi e problemi di critica testuale », num. 32 1988, pp. 117-35); A. Pancheri, « Col suon chioccio ». Per una frottola dispersa attribuibile a Francesco Petrar-ca, Padova, Antenore, 1993 (da leggere in parallelo alla recensione a S. Verhulst, La frot-tola, in « Rivista di letteratura italiana », ix 1991, pp. 331-38).

41. Cfr. Zumthor, Fatrasie, fatrassiers, cit., pp. 111-12.42. Russell, senso, nonsenso e controsenso, cit., p. 161.43. Ivi, p. 154.44. Per i due testi cfr. Tommaso di Giunta, Il conciliato d’amore. Rime. epistole, a cura di

L. Pagnotta, firenze, Edizioni del Galluzzo, 2001, risp. pp. 118-26 (che migliora in qual-che punto l’edizione da me procurata in Testo e contesto della frottola ‘o tu che leggi’ di Fazio degli Uberti, in « Studi di filologia italiana », li 1993, pp. 53-88) e 128-37.

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coevi alla mano) la « rettorica rete »45 dei riferimenti e delle allusioni a fatti storici. Quanto poi alle ricerche della Verhulst e di Pancheri, esse hanno deliberatamente ignorato l’aspetto contenutistico per puntare ri-solutamente sull’individuazione di una peculiare forma (e in Pancheri propriamente formula) metrica applicabile al genere. Resta il fatto che una riproposizione del nesso tra frottola e resverie, un nesso peraltro già proposto, indipendentemente da Orvieto, anche da Giovanna Angeli,46 mi pare possa essere giudicato ancora praticabile, anche se andrà applica-to solo ad una parte del corpus frottolistico trecentesco. Indubbiamente vi sono frottole costruite tramite il ricorso ad un nonsense relativo, frotto-le cioè che « se caractérise surtout par une distorsion sémantique concer-tée, qui se situe dans le passage d’un énoncé à l’autre, chaque énoncé autonome (distique) étant sémantiquement acceptable: en somme, une sé quence alogique d’assertions logiques »,47 dove per contro il nonsense as soluto (caratterizzante ad esempio le fatrasies), che per usare le parole di Zumthor « introduce una contraddizione nell’enunciato in quanto ta-le, di cui intende dissociare le unità componenti […]: il non-senso pene-tra all’interno del sintagma stesso, fra gli elementi di cui taglia il flusso dei significati attesi »,48 sembra fondamentalmente estraneo al genere. Natu-ralmente tutto questo vale, ripeto, non tanto come tentativo di definizio-ne della frottola (che era invece un po’ l’obiettivo di Orvieto e della Angeli) ma in quanto permette di isolare all’interno di essa un filone piú o meno omogeneo. In questa chiave allora potremmo recuperare e se-gnalare almeno due delle tre frottole attribuite con varia fortuna al Pe-trarca, ovvero Di rider ho gran voglia e I’ ho tanto taciuto (ma anche se si vuo-le Rerum Vulgarium Fragmenta, cv),49 e poi le adespote sarà che Dio vorrà e

45. Che è sintagma di Tommaso, del sonetto Termine corto et minacciar da·llunga, 13, ac-cluso in coda a negl’ignoranti seggi e adibito a definire con felice eleganza il meccanismo di martellanti rime equivoche esibito da fazio nella proposta.

46. Cfr. Angeli, Il mondo rovesciato, cit., pp. 47-63.47. Bec, La lyrique française, cit., p. 163.48. Zumthor, Fatrasie, fatrassiers, cit., p. 108.49. Tutte e tre le frottole attribuite a Petrarca si leggono in A. Solerti, Rime disperse di

Francesco Petrarca o a lui attribuite, rist. an. a cura di P. Vecchi Galli, firenze, Le Lettere, 1997, pp. 261-80 (si vedano anche le schede di aggiornamento bibliografico posposte all’anastatica dalla Vecchi Galli, pp. 403-5). Per la prima si può vedere l’edizione fornita-

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Le sette son pur sette,50 probabilmente anche l’altra adespota Molto al re par possente e la sacchettiana Chi drieto va.51 Non però (a sottolineare una vol-ta di piú quanto il ricorso al nonsense sia eccezionale) le altre quattro di Sacchetti. Se La lingua nova52 si presenta infatti come castigazione morale della degenerazione linguistica in direzione furbesca e rurale del fioren-tino per finire però col trasformarsi, paradossalmente ma in modo espli-cito, in repertorio di quello stesso gergo che si vuole additare al ludibrio53 e dunque non è a rigore collegabile col nonsense (e siamo tra l’altro al caso assolutamente parallelo del già citato Pataffio), le altre tre frottole sono addirittura lamenti sulla decadenza morale del mondo (che è genere particolarmente caro al Sacchetti soprattutto delle canzoni), evidenti ed espliciti come tali sin dalle didascalie dell’autografo ashburnhamiano e dai rispettivi incipit: « frottola morale di franco detto: Pelegrin sono che vegno da terra / e passo su per terra, / e vo a terra » (che l’Ageno collega rinvia allo scritturale Genesi, iii 19: « donc revertaris in terram de qua sumptus es »), « frot tola di franco sopra le nuove disposizioni del mondo mutate al male: o mondo / immondo / e di ben mondo » e infine « frottola fatta per la mala disposizione del mondo: — ohi, ohi, omoi! / — Che ha’ tu, cristian, che

ne da Pancheri cit., pp. 125-34 (segnalo che se ne ha anche un’altra parecchio diversa per opera di P. Trovato, sull’attribuzione di ‘Di ridere ò gran voglia’ (Disperse ccxiii). Con una nuova edizione del testo, in « Lectura Petrarce », xviii 1998, pp. 371-423); per la seconda (te-nendo conto che in tempi piú recenti ne è stata ritrovata una nuova testimonianza) cfr. P. Vecchi Galli, Una frottola attribuita al Petrarca, in « Atti dell’Accademia delle Scienze del-l’Istituto di Bologna. Classe di scienze morali. Rendiconti », lvi-lvii 1977-1978, pp. 259-73.

50. Entrambe edite in f. Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori della lingua infino al secolo decimosettimo, 2 voll., Prato, Guasti, 1846-1847, vol. ii pp. 126 sgg. e 16 sgg.

51. La frottola Molto al re par possente, tràdita dal codice C 152 della Biblioteca Marucel-liana di firenze, è, a quanto ne so, ancora inedita. Per Sacchetti si veda l’ed. cit. a cura dell’Ageno, pp. 70-82.

52. Ed. cit., pp. 195-215.53. Si veda in questo senso il congedo, vv. 375-84, con i rinvii alla piú consolidata tradi-

zione lessicografica medievale con cui la « ciancietta » si mette in competizione: « Cian-cietta mia, che nuova ciancia cianci, / certi seran che ti terran ciarliera; / altri diran che dir piú si porria. / A’ primi dí’ che chi va quanci o lanci, / mal non può far d’un ceston una paniera; / agli altri dí’ ch’Uguccione e Papía, / Grecismo e tutti, ancor non scrisson tutto, / di che si fa costrutto, / Ma prima chi ciò dice, il detto chiosi, / poscia componga quel ch’io non composi ».

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sí ti duoi? ».54 Insomma, la distribuzione del nonsense nell’ambito delle frottole sacchettiane segue una proporzione di quattro testi in cui esso è assente contro uno, e ci conferma cosí, ancora una volta e infine, la mar-ginalità del registro anche là dove piú ci si aspetterebbe di vederne un seppur modesto successo. Il Libro delle Rime relato autografo dall’Ashbur-nham 574, secondo le ipotesi piú accreditate, sarebbe stato compilato da Sacchetti in una successione grosso modo cronologica, cosí che la frotto-la cccviii verrebbe a risultare il penultimo tra i testi scritti dal fiorentino, o perlomeno ad essere trascritto sul codice.55 Secondo l’ipotesi di data-zione dell’Ageno, infatti, ohi, ohi, omoi! risalirebbe al 1399, giusto un anno prima della morte di franco nel 1400. Per chiudere questa nostra preisto-ria mancata, insomma, non si potrebbe dare confine piú simbolicamente netto a cui convenga, come sto per fare, arrestarsi.

54. Cfr. risp. ed. cit., pp. 244-51, 389-400 e 495-503.55. Segue solo la canzone La prima legge, che dal ciel divino, che Sacchetti data all’« anno

mcccc » (Sacchetti, Pataffio, cit., pp. 503-6). Sulla stratificazione dell’autografo sacchet-tiano cfr. L. Battaglia Ricci, Tempi e modi di composizione del ‘Libro delle rime’ di Franco sac-chetti, in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce, 22-26 ottobre 1984, Roma, Salerno Editrice, 1985, pp. 425-50, e Ead., Comporre il li-bro, comporre il testo. nota sull’autografo di Franco sacchetti, in « Italianistica », xxi 1992 [= studi in memoria di Giorgio Varanini, i. Dal Duecento al Quattrocento], pp. 598-614.

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Michelangelo Zaccarello

UnA foRMA IStItUzIonAlE dEllA PoESIA bURchIEllEScA:

lA RIcEttA MEdIcA, coSMEtIcA, cUlInARIA tRA PARodIA E nonsense

1. La ricetta come forma istituzionale della rimeria “alla bur­chia”

Il sonetto costruito secondo uno schema farmacopeico rappresenta una delle forme piú caratterizzanti della rimeria di stile burchiellesco: la presenza di sintagmi formulari, una sintassi ripetitiva con larga prevalen-za della paratassi, l’ampia libertà di utilizzo dei materiali lessicali piú di-sparati e delle piú bizzarre iuncturae sono elementi distintivi della tecnica “alla burchia” che trovano nella struttura della ricetta una sede ideale, in forza dell’ampio orizzonte tematico disponibile. Per la rimeria giocosa, la ricetta costituiva anche un potente veicolo di diffusione, data la fami-liarità di cui godevano tali forme scritte presso tutte le fasce della società medievale. Nei vari testi che prenderemo in esame, infatti, un medesi-mo schema strutturale opera

– per la ricetta culinaria, che nei suoi adattamenti letterari ammicca all’ossessio-ne per il cibo ed alle immagini d’abbondanza tipiche del filone carnevalesco;1

– per quella medica, dove confluiscono le ricche tradizioni, tra loro collegate, della satira del ciarlatano e dall’ampia tematica dell’invectiva contra me di cum;2

1. In tal senso, non può stupire che le piú tarde visioni del Paese di Cuccagna attingano a piene mani dai ricettari coevi, come accertato da Piero Camporesi per il Prologo alla Contralesina. overo ragionamenti e lodi della splendidezza, del Pastor Monopolitano, Venezia, G.B. Ciotti, 1604, nei confronti della singolare dottrina del celebre cuoco Domenico Ro-moli detto Panunto, la cui prima edizione fu pubblicata nel 1560 (P. Camporesi, Il paese della fame, Bologna, Il Mulino, 1978, poi Milano, Garzanti, 2000, da cui si cita: pp. 88-89).

2. Per il primo termine, sia consentito il rinvio al mio Indovinelli, paradossi e satira del saccente: “naturale” e “accidentale” nei ‘sonetti’ del Burchiello, in « Rassegna europea di letteratu-ra italiana », xv 2000, pp. 111-27, con la bibliografia ivi citata; il secondo è naturalmente dominato dall’archetipo petrarchesco delle Invective contra medicum che, pur rivolte a un

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– per quella meno nota, ma assai diffusa nel primo Rinascimento, della ricetta cosmetica (dove si può pure intravedere un rapporto vitale, anche se meno diretto, con la polemica sulle mode femminili, che attraversa molti generi coevi in verso e prosa).

Com’è noto, il compiacimento per l’elencazione delle vivande possie-de radici molto antiche che uniscono la rimeria toscana al plazer transal-pino. Difficile stabilire storicamente i canali di diffusione di tematiche tanto diffuse e soggette a performance orale, ma è probabile che un’impor-tante ruolo di mediazione sia stato svolto del giullare Niccolò Povero. Le sue paneruzzole o mattane si distinguono per il tono burchiellesco pro-dotto dal vertiginoso accumulo di voci e sintagmi disparatissimi, ove tuttavia prevale il referente gastronomico e non manca un accenno di ricetta, condotta nel consueto tono paradossale:

Piovon frittelle e iscodelle di lentee macheron che son ben incaciatie molte quaglie ci son di presente […]e se ti vuoi guarir del mal del fiancomangia otto some e piú di matton rotti.Se riposar ti vuoi quando se’ stanco,porta un gran peso e va’ sempre correndoe di cattività non sarai manco.3

Con intento piú o meno serio, sono molti i menu messi in rima, per mezzo di testi che si riducono a sfrenata esibizione di prelibatezze, spes-so sciorinate con una sintassi di grado zero, mera giustapposizione di sintagmi nominali. Cosí è già in Simone de’ Prodenzani, che descrive una grande abbuffata con un trittico di sonetti (li-liii), in cui è sensibile la parodia dei generi seri, a partire dalla invocazione di una specialissima

bersaglio specifico (l’arrogante e importuno medico di papa Clemente VI), hanno ispira-to innumerevoli variazioni sul tema fra XIV e XV secolo: il piú recente editore del libel-lo petrarchesco, francesco Bausi, ne segnala ben undici esempi (F. Petrarca, Invective contra medicum. Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientie aut virtutis, a cura di F. Bausi, firenze, Le Lettere, 2005, p. 22 e n. 47).

3. Sono i vv. 163-65 e 173-77 della prima paneruzzola, riportata da G. Crimi, L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello, Manziana, Vecchiarelli, 2005, p. 133.

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triade di santi protettori, quali il pasticciere Macario, Tomaciello e Gau-denço, ricondotti ovviamente a macaroni, tomacelli (ovvero ‘polpette’) e godere rispettivamente.4 La consonanza con i testi burchielleschi è evi-dente nel son. lii, dove l’apparato sintattico è ridotto all’osso (vengono impiegati solo tre verbi, evidenziati in corsivo):

Tortelli in scudella e bramangieri,suppa franciesca, lasagnia e ’ntermesso,raviuoli prima e poi ci venne el lesso:polli sommate, cinghiale e’ pevieri,poi caprioli e lepori in civieri,tordi, piccioni, starne arrosto apresso,con vin vermegli et aranci con esso,poi parmigiane, tartare e pastieri.Bianchi savori, verdi e camellini,composta, ulive concie qui si pone,per far nostri apititi aguççi e fini;pere cotte e treggiea quivi sone,uva passarmelle appie e nociellini,poi anasi confetti e ’l ciantellone.5

La rassegna di pietanze sopraffini è solo uno dei modi in cui si concretiz-za la visione del regno di Cuccagna, motivo letterario dall’ampio spettro sociologico dove la parata dell’abbondanza e della ghiottoneria è desti-nata a strabiliare il pubblico ma soprattutto ad esorcizzare la fame e la carestia, come splendidamente ha illustrato Piero Camporesi nel cit. sag-gio Il paese della fame.

Del resto, il sonetto burchiellesco – come qualunque altro testo che prenda ad oggetto il cibo – non può sottrarsi a una delle piú universali chiavi d’interpretazione della letteratura del Rinascimento, la dialettica tra Carnevale e Quaresima, due polarità che il testo comico sviluppa in termini ugualmente iperbolici e paradossali. Nei sonetti del Burchiello tro-

4. Simone de’ Prodenzani, Rime, ed. critica a cura di F. Carboni, Manziana, Vecchia-relli, 2003: si tratta del son. li (i nomi parlanti si trovano ai vv. 1, 5 e 9). san Godenzo – che è anche un toponimo dell’appennino tosco-emiliano – appare due volte anche nei sonet-ti del Burchiello, xcix 7 e cviii 9.

5. Simone de’ Prodenzani, Rime, cit., lii, p. 302.

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viamo infatti uno « che fè il Burchiello per la quaresima » (xc: Apro la bocca secondo i bocconi; la rubrica è del Trivulziano 976, ma condivisa da altri due codici), ove invece di inebrianti visioni d’abbondanza troviamo una rassegna di cibi penitenziali, quali pesce minuto e di qualità scaden-te, legumi vari indicati con voci di sapore gergale: « [mangio] talor quel dipintor co’ suo prigioni / che niun per povertà fu mai riscosso / quando quel calzaiuolo » (xc 5-7); grazie al soccorso di glosse marginali di alcuni copisti sappiamo che si tratta, rispettivamente, del ‘pisello’ e del ‘fagio-lo’.6 Per converso, il sonetto clxxxi, Da buon dí, gelatina mie sudata è im-perniato su un’unica vivanda, la gelatina di carne appunto, di cui si tesse un appassionato elogio passandone in rassegna i vari ingredienti; la desi-gnazione di questi non è tuttavia diretta, ma lambiccatamente perifrasti-ca, al limite dell’indovinello o del gergo (vv. 9-14):

Quel tra Lerice e ’l porto dell’Amoreo ne’ primi cuiussi del poeta,7

non ti mancò né pesto il venditore,né la dolceza che sí gli orsi allieta

e quando atrista il suo agricultore,vin, sal, gruogo, acqua, aceto a man discreta.

Anche a fronte della notevole libertà concessa dal codice burchielle-sco, si tratta di un gioco linguistico decisamente anomalo per un testo farmacopeico, e invano si cercherebbero in questo sonetto le cifre for-mulari e stilistiche che caratterizzano questo sottogenere e che verranno esaminate in questo contributo. Occorre dunque definire (a) quali siano i connotati formali distinitivi del sonetto farmacopeico all’interno di cor-pora poetici ispirati allo stile burchiellesco; (b) sia pure in via di approssi-

6. Si tratta di glosse marginali del Vat. Rossiano 985, c. 105v, ma nel Panciatichiano 25 della Nazionale di firenze tali glosse appaiono subentrate al testo e creano versi grosso-lanamente ipermetri: « talor quel dipintor pisello co ’ suoi prigioni […] quando quel chal-za[i]uolo fag[i]uolo » (c. 78r: cfr. il mio Morfologia e patologia della trasmissione nei ‘sonetti’ di Burchiello, in « Studi di filologia italiana », lvii 1999, pp. 257-76, a p. 266).

7. L’allusione è forse al dum conderet urbem, nei primissimi versi dell’eneide di Virgilio, il poeta per antonomasia: cfr. P. Vergilius Maro, Aeneidos liber primus, edited with intro-duction, notes and vocabulary by H.E. Gould & J.L. Whiteley, Bristol, Bristol Classical Press, 1990, i 5, a p. 1.

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mazione, l’incidenza quantitativa di questa tipologia testuale nei sonetti del Burchiello ed in altri corpora poetici che – per ampiezza e varietà – possono fornire indicazioni soddisfacenti.

2. Incidenza quantitativa nel corpus burchiellesco

All’interno dei sonetti del Burchiello, l’incidenza di testi propriamente svolti secondo uno schema farmacopeico è significativa ma non amplis-sima. A prescindere dagli accenni puntuali a questa tipologia testuale, disseminati in moltissimi testi “alla burchia”, si hanno infatti solo sette testi (su 223) interamente sviluppati sullo schema della ricetta, sebbene con modalità via via divergenti (i testi sono citati da sonetti del Burchiello 2004):

Se vuoi far l’arte dell’indovinare (iii, p. 5)Se tu volessi fare un buon minuto (xxxi, p. 43)Signor mio caro, se tu hai la scesa (lxxxvii, p. 124)Chi guarir presto delle gotte vuole (ciii, p. 146)Qualunque al bagno vuol mandar la moglie (cxxvii, p. 178)Son medico in volgar, non in grammatica (cxxxi, p. 184)Se vuoi guarir del mal dello ’nfreddato (clxiii, p. 228)

Solo in tali testi operano tutti i fattori caratteristici di questo particolare filone, e in particolare quel tasso di formularità che rinvia esplicitamente alle compilazioni mediche e culinarie dell’epoca:

– l’incipit ipotetico se vuoi / se tu volessi, seguito dalle finalità di applicazione della ricetta medica o dal piatto desiderato, come nei ricettari coevi, dove viene anche usato a mo’ di rubrica per l’intera ricetta: cfr. il tipo se vuoi buon vermicelli per xij persone, che ricorre nella raccolta dei xii ghiotti;8

– il verbo formulare, alla seconda persona, che introduce la lista di ingredienti è tipicamente To’ / Togli: per citare solo passi che presentano affinità contenu-tistiche con i nostri testi, si confronti questa ricetta dell’Ashburnham 349, c.

8. Il testo non è edito modernamente, ma se ne può avere una campionatura nel bel saggio di L. Bertolini, Problemi testuali dei libri di cucina: l’organizzazione del testo nella tradi-zione dei ‘XII ghiotti’, « Bullettino senese di storia patria », a. c 1993, pp. 47-81.

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11r: « Se alcuno fosse refreddato ch(e) non potesse parlare togli orpim(en)to e peve e tritale b(e)n », che si può confrontare con sonetti, clxiii, se vuoi guarir del mal dello ’nfreddato; nello stesso codice, c. 16v: « Se uno avesse cattiva memo-ria togli un’erba ch(e) à nome gallitrico e ma(n)za l’erba […] », da confrontare con i vari riferimenti alla mnemotecnica presenti nel corpus burchiellesco (specie iii 9 et âpparare a mente la memoria).

Togli era il piú diffuso equivalente del latino Recipe, normalmente reso in forma abbreviata, e spesso conservato anche in contesto volgare: di uso diffuso già nel sec. XIII (Zucchero Bencivenni, GDLI), passa all’uso sostantivato per ‘ricetta’ solo nel sec. XVI, sulla scorta del francese (DeI).9 A noi interessa solo l’uso formulare, che introduce l’elenco degli ingre-dienti: « Unguento da ochij perfectissimo. R(ecipe) onto sotille onci .j. e lavalo tre over quatro volti cu(m) aqua roxa […] » (nel quattrocentesco ms. Laur. Ashburnham 348, c. 95r) o – in contesto poetico – « Recipe a liberar dal mal del morbo », incipit di un so netto tràdito dall’edizione pseudo-londinese dei sonetti del Burchiello.10

A questa struttura si conformano non solo i testi di carattere pratico e applicato, ma gran parte delle piú nobili compilazioni in materia. Sebbe-ne il mondo dei ricettari tre-quattrocenteschi sia un mare magnum ancora solo in minima parte esplorato, possono bastare gli esempi piú noti (e diffusi in testimonianze d’epoca) ad esemplificare il nostro discorso: l’ano-nimo Liber de coquina o de arte coquinaria, l’Antidotarium magistri nicolai, mae-stro Martino de’ Rossi, Bartolomeo Platina, lo pseudo-Michele Savona-rola, i citati xii ghiotti. Dal Liber de arte coquinaria, nella versione toscana pubblicata da francesco Zambrini, possiamo citare uno stralcio casuale:

9. Il riferimento, da intendere s.v., è naturalmente risp. a S. Battaglia­G. Bàrberi Squarotti, Grande Dizionario della Lingua italiana, Torino, Utet, 1961-2002 (21 voll. con un supplemento 2004), e a C. Battisti-G. Alessio, Dizionario etimologico italiano, 5 voll., firen-ze, Barbèra, 1950-1957.

10. Si tratta del n. 233 dei sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca, Londra [ma Lucca-Pisa-Livorno] 1757 (p. 153): esso compare all’inizio della parte dedicata ai sonetti « trovati in altri Testi sotto suo nome, imperò ci è parso bene mettergli separati dagli altri » (pp. 145-234). L’edizione fu pubblicata con ogni probabilità per iniziativa e cura di Anton Maria Biscioni (1674-1745), il noto bibliotecario della Lau-renziana e cultore di testi volgari.

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Togli capponi arrostiti, e i fegati loro con le spezie, e pane abbrusticato, trita nel mortaio; e distempera nel mortaio buono vino bianco et succhi agri, e poi smembra i detti capponi.11

Sull’ampio spettro di utilizzo di tali ricettari si dirà piú avanti, bastino per adesso alcuni esempi che di tale rigido impianto formulare offre il Ricettario medico-cosmetico attribuito a Michele Savonarola (ferrara, Bi-blioteca Ariostea, Cl. II 147), che illustra tra l’altro il modo di realizzare oro liquido e colori per la miniatura:

Recipe lo marmore bianco et mettilo ne lo letame fino che se comincia a rego-lare, te habbi del fiore di guado, cioè de la schiuma, cioè quando li tintori tinze-no, sia ben seco et mettilo a tridare suso la pietra et quanto ‹piú› ne metti tanto piú viene aperto.12

Da questo passo emerge l’uso di un altro verbo formulare, (h)abbi, usa-to per indicare la disponibilità di un ingrediente o per semplice variatio rispetto a togli e recipe. Anche questa voce è prontamente recepita nella parodia burchiellesca (iii 5-8):

poi fa’ Volterra in tutto dimagrareet habbi del bitur d’un anitroccoe di compieta il primo e sezzo toccoe questo è ’l modo se tu vuo’ volare […].

Tra i verbi caratteristici della preparazione farmacologica, i piú fre-quenti sono stillare o distillare, che indica l’estrazione o purificazione del principio per bollitura dei solidi o per condensa dei liquidi, come nel Ricettario Bardi:

11. Libro della cucina del sec. XIV, testo di lingua non mai fin qui stampato, a cura di F. Zam­brini, Bologna, Romagnoli, 1863, rist. an., Bologna, forni, 1968, p. 23. Di tali fonti esistono spesso edizioni parziali e/o sintesi moderne, finalizzate ad estrarne le ricette ad uso di cuochi e curiosi: su questa linea divulgativa, ma di ottimo livello scientifico, è O. Redon F. Sabban-S. Serventi, A tavola nel Medioevo, con 150 ricette dalla Francia e dall’Italia, pref. di G. Duby, Roma-Bari, Laterza, 2004.

12. Pseudo-Savonarola, A far littere de oro. Alchimia e tecnica della miniatura in un ricettario rinascimentale, a cura di A. P. Torresi, pref. di M.G. Ciardi Duprè Dal Poggetto, ferra-ra, Liberty House, 1992, p. 104.

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Recipe il mese di marzo ne’ fiumi, dove fanno le rane una certa schiuma, che drento vi stanno tre o quattro rane, e radunala, e poi la metterai a stillare a bagno, quando ne avrai ragunata quanta vorrai, e questa si domanda sperma di rane stillata […] ottima per l’infiammazione della faccia, di occhi e di tutto il corpo.13

Puntualmente, il verbo compare in vari luoghi dei sonetti del Burchiello, applicato ai piú disparati ingredienti:

Se vuoi far l’arte dello ’ndovinaretògli un sanese pazzo et uno sciocco,un aretin bizzarro et un baloccoe fagli insieme poi tutti stillare. (iii 1-4)

stilla tre pipistreglie be’gli quando il giudice va a banco:questa ricetta è buona al mal del fianco. (clxiii 15-17)

Scontrò messer Marianoche distillava barbe di tartufiper guarir del veder civette e gufi. (clxxii 15-17)

Altrettanto caratteristico, e dunque passibile di impiego allusivo è pe-stare o battere, che indica la frantumazione degli ingredienti nel mortaio dello speziale, come nella ricetta per la tintura azzurra nel Cl. II 147 dell’Ariostea di ferrara:

A fare azuroRecipe lapis lazuli et pistalo bene sutilmente, te fa uno pastello di trementina

e di sapone, et di rasa di pino, et quando haverai fatto lo pistello lascialo stare per 4 dí, te poi fa una liscia dolce che sia bene chiara e bella […]14

Al pari di ungere, il verbo si presta a un impiego di forte allusività erotica, come del resto la metafora del mortaio, vulgatissima a partire dal Decameron;15 nei sonetti, esso designa la particolare terapia destinata a ri-

13. Il ricettario Bardi. Cosmesi e tecnica artistica nella Firenze medicea, a cura di A.P. Torresi, ferrara, Liberty House, 1994, p. 130.

14. Pseudo­Savonarola, A far littere de oro, cit., p. 104.15. Si tratta delle parole con cui monna Belcolore restituisce il tabarro del prete da Var-

lungo (si cita da G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1980):

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pristinare la fertilità di una moglie mediante il bagno termale: « Credi a me che son medico cerugo: / fa’ che ogni sera pesti un petronciano / e priemil con duo man e be’ti il sugo » (cxxvii 9-11). Altrettanto si può dire dell’equi-valente battere, che può tuttavia indicare anche l’atto di sminuzzare fine-mente gli ingredienti. L’esempio seguente ha un incipit che ricorda da vi-cino quello di uno dei nostri sonetti, il iii se tu volessi fare un buon minuto:

Se vuoli fare minuto nella migliore maniera che fare si puote, togli due libre di mandorle et una buona anguilla frescha, e togli buone erbe oglenti bene monde e bene lavate, e mettele a lessare e battile bene.16

Gran parte dei rimedi illustrati nei ricettari del secolo XV sono con-cepiti per l’applicazione esterna, localizzata nell’area sofferente: impia-stri, pittime (cioè impacchi, come negli stessi sonetti, lxxxvii 9), lattovari, ma soprattutto unguenti. La famiglia ungere/unzione/unguento è la piú ampiamente rappresentata nel linguaggio farmacopeico, come dimostra questo esempio tratto, ancora dal Ricettario Bardi, che propone un equi-valente quattrocentesco dell’odierna pillola blu:

Oleum ad erectionem PriapiRecipe olio di pistacchi, olio di seme di senapa ana oncia meza; belgivi dram-

ma una; fa linimento et unta le parti genitali.17

3. L’apporto della tradizione mediolatina e dell’Invectiva contra medicum

Il sonetto imperniato sulla ricetta medica intrattiene un rapporto di analoga complessità con la tradizione precedente, cui contribuiscono in pari misura da un lato generi seri, quali l’invectiva contra medicum (l’esem-

« “Dirai cosí al sere da mia parte: – La Belcolore dice che fa prego a Dio che voi non pe-sterete mai piú salsa in suo mortaio, non l’avete voi sí bello onor fatto di questa”. Il cheri-co se n’andò col tabarro e fece l’ambasciata al sere, a cui il prete ridendo disse: “Dira’le, quando tu la vedrai, che s’ella non ci presterà il mortaio, io non presterrò a lei il pestello” » (viii 2 44, p. 904).

16. lvii ricette d’un libro di cucina [= Ricc. 1071] del buon secolo della lingua, [a cura di S. Mor­purgo,] Bologna, Zanichelli, 1890, p. 21.

17. Il ricettario Bardi. Cosmesi e tecnica artistica, cit., p. 130.

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pio piú cospicuo è il Petrarca di Familiares, v 19, e delle Invectivae appunto), dall’altro varie forme di parodia o satira del medico imbroglione o ciar-latano, attestate tanto in prosa quanto in versi. Si pensi a Mariano da Pisa, il messer Mariano citato sopra, che viene satireggiato tanto nei Motti e face-zie del Piovano Arlotto quanto nei sonetti del Burchiello attraverso la ricetta della sua specialità segreta, la famigerata utriaca che gli impostori smer-ciavano nelle piazze per curare ogni genere d’infermità; quella di Maria-no non potrebbe essere piú inconsistente (lx 1-4):

Limatura di corna di lumaca,vento di fabbro, d’organo e di rostaperché mosca giamai non vi s’accostamette mastro Marian nell’utrïaca […].

Il sonetto abbandona poi lo schema della ricetta per dare libero sfogo alla varietà tipica dei testi “alla burchia”, ma Mariano ricompare in un altro sonetto del corpus, il ccxvi, attribuibile ad Andrea de’ Medici e inte-ramente dedicato a mettere in berlina un impostore anche peggiore del proverbiale imbroglione pisano, il sarto castellan fatto sensale, che vanta anch’egli studi nella prestigiosa facoltà pisana di medicina (ccxvi 5-14):

Mandagli il segno tuo nell’orinalee sollazando fa’ che fugga l’ozio,che, non che tu, ma s’e’ fusse uno Scozioti chiarerà come fratel carnale.

« Chicchi bichiacchi dice il tuo sanguigno,intendi me che già studiai a Pisaet ogni mal conosco senza signo ».

Mariano ch’ode scoppia delle risa,ond’egli stringe i denti e ’l viso arcigno,bestemmia ogni potenza alla ricisa.

In mancanza di adeguate conoscenze anatomiche, l’osservazione del campione dell’urina era la principale pratica diagnostica insieme a varie forme di palpamento del corpo.18 Chi pretende di conoscere una malat-

18. « Come stabilire una diagnosi, per esempio? Attraverso la vista e il tastamento, il medico riconosce senza sbagliarsi i disturbi la cui manifestazione è esterna […] numero-

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tia senza signo (un vero controsenso per un medico serio, specie se laure-ato a Pisa) non può che affidarsi a un confuso sproloquio, finalizzato a gettare fumo negli occhi del paziente; la locuzione impiegata denota un’ignoranza ciarliera e petulante, ed è cosí spiegata nell’Hercolano di Be-nedetto Varchi:

D’un ceriuolo o chiappolino il quale non sappia quello che si peschi né quante dita s’abbia nelle mani e vuol pure dimenarsi anch’egli per parer vivo o guizzare per non rimanere in secco, andando a favellare hora a questo letterato o mercan-te e quando a quell’altro, si dice: egli è un chicchi bichicchi e non sa quanti piedi s’entrano in uno stivale.19

In epoca antecedente al Burchiello, si trova un impiego diverso della ricetta all’interno di testi dal piú spiccato carattere drammatico o narrati-vo; nella commedia mediolatina, ad esempio, è spesso la preparazione di medicine o unguenti miracolosi a risolvere situazioni complicate. In alcu-ni casi, gli autori indulgevano ad elencare gli ingredienti del composto, perlopiú improntati all’ossimoro o all’adynaton. Da ultimo, questo ti po di ricette impiegate in contesto letterario è stato studiato da Armando Bi-santi, che si sofferma su un espediente attestato tanto nella commedia la-tina medievale quanto nella novellistica volgare (con esempi nel Baucis et Traso e nel novelliere di Giovanni Sercambi), ovvero la ricetta destinata a restituire la malconcia verginità a una futura sposa in vista del suo ma-trimonio;20 il pedigree letterario di questo motivo non deve però fare di-menticare che tale prassi è ben attestata nei serissimi ricettari dell’e poca:

Ad restringendam vulvamRecipe grani di sommaco, di mirto, di coriandoli, lente, cappelli di ghiande

ana drame dua, palle di cipresso, di quercia preforata ana once quattro, allume di

si trattati l’aiutano a stabilire la diagnosi fondandosi su due segni principali: il ritmo del polso e il colore o la consistenza delle urine » (D. Jacquart, La medicina medievale alla prova, in Per una storia delle malattie, a cura di J. Le Goff e J.-C. Sournia, Bari, Dedalo, 1986 [ed. or. Les maladies ont une histoire, Paris, Seuil, 1985], pp. 71-76, a p. 71).

19. B. Varchi, L’Hercolano, ed. critica a cura di A. Sorella, pres. di P. Trovato, 2 voll., Pescara, Libreria dell’Università, 1995, Intr. 704, pp. 620-21.

20. A. Bisanti, enea silvio Piccolomini e le ricette impossibili, in « Schede umanistiche », n.s., 2 2001, pp. 25-34.

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rocca oncia meza, cime di squinanti mezo manipolo. farai polvere d’ogni cosa, e farai bollire in acqua serrata libbre otto, alla consumatione del terzo, poi cola e sprem, e spesso con una spugna in loco vi bagnate, e poi fatto questo userai quest’altro: scorze di pino oncia una, allume di rocca oncia meza, cipperi drame dua. farai polvere d’ogni cosa e farai e farai bollire nella detta decotione, e poi bagnerete pezete di lino e le metterete spesso nel luoco dentro per otto giorni, che restringerà come se fosse fanciulla.21

Ma il saggio di Bisanti sottolinea anche il riutilizzo della ricetta in àmbito umanistico, dove la rassegna degli ingredienti stravaganti e para-dossali offre il destro per esibire un raffinato repertorio mitologico; lo studioso cita un passo dei Carmina di Enea Silvio Piccolomini:

Tolle sonum ciceris, sicca dum veste tenetur,cum galli cantu decoque utrunque simul;Arpalices, quantum cursus capit, accipe dextradeque domo sumas tres Aquilonis apes;Tres Niobe lachrimas, duo tantum basia Prognes,illud, quod rapuit, det tibi litus, Hylam;Herculee libram dumtaxat sumito claveet pullum, feta est quem tua mula tibi;intuitum post hec captato libistidis urseet quicquid veri Lesbia dicit habe.22

Nelle sue fini annotatiunculae ai carmi del Piccolomini, Mario Martelli rileva il tono burchiellesco di questi adynata, e lo mette in relazione a un testo che si trova giustapposto ai sonetti in alcune testimonianze quattro-centesche.23 Si tratta di un capitolo ternario indicato dalle rubriche come Medicine; esso narra una visione in cui appare un medico da strapazzo che espone le sue improbabili ricette e le “proprietà” di una moltitudine di

21. Il Ricettario Bardi. Cosmesi e tecnica artistica, cit., p. 56.22. Aeneas Silvius Piccolomini, Carmina, a cura di A. Van Heck, Città del Vaticano,

Biblioteca Apostolica Vaticana, 1994, epigr. xli. Il passo in questione è citato da Bisanti, enea silvio Piccolomini e le ricette impossibili, cit., pp. 26-27.

23. M. Martelli, In Aeneae silvii Carmina Annotatiunculae, in « Interpres », xvi 1997, pp. 245-73; lo studioso cita in proposito due degli esempi farmacopeici offerti dai sonetti del Burchiello (ciii e clxiii).

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strampalati ingredienti. Ne cito alcuni stralci dal ms. Vat. Barb. lat. 3936, c. 34r-v e 35r:

In prima dicie: « A crescier i capelli,togli un quaderno de cichale lessee grilli bianchi, e mescola co(n) elli;e poi le palme t’ongirai co(n) essedi piei: e statte al suol tridici noctesença dormire e faraile spesse. […]A chi avesse i denti troppo secchidagli a mangiar nove mactine a vegliauna carrata di rose e di stecchi […]E si di porri vorrai guarir tostotorrai tre salta di lumacha e faglibollire al vento e non dir: “I’ mi scosto”,et leghategli a’ piey con tre sonaglie uno archo di ponte e al serenote sta’ tre dí, e fa’ che no(n) abagli ».

E cosí via, per un totale di 209 versi nella redazione del Barberiniano (216 nella versione che Martelli cita dall’edizione pseudo-londinese):24 nel Quattrocento era dunque possibile organizzare un intero, lungo testo interamente sullo schema delle ricette bizzarre o paradossali, in modo che sui motivi tradizionali della satira del ciarlatano prevalesse larga-mente il gusto per il virtuosismo linguistico e retorico, la ricerca ossessi-va di adynata e di iuncturae ossimoriche. Nel saggio di Martelli non se ne azzarda l’attribuzione; tuttavia, sebbene adespoto (e inserito dall’edizio-ne pseudo-londinese nella terza parte, quella delle rime dubbie), il testo è da identificarsi con la seconda “mattana” del giullare Niccolò Povero, già autorevolmente indicato come uno tra i principali precursori dello stile burchiellesco.25 La scelta dei copisti che abbinano questo strano ca-

24. sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca, cit., pp. 178-79.25. Questo rimatore, studiato ai primi del Novecento da Ezio Levi, è stato da tempo

indicato come uno dei piú significativi precursori dello stile burchiellesco: cfr. principal-mente Crimi, L’oscura lingua, cit., pp. 128-29 e n. 6, che riassume la bibliografia pregressa. Delle mattane o paneruzzole del giullare manca un’edizione moderna che sostituisca quel-la offerta da Levi. La prima paneruzzola, riproposta di recente da Tito Saffioti (I giullari

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pitolo ai sonetti è dunque ben motivata, e non a caso ripresa dai compila-tori della citata edizione pseudo-londinese: nonostante la vistosa infra-zione dell’omogeneità metrica della raccolta (un criterio che porta mol-ti scribi a omettere ad esempio, la canzone Voi che sentite gli amorosi vampi, certamente del Burchiello), il testo condivide con i sonetti “alla burchia” il gusto per il gioco di parole, l’infrazione di varie forme di concatenazio-ne logica, la sbrigliata inventiva lessicale. E come nel sonetto “alla bur-chia”, tale caleidoscopica varietà convive con una sintassi rigida e mono-tona, che non solo risulta in cola rigorosamente circoscritti alla singola terzina, quando non al singolo verso, ma è scandita periodicamente dal-le frasi ipotetiche e dagli altri elementi formulari caratteristici della ricet-ta (a partire dal canonico se vuoi…).

4. L’orizzonte tematico del ricettario

fin qui, ci si è primariamente soffermati su aspetti linguistici e forma-li del testo farmacopeico; tuttavia, è importantissimo notare che la mag-gioranza dei ricettari, e soprattutto le forme piú comuni di compilazione ad uso familiare o di una piccola comunità, non si limitavano a ricette di carattere medico o culinario, ma cercavano di mettere insieme un auten-tico prontuario destinato a risolvere i molti problemi della vita quotidia-na per tutti i membri della comunità: con un occhio alle donne, destina-tarie delle molte ricette di cosmesi, e con una certa attenzione per i pro-blemi degli animali da trasporto (vi si trovano spesso intercalate ricette di mascalcia). Infine, in questa svariata fenomenologia testuale venivano mescolate e intercalate ricette di tipo magico-astrologico, incantesimi vari ed excerpta dai piú famosi alchimisti del Medioevo, come dimostra la frequentissima inclusione di testi di Ramon Lull e Arnaud de Ville-Neu-ve: si possono citare esempi di notevole pregio estetico o storico come il Laur. Ashburnham 1166 e il citato Ricettario medico-cosmetico attribui-to a Michele Savonarola. Ma per illustrare l’ampio spettro d’impiego di queste compilazioni farmacopeiche, converrà citare alcune ricette estrat-

in Italia: lo spettacolo, il pubblico, i testi, Milano, Xenia, 1990, pp. 445-46) è pubblicata dallo stesso Crimi, L’oscura lingua, cit., pp. 129-33.

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te dal ms. firenze, Biblioteca Laurenziana, Ashburnham 349, codice car-taceo della metà circa del secolo XV:

Se tu voli ch’un arboro n(on) abia foglie fin ala festa de san Zovan batista quella mattina de san Zovan(n)o inanti ch(e) leve el sole p[i]anta q(ual) arboro tu voli e n(on) farà foglia fin al dito dí de san Zovan(n)o (c. 5v).

Se tu voli che le tethe n(on) crescano mai a le fantine, fa’ castrare un porco e col sangue del coglione destro ungiglie la mamilla destra e con sangue del sinistro ungiglie la mamilla sinistra e mai n(on) cresceran(n)o piú (c. 13v).

Se tu vol sempre avere i(n) memoria una do(n)na, q(ua)n(do) tu ma(n)ze de cappone togli q(ue)ll’ossecello piú picholo ch(e) à i(n) cima de l’ala destra e ma(n)za q(ue)ll’osso p(er) so amore […] (c. 18v).

Credo che esempi come questo ci aiutino a demarcare con maggiore rigore quanto nei sonetti o in altri testi possa (o non possa) definirsi non-sense. In altre parole, occorre definire in via preliminare l’orizzonte di quanto era atto a produrre questo tipo di straniamento in un lettore quattrocentesco, venendo percepito come bizzarro e deliberatamente strampalato; per converso, solo una piú articolata conoscenza di tipolo-gie testuali non letterarie o semi-letterarie, che costituivano nondimeno letture diffuse, addirittura consuete in certi àmbiti privati e familiari, può servire a delimitare proficuamente il territorio della parodia e a di-stinguerne i bersagli. Se ricettari come i citati vantavano un ampio cre-dito da parte di vaste fasce d’utenza, non è inverosimile supporre che le fasce in tellettualmente piú avvedute nutrissero per tali testi un divertito scetticismo, che consuonava per giunta con l’ampia letteratura prosasti-ca (ed il repertorio novellistico) afferenti alla citata tradizione contra me-dicum.

5. Le raccolte di ricette e le descrizioni di banchetti: effetti di aggregazione spontanea e comicità involontaria

Nel 1968, Domenico De Robertis pubblicava un saggio unanimemen-te considerato un pilastro della critica burchiellesca,26 in cui indicava nei

26. D. De Robertis, Una proposta per Burchiello, in « Rinascimento », viii 1968, pp. 1-68.

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libri di gabella, e piú in generale negli elenchi inventariali, un punto di riferimento importante per comprendere il gusto combinatorio delle enumerazioni burchiellesche, nonché la spontanea formazione di ende-casillabi che risulta dalla giustapposizione di sintagmi nominali e dalle movenze di una sintassi modulare e prevedibile. La proposta dello studio-so, suggerita in relazione a semplici elenchi e inventari di merci andrebbe però applicata anche ad altre tipologie testuali, basate sull’elencazione ma non del tutto riconducibili a serie nominali. Laddove anzi l’enumeratio viene introdotta e accompagnata da una sia pure elementare e ripetitiva sintassi, quelle suggestive analogie sembrano moltiplicarsi e estendersi dalla semplice materia lessicale ai connettivi sintattici, dalla rigida scansio-ne della paratassi al ricorrere di giri frasali che assumono spesso il tono formulare e memorabile dei cliché burchielleschi. Il testo farmacopeico è senz’altro una di queste tipologie: vi concorrono l’uso di un lessico incon-sueto e peregrino, che evoca spesso l’esotico e il raro, l’ampia prevalenza della paratassi, l’abbondanza dei nessi e delle strutture formulari.

Ma i documenti d’epoca non ci informano sulla gastronomia solo at-traverso le ricette: molto apprendiamo anche dai resoconti di banchetti e conviti. Nella notevole varietà che li caratterizza (compilati da dipen-denti della corte per esigenze di rendicontazione interna, da privati citta-dini per informarne familiari e amici, o persino da storici e cronisti nel-l’ambito di opere di ampio respiro, ad esempio Bernardino Corio), essi condividono tratti comuni, specie relativi alla compresenza di un’a-nalitica descrizione delle vivande (eventualmente corredata di informa-zioni sul costo dei relativi ingredienti) e di dettagliate informazioni sulla presentazione di esse, che non solo privilegiava fattori quali la stravagan-za simbolica o l’evocatività letteraria nella guarnizione dei cibi, ma avve-niva con modalità autenticamente teatrali. Nelle varie forme di descri-zione di questi sontuosi apparati, la sbrigliata fantasia dei registi dava corpo a visioni pienamente burchiellesche, che accozzavano animali ra-ri e composizioni vegetali con molteplici riferimenti mitologici; al con-tempo, la modularità del dettato produceva – attraverso un ritmo ben scandito e spesso monotono – un gran numero di cola ritmici, che risul-tano assai spesso in endecasillabi involontari. Se ne trova un gran nume-ro nei vari testi pubblicati da Claudio Benporat nella sua monografia sui

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banchetti di corte nel Quattrocento.27 La casistica è tale e tanta che è possibile divertirsi a mettere insieme un sonetto burchiellesco di una qualche plausibilità (sistema rimico a parte):

Zellatina de pesci in piatti grandi, [p. 159]

el Coliseo contraffatto e ornatissimo [p. 157]

fece il Duca presenti di valuta [p. 144]

e co·llui il fattore dell’abate. [p. 137]

Mense, trespoli et altri fornimenti 5 [p. 137]

corso amabile et vino de Grandoli [p. 159]

meritamente li fo consegnata [p. 188]

cum deci monstri marini argentati. [p. 272]

Uno Hercule con un leone socto [p. 169]

e colli supradicti Herculi Baccho 10 [p. 170]

di duecento miliara di fiorini: [p. 141]

ancora furono portate in tavola [p. 174]

ficatelli de pulli e de capretti, [p. 281]

geladia in conche di vincorno. [p. 175]

Per domenicha sera 15 [p. 145]

furonvi servitori e cortigiani, [p. 240]

finalmente compiuto il desinare. [p. 143]

Mi si perdonerà lo sconfinamento ludico, se può servire a dare ragione del-la relativa facilità di questo tipo di versificazione, in cui la sintassi, frantu-mata e addomesticata dalle lunghe enumerationes, consegna al rimatore un’ampia messe di materiale, che permette di impostare il gioco su ele-menti accessori, quali il virtuosismo lessicale o l’esercizio retorico, co-munque lontani da un qualsiasi sviluppo dei contenuti logici o narrativi. Solo in questi termini il testo farmacopeico può vantare una qualche cittadinanza nel variegato mondo del nonsense.

6. Conclusioni

Concludo con due avvertenze di carattere generale: se vogliamo atte-nerci alla sostanza di questi testi, e anche all’evidenza delle testimonian-

27. C. Benporat, La cucina italiana del Quattrocento, firenze, Olschki, 1997 (20012).

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ze d’epoca, sarà bene non tracciare un confine troppo netto fra cucina e farmacologia: piú che di contiguità e complementarietà tra i due mondi, è infatti opportuno parlare di due aspetti della medesima materia. Senza addentrarci in un terreno troppo vasto per gli scopi di questo saggio, si può dire in sintesi che da un lato la salute umana era descritta in termini di equilibrio dei diversi umori e stabile complessione, riflesso dunque di un’alimentazione conforme all’individuo, dall’altro l’intervento sulla nu-trizione era di fatto l’unica terapia farmacologica disponibile, con cibi e ingredienti disponibili in natura e destinati a controbilanciare scompen-si nell’equilibrio umorale (bisognava attendere per altri due secoli per vedere i primi contributi della chimica applicata alle cure mediche). In-fine, la compresenza di una sbrigliata varietà tematica e di rigide costri-zioni sintattiche e formulari accomuna le sillogi di testi burchielleschi e i ricettari coevi anche sul piano della trasmissione testuale, in forza della notevole fluidità che i testimoni manifestano quanto a canone ed ordina-mento, ma anche per la funzione-guida che in tali fluttuazioni assumo-no certi nuclei testuali. Sia che questi risalgano a precoci sistemazioni redazionali, sia che riflettano l’opera piú tarda di copisti-collettori, si trat-ta di fattori che rendono possibile tracciare un profilo tassonomico della tradizione che può guidare la restituzione dei testi e al contempo offrire un’immagine del contesto socio-culturale in cui il testo si è diffuso, un riflesso insomma dell’operato di quanti – a partire da un insieme fluido di unità testuali apparentemente slegate tra di loro – hanno cercato di al-lestire un prodotto funzionale ai gusti o alle esigenze del loro particolare ambiente. In tal modo ha operato Lucia Bertolini, nel saggio citato so-pra: ricco di suggestioni metodologiche, esso che analizzava la tradizio-ne dei XII ghiotti attraverso un attento monitoraggio degli spostamenti di determinati blocchi di ricette fra le varie testimonianze manoscritte.28

28. Si veda l’originale approccio metodologico in Bertolini, Problemi testuali dei libri di cucina: l’organizzazione del testo nella tradizione dei ‘xii ghiotti’, cit.

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con bURchIEllo doPo bURchIEllo. Il nonsense nEllA PoESIA toScAnA

dEl SEcondo ’400

Dirò subito che il titolo, rifatto su quello di un recente libro di Giusep-pe Marrani sulla fortuna di Dante lirico nel Trecento,1 promette di piú di quanto potrò mantenere: lo dico adesso per evitare di fare la fine del Burchiello, che, secondo che afferma Pietro Aretino nel Ragionamento delle Corti, « par che dica gran cose dicendo niente ».2 La fortuna della poe-sia burchiellesca, com’è noto, è vasta e duratura, per cui è ovvio che, pur restando all’interno dell’ambito cronologico prescelto, non ci si potrà che limitare a pochi esempi; anche perché dopo le due meritorie edizio-ni di Michelangelo Zaccarello e la monografia di Giuseppe Crimi, espli-citamente dedicata alla fortuna dell’« oscura lingua » del barbiere, c’è piú bisogno di precisazioni puntuali che non di trattazioni generali svolte su un’ampia forbice diacronica.3

1. Quando giunse a firenze la notizia della morte di Domenico di Gio-vanni detto il Burchiello, avvenuta a Roma nel gennaio del 1449, si desta-rono le muse d’Etruria e molti poeti scrissero l’epicedio del defunto. Non è il caso entrare nei dettagli dei singoli testi – peraltro non tutti

1. Cfr. G. Marrani, Con Dante dopo Dante. studi sulla prima fortuna del Dante lirico, firen-ze, Le Lettere, 2004. A sua volta, il titolo del libro del Marrani è debitore del volume di M. Barbi, Con Dante e coi suoi interpreti. saggi per un nuovo commento della ‘Divina Commedia’, firenze, Le Monnier, 1941.

2. « Insomma, il filosofo imita il Burchiello, il quale par che dica gran cose dicendo niente » (P. Aretino, Ragionamento delle Corti, a cura di F. Pevere, Milano, Mursia, 1995, p. 48).

3. Vd. risp.: I sonetti del Burchiello, ed. critica della vulgata quattrocentesca a cura di M. Zaccarello, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2000, e l’ed. commentata, da cui si trarranno sempre le citazioni, I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Torino, Einaudi, 2004; G. Crimi, L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello, Manziana, Vecchiarelli, 2005.

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spregevoli – ma alcune considerazioni sono fondamentali per il mio di-scorso, anche perché nessuno (che io sappia) ha mai proposto una rifles-sione d’insieme su queste poesie.4 Già il numero dei componimenti scritti in morte del Burchiello – ben sei – è straordinario, anche ipotiz-zando, con poco realismo, che ci sia pervenuta l’intera produzione che i contemporanei dettero fuori per la luttuosa occasione. Se si vanno a ve-dere i nomi degli autori di questi testi ci s’imbatte in alcuni dei maggiori poeti toscani della prima metà del secolo (Mariotto Davanzati e france-sco d’Altobianco Alberti), in altri decisamente minori (Migliore di Lo-renzo Cresci, Betto Busini e Piero di Rosso), piú un personaggio noto per altri meriti come Antonio di Tuccio Manetti, operoso copista e cul-tore di cose dantesche, in rapporto con alcuni fra i maggiori artisti e in-tellettuali dell’epoca.5 Tanta attenzione da parte dei contemporanei è confermata dalle altre notizie che abbiamo sull’ampio giro di relazioni coltivato dal barbiere anche dopo la sua partenza da firenze: benché non si possa prendere in tutto per buona la rappresentazione idealizzata del-la bottega di Calimala come ritrovo di letterati,6 è innegabile, anche dal solo esame dei sonetti del Burchiello, che molti intellettuali furono in con-tatto col barbiere (bastino i nomi di Leon Battista Alberti e Rosello Ro-

4. Si dà qualche cenno su alcuni di questi testi soltanto nei recenti saggi di G. Crimi, Burchiello e le sue metamorfosi: personaggio e maschera, in Auctor/Actor. Lo scrittore personaggio nella letteratura italiana, a cura di G. Corabi e B. Gizzi, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 89-119, alle pp. 90-91, e S. Cremonini, Una topica petrarchesca: i versi in morte di amici, colleghi e mece-nati, in Il Petrarchismo. Un modello di poesia per l’europa, ivi, id.,, 2006, vol. ii, a cura di F. Ca­litti e R. Gigliucci, pp. 329-47, alle pp. 331-32. Un panorama ancora utile sulle voci bi-bliografiche piú antiche è in C. Mazzi, Il Burchiello. saggio di studi sulla sua vita e sulla sua poesia, in « Il Propugnatore », x 1877, pp. 204-45, a p. 214.

5. Per il Manetti si veda da ultimo la voce di G. Tanturli, Manetti, Antonio, in Diziona-rio Biografico degli Italiani, Roma, Ist. della Enciclopedia Italiana, vol. lxviii 2007, pp. 605-9, che contiene i rinvii alla bibliografia precedente; si veda inoltre, per qualche dato ulterio-re, A. Decaria, Un copista di classici italiani e i libri di Luca Della Robbia, in « Rinascimento », s. ii, xlvii 2007, pp. 243-87.

6. Sul mito della bottega di Calimala come ritrovo di letterati si vedano le assennate considerazioni di L. Boschetto, Burchiello e il suo ambiente sociale: esplorazioni d’archivio sugli anni fiorentini, in La fantasia fuor de’ confini. Burchiello e dintorni a 550 anni dalla morte (1449-1999). Atti del Convegno di firenze, 26 novembre 1999, Roma, Edizioni di Storia e Let-teratura, 2002, pp. 35-57, alle pp. 49-51.

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selli); altri si espressero sulla sua poesia (si pensi agli epigrammi di due umanisti del calibro di Leonardo Dati e Cristoforo Landino, ma anche quelli di Alessandro Braccesi e Ugolino Verino),7 segno comunque di un’at tenzione per quella che è certo l’esperienza poetica piú innovatrice e sconvolgente della prima metà del secolo XV. Benché questi epicedi risentano fortemente della retorica connessa al genere, essi costituiscono comunque un punto di partenza inevitabile per chi intenda concentrarsi sulla ricezione della poesia burchiellesca presso i contemporanei. Qua-si tutti gli autori dei testi scritti in memoria di Burchiello accennano in qualche misura alla vena poetica del defunto e, se alcuni adattano, con scarso rispetto per i fatti e contro la presumibile volontà del celebrato, il modello paludato e “prefabbricato” dell’epicedio in morte di poeti cor-tesi,8 tirando in ballo dei e dee (peraltro non sempre pertinenti),9 perso-

7. Questo l’epigramma del Landino (Xandra, ii xxviii): « Plurima mitto tibi tonsoris carmina Burchi; / haec lege. Sed quid tum? Legeris inde nihil » (Christophori Landini Carmina omnia, ex codicibus manuscriptis primum edidit A. Perosa, florentiae, in aedi-bus Leonis S. Olschki, 1939, p. 79); non diversamente il Dati: « Burchius qui nihil est, cantu tamen allicit omnes, / esto parasitus vatibus Etruriae » (cfr. F. Flamini, Leonardo di Piero Dati poeta latino del sec. XV, in « Giornale storico della letteratura italiana », xvi 1890, pp. 1-107, a p. 9) e il Braccesi: « Myrtea, Syllani, componite serta, poetae, / Pinguia quae purgent tempora Lucilii. / Burchius Aoniis migravit collibus alter, / Qui quoque nimi-rum carmen inane facit: / Lucilius prisco tanto praestantior illo, / Quanto hunc extollit Musa Latina magis » (xii 1-6: cfr. Alexandri Braccii Carmina, A. Perosa edidit, floren-tiae, Bibliopolis, 1944, pp. 105-6). Il testo del Braccesi, di norma trascurato a vantaggio degli altri due, è giustamente riconsiderato da Crimi, Burchiello e le sue metamorfosi, cit., pp. 90-91.

8. Esemplare, a questo riguardo, è il testo del Davanzati, nato, del resto, su sollecitazio-ne di quello manettiano, come si apprende dalle rubriche premesse ai due sonetti nel codice II IV 126 della Nazionale di firenze, autografo del Manetti. Basterà qui riprodurre la prima quartina e l’ultima terzina: « Piangete, occhi mia lassi, perch’io temo / che, quan-to dureracci el mortal vello, / piú risguardiate un sí dolce Burchiello, / ch’or lascia il mondo d’ogni bene scemo. / […] Piangete Muse, amanti e lor consorti, / po’ che sí car tesauro vi s’asconde; / e cantin l’alme a cui el cielo el rivela » (cfr. Lirici toscani del Quattro-cento, a cura di A. Lanza, Roma, Bulzoni, 1973, vol. i p. 440).

9. Su un’insistita esortazione al pianto e sull’evocazione di un gran numero di divinità è giocato il sonetto di Betto Busini: « Or piangi Marte nella tua Tessalia, / e pianga Orfeo e spezzi la sua cetra, / e per dolor Cupido la faretra, / […] Pianga Minerva e con lei pian-ga Apollo, / piangan l’amate donne e’ giovanetti, / pianga Vulcano e pianga Mungibel-lo! » (è il sonetto i del Busini, vv. 1-3, 9-11: cfr. Lirici toscani, cit., vol. i p. 337).

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naggi del mito, satiri e fauni, amanti e amate donne,10 altri forniscono qualche indicazione piú preziosa. Non si hanno dubbi nel conferire il lauro poetico a un poeta come Burchiello (vi insistono Antonio Manetti e Mariotto Davanzati), a immaginarlo in compagnia del « piú bel drap-pello » dei poeti del passato (il Davanzati), a farne addirittura la quarta co-rona fiorentina (francesco Alberti). E la poesia, i versi assurdi e surreali, quella « buffonesca accozzaglia di riboboli senza nesso, di ghiribizzi sen-za senso, di slatinature fuor di proposito », secondo la definizione di Vit-torio Rossi?11 Apparentemente, queste liriche verbose e costrette nella manierata retorica del planctus non ne fanno parola. Tra qualche notazio-ne curiosa (quella ad esempio del Cresci, secondo cui « ogni acqua corse el burchiel con sue vele », v. 10) e il ricorso a temi laudativi di repertorio (l’irreparabilità della perdita e la superiorità del defunto a ogni altro),12 un paio di spunti meritano di essere valorizzati. francesco d’Altobianco Alberti, dopo aver individuato rispettivamente in Calliope, nell’Elicona e nel fonte di Parnaso i responsabili dell’ispirazione di ciascuna delle tre corone, si chiedeva:

M’a quel Burchiel, che Cloto n’ha or tolto,chi·nne concesse al suo dolce intellettotanto riso e piacere in gioco vòlto?13

10. Si veda il Cresci: « Piangan gli dei e le dee tanto tesoro, / silvani fauni, satiri e ogni rura », che addirittura arriva a parlare di « mite risposte e dolci rime » (ii 3-4, 12: ivi, vol. i p. 393).

11. Cfr. V. Rossi, Il Quattrocento, reprint dell’edizione del 1933 riveduta e corretta, ag-giornamento a cura di R. Bessi, intr. di M. Martelli, Padova, Vallardi, 1992, p. 409. Anche altrove il Rossi espresse giudizi analoghi: « Tutti ormai sanno che d’una parte dei sonetti sciamati fuori del cervello fantastico del barbiere sarebbe vano tentare un’interpretazio-ne. Contesti di stramberie, di ghiribizzi, di riboboli, di slatinature, vanno rassegnati nel novero copioso di quelle composizioni che per il regolare andamento delle concordanze e dei nessi grammaticali e il gradevole rotondeggiare dei ritmi, paiono nascondere in quel l’accozzaglia il filo di un ragionamento, mentre in realtà non dicono cosa alcuna e non hanno un briciolo di senso » (V. Rossi, Un sonetto e la famiglia del Burchiello, in Id., scritti di critica letteraria, firenze, Sansoni, 1930, vol. ii. studi sul Petrarca e sul Rinascimento, pp. 359-69, alle pp. 359-60).

12. Sono motivi presenti un po’ in tutti questi epicedi, ma vi insistono particolarmente quelli di Antonio Manetti e Mariotto Davanzati.

13. Cito il testo dalla mia recente edizione (Francesco d’Altobianco Alberti, Rime,

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Che è già qualcosa di piú preciso rispetto alle lodi convenzionali di chi faceva del barbiere un campione di poesia amorosa o un sapiente in ogni scienza. Anche il Manetti, vedendo

un burchielletto assai leggieri e snello,carco d’assai thesauro e d’un gioiellobel sí ch’un simil mai veder potemo14

poneva l’accento sul disimpegno dello stile e sulla leggerezza della poe-sia, in tacita ma evidente contrapposizione all’erudizione e alla retorica a volte asfissiante della lirica per cosí dire seria dei contemporanei. En-trambi (l’Alberti e il Manetti) chiudevano i rispettivi testi (i soli epicedi entrati nella vulgata dei sonetti del Burchiello) ribadendo l’uno come « lieve burchio mosse sí lieta onda » (v. 17), l’altro dichiarando che l’unica ragio-ne di consolazione per gli amici dello scomparso « è che ’l gioiel [cioè la poesia del Burchiello] rinvolto nelle fronde / d’un lauro verde alcuna acqua non vela » (vv. 13-14). Dunque, leggerezza e disimpegno, ma anche gioco in grado di suscitare un’onda lieta e riso. L’aggettivo dolce – solo apparentemente generico –, assegnato al Burchiello o alle sue rime in diversi di questi epicedi, rimarca invece il lindore armonico di quella li-rica, notoriamente esibito nel sonetto Fior di borrana,15 ritenuto da molti una sorta di manifesto della poesia del barbiere di Calimala. Si insiste, insomma, su alcuni aspetti certo fondamentali della poesia del barbiere, che la inseriscono senza esitazione nell’area della produzione comica e realistica. Nessun cenno, invece, all’effetto di nonsense che quella poesia suscitava nel lettore coevo e che per noi posteri giunge amplificato dalla perdita dei dati contestuali che permettono di intendere le allusioni e di

ed. critica e commentata a cura di A. Decaria, Bologna, Commissione per i testi di lin-gua, 2008, testo cxcvi, vv. 12-14). Segnalo però che una variante minoritaria legge al v. 14 canto e cosí mette a testo Zaccarello nella sua edizione della vulgata burchiellesca, dove il sonetto compare al num. clxxvii.

14. sonetti del Burchiello, clxxvi 2-4 (ed. cit., p. 247).15. « fior di borrana, se vuo’ dire in rima / convienti esser piú grasso d’agettivi, / di

nomi e verbi, con versi corsivi / salir bello e suave e vago in cima » (sonetti del Burchiello, ed. cit., cxix 1-4). Com’è noto, il testo è diretto al poeta petrarchista Rosello Roselli, e fa parte della lunga e acre tenzone che oppose i due rimatori.

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apprezzare il gioco polisemico che affolla quei versi. Lo provano alcune ben note testimonianze: « Burchius qui nihil est » scriveva l’umanista Le-onardo Dati, e il Landino ribadiva il concetto quasi con le stesse paro-le; e per restare all’interno della vulgata dei sonetti, Anselmo Caldero-ni, collegando la poesia burchiellesca alla maniera dell’Orcagna, ne dava un’importante descrizione:

faccendo salti da Roma alla Magna,mettendo granchi per cipolle in resta,ch’a’ topi faceva trovar la pestadelle formiche ch’eran nella Spagna.16

Tutto ciò a conferma che tale effetto di nonsense costituiva l’elemento piú peculiare e innovatore di quella poesia, benché, appunto, non privo di ascendenti. Preso atto di questi primi indizi sul modo di leggere Bur-chiello da parte dei contemporanei e di chi gli sopravvisse, è bene entra-re piú da vicino nel mondo tutto municipale, ma non privo d’interesse, della poesia fiorentina di questo periodo e provare a misurare l’incidenza dell’esperienza burchiellesca, limitando l’analisi al modo di poetare alla burchia che connota solo alcune delle poesie del barbiere. Se ai poeti a cui si è già accennato si aggiungono quelli che, comparendo nella silloge della vulgata dei sonetti del Burchiello, testimoniano inequivocabilmente una contiguità alla produzione del barbiere di Calimala, si ottiene un panorama se non completo, comunque ben rappresentativo della lirica toscana del quindicesimo secolo. La rete di rapporti che si dipana intor-no a Burchiello lascia in parte sorpresi perché testimonia che egli ebbe relazioni anche con poeti afferenti a tutt’altra area culturale: degli uma-nisti si è già detto, ma anche la rimeria piú tradizionalista di un Anselmo Calderoni, o di un Domenico da Prato, o il petrarchismo quasi ortodosso di Rosello Roselli e Niccolò Tinucci dovevano rappresentare opzioni culturali diverse e spesso in conflitto con la poetica del barbiere; eppure tutti costoro furono suoi corrispondenti.

16. Il sonetto del Calderoni è il num. lxxxviii della vulgata. Per i giudizi dati dai poste-ri sulla poesia del Burchiello si rinvia senza esitazione ai due lavori di Crimi, entrambi già citati, L’oscura lingua e Burchiello e le sue metamorfosi.

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Non è facile determinare in che misura lo stile di Burchiello influisse sui poeti coevi e quanti di essi fossero in grado di percepirne la novità e di mettere a frutto, magari con qualche necessario adattamento al pro-prio gusto, le peculiarità di quella che il Varchi avrebbe chiamato la terza forma del « poetare fiorentinamente ».17 Ai consueti problemi di crono-logia, di mediazione e di dipendenza reciproca dei testi che si trova ad affrontare chi intende svolgere un discorso sulla fortuna di un qualche autore, si aggiunge infatti la particolare situazione ecdotica della tradi-zione burchiellesca. Come insegna Zaccarello, la vulgata dei sonetti si fissò fra gli anni Sessanta e Settanta del Quattrocento e incluse da subito testi sicuramente spettanti a Domenico di Giovanni, ma ospitò anche altri componimenti certamente non suoi, oltre a diversi di paternità in-certa. Il problema attributivo di molti di questi testi, insomma, si pone al momento come pressoché insolubile, anche perché è davvero necessa-rio chiedersi, come avverte il recente editore della vulgata, « se “Burchiel-lo” indicasse il barbiere o non fosse piuttosto una sigla di genere facil-mente applicabile »,18 « un marchio stilistico piú che una proprietà let-teraria », secondo la definizione di Stefano Carrai.19 Per schivare quanto piú possibile questi ostacoli, ho pensato di istituire un confronto fra due sillogi liriche ben definite, e cioè da una parte l’ampia edizione dei Lirici toscani del Quattrocento pubblicati da Antonio Lanza, che ho esaminato alla ricerca di testi alla burchia, dall’altra la vulgata dei sonetti, considerata, come nell’edizione di Zaccarello, come corpus unitario, anche se compo-sito. In alcuni casi si registrano interferenze e sovrapposizioni fra le due sillogi, ma per la massima parte dei testi analizzati le tradizioni a cui at-

17. « Poetare si può fiorentinamente almeno in sette maniere tutte diverse. […] La prima e principale è quella di Dante e del Petrarca. La seconda quella di Luigi e Luca Pulci. La terza come scrisse il Burchiello, che fu poeta anch’egli. La quarta, i capitoli del Bernia. La quinta, i sonetti d’Antonio Alamanni » (quesito viii 63-65; cito da B. Varchi, L’Hercolano, ed. critica a cura di A. Sorella, pres. di P. Trovato, Pescara, Libreria dell’Uni-versit, 1995, to. ii p. 804).

18. Cosí l’editore nell’introduzione alla sua edizione critica (p. xix).19. « Il nome di B[urchiello], insomma, assai per tempo dovette confondersi con quel-

lo del genere poetico da lui messo in voga, passando a denotare un marchio stilistico piú che una proprietà letteraria » (S. Carrai, Burchiello, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Ro­sa, vol. xviii. Dizionario degli autori A-C, Torino, Einaudi, 2007, pp. 412-13).

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tingono le due raccolte risultano indipendenti e ciò permette di distin-guere la poesia del Burchiello (impinguata da qualche testo dell’Orcagna e da altri della piú precoce e fedele scuola di imitatori) da quella degli altri poeti contemporanei.

2. Anticipando brevemente i principali risultati dell’indagine, si deve rilevare che se nei due grossi tomi della raccolta del Lanza i testi compo-sti secondo la modalità alla burchia sono pochissimi, d’altra parte l’in-fluenza della poesia del Burchiello è molto estesa e non c’è quasi testo d’area comico-realistica che non presenti importanti contatti con la sillo-ge dei sonetti del Burchiello.20

Volendo fornire una pur minima esemplificazione della penetrazio-ne, limitata ma non trascurabile, dello stile alla burchia nel Parnaso to-scano coevo e immediatamente successivo a Burchiello, eviterei di con-siderare qui gli autori minimi e diffiderei degli scriptores unius carminis, anche se non sempre poco significativi: Iacopo Borgianni, ad esempio, che pure fu copista di alcuni testi del Burchiello in un codice corsiniano (43 C 34), è autore di un pregevole sonetto alla burchia, che riproduco qui sotto per dare un’idea dell’aderenza alla maniera del maestro:

Cicerbita e scherola e perpinellae venticinque mogge d’occhi tortiandandone a dormir furono scortida’ merli, che guardavan due capella. Allor, vedendo questo, una gonnella 5

baia, stracciata, disse: « Tutti mortisarete, prima ch’usciate di porti,sicché per voi sarà trista novella ». Dicesi a Norcia che stato è vedutoun pesce azzurro colla coda verde 10

20. L’esito della mia indagine viene dunque a coincidere con le considerazioni propo-ste da Michelangelo Zaccarello in un suo recente saggio: Burchiello e i burchielleschi. Appun-ti sulla codificazione e sulla fortuna del sonetto “alla burchia”, in Gli “irregolari” nella letteratura. eterodossi, parodisti, funamboli della parola. Atti del Convegno di Catania, 31 ottobre-2 no-vembre 2005, Roma, Salerno Editrice, 2007, pp. 117-43, in partic. alle pp. 142-43, non anco-ra disponibile al momento di scrivere la mia relazione per il convegno cassinese.

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fuggirsi pella piena a Montaguto; e sí si sta lassú pascendosi erbee per la sete stillava un suo liuto;‹e› dice pel freddo la coda si perde. Deh, non far tante merde: 15

andiancene piú tosto inverso Romae troverren la bertuccia che toma!21

Il sapore burchiellesco di questo testo è immediatamente percepibile anche dal lettore meno esperto. È bene tuttavia sottolineare, per intro-durre il discorso che sto facendo, che rimandano evidentemente al mo-dello la sintassi dei primi tre versi, con la caratteristica enumerazione dei soggetti che ritarda fino al v. 3 il predicato, la corposa irruzione nel testo poetico del mondo animale e vegetale (alle erbe dell’incipit, che poi ri-tornano come cibo del pesce azzurro con la coda verde al v. 12, rispondo-no i merli, le caprette, l’immancabile bertuccia), la presenza di cose ani-mate e parlanti (la gonnella) e di azioni assurde o compiute da soggetti inadeguati (le erbe e gli occhi torti che vanno a dormire). Ma ancora piú significative, perché segno di una penetrazione profonda dei meccanismi della poesia alla burchia, sono certi passaggi logici nascosti e alcune spe-ricolate associazioni che riconducono in recinti piú ragionevoli, almeno per gli iniziati, l’apparente nonsense del sonetto. Certe immagini, come quella del pesce che fugge per la piena a Montaguto, sono indubbiamen-te paradossali: in caso di piena, infatti, non è tanto il pesce a fuggirsi, ma il fiume ad espellerlo. E il paradosso cresce poi su se stesso, sfruttando un altro degli strumenti su cui si costruisce questo tipo di poesia, ovvero le potenzialità polisemiche ed equivoche del lessico: il pesce rifugiatosi a Montaguto, pascendosi erbe, conduce una vita da romito e, di conseguenza, il sostantivo piena varrà qui anche come sinonimo di ‘calca’, ‘folla’.

Proprio alcuni dei tratti piú nonsensical del testo, poi, si spiegano a nor-ma del modello, cioè ripensando a passi o procedimenti adoperati dal barbiere nei suoi testi: parlo della mossa del v. 5, che inscrive sotto una connessione causale del tutto incongrua i quadri oggettivamente separa-ti che occupano le due quartine; e soprattutto delle venticinque mogge d’oc-

21. Cito, con qualche aggiustamento, da Lirici toscani, cit., vol. i p. 325.

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chi torti, che furono scorti dai merli certo perché « Guardare e merli soglio-no e pagoni » (sonetti del Burchiello, cli 1)22 e perché i pagoni portano ap-punto, secondo il mito ovidiano citato nello stesso sonetto del barbiere, cento occhi nella coda.23 Né a un orecchio burchiellescamente esercitato potrebbe sfuggire la motivazione per cui il pesce azzurro dalla coda ver-de « dice pel freddo la coda si perde »: quest’ultima sarebbe infatti sogget-ta al destino delle foglie degli alberi e cadrebbe con l’arrivo del freddo, certo particolarmente intenso a Montaguto.24 Si potrebbe andare avanti svelando altri dei meccanismi tipici della poesia alla burchia sciorinati in questo sonetto, ma quanto si è detto è sufficiente per mostrare come nel Borgianni l’imitazione del modello sia assai raffinata;25 e si può rimpian-gere il fatto che egli abbia composto (o che a noi sia giunto) un solo esemplare di questa sua vena burchiellesca.

Gli autori fiorentini piú prolifici e scaltriti, invece, restano tutto somma-to insensibili alla sirena della poesia alla burchia: tra questi si devono com-prendere anche francesco Alberti e Mariotto Davanzati, che pure furono corrispondenti del barbiere e ne scrissero accorati epicedi. Per quanto concerne il primo, che, come si è visto, è quello che nel suo sonetto com-memorativo fornisce le indicazioni piú pertinenti riguardo alla poesia del

22. Il contatto è di per sé eloquente, ma vale la pena riportare il secondo verso di quel-lo stesso sonetto per avere conferma che proprio quel passo doveva avere in mente il Borgianni: « nel tempo che le pecore han la tossa ». Non è forse inutile, alla luce di quello che si dirà fra poco, ricordare che Mercurio, quando scese in terra per uccidere, per ordi-ne di Giove, Argo, il mostro dai cento occhi: « hac [sc. virga] agit ut pastor per devia rura capellas » (Metam., i 676).

23. « Ma per la gran malitia / che Giove usò ad Argo del vitello / le lepri dorman cogli occhi a sportello » (vv. 15-17).

24. Non manca forse un’allusione, con evidente scadimento di registro, alla chiusa della seconda stanza della canzone petrarchesca RVF, xxiii: « facendomi d’uom vivo un lauro verde, / che per fredda stagion foglia non perde » (39-40).

25. Si portano soltanto altri due esempi: il passaggio dalle erbe elencate nell’incipit alle venticinque mogge d’occhi torti del verso seguente è forse giustificato dalla presenza della scarola, che è una varietà di quella indivia, popolarmente detta anche invidia, che ben si prestava a chiamare in causa gli occhi torti. La coda, invece, nell’alludere scopertamente al son. xxxix della vulgata burchiellesca, che si chiude cosí: « e, come dice Orpheo, / sol d’allegrezza la bertuccia toma / portar veggendo agli asin sí gran soma » (vv. 15-17), vuol dire: ‘andiamocene verso Roma e staremo allegri’.

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Burchiello, nelle sue 202 rime ci si sarebbe aspettati di trovare qualche esperimento della maniera alla burchia, anche perché l’Alberti fu rimatore assai versatile e si applicò ai piú svariati generi poetici, non disdegnando affatto la poesia comica. Ebbene, se nel mio commento alle rime albertia-ne il nome del Burchiello è uno di quelli citati con maggiore frequenza, la ricerca di rime alla burchia nel corpus albertiano non darebbe che pochissi-mi frutti. In sostanza, c’è solo un sonetto che pare davvero avvicinarsi alla maniera del Burchiello, quello che propongo qui di séguito:

Ritto e rovescio al fodero intarlatodella vezzosa e dolze Nastasiaper tutto manifesto si scorgiaferrara e ’l Mantovan tutto anebiato, Cotron, Salluzo e quel di Monferrato 5

con tutta quanta lor genologia,e ciò che ’l Soldan tiene in Tarteria,e ’l Vecchio Testamento e ’l Nuovo allato; eranvi le riccheze di Siccheo,el cuoio di Birsa, che condusse il cerchio 10

ch’a’ Roman’ poi fu sí acerbo e reo; eravi Gionas, chiuso nel coperchiodel pesce ceto, e Giuda Maccabeo,che vendicò de’ filistei il soverchio; eravi il gran commerchio 15

del trullo culiseo termini e bottee·llei entrovi, atratta colle gotte.26

Un esame puntuale del testo richiederebbe troppo tempo e non risulte-rebbe particolarmente utile, in ragione dei molti problemi interpretativi che restano aperti. Per questi aspetti si rinvia dunque al commento del testo nella recente edizione da me curata. Mi piace però sottolineare, per mostrare l’adesione alla vena del caposcuola, che, come già vide Mario Martelli,27 il sonetto adotta nella sua prima parte (e recupera nel finale)

26. È il son. lxxxiv della mia edizione.27. Cfr. M. Martelli, Letteratura fiorentina del Quattrocento, firenze, Le Lettere, 1996,

p. 303.

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il lessico equivoco e osceno caratteristico di certi sonetti del barbiere e adoperato non di rado dallo stesso Alberti: in particolare, l’iter suggerito ai vv. 4-5, apparentemente assurdo, acquista un senso qualora si ricordi che il carattere comune ai domini evocati è quello di far parte di un qual-che marchesato: risulterà allora chiaro come il gioco verbale, che sarà sfruttato anche dal Pistoia, alluda a impedimenti mestruali che impedi-scono i rapporti sessuali. Anche nella perifrasi del v. 7 è probabilmente rintracciabile un senso: il soldano governa in Tarteria su Bagdad, ossia, per un fiorentino del ’400, Baldacca o Baldracca, che, oltre che designare la capitale dell’attuale Iraq, indicava anche una strada di firenze sede di postriboli e di una celebre osteria (e anche Burchiello ha una citazione ambigua di Baldracca nel son. viii, schiettamente alla burchia).28 La secon-da parte del sonetto albertiano, di piú ostica decifrazione, presenta un effetto complessivo ben noto ai lettori della poesia burchiellesca: persa ogni unità tematica, compaiono come in rassegna personaggi del mito greco-romano e della storia sacra, enumerati tramite nessi associativi non sempre evidenti per una sorta di trascinamento (le ricchezze di Si-cheo attireranno il cuoio di Birsa, usato da Didone per segnare il traccia-to della rocca della futura Cartagine; il v. 8 alluderà alla Bibbia, che ri-chiamerà forse la sfera del bere, cosí come Maccabeo, da scomporre nei due elementi Macca-beo, e forse anche lo stesso siccheo, che potrebbe rin-viare a siccus ‘assetato’); né mancano il rovesciamento e la degradazione di spunti desunti dalla letteratura alta e la parodia del relativo linguaggio (si veda la notazione dei vv. 10-11, ma anche la dittologia vezzosa e dolze indicante Nastasia, probabile partner del poeta).

Le differenze rispetto alla maniera del maestro, però, sono altrettanto rilevanti, soprattutto per quanto concerne la sintassi, che non si discosta

28. « Egli è un gran philosopho in Baldracca / che insegna molto ben beccare a’ polli / e dà lor ber con una salimbacca » (sonetti del Burchiello, viii 12-14). Si ricordi che già il Boc-caccio sfruttava l’equivoco suscitato da tali designazioni toponomastiche nel discorso di frate Cipolla, che menziona, fra altri luoghi della firenze d’allora, proprio Baldacca: « Per la qual cosa messom’io in cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de’ Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Pa-rione, donde, non senza sete, dopo alquanto pervenni in Sardigna » (Dec., vi 10 38; cito da G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, 1976, p. 571).

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di molto dalle abitudini dell’Alberti giocoso, morale o anche amoroso. L’influenza di Burchiello, insomma, c’è ed è evidente, ma tutto sommato resta circoscritta a pochi aspetti; e anche francesco d’Altobianco si pro-dusse in un solo esperimento di poesia alla burchia.

Bottino lievemente piú grasso si ottiene scandagliando le poche ma non insulse rime di Giovanni de’ Pigli, da lui trascritte nel suo ampio zibaldone poetico, conservato nella Nazionale fiorentina (codice II IV 250 del fondo Nazionale), che contiene anche un’ampia silloge burchiel-lesca, corredata da rare ma preziose postille. fra le 21 liriche di Giovanni si possono classificare come genuinamente alla burchia almeno 4 sonet-ti, di cui si riproduce qui il xvi dell’edizione Lanza:29

Prezzemoli bolliti in acqua amara,porri scalogni e agli con cipollecantavano a Bologna per bimolle,come fanno gli Ermin’ con voce chiara. Però quest’anno la mostarda è cara, 5

che a mangiarne troppa sarie folle,se già non vi mettessi vin di Colleo de’ vermigli del pian di ferrara. E questi sarieno atti a ristagnarechi orinassi troppo, al parer mio, 10

e con essi mangiar frittelle amare. Però consiglio te, compagno mio,che tu ne faccia ogn’anno insaleggiare,e farannoti pro per men ch’un fio. Dimmi s’ tu credi ch’io 15

guarisca della tossa o dell’orina,usando spesso questa medicina.

Questi versi, e gli altri alla burchia scritti da Giovanni, testimoniano una radicata assimilazione dello stile del barbiere, benché la dipendenza si fondi soprattutto sull’adozione degli artifici piú facilmente imitabili, co-me la struttura accumulativa dell’esordio (da cui si tiene invece alla larga, come si è visto, l’Alberti, come sempre originale), l’adesione allo schema

29. Lirici toscani, cit., vol. ii p. 272.

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del sonetto farmacopeico e a quello della ricetta medica burlesca, per lo piú stipata di ingredienti satirici, inefficaci o indicanti il nulla.30 fanno la loro comparsa anche personaggi tipici della tradizione burchiellesca co-me mona Ciola, o luoghi caratteristici di quell’immaginario come il Mu-gnone, le due fonti senesi Beccia e Gaia, nonché vari esemplari già com-presi nell’arca di Noè burchiellesca (pipistrelli, botte, le immancabili chiocciole, ma anche la ghiandaia, le farfalle, il castrone e la bertuccia), spesso – com’è regola nella maniera – responsabili di azioni assurde o bizzarre.31 Significativo è però, per limitarmi ora al sonetto riprodotto qui sopra, il trapianto di interi nessi e locuzioni (ad esempio cantare per bimolle associato agli Ermini),32 o di motivi quasi ossessivi della poesia di Burchiello come il prezzo delle derrate (si veda il v. 5) o la presenza del cibo e del vino, ma ancor di piú l’uso di artifici formali e stilistici peculia-ri del modello e già presenti nel sonetto ‘per motti’ sacchettiano nasi cornuti e visi digrignati.33 Tra questi si dovrà certo comprendere la sintassi incipitaria (e prezzemoli, lemma d’esordio, inaugura il son. clxi della vul-gata), con l’accumulazione dei soggetti e la dilazione del verbo reggente al terzo verso, che propone un’azione almeno apparentemente in con-trasto con la natura dei soggetti che la compiono; ma soprattutto sono degni d’attenzione alcuni procedimenti associativi che costituiscono la marca stilistica della poesia alla burchia: da una parte un nesso causale del

30. Particolarmente ricco di questi ingredienti è il son. xviii di Giovanni, che inizia cosí: « A voler ben guarir dell’anguinaia, / tolgasi quatro fette di popone / e pestinsi con sugo di mellone / e con un dolce canto di ghiandaia / e mettavi il romor d’una pescaia. […] » (vv. 1-5). Per questi aspetti della poesia burchiellesca si rinvia a M. Zaccarello, schede esegetiche per l’enigma di Burchiello, in La fantasia fuor de’ confini, cit., pp. 1-34, alle pp. 28-34, nonché alla relazione dello stesso studioso in questi atti.

31. Cosí prosegue il son. xviii: « Queste hanno già guarito piú persone, / mettendovi dell’acqua di Mugnone, / o vuoi di fonte Beccia o fonte Gaia » (vv. 6-8).

32. « Io ho studiato il corso de’ destini / e truovo che le pillole di gera / fanno cantare a’ grilli fatto sera / per bimolle la zolfa degli Armini » (sonetti del Burchiello, xcvii 1-4). Su questa locuzione e i suoi molteplici significati si veda, oltre al commento di Zaccarello ad locum, lo studio dello stesso schede esegetiche, cit., p. 8.

33. Su questo sonetto, vero e proprio incunabolo della poesia alla burchia, vd. l’intro-duzione di Zaccarello all’ed. einaudiana dei sonetti del Burchiello, cit., pp. xv-xvii, e Crimi, L’oscura lingua, cit., pp. 168-93.

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tutto incongruo come il però del v. 5,34 dall’altra il trapasso tra fronte e sirma attuato anche mediante un espediente polisemico: ferrara, città circondata da luoghi paludosi, richiama ristagnare, che però nel contesto del periodo che s’inaugura al v. 9 andrà assunto come termine tecnico del linguaggio medico e varrà ‘fermare il flusso di una secrezione corpo-rea (in questo caso l’orina)’. Se il gioco polisemico è talora scoperto,35 nei sonetti di Giovanni manca del tutto, invece, uno dei motivi portanti del-la rimeria del Burchiello, la satira antipedantesca, che forse il Pigli si premura di evitare perché anch’egli coltivava la partita doppia della lirica giocosa e petrarchista.

I casi dell’Alberti e del Pigli sono sufficienti a testimoniare la diffusio-ne della tecnica alla burchia presso gli amici e i contemporanei di Bur-chiello; ma non è che poi gli esempi disponibili sarebbero moltissimi. Sembra di constatare, insomma, che i poeti toscani del primo e del pieno Quattrocento ricevono e assimilano il verbo burchiellesco e si provano, in qualche rara occasione, nel nuovo (o rinnovato) genere del sonetto alla burchia, quasi per mostrarsi all’altezza della sfida lanciata dal barbie-re di Calimala, ma poi prediligono differenti tecniche espressive, se vo-gliamo piú tradizionali, anche restando nel perimetro della rimeria co-

34. Tale nesso richiama alla mente « quegli assurdissimi perché » che facevano asserire al De Robertis che nella poesia del Burchiello « i rapporti logici e temporali sono solo apparenti » (D. De Robertis, Una proposta per Burchiello, in « Rinascimento », s. ii, viii 1968, pp. 3-119, poi in Id., Carte d’identità, Milano, feltrinelli, 1974, pp. 105-58, a p. 110, da cui si cita).

35. Credo che anche il vin di Colle giochi sull’ambiguità: assai probabile mi pare che il toponimo Colle celi un’allusione alla colla del celebre incipit « I’ beo d’un vino a pasto che par colla » dei sonetti del Burchiello (clxxxviii 1), anche perché la rubrica di quel testo lo assegna ad « Anibaldo Pantaleoni quando era a fferrara col marchese ». Cosí si spiega il riferimento alla città estense del verbo seguente: dal Colle si passa, per opposizione, al pian, ma la qualità del vino resta scadente: cosí seguita infatti il testo del Pantaleoni: « e tien di muffa e sa di riscaldato / e parmi con assentio temperato, / con fiele e rabbia e sugo di cipolla » (vv. 2-4), e cosí recita un sonetto sulla mala cena del Pistoia: « Il vin fu da ferrara moscodato, / tanto bon che filava per paura, / un pan che haveva sí la faccia oscura, / che ’l mi parse il vecchion ch’à il porco allato » (xx 5-8: cfr. A. Cammelli, I sonetti faceti secondo l’autografo ambrosiano, editi e illustrati da E. Pèrcopo, intr. di P. Orvieto, Pistoia, Libreria dell’Orso, 2005 [rist. an. dell’ed. Napoli, Jovene, 1908], p. 63). Anche qui, allora, l’effetto di non far orinare sarebbe dovuto alla cattiva qualità del vino.

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mica. Pare di osservare, nelle incursioni burchiellesche di questi poeti, un certo gusto di saggiare le possibilità del nuovo linguaggio, un qualche compiacimento nel partecipare a una sorta di gioco di società per inizia-ti: non per niente, almeno un paio dei sonetti alla burchia del Pigli fanno appello, all’interno del testo, a un compagno o a un car fratello in grado di decrittare il linguaggio oscuro e percepirne allusioni e giochi verbali.36

Procedendo verso l’età laurenziana, il panorama non muta di molto: ci sono, è vero, altri interpreti, anche squisiti, della maniera burchielle-sca; ampia fu, del resto, la fortuna che l’intera area comica conobbe alme-no nella prima età – biografica e culturale – di Lorenzo; ma la poesia alla burchia resta un sottogenere tutto sommato poco frequentato: anche chi scrisse diverse liriche in quello stile, come il Bellincioni e il Pistoia, ad esso riservò una percentuale estremamente contenuta della propria de-bordante produzione sonettistica. Il caso di Alessandro Braccesi, notaio e prolifico poeta in latino e in volgare, che mise insieme un vero e pro-prio canzoniere burchiellesco di 200 pezzi (di cui almeno una sessantina schiettamente alla burchia) sembra rappresentare la classica eccezione che conferma la regola.37

36. Oltre al sonetto riportato a testo, mi riferisco al xvii, che fa appello all’interlocuto-re al v. 6 (« non ti maravigliar ») e nella coda (« Deh, non mi dar parole / e dimmi, car fra-tello, se l’ortica / sarebbe buona al mal della vescica », vv. 15-17).

37. L’elegante codice Vaticano latino 10681, che conserva le poesie volgari del Braccesi, riserva la prima parte alle rime petrarchesche, mentre la seconda (che inizia a c. 38r) tra-smette il canzoniere burchiellesco, introdotto da un sonetto proemiale e apologetico, chiuso da un testo di congedo e di scusa e arricchito da una ricca serie di esplicite dichia-razioni interne ai testi che segnano la struttura chiusa della raccolta. Mi sembra partico-larmente rilevante che il Braccesi tenti anche, all’interno della generale imitazione del modello, piú precisi calchi: nel suo canzoniere si trovano infatti imitazioni di singoli pezzi della silloge burchiellesca, come il sonetto latino o quello basato su sistematiche inversioni che inizia sabato Tessa ci fu mona sera; e, come il caposcuola, Alessandro non ri-nuncia a comporre e a includere nella silloge una canzone d’amore (parodica). Molti dei testi comici del Braccesi si leggono anche (autografi) in una sezione del composito Ric-cardiano 2725, cc. 80r-131v, studiato di recente da M. Zaccarello, An Unknown episode of Burchiello’s Reception in the early Cinquecento: Florence, Biblioteca Riccardiana, Ms. 2725, fols. 80r-131v, in « Modern Language Review », c 2005, pp. 78-96 (ora anche in Id., Reperto. Indagini, recuperi, ritrovamenti di letteratura italiana antica, Verona, fiorini, 2008, pp. 183-215, in italiano e con aggiunte, fra cui un’appendice di testi trascritti dal Ricciardiano: Una silloge primocin-quecentesca di rime ‘alla burchia’ nel ms. Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 2725, pp. 397-422).

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fra i cultori del genere di quella stagione è anche filippo Scarlatti, co-pista del codice Acquisti e Doni 759 della Laurenziana, altro monumento della rimeria quattrocentesca; e a questo punto non si può non sottoline-are che i protagonisti di questa poesia sono allo stesso tempo suoi autori, copisti e divulgatori, i garanti, vorrei dire, della specificità e della fiorenti-nità di quella maniera che già si era fatta tradizione. fra le sue numerose poesie si rintracciano diversi sonetti alla burchia, nei quali lo Scarlatti mostra una notevole abilità a riprodurre i modi di quell’oscura tecnica, a lui certo ben nota, dato che in quello stesso manoscritto copiò una novan-tina di sonetti del caposcuola. Tutto questo rientra nel quadro già traccia-to. Desta una qualche sorpresa, invece, trovare nelle rime scarlattiane una tenzone in sonetti alla burchia col frate carmeli tano Giovanni di Lorenzo Manzi, che, già corrispondente di filippo,38 sembrerebbe il primo a pas-sare al gergo burchiellesco, richiamandomi alla mente il precedente di quel messer Nicolò che osò sfidare il Burchiello sul terreno sdrucciolevo-le della poesia alla burchia (sonetti xcvi e xcvii della vulgata).39

Vorrei fermarmi un po’ piú a lungo su un altro episodio su cui ci rag-guaglia il medesimo zibaldone scarlattiano, un episodio che, in verità, concerne piú l’aneddotica che la poesia. filippo, dopo aver inviato una lunga serie di sonetti amorosi a Piero di Jacopo Tanaglia dall’Ancisa, con-tenenti – fra l’altro – reiterati inviti a rispondere e a ricambiare quella che egli chiama amicizia (e che si preoccupa di distinguere dalla « carnalità, ch’è vizio istrano »),40 si vide recapitare da questi, in data 23 settembre

Sulla poesia del Braccesi si rinvia alla voce di A. Perosa, Braccesi, Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit., vol. xiii 1971, pp. 602-8, in partic. a p. 604, e all’edizione (com-prendente le sole rime petrarchesche) A. Braccesi, soneti e canzone, ed. critica a cura di F. Magnani, Parma, Studium Parmense, 1983.

38. Le poesie fra lo Scarlatti e il carmelitano occupano i numeri cxviii-cxxi dell’ed. Lanza: è con la coppia di sonetti posta sotto il num. cxxi che si passa allo stile alla burchia.

39. Il son. xcvi della vulgata (Pignatte con bombarde e duo mulini: « di messer Nicolò al Burchiello ») è ritenuto da Zaccarello (p. 137 del suo commento) « l’unica proposta che sfidi il B[urchiello] sul terreno a lui piú congeniale della tecnica ‘alla burchia’ », ma un altro caso analogo è rappresentato dal sonetto di Domenico pisano a cui il barbiere rispose col cli della vulgata.

40. « Oh, beato colui ch’amor dispensa / in perfetta amicizia e faccia triegue / colla carnalità, ch’è vizio istrano! » (cxlviii 12-14: cfr. Lirici toscani, cit., vol. ii p. 604).

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1474, il sonetto alla burchia che riporto qui sotto, che burla il mittente, ritorcendogli contro quella maniera poetica a lui congeniale:41

Sugo d’uno scambietto d’un coltronee mescolato col mughio d’un bue,del qual se ne vuol tôr sei once o·ppiúe,encorpora42 con grasso di moscione, et fara’ne di tutto un’unzïone, 5

et per dicozïon beco di grue;ugni le reni et tiralo allo [’n]giúe,43

se guarir vuoi del mal dell’amatrone. Questa t’è data per prima ricettaet, s’ella non ti giova, manda tosto 10

per una allo spezial della cornetta. falla far buona e non guardare al costo,togli un’oncia di sguardo di civettae cuocine con essa un pollo arrosto. Azuffati col mosto,44 15

che·tti farà posar po’ me’ la testa,fuggendo e ghiribizzi e·llor tempesta. La viglia della festa,cioè la notte della Ephiphania,molti guariscon d’ogni malattia.45 20

41. Ivi, vol. ii p. 612 (ma il son. che si propone, anche nella risposta che si riproduce poco oltre, è rivisto sul codice). Il testo è introdotto dalla seguente rubrica: sonetto fatto per Piero di Iacopo Tanaglia e mandato a·mme Filippo scarllatti a dí 23 di settenbre 1474.

42. encorpora: ‘mescola’.43. Lanza mette a testo allo giúe, ed effettivamente tale è la lezione del codice. Mi pare

probabile che sia caduto un compendio. Dato il contesto, ci si potrebbe riferire allora alla credenza, già nota per la cicogna, secondo cui questo uccello, sentendosi malato, si fareb-be un clistere col becco (cfr. la nota di Zaccarello a sonetti del Burchiello, ed. cit., cciii 13-14, p. 282).

44. Azzuffati col mosto: ‘ubriacati’.45. Si allude a una credenza, molto diffusa presso i giocosi e i burchielleschi del Quat-

trocento e non solo, secondo cui la notte di Befana gli animali avrebbero la facoltà di parlare. Basti ricordare sonetti del Burchiello, xi 9-11: « E voi messer lo Giudice de’ nuovi / gonfalonier del popol verdemezo, / fate che Befania non vi ci truovi », e piú chiaramente cxviii 12-14: « Tu nascesti la notte di Bephana, / quando ogni bestia legata si snoda / e ’nsieme parlan sanza turcimanni ».

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Lo Scarlatti, nella risposta (significativamente perspicua e non bur-chiellesca), tra deluso e indispettito per lo smacco ricevuto (« di tal ragion ricette a·tte s’aspetta », scrive fra l’altro), invita paradossalmente il corri-spondente « a non seguir de’ ’dïoti lor setta », quasi rinnegando quel latte che l’aveva cresciuto:

Sugo non di coltron, ma d’un metone,che grida come ’l bo che non può piúee vuolsi mescolar con chi à vertúe,ma troppo pesa sua prosunzïone. E s’tu farai di ciò conclusïone, 5

la dicozion saran l’opere tue,che·sse fien buone ti merranno in súe,dove si truova ogni consolatione. Di tal ragion ricette a·tte s’aspetta,cioè qual sopra appunto t’ò proposto, 10

e non seguir de’ ’dïoti lor setta. fa’ ch’al ben far tu non ne stia discosto,ch’egli è mirato altrui po’ molto in fretta,scernendo la ignoranza o virtú tosto. Se nel mese d’agosto, 15

quand’io rivolsi alle Muse la cresta,m’avessi atteso, i’ sare’ d’altra gesta. Onde che per te restaet parmi che·ttu m’usi villanianon volermi mostrar quanto che·ssia. 20

Deh, per tuo cortesia,sendoti stato, et son, buon servidore,non mi negar d’eser mie precettore! ché·ttu n’arai honore,però ch’ogni or mi duplica la voglia, 25

avendo il mezo tuo, s’or ò46 la soglia.

La poesia alla burchia, dunque, si rivela sorprendentemente uno stru-mento di socialità letteraria, benché, almeno in questo caso, una socialità

46. Il manoscritto ha una lezione poco perspicua: sorro, come legge Lanza, che correg-ge in serra’, o forse sorvo. Io preferisco in ogni caso mettere a testo s’or ò, cioè ‘se ora ho’.

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paradossale, frutto di un dialogo fra sordi che ben s’attaglia all’universo del nonsense. Diventare strumento di condivisione e di conversazione, comunque, non è poco per una poesia la cui sostanza è, secondo il cele-bre epigramma landiniano, nihil.

3. Riprendiamo il filo principale del discorso, ricordando come il bot-tino della nostra ricerca di testi alla burchia nei poeti del Quattrocento si sia rivelato, alla fin fine, piuttosto magro, soprattutto in rapporto alla quantità dei testi esaminati. Giunti a questo punto, non è che si debba necessariamente concludere che già nel Quattrocento la poesia del non-sense avesse solo circolazione limitata e sotterranea. Oltre a ribadire la fioritura di un’ampia scuola intorno a Burchiello, tanto prossima al ma-estro da entrare a far parte della sua tradizione (sia nelle stampe sia in manoscritti come il Magliabechiano VII 1167, copiosamente sfruttato dal Messina per i suoi sonetti inediti),47 si deve considerare che la nostra inda-gine si è concentrata sulla produzione poetica in sonetti, escludendo un territorio assai fecondo per gli studiosi del nonsense come quello della frottola. Si dovrà anche tenere a mente che uno degli indirizzi stilistici dominanti nel secolo è quello che è stato definito espressionistico,48 fon-dato su una sistematica oscurità del dettato e sul gusto per un’ornamen-tazione retorica che pare compiacersi delle complicazioni e dell’infra-zione delle regole, nonché di una sintassi agile quanto brachilogica. L’ef-fetto di questa poesia sui lettori non differisce poi di molto da quello suscitato dai versi alla burchia, benché lo straniamento che ne deriva ab-bia diversa origine. E soprattutto per certe poesie di ambito comico-rea-listico, trasparenti nella lettera, ma oscure nei riferimenti a situazioni o persone per noi ormai misteriosi, non è affatto detto che i contempora-nei fossero sempre a conoscenza dei fatti sottesi, spesso di minimo mo-mento e legati alla quotidianità anche meschina dell’autore e del suo ri-stretto ambiente; il che poteva generare, anche nel pubblico coevo,

47. Domenico di Giovanni detto il Burchiello, sonetti inediti, raccolti e ordinati da M. Messina, firenze, Olschki, 1952.

48. Per questa definizione cfr. Martelli, Letteratura fiorentina del Quattrocento, cit., pp. 283-85, 303-4.

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un’apparenza di nonsense.49 Su questo piano si muovono, ad esempio, al-cuni sonetti di francesco Alberti che risulterebbero del tutto incom-prensibili se non s’incontrassero i nomi di alcuni dei personaggi menzio-nati nelle portate al catasto dell’autore: il lavoratore di un suo podere, un calzaiuolo suo vicino di casa (son. ci) e soprattutto la sua schiava Marta, « che bee volentieri », come risulta dal documento archivistico cosí come dal gustoso son. clxii.50 Anche per questo sottogenere, del resto, era stato lo stesso caposcuola a dare l’esempio – e, ancora una volta, non senza avere alle spalle una cospicua tradizione –, con sonetti come Qua-rantaquattro fiorin d’or, brigata (cxli) o Mari Bastari, tu e la tuo Betta (clxiv).

Le vie della poesia del nonsenso insomma, come quelle della Provvi-denza, sono spesso molteplici e quasi sempre insondabili; solo in qualche caso fortunato è possibile rimettere insieme i pezzi che ci permettono di districare alcuni dei nodi che il tempo ha avviticchiato intorno a testi destinati a una circolazione limitata e circoscritta. E non accade forse lo stesso anche per molti sonetti del barbiere? Chi infatti avrebbe potuto ritenere altro che nonsense una locuzione come « lo specchio del Gabur-ro », se una provvidenziale postilla apposta a un codice trivulziano non avesse chiarito che « Gaburro era beccaio alla loscia del ponte Vecchio verso Por Santa Maria et il suo specchio era Arno »?51

Alla luce di tutto questo, resta da chiedersi se lo studio di questi testi di autori minori e quasi d’ambito privato porti qualche utilità piú generale all’interpretazione dei versi del Burchiello. Prescindendo da spunti ese-getici applicabili al singolo contesto, ci si dovrà porre il problema fonda-mentale: per la poesia di Burchiello e sodali si può parlare di nonsense? C’è qualche metodo in quella pazzia? Nell’illustrazione dei sonetti alla

49. È un aspetto al quale accenna Claudio Giunta per le tenzoni burchiellesche (ma si può estendere a diversi altri testi che entrano nella vulgata), dove i dialoganti fanno riferi-mento a una sorta di « codice ristretto » per cui « le parole adoperate dal poeta sono relati-vamente chiare ma i fatti, gli eventi a cui il poeta allude, oscuri: per tutti tranne che per il suo corrispondente » (C. Giunta, Premesse per un commento alle tenzoni di Burchiello, in La fantasia fuor de’ confini, cit., pp. 75-100, a p. 80).

50. Anche per questi testi rimando al mio commento.51. Cfr. sonetti del Burchiello, ed. cit., lxxiii 7-8, p. 103: « ch’io avevo sí secca questa foce,

/ che vòto arei lo specchio del Gaburro » e, per la chiosa, il relativo commento.

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burchia proposti, mi sono mosso – gli specialisti se ne saranno accorti – sulle orme di Michelangelo Zaccarello, che, superando la nozione di nonsenso, rileva come nella poesia burchiellesca « il testo si dipani per associazioni immanenti alla materia verbale, utilizzata quest’ultima in modo vistosamente diverso dal suo valore corrente e abituale »: di queste associazioni lo stesso studioso ha dato ampia esemplificazione in un suo eccellente saggio del 200252 e nel commento einaudiano. I piú fedeli se-guaci della maniera burchiellesca – che, come ha rilevato Giuseppe Cri-mi, non ha bisogno di proclami, ma attua la sua poetica direttamente ed esclusivamente nei sonetti –53 capiscono il meccanismo di quella poesia e lo riproducono, anche se talora è evidente lo sforzo di adesione al mo-dello, che toglie naturalezza al dettato: in particolare, negli imitatori manca uno dei fenomeni caratteristici della poesia del barbiere (che già compare nel brunelleschiano Panni alla burchia e visi barbizechi), cioè la fusione e il trascolorare di un testo meramente comico in poesia alla burchia e viceversa, il saltuario emergere, nelle accozzaglie piú disparate, di un riferimento sensato, di un’allusione perspicua, di un indovinello arduo ma solubile, che spesso è solo un bagliore; poi, in virtú di quell’in-calzare del ritmo e di quel « sottentrare di sempre nuove forze » a cui ac-cennava Domenico De Robertis,54 si risprofonda nell’assurdità, o alme-no in quello che per noi ha la sua apparenza. Questo fenomeno testimo-nia come la maniera alla burchia fosse, in Burchiello, l’esito estremo, ma in fondo consequenziale, di un linguaggio comico preesistente (e pree-sistente era del resto anche quella particolare variante di poesia comica che definiamo poesia alla burchia).55 I seguaci, invece, nella smania di saggiare il nuovo modo, tentano la via dell’adesione puristica e separano in modo piuttosto netto i due moduli espressivi; tanto che nelle rubriche

52. Zaccarello, schede esegetiche, cit. (da lí, p. 1, provengono le parole riportate a te-sto).

53. Vd. Crimi, L’oscura lingua, cit., p. 282.54. Cfr. De Robertis, Una proposta per Burchiello, cit., p. 111.55. Per le tappe essenziali che anticiparono l’esperienza del Burchiello si possono con-

sultare i primi quattro capitoli del lavoro di Crimi, L’oscura lingua, cit., o anche solo il breve profilo che di quella storia traccia Zaccarello nell’introduzione alla sua edizione com-mentata (pp. xiii-xx).

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autografe, solo i sonetti alla burchia del Pigli sono definiti “alla burchiel-la”, cosí come un sonetto alla burchia del Libro dei sonetti di Luigi Pulci e Matteo franco è il solo a essere esplicitamente designato, nel recente-mente recuperato codice Dolci,56 come “burchiellesco”, benché l’intera opera sia di esclusiva pertinenza comica.

4. Visto che si è menzionato Luigi Pulci, non ci si può esimere di riser-vare a lui almeno qualche cenno, proponendo alcune considerazioni su quello che giustamente viene ritenuto il piú genuino erede di Burchiel-lo. Mi limiterò a qualche riflessione sul Libro dei sonetti,57 che, com’è noto, accoglie anche i documenti letterari della lunga tenzone che vide sfidar-si Luigi Pulci, già animatore principe della brigata medicea, e il piú gio-vane Matteo franco, astro nascente in quel medesimo circolo. Oltre ai testi della tenzone, il Libro, che reca nella tradizione una configurazione particolarmente instabile per canone e ordinamento dei pezzi, trasmette altri componimenti di entrambi i poeti, diretti a destinatari diversi dal contendente. Nel Libro dei sonetti – che testimonia una vera contrapposi-zione fra i due rimatori e non solo uno scherzo letterario – Burchiello è una presenza costante;58 la sua influenza si manifesta a vari livelli: ci sono citazioni dirette, richiami di lessemi e sintagmi, o anche l’imitazione di motivi e luoghi comuni. In particolare, com’è ovvio, il modello portante ed esplicito va riconosciuto nella vituperosa tenzone del barbiere con Rosello Roselli, di cui si ripropongono analiticamente i temi e il linguag-

56. Per questo manoscritto, recentemente ricomparso sul mercato antiquario, cfr. A. Decaria-M. Zaccarello, Il ritrovato ‘Codice Dolci’ e la costituzione della vulgata dei ‘sonetti’ di Matteo Franco e Luigi Pulci, in « filologia italiana », iii 2006, pp. 121-54.

57. Il titolo, in verità, non rispecchia i dati della tradizione, ma si adotta per comodità in quanto consente di riferirsi all’edizione piú completa di questi sonetti (L. Pulci-M. Franco, Il ‘Libro dei sonetti’, a cura di G. Dolci, Milano-Genova-Roma-Napoli, Società Anonima Editrice Dante Alighieri, 1933). Per una piú precisa trattazione del problema cfr. M. Zaccarello, Continuità e specificità nella tradizione a stampa dei ‘sonetti iocosi & da ridere’ di Matteo Franco e Luigi Pulci, in « Tipofilo logia », i 2008, pp. 105-27 (ora anche in Id., Reperta, cit., pp. 357-95).

58. Per averne un’idea si può ricorrere al quinto capitolo di Crimi, L’oscura lingua, cit., pp. 317-53, che esamina i passi pulciani che riprendono passi burchielleschi (per i sonetti vd. in part. pp. 336-48).

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gio. Come ho sostenuto in altra sede,59 però, dietro alla costituzione del Libro c’è anche qualcosa di diverso e una strategia piú sottile: la configu-razione recata dal codice Dolci, in particolare, sembra frutto di una cer-nita e di un montaggio dei sonetti tesi ad accreditare la vittoria del fran-co nella tenzone e il suo subentrare a Luigi nel ruolo di poeta comico principale della cerchia medicea. Anzi, direi piuttosto nel ruolo di erede di Burchiello nell’età laurenziana, dato che il pegno reale della disputa dovette risiedere proprio nel riconoscimento di questo ruolo, come si evince da ripetute ed esplicite dichiarazioni dei due contendenti.

Nel Libro, infatti, la presenza di Burchiello è sí costante, ma manca quasi del tutto il poeta alla burchia; né ciò deve meravigliare, dato che il genere della tenzone in vituperium non consente mai un linguaggio trop-po coperto; figuriamoci se può sopportarlo una tenzone come questa, svolta manifestamente davanti a un pubblico e per quel pubblico (quel-lo della cerchia laurenziana). Nel codice Dolci solo un paio di testi del franco (uno invero di attribuzione controversa) presentano andamento alla burchia. Basti la prima quartina di uno di essi per evidenziare il rigo-re dell’imitazione:

Un arrosto smarrito sanza tagliae dua Gimignanesi da Romenacorson ne’ frati a far sonare a cena,perché Cupido temessi di maglia.60

I due sonetti si collocano, nella strategia compositiva del codice, in una sezione in cui, venuto meno il contrappunto di botta e risposta, la voce di Luigi è ormai assente e il franco può esibire sia le sue relazioni coi principali personaggi dell’ambiente mediceo (destinatari di quasi tut-ti i sonetti della seconda parte del codice), sia la sua adeguatezza a suben-

59. A. Decaria, Il Pulci ritrovato e nuove ipotesi sul ‘Libro dei sonetti’, in Collezione privata. notizie storico-filologiche e recuperi testuali dal mondo del collezionismo e dell’antiquariato librario. Atti del Convegno di Ascona, Monte Verità, Centro Stefano franscini, 16-17 novembre 2006 = fasc. mon. del « Bollettino Storico della Svizzera Italiana », cxi 2008, pp. 247-81.

60. Pulci-Franco, Il ‘Libro dei sonetti’, cit., lxxiv 1-4, p. 72. Proprio questi versi sono citati e illustrati da Zaccarello, Burchiello e i burchielleschi, cit., pp. 130-31, che vi riconosce uno dei rari esempi di poesia alla burchia d’età laurenziana.

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trare a Luigi come poeta comico per cosí dire ufficiale: e saper fare sonet-ti alla burchia doveva costituire una delle referenze obbligatorie per il curriculum di un aspirante poeta comico. Oltre a questi due esempi, tutta-via, ser Matteo non adopera altrove quella modalità, mentre sfrutta sa-pientemente tutta la gamma di generi e situazioni caratteristiche della poesia giocosa e burlesca, e anche in quei testi è molto forte la presenza del Burchiello (quello, però, dei testi realistici e perspicui).

E Luigi, che, quando avveniva tutto questo, era ormai quasi sempre fuori di firenze? Anche nella produzione del Pulci – incredibile a dirsi – si stenta a trovare tracce di poesia alla burchia. Eppure egli, funambolo del linguaggio (come dimenticare il Vocabolista, i sonetti dialettali irti di giochi verbali e doppi sensi, la satira antipedantesca nei sonetti contro Bartolomeo Scala e Marsilio ficino?), in questo senso davvero nuovo Burchiello, riusciva tanto influenzato dal caposcuola da vedere accolti alcuni suoi sonetti già nella princeps veneziana dei sonetti del Burchiello e quindi (benché col senno del poi) fin nella stampa pseudo-londinese; Luigi, inoltre, aveva assimilato tanto a fondo la maniera del maestro da comporre un sonetto che pare contaminare la modalità alla burchia con quella realistica e polemica (e’ risono una volta piú di septe).61 Nonostante tutto questo, anch’egli lascia alla tecnica “alla burchia” solo pochi spiccio-li della sua ampia produzione, spesso destinando questi testi a una circo-lazione ristretta e privata che ha permesso solo a pochi di salvarsi fortu-nosamente dal naufragio. Al contrario, il ritornello è ormai noto, del Burchiello realistico e perspicuo trasuda ogni suo verso, e in qualche caso Luigi dà un grande aiuto agli esegeti di Burchiello perché trapianta immagini e locuzioni da sonetti alla burchia del barbiere in testi realisti-ci, decrittando l’enigma.62 Ad esempio, in uno dei sonetti contro lo Scala (Messer Bartolomeo de’ bell’inchini) si legge:

61. Per questo sonetto vd. lo studio di S. Carrai, schede per i sonetti di Luigi e del Franco, in Id., Le Muse dei Pulci. studi su Luca e Luigi Pulci, Napoli, Guida, 1985, pp. 75-84, alle pp. 80-84, che ne ritrovò e pubblicò l’autografo. Mi sia poi concesso rinviare ad A. Decaria, Luigi Pulci e Francesco di Matteo Castellani. novità e testi inediti da uno zibaldone magliabechiano, firenze, Società Editrice fiorentina, 2009, pp. 107-8 (per questo sonetto) e 185-92 (per la produzione “alla berchia” di Luigi).

62. È un fenomeno riscontrato anche da Crimi, L’oscura lingua, cit., p. 325, che cita altri esempi.

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Ben tu sè fatto un di que’ paladini,che ne vanno a firenze con la pala.63

Il Pulci, pur nel furore della satira contro l’umanista, ha nell’orecchio un passo preciso del suo modello e, piegandolo alle proprie necessità polemiche, scopre il gioco che nei versi del barbiere risultava decisamen-te piú ostico da decifrare:

I’ non potrei contar tanta sciaguracioè de’ paladin condotti a taleche ricogliendo van la spazatura.64

5. Venendo al tirar delle somme, il dato nuovo che emerge dall’inda-gine sulla poesia alla burchia nella seconda metà del Quattrocento con-siste in questo: i poeti di quella stagione si cimentano di rado con la piú genuina maniera “alla burchia”, preferendo invece adoperare quei testi apparentemente senza senso come miniera da cui estrarre singole tesse-re e locuzioni da ricontestualizzare in ambito genericamente burlesco. Questi fenomeni, che Giuseppe Crimi constatava per francesco Berni e, in misura minore, già per Lorenzo de’ Medici,65 sono dunque presen-ti fin dall’inizio nella ricezione della nuova maniera. Burchiello risulta insomma, paradossalmente e fin da subito, piú imitato per la sua produ-zione realistica (tutto sommato piú conservatrice) che come caposcuola di un nuovo modo di far poesia, che poi, peraltro, proprio nuovo non era. Questo almeno per quanto concerne la riproducibilità in proprio, da parte dei poeti coevi, di quella maniera. I rimatori contemporanei e gli immediati discendenti che si muovono sul terreno del riso ammirano il barbiere, alcuni ne piangono anche la morte o corrispondono con lui, ma non lo seguono sulla strada del nonsense (o di quel particolare nonsense,

63. sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca, Londra [ma Lucca-Pisa, s.c.,] 1757, pp. 161-62 (testo 239, vv. 5-6).

64. sonetti del Burchiello, ed. cit., xxii 9-11, p. 31.65. Si rinvia ai capp. vi-vii del piú volte citato lavoro di Crimi, L’oscura lingua. Una piú

sintetica, ma non meno rilevante indagine sul riuso dei testi burchielleschi nel secondo Quattrocento e oltre si trova ora anche in Zaccarello, Burchiello e i burchielleschi, cit., pp. 130-38.

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ché, si è visto, il Quattrocento conobbe anche altre esperienze poetiche avvicinabili a tale definizione). I piú stretti seguaci della poesia alla bur-chia, del resto, li indica la tradizione stessa, dato che i pezzi apocrifi o presunti tali che s’infiltrano da subito nella vulgata dei sonetti costituisco-no davvero la massima parte della fortuna e dell’imitazione di quello stile, e l’imitazione piú fedele. Gli altri, come si è visto, limitano l’omag-gio a pochi pezzi. Si ha insomma la sensazione che la scomparsa di Bur-chiello innescasse il rapido declino di quella società letteraria che, sull’on-da degli estri del barbiere di Calimala, aveva alimentato quel particolare genere di poesia e aveva posto le basi per la sua trasmissione alle genera-zioni future. Con l’affievolirsi di quella fitta conversazione fra i burchiel-leschi della prima ora, un gruppo che pare da collocare in un orizzonte culturale e geografico piuttosto ristretto, la poesia alla burchia era desti-nata a morire, o a divenire altra cosa. Già i poeti comici toscani dell’ulti-mo quarto del secolo si trovarono ad abitare tutt’altro mondo: chi, fuori di Toscana, come il Bellincioni e il Pistoia (e da un certo momento anche il Pulci), doveva fare i conti con le occasioni che alla poesia offriva, ma anche imponeva, la realtà della corte, doveva per forza di cose rivolgersi a un pubblico piú vasto ed eterogeneo di quello che assaporava le fanta-sticherie del Burchiello. Il poeta cortigiano era costretto a ricorrere a un linguaggio che, se non del tutto alieno da allusioni, enigmi e giochi di parole, doveva limitare gli artifici a un numero ridotto e ben riconoscibi-le. Non che la burchiellesca « fantasia » dovesse rinunciare a tutti i suoi colori, ma certo la tavolozza andava un po’ ridotta. La progressiva muta-zione della poesia burchiellesca e il suo trapianto, depurata delle punte piú eversive, in terreni piú prossimi al genere comico-realistico, da altri messa adeguatamente in luce, a mio avviso si spiega anche coi fattori appena indicati.66 E il fatto che questo processo nella patria di Burchiello si inneschi, nei primi anni Settanta, proprio in corrispondenza di un net-to e radicale processo di smunicipalizzazione della cultura, conferma

66. Molto verosimile è anche l’ipotesi proposta da Michelangelo Zaccarello per giusti-ficare la « rapida eclissi dello stile “alla burchia” » in epoca laurenziana, che andrebbe ricer-cata nel « rapido successo ottenuto in quegli ambienti dalla letteratura carnascialesca » (Burchiello e i burchielleschi, cit., pp. 132-33).

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l’ipotesi della fine di un mondo. A ulteriore riprova, si può constatare che la strenua imitazione burchiellesca di Alessandro Braccesi è tutta creata in laboratorio e non reca alcuna traccia di apertura all’esterno: nel suo libro – non per niente ermeticamente congegnato alla maniera di un canzoniere lirico, strutturato cioè in modo affatto contrario a quello del-le sillogi del barbiere, aperte nel canone e nell’ordinamento alle soluzio-ni piú varie – non entrano altri interlocutori, corrispondenti, complici o avversari, ma c’è spazio solo per il confronto col modello, anzi con quel libro, fissato proprio in quel torno d’anni nella rassicurante forma della vulgata. Ma era un libro che ormai apparteneva a un’altra stagione.

Questo, almeno, il panorama che emerge dalla mia parzialissima rico-gnizione sulla prima fortuna della poesia alla burchia; un viaggio che forse è valso la pena percorrere, anche per iniziare a riaprire la difficile partita filologica dell’assegnazione dei singoli testi che entrano nel corpus della tradizione burchiellesca. Una partita che, senza indagare le perso-nalità poetiche di poca o nessuna fama di cui ho parlato, non è pensabile affrontare.

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Carla Chiummo

« Sí gRAndE APEllE, E non MInoRE APollo »: Il nonsense dEl bRonzIno MAnIERIStA*

Parlare del Bronzino poeta burlesco significa veramente addentrarsi in una selva ancora in buona parte oscura. Di « clandestinità quasi assolu-ta » parlava Mutini nel 1988, nella Introduzione all’edizione piú recente e commentata delle Rime in burla bronziniane, a cura di franca Petrucci Nar delli (Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988), seguíta dal-l’unica vera edizione critica, sebbene parziale, di questo Bronzino, cioè quella dei salterelli dell’Abbrucia sopra i Mattaccini di ser Fedocco, a cura di Carla Rossi Bellotto (Roma, Salerno Editrice, 1998), ma con un’edizione completa ancora addirittura ottocentesca, e niente affatto filologicamen-te attendibile, del suo Canzoniere petrarchesco (sonetti di Angiolo Allori detto il Bronzino ed altre rime inedite di piú insigni poeti, a cura di Domenico Moreni, firenze, Stamperia Magheri, 1823).1 A ciò si aggiunga la neces-

* Desidero anzitutto ringraziare Renzo Bragantini e Giuseppe Crimi per avere pa-zientemente letto questo lavoro e per i preziosi suggerimenti offertimi.

1. Dopo il meritorio, ma ovviamente ormai datato A. Furno, La vita e le rime di Angiolo Bronzino, Pistoia, Tip. flori, 1902, l’unica monografia dedicata interamente al Bronzino scrittore è quella di D. Parker, Bronzino. Renaissance Painter as Poet, Cambridge-New York, Cambridge Univ. Press, 2000, dove al poeta burlesco dei salterelli si fa solo un rapi-do cenno nel capitolo dedicato alle Rime in burla, pp. 14-39. Un cenno ancora piú rapido e generico alla sua attività poetica nella monografia di M. Brock, Bronzino, Paris, Éditions du Regard, 2002. Ci sono tuttavia alcuni recenti segnali di una sua maggiore, almeno re-lativa, popolarità letteraria su questo versante poetico: uno di questi va per esempio ben al di là della ristretta cerchia degli “addetti ai lavori”, ed è la pubblicazione del suo com-ponimento Dello starsi. Cap. i, in Versi da ridere. Poesie comiche italiane, a cura di D. Piccini, Milano, Saggiatore, 2007. Significativo che solo un decennio prima, in un’altra raccolta a carattere divulgativo e di un certo successo, dedicata alla poesia del nonsense, Il piccolo libro del nonsense, a cura di P.P. Rinaldi, Milano, Vallardi, 1997, il nome di Bronzino fosse del tutto assente, mentre il Capitolo de’ Romori, con commento, è in Burchiello e burleschi, a cura di R. Nigro, Roma, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 2002, pp. 925-32. Sul Bronzino petrarchista, si veda invece ora G. Tanturli, Formazione d’un codice e di un canzoniere: Delle Rime del Bronzino pittore Libro primo, in « Studi di filologia italiana », lxii 2004, pp. 195-224, in cui però si fa ancora riferimento all’edizione ottocentesca dei salterelli (Bologna, Gae-

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saria sfida di guardare agli inevitabili rapporti tra il poeta e il pittore, senza cadere nella trappola delle forzature interpretative; per di piú, nel caso delle rime burlesche di cui ci occuperemo, dovendo sciogliere il nodo, tutt’altro che meno intricato, del valutare fino a che punto sia le-gittimo parlare di nonsense, relativo o assoluto che sia.2 Le risposte qui non potranno che essere parziali. Ma qualche nodo può essere sciolto (e insieme, per alcuni aspetti, aggiunto, nella prospettiva di nuove, future indagini ed eventuali conferme), se si parte da un discorso di poetica, che, come nel caso piú lampante della sua pittura, può certamente defi-nirsi, per molti aspetti, “manierista”. Per il poeta serio e per quello bur-lesco.

Se il Manierismo è artisticamente anzitutto « gusto del ricalco e del déjà lu »,3 certo, come scriveva lo storico dell’arte Shearman,4 il parallelo tra il Manierismo pittorico e il petrarchismo alla Bembo, o meglio il bembismo linguistico-poetico, piú o meno ortodosso, può reggere be-ne; ma se è vero che il concetto di Manierismo ha in sé anche il suo con-trario, ovvero una tecnica anti-classicistica « del ribaltamento e della con-tropoetica »,5 allora a maggior ragione il nome del Bronzino poeta e pit-tore avanzato da Pinelli va senz’altro aggiunto.6 Anzi, direi che proprio il Bronzino pittore e poeta risponde al meglio a questa doppia identità ar-tistica. Da una parte il pittore « superbamente glaciale »7 – come scrisse

tano Romagnoli, 1863); riguardo piú genericamente a questo fronte petrarchesco, cfr. il fasc. monografico a cura di B. Porcelli, Petrarca volgare e la sua fortuna sino al Cinquecento, in « Italianistica », v 2004, fasc. 2, sebbene si fermi alle soglie del territorio manierista (man-cando quindi di qualsiasi riferimento al Canzoniere bronziniano).

2. Cfr. P. Orvieto-L. Brestolini, La poesia comico-realistica. Dalle origini al Cinquecento, Roma, Carocci, 2000, e in partic. il cap. 11.

3. A. Pinelli, La maniera: definizione di campo e modelli di lettura, in storia dell’arte italiana, vol. vi. Dal Cinquecento all’ottocento, Torino, Einaudi, 1981, to. i p. 141.

4. J. Shearman, Mannerism. style and Civilization, Harmondsworth, Penguin, 1967 (trad. it. Id., Manierismo, a cura di M. Collareta, firenze, Spes, 1983), pp. 37-39, passim. È con questo studio che dialoga anzitutto Pinelli nella sua introduzione ai rapporti tra il Manie-rismo letterario e quello pittorico e poi tra il Bronzino petrarchista e Bembo (Pinelli, La maniera, cit., pp. 140 sgg.).

5. Pinelli, La maniera, cit., p. 147.6. Ivi, pp. 146-48.7. R. Longhi, Un san Tommaso del Velàzquez e le congiunture italo-spagnole tra il Cinquecen-

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Longhi – che ritrae la sua Laura, la poetessa Laura Battiferri, con il Can-zoniere petrarchesco fra le mani,8 citando l’Andrea del Sarto della Giova-ne donna con un volume di Petrarca; dall’altra il pittore – di un allegorismo che sfiora il nonsense apparente – dell’enigmatica Allegoria londinese (già nota come Allegoria del trionfo di Venere o Allegoria del Piacere),9 con l’inquie-tante inversione nella disposizione naturale delle mani della figura fem-minile in basso sulla destra (allegoria del Piacere, secondo le indicazioni di Vasari),10 o del ritratto, ricordato con enfasi da Vasari, del nano della corte medicea, Morgante,11 dipinto recto/verso su una stessa tela, o il

to e il seicento, in « Vita artistica », ii 1927, pp. 4-12 (ora in E. Baccheschi, L’opera completa del Bronzino, Milano, Rizzoli, 1999, p. 12).

8. La stessa costruzione en abîme (il ritratto che gioca sul citazionismo esibito: una poe-tessa che cita un poeta caro sia a lei che al pittore/poeta) è un espediente tipicamente ma-nierista, cui Bronzino ricorre volentieri nei suoi quadri, e in particolare nei suoi ritratti. Qui i due sonetti petrarcheschi mostrati dalla poetessa sono facilmente riconoscibili: il xlix e il clxxxii. Su questo ritratto e le sue citazioni da Petrarca, cfr. anche R. fedi, La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno Editrice, 1990, pp. 79-80; J. Woods-Marsden, « In la Persia e nella India il mio ritratto si pregia »: Pietro Aretino e la costru-zione visuale dell’intellettuale nel Rinascimento, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita. Atti del Convegno di Roma-Viterbo-Arezzo, 28 settembre-1° ottobre 1992; Toronto, 23-24 settembre 1992; Los Angels, 27-29 ottobre 1992, ivi, id., 1995, to. ii pp. 1099-125, alle pp. 1107-8; Laura Battiferra [sic] and haer literary circle: an anthology, a cura di V. Kirckhan, Chicago, Univ. of Chicago Press, 2006; N. Macola, sguardi e scritture: figure con libro nella ritratistica italiana della ...... del Cinquecento, Venezia, Ist. Veneto di Scienze, lettere e arti, 2007, pp. 76-85, 172-76; L. Bolzoni, Poesia e ritratto nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 215-17.

9. A questa allegoria sono state date infatti le interpretazioni piú diverse, sempre par-tendo però da quanto scritto negli studi ancora imprescindibili di Panofsky e di Zeri (cfr. su questo aspetto A. Cecchi, Bronzino, firenze, Scala/Riverside, 1996, e A. Paolucci, Bronzino, firenze, Giunti, 2002). Anche la Parker si sofferma su questo quadro nel cap. iv, The poetics of Bronzino’s Painting, in Ead., Bronzino, cit., pp. 128-33; piú di recente è tornata a parlarne, tra gli altri, S. Malaguzzi, L’Allegoria di Bronzino. Il piacere e l’inganno, in « Art e Dossier », xix 2004, fasc. 9.

10. G. Vasari, Le vite dei piú eccellenti pittori, scultori e architetti, a cura di M. Marini, Ro-ma, Newton, 2007, p. 1341.

11. « Ritrasse poi Bronzino al duca Cosimo Morgante nano ignudo tutto intero, et in due modi, cioè da un lato del quadro il dinanzi e dall’altro il di dietro, con quella stravagan-za di membra mostruose che ha quel nano, la qual pittura in quel genere è bella e meravi-gliosa » (ivi, p. 1342). Come è noto, Morgante è figura emblematica della poesia burlesca: da Pulci in poi. Lo stesso fatto che il nano di corte dei Medici abbia il nome di un gigante non poteva non stimolare la vena paradossale di Bronzino, come già di altri poeti burle-

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disegnatore degli splendidi arazzi che incastonano le figure piú biz-zarre.12

Cosí, senza voler forzare troppo l’uso della sua scrittura per spiegare la sua arte pittorica – come si è rischiato di fare nel suo caso –13 ritroviamo da una parte il poeta di un canzoniere di circa 230 componimenti in stile ipermanieristicamente petrarchesco (il che però significa anche con tra-dimento profondo del piú rigido petrarchismo bembesco);14 dall’altra,

schi. Ricordo qui l’epitaffio del Grazzini/Lasca A Morgante nano: « Un nano, ch’ebbe nome di gigante, / giace sepolto in questo ricco avello, / ch’ebbe natura, colore e sembiante / d’uomo, di bestia, di pesce e d’uccello. / fu cosí contraffatto e stravagante / e tanto brutto che pareva bello; / onde, e con ragion, si potrà dirgli: / tu sol te stesso, e null’altro somigli. /// ». La Longhi nota la citazione petrarchesca dell’ultimo verso da RVF, clx 4, e ricorda che Grazzini compose anche una madrigalessa per Morgante, dal titolo Ben avrebbe di tigre o di serpente, « dove gli stessi spunti si stemperano senza efficacia in un discorso prolungato e monotono » (Poeti del Cinquecento, i. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, p. 996).

12. Vd. Baccheschi, L’opera completa del Bronzino, cit., pp. 96-98 (con utile nota biblio-grafica sulla arazzeria di Bronzino a p. 96), e Parker, Bronzino, cit., p. 38.

13. Cfr. M. Buggè, Tra immagine e parola, in « Critica d’arte », lxii 1999, pp. 61-71: qui l’interpretazione dei rapporti tra scrittura e pittura in Bronzino si fonda su schemi che appaiono un po’ troppo meccanici e unilaterali (modello opposto di equilibrato e dina-mico confronto tra arte visiva e letteraria si trova invece negli studi di L. Bolzoni o, seb-bene non inerenti al caso Bronzino, nelle parole di E.N. Girardi, La notte di Michelangelo, in Letteratura italiana e arti figurative. Atti del xii Convegno dell’AISLLI, Toronto-Hamil-ton-Montréal, 6-10 maggio 1985, a cura di A. franceschetti, firenze, Olschki, 1988, vol. ii pp. 473-83, a p. 473: « un tertium che, lasciando alla scultura ciò che è della scultura, e alla poesia ciò che è della poesia, ne spieghi innanzitutto la compresenza »; o in R. Scrivano, Il modello e l’eccezione. studi rinascimentali e manieristici, Napoli, Liguori, 1993, e piú specifica-tamente nel cap. La cultura letteraria di Raffaello).

14. Vd. su questo aspetto Parker, Bronzino, cit., in partic. il cap. ii che tocca proprio la questione tuttora aperta del rapporto tra questo Canzoniere e i suoi modelli, Petrarca e Bembo in primis (a p. 48, sul rapporto tra il Canzoniere petrarchesco e quello di Bronzino, a titolo esemplificativo, soffermandosi su un confronto diretto tra i due sonetti proemia-li, la Parker scrive: « The opening of Bronzino’s canzoniere is much more clearly structu-red than the ending. The first sonnet offers a brief account of the collection’s contents and, more importantly, exemplifies the way in which the painter tends to engage the lyric tradition […]. Bronzino’s sonnet is not simply derivative of Petrarch’s poem; it lovingly registers and engages lines and motifs from its predecessor ». Si tenga presente che solo una minima parte di questo Canzoniere circolò in edizioni a stampa e che nel Canzonie-re del Magl. II IX 10 della Biblioteca Nazionale Centrale di firenze vi appaiono insieme molti componimenti di altri autori.

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l’autore burlesco dei Capitoli e soprattutto dei salterelli dell’Abbrucia, i piú decisamente sconfinanti nell’ambiguo territorio del nonsense. Ché – va detto subito – se già è stato ampiamente confutato come nonsense assolu-to15 nella poesia burchiellesca e ancor piú in quella bernesca cui lo stesso Bronzino guarda con molta attenzione (e parziale devozione), ancora piú decisamente è confutabile in senso assoluto in un poeta che manie-risticamente ricalca le impronte di quella tradizione con una consapevo-lezza letteraria tutt’altro che scontata. Insomma, la riscrittura del poeta serio sconfina nella parodia del poeta “in burla”, che, come scriveva re-centemente Garavelli a proposito del “bernismo” atipico di un Caro o di un Molza, o del Della Casa faceto – compagni di strada del Bronzino poeta – non può comunque prescindere dalla « parola assoluta del Petrar-ca ».16 E non solo dalla sua, come vedremo.

15. È la tesi sostenuta in Orvieto-Brestolini, La poesia comico-realistica, cit., cosí come nelle piú recenti e accreditate ricerche su questo versante della poesia burlesca, a partire dai lavori di Zaccarello su Burchiello (oltre all’ed. crit. da lui curata per la Commissione dei testi in Lingua [Bologna 2000], si veda almeno la sua edizione commentata dei sonetti, del Burchiello, Torino, Einaudi, 2004) fino al piú recente e densissimo studio di G. Crimi, L’oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello, Manziana, Vecchiarelli, 2005 (e di questa meritoria collana di Vecchiarelli si vedano anche Cinquecento capriccioso e irrego-lare. eresie letterarie nell’Italia del classicismo, a cura di P. Procaccioli e A. Romano, 1999, e A. Corsaro, La regola e la licenza. studi sulla poesia satirica e burlesca fra Cinque e seicento, 1999; sul rapporto arte-letteratura: Autorità, modelli e antimodelli nella cultura artistica e letteraria fra Ri-forma e Controriforma. Atti del Convegno di Urbino-Sassocorvaro, 9-11 novembre 2007, a cura di A. Corsaro, M. faini e P. Procaccioli, e, appena pubblicato, quando questo lavoro era già in composizione, officine del nuovo. sodalizi fra letterati, artisti ed editori nella cultura italiana tra riforma e controriforma. Atti del Convegno di Utrecht, 8-10 novembre 2007, a cura di H. Hendrix e P. Procaccioli, 2008). Interessanti riferimenti a questo ambito letterario nel vol. Gli “irregolari” nella letteratura. eterodossi, parodisti, funamboli della parola. Atti del Convegno di Catania, 31 ottobre-2 novembre 2005, Roma, Salerno Editrice, 2007 (in partic. negli interventi di A. Corsaro, M. Zaccarello, D. Ro mei, A. Amaduri, A. Di Grado, A. Manganaro). Si tratta di una linea di studi sulla poesia burlesca che ha seguito le ricerche filologico-linguistiche imprescindibili avviate diversi decenni fa dalla Ageno e poi portate avanti, anche su altri fronti interpretativi, per citare solo alcuni degli studiosi piú noti, da A. Tartaro, M. Martelli, D. De Robertis, A. Lanza, facendo luce su questo versante apparentemente nonsensical della poesia burlesca, in specie quella fiorentina tre-quattrocentesca.

16. E. Garavelli, Presenze burchiellesche (e altro) nel ‘Commento di ser Agresto’ di Annibal Caro, in La fantasia fuor de’ confini. Burchiello e dintorni a 550 anni dalla morte (1449-1999). Atti

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Un tale impegno su piú fronti poetici smentisce subito la lettera della stessa definizione data da Bronzino alla sua poesia, come ingenua « zam-pogna di contado »,17 puro ripiego alle fatiche dell’artista (definizione mo- dulata sull’antico e fortunato topos rinverdito dalle nugae petrarchesche e spesso usato dai poeti comici cinquecenteschi),18 e spiega già in parte l’entusiasmo di un Cellini che loda proprio il poeta dei sonetti, cosí come di un Vasari che invece sa apprezzare anche il poeta faceto; per non par-lare delle reiterate lodi del Grazzini/Lasca e di quel Varchi che lo incor-nicia in un solenne « sí grande Apelle e non minore Apollo ».19

Certo, l’appellativo elogiativo del Varchi va subito filtrato attraverso la sua natura, è il caso di dirlo, di maniera. Di maniera anzitutto perché l’artista/poeta cui era stato prima attribuito era come è noto Michelan-gelo, maestro di arte – pittorica e poetica – indiscusso per Bronzino e tutta la sua cerchia dell’Accademia fiorentina. E per di piú era stato Ber-ni, nel Capitolo dedicato al pittore Fra Bastian del Piombo (1534), a elogiare in questi termini assieme l’artista e poeta Michelangelo, fino a decretar-ne la superiorità letteraria persino rispetto al modello petrarchesco:

del Convegno di firenze, 26 novembre 1999, a cura di M. Zaccarello, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, p. 231. A proposito di autori come Molza e Della Casa, che giocano sul doppio fronte della poesia petrarchista e della sua parodia apparentemente bernesca, Garavelli scrive, sulla linea degli studi di S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco del Cinquecento, Padova, Antenore, 1983: « La rettifica parodica della parola assoluta del Petrarca sembra approdare cosí, anziché alla legittimazione dello spazio alternativo del bernismo, alla formulazione di una proposta che dal Petrarca non può comunque prescindere »; conclude però, riguardo al Caro e al suo Commento, e insieme a tutta quella cerchia roma-no-toscana di antibembisti: « ci troviamo di fronte al “bizantinismo” manieristico e un po’ decadente di una società letteraria di parvenus che, malata di complessi di inferiorità per-ché impietosamente subordinata nella quotidianità, tenta di autolegittimarsi sperimen-tando l’inversione carnevalesca » (p. 238). Scivoloso però è l’accostamento di manierista e decadente, con una nuance moralistica, che rischia di riportare in acque melmose, secondo un Manierismo storico letto di per sé come “decadente”, con un’accezione tendenzial-mente negativa e limitativa di questa seconda voce.

17. Rossi Bellotto, Introduzione a I salterelli dell’Abbrucia, cit., p. 15.18. Orvieto-Brestolini, La poesia comico-realistica, cit., p. 205.19. Per una rassegna dei giudizi critici dei contemporanei, cfr. Baccheschi, L’opera

completa del Bronzino, cit., p. 11, e Parker, Bronzino, cit., pp. 14-15. La citazione da Varchi è tratta da opere di Benedetto Varchi ora per la prima volta raccolte, 2 voll., Trieste, Lloyd Austria-co, 1858, vol. ii p. 992, son. lxxxix, A Bronzino, pittore.

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Costui cred’io che sia la propria ideadella scultura, e dell’architettura,come della giustizia, mona Astrea, e chi volesse fare una figurache le rappresentasse ambe due bene, 5

credo che faria lui per forza pura. Poi voi sapete quanto egli è da bene,com’ha giudicio, ingegno, e discrezione,come conosce il vero, il bello e ’l bene. Ho visto qualche sua composizione: 10

sono ignorante, e pur direi d’avéllelette tutte nel mezo di Platone; sí ch’egli nuovo Apollo, e nuovo Apelle:tacete unquanco, pallide vïolee liquidi cristalli, e fiere snelle: 15

e’ dice cose e voi dite parole.20

Lasciando perdere per ora la valenza “realistica” di questo raffronto cose/parole – ad un primo livello opposta rispetto a qualsiasi poetica manierista e ancor piú nonsensical – quello che ci interessa è la valenza appunto “di maniera” che assume subito quel gioco (anche linguistico) Apelle/Apollo. Lo usa, per Bronzino, Varchi, cosí come lo usa la Laura, di nome e “di fatto” (nel senso petrarchistico, e quindi ancora di manie-ra) Battiferri, poetessa e senhal dafneo delle rime “serie” del Canzoniere di Bronzino:21 « novello Apelle Apollo »22 lo chiama la Battiferri, in uno scioglilingua alle soglie del nonsense di lunga fortuna popolare. Ma di fa-cile maniera si tratta: basti pensare che Varchi nelle sue rime usa piú

20. Cito dall’ed. delle Rime di Beni a cura di D. Romei, Milano, Mursia, 1985, pp. 183-84 (il sonetto era già nel Primo Libro del / l’opere Burlesche, di M. / Francesco Berni. / Di Messer Gio. della Casa, del / Varchi, del Mauro, di M. Bino, / del Molza, del Dolce, & / del Firenzuola. / Ammendato; e ricorretto; e / con somma diligenza / Ristampato. / In Firenze, mdlii, segnatura Biblioteca Nazionale Centrale di Roma: 68 9 G 4; il corsivo è nel testo).

21. La Parker rileva come l’appellativo di Apelle/Apollo sia rivolto a Bronzino anche da altri sodali fiorentini, quali Sellori e Antonio de’ Bardi (vd. Parker, Bronzino, cit., p. 60).

22. Ivi, p. 63. Sulla fortuna cinquecentesca del mito di Apelle, vol. R. Arqués, I sonetti dell’arte. Aretino tra epelle e Pignolione, in « Letteratura & Arte », i 2003, pp. 203-12

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volte e per vari artisti le due voci, sebbene non in forma di dittologia co-me nel sonetto per Bronzino.23 Interessante però, per avere una prima

23. opere di Benedetto Varchi, cit., vol. ii, sonetti spirituali, lxxxix, Al Bronzino, pittore, p. 992: « D’ogni cosa rendiam grazie al Signore / Che le ci dà, che cosí vuole Dio, / Caro e chiaro e cortese Bronzin mio, / Cui ebbi ed aggio ed avrò sempre onore. // E se ’l vostro Alessandro al primo fiore / La bell’opera ha fatto, ove ancor io / Sempre vivrò fuor del comune oblio, / Solo è stata di Dio grazia e favore. // Noi siam nulla, Bronzin, voi che sete /Sí grande Apelle e non minore Apollo; / Nulla che vostro sia, no, nulla avete / E che voi Bronzin mio, come dovete, / Ogni ben vostro e suo da Dio tenete; / Il credo certo, anzi per certo sollo. /// »; ccxl, Ad Alessandro Allori, pittore, p. 868: « Caro Alessan-dro mio, ch’al primo fiore / De’ piú verdi anni, non pur del gran nome / Superbo andate, ma del bel cognome / Vostro, ch’io porto sacro in mezzo al core; // Seguite il tosco Apel-le, eterno onore / Dell’Arno, e fate sí ch’ancor si nome / Il secondo Bronzin, pria che le chiome / Cangiate, e ’l mondo dopo lui v’onore; // Questo uman sonno cosí breve, nulla / Risvegliare altro e far longevo puote, / Che d’ardente virtú ben caldo raggio: // Io, che pur dianzi m’addormiva in culla, / Or di neve mischiato ambe le gote, / Quanto vorrei salir, tanto ogn’or caggio. /// »; dxv, A M. Lattanzio Roccolini, p. 909: « Lattanzio, se ’l mondo ha nuovo filippo / A quell’antico ed al gran figlio eguale, / Egli ha bene anche un altro nuovo, quale / fu quell’antico, anzi maggior Lisippo. // »; vv. 12-14: « Ben deve ogni gentil sopra le stelle / Lo grande Aretin nostro, e Giorgin mio / Alzar, Tosco Mirone e Tosco Apelle. /// »; dai sonetti colle risposte e proposte di diversi, p.te ii, son. xlvii, A M. Lo-dovico Castelvetro, p. 926: « Voi, che da fragil vetro il nome e l’opre / Piú salde e belle ch’ada-mante ed oro / Avete; voi, in cui luce e si suopre / D’Apollo ogni nascosto e bel tesoro: //[…] ». Altri versi in cui invece Varchi richiama il poeta/pittore, suo amico, sono il son. ccxliii, A maestro Antonio Bacchiacca, ricamatore, p. 868: « Antonio, i tanti, e cosí bei lavori, / Che vostra dotta mano ordisce e tesse, / Lodi v’arrecan sí chiare e sí spesse, / Che piccio-li appo voi fieno i maggiori. // Chi è, non dico tra i piú bassi cori, / Ma fra i piú alti inge-gni, il qual credesse, / Che poca seta, e picciol ferro avesse / Agguagliato il martel, vinto i colori? // Onde superbo, e pien di gioia parmi / L’Arno veder, che sé felice chiami, / E dica: i figli miei m’han fatto bello: / I bronzi al gran Cellin deono; i marmi / Al Buonar-roto; al Bacchiacca i ricami; / Le pietre al Tasso; al Bronzino il pennello /// »; il son. ccxxxix, Al Bronzino, pittore (ibid.): « Ben potete, Bronzin, col vago, altero / Stil vostro, eletto a sí grande speranza, / formare coi color l’alta sembianza / Della donna gentil d’Arno e d’Ibero: // Ma ’l bel di dentro e quello invitto, intero / Cortese cor, che sol tutti altri avanza, / Chi ritrarrà, dove non ha possanza / Vostra arte, e nulla val gran ma-gistero? // Voi, ma con altro e non men chiaro stile, / Né meno ornato che dal quarto cielo / febo v’inspira e con piú bei colori; // Raro ed esempio e pregio il mortal velo / Potete eterno e l’eterno a’ migliori / far dal mar d’India conto a quel di Tile. /// ». Ma anche i Componimenti pastorali, pubblicati postumi a cura di Cesare Salvietti (1576), hanno qualche interesse nel nostro discorso, per i possibili rinvii cifrati e con sottintesi osceni, riferiti alla cerchia di amici e artisti, Bronzino incluso, nascosti sotto i nomi arcadici (ivi, pp. 1003 sgg.).

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idea della fama e dei riconoscimenti del Bronzino poeta fra i suoi con-temporanei: un vero e proprio erede del Michelangelo artista e letterato, stimato da autorità indiscusse quali Varchi, Doni, Berni, Caro, Grazzini, e ovviamente Vasari. E non c’è da meravigliarsi, dal momento che Agno-lo di Cosimo, alias Bronzino, è una delle presenze piú in vista di quella Accademia fiorentina, nata dalla libera Accademia degli Humidi, coer-citivamente riformata e posta sotto piú stretto controllo mediceo da Co-simo, nel 1541, con l’anno di massima crisi, il 1547, che vede l’espulsione dei piú riottosi, tra cui lo stesso Bronzino, poi riammesso solo nel 1566.24 fatto ancora piú interessante: sappiamo dalla viva voce del Lasca, cura-tore del Primo Libro dell’opere Burlesche (1548) – oltre che dei sonetti del Burchiello (1552) e dei Canti carnascialeschi (1559) –, che l’Accademia degli Humidi « principalmente fa professione […] dello stil burlesco, giocon-do, lieto, amorevole e, per dir cosí, buon compagno » (Dedica del Lasca a messer Lorenzo Scala, Primo Libro dell’opere Burlesche).25 Una traccia fon-damentale da seguire per i sonetti dei salterelli, cosí come per i Capitoli bronziniani in terza rima.

L’omaggio burchiellesco dei salterelli, sulla scia di Caro, era stato prece-duto dai suoi primi Capitoli berneschi, in prevalente concomitanza cro-nologica – piuttosto che come eredità letteraria, come piú volte è stato detto – con quella terza decade del Cinquecento che vede una « fiorente pratica collettiva »26 in questo ambito poetico: il Berni comico del decen-nio precedente inizia infatti a circolare in edizioni a stampa proprio negli anni Trenta.27 E alcuni Capitoli « Di Bronzino pittore » (Capitolo primo in lode della Galea; Capitolo secondo in lode della medesima; Capitolo de Romori, à M. Luca Martini; Capitolo contro à le Campane, al medesimo; e Capitolo in lode

24. Sull’Accademia degli Humidi e questo contesto culturale fiorentino si veda ancora il classico M. Plaisance, Culture et politique à Florence de 1442 à 1551: Lasca et les ‘Humidi’ aux prises avec l’Académie Fiorentine, in Les écrivains et le pouvoir en Italie à l’époque de la Renaissance, a cura di A. Rochon, iie série, Paris, Univ. de la Sorbonne Nouvelle, 1974, pp. 149-242, ora in Id., L’Accademia e il suo Principe. Cultura e politica a Firenze al tempo di Cosimo I e di Francesco de’ Medici, Manziana, Vecchiarelli, 2006, pp. 123-234.

25. D’ora in poi citerò dall’edizione del Primo Libro dell’opere Burlesche, cit.26. Orvieto-Brestolini, La poesia comico-realistica, cit., p. 201.27. Vd. f. Berni, Rime, a cura di D. Romei, Milano, Mursia, 1985, p. 20.

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della Zanzara, à Messer Benedetto Varchi) finiscono nel secondo libro dell’opere Burlesche, nell’edizione giuntina che segue la prima curata direttamente dal Lasca:28 due Libri che fisseranno il canone della poesia burlesca del Cinquecento (insieme al commento doniano a Burchiello), secondo quel linguaggio cifrato e con doppi sensi equivoci, se non proprio esplicita-mente osceni, utile a rileggere anche i salterelli di Bronzino.

Lo stesso Lasca definirà Bronzino « poeta e pittor […] / di molto pre-gio e di poca ventura »,29 per quanto nella sua cerchia fiorentina, inclusi tutti gli addentellati romani, fosse tutt’altro che sconosciuto come poeta. Di questo Bronzino scrittore, Vasari dirà che « sopra tutto (quanto alla poesia) è maraviglioso nello stile e capitoli berneschi, intantoché non è oggi chi faccia in questo genere di versi meglio, né cose piú bizzarre e capricciose di lui ».30 Ma il fatto è che, sebbene abbiano avuto una fortuna relativamente maggiore e duratura rispetto a quella incontrata dai suoi salterelli31 e sebbene si inseriscano piú facilmente in una tradizione in senso generico bernesca, e quindi bene in vista nella tradizione comica cinquecentesca, poco hanno a che vedere con un discorso sul vero non-sense: paradosso, doppio senso osceno, capovolgimento delle ortodosse gerarchie morali e non; un nonsense solo relativo, insomma. Mentre le pa-role di Vasari fanno intuire quali spunti favoriscono sul versante di una poetica che possiamo definire manierista.

Di bizzarria e capriccio parlava Vasari; e rispetto alle coeve teorizza-

28. Nel Primo libro il Lasca aveva inserito le opere burlesche di M. Francesco Berni, di Messer Gio. Della Casa, del Varchi, del Mauro, di M. Bino, del Molza, del Dolce, e del Firenzuola, creando il canone della poesia burlesca cinquecentesca, tuttora imprescindibile. Nel se-condo libro / Dell’opere Burlesche, di M. /Francesco Berni. / Del Molza, di M. Bino, di M. / Lodo-vico Martelli. / Di Mattio Francesi, dell’Aretino, / et di diversi Autori. / nuovamente posto in Luce, et con / diligenza stampato. / In Fiorenza, mdlv. / Con Privilegio (segnatura Biblioteca Nazio-nale Centrale di Roma: 68 9 G 5), la dedica a Messer Alessandro Ottaviano de’ Medici è firmata da filippo Giunti (8 maggio 1555) e non piú dal Lasca.

29. Sono versi dall’epitaffio in morte del Bronzino (cfr. Baccheschi, L’opera completa del Bronzino, cit., p. 11).

30. Vasari, Vite, cit., p. 1344.31. Vd. Introduzione ad Agnolo Bronzino, Rime in burla, cit., e Introduzione ad Agnolo

di Cosimo (il Bronzino), I salterelli dell’Abbrucia, cit. È pur vero comunque che i salterel-li furono scelti come testi di riferimento da Salviati, “allievo” di Varchi, per il Vocabolario della Crusca.

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zioni classicistiche, come tali possono suonare queste “rime in burla”. In effetti, quei cinque Capitoli inseriti nel secondo libro dell’opere Burlesche, già solo dai titoli richiamano un particolare genere, o sottogenere, tutto cin-quecentesco, che è quello dell’encomio paradossale, squisitamente ma-nieristico.32 Questo, certo, implica una ostentata ascendenza classica, ma in una rilettura burlesco-erasmiana (si rileggano le ascendenze dirette segnalate nella breve Dedica di Erasmo a Tommaso Moro nell’elogio della follia) che capovolge per un momento l’ordine costituito, cui però Bronzino sembra sempre alludere, tanto nei suoi versi ortodossamente petrarcheschi, quanto in quella superficie levigata e apparentemente soddisfatta di sé che è la sua pittura. Ad esempio, alla smaccata citazione del Culex pseudo-virgiliano del Capitolo delle zanzare, dedicato all’amico Varchi, si accosta sin dall’incipit un paradosso al quadrato nella operazio-ne di deminutio, anzi superamento, per quanto burlesco, di quel modello classico:

Varchi, io vo’ sostener con tutti a garache fra le bestie, ch’hanno qualche stocco,il principato tenga la zanzara. ecci qualch’autor, che n’ha già tocco,ma non la conoscendo, ha detto cose, 5

che non si saren dette d’un allocco.33

Una sorta di gioco nel gioco, nell’anticlassicistico rifiuto del modello virgiliano, in nome di un presunto – ma chiaramente paradossale – rea-lismo assoluto; anzi, medico-scientifico si potrebbe dire, nelle ragioni addotte ai vv. 73-87 (« Cercon la prima cosa di destarci / co’ canti lor, perché noi ci copriàno / […] e par che dican: “Poi che costui / vuole del male a far, ch’e’ n’abbia”; non di meno / gl’è mal che giova molto e poco duole, / ch’elle ci traggon certo sangue, pieno / di materiaccia… »), oltre

32. Cfr. anzitutto P. Cherchi, L’encomio paradossale nel Manierismo, in « forum Italicum », ix 1975, pp. 368-84; fino al piú recente vol. di M.C. figorilli, Meglio ignorante che dotto. L’elogio paradossale in prosa nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 2008 (altri rinvii a questo ver-sante, in partic. per la poesia cinquecentesca, Longhi, Lusus, cit., pp. 138-81; Orvieto-Brestolini, La poesia comico-realistica, cit., p. 201).

33. Il corsivo è nostro. Si cita, d’ora in poi, dall’ed. a cura di Petrucci Nardelli.

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che morale (vv. 49-51: « La vorrebbe veder gl’uomini in atto, / travagliar-si, star desti e far faccende, / come colei ch’intende il mondo affatto »).

Il dettato linguistico, poetico, metaforico dei Capitoli non presenta oscurità e slittamenti vistosi (neanche dove il nonsense sembra in effetti in agguato, come nel dialogo “filosofico” del Capitolo in lode del dappoco, tutto rivolto alla gatta Corimbo: « A te mi volgo, a te vo’ favellare, / Co-rimbo mia », vv. 22-23); e anche il sottinteso osceno – altrettanto vistoso nelle due Lodi alla galea, nei Romori e Contro a le campane34 – non gioca su implicazioni sottilmente ambigue, come invece nei salterelli e ancor piú nella tradizione burchiellesca cui questi ultimi guardano piú direttamen-te. Nei Capitoli si tratta di un codice noto, largamente condiviso dalle altre Lodi paradossali che riempiono il primo e il secondo Libro delle ope-re burlesche,35 sebbene senz’altro interessante per i rinvii molteplici al rap-

34. Cfr. il commento della Petrucci (cui resta sostanzialmente fedele la Parker): « la galea » rinvierebbe al membro maschile nella pratica omosessuale (soprattutto ai vv. 127-32); « i rumori » al movimentato rapporto sodomitico e « le campane » agli organi femmi-nili. Ma quest’ultima voce, nel Dizionario storico del lessico erotico italiano, a cura di V. Bog­gione e G. Casalegno, Milano, Tea, 1999 (ne esiste un’edizione piú recente per la Utet, 2000, ma si citerà sempre dall’ed. Tea), indica i testicoli o piú in generale gli organi ma-schili (vd. anche Crimi, L’oscura lingua, cit., p. 270).

35. Oltre alla già citata Dedica del Lasca « a messer Lorenzo Scala », con l’esplicito rife-rimento all’appartenenza all’Accademia degli Humidi, in cui « lo stil burlesco » è di casa, ancora nel Primo Libro dell’opere Burlesche, a p. 2 v si legge: « Ma tu ò Berni dabbene, ò Ber-ni gentile, […] ci fai conoscere la perfezzione della Peste, la bontà della Gelatina, la bel-lezza della Primiera, l’utilità delle Pesche, la dolcezza dell’Anguille, e i segreti e la profon-dità di mill’altre cose belle & buone »). Ai Capitoli di Berni “in lode” si affiancano poco piú di trenta sonetti: tra questi ultimi, appaiono i piú celebri Chiome d’argento fine, irte & attorte; o spirito bizzarro del Pistoia; Cancheri & beccafichi, magri arrosto; Contro à M. Pietro Aretino (« lingua fracida, marcia, senza sale / […] / presuntuoso porco, mostro infame, / […] »). Di Varchi si legge il Capitolo del finocchio / Al Bronzino / Dipintore / (« S’ io dovessi Bronzin, perdere un’occhio / E da fanciulli haver dietro la caccia, / Io vò dir qualche cosa del finoc-chio. // Che non è cibo che tanto mi piaccia, / Ne che piacer piú dovesse ad ogn’uno / Che avesse qualche gusto, ò qualche faccia. // In questo almen non è scrupolo alcuno, / Che non sia buon, perché si vede ogn’ora, / fra frati e specialmente nel digiuno. // O fi-nocchio gentil, chi non t’honora / Chi non ti loda, si può dir che sia / Tutto e per tutto di Bologna fuora. // s’io fossi inquisitor dell’eresia, / Io vorrei pur intender la cagione, / che ti tien impiccato tutta via. // Forse ch’à te s’ha far le fregagione / Come à le fave, e altri semi et frutti; / Tu non dai un disagio alle persone. // Tu fai per luoghi molli, e per li asciutti, / In piani e monti, e sei propio un solazzo / D’uomini, e donne, di vecchi e di putti. // E se non ch’io

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porto poesia/pittura36 (un topos manieristico e tardo-cinquecentesco) e per il dialogo parodiante con il modello tanto dantesco quanto petrar-chesco.37 La Petrucci Nardelli e la Parker insistono quasi esclusivamente sulla valenza erotica dei sottintesi di questi Capitoli; altri ha insistito su quella autobiografica (per es. esplicita nel Capitolo contro a le campane e nei Romori nel dettato a prima vista cronachistico; piú sofisticatamente ma-nieristica la lettura in chiave autobiografica del Nigro dell’orologio del Pon-tormo, a proposito in particolare della rievocazione, o forse sarebbe me-glio dire ricreazione leggendaria, dei rapporti Bronzino/Pontormo, al-lievo e maestro, nella Prigione).38

Direi però che la chiave piú interessante resta quella del gioco lettera-rio, raddoppiato dal rovesciamento ludico di un genere già di per sé “a contraggenio” come quello dell’encomio paradossale. Ma di vero e pro-prio nonsense, soprattutto a livello linguistico, non si può parlare, anche lí dove la Petrucci ha rilevato una concomitanza piú stringente con i salte-relli, e cioè nei due Capitoli Delle scuse, dove peraltro l’analogia mi sembra si fermi genericamente al tema metaletterario e metartistico, presente in altri di questi componimenti. Nel primo dei due Capitoli, per “le scuse” addotte per il suo sacrificare tempo e forze all’arte poetica invece che a quella artistica di cui è ben piú esperto: « Riprendami chi vuol, ch’a tutti cedo / per la mia parte in dir ch’io farei meglio / a non tentar quel che ben far non credo » (vv. 334-36: probabile allusione all’allontanamento

sarei tenuto pazzo, / Sempre come divoto e tuo fedele / Ne porterei da ogni mano un mazzo. // Quel darti sempre dietro fra le mele, / e una usanza che s’ha presa il mondo; / come de fare i zuccherin col mele. // […] // E voi Bronzino, in questa Primavera, / Senza che piú ve ’l dica, ò velo scriva, / fatemene una selva intera, intera. // Io ne voglio in iscorcio e ’n prospettiva, / Dolce, forte, piccin, grande, e mezzano, / Tanto in su quanto la pittura ar-riva. // […] Voi direte Bronzin, ch’io v’infinocchi, / ma non ve ne mostraste mica schivo, / Che non si lascia intendere à gli sciocchi. // […] // Per hora ho disegnato di finire, / Darengli un’altra volta il suo dovere: / Odi le sette, io voglio ir’ à dormire, / Bronzin, senza dir piú che dà buon bere. /// » (le citazioni sono riprodotte fedelmente, con interventi di ammoderna-mento minimi. Il corsivo è nostro).

36. Cfr. in partic. i Capitoli Delle scuse, i (vv. 316-67) e ii (vv. 52-272).37. Cfr. La serenata, vv. 133, 272; Contro a le campane, v. 38; Della cipolla, ii 112-13.38. Cfr. S.S. Nigro, L’orologio di Pontormo. Invenzione di un pittore manierista, Milano, Riz-

zoli, 1998, pp. 42-43, 72-73.

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forzato dall’Accademia fiorentina, dice la Nardelli; ma forse questa im-plicazione non è poi cosí cogente). Nel secondo Capitolo omonimo, per il discorso artistico, moderno, manierista, già da Querelle des Anciens et des Modernes, sulla libertà inventiva rispetto ai canoni classici, con piú di una pointe ironica rivolta contro gli anticlassicisti assoluti e coloro che si ripa-rano dietro “la scusa”, appunto, « che ’l sentiero / omai del Buonarroto sia tropp’erto » (vv. 145-46):

Cosí gl’Antichi si posson da bandamandare, anzi si mandano, e l’onoren’ha delle scuse la schiera onoranda. Chi sa se forse col tempo in favoresaranno certe cose che son oggid’ogni buon uso e d’ogni legge fuore? […]Non fia vago a veder nascer nel senofors’un dí d’una donna, ov’ha le poppe,le gambe? architettando non di meno? E porre il viso loro in su le groppe,forar gli stinchi e turar bocche e occhie i veli in terra e ’n su tener le cioppe? »

e qui potrebbe riferirsi ai celebri nonsense pittorici di artisti come Bosch, visto che ai vv. 199-201 scrive: « E se già si pigliar gl’Oltramontani / tanta licenzia e furon sí lodati, / con tutto ch’oggi ognun ne levi i brani […] ».39 Ma persino nel terzo Capitolo dedicato Alla Cipolla c’è un confronto di-retto tra poesia e pittura, secondo un Leitmotiv culturale primo e tardo-rinascimentale: « Son due sorelle e ciascuna si parte / da un padre mede-simo e un fine / conseguono immitando o in tutt’o im parte. // » (vv. 193-95; si ricordi che lo stesso Bronzino risponde all’inchiesta voluta da Varchi nel 1547 sul primato della pittura o della scultura, parteggiando per la prima).

Ben piú interessanti per il territorio del nonsense – comunque parziale, mai assoluto – i suoi salterelli, in continuità diretta e ineludibile con i Mat-

39. La Petrucci Nardelli suppone invece cautamente un riferimento al passato stile gotico.

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taccini di Annibal Caro. Tra la fine del 1560 e l’inizio dell’anno se guente,40 Bronzino compone infatti una corona di undici sonetti caudati, con il titolo di salterelli dell’Abbrucia sopra i Mattaccini di ser Fedocco.41 forma me-trica e titolo dicono già molto della loro collocazione letteraria: la prima li pone lungo la linea, ricchissima nel Cinquecento, della tradizione bur-chiellesca (si badi, ormai in un territorio di fruizione squisitamente let-teraria di quella tradizione;42 nel caso specifico del Bronzino, o del Caro o del Varchi burleschi, rientrando in un canone, per quanto inverso, ad-dirittura paritetico rispetto a quello petrarchesco). Il riferimento diretto ai Mattaccini nel titolo43 li colloca nel territorio incandescente (è il caso di dirlo, pensando alla condanna al rogo per eresia inflitta a Castelvetro e ricordata dall’Abbrucia del titolo bronziniano) della polemica fra il Caro/Ser fedocco e il Castelvetro, posto qui sul banco degli imputati. Non ripercorrerò tutta la storia di questa disputa, scoppiata a Roma nel 1555 e protrattasi per oltre un lustro,44 rinviando in particolare all’Introduzione di

40. La studiosa retrodata la stesura dei salterelli al 1555-1558, perché « sembrerebbero […] antecedenti all’Apologia del Caro, se non alla stesura del 1555 almeno alla pubblicazione del 1558 » (Rime in burla, cit., p. 418); piú convincente la datazione della Rossi Bellotto (I salterel-li, cit., pp. 45-62), che li colloca dopo la pubblicazione dell’Apologia e forse anche dopo la pubblicazione delle Ragioni di Castelvetro avvenuta nel 1560; a favore di questa ipotesi è soprattutto il riferimento alla condanna per eresia contro Castelvetro, emanata nell’ottobre del 1560 (l’« abbrucia » del titolo sarebbe un’allusione piuttosto chiara al rogo per eresia).

41. La Rossi Bellotto, contrariamente alla Petrucci Nardelli, si schiera contro l’attribu-zione a Bronzino dei tre sonetti dell’Aggiunta di Fra stoppino, presenti in coda ai salterelli nel codice Magliabechiano VII 115 della Biblioteca Nazionale Centrale di firenze, il codice piú importante per il testo dei salterelli; questo peraltro presenta delle glosse di tipo soprattutto linguistico ai testi dei sonetti, che però, anche in questo caso, la Rossi non attribuisce allo stesso Bronzino, come invece fa implicitamente la Petrucci (cfr. I salterelli, cit., pp. 53-62).

42. A. Corsaro, Burchiello attraverso la tradizione a stampa del Cinquecento, in La fantasia fuor de’ confini, cit., p. 129: nel secondo Cinquecento Burchiello diventa insomma un « testo da biblioteca »; o come scrive Zaccarello « un repertorio di immagini che può definirsi manieristico » (Burchiello e i burchielleschi, in Gli “irregolari” nella letteratura, cit., p. 143). Per le stesse ragioni non condivido del tutto il riferimento a una « tradizione popolareggiante e antiletteraria fiorentina » avanzato dalla Rossi Bellotto per i Capitoli berneschi (I salterelli, cit., p. 19).

43. Come I Mattaccini, anche I salterelli rinviano a una forma di danza (ivi, pp. 59-60).44. Ma se includiamo l’Hercolano di Varchi si arriva al 1570, anno della sua pubblicazio-

ne postuma (sebbene sembri che i primi progetti riguardanti quest’opera siano stati addi-

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Jacomuzzi all’opera di Caro (Torino, Utet, 1974, vol. i) e all’edizione critica dei salterelli curata dalla Rossi Bellotto. Ricordo solo che, nata da un commento durissimo, in chiave linguistica e rigorosamente petrar-chesca, di Castelvetro alla Canzone di Caro Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro, in lode dei Valois e dei farnese,45 vede scatenarsi una diatriba anti-Castelvetro in parte seria – si pensi all’Hercolano di Varchi – in parte in forma di invettiva e parodia.

Ne è protagonista Caro, autore di quell’Apologia che, come scrive lo stesso autore per bocca del personaggio di Pasquino,46 include appunto i dieci « pazzi sonetti » dei Mattaccini, dove appaiono già metro, schema ri-mico, nomi, protagonisti e gesta puntualmente ripresi da Bronzino nei salterelli.

Che ci troviamo sul terreno della poesia di eredità burchiellesca, ri-scritta in quella che si chiamerà lingua ionadattica47 e passata per la deter-

rittura precedenti rispetto alla polemica Caro-Castelvetro: cfr. A. Sorella, Introduzione a B. Varchi, Hercolano, ed. crit. a cura dello stesso, pres. di P. Trovato, Pescara, Libreria dell’Università Editrice, 1995, to. i pp. 45, 69. Di diverso avviso Marazzini: cfr. Id., Il secon-do Cinquecento e il seicento, in storia della lingua italiana, a cura di f. Bruni, Bologna, Il Mu-lino, 1993, p. 150 n. 1).

45. Sulle ragioni storico-politiche della diatriba, cfr. S. Lo Re, « Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro ». Retroscena politici di una celebre controversia letteraria, in « Giornale storico della letteratura italiana », clxxxii 2005, fasc. 599 pp. 362-97.

46. Cfr. Caro, opere, cit., vol. ii p. 254. Il personaggio di Pasquino richiama quel gene-re delle pasquinate – ormai ben noto, secondo Marzi, fuori di Roma nella seconda metà del Cinquecento – che, attraverso Caro e non solo, porta alcune movenze linguistiche e formali interessanti per il nostro contesto (Pasquino e dintorni. Testi pasquineschi del Cinque-cento, a cura di A. Marzo, Roma, Salerno Editrice, 1990, p. 17; sui rapporti tra la tradizione burlesca toscana e la Roma delle pasquinate, Id., Contro l’ortodossia: da Pasquino ad Aretino, in Gli “irregolari” nella letteratura, cit., p. 177): oltre al motivo religioso (sebbene solo legato al personaggio di Castelvetro nei salterelli), si vedano ad esempio i doppi sensi osceni, e in particolare quelli legati alla rima in -oni e -one (ad es. in Pasquino cerca il suo naso o in Delli cozzoni, pur se non rilevati da Marzi in quest’ultimo; e il « guardanaso » di Pasquino cerca il suo naso sembra avere la stessa funzione dei « cogl’oni / consolàti di maglia a tutta botta » in salterelli, vii 7-8: cfr. Pasquino e dintorni, cit., pp. 125 sgg.; ma vd. anche Pasquinate romane del Cinquecento, a cura di V. Marucci et alii, 2 voll., Roma, Salerno Editrice, 1983, passim, e il piú recente ex marmore. Pasquini, pasquinisti, pasquinate nell’europa moderna. Atti del Con-vegno di Lecce, 17-19 novembre 2005, a cura di C. Damianaki, P. Procaccioli e A. Ro­mano, Manziana, Vecchiarelli, 2006).

47. Di una « lingua ionadattica » nella poesia cinquecentesca parlava già nel 1903 Re-

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minante esperienza di Berni (e almeno dei Canti carnascialeschi e delle pasquinate), ce lo dicono subito alcuni vistosi elementi strutturali: a li-vello retorico, il contesto corale di parodia e scambio di invettive; a livel-lo metrico, la ripresa dello stesso schema rimico dei sonetti caudati48 del Caro, con un pericoloso – a livello metaforico – scheletro in otta : oni : oni : otta : otta : oni : oni : otta : aia (nel i sonetto in rima ricca con paia) : elli : uche : aia : elli : uche : uche : ollo : ollo (nel i sonetto in rima ricca con collo); e da qui al livello linguistico-semantico il salto è breve, anzi brevissimo. Per chi ha un minimo di familiarità con la tradizione burlesca e carna-scialesca, già quella rima in -oni mette subito in guardia,49 e infatti il son.

nier, in un pionieristico studio sul « linguaggio a doppio senso, in parte soggettivo ed in parte convenzionale, fondamentalmente scherzoso, talora accortamente trovato per ce-lare pensieri e fatti che non piaccia di far intendere a tutti, talaltra condotto sino alla stra-nezza di accozzaglie insensate di vocaboli », tipico di una tradizione fiorentina quattro-cinquecentesca (aggiungendo, secondo un adagio oramai obsoleto, che in questa lingua « si sbizzarrí la scioperataggine accademica fiorentina, facendo poco opportuno sfoggio di acume »). I meccanismi linguistici riportati, principalmente attraverso le parole di Loren-zo Panciatichi, uno dei suoi artefici cinquecenteschi, sono la designazione di oggetti per metafora, il vocabolo sostituito che conserva una reale analogia con quello di partenza solo nella prima sillaba, la deformazione della parola, i nomi di città per suggerire altri concetti (riportando Verona per verità, Piacenza per piacere); tutti meccanismi che si ritrova-no nei salterelli (R. Renier, Cenni sull’antico gergo furbesco nella letteratura italiana, in Miscella-nea di studi critici edita in onore di Arturo Graf, Bergamo, Ist. italiano d’arti grafiche, 1903, pp. 123-42, alle pp. 126 sgg.).

48. Sulla tradizione del sonetto burlesco, cfr. in partic. Longhi, Lusus, cit., capp i 1-4, e P. Orvieto, sulle forme metriche della poesia del non-senso (relativo e assoluto), in « Metrica », i 1978, p. 218. Vi fa riferimento la Rossi Bellotto (I salterelli, cit., p. 62), che evidenzia anche la presenza dello stesso richiamo fonico, con vibrante+vocale, nelle due corone di sonet-ti (ivi, pp. 60-61).

49. Cfr. la famosa Canzone de’ cialdoni di Lorenzo (e cfr. G. ferroni, Il doppio senso ero-tico nei Canti carnascialeschi fiorentini, in « Sigma », xi 1978, pp. 233-50). Sui rapporti Lorenzo/Burchiello, cfr. almeno Crimi, L’oscura lingua, cit., p. 364, e, prima, M. Zaccarello, ‘Buffon non di comun né d’alcun sire’: il Burchiello posseduto da Lorenzo (Laur. Pl. XL, 48), in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico. Atti del Convegno di firenze-Pisa-Siena, 5-8 novembre 1992, Lucca, Pacini, 1996, vol. ii pp. 609-36. In Caro ci sono degli equivoci « spenzoloni » (« e ’n su la stanga spenzoloni »: ii 2); « spuntoni » (« dove le vespe aguzzan gli spuntoni », iii 3); cosí come potrebbero essere equivoci « soffioni » e « maccheroni » (iii 7 e iv 3: lo sospet-ta anche Gorni, cfr. il suo commento a Mattaccini, iv, in Poeti del Cinquecento, i. Poeti lirici, burleschi, cit.), ma anche « mosconi », « occhioni », « stranguglioni » (vi 7), « pifferoni » (vii 3), « culattando i colombi e i perticoni » (vii 6), i « gazzoloni » (viii 2), i « fia sconi » e « panioni »

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vii vede puntualmente realizzarsi questa equivoca aspettativa metrico-linguistica, ai vv. 5-8: « Nuove cose vedrai, se vai a buon’otta, / felice etade, e quasi in processioni / ir gl’alfabeti e gl’enni andar cogl’oni / con-solati di maglia a tutta botta » (dove la « maglia a tutta botta » direi che potrebbe celare un coerente senso osceno, non meno burchiellesco). Certo, la creatività anarchica della originaria poesia “alla burchia” si è riconvertita ormai, nella poesia burlesca del maturo Cinquecento, in un repertorio e in un lessico preordinato e inquadrato, come ha chiarito Zaccarello.50 Ma è proprio questo secondo aspetto che apre le porte ad una lettura piú stratificata dei salterelli, rispetto alle ultime interpretazio-ni, tenendo presente la funzione anti-pedantesca della tradizione burle-sca e insieme l’ausilio filologico-linguistico dell’Hercolano di Varchi per alcune voci popolari e proverbiali citate nei salterelli.

Il commento della Rossi Bellotto chiarisce sonetto per sonetto il con-tenuto e le modalità parodiche della diatriba inizialmente solo linguisti-ca tra Caro e Castelvetro e il ruolo pro-Caro dei salterelli. Non ripeterò i puntuali rinvii a questo discorso avanzati dalla studiosa; ma al suo com-mento e alla sua linea interpretativa provo ad aggiungere alcune compo-nenti che, nella felice ambiguità linguistica e semantica, mi sembra sve-lino altre movenze di eredità burlesca, ridimensionando l’apparente nonsense51 a un linguaggio oscuro con un suo proprio vocabolario e una sua propria tradizione. Riassumo subito queste possibili componenti in quella oscena e della parodia letteraria; e quest’ultima non solo in una chiave petrarchesca, come poteva autorizzare direttamente la polemica

(x 2 e 6); nei salterelli di Bronzino troviamo altrettanto equivoci « braconi », « cicaloni », « fiaccoloni », « berrettoni », « stalloni », « calzoni », « capponi », « stranguglioni », « fiasconi ».

50. sonetti del Burchiello, cit., pp. xxiii-xxiv. Interessante per le consonanze lessicali e anche il contesto – un dirompente effetto nonsense sull’inserimento di nuovi vocaboli nella lingua fiorentina – la frottola della Lingua nova di Sacchetti: cfr. f. Brambilla Age­no, Riboboli trecenteschi (1952), in Ead., studi lessicali, a cura di P. Bongrani, f. Magnani e D. Trolli, Bologna, Clueb, 2000, pp. 32-72: ad es. per le voci « barbaro » (per la lingua), « altri discesi da Nembrotto », « ruggioloni » e « sergozzoni » (vv. 43-48); « dicon sciarpello-ni » (v. 51); « s’egli avvalla / e calla, / la palla / andrà di palo in passo / e ’l sasso / farà fra-casso / insin dentro la berta » (vv. 64-70); « e caricangli la berta » (v. 338).

51. La Nardelli scrive che nei salterelli « le argomentazioni di costui [scil. Bronzino] so-no spesso generiche e sempre di ardua interpretazione » (Rime in burla, cit., p. 418).

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in oggetto – e in particolare il porsi lo stesso Caro, nell’Apologia, a cavallo tra Petrarca e Burchiello –52 quanto anche dantesca, come appare ovvio pensando alla eredità burchiellesca, alla tradizione dell’invettiva e delle tenzoni e allo stesso stile comico53 (in Caro e in Bronzino con forti im-plicazioni anti-bembesche).54

Due chiavi di lettura che rappresentano peraltro un passepartout privi-legiato non solo genericamente al territorio della poesia burlesca del Cin quecento, ma altrettanto al territorio – contiguo o piú spesso parte in tegrante di quello – del commento burlesco e della tenzone parodian-te55 (e si ricordi che il giovanile Commento cariano di ser Agresto da Ficaruo-lo sopra la prima ficata del padre siceo si richiamava sin dalla scelta del nom de plume del Caro all’autorità di Burchiello).56 Soprattutto riguardo alla in-terpretazione oscena, sono ben consapevole di trovarmi sul fronte oppo-sto rispetto alla Rossi, che nell’Introduzione ai salterelli si dichiara con-vinta che questo tipo di lettura, in specie omosessuale, « apra ben poche porte ».57 Ma quella lettura era già implicita nel linguaggio burchiellesco (e non solo) “di maniera”, e in questo è il suo interesse. Anzi, ribalterei l’interpretazione che ne dà la studiosa, che parla di una « doppia chiave di lettura » – e già qui direi che i piani vanno al di là della secca duplicità – dove « da quella piú superficiale risulta un Bronzino burchiellesco e face-to […] », e dall’altra, « un secondo livello di interpretazione testuale, dal

52. Caro, opere, cit., p. 255.53. Sul codice parodico dantesco e petrarchesco già di origine burchiellesca, cfr. D.

Poggiogalli, Dalle acque ai nicchi. Appunti sulla lingua burchiellesca, in « Studi di lessicografia italiana », xx 2003, pp. 65-126. Sulla « tenzone », cfr. C. Giunta, Premesse per un commento alle tenzoni di Burchiello, in La fantasia fuor de’ confini, cit. (ora Id., sulle tenzoni di Burchiello, in Id., Codici. saggi sulla poesia del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 253-78) e Id., Versi a un destinatario. saggio sulla poesia italiana del Medioevo, ivi, id., 2002, e in partic. il Cap. iii, La Tradizione comico-realista, pp. 267-354; Crimi, L’oscura lingua, cit., pp. 197-203.

54. Sul Caro anti-bembesco, cfr. E. Garavelli, « Perché Prisciano non facci ceffo ». ser Agre-sto commentatore, in Cum notibusse et comentaribusse. L’esegesi parodistica e giocosa del Cinquecento. Atti del Convegno di Viterbo, 23-24 novembre 2001, a cura di A. Corsaro e P. Procac­cioli, Manziana, Vecchiarelli, 2002, pp. 57-78; P. Cosentino, L’Accademia delle Virtú: dicerie e cicalate di Annibal Caro e di altri Virtuosi, ivi, pp. 177-92.

55. Cfr. Longhi, Poeti lirici, burleschi, cit., p. 627; Cosentino, L’Accademia delle Virtú, cit.56. Garavelli, Presenze burchiellesche, cit., pp. 233-34.57. I salterelli, cit., p. 18.

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quale emerge, in filigrana, un poeta colto e capace, pur ricorrendo ad espressioni gergali e popolari, di ammiccare maliziosamente al pubblico di accademici suoi pari ».58 A me pare che questo secondo livello sia quel-lo da cui non poteva non partire Bronzino (e che riassorbe in sé il primo), e senza il quale infatti tutta la costruzione dei salterelli resta del tutto priva di senso; mentre quella maniera burchiellesca che la Rossi defini-sce « gergale e popolare », era un’intricata rete allusiva entrata nel canone (o se vogliamo controcanone) cinquecentesco, in cui si inserisce il Bron-zino serio e faceto (Caro Berni Varchi Doni Grazzini: sono i compagni di strada di Bronzino e sono coloro che avevano canonizzato Burchiello in quello che qualcuno si ostina a chiamare « Antirinascimento »,59 ma che è cultura rinascimentale tout court, o se vogliamo proprio aggiungere un aggettivo, diciamo pre-controriformistica, o cripticamente anti-con-troriformistica ormai negli anni Cinquanta e Sessanta).60

A questo fine prenderò in esame piú specificatamente il ii, il iv e il ix componimento dei salterelli, ma aggiungo in forma parentetica uno o due note sul I sonetto, che introducono nel nostro percorso.61 La prima riguarda il nome di Bertuccia già al v. 3 di questo primo sonetto. La Ros-si Bellotto ricorda che « mona Berta » era evocata anche nel primo sonet-to dei Mattaccini; ma « Berta » è nome burlesco, lungo la linea burchielle-sca e quattrocentesca, fino alla famosa Berta dell’orlandino del folengo, di ascendenza anzitutto dantesca, come spesso in questa tradizione,62 e

58. Ivi, p. 95.59. È la Buggè del saggio bronziniano prima citato che adotta la definizione di « Anti-

rinascimento » per la “maniera” di Bronzino.60. E basti pensare al successivo ripudio delle sue rime burlesche da parte di Della

Casa per avere un referente chiaro di questo drammatico cambiamento culturale.61. Riproduco qui di seguito il testo del son. i: « Mentre che ’l Gufo ruguma, e la frotta

/ gli cresce intorno degli scioperoni, / Bertuccia, toi de’ fogli e de’ carboni, / fammel da’ piedi infin alla cicotta. // Questa mi par la Brutta inculincotta. / Dov’è la pelle? O questi drappelloni? / Ecco il giudice, o Ribi, ecco i braconi; / Maso ecco, Matteuzzo, e l’asse rotta. // Tu l’hai schizzato? O buono! Or, perch’e’ paia / piú desso, to ’l colore e de’ pen-nelli; / finiscil tosto pria ch’altri il dibruche, // ch’i corbi, e le cornacchie, e ’l Trentapaia / ci son volti e voglionlo in brandelli. / Gli sta ben troppo! Or vo’ che si conduche // un che me lo riduche / in istampa, e mandarne piú d’un collo / pel mondo, e ch’e’ si venda a fiaccacollo. /// » (salterelli, cit., p. 73).

62. Vd. Par., xiii 139: « Non creda donna Berta e ser Martino / […] ». Per la tradizione

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che in Bronzino, come già nei Mattaccini del Caro, annuncia il contenuto da « berta », da burla appunto, dei sonetti (ribadito nel son. viii 12: « ora è converso il tutto in berta e ’n baia »). Inoltre si colloca in una tradizione ben precisa, cui concorre il terzo richiamo semantico del nome, e cioè quello inerente a un bestiario perfettamente integrato nella tradizione burlesca e nel gioco letterario di Caro.63 Infatti, la bertuccia accompagna nel primo sonetto di Bronzino quel Gufo/Castelvetro, protagonista di tutta la polemica dell’Apologia, in versi e in prosa, con Il sogno di ser Fedocco incentrato sullo stesso Gufo, cui risponderà Castelvetro scegliendo co-me suo emblema invece la civetta, nel senso di ‘uomo saggio’, e ponen-dola sul frontespizio delle sue Ragioni, risposta all’Apologia cariana. Ma oltre che nel prosastico sogno, anche nei sonetti dei Mattaccini Caro ap-profittava del gioco di tradizione burlesca sul nome di « gufo » e di altri uccelli notturni, con allusione a persona sciocca (lo chiama di nuovo « gufo » nella Corona, vi 9-11, e « Barbagianni » nei Mattaccini, iii 16), risa-lente già a Burchiello, allo Za e a Pulci.64

Il secondo punto interessante, in questo primo sonetto, riguarda il doppio gioco di specchi tra letteratura e pittura in Bronzino, dal mo-mento che è alla Bertuccia che la voce poetante chiede di fare un ritratto del Gufo, « pria ch’altri il dibruche »: e sul senso, anzi i sensi ambigui di

epica e pulciana del nome, cfr. Brambilla Ageno, studi lessicali, cit., p. 396; sull’equivoco « monna » associato a « scimmia » e « Berta », cfr. anche G. folena, Il linguaggio del caos. stu-di sul plurilinguismo rinascimentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 87 n. 36 (e p. 47 per « berta » con significato di « gazza », con attestazioni quattrocentesche milanesi-fiorenti-ne), per « berta » e « berteggiare », vd. anche l’Hercolano (op. cit., to. ii p. 566).

63. Zaccarello, I sonetti del Burchiello, cit., pp. 273-74, vv. 10-11: l’allusione è a questo animale « lascivo » e forse ai « cinedi », per postura e natiche colorate (ivi, p. 274). In Bur-chiello o la bertuccia era in cxcvi in un chiaro contesto osceno (con tafani, meloni e gran-chiolini), e anche « in zoccoli » nel son. vi, v. 9 (è lo stesso sonetto dell’« imbottar nebbia »), come pure nel Pulci (Morgante, viii 74 8).

64. Ivi, p. 12 (per la voce « fatappio »), p. 13 (per la voce « civetta »). Un possibile senso osceno di questo animale è suggerito, nell’Hercolano di Varchi, da una glossa sulla civetta, uccello spesso assimilato al gufo nella tradizione burlesca (vd. pure GDLI, alla voce « gu-fo », nel significato di « Persona sciocca », le citazioni da Pulci e Cammelli): alla voce « ci-vettare » si precisa che è sinonimo di « uccellare », ovvero ‘prendere in giro’, ed è usato « in quel proprio significato che i Greci dicono […] ‘fare alla civetta, cavando hora il capo della finestra, e hora ritirandolo dentro’ » (Varchi, Hercolano, cit., to. ii p. 566).

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quel « dibruche » piú di un sospetto di oscenità viene fuori,65 legittimato peraltro dalle allusioni equivoche della voce « bertuccia »66 nel lessico post-burchiellesco, e dal contiguo riferimento ai « pennelli », oggetto di uno dei Capitoli piú noti di Bronzino, a evidente doppia chiave, artistica e sessuale.

Sono però il ii e il iv sonetto a essere considerati dalla Rossi Bellotto i piú vicini a un linguaggio oscuro, ai limiti del nonsenso burchiellesco. Tuttavia, in questi sonetti, proprio come in quell’apparente tradizione di nonsense, non uno, ma piú sensi riposti vengono fuori, man mano che si scava nei meandri del loro linguaggio e del contesto in cui si muovono.

65. Scrive la Rossi Bellotto che l’annotatore anonimo del Magl. VII 115 spiega che « dibrucare e sbrucare diciamo la selbastrella e il cavolo, quando non si lascia loro altro che le costole o il nervo », e lei stessa aggiunge che ancora in Toscana significa « mondare una frasca facendovi scorrere la mano semichiusa » (salterelli, cit., p. 89); lo stesso rinvio fatto dalla Rossi ai versi dei Mattaccini non contraddice, anzi, rafforza il possibile sottinteso osceno (cfr. ii 16, ma anche vi 14). Tanto piú che Bronzino gira ripetutamente intorno a questa voce verbale nei versi equivoci del i e ii sonetto: (cfr. il « dibruche » di i 11 e lo « sbruche » di ii 11, cui corrispondono semanticamente e metaforicamente in ii 9 la voce verbale « sprunate » e nei Mattaccini, vi 14 il sintagma « li suoi lauri imbruche » (nel GDLI, alla voce « dibrucare » si legge: « Letter. Liberare un albero (o un bosco) dai polloni inutili e dannosi »).

66. Per le implicazioni oscene della « bertuccia » nella poesia burlesca, oltre ai I sonetti del Burchiello, cfr. Brambilla Ageno, studi lessicali, cit., pp. 183-84 (« berta, come incrocio, a sua volta, del nome proprio Berta col gergale berta ‘tasca, bisaccia’, che continua il latino averta, viene a significare ‘genitale muliebre’, ed è anch’esso parola gergale ») e la voce corrispondente nel DeI e nel Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit. Riguardo al primo sonetto dei salterelli, si veda in quest’ultimo Dizionario anche alla voce « gufo » (con citazioni da Burchiello, e dai nuovi canti carnascialeschi con senso osceno); ai capitoli 1.7.4. « Tessitura e confezioni degli abiti » e 2.1.4. « filatura, tessitura e abbigliamento » per l’am-bito semantico connesso al vestiario, ricorrente nei sonetti seguenti di Bronzino (con le voci « drappelloni », « braconi »); e alla voce « schizzare » (vd. anche a p. 237, alla voce « fru-gatoio », per l’uso della doppia zz, come in schizzare, in allusioni oscene: « Qualche folte per sollazze / scazzatoie su lanzi rizze, / e spinzende queste mazze / sue materie fuori schizze: / quando drente, tutte guizze / queste sode frugatoie: / perché nostre scazzatoie / star galante – scutte vaie! » (Giuggiola, Canzona di lanzi che fanno schizzatoi, 26, in Canti carnascialeschi, 24); seguono due altre citazioni dall’Aretino in prosa delle sei giornate. Per il possibile sottinteso equivoco in presenza della doppia zz, si leggano anche i vv. 16-17 del son. viii dei salterelli (e per il senso osceno dello « schizzare », cfr. f. Sacchetti, Il Pataffio, ed. critica a cura di f. Della Corte, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2005, p. 156).

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Qui il primo livello di interpretazione è chiaramente legato alla questio-ne linguistica al centro della disputa Caro/Castelvetro, riassunta nei ver-si finali del secondo sonetto,67 nell’auspicio da parte del Bronzino a che il fiorentino artificioso, letterario e iperpetrarchesco sostenuto da Ca-stelvetro faccia invece un bagno rigeneratore nelle taverne fiorentine, se condo un adagio variamente modulato anche dal Caro dell’Apologia e dal Varchi dell’Hercolano68 (« e ’n qualche Marmeruche / d’un catelano a buche / vestite il parlar tosco »). Ma già la doppia metafora iniziale della « bi scotta / lama »69 di Caro/Ser fedocco e della « trivella » del Gufo/Ca-stel vetro che va « strasciconi » si apre subito a una chiave di lettura oscena,70 confermata dai versi seguenti: con la « minchiatarra » che, nella frequente ambiguità paretimologica della tradizione burlesca, include il significato osceno (la Rossi qui si spinge solo ad ammettere « una punta maliziosa e

67. Riproduco qui di seguito il testo del son. ii: « La targa del fedocco e la biscotta / lama, provata a tutti i paragoni, / fann’andar la trivella strasciconi, / né piú si ficca, anzi sdrucciola e smotta. // E poi che minchiatarra e bergamotta / ci arreca il Bratti ciarpa, i mascalzoni / nostri aprir doverranno a’ cicaloni / e metter dentro gongole e pagnotta. // O sprunate mai piú questa callaia, / e passisi alle verze e a’ limonchielli, / e ogn’erba e ogn’albero si sbruche. // Pongasi fine a questa ciangolaia; / e cavinsi le stanghe e’ chiavi-stelli, / o s’ardan gl’usci; e ‘n qualche Marmeruche // d’un catelano a buche / vestite il par lar tosco, e por si vuollo / con quattro filze di lingue a armacollo. /// » (salterelli, cit., p. 74).

68. Cfr. Caro, opere, cit., pp. 212-13, e Varchi, Hercolano, cit., to. ii p. 888 (e le riflessio-ni sulla « esuberante varietà morfologica del fiorentino », nell’Introduzione di A. Sorella, ivi, to. i pp. 120-21). Serianni si è soffermato sulla « consuetudine col Varchi » da cui il Caro dell’epistolario « dovette trarre quel senso della lingua viva, all’occorrenza speziata di forme strettamente idiomatiche e di immagini triviali » (L. Serianni, La lingua letteraria. La prosa, in storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, vol. i. I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi, 1993, p. 500), mentre Marazzini sottolinea piuttosto l’impor-tanza per Varchi del fiorentino parlato colto (Il secondo Cinquecento, cit., p. 153).

69. L’equivoco linguistico si fonderebbe ovviamente sulla polisemia di quella prima voce (cfr. Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit.: « Inzuppare il biscotto »: per il rinvio osceno cfr. p. ix, con ulteriori rinvii al Molza della Ficheide e al Caro del ser Agresto per la sola voce « biscotto ») e insieme sull’allusività della seconda.

70. Come la bertuccia e in parte lo stesso Gufo, anche il simbolo del « trespolo », pro-prio dell’emblema della città di Modena, ha un doppio senso osceno nella tradizione burchiellesca (cfr. sonetti del Burchiello, cit., p. 32), su cui sembrano giocare sia Caro nei Mattaccini (con la « gruccia » di i 5; anche con la « trivella » del sogno di ser Fedocco), sia Bron-zino nei salterelli (con la « trivella » di ii 3 e la « trivellotta » di iv 1).

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l’allusione, anche, alla minchionate »;71 ma predilige il senso di « giocatori di tarocchi », anche per il sonetto di Pulci in cui già appariva l’espressione « minchiatarr’ Napoletani »).72 Eppure il rinvio alla tradizione burchielle-sca è esplicito, per la Rossi Bellotto, nella citazione del sintagma del v. 8, « gongole e pagnotta »; e dunque quasi certamente anche il doppio senso osceno della « biscotta lama » e della « trivella », come pure dei « cicaloni », delle « verze », delle « stanghe » e dei « chiavistelli », per non parlare delle « buche », era facilmente fruibile per i lettori contemporanei del Bronzi-no, in quanto parte viva della tradizione burchiellesca.73

D’altronde, accanto al lessico con precise corrispondenze oscene, è il rinvio figurato e il doppio senso di certe voci e paretimologie ad avallare questa ipotesi. Si pensi ai vv. 5-8 del secondo sonetto, dove, secondo un’allusività semantica comune al territorio burlesco, i « mascalzoni » a fine verso richiamano i « calzoni », che « aprir doverranno a’ cicaloni / e metter dentro gongole e pagnotte ».74 In questo componimento, il piano

71. salterelli, cit., p. 93. Il senso è confermato dalla ripresa del son. ix 17: « Vostra Min-chioneria ». Per la voce « minchia », con esempi da Matteo franco e Aretino, cfr. Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit.

72. Interessante a questo proposito il confronto con il son. xxxi di Burchiello, per il contesto linguistico in cui è inserita la voce (si pensi anche al ser Agresto di Caro): « poi gli condisci con uno scrignuto / e per sal vi trita entro votacessi, / e per agresto minchiatar fra essi / […] »; il votacessi richiama quel « castellan della rocca de’ carrelli », ovvero castellano della rocca delle latrine, come verrà definito Castelvetro da Bronzino nel salt. v 10, e l’invito fi-nale a Castelvetro nel salt. x 16-17, a prendere « l’accollo / la Civillara e ’l chiasso Buongi-gollo », ovvero, come riporta in nota la Rossi Bellotto, svuotare i piú grandi chiassi del ducato in cui si scaricano gli escrementi (per il « minchiatar », nelle note a Burchiello, Zac-carello riporta invece la definizione del GDLI « cialtroni, buoni a nulla »: ed. cit., p. 43).

73. Si veda per tutte queste voci il commento ai testi di Burchiello a cura di Zaccarello (sonetti del Burchiello, cit.) e con la dovuta cautela – a volte carente, in questo studio – J. Toscan, Le Carnaval du langage. Le léxique érotique des poètes de l’équivoque de Burchiello à Marino, 4 voll., Lille, Presses Univ. de Lille, iii, 1981, soprattutto alle voci chiavistelli, buche e uccelli notturni.

74. Peraltro il son. v espliciterà questo rinvio: cfr. vv. 5-8 (« E s’un mi presta e poi me le rimbrotta, / tengasi le sue brache e’ suoi calzoni, / ch’i’ vo’ piú presto al palio ir zoppiconi, / che sul dosso d’un barbero che trotta »), con tutte le possibili allusioni ad atti di sodomia passiva e attiva (per « l’andare al palio », cfr. Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit.). A proposito del senso osceno, cfr. qui iii 15-17 (« Ben vo’, pria che si sdruche / la cornamusa, ognun le dia lo ’ngollo, / ma che s’accordi al nostro torlorollo ») con Burchiello, lxviii 9-11

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metaforico sessuale coerentemente è battuto e ribattuto in tutte le quar-tine e terzine, piú compattamente, mi sembra, che in qualsiasi altro so-netto della corona dei salterelli (e persino il rinvio alla taverna delle Mar-meruche strizza l’occhio al linguaggio burlesco, includendo il frequente ricorso di questo a nomi di taverne e luoghi fiorentini piú o meno postri-bolari, con allusioni, in parte rimaste oscure, implicite in quei nomi. Qui, avverte la stessa Rossi Bellotto, il significato letterale delle « marmeru-che » indica la rucola e l’arbusto spinoso della « marruca », riportando allo « sprunare » e « sbrucare » di « ogn’erba e ogn’albero » dei versi precedenti, con la possibile accezione equivoca, prima ricordata per il primo so-netto).75

Se passiamo poi al iv sonetto,76 considerato dalla studiosa « il piú bur-chiellesco », non si può dimenticare che l’immagine della Torre di Nem-brot, prima che dal Varchi e dal Caro, in un contesto per loro evidente-mente legato al motivo linguistico di questa querelle, era stata portata in auge dal Burchiello del son. lx (Limatura di corna di lumaca, v. 9; e nella tradizione preburchiellesca, già dalla celebre frottola di Sacchetti sulla Lin-

(« Portando a battezzare un lor fanciullo, / gli suonan lo stento colla ribeca / e colla cor-namusa il tullurullo »; e il verso dopo contiene un riferimento al « battezzare alla greca », con rinvio allusivo alla sodomia. Una ribeca, con rinvio osceno, già nel Sacchetti del Pataf-fio: cfr. la voce corrispondente nel Glossario, cit.). Per i significati osceni della « cornamusa » (con interessante menzione della raffigurazione pittorica fattane nell’Inferno musicale di H. Bosch: p. 253) e delle danze « per lo piú vivaci e rumorose » (p. 161), come gli stessi « salta-relli », si vedano le voci corrispondenti in Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit. (per i rapporti Bosch/letteratura e arte nonsensical, vd. anche G. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, Torino, Bollati Boringhieri, 20073, in partic. il cap. 17, e Crimi, L’oscura lingua, cit., passim).

75. Ma anche la voce « callaia » qui richiamata (v. 9: « O sprunate mai piú questa calla-ia ») è presente nel Dizionario storico del lessico erotico italiano per il sottinteso sessuale (peral-tro con un rinvio al Pulci della Beca).

76. Riproduco qui di seguito il testo del son. iv: « Dov’arrenò la fusta trivellotta, / ar-mata di chimere e rovescioni, / e quanti furno a peso i verrettoni / che percosson la fab-brica nebrotta, // e se un ranocchio, a dir “guotte” e non “guotta”, / sarebbe censurato da’ rabboni, / e quanto buio, andando brancoloni, /s’imbottere’ con la vostra barlotta, // vorrei sapere, e se la succiolaia / dal Pontevecchio, stampando cartelli, / vuol far tropp’ar-ti, e a questo che l’induche, // e quanto sia ‘l pescar d’una ragnaia / da grilli a braccia quadre e martinelli / tirato, e se tra’ granchi e le pesciuche // di loliche e ferruche / può farsi un ponte, e di lolla, che ‘n collo / tenga la piena che sí mal conciollo. /// » (salterelli, cit., p. 76).

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gua nova, mirabilmente studiata dalla Brambilla Ageno);77 cosí come il gracidare del ranocchio – col gioco linguistico anti-Castelvetro sulle desi-nenze finali, in « guotte/guotta » – era nel son. cxlix di Burchiello, con « i ranocchi […] nel fangaccio » che « dicono il mattino avaccio avaccio ».78 Mentre « il buio [che], andando brancoloni, / s’imbottere’ con la vostra barlotta » (vv. 8-9), riporta alla memoria quell’espressione quanto mai bur-chiellesca dell’« imbottar nebbia », già usata nel primo sonetto dei Mattac-cini (v. 4: « ove il Gufo ancor buio e nebbia imbotta »), dove in Btonzino è forse incluso il doppio senso paretimologico del « barlotta/Barletta », in Burchiello richiamante il campo semantico del barile e quindi del bere (ma l’« imbottare » associato piú realisticamente ai piaceri della carne, con valenza anche sessuale, era già nello Za della Buca di Montemorello e ancor piú nel franco del sonetto non so come non t’hai l’aria corrotta, vv. 3-4: « la casa tua di soddoma coverta, / dove sempr’olio si trangugia e ’mbotta »).79

Per non parlare della « succiolaia / dal Pontevecchio ». La Rossi annota a questo proposito che « le argomentazioni del critico modenese sono paragonabili alle castagne bollite vendute sul Pontevecchio ». Ma non si può dimenticare che in un sonetto (ix 9-11) Burchiello scriveva « fichi

77. Cfr. Brambilla Ageno, studi lessicali, cit., pp. 32-72.78. Per la polemica anti-Castelvetro del « grotte / grotta », vd. Rossi Bellotto, I salte-

relli, cit. 100 n. 5. Per il sottinteso osceno del « ranocchio », cfr. alla voce corrispondente nel Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit. Nello stesso son. cxlix di Burchiello su citato si trova l’immagine del « vescovo [che] tien ritto el pasturale » (per l’allusione oscena, vd. il commento di Zaccarello), che può aiutare a leggere il senso equivoco del son. viii dei salterelli, vv. 10-11: « e stavan co’ mantelli / tesi a ’spettar le grazie modenuche ». Infine, il ranocchio che dice « guotte » e non « guotta » al v. 5 del quarto salterello potrebbe anche essersi ricordato, nel senso propriamente uditivo, del son. ix di Burchiello, per quel « Voi non sapete porger gli utti » (v. 14), che peraltro rinviava proprio all’ambito sonoro (Zacca-rello spiega in nota che « porger gli utti » equivale a « dare il la, la nota d’attacco »).

79. Per il significato osceno di « botte », specie con citazioni da Aretino, e per i rinvii in questo senso di « barile » e « bariletto », cfr. Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit. (con un rinvio all’uso realistico della voce « imbottare » nel simposio di Lorenzo: capp. vi 116 e vii 26). Per l’ambiguità sul « vin di Barletta »; cfr. M. Zaccarello, schede esegetiche per l’enig-ma di Burchiello, in La fantasia fuor de’ confini, cit., p. 16; per una lettura equivoca dell’« imbot-tar nebbia » di Burchiello, cfr. Toscan, Le Carnaval du langage, cit., vol. iii p. 1600. Varchi, nell’Hercolano, riporta anche la fraseologia toscana inerente al « barlotto » (cfr. Glossario all’Hercolano, cit., to. i p. 292).

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aquilini e succiole ghiacciuole / e ’l sol Lion co’ chiavistelli asciutti / pi-gliavan tordi colle vangaiole », dove ricorreva una delle antitesi piú note del lessico burchiellesco (la castagna lessa80 – peraltro con possibile rin-vio osceno del « succiare » etimologico nelle « succiole » – di contro ai chiavistelli asciutti: l’atto sessuale consueto e quello sodomitico), insie-me a un contesto con piú analogie con quello di Bronzino. Qui infatti, nei versi seguenti del iv sonetto, si trova un adynaton nonsense, in perfetto stile Burchiello: « e quanto sia ’l pescar d’una ragnaia / da grilli a braccia quadre e martinelli / tirato, e se tra’ granchi e le pesciuche / di loliche e verruche / può farsi un ponte, e di lolla, che ’n collo / tenga la piena che sí mal conciollo » (si rileggano i versi del son. ix di Burchiello prima cita-to, anche per il rinvio al « sol Lion co’ chiavistelli asciutti » e al pigliare « tordi colle vangaiole »). Il riferimento principale è all’assurdità dell’ope-razione del Castelvetro, ancora simile al significato del burchiellesco – e già cariano – « imbottar nebbia »81 (oltre a esserci il rinvio ai burchielle-schi « chiavistelli », di cui abbiamo già detto, e ai « granchi » e « avannotti » con possibile traslato osceno).82 Comunque, certo è che « la succiolaia » che « vuol far tropp’arti » lascia ampio spazio alle ipotesi piú ardite sulle arti da lei esercitate a Pontevecchio.

E arriviamo al ix sonetto83 – « forse il meno ermetico della collana »,

80. Per le « castagne lesse » e il rinvio osceno del binomio lesso/secco, cfr. sonetti del Burchiello, cit., p. 15; vd. anche le voci « castagna » e « succiole » in Toscan, Le Carnaval du langage, cit., vol. ii p. 831; nel vol. iii pp. 1215-19, viene discusso il significato osceno del « succiare » in rapporto alla voce « soffiare » (ma, nonostante i dubbi di Toscan, la citazione da lui stesso fatta dalla Canzone delle forese di Lorenzo – « Apri ben la bocca e succia! » – porta verso il sottinteso osceno).

81. Cfr. sonetti del Burchiello, cit., pp. 14-15.82. Cfr. per « granchio », sonetti del Burchiello, cit., pp. 5, 37, 67, 152.83. Riproduco qui di seguito il testo del son. ix: « Già nove volte in man la scurïotta /

s’è presa, o arcifànfan de’ frusoni, / per farvi andar girando a balzelloni / come palèo che barbera e pirlotta. // Dovete aver sentito una manotta / gagliarda intorno al capo, di tempioni / fornirvi, di cazzotti e rugioloni, / né per molto aggravar mai perder dotta. // Imparerete a frugar la vespaia, / e destare il Giordan che vi sbudelli, / e sverre al lion bravo le peluche. // Or nuova tela, e con nuova telaia, / d’altra trama e d’altr’opra in su’ cannelli / si mette in punto a far toghe e vestuche, // acciò s’inconte e ’nduche / di Giron, di Grosseto e Battifollo / Vostra Minchioneria, che pur dirollo. /// » (I salterelli, cit., p. 81).

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annota prudentemente la Rossi Bellotto –84 dopo il vii, con i suoi richia-mi diretti (anche stilistici) al Petrarca al centro della polemica letteraria, e l’viii, in cui vengono evocate le tre Corone, nei toponimi « Certaldo Ancisa e ’l ponte alla Carraia », come sempre anche con possibili sottin-tesi osceni (« Certaldo, Ancisa e ’l ponte alla Carraia / facean già trebbio, e stavan co’ mantelli / tesi a ’spettar le grazie modenuche »: la Rossi non accenna affatto a quegli strani mantelli tesi pronti all’assalto del modene-se, né al sottinteso osceno di tradizione burchiellesca dell’« Ancisa »).85 A me sembra che la parodia dantesca chiuda questo trittico con stilemi e richiami impliciti a quel nume tutelare non solo della lingua eletta tra i modelli piú alti tanto dal Caro quanto dallo stesso Bronzino (e poi dal Varchi dell’Hercolano), ma di tutta la tradizione burchiellesca. Il primo richiamo dantesco, nel son. ix, è già forse in quel « nove » che contraddi-stingue la posizione del componimento all’interno del ciclo dei salterel-li, e insieme, nell’esordio tutto parodisticamente dantesco, non solo nella numerologia sacra: « Già nove volte… » (un Dante cui si aggiunge, nel- l’« arcifànfan de’ frusoni » del v. 2, un richiamo cariano-rabelaisiano).86 A

84. Ivi, p. 111.85. Per l’allusione oscena dell’« Ancisa », sonetti del Burchiello, cit., p. 5. A rafforzare il

sottinteso osceno, quel « mattufol » che si vede « sur un zollo / rizzar » e « alla guazza pol-lo » dei versi finali del son. viii (cfr. le voci « rizzare » e « guazza » in Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit.; per il possibile significato equivoco del « mattufol », cfr. Toscan, Le Carnaval du langage, cit., vol. ii p. 1029). La polisemia del mantello, che indica anche una parte dell’armatura (cfr. G. Crimi, Ispirazione proverbiale, polisemia e lessico criptico nei sonetti di Burchiello, in studi di italianistica per Maria Teresa Acquaro Graziosi, a cura di M. Savini, Roma, Aracne, 2002, p. 86), coerente con il linguaggio bellicoso della disputa in oggetto, non esclude, come sempre in questo ambito, il significato da me richiamato.

86. Riguardo al doppio richiamo all’« arcifànfan delle lingue » usato da Caro per apo-strofare Castelvetro nella « Rimenata del buratto » dell’Apologia (ma anche il « barbassoro delle fanfaluche » dei Mattaccini, i 14) e l’origine prima della voce, che, come già suggeriva Jacomuzzi (Caro, opere, cit., p. 209), potrebbe essere direttamente rabelaisiana: vd. « Les Fanfrelouches antidotées » (« le fanfaluche antidotiche ») che aprono il cap. ii del libro di Gar-gantua, in pieno stile nonsense (f. Rabelais, Gargantua, a cura di P. Michel, Paris, Galli-mard, 1969, p. 69; la nota esplicativa precisa: « Les Fanfrelouches sont une énigme, genre littérai-re à la mode au XVIe s. », ivi, p. 68; si tenga però anche presente che l’antico francese fanfalu-ce derivava dal tardo latino fanfaluca: cfr. Dictionnaire de la langue française par P. Robert, Paris, Snl, 1979, p. 758). Negli anni Sessanta, Rabelais è senz’altro noto ai letterati italiani ed è dunque da valutare meglio il rapporto di questo contesto letterario con il Gargantua e

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questa parodia dantesca incipitaria si affianca quella, direi palese e su piú piani, dei vv. 9-11, dove giustamente la Rossi azzarda un riferimento all’Hercolano che stava elaborando Varchi sull’onda della polemica Caro/Castelvetro: « Or nuova tela, e con nuova telaia, / d’altra trama e d’al-tr’opra in su’ cannelli / si mette in punto a far toghe e vestuche », con eco di Par., xxv 7-9 (« con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, ed in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello »). Una parodia su piú piani, perché, pur con ben altri significati, Bronzino sembra riutiliz-zare anche la stessa metafora “tessile” (giocando sull’aequivocatio del « vel-lo » dantesco, e sul « cappello » preso nel significato letterale), che allo stesso tempo si aggancia all’irriverente critica di Caro, nell’Apologia, alla cantonata di Castelvetro riguardo al sintagma « panno a vergato ».87 E la parodia dantesca mi sembra ulteriormente confermata dall’aequivocatio sulla fede « che fa conte / l’anime a Dio » (Par., xxv 10-11), con quel « conte » isolato a fine verso che rimbalza nella parodia del verso seguente di Bronzino, « acciò s’inconte e ’nduche », dove il parasintetico inconte è per di piú neoformazione di stampo linguistico, appunto, squisitamente dante-sco.88 Dunque, probabile parodizzazione in chiave dantesca, dopo quel-

Pantagruele: per es. anche per l’uso delle false etimologie, per gli stessi versi nonsense delle Fanfaluche antidotiche, per il sottinteso burlesco dei nomi inventati, ecc. In Rabelais c’è anche un « avalleurs de frimars » (ivi, p. 185; « ruminatori di nebbia », Id., Gargantua e Panta-gruele, a cura di M. Bonfantini, Torino, Einaudi, 1993, p. 65), contiguo all’« imbottar neb-bia » di eredità burchiellesca. Resta però il divario di fondo tra la poetica e la filosofia di vita libertaria, erasmiana e piú “pulciano-folenghiana” di Rabelais e la temperie italiana degli anni Cinquanta e Sessanta in cui agiscono Caro e Bronzino, trovandosi sul fronte opposto al perseguitato ed “eretico” Castelvetro (sebbene la loro ortodossia cattolica sia tutt’altro che inattaccabile). Aggiungo che la voce rabelaisiana « fanfaluche » – in Aretino « fanfalughe » – si ritrova nel Varchi dell’Hercolano (ed. cit., to. i p. 622) e in un testo assai interessante proprio sui « ghiribizzi » di chi « pazzeggia col poetizzare », e cioè una lettera di Aretino del 1540; e ancora in Doni, che nel 1550 usa la voce « fanfalucole » per definire le poesie di Burchiello (cfr. La fantasia fuor de’ confini, cit., pp. 141, 174), oltre che nel sottoti-tolo della sua Zucca. Per un accostamento Aretino/Rabelais, vd. anche f. Guardiani, Aretino e Rabelais, in Pietro Aretino nel cinquecentenario, cit., to. ii pp. 1009-25.

87. Cfr. Caro, opere, cit., pp. 212-13; ne parla anche Varchi nell’Hercolano (ed. cit., to. ii pp. 813-14).

88. Oltre ad esserci, in quei versi danteschi, il « Mira, mira » (Par., xxv 17), che sarà piú volta rimodulato dalla poesia burlesca del Cinquecento, da Berni in poi (cfr. Crimi, L’oscu-ra lingua, cit., pp. 392-93).

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la petrarchesca del son. vii,89 e ancora riuso del doppiofondo osceno del-la tradizione burlesca: a cominciare dalla prima quartina, con la « scurïot-ta », ovvero sferza, « in man […] presa » dall’« arcifànfan de’ frusoni », ov-vero dei passeri,90 insieme al possibile sottinteso osceno del seguente « girando a balzelloni / come palèo che barbera e pirlotta »,91 su una va-riazione delle stesse immagini e voci equivoche del son. v 6-8 (« tengasi le sue brache e’ suoi calzoni, / ch’i’ vo’ piú presto al palio ir zoppiconi, / che sul dosso d’un barbero che trotta »). Con qualche ulteriore ombra equivoca « sulla manotta / gagliarda intorno al capo » dei vv. 5-692 e qual-che dubbio su una possibile allusività oscena anche di quei toponimi fi-nali, « di Giron, di Grosseto e Battifollo », tra le pieghe del doppio senso non osceno delle tre voci, equivalenti rispettivamente a « matto idiota e folle », come segnalato dalla Rossi Bellotto.93

Gli esempi di questo linguaggio burlesco e cifrato, ormai “di manie-ra”, si moltiplicano se si prendono in considerazione anche gli altri so-netti. Ma certo è che questa contaminazione tra serio e faceto che attra-versa l’intera produzione poetica di Bronzino va inserita nel nobile ter-

89. « […] / dove saran gli strigoli e gl’arnioni / digrassati al Petrarca otta per otta? // Nuove cose vedrai, se vai a buon’otta, / felice etade […] », vii 3-6. Ricordo che peraltro nel Cinquecento il parallelo letterario Dante-Petrarca si rispecchiava spesso nel parallelo artistico Michelangelo-Raffaello (cfr. Pinelli, La maniera, cit., p. 138).

90. Cfr. alla voce « passero » nel Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit.91. Qui il commento autografo del codice Magliabechiano è di grande aiuto, con il

rinvio alla commedia veneta rinascimentale: « barberare è della trottola che, mentre gira, quando ha il ferro torto, gira balzellando e non continuata. Pirlotta è un verbo bergama-sco tolto da Zanni che “pirlava il tondin” ». A proposito del « barbero » e della polemica con Castelvetro: cfr. sonetti del Burchiello, son. viii, al v. 1 (dove usa « Barberia » e il sintagma « camarlingo dell’ortografia », citato da Caro nell’Apologia parlando di Castelvetro; inte-ressante per il contesto linguistico di questa polemica il verso finale di Burchiello, « e le civette studiano in gramatica »). Per l’uso di « barbaresco » riferito alla tenzone Burchiello-Roselli, cfr. Crimi, Ispirazione proverbiale, cit., p. 89. Per il « palio », vd. il cap. 1.6.b. « Giostra » in Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit.

92. E forse per il « frugar la vespaia » del v. 9 (in Burchiello, son. xxxvi, il « gran vespaio » del v. 14 si colloca in un contesto ambiguo, con allusività oscena).

93. Peraltro anche solo in questo significato di « matto, minchione », rinviano a un ricco sottobosco equivoco cariano che parte dal Commento di ser Agresto (cfr. Garavelli, Presenze burchiellesche, cit., pp. 235-36). Vd. anche alla voce « battifolle » nel Dizionario storico del lessico erotico italiano, cit.

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reno, ancora in parte da dissodare, della messa in discussione cinquecen-tesca, mai radicale ma oramai disinibita, di qualsiasi rigido dettame clas-sicistico rispetto ai grandi modelli (pur continuando altrove a omaggiar-li ed emularli), per via di parodia. Allo stesso tempo con una consapevo-lezza letteraria, abbagliante nella diatriba dei salterelli, che si inserisce nel cuore delle polemiche anticlassicistiche e che svela la sua chiave manie-ristica nella stessa citazione diretta di quei dibattiti e di tutto un territorio post-quattrocentesco, squisitamente fiorentino, delle baie, burle e poe-sie alla burchia. E questo, nel caso di Bronzino, inevitabilmente incrocia il suo essere pittore: perché quella poesia alla burchia, e poi la tradizione burchiellesca e bernesca, avevano tra i fondatori e animatori pittori co-me l’Orcagna (che fosse, come sembra poco probabile, il piú noto artista o il piú modesto Mariotto di Nardo di Cione),94 l’Alberti che duetta con Burchiello, il Brunelleschi almeno di Panni alla burchia e visi barbizechi,95 un certo Leonardo (penso ai suoi Pensieri, alle Favole, al Bestiario, alle Fa ce-zie),96 insieme al Michelangelo “giocoso” (con tutte le piú diverse e caute definizioni attribuibili alla sua poesia “bernesca”).97 E perché, in ultima istanza, questa poesia bronziniana, piena di « stravaganze e bizzarrie », co-

94. Cfr. M. Cursietti, Alle radici della poesia burchiellesca: l’orcagna pittore e lo Za buffone, in « La parola del testo », vii 2002, pp. 157-68, dove si ripercorre puntualmente questa dia-triba sull’identità dell’Orcagna.

95. Se nel 1980 Tartaro dichiarava di « incerta paternità brunelleschiana » questo sonet-to (Burchiello e burchielleschi, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 90), Zaccarello si dichiara invece ormai certo dell’attribuzione (« i codici gli attribuiscono univocamente almeno Panni alla burchia e visi barbizechi »: sonetti del Burchiello, cit., p. vi).

96. Si vedano i Pensieri, 96: « Ti diacciano le parole in bocca e faresti gelatina in Mongi-bello »; 98: « Salvatico è quel che si salva » (crede sul serio a questa etimologia o è un para-dosso?); 104: « farisei frati santi vol dire »; in Profezie, 174: « O Moro, io moro, se con la tua moralità non mi amari; tanto il vivere m’è amaro! »; i calembours linguistici e osceni delle Facezie, 6 7. D’altra parte i due elenchi della biblioteca di Leonardo in nostro possesso, quello del Codice Atlantico e quello di Madrid, rivelano che la sua non sterminata biblio-teca includeva il Morgante, le Facetie di Poggio, Geta e Biria, Ciriffo Calvaneo, e soprattutto Burchiello, ricordato in entrambi gli elenchi (Leonardo da Vinci, scritti letterari, a cura di A. Marinoni, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 74, 138, 140, 241-43).

97. Per una radicale riconsiderazione dell’eventuale bernismo michelangiolesco, cfr. in partic. D. Romei, Berni e berneschi del Cinquecento, firenze, Ed. Centro 2P, 1984, p. 139, e piú in generale tutta la p.te iii sul « Bernismo di Michelangelo »; il lavoro di Romei è stato ristampato: cfr. Id., Da Leone X a Clemente VII. scrittori toscani nella Roma dei papati medicei

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me scriverà Vasari, può anche aiutare, paradossalmente, a far meglio luce sulla « purezza gelida e affascinante »98 tuttora prevalentemente attribui-ta in toto alla sua pittura “di maniera”.

(1513-1534), Manziana, Vecchiarelli, 2007; vd. anche A. Corsaro, Michelangelo, il comico e la malinconia, in Id., La regola e la licenza, cit.

98. Sono parole di G. Briganti, cit. in Baccheschi, L’opera completa del Bronzino, cit., p. 14. Sulla compresenza di serio e faceto anche nella sua pittura piú “ufficiale”, oltre che nella poesia, cfr. Parker, Bronzino, cit., pp. 158-64.

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Pasquale Guaragnella

Il nonsense In AlcUnE fIAbE dEl Pentamerone dI gIAMbAttIStA bASIlE

Ne Lo cunto de li cunti, ovvero il Pentamerone, pubblicato nel terzo de-cennio del Seicento e destinato – come altre opere di Giambattista Basi-le – alla conversazione nelle piccole corti napoletane, l’autore dedica il primo racconto della prima giornata alle singolari vicende di una figura, in parte ridicola e in parte subumana, ma certamente aliena dalla malin-conia: quella dell’idiota. Uno studioso ha osservato a questo proposito che « contro l’intellettualismo del secolo […] rinasce la simpatia per l’in-sensato e il paese di Cuccagna: l’idiota è nemico della malinconia, le sue parole sembrano dettate dall’oracolo, ed è il custode di una arcaica sag-gezza ». Senonché, « all’interno di questo clima di simpatia per la figura dell’idiota, quest’ultima rappresenta soprattutto l’invito ad una interpre-ta zione letterale del mondo », contro ogni forma di malizia e di ingan-no.1

Attesta suggestivamente di questi motivi appunto la prima fiaba della raccolta di Basile, quella dell’orco e di Antuono da Marigliano, un sim-paticissimo idiota, il quale, dopo essere stato ingannato per due volte da un oste, perverrà poi a grande ricchezza. La fiaba di Antuono sembra di sporsi tra i due poli culturalmente antitetici, e pur complementari, della economizzazione della vita, da un lato, e del sogno di abbondanza, dall’altro lato. Nella prima parte della narrazione, infatti, Masella, che rappresenta il decalogo della prudenza e dell’ordine, non fa che rimpro-verare al figlio i comportamenti di un lazzaronismo perdigiorno, ovvero il suo parassitismo:

1. S. Calabrese, Gli arabeschi della fiaba. Dal Basile ai romantici, Pisa, Pacini, 1984. Per un inquadramento generale, si vedano pure N. L. Canepa, From Court to Forest: Giambattista Basile’s ‘Lo cunto de li cunti’ and the Birth of the Literary Fairy Tale, Detroit,Wayne State Univ. Press, 1999, e Giovan Battista Basile e l’invenzione della fiaba, a cura di M. Picone e A. Mes­serli, Ravenna, Longo, 2004.

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Che ci fai in questa casa, maledetto il pane che mangi? Squaglia pezzo di niente, seccati maccabeo, sprofonda piantaguai, levati da qui scolacastagne, mi sei stato cambiato dentro la culla e in cambio di un bambolino cicciotello piccolino bello mi c’è stato messo un maialone mangialasagne!2

E tuttavia Masella parlava, ma Antuono fischiettava: sino a quando « un giorno come gli altri », randellato a dovere dalla madre, il nostro “eroe”, riuscito a sfuggirle dalle mani, gira i calcagni e « si allontana da casa ». Comincia ora « il viaggio esoterico e purificatore »; e infatti, dopo una « faticosa » giornata di cammino, « sull’imbrunire » – e cioè quando i confini tra luce e ombra si fanno incerti – Antuono « arrivò sotto i piedi di una montagna cosí alta che giocava a cavallina con le nuvole e dove, sopra una grande radice di pioppo sotto una grotta decorata di pietra pomice, stava seduto un orco e mamma mia com’era brutto! ».

« O mamma mia com’era brutto »: l’espressione non è di Antuono – il quale mostrerà invece di non avere alcuna paura – ma è della fabula trice, Zeza la sciancata. E infatti, quella dell’orco è una figura perturbante del-l’immaginario collettivo fra Medioevo ed Età moderna. Questo spaven-to – nel quale si racchiudeva un tabú antropofago – certamente « abba-stanza diffuso », è « attestato indirettamente da un numero molto alto di favole piene di orchi, di mangiatori di carne di cristiani, di ‘uomini selva-tici’ e da episodi consimili frequenti nei poemi cavallereschi del XV e del XVI secolo, dai giganti del Ciriffo Calvaneo mangiatori di bambini, al-l’Orco dell’orlando innamorato a quello del Pentamerone ».3 Del resto, la rap presentazione che nel “cunto” si tenta dell’orco dà un’idea di questo « per turbante »:

Quello era nano e manico di scopa, aveva la testa piú grossa di una zucca indiana, la fronte tutta bitorzoli, le sopracciglia unite, gli occhi strabici, il naso ammacca-to con due froge che sembravano due fogne, una bocca grande quanto una macina da mulino, da questa uscivano due zanne che gli arrivavano alle ossicine dei piedi, il petto peloso, le braccia da aspo, le gambe a volta di cantina e i piedi larghi come quelli di una papera: insomma sembrava uno spirito maligno, un

2. G.B. Basile, Lo cunto de li cunti, a cura di M. Rak, Milano, Garzanti, 1986, p. 32.3. P. Camporesi, Introduzione a Il libro dei vagabondi. Lo ‘speculum cerretanorum’ di Teseo

Pini, ‘Il vagabondo’ di Raddaele Frianoro e altri testi di “furfanteria”, Torino, Einaudi, 1980, p. 37.

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il nonsense in alcune fiabe del pentamerone

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diavolaccio, un brutto straccione e proprio un fantasma che avrebbe fatto rabbri-vidire un Orlando, spaventare uno Scanderbeg e impallidire un lottatore.4

La descrizione procede secondo una tecnica peculiare, come si può age-volmente rilevare: va dall’alto verso il basso, ripetendo in questo modo l’essere dell’orco, ovvero il suo essere divinità terrigena: e non è un caso che la prima visione di Antuono sia quella dell’orco seduto sulla radice di un pioppo. Ora, nonostante ogni particolare della « figura » incontrata dovesse indurlo a un sentimento di paura, la presenza dell’orco non pro-cura ad Antuono alcun brivido. Anche in questa occasione Antuono si rivelerà in pieno « una specie di eroe del non-sense », a tal punto che, fatto un inchino col capo – disvelando in questo modo un « codice corti-giano » improvviso – cosí Antuono si rivolge all’orco: « Buongiorno signo-re, come va? Come stai? Vuoi niente? Quanto manca da qua al posto dove devo andare? ». È il trionfo del nonsense. L’orco, « a sentire di questo discorso di palo in frasca », « si mise a ridere », e « perché gli piacque l’umore della bestia [e cioè di Antuono, paragonato a una bestia] » gli disse: « Vuoi fare il servo? ». La replica di Antuono sarà singolare: « E quanto vuoi al mese? »; e significativa poi – perché improntata a sentimenti di saggezza e tenerezza – la risposta definitiva dell’orco: « Bada a servirmi decente-mente, andremo d’accordo e ti andrà tutto bene ».5 Ci ricorderebbe Piero Camporesi che « l’immagine dell’orco, che grava a lungo sulla cultura occidentale come un pesante rimorso, viene esorcizzata, nel tentativo di rimuoverla », proprio attraverso « la rappresentazione comico-grottesca, secon-do un meccanismo tipico che riduce a spauracchio per bambini un incu-bo della coscienza collettiva ».6 Alimentato da una esperta arte del rove-sciamento grottesco, il dialogo tra Antuono e l’orco è una suggestiva al-legoria di un movimento di contrazione fra « bestialità » e « saggezza »: come si è visto, Antuono, il fanciullo, rivela ancora gli umori della bestia, e l’orco è invece rappresentato in una sua eccezionalità fatta di saggia vecchiezza. Senonché, anche nel loro andamento grottesco, queste con-

4. Basile, Lo cunto de li cunti, cit., p. 34.5. Ibid.6. P. Camporesi, Introduzione, in Il libro dei vagabondi, cit., p. 38.

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trazioni tra il « magico » e il « bestiale » ricordano tipologie di derivazione bruniana secondo cui il bestiale richiede di essere compreso « sia nella componente della passiva naturalità, sia in quella della migliore possibi-lità umana » e viceversa.7 Ma non è questo ritmo biunivoco, già di deri-vazione umanistica, costitutivo della antropologia del pazzo? Una ripro-va è nella domanda che il “picaro” Antuono rivolge all’orco a proposito del luogo in cui deve andare: si tratta di un luogo ignorato dall’orco – che interpreta il parlare di Antuono, s’è rilevato, « come un trascurso da palo ’m pertica » – ma in verità ignorato soprattutto da Antuono. Quando è scappato da casa il ragazzo non aveva alcuna meta. Cosa si nasconde al-lora dietro questo giuoco del non-sense? Esattamente una critica del viag-gio, della sua cultura: è in questo modo che da “eroe” del viaggio e dell’avventura, Antuono annuncia una delle non poche metamorfosi del Cunto: Antuono si atteggia segretamente a spettatore critico di quella cultura. È in ragione di consimili effetti di rovesciamento che « il pazzo umilia i saggi di questo mondo, compresi naturalmente i dottori e i teo-logi ». Ci ricorda Klein che la nave dei pazzi è non solo « piena di discorsi contro l’erudizione e la “curiosità” del sapere libresco » – tema che si ri-trova largamente nel Pentamerone – ma nel capitolo lxvi, assai significati-vamente, contiene « rivolto contro i viaggiatori un accenno ai pazzi che par-tono sulle loro navi per dimostrare che la terra è rotonda ». Dietro il co-mico di Antuono si nasconde ormai una dose sottile di ironia e finanche di autoironia: tanto che si può rilevare l’azione di una « polarità » ovvero di una « intima connessione fra coscienza ottenebrata e coscienza distac-cata ».8

Pure quest’ultimo movimento potrebbe, del tutto lecitamente, far pensare a Bruno: ma qui si aprono le differenze fra il Nolano e il Basile. Nella cui visione il riso concresce – e il rapporto tra Antuono e l’orco è una riprova – tra chi s’impegna a un patto di fedeltà e il suo padrone: ovvero tra il cortigiano e il suo signore, a testimonianza di un legame di

7. N. Badaloni, Filosofi, utopisti, scienziati, in Cultura e vita civile tra Riforma e Controrifor-ma, a cura di N. Badaloni, R. Barilli, W. Moretti, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 70.

8. R. Klein, Il tema del pazzo e l’ironia umanistica, in Id., La forma e l’intellegibile. scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, Torino, Einaudi, 1975, pp. 477-97.

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solidarietà. Non v’è dubbio: per una ideologia esplicitamente cortigiana quale è quella di Basile il miglioramento delle possibilità umane passa attraverso l’inscrizione nel sistema del potere aristocratico-cortigiano, nel sistema dei suoi codici. Il potere è la fonte della saggezza, il cui « con-siglio » bisognerà tenere segreto: in fondo, venendo meno ai suoi divieti, Antuono si rivelerà un pessimo segretario dell’orco. Ma in verità questo av-viene perché, al di là delle apparenze, la permanenza di Antuono presso l’orco continua a disvelare un carattere perturbante e sotto una forma ambiguamente moderna: non già l’eccezionale e meravigliosa bruttezza dell’orco farà paura ad Antuono, ma qualcosa di piú spaventoso: il quotidiano. Questo quotidiano, nel Seicento, trascorre sotto la pressione di due allu-cinazioni collettive contrapposte fra loro: la fame e l’abbondanza. Di qui una profonda e inquietante ambiguità: l’intera epistemologia della cre-scita (iniziazione del fanciullo) ne è irrimediabilmente attraversata. Non ci resta che seguire il racconto di Basile:

Cosí concluso questo patto Antonio rimase al servizio dell’orco, dove il mangia-re si gettava a terra e in quanto al lavorare si faceva il pecorone e al punto che in quattro giorni Antonio si fece grasso come un turco, tondo come un bue, sveglio come un gallo, rosso come un gambero, ver de come un aglio e panciuto come una balena e cosí massiccio e tarchiato che non ci vedeva piú.9

Senonché, la situazione di abbondanza nella quale si trova inviluppato Antuono è soltanto una prima facies. Siamo indotti a rilevare questo dal fatto che « non passarono due anni che, annoiato dal grasso, gli venne desiderio e voglia grande di dare un’occhiatina a Pascarola e, pensando alla sua casetta, s’era quasi ridotto com’era prima ». fastidio de « lo gras-so » e desiderio de « la casarella soia »: è qui il male oscuro di Antuono. È significativo: si ripete in quest’unica la storia duplice di Bertoldo e Ber-toldino ovvero del padre che morirà in una situazione di abbondanza ma « desiderando fino all’ultimo le cose naturali », e del figlio che pur poten-do godere di una situazione di abbondanza, « farà ritorno a casa dando soddisfazione a un suo insopprimibile desiderio ». A proposito di questo « strano desiderio », Giancarlo Mazzacurati ha posto acutamente un in-

9. Basile, Lo cunto de li cunti, cit., p. 35.

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terrogativo: « perché il padre, cosí saggio, resta a corte e vi muore […] e il figlio, cosí folle, sembra comprendere per istinto il pericolo di quel luogo, e se ne torna a casa, alla sua ‘natura’ felice e ricco? ».10

Pertanto, Antuono si vede « nutrito e ingrassato » in un luogo sí « senza confini » ma che, per un singolare paradosso, risulta anche – solo che si affili l’arma del « sospetto » – un vero e proprio « recinto ». E per un altro « intreccio » di paradossi, quell’orco che per Antuono – il quale all’inizio della storia è senza padre – è ormai un vero padre, dispiega una sua natu-ra tanto piú inquietante quanto piú diventa agli occhi di Antuono figura familiare: proprio perché diventato padre. Bisogna andare alla « inquieta facies interiore dell’uomo comune dell’età preindustriale » per capire qua-le groviglio di irresolubili antinomie ci troviamo qui di fronte: sempre « legato psicologicamente a una sorta d’infanzia », questi è un uomo che « non appartiene tutto a se stesso » e non può « scegliere il suo essere so-ciale ».11 Di qui la « follia » apparentemente inesplicabile delle sue reazio-ni: e di qui anche un comportamento scisso tra la gratitudine e il deside-rio di « uccisione » del padre. Infatti, quell’orco che prima facie non induce timore alcuno nell’animo di Antuono, successivamente determina una sorta di insecuritas: e il luogo dell’abbondanza produce semplicemente paura del luogo, ovvero una sorta di paura della stasi.

E il « viaggio » di Antuono dovrà ricominciare, conferma che in quel luogo egli non ha fatto ancora una decisiva esperienza. Intanto l’orco fa dono ad Antuono di un asino che potrà alleviargli le fatiche del viaggio, ma ingiungendogli di non pronunciare mai la formula – magica – Corri, defecazecchini. Ma Antuono contravviene al divieto di pronunciare la for-mula magica Corri, defecazecchini e pertanto conoscerà i poteri magici del-l’asino che evacua gioielli e denari, ma sperimenterà altresí le prime di-savventure ad opera di un oste al quale ha chiesto da mangiare e da dor-

10. G. Mazzacurati, narrativa e romanzo nel seicento, in La letteratura italiana. Rinascimen-to e Barocco, a cura di S. Battaglia e G. Mazzacurati, firenze, Sansoni, 1974, p. 421. Sul tema della tradizione favolistica italiana, cfr. G.B. Bronzini, ‘Lo Cunto de li Cunti’ serbatoio letterario di fiabe popolari, in « La parola del testo », 1 2000, pp. 181-88. Su Bertoldo, d’altro canto, si vedano almeno Q. Marini, Bertoldo, Bertoldino, Marcolfo, Casale Monferrato, Ma-rietti, 1986, e P. Camporesi, La maschera di Bertoldo, Milano, Garzanti, 1993.

11. P. Camporesi, Introduzione a Il libro dei vagabondi, cit., p. 131.

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mire. L’oste della nostra fiaba fa mangiare e bere Antuono quanto piú è possibile, per poi mandarlo a dormire. Durante il sonno dello sciocco, l’oste corre alla stalla e dice all’asino: arre cacaure, e l’asino « fece la soleta operazione ». Al pari della fiaba di Nardiello – vero e proprio fratello maggiore di Antuono – fiaba nella quale si registrerà un triplice inadem-pimento, per inganno, nella consumazione di un atto sessuale, in questa di Antuono assistiamo, in ragione di inganni non molto diversi (dall’ad-dormio) a un triplice inadempimento delle raccomandazioni dell’orco.

Intanto, il risveglio di Antuono designa la « scena » dei gesti e dei mo-vimenti propri di un « pecorone » che è stato ingannato dall’oste:

E quando si fu svegliato la mattina – quando esce l’Aurora a svuotare il vaso del suo vecchio, tutto pieno di renella rossa, alla finestra dell’Oriente – si strofinò gli occhi con la mano, si stiracchiò per mezz’ora e dopo una sessantina di sbadigli e peti a forma di dialogo, chiamò l’oste dicendo: « Vieni qua, amico, conti frequen-ti e amicizia lunga, restiamo amici e facciamo azzuffare le borse; fammi il conto e pagati ».12

Senonché, vedremo, Antuono non è poi dissimile da Bertoldino: al pari del personaggio di Giulio Cesare Croce « non è un babbeo volgare, uno di quei goffi subumani, tutto funzioni biologiche, di cui la narrativa pre-cedente ci ha lasciato qualche esemplare ». Anche Bertoldino, al pari di Antuono, sarà in grado di trasformare anche il piú semplice e fisiologico degli scambi dialogici in un esempio di acuta ironia a danno – ma in sen-so benevolo – degli interlocutori ingenui o soltanto sprovvisti della me-desima acuzie. Si osservi ad esempio questo scambio tra Bertoldino e la regina, tra le protagoniste femminili delle sottilissime astuzie di Ber toldo:

Regina: Come t’addimandi tu?Bertoldo: Io non domando nulla.Regina: Come ti chiami?Bertoldo: Chi mi chiama, io gli rispondo.Regina: Dico come tu t’appelli.Bertoldo – Io non mi sono mai pelato, ch’io mi ricordi.

12. Basile, Lo cunto de li cunti, cit., p. 39.

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Piero Camporesi ha rilevato che scambi come questi, trionfo concet-tuale e dialogico del nonsense, appartenevano al repertorio dei comici dell’arte i cui legami con la cultura popolare della festa sono senza dub-bio fortissimi. Trionfo del nonsense sono anche alcune battute – oggi for-se le chiameremmo freddure – una domanda rivolta alla madre: « Quan-do mi facesti, ci eravate voi? »; oppure, similmente: « Ditemi un poco, chi nacque prima, io o mio padre? ».

Torniamo ad Antuono. Egli, scoperto il potere magico dell’asino, in-vita la madre Masella ad apparecchiare le piú belle lenzuola di corredo sulle quali l’asino potrà evacuare il suo oro. Ma ben altro che oro evacua l’asino, facendo « ’na bella squacquerata gialla ’ncoppa a li panne ianche ». Masella vede bene su quale fondamento può sostenersi la sua fortuna: sullo sterco, è il commento del cantafavole. È vero che « l’ambivalenza caratterizzante la rappresentazione della pazzia » si manifesta « con for-me consentanee a un’ispirazione paradossale » a tal punto che, con la costante del « rovesciamento », proprio il motivo della « casa » e delle « fondamenta » si rivela d’obbligo.

E proprio Antuono, « capriccio » e « automa » della natura, rinvia alla ossessione di una rovina che, in ragione del suo folle comportamento, incombe sulla casa di Masella: quella Masella che rappresenta la volontà di un calcolo razionale, l’esperienza e il desiderio di prosperità. Su tutto questo l’asino evacua sterco:

La povera Masella, che vide questa liberazione di pancia e che quando sperava di arricchire la sua povertà ne ricavava un finanziamento cosí abbondante da impuzzolentire tutta la casa, prese un bastone e, non dandole neanche il tempo di mostrarle le pietre pomici, gli fece una buona rammendata, per questo subito lui se la squagliò alla volta dell’orco.13

È qui prefigurato il motivo finale della fiaba: la bastonatura che serve a far rinsavire dalla pazzia. Stessa scena con l’orco, presso il quale Antuono si ripara: inevitabile l’accusa di inguaribile e subumana stolidezza da parte del primo. Perché Antuono ha fatto molto rumore, ha ciarlato oltre ogni misura con la sua « bocca da scorreggia » e la sua abitudine insana di vo-

13. Ibid.

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mitare tutto quanto ha in corpo. Perché lungi dal mostrarsi perfetto se-gretario dell’orco « scrivendo nella memoria » il divieto, ha disvelato in-vece un « segreto » con l’ingenuità metafisicamente folle di un candido. Ha distrutto un codice. Per questo l’orco gli farà dono, la terza volta, di una mazza « per memoria sua ». La mazza è infatti lo strumento atto a ricon-durre al « rinsavimento » i pazzi: come l’acqua fredda. Ed è significativo che l’intero discorso dell’orco sia a questo punto giocato sulla tipologia della esperienza che una buona volta Antuono dovrà realizzare: « L’ope-ra loda il maestro; le parole sono femmine e i fatti sono maschi; ci con-vinceremo quando l’avremo visto; tu mi hai sentito meglio di un sordo: uomo avvisato è mezzo salvato ».14 Senonché è ancor piú significativo che per la terza (ma si potrebbe dire anche l’ennesima) volta, mentre l’orco seguita a parlare, Antuono già lo ha lasciato, affrettandosi verso casa. Dopo tante vicende sembra non avere imparato proprio nulla.Ma la verità è un’altra: Antuono ha la giovanile capacità di distruggere l’esperienza. Non bastano le parole, non basta quanto ha subíto a opera dell’oste con la sostituzione prima dell’asino caca-denari e quindi del tovagliolo fatato. L’esperienza risulta sempre povera. E che cosa può im-parare, dunque? L’unica « esperienza » che Antuono farà è quella che ri-pete e conferma la sua pazzia. Perché, a ben considerare, quella mazza, di cui gli ha fatto dono l’orco, è anche l’inequivoco segno di riconosci-mento del pazzo: infatti, proprio con la mazza i pazzi « venivano armati per difesa contro i passanti che tiravano loro addosso le pietre ». La basto-natura dunque rinsavisce dalla pazzia, ma quel bastone di cui è in posses-so Antuono è anche il segnale di riconoscimento di un pazzo quale è Antuono. Si realizzano singolari effetti di ambiguità: da questa mazza saranno bastonati prima Antuono e quindi l’oste che tenta per la terza volta di gabbarlo. Ma chi dei due è il vero pazzo: l’adulto o il ragazzo? Perché, per parte sua, Antuono conferma di essere metafisicamente lon-tano dal mondo degli adulti e dalla loro esperienza. E al suo peculiare destino – nel quale si attua una vera e propria distruzione dell’esperienza – ben si addice il raggiungimento di una eccezionale fortuna con la resti-tuzione da parte dell’oste ingannatore tanto dell’asino caca-denari, quan-

14. Ivi, pp. 43 e 45.

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to del tovagliolo: ma soprattutto di quella mazza che restituisce definiti-vamente Antuono alla sua condizione di ‘pazzo’. E ben si addice il detto finale della fiaba: « A pazze e a peccerille Dio l’aiuta ».

Pazzi e ragazzi. follia e fanciullezza sono dunque i due grandi luoghi in cui l’esperienza (degli adulti) è autenticamente rifiutata. Come nella quête di Don Quijote, al quale Antuono un po’ somiglia per il suo « can-dore ». E Don Quijote, si sa, è « pazzo » e « ragazzo » a un tempo. Ma non è vero che proprio in questi mascheramenti consiste l’intero destino gno-seologico della fiaba, nel quale si riflette la sua conflittuale identità? Per-ché una scrittura che si fonda sul primato dell’inverosimile riesce anche ad essere piú vera della realtà in quanto ne segnala implacabilmente falsità e irresolubili follie.

Significativa è in questo senso la vicenda incredibile di Peruonto e Vastolla. Basile è qui autore di una fiaba quasi analoga a quella di Pietro Pazzo compresa nelle Piacevoli notti di Straparola. Ora cosí recita la rubri-ca della favola di Straparola che conviene qui richiamare:

Pietro pazzo per virtú d’un pesce chiamato tonno, da lui preso e da morte cam-pato, diviene savio; e piglia Luciana, figliuola di Luciano re, in moglie, che prima per incantesimo di lui era gravida.15

Il significato di questa rubrica è segnalato dall’incipit della fiaba, incen-trato su una riflessione tutta tardo cinquecentesca, si direbbe, sugli stra-ordinari esiti che talvolta registra la pazzia a tal punto da mutarsi in sa-viezza. Ed infatti:

Io trovo, amorevoli donne, sí nelle istorie antiche come nelle moderne, che l’operazioni di un pazzo, mentre che egli impazzisce, o naturali o accidentali che esse siano, li riusciscono molte volte il bene. Per tanto mi è venuto nell’ani-mo di raccontarvi una favola d’un pazzo: il quale, mentre che impazziva, per una sua operazione savio divenne, e per moglie ebbe una figliuola d’un re.

Nella fiaba di Basile il ritratto dell’eroe, e sarebbe meglio dire del sub-eroe, è piú caricato: trattasi infatti di uno « sciaurato de coppella »; senza

15. G.F. Straparola, Le piacevoli notti, a cura di M. Pastore Stocchi, Roma-Bari, La-terza, 1979, p. 105 (da qui anche la citaz. successiva).

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dire che nella fiaba napoletana, anche se Peruonto sarà riconosciuto co-me genero dal padre di Vastolla, non si parla propriamente di conquista del trono. Guglielminetti ha osservato che, anche per questa ragione, « la moralità iniziale del racconto suona in dialetto assai meno eversiva » che in Straparola. Questa la moralità in bocca alla novellatrice del cunto, Me-neca:

Il fare del bene non è mai andato perduto; chi semina cortesia miete beneficio e chi pianta gentilezze raccoglie amorevolezze: il favore fatto a un animo grato non è mai stato sterile ma produce gratitudine e figlia premi. Se ne vedono tan-ti casi nella storia degli uomini e ne vedrete un esempio nel racconto che sono sul punto di farvi ascoltare.16

Scompare, ha commentato in proposito Guglielminetti

ogni traccia di alternativa del tipo di quella segnalata dallo Straparola tra ‘pazzia’ e ‘saviezza’ alternativa non lontana dalla dinamica di promozione sociale che è delle Piacevoli notti e della fiaba popolare di magia. Quella del Basile è una sen-tenza etica, di costume civile; non a caso, perciò, alla pazzia di Pietro, quale sciagura da rimuovere, egli ha sostituito la stupidaggine di Peruonto, un ‘sarchia-pone’ per antonomasia.17

Da questo « sarchiapone », dopo vari e vani tentativi di vederlo finalmen-te laborioso, la madre riesce ad ottenere che almeno vada nel bosco a raccogliere fascina. Peruonto, dunque, dovrà camminare…

Giunto nel mezzo della campagna, Peruonto – ci avvaliamo qui della traduzione di Croce – « trovò tre giovinetti, che, fattosi strapuntino dell’erba e capezzale d’una selce, cosí alla sferza del sole che lí batteva a perpendicolo, dormivano come scannati. Peruonto, che vide questi pove-retti diventati una fontana d’acqua in mezzo a una calcara di fuoco, preso da compassione, con l’accetta che aveva seco tagliò certe frasche di quer-cia e intrecciò sopra di loro una bella infrescata ». Sorprendentemente, il comportamento dello sciocco disvela i segreti valori di un codice fonda-

16. Basile, Lo cunto de li cunti, cit., p. 75.17. M. Guglielminetti, La cornice e il furto. studi sulla novella del ‘500, Bologna, Zanichel-

li, 1984, p. 96.

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to sulla “filantropia”: e dunque la fortuna, a partire dalla fatagione datagli dai tre giovani per gratitudine, è il risultato della sollecitudine che il per-sonaggio ha mostrato nei confronti di altri uomini. A conferma, si po-trebbe aggiungere, di quel principio bruniano che riconosce proprio nella sollecitudine un precedente rispetto alle opzioni che la fortuna opera tra gli individui.

Giunto nel bosco, Peruonto taglia una cosí grossa fascina che « per trasportarla sarebbe occorso un carro ». E l’idea del veicolo e del viaggio solletica anche Peruonto. Vedendo infatti che gli era impossibile caricare sulle spalle la fascina,

ci montò sopra dicendo: « bene mio, se questa fascina mi portasse camminando come un cavallo! ». Ed ecco che la fascina cominciò ad andare col passo dell’am-bio, come un cavallo di Bisignano, e, arrivata davanti al palazzo di un re, fece giri e giravolte incredibili.18

Efficace l’effetto di rovesciamento: ciò che deve essere trasportato diven-ta veicolo che trasporta; ed inoltre veicolo e viaggio sono altrettante im-magini del gioco del mondo, cosí del suo livello elementare (la genera-zione, essendo trasparente la metafora sessuale della fascina) come del suo livello piú complesso, il potere e la sua regalità. In questo gioco si distende l’avventura di Peruonto: l’interpretazione della cui stultitia co-me condizione universale dell’umanità. Nel primo caso essa « tende a diventare un’incarnazione grottesca dell’antiumano »: perché il pazzo o l’idiota sono tutti allo stesso modo « gli strumenti di una catarsi attraverso il disgusto o il disprezzo ». L’ironia picaresca sfrutterà largamente questo filone, ci ricorda Klein. Ma, « come avviene appunto nella letteratura picaresca, lo stesso abbandonarsi all’ignominia o alle passioni può costi-tuire una critica di quelli che vi si abbandonano. L’analisi condotta da Hanckel delle rappresentazioni del folle nelle scene erotiche o nelle sa-tire dell’amore nel Rinascimento, ha dimostrato come il personaggio grottesco figuri alternativamente, e talvolta anche simultaneamente, nella veste di schernitore e di schernito ».19

18. Basile, Lo cunto de li cunti, cit., p. 77.19. Klein, La forma e l’intelligibile. scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, cit., p. 487.

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Del resto è comprensibile il significato osceno della fascina sulla quale è Peruonto, e che si libra nell’aria. Vastolla, abituata alle procedure del-l’amore cortigiano, lo disprezza. E la risposta di Peruonto, nella sua osce-nità questa volta esplicita, risulta demistificatrice di quelle procedure d’a-more: « O Vastolla, vai, che tu possa restare incinta di me! ». Qui l’idiota, il pazzo è « insieme l’esempio da evitare e lo spettatore non coinvolto che dichiara la moralità del gioco ». Senonché, si può ben rilevare, a questo punto, che ogni distinzione « tra il pazzo stupido e il pazzo saggio » non sempre è valida. « Salvo il caso del ‘pazzo naturale’, cioè dell’alienato e dell’idiota, alle cui spalle i re si divertivano, allo stesso modo che dei nani e dei mostri » – e può anche darsi che, all’inizio della fiaba, Vastolla rida di Peruonto ritenendolo appunto un « pazzo naturale » – « si deve ricono-scere alla figura del pazzo un’ambivalenza in qualche modo costituzio-nale: egli è insieme stupido e saggio, schiavo dei suoi istinti e spettatore della sua condotta »: e della condotta degli altri. In definitiva, se si devono classificare i personaggi, « non si guarderà al loro grado di intelligenza, ma alla dosatura di partecipazione e di distacco, che c’è in loro e che colloca il comico delle loro azioni e dei loro gesti a una distanza ogni volta diversa dal puro sfrenarsi come dalla pura ironia ».20

Nella fiaba, Vastolla resta incinta: e quando il re scopre la nuova realtà, fuori di senno, convoca il Consiglio dei saggi per pronunziarvi la sua ora-zione. La pazzia di Vastolla induce il re nella opinione che sia piú oppor-tuno « farle figliare l’anima prima che partorisca una malarazza […] di farle sentire prima le doglie della morte che le doglie del parto ». Le me-tafore della morte e della vita si incrociano; « sarei di pensiero », esclame-rà il re riferendosi a Vastolla, « di farla uscir fuori del mondo prima che da lei esca germoglio e semenza ».

Intanto, « come volle il cielo, arrivò l’ora del parto e con quattro doglie leggere leggere alla prima soffiata nell’ampolla, al primo incitamento della mammana, alla prima spremuta di pancia, gettò in grembo alla comare due mascoloni come due mele d’oro ». Il re corre dai suoi consi-glieri: « ecco, mia figlia ha figliato, è il momento di darle una mano con un bastone ». Ma essi lo esorteranno a continuare il giuoco della simula-

20. Ivi, p. 481.

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zione sino a che i due infanti non compiranno sette anni: sarà allora che si potrà individuare « la fisionomia del padre ».

Passano finalmente i sette anni: è dunque arrivato il tempo di di-spiegare l’inganno e la vendetta. Ma come potrà realizzarsi tutto questo? Uno dei consiglieri del re partorisce l’idea di

un gran banchetto, dove sia costretto a venire ogni nobiluomo e gentiluomo di questa città e stiamo attenti, e con gli occhi sulla tavola, a chi i bambini si rivol-geranno piú volentieri, spinti dalla Natura, perché quello senz’altro sarà il padre e noi subito lo portiamo via come una cacatina di cornacchia.21

Difatti, non appena Peruonto compare nella sala del banchetto, i figli si avvicinano e gli fanno festa. In seguito alla terribile scena dei nipoti qua-si « calamitati » dal padre naturale, per placare l’ira del re sarà comminata una terribile pena: e pertanto Peruonto, Vastolla e i due figli sono rin-chiusi in una botte che viene gettata in mare. Soltanto la pietà di alcune damigelle consentirà di « far cadere » nella botte un po’ di uva passa e fichi secchi. E cosí la botte, come una nave, va… Come una piccola nave di pazzi essa sarà un’immagine del mondo. Infatti, che si tratti di botte sul mare, o di barca o di nave « è l’idea di veicolo che soprattutto interessa: noi siamo imbarcati ». Peruonto uno « sciocco » e Vastolla una « peccatri-ce »: le pazzie si incrociano con i vizi; e nell’ambito di questo movimento sarà facile passare da un’immagine del mondo come follia alla follia co-me vizio.

Intanto, nella botte-nave anche Vastolla piange e si lamenta nel men-tre chiede a Peruonto di dirle quale diavolo lo avesse tentato a metterla incinta. « Quale incantamento facesti, e con quale verga? », chiede pian-gente Vastolla: e Peruonto, dopo aver fatto orecchie di mercante, « dammi uva passa e fichi », risponde. Ottenuto quel che voleva, il pazzo racconta finalmente tutto a Vastolla: la quale, ripreso animo, per aver saputo dei poteri magici di lui, propone a Peruonto: « E perché non trasformiamo questo legno in una bella nave che ci tragga dal pericolo e ci conduca a buon porto? ». « Dammi uva passa e fichi », risponde Peruonto in una sorta di automatismo linguistico; e Vastolla « subito pronta gli riempí la gola

21. Basile, Lo cunto de li cunti, cit., p. 81.

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perché aprisse la gola, e come una pescatrice di carnevale, con l’uva pas-sa e i fichi secchi gli pescava le parole fresche dai denti ». Ed ecco che, « dicendo Peruonto quello che desiderava Vastolla, la botte si trasformò in una imbarcazione con tutto il sartiame necessario per la navigazione e con tutti i marinai che servivano per il governo del vascello ». Le parole escono fresche, il desiderio si dilata: e insieme con questo si dilata il paz-zo gioco del mondo. E per scorgere gli altri immaginari pazzi che sono insieme con Peruonto sulla nave basterà soltanto allungare lo sguardo sulla « scena »:

e là avresti potuto vedere chi tirava la scotta, chi arrotolava le sartie, chi metteva mano al timone, chi faceva vela, chi saliva sulla gabbia, chi gridava orza, chi pioggia, chi suonava una trombetta, chi faceva fuoco coi cannoni e chi faceva una cosa e chi un’altra.22

Potremmo dire che agiscono qui due archetipi e modelli resistentissi-mi: i cui « residui » attraversano l’ossessione controriformistica e barocca del peccato e della caduta. Esemplarmente, Klein ci ricorda che

Josse Bade, nella sua Grant nef des folles, fa rappresentare Eva come madre stolta, e colloca la caduta su una nave dei pazzi. Il platonismo cristiano risulta eviden-ziato dalla classificazione delle follie e vizi in base ai cinque sensi che hanno la loro radice in Eva.

Anche nella fiaba di Basile i due protagonisti sono accusati del peccato grave della carne e della sensualità: e Vastolla è la madre stolta, cacciata con i due figli su una botte che si trasforma in nave. Ci segnala Klein che « la traduzione francese della nave dei pazzi di Brant, ad opera di Pierre Rivière », aggiunge al capitolo primo questi versi: « Je suis des grans folz navigans / Sur la mer du monde profonde ». La verità è che risulta facile « all’interno di questa filosofia o di questa religione passare dal mondo come follia alla follia come vizio ».

Quest’ultimo concetto in realtà è vecchio quanto il platonismo cristia-no; forse lo si deve far risalire a san Girolamo che ha tradotto il primo verso del salmo lii con Dixit insipiens in corde suo, mentre il significato del

22. Ivi, p. 85.

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termine ebraico naval sarebbe quello di ‘villano’, oppure ‘cattivo’, piú che ‘stolto’. Naval, villano, stolto: è questa la progressione semantica: del re-sto, in questo ambito di archetipi, la nave dei pazzi è anche « contrappo-sta a quella della chiesa e della salvezza ».23 Non diversamente, nella fiaba di Basile, Vastolla, dopo aver espresso il desiderio di vedere trasformata la botte in una nave, significativamente chiederà a Peruonto, alla fine della giornata, di trasformare la nave in un bel palazzo. La fiaba potrebbe concludersi qui: ma non si conclude ancora. Questa rappresentazione d’amore polemicamente atteggiata nei confronti del mito ha bisogno di un suo epilogo: altrimenti la felicità di Vastolla e Peruonto, a mezzo del racconto fiabesco, sarebbe una felicità risolta soltanto in un palazzo in-cantato, ancora muto. La voce lontana dei padri dovrà fondare la voce dell’amore veramente felice.

Infatti, mentre il palazzo nel quale vivono ormai Vastolla e Peruonto sembra designare il fondamento della felicità, l’occhio di Basile si sposta e ci rinvia a un’altra casa: essa è in rovina ed è la casa del padre di lei, il re. Intanto, per distrarlo da una invincibile tristitia i cortigiani lo esortano a trovare ricreazione nella caccia. E non è un caso che proprio la caccia porti il re lontano, tanto che, sul far della sera, gli sarà impossibile far ri-torno alla reggia. In una situazione ambientale siffatta, il re ha occasione di volgere lo sguardo a una lucernetta alla finestra di un altro palazzo, a noi noto: quello di Peruonto e Vastolla. Non solo la tristitia del re, come è evidente, ma anche la felicità di Peruonto e Vastolla stanno per trovare il loro compimento: perché una felicità senza la benedizione dei padri è solo una maschera della felicità. Basterà ripercorrere, a riprova, il filo di questa ricerca: non solo ad opera del re, ma anche ad opera di Vastolla e Peruonto:

il re, che da quel giorno in cui gli era capitato questo disastro era stato sempre pieno fino alla gola di lasciami stare, fu portato per svago a caccia dai suoi corti-giani; dove, sorprendendoli la notte e vedendo brillare una lucernina a una fine-stra di quel palazzo, mandò un servitore a chiedere se lo volevano alloggiare.24

23. Klein, La forma e l’intelligibile, cit., p. 486.24. Basile, Lo cunto de li cunti, cit., p. 87 (le successive indicazioni dei soli numeri di

pagina dir. nel testo).

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Il re dunque entra nel palazzo, sale su per le scale, attraversa le stanze; non incontra nessuno salvo i due fanciulli che gli dicono « Nonno, non-no ». Prime voci, prime parole: e non a caso da due infanti. Qui ricomin-cia l’amore, qui è il cominciamento della vera felicità: perché l’attraver-samento delle stanze è come lo svolgersi di una poesia d’amore che nelle stanze ricerca la voce sua piú segreta. E che cosa si nasconda nelle stanze, si può ora cominciare a intuire: Mnemosine, la memoria. E non è un caso che a dar voce – le prime voci – alla memoria sepolta sia il convito, consumato alla presenza dei due infanti e di una musica dolce:

e sedendosi stanco a una tavola, vide che mani invisibili stendevano là tovaglie di fiandra portavano piatti pieni di questo e di quello, tanto che mangiò e bevve veramente da re, servito da quei bei ragazzi e mai si interruppe, finché rimase a tavola, una musica di colascioni e tamburelli che gli penetrò fino alle ossicine dei piedi (p. 87).

Il re è solo nella stanza, con la propria memoria – alimentata dalla musi-ca e dalla presenza dei due fanciulli. Infatti, gli altri cortigiani siedono « a cento altre tavole apparecchiate nelle altre stanze »; altre tavole, dunque, per i cortigiani e, soprattutto, altre stanze. Di poi, per il re, come per gli altri, il sonno della notte, ristoratore, varrà ad accarezzare con nuova dolcezza la memoria. E trascorre pertanto il tempo in cui le tenebre do-vranno finalmente cedere il luogo alla luce, ovvero alla ripresa della pa-rola e del linguaggio dei « nomi ». Infatti, « venuta la mattina, e volendo ripartire, il re voleva portare con lui i due bambini; ma apparve Vastolla con il marito e gettatasi ai suoi piedi gli chiese perdono, raccontandogli tutte le sue fortune » (p. 89). L’autentica felicità potrà dunque realizzarsi non già nel bellissimo palazzo di Peruonto e Vastolla, ma nell’altra casa: ovvero la casa di sempre, quella dei padri.

Avevamo detto all’inizio, a proposito della figura dello stolto, ovvero di colui che compie azioni almeno all’apparenza prive di senso, che nel-le fiabe di Basile l’idiota, nel significato appunto di un emblema del non-sense, riguadagna simpatia in risposta all’intellettualismo del secolo e alle scoperte del Nuovo Mondo: l’idiota, lo stolto è nemico della malinconia, le sue parole sembrano dettate da un oracolo, e proprio per questo egli è il custode di un’arcaica saggezza. Tuttavia, all’interno di questo clima di

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simpatia la figura basiliana dell’idiota rappresenta soprattutto l’invito ad una interpretazione letterale del mondo. Ciò non stupisce: a ben guar-dare, difatti, tutto quello che in fatto di paradossi abbiamo ereditato dal-la tradizione deriva da azioni “letterali” di insensati. faceva notare Thompson a titolo esemplificativo che l’espressione « cercare un ago in un pagliaio » nasce da una fiaba in cui appunto un idiota tentava questa difficile operazione.25

In Basile, un corrispettivo dello stolto nel senso, si è detto, di perso-naggio che interpreta alla lettera la realtà che gli si para dinanzi, e per conseguenza reagisce alla lettera, è rappresentato da Vardiello, protago-nista del quarto ‘cunto’ della prima giornata de Lo cunto de li cunti. Già la descrizione fornita in apertura del racconto introduce efficacemente la tipologia di personaggio: inspiegabilmente figlio di « Grannonia d’Apra-no », donna « di molto giudizio », Vardiello è invece « il piú sciagurato semplicione di quel paese ». La mamma, i cui occhi, come quelli di tutte le mamme « sono incantati e stravedono, aveva per lui un amore profon-dissimo e se lo covava e lisciava continuamente come se fosse la creatu-ra piú bella del mondo ». Anche in questo caso prevale il topos dell’amo-re materno, orbo rispetto ai difetti del figlio stolto, e dei suoi comporta-menti insensati: il percorso che nel racconto porterà al momento cen-trale, che a sua volta rappresenterà l’occasione per Vardiello di ricavare dal suo destino di stolto e fautore di gesti insensati un qualche vantaggio, sarà costellato di « brutte disgrazie », che come gli anelli di una catena andranno, nello spazio di una breve narrazione, a saldarsi, dando luogo a un quadro di disastri domestici. Interpretando alla lettera le racco-mandazioni di sua madre, uscita di casa per sbrigare delle faccende, Var-diello si appresterà difatti a ricacciare la chioccia nella sua camera; se-nonché

la chioccia non muoveva una zampa e Vardiello, vedendo che la gallina faceva l’asino, dopo lo sciò sciò si mise a sbattere i piedi, dopo lo sbattere i piedi a gettare il cappello, dopo il cappello le lanciò un matterello, che, cogliendola in pieno, le fece tirare le cuoia e allungarle i piedi (p. 97).

25. Si veda S. Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, Milano, Il Saggiatore, 1979 (ed. orig. 1946).

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Ancor peggiori saranno, paradossalmente, i risultati del tentativo di Vardiello di rimediare al danno compiuto: per salvare le uova, private del calore della mamma chioccia, Vardiello « calate le braghe, si sedette subito sulla cova ma, andando giú di colpo, ne fece una frittata »; per non perdere l’affetto di sua madre di fronte a queste due « disgrazie » decide di nascondere la chioccia scegliendo il piú idoneo dei sistemi: cuocendo-la allo spiedo per mangiarla. In questo caso si ha quasi l’impressione che Vardiello debba riuscire nell’impresa: infilata la chioccia in uno spiedo, e fattala cuocere, gli riesce addirittura di apparecchiare la tavola; ma quan-do, volendo spillare un boccale di vino per accompagnare il pasto, egli si alza dal desco, ecco che le « disgrazie » della realtà tornano a incom-bere:

sul piú bello della mescita, sentí un rumore, un fracasso, una rovina per la casa […]: per questo tutto spaventato, girati gli occhi, vide che un gattone aveva arraf-fato la chioccia con tutto lo spiedo. […] Vardiello per rimediare a questo danno si lanciò come un leone scatenato addosso alla gatta e per la fretta lasciò stappato il barilotto e, dopo aver fatto a acchiappami per tutti gli angoli della casa, recuperò la gallina ma il barilotto s’era vuotato (p. 99).

Al ritorno dalle sue commissioni, insomma, la madre di Vardiello trove-rà realizzate tutte le « disgrazie » che con i suoi consigli si era proposta di evitare: consigli che, interpretati alla lettera dal figlio, avevano finito per perdere il loro significato, divenendo, forse, essi stessi insensati di fronte ai comportamenti esattamente opposti di Vardiello. Ma sentite tutte le disgrazie, sempre animata da inestinguibile amore materno, Grannonia « ebbe da fare e da dire per togliere dalla testa di Vardiello [il suo] umore malinconico ». Ed è per porre rimedio all’umore melanconico del figlio che Grannonia gli affida un incarico che, date le fattezze del personag-gio, non sembra esagerato definire di responsabilità: « datogli un bel pez-zo di tela, gli disse di andarlo a vendere, avvertendolo di non trattare quest’affare con persone di troppe parole ».

Ci si aspetterebbe, forse, che il comportamento di Vardiello subisca una decisiva inversione di tendenza, come in una sorta di miracolo det-tato dalla responsabilità: ma questo non accade. Vardiello, difatti, si com-porterà esattamente alla stessa maniera, nella chiave di una interpreta-

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zione letterale delle raccomandazioni ricevute: ma in questo caso la sua “stoltezza”, il non tradurre il suo “senso” (inteso come ‘sentire’) in buon-senso, ovvero in duttilità rispetto alle circostanze, sarà la fonte di una inaspettata fortuna per sua madre. Uscito di casa per andare a compiere la sua missione, « gridando per la città di Napoli […] “tela, tela!” […], a quanti gli chiedevano “Che tela è questa?”, lui rispondeva “non fai per me, parli troppo” ». Il percorso di Vardiello continua in questi termini finché, scorta nel cortile di una casa disabitata una statua, le si rivolse con una domanda; e vedendo che questa non rispondeva

gli sembrò un uomo di poche parole e aggiunse « Vuoi comprarti questa tela, ti faccio un buon prezzo? ». E vedendo che la statua continuava a tacere, disse « Pa-rola mia, ho trovato quello che cercavo! Prenditela e falla esaminare e dammene quel che vuoi, domani torno per i denari » (p. 101).

Nell’assurdità, nel nonsense di questa scena costruita ad arte da Basile per il suo personaggio sarà, si è detto, la scoperta di una fortuna inaspettata: tornato al giardino il giorno seguente, egli interrogherà la statua per chiederle se fosse disposta a dargli « quei quattro soldini » per il « bel tocco di tela » ricevuto,

vedendo che la statua restava muta, afferrò un sasso e glielo scagliò con tutta la forza […] tanto che gli ruppe una vena, e fu la salvezza per casa sua, perché, crollati quattro pietrosi, scoprí una pentola piena di monete d’oro, che afferrò a due mani e corse a rompicollo verso casa gridando: « Mamma, mamma, quanti lupini rossi, ma quanti, ma quanti! » (p. 103).

Il dovere della madre, però resta pur sempre quello di proteggere il figlio dai suoi comportamenti senza senso che, ella sa per certo, non sono scomparsi di certo all’apparire delle monete d’oro: dunque ella inventa per il figlio un passatempo parimenti stolto, insensato, che allontani da lui il desiderio e la possibilità concreta di raccontare l’accaduto a quanti avesse incontrato. E dunque, fattolo sedere sull’uscio di casa ad aspettare il lattaio, la mamma « fece grandinare per piú di mezz’ora dalla finestra piú di sei rotoli di uva passa e fichi secchi »; e Vardiello, fedele a se stesso, « li raccoglieva e strillava: “Mamma, mamma, tira fuori catini, metti ti-nozze, prepara secchi, perché se dura questa pioggia diventiamo ricchi”.

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E quando se ne fu ben riempita la pancia, se ne andò di sopra a dor-mire ».

Il successo dell’espediente di Grannonia sembra quasi scoraggiare ogni speranza, per il lettore, di assistere ad una redenzione di Vardiello: senonché il quotidiano, l’abitudinario, spesso considerati innocui pro-prio perché tali, altrettanto spesso forniscono all’insensato occasione di sfuggire alla razionalità dell’abitudine. Ed ecco che un giorno Vardiello, assistendo ad un litigio tra due operai « che si disputavano una moneta d’oro trovata per terra », si lascia sfuggire – ma non avendo affatto sento-re che si tratti di una pericolosa “fuga” – un’affermazione rivelatrice del-la sua avventura: « Che asinacci siete a litigare per un lupino rosso come questo, io non ne tengo conto, perché ne ho trovato una pentola piena piena » (p. 103). A nulla, pare, sono valsi i “sensati” espedienti escogitati dalla madre saggia per scongiurare il comportamento insensato di Var-diello: il quale è chiamato a rispondere davanti alla Corte del ritrova-mento di un simile tesoro. Ma qui, complice anche certa giustizia terre-na, si realizza, se vogliamo, la redenzione dello stolto: Vardiello, letteral-mente interrogato dai giudici, alla lettera risponde di aver trovato le monete « in un palazzo, dentro un uomo muto, quando c’è stata quella pioggia di uva passa e fichi secchi ». Significativa della finale (anche se, forse, solo parziale) redenzione di Vardiello è la conclusione del raccon-to: il giudice incaricato di appurare l’accaduto,

sentendo questo salto di nota a vuoto, subodorò l’affare e ordinò che fosse inter-nato in un ospedale, che era il giudice competente. Cosí l’ignoranza del figlio fece ricca la mamma e il giudizio della mamma pose rimedio all’asinaggine del figlio (p. 105).

La risposta di Vardiello espone senza dubbio la verità, ma enunciata letteralmente: lo sciocco, e dunque il nonsense che sta alla base del suo essere, non solo interpreta alla lettera ciò che gli si dice, ma dice anche letteralmente ciò che gli accade. Nel suo racconto letterale, noi ricono-sciamo il progetto di una lingua impossibile, opposta alle menzogne me-taforiche e agli eufemismi della lingua cortigiana. Ha rilevato uno stu-dioso che il vero prosecutore dell’opera basiliana, Carlo Gozzi, non si stancherà di invocare un ritorno alla « purità del nostro letterale linguag-

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gio ». L’idiota diviene cosí il precedente immediato del mito del buon selvaggio, ed inoltre, ristabilendo, in un certo senso, la sincerità dei rap-porti dell’uomo col mondo circostante, si rivela figura – in un senso simmetricamente rovesciato, e tuttavia al passo con il personaggio senza nome del saggiatore galileiano al passo con i paradigmi della nuova scien-za alle origini dell’età moderna.

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Giuseppe Crimi

Un cASo dI PoESIA nonSEnSIcA SEcEntEScA: I SonEttI dEllA bUgIA

dI fRAncESco MoISE chERSIno

La mappa del nonsense in àmbito peninsulare soffre ancora di molte lacune. È quasi superfluo ricordare che, dalla seconda metà del Quattro-cento fino a tutto l’Ottocento, misurarsi con la poesia dell’assurdo signi-ficava fare i conti inevitabilmente con il Burchiello o con chi con tale soprannome si era firmato. Va considerato un fatto innegabile, ossia che la poesia nonsensica post-burchiellesca si origina e si sviluppa anche in base al grado di ricezione dei versi del fortunato caposcuola. È sintoma-tico un caso, quello – quasi metaletterario – della coda di un sonetto che invita a una disperante ricerca: « Chi cercasse con pena / per ritrovare il capo d’un gomitolo, / legga nel terzo Ovidio sine titolo ».1 A lungo, pro-babilmente, questi versi hanno parlato solo di riferimenti irreali.2 Ora è interessante notare come almeno il « sine titolo » in questione corrisponda ad un’opera davvero esistente, ovvero agli Amores ovidiani: lo ricordava Vittore Branca, riproponendo un passo delle esposizioni del Boccaccio:

compose [Ovidio] uno [libro], partito in tre, il quale alcun chiamano Liber amo-rum, altri il chiamano sine titulo: e può l’un titolo e l’altro avere, per ciò che d’al-cuna altra cosa non parla che di suoi innamoramenti […]; e puossi dire simile-mente sine titulo, per ciò che d’alcuna materia continuata, dalla quale si possa intitolare, favella, ma alquanti versi d’una e alquanti d’un’altra, e cosí possiam dire di pezi, dicendo, procede (iv litt. 119).3

1. Si trae la citazione da I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Torino, Einau-di, 2004, cxlvi 15-17, p. 206 (= sB); cfr. il commento ad locum.

2. Sul passo si veda L. Spagnolo, rec. a I sonetti del Burchiello, cit., in « La lingua italiana », ii 2006, p. 162 n. 3. Raffaele Nigro parafrasa: « Legga nel terzo libro di un’opera di Ovidio che qui non nomino » (in Burchiello e burleschi, a cura di R. Nigro, Roma, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 2002, p. 205). Cfr. pure D. De Robertis, Una proposta per Burchiello (1968), in Id., Carte d’identità, Milano, Il Saggiatore, 1974, p. 122.

3. Passo citato in G. Boccaccio, Decameron, nuova ed. a cura di V. Branca, 2 voll., Torino, Einaudi, 1992, iv Intr. 3 (vol. i p. 460 n. 1). Si veda anche M. Picone, L’invenzione della novella italiana. Tradizione e innovazione, in La novella italiana. Atti del Convegno di

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Un senso, quindi, all’interno del nonsenso. Questo piccolo esempio appare istruttivo, perché, in modo analogo, un poeta deciso a seguire la musa comica, adottando come referente un testo “alla burchia”, gene-ralmente spacciato come privo di ragione, nell’atto della scrittura scim-miesca non faceva che riprodurre e moltiplicare ciò che del testo – epi-dermicamente – aveva compreso, depauperando nella maggior parte dei casi l’operazione iniziale.4 Nel 1952 Michele Messina, nel tentativo primordiale di fornire un profilo sintetico della fortuna del barbitonso-re di Calimala e della poesia burchiellesca in genere, precisò in modo lapidario che nel « Seicento poche notizie si possono spigolare sul Bur-chiello; assai scarsa è la sua for tuna in questo secolo ‘spagnolescamente grave e cattolicamente ombroso’ ».5 Tuttavia, a proposito degli imitatori secenteschi Messina additava autori come francesco Ruspoli,6 Pier

Caprarola, 19-24 settembre 1988, Roma, Salerno Editrice, 1989, to. i pp. 119-54, a p. 145 e n. 23, e L. Battaglia Ricci, Boccaccio, ivi, id., 2000, p. 149. Per il passo burchiellesco proporrei, quindi, di stampare sine con la maiuscola iniziale.

4. A questo proposito cfr. il caso riportato da M. Zaccarello, An unknown episode of Burchiello’s Reception in the early Cinquecento: Florence, Biblioteca Riccardiana, Ms 2725, fols 80r-131v, in « The Modern Language Review », 100 2005, p. 93, per i versi della coda di un so-netto tratto dal ms. Ricc. 2725 (xxxi 15-17), « Leggi nel nono Statio / et troverrai come ’l sole inacquato / non può mai rasciughar bene un buchato », i quali, secondo lo studioso, si ispirerebbero proprio alla coda succitata. Una riscrittura quasi automatica si legge anche in Domenico di Giovanni detto il Burchiello, sonetti inediti, raccolti ed ordinati da M. Messina, firenze, Olschki, 1952, xxxiii 15-17, p. 33: « Et ego dixi sibi: / “Va’, leggi Prisciano al zero foglio, / troverai che lucerne vivon d’oglio” ». Diverso è il caso di Alfonso de’ Pazzi, che scrive in uno stile burchiellesco personale al quale si può attribuire un significa-to piú chiaro anche in virtú dei suggerimenti lasciati dallo stesso autore: si veda G. Masi, Politica, arte e religione nella poesia dell’etrusco (Alfonso de’ Pazzi), in Autorità, modelli e antimodel-li nella cultura artistica e letteraria tra Riforma e Controriforma. Atti del Seminario internaziona-le di Urbino-Sassocorvaro, 9-11 novembre 2006, a cura di A. Corsaro, H. Hendrix e P. Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2007, pp. 301-58.

5. M. Messina, Introduzione a Burchiello, sonetti inediti, cit., p. 33. Le conclusioni sono condivise da R. Nigro, Introduzione a Burchiello e burleschi, cit., p. xxxi.

6. Nella produzione del Ruspoli esaminata sono assenti testi nonsensici (cfr. f. Ruspo­li, sonetti, editi ed inediti col commento di A. Cavalcanti non mai fin qui stampato, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 19682, e Id., Poesie, commentate da S. Rossel­li con altre edite ed inedite per cura di C. Arlía, Livorno, Vigo, 1882); di intonazione oscena i versi selezionati nell’opuscolo otto sonetti inediti di Francesco Ruspoli in aggiunta alle sue poesie, s.i.t. [ma forse Livorno, Vigo, 1882]; cfr. C. Chiodo, Le rime burlesche di Francesco

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i sonetti della bugia di francesco moise chersino

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Salvetti,7 Lorenzo Panciatichi,8 francesco Moneti e Anton francesco Carli.9

A osservare bene la mappa provvisoria abbozzata da Messina, il bur-chiellismo secentesco allignerebbe sopratutto in terra toscana, ma va su-bito precisato che nei succitati rimatori il nonsense latita abbondantemen-te: i loro versi sfruttano la tradizione comico-realistica, insistendo su motivi di stampo bernesco,10 ma schivano di fatto l’aspetto “alla bur-chia”. Certo, fino alla fine del Cinquecento il mito di Burchiello persiste, se si pensa alle Rime del Lomazzo, molte delle quali sono improntate sul nonsense,11 o all’esperienza di Giulio Cesare Croce, che compose anche la spalliera in grottesco alla burchiellesca (Bologna, s.e., 1597), di cui sono so-pravvissute varie ristampe.12 È un periodo di transizione, questo (esplo-

Ruspoli (1981), in Id., Il gioco verbale. studi sulla rimeria satirico-giocosa del seicento, Roma, Bul-zoni, 1990, pp. 93-114.

7. Sul Salvetti vd. M. Aglietti, Rime giocose edite e inedite di un umorista fiorentino del se-colo XVII (Pier salvetti), con note illustrative e cenni biografici e critici, firenze, Bertelli, 1904; G. Getto, Un poeta giocoso barocco (1952-1953), in Id., Barocco in prosa e in poesia, Milano, Rizzoli, 1969, pp. 201-15; C. Chiodo, Anticonformismo, misura umana e formale nelle ‘Rime giocose’ di Pier salvetti (1978), in Id., Il gioco verbale, cit., pp. 117-25; G. Ponsiglione, Tradizione e innovazione nella lirica satirico-giocosa di Pier salvetti, in « Studi secenteschi », xlvii 2006, pp. 137-49.

8. Vagamente nonsensico è il Ditirambo d’uno che per febbre deliri (si legge in L. Pancia­tichi, scritti vari, raccolti da C. Guasti, firenze, Le Monnier, 1856, pp. 73-88). Riscontri negativi per i sondaggi su Curzio da Marignolle, Rime varie, con le notizie intorno alla vita e costumi di lui, scritte da A. Cavalcanti, raccolte da C. Arlía, Bologna, presso Gae-tano Romagnoli, 1885, in partic. pp. 49-114.

9. Messina, Introduzione, cit., pp. 34-35 e n. 50.10. Si veda a questo proposito E. Russo, Marino, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp.

49-57.11. Cfr. G.P. Lomazzo, Rime ad imitazione de i grotteschi usati da’ pittori con la vita del auttore

descritta da lui stesso in rime sciolte, a cura di A. Ruffino, Manziana, Vecchiarelli, 2006. Per il secondo Cinquecento vd. D. Romei, Ironia ed irrisione, in storia letteraria d’Italia. Il Cinque-cento, a cura di G. Da Pozzo, to. iii. La letteratura tra l’eroico e il quotidiano. La nuova religione dell’utopia e della scienza, Padova-Milano, Piccin-Vallardi, 2007, pp. 1655-88.

12. Testi nonsensici sono pure assenti, per il versante tardo-cinquecentesco e per quel-lo primo-secentesco, nella rassegna dei volumi Le piú belle pagine dei poeti burleschi del sei-cento, scelte da E. Allodoli, Milano, Treves, 1925; Parnaso Italiano. Poesia del seicento, cura di C. Muscetta e P.P. Ferrante, Torino, Einaudi, vol. ii, 1964, pp. 1109-676 (sez. Lettera-tura e poesia popolaresca, giocosa e comica), e Cosí per gioco. sette secoli di poesia giocosa, parodica e

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rato poco, peraltro), in cui si fregiano del titolo di eredi della tradizione burchiellesca, in genere, i fio rentini, come Alessandro Adimari.13

Ma a parte rari casi, tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII, sem-bra che la poesia “alla burchia” dia segni manifesti di cedimento. Nel 1634, Nicola Villani, nelle Rime piacevoli, scaglia un giudizio che suona ne gativo: « E vo cantando in numeri moderni / Come soglion cantar presso a la tavola / i buffoni febei: il Burchiello e Berni ».14 Che il Seicento sia stato un secolo allergico allo stile burchiellesco in senso proprio è confermato dai versi severi di Salvator Rosa: « O febbo, o febbo, e dove sei ridotto? / Questi gli studî son d’un gran cervello? / Sono questi i pensier d’un capo dotto? / Lodar le mosche, i grilli, il ravanello / e l’altre scioccherie ch’han-no composto / il Bernia, il Mauro, il Lasca et il Borchiello? ».15

satirica, a cura di G. Davico Bonino, ivi, id., 2001. Stesso discorso per il monumentale vol. Burchiello e burleschi, cit. Carente nella sezione italiana, per il periodo in questione, anche la breve disamina divulgativa di P.P. Rinaldi, Il piccolo libro del nonsense, pref. di S. Bartez­zaghi, Milano, Vallardi, 1997. Sulla poesia giocosa secentesca un punto di partenza è la monografia di A. Asor Rosa-S.S. Nigro, I poeti giocosi dell’età barocca, Roma-Bari, Laterza, 1975. Di scarsa utilità f. Neri, Burleschi del seicento, in Id., saggi di letteratura italiana francese inglese, Napoli, Loffredo, 1936, pp. 229-35 (una sorta di recensione al vol. dell’Allodoli).

13. Si veda il sonetto « Tredici libbre di cervel d’Ulisse, / E cinque fila d’orzo in un canneto, / Un gallo, un gatto, una correggia, un peto / Profumaron la barba al Re Cam-bisse; / E un che non parlò mentre ch’ei visse, / Le pecore e l’ovil si tirò dreto, / E con un pajol d’acqua e un d’aceto / Dal cocuzzolo ai piè gli benedisse. / Levossi un grillo dal giardin d’Atlante / Dicendo: – State su, gente indiscreta, / Che s’ha correr la posta per Levante; / Ma la quistion fra l’H e fra la Z / fece con lo starnuto d’un gigante, / Ch’avan-ti al Vespro si cantò Compieta; / Allora una cometa / Nel ciel del forno minacciando danni / Disse che morrà presto il Prete Gianni » (da Antologia burchiellesca, a cura di E. Giovannetti, Roma, Colombo, 1949, p. 183). Sull’Adimari si rinvia a S. Mamone, Li due Alessandri, in La passione teatrale. Tradizioni, prospettive e spreco nel teatro italiano: otto e nove-cento. studi per Alessandro d’Amico, a cura di A. Tinterri, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 223-45; Ead., ‘Andromeda e Perseo’: Cicognini, Adimari & co. sulle scene di Accademia a Firenze, in Teatri barocchi. Tragedie, commedie, pastorali nella drammaturgia europea fra ’500 e ’600, a cura di S. Carandini, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 409-38; B. Giancarlo, Introduzione ad A. Adimari, La Polinnia […], a cura dello stesso, Terni, Thyrus, 2007, pp. 9-61.

14. Luogo ricordato da C. Chiodo, Le rime piacevoli di nicola Villani (1980), in Id., Il gioco verbale, cit., p. 215.

15. Si cita da S. Rosa, satire, a cura di D. Romei, commento di J. Manna, Milano, Mur-sia, 1995, ii 328-33, p. 80. Cfr. U. Limentani, La satira nel seicento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1961, p. 162: la satira è di poco successiva al 1642. E ancora sul Burchiello il Rosa, ai vv.

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Nella ricerca di epigoni, sia pure indegni, ci si muove quindi in un sottobosco insidioso e dissestato, certo bisognoso di altre scoperte. Un piccolo tassello utile alla mappa da disegnare può essere costituito da una raccolta di sonetti (in un periodo, si osservi, in cui si predilige il capitolo in terza rima per il versante comico) che val la pena di sottrarre all’oblio. Ne riporto innanzitutto il frontespizio:

BVGIE | capricci | fantastichi, | veri non veri, | Di diuerse fantasie. | opera piaceuole, e ridicolosa, nella qual si | raccontano varie, & infinite galanterie. | Raccolte con nuoua fatica del | chersano [segue incisione dello stampatore] | in brescia, mdcx. | Per Bartolomeo fontana. | Con licenza de’ superiori.16

Prima di esaminare l’autore con i testi, è bene premettere qualche sin-tetica annotazione sulle ragioni, piú o meno casuali, che mi hanno per-messo di conoscere questo testo.

È in corso di stampa, per mia cura, l’opera di Baldassarre da fossom-brone intitolata el Menzoniero overamente Bosa drello: si tratta di una raccol-ta di cinquantasette sonetti caudati, scritta in modo verosimile tra il 1450 e il 1470 da uno dei segretari di Ludovico Gonzaga e di Barbara di Bran-deburgo, presto caduto nel dimenticatoio.17 Il testo fu stampato, quasi

466-68 della stessa satira (p. 83), scrive alludendo al commento doniano: « La fama, in somma, è un colpo di fortuna: / Borchiello e Jacopone hanno il comento, / cotanto il mondo è regolato a luna! ».

16. In 12°, cc. 30. Registro: A-B6, C3. Esemplare consultato proveniente dalla Bibliote-ca Alessandrina di Roma, con segnatura Misc. XIV A 22 4. In Italia ne esiste un secondo esemplare, presso la Biblioteca Civica di Lodi, con segnatura Sez. iv, P. 240: cfr. Le edizioni bresciane del seicento. Catalogo cronologico delle opere stampate a Brescia e a salò, a cura di U. Spini, intr. e indici di E. Sandal, Milano, Editrice Bibliografica, 1988, p. 38 num. 164, sen-za indicazione di segnatura, recuperata grazie alla disponibilità del personale della biblio-teca laudense. L’opera veniva già segnalata in repertorî ottocenteschi: cfr. V. Lancetti, Pseudonimia […], Milano, Pirola, 1836, p. 60, ed E. Weller, Lexicon Pseudonymorum […], Regensburg, Alfred Coppenrath, 1886, p. 107. Per quanto riguarda la trascrizione, si distin-gue u da v, si sciolgono i tituli, & viene resa con et, l’h viene ricondotta all’uso moderno, si inseriscono la punteggiatura e le maiuscole ove necessarie, si impiega l’apostrofo nei plurali tronchi per distinguerli dalle omografe forme singolari. Si indicano gli interventi sul testo in apparato; si introduce la numerazione dei sonetti con le cifre romane secondo l’ordine progressivo nella stampa.

17. Per ora basti rinviare a G. Crocioni, Baldassarre da Fossombrone e il suo ‘Menzoniero’ o ‘Bosadrello’ alla corte dei Gonzaga, in « La Rinascita », xxxi 1943, pp. 224-57.

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certamente postumo, nel 1475 a ferrara dal prototipografo Severino da ferrara, grazie anche alle fatiche di felice feliciano. I sonetti che com-pongono la raccolta, in parte ispirati all’esperienza burchiellesca in parte imperniati su alcuni mirabilia medievali, rappresentano finora l’esempio piú antico e pienamente consapevole delle “poesie della bugia” nella nostra cultura letteraria.18 Ai piú questa definizione dirà ben poco,19 ma in realtà le poesie della bugia costituiscono un sottogenere poetico, certo minoritario, praticato in Germania, in Inghilterra, in francia, in Russia e persino in Turchia, almeno dal Duecento fino al Novecento, e cha ha conosciuto estese propaggini popolari. Il Bosadrello riscosse una rapida fortuna nel Cinquecento sotto il titolo di Bugiardello o Busardello – come opuscolo anonimo, mutilo di due sonetti, e con funzione ludica – al punto che ho potuto accertare la presenza di almeno tre diverse impres-sioni (una quarta fu segnalata da Carlo Enrico Rava, ricomparsa di recen-te nel mercato antiquario).20 Nella recensio delle stampe, ho esteso la ri-cerca a tutte le opere che contenessero nel titolo la parola “bugia” o ter-mini affini, e cosí mi sono imbattuto nel le Bugie, che, alla lettura, hanno svelato una singolare sorpresa: dei centodieci sonetti caudati ospitati nel volumetto, la metà esatta è stata prelevata da una delle edizioni del Bu-giardello, ma, ovviamente, senza dichiarazione del plagio (in taluni casi l’autore – piú o meno maldestramente – si è perfino preoccupato di ca-

18. Le prime ricerche sul genere furono condotte da G. Giannini, Canzoni alla rovescia, in « Rassegna nazionale », s. ii, a. xxxviii 1916, pp. 36-54, a cui fecero séguito le esplorazio-ni di G. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, pres. di P. Camporesi, Torino, Boringhieri, 19812, pp. 164-74 per il versante italiano e pp. 175-86 per quello europeo; si veda anche il piú recente C. Lapucci, Il libro delle filastrocche, Milano, Garzanti-Vallardi, 1987, pp. 125-55. Un paio di esempi del genere sono riportati da P. Micheli, Letteratura che non ha senso, Livorno, Giusti, 1900, p. 62 e n. 1.

19. Cfr. C. Müller-Fraureuth Die deutschen Lügendichtungen bis auf Münchhausen, Hil-desheim, Olms, 1965 (reprint dell’ed. Halle, Niemeyer, 1881). Abbiamo esempi in abbon-danza delle poesie della bugia anche nella letteratura inglese, come testimonia l’ottimo lavoro di N. Malcolm, The origins of english nonsense, London, fontana Press, 1997: per un panorama europeo delle origini si veda ivi, pp. 53-61. Un canto della bugia inglese, adespoto e risalente al XV secolo, è stato tradotto da Cocchiara, Il mondo alla rovescia, cit., p. 134.

20. Ho affrontato le questioni intorno al Bosadrello e alla sua fortuna nell’introduzione e nella nota al testo dell’edizione, alle quali rimando.

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muffare l’incipit). Gli altri cinquantacinque testi, che si presume siano farina del sacco del Chersino, saranno editi in una delle appendici al Bosadrello: in questa sede ci si limiterà, in modo cursorio, a rilevare i mo-tivi ricorrenti, soffermandosi sui testi piú emblematici della raccolta.

In primo luogo, appare assai preziosa la testimonianza di una produ-zione comica volgare a Brescia (perdipiú nonsensica) e a quest’altezza cronologica, vista la scarsità del materiale finora disseppellito da biblio-teche e archivi.21 Ma faccio un passo indietro per cercare di aggiungere qualche minimo dettaglio biografico sull’autore, sul quale certamente l’archivio potrebbe essere piú generoso. Nella dedica dell’opuscolo, che si legge ai ff. 2a-2b, il versificatore dichiara per esteso il suo nome, fran-cesco Moise Chersino: la specificazione « Chersino » (ma « Chersano » nel frontespizio) rinvia senza difficoltà alla famiglia dei Moise di Cherso d’Istria.22 Dopo una breve ricognizione, tra i titoli secenteschi ho rinve-nuto l’opera di un sospetto francesco Moise, ossia Le rose d’amore spiegate da diversi illustri ingegni (Vicenza, Brescia, 1614):23 si tratta di un’antologia

21. Per la poesia a Brescia nel Cinquecento si rimanda a storia di Brescia. vol. ii. La domi-nazione veneta (1426-1575), Brescia, Morcelliana, 1963, pp. 513-27 e 571-95; mentre per il Seicento cfr. ivi, vol. iii. La dominazione veneta (1576-1797), ivi, id., 1964, pp. 223-29, dove si segnala la presenza del poeta scherzoso Martino Aldigeri. Alcuni testi secenteschi in dialetto bresciano sono stati antologizzati nel vol. nuova antologia del dialetto bresciano, a cura di A. Fappani e T. Gatti, pres. di G. Valzelli, Brescia, La Voce del Popolo, 1978, pp. 49-66. Tra le opere a carattere popolare stampate a Brescia nel Cinquecento si segnalano el Costume delle donne (Damiano e Giacomo filippo Turlini, 1536), il Contrasto de Lacqua e del Vino (ivi, s.a.) e la Frottula noua tu nandare col bocalon (ivi, s.a.): per la descrizione vd. C. Angeleri, Bibliografia delle stampe popolari a carattere profano dei secoli XVI e XVII conservate nella Biblioteca nazionale di Firenze, firenze, Sansoni Antiquariato, 1953, numm. 12, 7 e 165. Su altre stampe a carattere comico si veda E. Sandal, La stampa a Brescia nel Cinquecento. notizie storiche e annali tipografici (1501-1553), Baden-Baden, Koerner, 1999, passim. Opere, sempre impresse a Brescia e di impronta comica, vicine cronologicamente alle Bugie del Chersino sono G.C. Croce, operetta bellissima doue s’intende alquante stantie ridiculose. Con la tramutatione di quelle, & ogni cosa fatta per ridere, s.i.t. (ma forse la data è intorno al 1575), e Poncino Dalla Torre, Le piacevoli, e ridicvlose facetie […], Brescia, Policreto Turlini, 1599.

22. La Piccola enciclopedia Giuliana e Dalmata, diretta da S. Cella, Gorizia, L’Arena di Pola, 1962, p. 133, definisce quella dei Moise « antica famiglia chersina del corpo nobile cittadino » (vi sono riferimenti anche al nostro autore). fuori strada, invece, Vincenzo Lancetti, che considerava il nome uno pseudonimo (Lancetti, Pseudonimia, cit., p. 60).

23. Il frontespizio recita: « LE ROSE | D’AMORE | SPIEGATE DA DIVERSI | ILLVSTRI

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di poesie amorose di vari autori, che ha conosciuto una seconda ristampa (Vicenza, Grossi, 1615).24 Anche se in questo caso nel frontespizio non si specifica l’origine del curatore, è egli stesso che si premura di palesarla, ancora una volta nella lettera di dedica (a p. 3), quando scrive:

Alli molto Illustri sig. giovani gentil’huomini chersani. L’esser’io nato in una Patria medesima insieme con voi, mi mette in obligo di vera affezzione, accom-pagnata da un vivo desiderio d’honorarvi in ogni occasione nel miglior modo ch’io posso.

A ciò si aggiunga che, a p. 5, la lettera si conclude con l’indicazione: « Da Brescia il i. di Genaro 1614. Il vostro compatrioto francesco Moise ». Quindi francesco Moise scrive da Brescia, luogo in cui era stato dato alle stampe il nostro opuscolo sulle bugie (credo che si possa pacifica-mente ritenere che si tratti dello stesso autore). E specifica il suo nome da accademico spalancato, ossia l’Allegro;25 nella succitata ristampa del 1615 il Moise – che questa volta dedica l’opera, oltre che ai gentiluomini di Cherso, alla nobile vicentina fulvia Zuffati –26 figura come apparte-

INGEGNI | In grado della Gioventú Virtuosa. | Raccolte con nobil pensiero | DA fRANCE-SCO MOISE. | Nell’Academia de’ Spalancati | L’ALLEGRO. | Con licenza de’ superiori [segue fregio] | IN VICENZA, | PER IL BRESCIA. | MDCXIV », pp. 116 (esemplare della Bibliote-ca Alessandrina di Roma, segnatura Misc. XIV a 46 3). Una diversa impressione (per via del frontespizio lievemente differente e per il numero complessivo delle pagine, ossia 120) è quella conservata nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna con segnatura 16 B VII 10 (6) e descritta in f. Giambonini, Bibliografia delle opere a stampa di Giambattista Marino, 2 voll., firenze, Olschki, 2000, vol. i pp. 343-44 (num. 296).

24. Si veda ivi, vol. i pp. 344-47 (num. 297; provenienza: Venezia, Biblioteca Marciana, segnatura 202 c 158). Aggiungo che un esemplare dell’edizione del 1614 e un altro del 1615 sono conservati nelle biblioteche d’oltralpe: cfr. S.P. e P.H. Michel, Répertoire des ouvra-ges imprimés en langue italienne au XVIIe siècle conservés dans les bibliothèques de France, vol. v, Paris, Editions du Centre National de la Recherche Scientifique, 1975, p. 184.

25. L’Accademia degli Spalancati è ignota al regesto di M. Maylender, storia delle Ac-cademie d’Italia, 5 voll., Bologna, Cappelli, 1928-1930, vol. v, né viene ricordata tra quelle bresciane della seconda metà del Cinquecento e dei primi del Seicento (cfr. storia di Bre-scia, cit., vol. ii pp. 508-12 e vol. iii pp. 213-16).

26. Trovo menzionata la Zuffati – sempre ammesso che si tratti della stessa persona – nell’opuscolo Per lo inestimabile, et inimitabile lavoro di esquisitissimo ricamo opera delle virtuosis-sime signore madri Fulvia Zuffati, et Diamante Viola professe in s. Dominico di Vicenza. Idillio d’anonimo a instanza di A. sperindio, In Verona, per Gio. Battista, & fratelli Merli, 1653

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nente all’Academia de’ Capricciosi con il nome emblematico di fanta-stico: si ricordi che il titolo dell’opuscolo qui esaminato contiene il sin-tagma « capricci fantastichi ».27

Il Chersino lasciò anche un prontuario di epistolografia amorosa: la stampa piú antica di cui finora si ha notizia è quella indicata da Maria C. Napoli (che però, forse per una mala lettura, indica l’autore con il nome di « Moise’ Cherbino »): Amori di Fileno. Lettere scritte a Rosalba [1638 ca.].28

(esemplare conservato presso la Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, segnatura Gonz 296 018: ringrazio il personale della biblioteca per l’indicazione).

27. Il termine « capricci » già spiccava nel frontespizio del Dono, ouer presente di varii, e diuersi capricci bizzarri, mandato da vn humor fantastico di fiera alla sua dama; con il disegno d’vna spalliera in grottesco alla burchiellesca. et un sonetto molto curioso nel fine; Di Giulio Cesare dalla Croce, In Bologna, presso gli heredi di Gio. Rossi, 1597 (Bologna, Biblioteca dell’Archigin-nasio, segnatura A V G IX 1, op. 400) e in quello dei Capriccii, et nuove fantasie Alla Venetiana, Di Pantalon de’ Bisognosi […] (Venezia, Biblioteca Marciana, Misc. 2402 5; descrizione di questo opuscolo in A. Segarizzi, Bibliografia delle stampe popolari della R. Biblioteca naziona-le di s. Marco di Venezia, vol. i [unico pubblicato], Bergamo, Ist. Italiano d’Arti Grafiche, 1913, pp. 290-96): si noti, peraltro, l’aggettivo « fantastico » nel primo opuscolo e il sostan-tivo « fantasie » nel secondo. Per l’uso di “fantastico” va menzionata anche la quasi coeva fANTASTICA | VISIONE | Di Parri da Pozzolatico, moderno| in Piandigiullari. [se-gue fregio] | IN LUCCA, | mdc. xiii. | Con Licenza de superiori (opera di Alessandro Allegri). È altrettanto vero, come nota Silvia Longhi, che “capricci” e “fantasie” sono lemmi che contraddistinguono anche la poesia burlesca primo-cinquecentesca (cfr. S. Longhi, La poesia burlesca, satirica, didascalica. i. Il Cinquecento, in Manuale di letteratura italiana. storia per generi e problemi, a cura di f. Brioschi e C. Di Girolamo, vol. ii. Dal Cinquecento alla metà del settecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 296). Per quanto riguarda l’Academia de’ Capricciosi, invece, in Maylender, storia delle Accademie d’Italia, cit., vol. i p. 502, con que-sto nome sono ricordate quattro accademie (Cartoceto, Crispino, Pisa, Viterbo), ma sono attive soprattutto nel tardo Seicento e quindi incompatibili con il nostro caso. Un Bizzar-ro Accademico Capriccioso è invece operante a Roma negli anni 1620-1621 (cfr. Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, diretto da A. Basso, Le Biografie, vol. i, Tori-no, Utet, 1985, p. 545).

28. « La data si presume dalla richiesta di permesso di stampa (20 giugno 1637) e dalla presenza negli elenchi Ginammi del 1640 » (M.C. Napoli, L’impresa del libro nell’Italia del seicento. La bottega di Marco Ginammi, Napoli, Guida, 1900, p. 100, e vd. anche p. 144). Con il titolo Amori di Fileno scritti a Rosalba abbiamo una ristampa a Verona nel 1670 e una a Venezia remondini, 1680 circa (ma ne viene indicata anche una terza a Venetia, D. Lovisa, s.d.): si tratta di un opuscolo che viene registrato in alcuni cataloghi ottocenteschi e che però non sono riuscito fisicamente a recuperare. Ne esiste una ristampa settecentesca (francesco Moise Chersino, Amori di Fileno scritti a Rosalba in lettere amorose, aggiuntovi di nuovo Le lettere amorose famigliari dell’Iretrefio, ed altre da vari autori, Milano, frigerio, Allievo

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E allo stesso autore dovrebbe essere imputata la scielta di varie sorti d’ottaue amorose, bellissime, in lingua Ceciliana, & Madrigali. Cosi raccolte per il Chersino, Brescia, per francesco Comincini, 1628.29

Possiamo fornire informazioni supplementari su francesco Moise poeta: alcuni suoi versi in latino vengono inclusi nella terza edizione de Lo stato rustico di Gian Vincenzo Imperiali (Venezia, Evangelista Deuchi-no, 1613),30 nella quale il poema era accompagnato da omaggi in versi al-l’Imperiali, offerti da poeti contemporanei.31 Un autore, quindi, il nostro,

del Gagliardi & Nava, 1732: cfr. G. Marchiesi, Romanzieri e romanzi del settecento […], Manziana, Vecchiarelli, 1991 [rist. anast. ed. 1903], p. 374). È probabile che alcune delle lettere siano state ristampate ne Il segretario all’uso moderno, nel quale vi sono le formole di ogni genere di lettere, col modo di spedire patenti per gli officiali, e governatori di diverse parti. Aggiuntavi un’annotazione a Tommaso Costo da Giacinto Granozio Amadeo. Con nuova aggiunta. Di lettere amorose del Clinica, del Gabrieli, e del Chersino, In Venezia, s.e., 1752, con una ristampa l’anno seguente e una terza ed. Napoli, Migliaccio, 1762. Altre due edizioni ottocentesche (1864 e 1873) sono registrate da G. Giannini, La poesia popolare a stampa nel secolo XIX, con pref. di L. Sorrento, 2 voll., Udine, Ist. delle edizioni accademiche, 1938, vol. ii pp. 645-46, alle quali aggiungo un’edizione del 1800 ca. (Milano, gli eredi di G. Agnelli), di cui si co-noscono due esemplari (British Library, General Reference Collection, 10910 b 14, e Bi-bliothèque Nationale de france, Tolbiac-Rez de Jardin-Magasin 16 Z 8360) e un’altra del 1845 (Parma, ferrari). Si rivela preziosa la notizia offerta da Giuseppe Vidossi nel recen-sire proprio il volume di Giannini: « Sospetto poi (ma forse il sospetto è infondato) che in francesco Mosè Chersino, Chersino sia indicazione della patria, Cherso d’Istria, dove esiste un casato Moise, reso noto dall’abate Giovanni, autore d’un’ottima grammatica italiana » (G. Vidossi, in « Giornale storico della letteratura italiana », cxiv 1939, p. 228). L’anonimo curatore di un elenco di libri in vendita (Curiosa […], Catalogo Secondo, fi-renze, Sansoni Antiquariato, 1949, p. 66 num. 217), nel presentare il vol. Amori di Fileno scritti a Rosalba, identificava l’autore con lo stesso delle Rose d’amore. Gli Amori sono men-zionati nel romanzo Il naufragio felice allo scoglio del Disinganno (1780 ca.), come segnala G. Alfieri, La lingua del consumo, in storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifo­ne, vol. ii. scritto e parlato, Torino, Einaudi, 1994, p. 181 e n. 33.

29. Ne ho notizia dal Catalogue of seventeenth Century Italian Books in the British Library, vol. i: A-L, London, The British Library, 19903, p. 222: la segnatura è 1071 g 16 (i).

30. Descrizione in Giambonini, Bibliografia, cit., vol. i pp. 325-28 (num. 292); la sezione contenente le rime di francesco Moise è indicata a p. 327. Gli incipit dei testi sono i se-guenti: Rustica Vincenti, dum pangis commoda tecum; Dum Rus Musa probat, dum ciues crimine tangit; Rusticus agresti proscindit vomere terram; Italides Muse, nam et vos iam munere diuum; Ite tryumphales circum sacra tempora lauri, e o ego quàm tecum, Vincenti, Heliconis in hortos.

31. Cfr. A. Belloni, Il seicento, Milano, Vallardi, 19293, p. 238 n. 42; C. Colombo, Cul-tura e tradizione nell’ ‘Adone’ di G.B. Marino, Padova, Antenore, 1967, p. 68; O. Besomi, Ricer-

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non proprio isolato, e che nei primi decenni del Seicento si adoperò nella divulgazione di opere altrui soprattutto con fini didattici.

Torniamo di nuovo all’opuscolo sulle bugie. Per ricostruire il contesto culturale nel quale i sonetti vengono scritti, qualche altra notizia si può strappare alla lettera di dedica. Ai ff. 2a-2b si legge:

Al favoloso Mausoleo di Zan Tabarino.

Queste pompose et autentiche bugie, capricci straordinari, veri, non veri, inpropriamente proportionati a chiunque fabrica castelli in aria francesco Moi-se Chersino perpetuamente annoda et inchioda senza aver pensiero d’altro che della verità.

Una dedica asciutta ma eloquente: lo Zan Tabarino in questione era al secolo Giovanni Tabarin, un celebre attore fiorito nella seconda metà del Cinquecento, il quale interpretò spesso il ruolo di Zanni.32 Ora nel son. lxxxv 13 della raccolta è citato il Ganassa, ossia Alberto Ganassa, altro celebre attore, anch’egli interprete del ruolo di Zanni.33 Il contesto, quin-di, sembrerebbe ricondurre, almeno parzialmente, alla Compagnia dei Gelosi, attiva all’incirca tra il 1574 e il 1604.34

Come anticipato, i versi di francesco Moise si inscrivono nel filone delle “poesie della bugia”. Il punto di riferimento è il Bugiardello, dal qua-

che intorno alla ‘Lira’ di G.B. Marino, ivi, id., 1969, pp. 190-91; E. Russo, Imperiale Gian Vin-cenzo, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Ist. della Enciclopedia Italiana, vol. lxii 2004, p. 298.

32. Sul personaggio si veda O.G. Schindler, Zan Tabarino, “spielmann des Kaisers”. Ita-lienische Komödianten des Cinquecento zwischen den Höfen von Wien und Paris. Mit 10 Abbildun-gen, in « Romische historische Mitteilungen », 23 2001, pp. 411-544. Si ricordi che a Brescia era stato ristampato nel 1582 l’opuscolo di Giulio Cesare Croce l’opera noua nella quale si contiene il maridazzo della bella Brunettina. sorella de Zan Tabarí canaia de Val Pelosa. et vna vi-lanella in dialogo napolitana, con vn sonetto sopra l’agio, cosa molto diletteuole, degna da esser letta da ogni spirito gentile.

33. Cfr. « Pisciava allor la zana nella secchia, / per far al mio Ganassa un pastolato / da farlo andar tre anni a la galia » (lxxxv 12-14). Si veda L. Rasi, I comici italiani. Biografia, biblio-grafia, iconografia, 3 voll., Firenze, Bocca, 1897, vol. i pp. 979-81; per i rapporti tra il Tabarino e il Ganassa cfr. Schindler, Zan Tabarino, cit., pp. 462-70.

34. Sulla compagnia si veda A. D’Ancona, origini del teatro italiano […], 2 voll., Roma, Bardi, 1966 (ed. anast. dell’ed. Torino, Loescher, 1891), ad indicem, e S. Ughi, Di Adriano Valerini, di silvia Roncagli e dei Comici Gelosi, in « Biblioteca teatrale », vol. 3 1972, pp. 147-54.

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le è desunto anche il refrain impiegato costantemente al v. 15, ma non solo. La poesia della bugia, forse nata in Germania e che è alla base delle fatrasies e dei sonetti “alla burchia”, conosce varie forme metriche e con-tiene immagini iperboliche, impossibili, improbabili o meravigliose, facenti capo perlopiú al motivo del mondo alla rovescia:35 già Claudio Claudiano sintetizzava il senso da assegnare ai versi mendaci: « Atque aliquis gravior morum: si talibus, inquit, / Creditur et nimiis turgent mendacia monstris ».36

Nella letteratura italiana, come esempio di versi sulla bugia successivi al Bosadrello vengono generalmente indicati quelli di Pompeo Sarnelli (1684), dove prevale la visione antropomorfa del mondo animale:

E l’auta sera, quanno fuje la festa,Pigliaje la ronca e ghiette a semmenare.Trovaje no sammuco de nocelle:Quanta ne còuze de chelle granate!E benne lo patrone de le pèrzeche:– E bí che non te magne ste percòca!L’aseno, che saglieva a lo cerasoPe cogliere no túmmolo de fico,Cadette ’n terra, e se rompíjo lo naso:Li lupe se schiattavano de riso:La vorpe, che facéa li maccarune,Li figlie le grattavano lo caso;La gatta repezzava le lenzóla,Li súrece scopavano la casa.Esce no zampaglione da la votta,Piglia la spata, e se ne va a la corte:

35. Non a caso la sesta parte delle Rime del Lomazzo, nella quale sono contenuti com-ponimenti nonsensici, si apre con un sonetto i cui primi quattro versi fanno leva sulla menzogna: « L’alte menzogne e la mortal ruina / M’entrâr in letto ciascheduna bella, / Et io le pinsi sotto la padella, / Nel ritrovarmi sotto la cortina » (in Lomazzo, Rime, cit., vi 1 1-4, p. 505). Da aggiungere che il tema del mondo alla rovescia viene lambito nella com-media Gl’Inganni del bresciano Nicolò Secco, attraverso la citazione della « frottola del Zucca » (ed. a cura di L. Quartermaine, Exeter, Exeter Univ. Printing Unit, 1980, ii v, pp. 26-27 e n. a p. 95).

36. C. Claudianus, Carmina, recensuit Th. Birt, accedit appendix vel spuria vel su-specta continens, Berolini, Apud Weidmannos, 1892, p. 87.

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– Sio Capetanio, famme no faore:Piglia la mosca, e miettela ’mpresone!La mosca se n’ascíje pe la cancella…No povero cecato, na panella!…37

La raccolta del Chersino, costituita da centodieci sonetti, è aperta da un testo proemiale e chiusa, simmetricamente, da uno di congedo. Par-tiamo da quello iniziale (i):38

Per darvi un poco di piacer onestov’ho portato, signor’, de le bugie,ma di quelle non già che sono arpiedel vero et util vivere modesto. In somma, le buggie c’aggio nel cesto 5

son tutte al fine ziffere natie, son tutte ben sensate dicerie,tolte da Giove per mill’anni in presto. Dimandate a Comin fornaro e a Tonise son vere o bugiarde le mie rime, 10

c’hanno sembiante di galanteria! Me le dettò il cervello de’ minchionie certe vecchiarelle e grince e grime

37. In P. Sarnelli, Posilecheata, testo, trad., intr. e note di E. Malato, firenze, Sansoni, 1962, p. 44. A titolo esemplificativo si veda La filastrocca di bugie raccolta dai fratelli Grimm: « Vi voglio proprio raccontare una storia. Ho visto due polli arrosto volare svelti e avevano le pance rivolte al cielo e le schiene all’inferno, e un’incudine ed una macina, senza fretta nuotare sul Reno, piano pianino, e una rana a Pentecoste, se ne stava seduta a mangiare un vomere sul ghiaccio. E c’erano tre tipi che inseguivano una lepre e andavano con le grucce e i trampoli, il primo era sordo, il secondo cieco, il terzo muto, e il quarto non poteva muovere le gambe. Volete sapere come è successo? Il cieco vide per primo la lepre trotterellare sopra il campo, il muto chiamò lo storpio, e lo storpio la acchiappò per il collo. Quei tali che volevano navigare per terra, spiegarono la vele al vento e navigarono attraverso grandi campi, poi navigarono su un alto monte dove affogarono miseramente. Un gambero faceva scappare una lepre e in cima al tetto giaceva una mucca che si era arrampicata fino lassú. In questo paese le mosche sono grandi come qui le capre. Apri la finestra perché le fandonie possano volarsene via » (J. e W. Grimm, Tutte le fiabe, a cura di B. Dal Lago Veneri, Roma, Newton & Compton, 2003, 160, p. 440). Per altri componi-menti si scorrano le suindicate pagine del saggio di Cocchiara (n. 18).

38. In questo sonetto si è intervenuti al v. 12: la stampa aveva i, che si è emendato in il.

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c’avevan la forma de l’astrologia. 15

Questa non è bugia,che, se leggete mai questi miei versi,diventarete al fin gnocchi roversi.

Un sonetto programmatico, questo, sul quale si deve indugiare per un duplice motivo. In primo luogo per il riferimento del v. 5: l’idea di offri-re l’opera letteraria come un cesto colmo faceva capolino già nelle matta-ne trecentesche di Niccolò Povero, altrimenti chiamate paneruzzole, ossia cesti nei quali riporre materiale eterogeneo;39 né è da escludere il motivo giullaresco del venditore di piazza – si noti l’apostrofe signor’ – di poesie e di opuscoli, che qui va letto come compiaciuto travestimento lettera-rio.40 In secondo luogo, mi pare utile non sottovalutare il sostantivo « ga-lanteria » del v. 11, perché è un termine-chiave che compare nel fronte-spizio delle Bugie e in quello dell’opera plagiata da francesco Moise: Bugiardello opera piacevole da dar spasso, nella quale si comprende varie, & infini-te galanterie, ma sono tutte busie […].41 Si noti, inoltre, la presentazione dei versi come « ziffere », ossia ‘scritti cifrati’,42 e al medesimo tempo – in tono palesemente paradossale – come pieni di senso (« sensate dicerie »), concetto smentito subito dai vv. 12-14. Ma già in questi primi versi affio-rano alcuni elementi che si incontreranno in altri sonetti, ossia la com-parsa di personaggi dell’aneddotica locale (Comin e Toni) e l’introduzio-ne di lemmi fortemente realistici (« grince e grime »).43 La coda del sonet-to risuona come una pena per chi legge, la magica metamorfosi (o assi-

39. Si veda anche M. Plaisance, Funzione e tipologia della cornice, in La novella italiana, cit., to. i, pp. 103-18, a p. 105, il quale ricorda che Gentile Sermini presenta le sue novelle come « un paneretto d’insalatella ».

40. Vd. pure l’attacco del son. xiv, Vendo, signori, un oglio di Medusa, e quello del xv, Le mie balle, signor’, non son di quelle.

41. Descrizione in Segarizzi, Bibliografia, cit., pp. 148 e 152 n. 163, con incipitario.42. Proprio a Brescia Lodovico Britannico stampava nel 1555 i noui et singolari modi di

cifrare di Giovanni Battista Bellaso (ripubblicato nove anni dopo da Iacobo Britannico).43. L’aggettivo grince sta per ‘grinzose’, mentre grime per ‘malaticce’: cfr. G. Aquilec­

chia, Pietro Aretino e la lingua zerga (1967), in Id., schede di italianistica, Torino, Einaudi, 1976, p. 163 (che riporta il passo aretiniano: « Un vecchio grimo, grinzo, rancio, lungo e ma-gro »).

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milazione) in sciocco e sempliciotto (« gnocchi roversi »): un motivo, questo metamorfico, che conoscerà sviluppi piú complessi. Per entrare in con tatto con il mondo assurdo del Chersino, è sufficiente leggere il son. iii:

Portava un dí Nettuno una cavallaa vender su ’l mercato di Veròla,e nel passar d’una grossa seriolapescò pel fondo suo anco la stalla. Onde ch’incominciò Goito e Guastalla 5

a caminar com’un che vada e vola,per comprar questa bella bestïuolaper farne un sacrificio a Caracalla. Ma quindi Re Buffon e Buffaloraincominciaro a dir: « Noi la voliamo » 10

ché di voi prima ci mettemo in via!’. Ma troncò la lor lite indi l’Aurora,che la giumenta diede al duca Namo,presente tutta la sua baronia. Questa non è bugia, 15

questa cavalla ha fatto un poledrinoc’ha per suo volto il culo di Mambrino.44

Si tratta di rilevare, fin da questi primi esempi, la tecnica adottata: la scrit-tura dei sonetti nonsensici è arricchita di avverbi che sembrerebbero guidare il lettore in un percorso logico ben preciso (onde, quindi). Nella prima quartina si assiste alla degradazione delle divinità mitologiche,45 tema già caro a Sacchetti e al Burchiello: Nettuno è ridotto a vendere una cavalla, ma, da esperto pescatore quale è, nel veder passare una seriola, ossia un tipo di pesce dotato di aculei sul dorso, si cimenta nella pesca improbabile della stalla dell’equino. Subentrano a questo punto (vv. 5-8) due località che, personificate (come rigorosamente vuole la poesia del nonsenso),46 intendono acquistare l’animale. Colpo di scena successivo:

44. Mambrino: si tratta di Mambrino d’Ulivante.45. Cfr. anche ci 9-11: « Ma castigò costu’ Marte, che venne / col brocchier di salsiccie

milanese, / legate tutte in una bragheria ».46. Si vedano altri casi: « quando corsero l’acque di Monpiano / a vendere nel borgo de

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intervengono un personaggio ed un’altra località bresciana (Buffalora), che reclamano la cavalla. La questione viene troncata dall’Aurora, che assegna l’oggetto della contesa a Namo. Nella chiusa paradossale l’ani-male in questione partorisce un bizzarro puledrino.

Il testo procede per aggregazione di elementi eterogenei, inserendo quasi per ciascun verso una novità. Se ne potrebbero citare vari esempi: « Venne una nova, già mill’anni sono, […] / quando che Zan Tognazzo e un tal Zambono […] / Venne fra tanto un certo ser armato » (ii 1, 5 e 12) o « Una bilancia fatta di mascherpa / pesava un molinel d’una tesadra [‘tessitrice’] / […] quando una fata convertita, Euterpa » (cv 1-2 e 5), e cosí via. Non è di sicuro una logica ferrea che presiede all’evoluzione degli eventi, ma, con un filo narrativo esile e pretestuoso, la volontà di meravigliare e disorientare continuamente il lettore, pescando situazio-ni improbabili e aggiungendo personaggi (classici, biblici, letterari) che mai entrerebbero in relazione tra loro.

Il sonetto appare prezioso perché restituisce altre coordinate culturali del Chersino: ad esempio, il Re Buffon del v. 9 corrisponde a Re Buffo, protagonista di una sacra rappresentazione conservata manoscritta pres-so la Queriniana di Brescia (finora assegnata alla fine del Cinquecento o agli inizi del Seicento);47 si noti, nei versi in questione, l’attrazione che il

i pippioni » (xi 3-4), « Di rovaiotto e di paníco gialdo, / c’avea la scorza come le castagne, / si pasce il Mongibello e ’l Montebaldo, / essendo lor scodelle le campagne » (xxi 1-4), « ma in quello istante venne Barcellona / a portargli un piatto di raffioli » (li 3-4) e « Stava con la camisa sola in dosso / Montechiaro a sentir quest’armonia » (li 9-10).

47. Della rappresentazione è dato un assaggio nella nuova antologia del dialetto bresciano, cit., pp. 49-50; si veda anche N. Messora, Le lingue nei drammaturghi bresciani del ’500, in Il Rinascimento. Aspetti e problemi attuali, a cura di V. Branca et alii, firenze, Olschki, 1982, p. 544. La menzione nei versi del Chersino dovrebbe spingere a pensare, quindi, che la sacra rappresentazione sia anteriore al 1610. Altre testimonianze del bagaglio delle letture si trovano nei versi « Ma la Zucca del Doni venne a starsi / in mezzo a la tenzon, a le ferute, / e gli fece far pace in Albania » (lxxxvi 12-14: per il v. 14 si è cosí intervenuto sul testo: e gli < Egli; pace < face). La Zucca (v. 12) è un’opera del Doni pubblicata per la prima volta nel 1551-1552; altre edizioni furono impresse fino al 1607. Si è preferito stampare con la maiuscola, perché il riferimento all’opera sembrerebbe evidente; meno probabile che si tratti di un sostantivo riferito all’ingegno bizzarro dello scrittore: cfr. Lomazzo, Rime, cit., vi 142 1-4, p. 590: « Le cinque cotte che descrisse il Doni, / Nelle quai il Burchiel fece suoi versi, / Di lungo se n’andâr con pan diversi, / A ritrovar la zucca con gli sproni ».

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nome esercita sull’attante successivo per associazione fonica (Re Buffon-Buffalora).48 Restando nell’ambito onomastico, non sarà inutile ricordare casi simili di nomi parlanti, come Scroccheria: « Venite pur al suon de la mia tromba, / o tutti voi che siete sgalonati / da la vacca di monna Scroc-cheria » (lxxxix 12-14),49 e « che per le poste andata in Normandia / pro-vede di peliccie quando fiocca / il cuium pecus de la Scroccheria » (cviii 12-14).50

E la chiusa ad effetto con il parto straordinario è un’arma retorica spe-sa anche altrove: « La Gosa da Mompian tolse la rocca / e correndo frez-zosa in su la via, / partorí una gran torre con la bocca » (cviii 9-11),51 « Que sta non è bugia, / ch’una galera piena di biscotto / partorí delle

48. Si veda anche il caso simile nei versi « e lo portò in un fiasco a Re Buffone / senza dimostrar mai buffoneria » (ix 10-11). Giochi fonici affini si rinvengono in altri casi: « e cer-te vecchiarelle e grince e grime » (i 13), « vidi vicina a certi cacatori » (vi 3), « ch’incantava le berte e i bertoni » (xii 7), « per spada et elmo un spiedo et un parolo » (xxiii 17), « ch’una ga-nassa d’una gazza indiana » (lxxxviii 16), « c’han ovi freschi e frittole e felici » (xc 10), « Ma castigò costu’ Marte, che venne » (ci 9). Corsivo mio.

49. Il nome sembra modellato su quello contenuto nel verso burchiellesco « ciascuno vorrebbe diventar lo Scrocchi » (sB, v 13, p. 9, con l’emendamento di Spagnolo, rec. cit., p. 164). Si vedano anche i versi di Giovan Battista Ricciardi « Io so che si trovano in firen-ze / Gente che non sa piú che sien li scrocchi », in C. Chiodo, Le rime burlesche di G.B. Ricciardi (1977), in Id., Il gioco verbale, cit., p. 163 e n. 28, pp. 163-64, dove si ricorda il passo del commento al Malmantile racquistato, Venezia, 1687, p. 296: « il proprio significato della parola Scrocchi è quando uno per trovar denari, piglia a credenza una mercanzia per venticinque scudi, la quale ne vale venti: e poi la vende quindici; e questo si dice pigliar lo scocchio » (commento a iii 74). Cfr. anche P. Salvetti, Voglio amar chi mi pare, o questa è bella!, vv. 35-36: « Piglierebbe lo scrocchio / Chi servir la volesse » (in Aglietti, Rime gioco-se, cit., p. 118). Si aggiunga il modo di dire « Essere come la gallina di Monna Cionna detta la Scrocchina » (ricordato in G. Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Venezia, Cecchini, 18562, p. 152).

50. Con cuium pecus si intende un bestione: cfr. P. Aretino, Il Marescalco, Prologo: « Ora se si pecca mortalmente a non dare un cavallo a quel venerabile castrone, che non ha paura d’essere un cujum pecus » (in Id., Tutte le commedie, a cura di G.B. De Sanctis, Mi-lano, Mursia, 1968, p. 33) e Id., La Cortigiana, Prologo: « forestiere: Mi par vedere che sarà opra di qualche pecora, quae pars est » (in Id., Tutte le commedie, cit., p. 118): la fonte è Vir­gilio, Buc., iii 1. Si veda pure Secco, Gl’Inganni, cit., iii ii, p. 41 e n. a p. 98.

51. frezzosa: ‘di fretta’: vd. T. folengo, Baldus, a cura di M. Chiesa, Torino, Utet, 20062, viii 370 (vol. i p. 384): « nescio quo pariter frezzosis passibus ibant ».

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quaglie e del vin cotto » (ciii 15-17),52 e « Sarà dunque bugia, / s’una peco-ra fatta di faloppia / faccia un camelo con la testa doppia? » (cv 15-17).53 In modo analogo, in altre occasioni – e piú spesso nella coda – i versi si tin-gono di una natura irreale, raccontando sorprendenti metamorfosi: « Questa non è bugia, / che ’l Turco è diventato una comare / per allevar un figliuolin del mare » (viii 15-17), « Pavia e Milan son fatti per incanto / due scarselloni da portar costali » (x 1-2), « Questa non è bugia, / fan di-venir con la lor schiuma sola / le cimici giganti in la cariola » (xv 15-17), « che un orinal si pose nel pensiero / di voler diventar un cavaliero » (xcvii 16-17),54 « un gran million di regi incoronati / diventâr mortadelle e cervellati » (c 16-17).

Altri spunti rilevanti si ricavano dal sonetto cvii 1-14, dove peraltro si può raccogliere un ulteriore riferimento alle letture del Chersino: nei versi viene menzionato Zizalardon, nome di un oste ingordo della Rosel-mina, favola di Giovanni Battista Leoni:55

52. In questo caso la meraviglia è piú palese, perché nei viaggi per mare certamente non era consuetudine portare quaglie e vino cotto, ma la semplice galletta: cfr. f. Sac­chetti, Il libro delle rime, edited by f. Brambilla Ageno, firenze-Perth, Olschki-Univ. of Western Australia Press, 1990, lxiv 76-77, p. 72: « ché ’l biscotto / si porta in galea ».

53. Aspetto meraviglioso suggerito dalla doppia gobba del cammello. Su questi parti eccezionali cfr. Fatrasies d’Arras, 19 1: « Dragons de geline » (in Fatrasies. Fatrasies d’Arras. Fa-trasies di Beaumanoir. Fatras di Watriquet, a cura di D. Musso, Parma, Pratiche, 1993, p. 56; trad.: « Un drago nato da gallina ») e ivi, 33 1-3: « Vache de pourcel, / Aingnel de veël, / Brebis de malart » (ivi, p. 70; trad.: « Vacca nata da porcello, / agnello da vitello, / pecora da anatra »). I parti anomali, come forma di adynaton, erano già presenti in Nevio (cfr. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, cit., p. 80). Per i parti di oggetti, già nel Trecento, si ve-dano i versi del Povero « La mia gallina à fatto un tal martello / ched ogni dí farebbe un gran palagio / lavorando con esso un montanello » (in E. Levi, Niccolò Povero, giullare fioren-tino [1908], in Id., Poesia di popolo e poesia di corte nel Trecento, Livorno, Giusti, 1915, p. 105).

54. Si noti l’interessante convergenza con Fatrasies d’Arras, 48 7: « Uns paniers ce fist chevaus » (in Fatrasies, cit., p. 82; « Un paniere diventò cavallo »).

55. Si tratta di roselmina | favola | tragisatiricomica, | di | lavro settizonio, | da castel sambucco | Recitata in Venetia, l’anno m. d. xcv. | da gli Academici Pazzi Amorosi. | con privilegi. [segue fregio] | in venetia, m. d. xcv. | Appresso Gio. Battista Ciotti Senese. | Al segno della Minerva (esemplare della Biblioteca Alessandrina di Roma, Misc. XV f 18 9); Zizzalardone viene descritto come persona vorace: « Eh, Zizzalardone, questa tua vitac-cia, che non ad altro tende, che alla sodisfattione del ventre, anzi di questo poco palato, di questo breve gargarozzo » (i iii, p. 15). Cfr. M. Rak, Logica della fiaba, Milano, Bruno Mon-

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Menando la favetta a rompicollo,Zizalardon, famoso parasito,si scottò nel morter il braccio e un dito,né volse piú di lei farsi satollo. Ma preso con le mani un grasso pollo 5

l’ebbe in un fiato quasi trangiottito e poi fece il taglier netto e polito,slongando il muso e ritorcendo il collo. Onde quella favetta svergognatas’arrossí di vergogna e fuggí via, 10

come se fusse una poiana alata. Se n’andò in Viena e poscia in Scarperia,dove da una fanciulla trappolatarimase insegna al fin d’un’osteria.

Anche in questo secondo caso il sonetto sembra essere basato su un andamento diegetico lineare, il che fa pensare ad un aspetto nonsensico parziale. L’attacco è un evidente rinvio all’autoerotismo,56 ma poi i versi si concentrano sulla natura ingorda del personaggio: proprio sull’ingor-digia iperbolica il Chersino insiste in altre occasioni.57 Si ritorna quindi

dadori, 2005, pp. 261 e 263 n. 6. Il nome torna in un passo dei Discorsi politici e morali (x) di A.G. Brignole Sale: « Niente piú, secondo me, di quel che possa quel Zizzalardone pareg-giar a tanti fondi di marina rivoltati sottosopra », (cfr. Il buratto ed il punto. Concettismo, Reto-rica, e Pittura fra Genova e Bologna, 1629-1652, a cura di M. Pieri e D. Varini, Trento, La finestra, 2006, p.te ii p. 199).

56. Cfr. sB, clxxii 1-2: « Racomandovi un poco el maniscalco / che la fava menò pel Giubbileo », e Bench’io non sia malato, io non son sano, 9-10: « Le noci ci percuoton fra i tallo-ni, / E la fava rigonfia per menare » (in sonetti del Burchiello del Bellincioni e d’altri poeti fioren-tini alla burchiellesca, in Londra, [ma Lucca-Pisa, s.e.], 1757, p. 146). L’uso dei doppisensi nelle Bugie è abbastanza raro: da segnalare il caso degli eufemismi contenuti nei versi « Ma prima dislacciatevi il braghetto / e mostrate la guglia e ’l calderone » (lxxxix 5-6), dove i due lemmi del secondo verso indicano, rispettivamente, i virilia e il posteriore: per il pri-mo termine cfr. V. Boggione-G. Casalegno, Dizionario storico del lessico erotico italiano […], Milano, Longanesi, 1996, par. 2.3, con esempi dal Berni e dall’Aretino; per il secondo non si trovano attestazioni, ma si vedano le voci affini ivi, par. 5.1.1.

57. « Mangiavan le cicale al sòn famoso / una sporta di rane inghirlandate / sopra ’l cavallo de l’anotomia » (xii 9-11), « Mangiò [scil. un coccodrillo] un vitello, un porco et un saliscendi / cotto nel brodo d’una buona trotta / dentro al stagnato della gelosia » (xxiv 12-14), « ch’un portarol con la cavezza d’oro / mangiò in un boccon la vacca e ’l toro »

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sull’oggetto iniziale della descrizione, la favetta che, rossa di vergogna (anche il qui il doppio senso è manifesto), subisce una sorta di metamor-fosi e fugge a Vienna e successivamente in Scarperia, una località nei pressi del Mugello, dove arresta la sua corsa. Interessa, in questo conte-sto, soprattutto la descrizione dell’oggetto che viene spedito o si reca in una località remota, accorgimento che in genere rappresenta una cifra dei testi nonsensici58 e che riaffiora tra le Bugie: « e la mandò correndo in Barberia » (xxii 15), « e tutti tutti andâr nella Cania » (xcix 15),59 « pose in conquasso in fin la Traprobana » (cvi 7),60 e « mandano in Calicut tutti i brachieri » (cviii 8).61

Il sonetto ora esaminato permette di soffermarsi proprio sull’iperbole,

(lxxiv 16-17), « un uomo grande come una cicala / mangiò in un ovo un elmo con la spa-da » (lxxxiv 16-17), « colui c’onoro ne’ miei versi immondi / mangia con sol guardo mille mondi » (xciv 16-17) e « Questa non fu bugia, / ch’ivi mangiâr un gatto doppo cena / c’avea ’l figato com’una balena » (xcviii 15-17). Cfr. i versi di Niccolò Povero: « ch’è diven-tato sí gran mangiatore / ch’al pasto mangia un bue la suo persona » (in Levi, Niccolò Pove-ro, giullare fiorentino, cit., p. 107).

58. Cfr. Fatrasies d’Arras, 16 10-11: « Si que Paris en volete / D’Acre duqu’en Occident » (in Fatrasies, cit., p. 54; trad.: « cosí che Parigi svolazzava / da Acri fino in Occidente »), e Fatras di Watriquet, 26 5-6: « En cop de […] si grant medecine a / C’une charrete jusqu’a Mes en sailli » (in Fatrasies, cit., p. 140; trad.: « nel colpo di […] c’è tal medicina / che una carret-ta ne uscí fino a Metz »). Cfr. anche i versi del Povero: « perché da Roma à ’nbolato la gu-glia, / e l’à portata in su Monte Calvano. / Gierusalemme ànno mandato in Puglia » (in Levi, niccolò Povero, giullare fiorentino, cit., p. 108) e quelli burchielleschi: « le mosche son fuggite in Ormignacca » (sB, viii 10). Si veda anche Cocchiara, Il mondo alla rovescia, cit., p. 181, il quale riporta la novella dei Grimm intitolata Paese di Cuccagna, in cui si legge: « Ebbene ho visto […] un bambino di un anno buttare quattro macine da Treviso a Paler-mo e da Palermo a Monviso ».

59. La Cania, ossia una città di Creta, oggi La Canea (vd. T. Garzoni, La piazza univer-sale di tutte le professioni del mondo, a cura di G.B. Bronzini, con la collab. di P. De Meo e L. Carcereri, 2 voll., firenze, Olschki, 1996, xxxvii, p. 431).

60. Traprobana, ovvero l’isola di Ceylon (vd. orlando Furioso, xv 17 5: « e Traprobane vede, e Cori appresso », e Lomazzo, Rime, cit., vi 4 12-14, p. 507: « Serpe Spagnuola, ch’al fuoco non caglia, / fece ch’io non trovai in Taprobana, / D’onde vengon le ciurme di canaglia »). Cfr. in partic. A. Scafi, Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’eden, trad. it. Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 179, fig. 8.12b.

61. Non si tratta di Calcutta, ma di Calicut, sulla costa del Malabar, come si rileva in L. Messedaglia, Vita e costume della Rinascenza in Merlin Cocai, a cura di E. e M. Billanovich, con una premessa di G. Billanovich, 2 voll., Padova, Antenore, 1974, vol. i p. 21 n. 1.

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esibita in altri endecasillabi e con varie declinazioni: « quando comparse Apollo con la Sfinge, / con la Chimera e con Bellerofonte/ e in testa per capèl portava Ostía [‘Ostiglia’] » (viii 9-11);62 « una pippia arrostisse un elefante / per dar da dicinar [‘desinare’] al gran Morgante » (ix 16-17):63 il gigante pulciano – protagonista di un’opera a cui attingere a piene mani proprio per il versante iperbolico – è personaggio sintomatico che ri-compare altrove: « E corse allor Morgante et Olivieri / con un stecco da denti ben calzante / et alzando nell’aria un lionfante / mandano in Cali-cut tutti i brachieri » (cviii 5-8).64 Sarà chiaro, quindi, come nel mondo della bugia le circostanze esagerate costituiscano la norma: esse possono includere gli abbattimenti improbabili (« che con un spiedo un certo ra-buffato / diede un gran colpo al muro di Broletto / e sfracazzò di Nani l’osteria », ii 9-11); le dimensioni meravigliose di taluni animali (« una rondine fu che con un piede / coperse il mondo e quanto in lui si vede », xcv 16-17) o la forza e la resistenza incredibili di altri (« Chi crederebbe che due pecorelle / potessero portar due gran torri / et aver per orecchie anco due astorri, / che volarian fin sopra a le stelle? », lxxvii 1-4);65 il prosciugamento di un fiume (« Andate poscia dietro a qualche fiume / e

62. Nel v. 10 il richiamo è a Bellerofonte di Corinto, che, secondo il mito, uccise la Chimera riuscendo a gettare nella sua gola del piombo fuso.

63. La pippia è la femmina del piccione. Cfr. L. Pulci, Morgante, a cura di f. Ageno, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, xix 82 1-4, p. 573: « Ma non fu prima dal fuoco partito, / che Morgante a spiccar comincia un pezzo / del lïofante, e disse: – Egli è arrostito –, / e tutto il mangia cosí verdemezzo »; per questo versante si veda R. Ankli, Morgante iperboli-co. L’iperbole nel ‘Morgante’ di Luigi Pulci, firenze, Olschki, 1993, passim. Cfr. anche La gran battaglia de li gatti e de li sorzi, a cura di M. Chiesa, 52 5: « E in un bocon mangiava [scil. Sor-zante] un leofante » (in Il Parnaso e la zucca. Testi e studi folenghiani, a cura di M. Chiesa e S. Gatti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1995, p. 29; osservazioni sull’iperbole anche in Longhi, La poesia burlesca, satirica, didascalica. i. Il Cinquecento, cit., p. 298).

64. Un’immagine simile in Secco, Gl’Inganni, cit., ii xii, p. 39: « Lasciatela menare a me solo, che con la forza di questo braccio levarei uno elefante ». Per Morgante cfr. anche cix 16-17: « che per lo troppo gusto io cacai duro, / l’effigie di Morgante in cima a un muro »; Margutte, invece, è ricordato in xxii 9. Un’edizione del Morgante venne stampata a Bre-scia da Ludovico Britannico nel 1547.

65. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, cit., p. 181, riporta un passo della novella sul paese di Cuccagna raccolta dai Grimm dove si racconta: « Vidi una vecchia capra rinsecchita, che si portava addosso cento carri di strutto, centosessanta con il sale e tutto! ».

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svuotate ben ben l’equivalente / e fatevi un silopo [‘sciroppo’] puzzolen-te », cx 5-7) o le incredibili preparazioni gastronomiche (« Chi credereb-be ch’un fornar peloso / avesse cotta Babilionia intiera? », cii 1-2).

Un altro sonetto dal quale si possono trarre spunti sull’universo men-zognero del Chersino è il vii:

Un bracco, un tigre, un gatto et una mona,tutte bestie da stuffa e da tinello,comperavan al banco di Tonellouna gnacchera fatta alla carlona. E fu mercatantezza la Simona, 5

quella c’ha ’l naso a guisa di scagnelloe la bocca piú larga d’un fornelloe la fronte com’è piazza Navona. Costor donâr poi tutto a fiordeligi,che fu massara già del re Nabucco, 10

dal qual imparò ben la cortesia, perché essa in premio lor donò Parigi,un cappon di favetta e un pan di stuccoet una soma di pedanteria. Questa non è bugia, 15

che questi animali sperti e galanticominciâr a vestir brachesse e guanti.66

4. gnacchera] gracchera. 10. già del] del già. 17. cominciâr] cominciat (ma l’ultima lettera non è leggibile in modo distinto)

Il magistero burchiellesco, assorbito pienamente, trapela nell’incipit, nel quale vengono affastellati soggetti plurimi, come del resto avviene altro-ve: « Brindisi e bonprofaccia et un stafilo [‘staffile, correggia di cuoio’] » (lxxxiii 1), « Plotin, Plutarco e ’l gran Lëon Ebreo » (lxxxvii 1), « I verzi, le spinaccie e ’ ravanelli » (xcvi 1) e « Uva passa et zenzale e gnocchi a lesso » (cvi 1).67 Secondo un processo appena illustrato, i versi si presen-

66. La mona (v. 1) è la scimmia. Per « bestie […] da tinello » (v. 2) si intende ‘animali di poco conto’. Lo scagnello può indicare una sgabello, una piccola panca (per altri significati vd. S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, 21 voll., Torino, Utet, 1962-2002, vol. xvii p. 747).

67. E ancora all’esperienza burchiellesca va ricondotto l’attacco con apostrofe agli

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tano con un andamento narrativo che calamita in successione personag-gi disparati, da quelli piú umili, come Tonello o la Simona, a quelli lette-rari, come fiordeligi,68 che naturalmente non ha mai ricoperto il ruolo di massaia del re di Babilonia. Se si esclude Parigi, i doni offerti agli ani-mali del primo verso sembrano indicare oggetti impossibili, come nei casi affini di « Una bilancia fatta di mascherpa [‘ricotta, mascarpone’] » (cv 1) o di « una pecora fatta di faloppia » (cv 16).69 Anche la coda contiene un richiamo da non sottovalutare: l’umanizzazione degli animali, che qui indossano brache e guanti, è altro elemento che contraddistingue il mun-dus inversus.70

ascoltatori, con la funzione di imperativo o persino di imprecazione: Fate castrar un’oca be-retina (iv), Ritiratevi tosto a far l’usura (lii), Ritornate, facchini, alla dogana (lxxxiv), Portatemi, o scolari, la padella (lxxxviii), Porgetemi gli incudi, o barbagianni (xciv), Andate a far a’ sassi in mezzo al ballo (civ), Rimanetevi privi di falsume (cx); il modello è il sonetto Dè lastricate ben questi taglieri (sB, cxxx).

68. Personaggio dell’orlando Furioso: si tratta della sposa di Brandimarte (xiv 8 3 e xxxiii 34 3).

69. Procedimenti analoghi si riscontrano in Fatrasies d’Arras, 2 1: « fourmage de laine » (in Fatrasies, cit., p. 42; trad.: « formaggio di lana »); Fatrasies d’Arras, 4 1: « Andoille de voir-re » (ivi, p. 44; trad.: « Un salame di vetro », anche se in questo secondo caso una spiegazio-ne si potrebbe rinvenire nell’allusione ai falli di vetro prodotti proprio nelle fiandre: cfr. f. Pignatti, I ‘Motti e facezie del Piovano Arlotto’ e la cultura del Quattrocento, in « Giornale storico della letteratura italiana », vol. clxxvi 1999, p. 72 n. 20, con rinvio al Ragionamento dell’Aretino e alla facezia 83 del Mainardi); Fatrasies d’Arras, 8 1: « Uns mortiers de plume » (in Fatrasies, cit., p. 48; trad.: « Un mortaio di piuma »); e la serie in Fatrasies d’Arras, 14 1-5: « Aillie d’estrain, / formage de pain / Et feves de pois, / Et kailleus de grain / Et pierres de fain » (ivi, p. 52; trad.: « Aglio di paglia, / formaggio di pane, / e fave di piselli / e sasso di grano / e pietre di fieno »).

70. Sugli animali in pose umane si veda pure « una pippia arrostisse un elefante » (ix 16), « Pesava un asinello de’ carpioni / con la rete che già fece Vulcano » (xi 1-2), « porta [scil. un’aquila] le braghe a guisa di Zanolo » (xxiii 16), « Una gran frotta d’asini spagnuoli / fa-cevan maitinade a la Simona » (li 1-2), « E pur è ver ch’un orso generoso / si mise per giostrar una bariera » (cii 5-6). Per quest’ultimo esempio va specificato che è molto im-probabile che l’orso, animale notoriamente pigro, si cimenti in una giostra, nella quale sono necessarie agilità e velocità (si veda Cocchiara, Il mondo alla rovescia, cit., p. 106, che riporta un passo di Gregorio di Tours, il quale afferma che il bue non può compiere eser-cizî ginnici e che l’asino non è in grado di giocare a palla). Anche gli animali musicanti, come nel caso di « Correvan la saiotte a piú non posso / sopra i cavalli della ortografia / e sonavan i pifferi di bosso » (cvi 9-11), rimandano al tema del monde renversé: cfr. M. Clou­zot, La musique des marges. L’iconographie des animaux et des êtres hybrides musiciens dans les

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Può avvenire che il sonetto sia costruito in modo tale che nella prima quartina un evento divenga la causa apparente dello svolgersi di altre circostanze narrate nella quartina e nelle terzine successive (xcix):

Una trombetta dolce come ’l pane,che fanno i giardinier’ di ponte Mollo,troncò le zampe ad un ben grosso polloche vinse già tutte le belve umane. Col sòn mise spavento a Rabicane, 5

e Brigliador si scavezzò nel collo,né si vide giamai quel sòn satollosin che non ruppe il capo a cento rane. Misericordia, che tremendo sòno!fuggí ’l Gran Can, fuggí la piazza Grande 10

et il Pegol crepò fuggendo via. fuggiano l’ortaglie e tutti i ronchisenza vardar le brede di Rezatoe tutti tutti andâr nella Cania. Questa non fu bugia, 15

che i gambari fugirno da Bagnoloe fuggí un fanciullin col suo carïolo.71

fin dal principio ogni verisimiglianza è attentamente evitata: una trom-ba non può avere la dolcezza del pane né i giardinieri potrebbero dedi-carsi alla costruzione di strumenti a fiato. Né si capisce come una trom-betta possa spezzare le zampe ad un pollo. Ai vv. 3-4 si aggiungono ele-menti utili a ricostruire il contesto di un mondo rovesciato: ne è un esempio chiarissimo l’animale innocuo (il pollo), che minaccia esseri di dimensioni maggiori, come altrove avviene per la lumaca aggressiva

manuscrits enluminés du XIIe au XIVe siècle, in « Cahiers de civilisation médiévale », xlii 1999, pp. 323-42.

71. Ponte Mollo, ossia il romano ponte Milvio, cosí chiamato perché spesso sommerso dalle inondazioni del Tevere. Rabicane è il nome del cavallo dell’Argalía (vd. M.M. Boiar­do, L’inamoramento de orlando, ed. critica a cura di A. Tissoni Benvenuti e C. Monta­gnani, intr. di A. Tissoni Benvenuti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1999, i i 69 5, to. i p. 44: « Rabicano, il distrer, non mostra stanco » e n.). Brigliadoro (v. 6) è il cavallo di Orlando vd. ivi: i ii 28 3 e n. (to. i p. 67). Il cariolo (v. 17) è il girello.

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(« ch’una lumaca, col suo proprio fiato, / fece restar il Turco scorticato », lxxvii 16-17),72 o per la lepre ardimentosa (« Ma perché oggi mi vien la barba bianca, / non vo’ parlar d’un certo bastonato / ch’innanzi a un le-pre se ne fuggía », xcii 12-14).73 In modo simile a iii 9-10, al v. 10 si assiste all’interazione tra esseri umani e località.

Il son. xii presenta alcune affinità con quello appena esaminato, con una resa piú marcata di alcune soluzioni:

Una gnacchera, fatta di doblettoda un maringon che tesse de i polmoni,sonava piú di cento campanonitoccata da due corni di capretto, e nel sonar spargeva del confetto 5

con tanta melodia de’ braghettonich’incantava le berte e i bertoni,tutti legati dentro ad un stringhetto. Mangiavan le cicale al sòn famoso 10

una sporta di rane inghirlandatesopra ’l cavallo de l’anotomia. Ma quel che fu piú bello e piú amoroso,correvano alla giostra le frittatecon ronche e lancie tolte in frezzaria. Questa non è bugia, 15

ch’un’oca nel formar del contrapontosgorgò da la sua gola il Mella e ’l Tronto.74

72. Sul motivo della lumaca offensiva da ultimo B. Roy, Un gastéropode chez le quadru-pèdes, Tardif le Limaçon, in Remembrances et Resveries. Hommage à Jean Batany, Orléans, Para-digme, 2006, pp. 307-14. Immagini simili si possono riscontrare già in Burchiello, sonet-ti inediti, cit., xxxii 15-16, p. 32: « Onde un ramarro / per forza prese un toro e atterrollo ».

73. Si veda il passo epistolare tardo-trecentesco di Lorenzo de’ Ridolfi, tratto dal ms. Panc. 117, c. 18v, e riportato da f. Novati, Il lombardo e la lumaca (1893), in Id., Attraverso il Medio evo. studî e Ricerche, Bari, Laterza, 1905, 149 n. 43: « Agitis ut ille artifex qui leporem canem devorantem, agnam lupum, pernicem accipitrem, murem catum, gracillam vul-peculam, milvum aquilam, asellum leonem in pariete pingebat ». Per il tópos vd. Coc­chiara, Il mondo alla rovescia, cit., pp. 135-36.

74. Il dobletto (v. 1) è una « sorta di tela di francia fatta con filo di bambagia » (A. Tira­boschi, Vocabolario dei dialetti bergamaschi antichi e moderni, 3 voll., Bergamo, fratelli Boli, 1873-1879, p. 461). Il maringon (v. 2) è il ‘falegname’. I bertoni (v. 7) sono i ‘cinedi’. Il cavallo de l’anotomia (v. 11) potrebbe indicare un equino magro. frezzaria (v. 14) è una calle di Vene-

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È evidente come l’aspetto narrativo tenda a scomparire per far posto ad una successione di circostanze di marca paradossale: a partire dalla nac-chera fatta di tessuto, prodotta da un falegname e intenta a suonare cam-pane. Il nonsense è garantito soprattutto dagli oggetti attanti, come la sud-detta nacchera o le frittate (v. 13)75 e dalla mancanza di rapporto di cau-salità tra gli eventi (vv. 5-8). In particolare, vari antecedenti per le frittate attanti si possono scovare nelle descrizioni dei paesi di Cuccagna nell’an-tichità, dove i cibi erano dotati di un certo automatismo.76 Come se non bastasse, le cicale riescono a divorare le rane. Il tutto si conclude con la consueta meraviglia in coda, con due fiumi che nascono dalla gola di un’oca.

Gli oggetti attanti ritornano nel son. ci:

Trentasei millia gnocchi di Levanteinvitâr a duello le panzettee portavan per scudi focazzettefatte per man d’un nobile diamante. Ma Vulcan, ch’è gran giotto zoppicante, 5

si mise con gli occhiali a le vedettee prese i cornacchioni e le civetteche facevan la guardia a un vero amante. Ma castigò costu’ Marte, che vennecol brocchier di salsiccie milanese, 10

legate tutte in una bragheria. Venne Neron sopra smerdate penne

zia. La Mella (v. 17) è un fiume della Lombardia, mentre il Tronto (ibid.) dell’Italia cen-trale.

75. Si vedano altri casi come « Corsero a questi casi tanto orrendi / i campanili di Viter-bo in frotta / et insegnâr a’ gatti la magia » (xxiv 9-11); « Miserabili carte e libri sparsi / e lettere maiuscole e minute / correvan tra l’inchiostro in ogni via » (lxxxvi 9-11); « Un me-lon tondo, come un pal di ferro, / sbrinzava [‘sbranava’] la mascherpa et il formaggio » (lxxxv 1-2); « I verzi, le spinaccie e ’ ravanelli / sputavano bombarde a piú potere / e face-van tra lor tante carriere / che immiravan nel corso i garzoncelli » (xcvi 1-4); « Un colom-baro pien pien di corame / s’armò per dar di matte bastonate / a quei che fan col sevo le panate, / per levarse del sen la propria fame » (c 5-8).

76. Cfr. M. farioli, Mundus alter. Utopie e distopie nella commedia greca antica, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. 27-137. Le frittate attanti ricordano anche sB, x 15-16: « E vidi le lasagne / andare a Prato a vedere il sudario ».

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e perfumò ben mal tutto il paese,ch’è tra la francia posto e l’Ungaria. Questa non è bugia, 15

Scanderbech castrïota et Martin Scala77

misero le braghette ognuna a un’ala.

Uno strumento della poesia “alla burchia”, ormai familiare, consiste nel-l’attacco con un numerale (di frequente iperbolico), come in Cento grue pelate in Avignone (xc) e Due sporton’ di naranci et un di lame (c). Al v. 3 e ai vv. 9-11 è attuato il gioco parodico di sostituzione delle armi tradizionali con oggetti domestici, come avviene anche in xxiii 16-17: « porta le bra-ghe a guisa di Zanolo, / per spada et elmo un spiedo et un parolo »;78 e su un principio simile è imperniata la terzina: « Una gran conca con la basia appresso / eran due navi da portar soldati / che scorrevano sempre per corsia » (ciii 9-11).79 Torna, sistematicamente, la degradazione dei perso-naggi mitologici (Vulcano e Marte) e di quelli storici (Nerone, Scander-beg, Martino della Scala). Ma non è solo l’umanizzazione dei luoghi che contribuisce a disegnare la retorica dell’assurdo (xxi):

Di rovaiotto e di paníco gialdo,c’avea la scorza come le castagne,si pasce il Mongibello e ’l Montebaldo,essendo lor scodelle le campagne, e i pescador’ d’Iseo con le dagagne 5

voglion prender per fin il mio gastaldoo condannarlo almen ne le lasagne

77. Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, condottiero albanese (1400-1468), e Martino della Scala, signore di Verona.

78. Il parolo è il paiuolo, il secchio: vd. folengo, Baldus, cit., x 178 (vol. i p. 456 e n.): « mille pignatellas, pignattas, speta, parolos ».

79. Si tratta di immagini parodiche già sperimentate e di cui si possono rinvenire trac-ce antecedenti e coeve: cfr. La gran battaglia de li gatti e de li sorzi, 15 3: « costui portava un secchio per elmetto » (in Il Parnaso e la zucca, cit., p. 18, ma tutte le ottave sono pervase da descrizioni simili), e B. Stefonio, Maccheronee, a cura di M. Grandieri, Cassano delle Murge, Messaggi, 1997, Macaroidos, 65-67, p. 17: « Illi pro lanza deservit grande cuchiarum, / pro galea magnum portat in vertice caldar, / pro giacho triplice pectum gratarola copri-bat », e ivi, 71-72, p. 17: « pro clypeo gestat coperchium grande, potentum / horrorificum, hoc totum coprit curvamine corpus ».

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e in un vin da Castion grosso e ben saldo. Il sabbion s’incarisse al lavaione,sí che gli asini fanno urli gagliardi, 10

né vogliono andar dietro a la via. Ogni muto vuol far del cicalonee voglion farsi statue i baloardiche già si vidêr dentro Albarosia. Questa non è bugia, 15

il Gulmo et il Goletto cavalcandostrabbuccâr da cavallo il conte Orlando.80

Si incontrano, infatti, gli elementi piú evidenti delle poesie della bugia, ossia le immagini inscrivibili nel tópos del mundus inversus, come il muto parlante (v. 12),81 da accostare al cigno nero ricordato altrove.82 Ana-logamente, nell’attacco Un menacò c’ha buona sale in zucca (xiii) viene pre-sentato il menacò, ossia il girino (la cazzuola burchiellesca, per intenderci),83 notoriamente sciocco e che qui è paradossalmente sapido, per quanto, poi, la coda del sonetto finisca per svelare la natura reale dell’anfibio: « Questa non è bugia, / ha questo menacò sopra la schena / l’amor di

80. Il rovaiotto (v. 1) indica, in bresciano, il pisello (Messedaglia, Vita, cit., p. 212); il paníco è un tipo di frumento; gialdo (v. 1) significa ‘giallo’. Il Mongibello (v. 3) è l’Etna, men-tre il Monte Baldo (ibid.) si trova in prossimità del lago di Garda. Le dagagne (v. 5) sono reti da pesca. Il v. 11 è memore di sB, lxviii 17: « e gli altri ragghian tutti come micci » e f. d’Altobianco Alberti, Rime, ed. critica e commentata a cura di A. Decaria, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2008, lii 7, p. 117: « e raghia come miccio al sagginale », e n. (con menzione di Burchiello). I baloardi (v. 13) sono ‘vasi di rame o latta’. Il Goletto (v. 16) è una località bresciana (cfr. anche lxxxix 1). Il verbo strabbuccâr (v. 17) significa ‘fecero cadere’.

81. Cfr. Fatrasies di Beaumanoir, 1 7: « Uns muiau i vint chanter » (in Fatrasies, cit., p. 100; trad.: « un muto accorse a cantare »); cfr. anche Burchiello, sonetti inediti, cit., i 19, p. 1: « ballano i gozzi e lí cantano i muti ».

82. « V’era un cigno c’avea la penna bruna, / c’avea tra l’ale la donzella Leda / e nel becco la greve e bianca preda / c’avea straccato ad un fachin la schena » (viii 5-8). Cfr. Giovenale, sat., vi 165: « rara avis in terris nigroque simillima cycno » (si veda anche Isi­doro di Siviglia, orig., xii 7 18: « nullus enim meminit cygnum nigrum »). La quartina si richiama al mito secondo il quale Zeus si trasformò in cigno per avvicinarsi all’amata Leda.

83. Cfr. Tiraboschi, Vocabolario, cit., p. 790. A proposito dell’aggettivo buona, si ricordi che sale, in area settentrionale, poteva essere di genere femminile.

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Pisa e la pazzia di Siena ».84 E si potrebbe proseguire indicando come paradossale anche l’immagine degli asini spagnoli che, con i loro ragli certamente poco armoniosi, tentano di sedurre una ragazza (« Una gran frotta d’asini spagnuoli / facevan maitinade a la Simona », li 1-2).85 Prose-guendo su questa linea, un senso altrettanto paradossale si potrebbe leg-gere negli animali in preda al riso: « S’ogn’un potesse il vero ben sapere, / riderebbon dal cor tutti i porcelli » (xcvi 7-8), « Ridevan le cicale a mez-zo agosto » (xcvii 1), « Di ciò ridevan fino le formiche, / c’avevan su le spalle alte colonne »86 (xcvii 9-10): è noto, infatti, che, secondo Aristotele (De partibus animalium, iii 10 673a), l’uomo sarebbe l’unico animale in grado di ridere.87 La chiusa del nostro sonetto non fa che ribadire una visione del mondo in cui i personaggi letterari sono umiliati, questa vol-ta persino da località antropomorfizzate.88

La successione di eventi singolari all’interno dei versi può essere de-scritta mediante la giustapposizione di visioni in stato di veglia, come nel caso di Una ninfa di stoppa inghirlandata (vi), oppure mediante il ricorso alla dimensione onirica (lxxvi):89

Questa notte insognai ch’un gatto aveauna berretta in testa, da facchino,e che v’era a cavallo un malandrino

84. Piú propriamente i Senesi erano definiti « bessi », ‘sciocchi’.85. La maitinada è « il cantare e ’l suonare che fanno per lo piú gli amanti in sul mattino

davanti alla casa dell’innamorata » (Tiraboschi, Vocabolario, cit., p. 752). Gli asini spagnoli erano noti per la loro irascibilità (cfr. Grande dizionario della lingua italiana, cit., vol. xi p. 56).

86. Cfr. Burchiello, sonetti inediti, cit., ii 2, p. 2: « orpel da ceri e spalle di formiche ».87. Cfr. G. Minois, storia del riso e della derisione, trad. it. Bari, Dedalo, 2004, pp. 75-80. Si

veda anche uno dei versi succitati del Sarnelli: « Li lupe se schiattavano de riso ».88. Cfr. « ergo non è bugia, / ch’una massara ha preso con un petto, / tratto in colpo,

Astolfo e Sansonetto » (cvi 15-17): sansonetto era il figlio del Soldano di Persia (vd. Li fatti de spagna, testo settentrionale trecentesco già detto Viaggio di Carlo Magno in Ispagna, edito e illustrato da R.M. Ruggeri, vol. i, Modena, Società Tip. Modenese, 1951, Indice dei nomi propri, p. 177).

89. Un antecedente può essere individuato nel sonetto di messer Nicolò Pignatte con bombarde e duo mulini (in sB, xcvi) e in quello pseudo-burchiellesco Dormendomi una notte, presso al giorno, dove ai vv. 9-11 sono descritte azioni che ritroveremo simili nel Chersino: « La costa di san Giorgio, senza fallo, / vendé le cappelliere foderate; / Mercato Vecchio armeggiava a cavallo » (in Burchiello, sonetti inediti, cit., vii, p. 7).

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che con la man il sol chiaro spengea. Onde mi risvegliai con questa idea, 5

e corsi a dimandar ser Saladino,acciò, per esser lui grand’indovino,m’astrologasse ciò che glien parea. Ma, perché avea le man’ nel caviaro,per questa volta non mi fé ’l servitio, 10

perciò convien ch’ancor in dubio io sia. Mi lambico ’l cervel, che m’è sí caro,ne l’aspettar che mi si dia il giuditioc’abbia l’aspetto d’una anotomia. Questa non è bugia, 15

sin che non ho ben chiaro questo fatto,giudico un giocator per un gran matto.

A generare la straordinarietà delle circostanze può essere anche un mo-tivo esterno, come la venuta dell’anno bisestile, notoriamente portatore di follia (ix):90

L’anno del bisestil corse in Moravia,una pietra di vetro colorita,di marzapan e ’nsiem di calamitaraccolta ne’ gran campi di Pittavia, v’era con una tromba scandinavia, 5

che sonando a battaglia scoloritaseminava co’ spiriti la vitane’ larghi prati de la gran Sabaudia. Et una tinca allor prese Bagnoloe lo portò in un fiasco a Re Buffone 10

senza dimostrar mai buffoneria. Stupissi allor la caneva e ’l vezzolo

90. Cfr. Pasquino e dintorni. Testi pasquineschi del Cinquecento, a cura di A. Marzo, Roma, Salerno Editrice, 1990, Frottole, ii 454, p. 85: « Ma·sse’è corso il bisesto »; in n. Marzo ricorda che « secondo la credenza popolare, gli anni bisestili erano forieri di calamità pubbliche », ma è altrettanto vero che all’anno bisestile erano associate la follia e la bizzarria (vd. i proverbi « Anno bisesto: tutte le donne senza sesto », « Anno bisesto: si sposan tutti quelli senza sesto » e « Anno bisesto: tutti i matti fanno i suoi gesti », in V. Boggione-L. Masso­brio, Dizionario dei proverbi, Torino, Utet, 2004, i.1.3.3, i.1.3.3a e i.1.3.3b, p. 7).

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e si perdêr due spine et un cocconeche se n’andâr per l’aria in Piccardia. Questa non è bugia, 15

una pippia arrostisse un elefanteper dar da dicinar al gran Morgante.91

Un tratto da rilevare è certamente quello del v. 9, dove gli animali, spes-so di piccola taglia, sono in grado di minacciare il mondo umano, co me avviene in altre occasioni: « Questa non è bugia, / una benola [‘don nola’] prese, in un sol salto, / la Rocca di Bernaco e di Montalto » (xcvi 15-17).92

Altri casi presentano soluzioni ibride, come nel sonetto ispirato alla caricatura grottesca di un naso, che dilaga in una serie di descrizioni de-liranti (xxii):93

Un naso ho visto, largo e longo e pianocom’è Mercato Novo o quel dal Lino,sopra del qual vi stava un tal facchinoche porta via un vitel con una mano.

91. La Pittavia del v. 4 è l’attuale Poitiers. La caneva (v. 12) è voce settentrionale per ca-nova, cioè ‘cantina’, mentre vezzolo (ibid.) è probabilmente vesolo, ossia ‘botte’. Il coccone (v. 13) potrebbe indicare il « disco adoperato per otturare la parte posteriore della canna di una bocca da fuoco » (Grande dizionario della lingua italiana, cit., vol. iii p. 246).

92. Cfr. farioli, Mundus alter, cit., p. 140 (per il rapporto con il motivo del monde ren-versé).

93. Il sonetto si inserisce nella tradizione della descrizione dei nasi grotteschi: cfr. quel-li in sB, ccix-ccxi, quello di G.N. Salerno, egli è comparso un gran nasardo al ponte (in A. Cavedon, Un umanista-rimatore del sec. XV: Gian nicola salerno, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, vol. iii*. Umanesimo e Rinascimento a Firenze e Venezia, firenze, Ol-schki, 1983, pp. 214-15), e f. d’Altobianco Alberti, Un naso imperïale è in questa terra (in Id., Rime, cit., l, p. 114). Nel Cinquecento il Dolce scrive il Capitolo del naso alle donne (cfr. S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova, Antenore, 1983, p. 262), mentre il Caro La nasea, ma nel Seicento ancora Marino sfrutterà il tema: cfr. L. Matt, Teoria e prassi dell’epistolografia italiana tra Cinquecento e primo seicento. Ricerche linguistiche e retoriche (con particolare riguardo alle lettere di Giambattista Marino), Roma, Bonacci, 2005, pp. 144-46. Per il motivo nell’antichità si rimanda alle annotazioni di M. Pittore, L’ironia negli epigrammi dell’ ‘Anthologia Palatina’ tra manipolazione linguistica e allusività, Alessandria, Edizioni dell’Or-so, 2004, pp. 26-30. Una curiosa disamina del tema si legge nel volume di U. Viviani, nasuti, snasati e camusi nell’arte, nella storia, nella letteratura, Arezzo, Viviani, 1930.

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Versava in furia l’acque di Monpiano 5

una nasella e l’altra di buon vino,una vezza di quelle da Calino,sí che formava in terra l’Oceàno. Margutte con un cesto di biscottofaceva dentro zuppe a piú potere, 10

per dar un buon banchetto a una galia. Ma corse a quest’odor il gran Nembrottoe rubbò quella zuppa a piú potere,e la mandò correndo in Barberia. Questa non è bugia, 15

questo naso anasando un qualche fioregenera in un istante il dio d’Amore.94

La caricatura estremizza alcuni aspetti che la tradizione consegnava: se nel sonetto di francesco d’Altobianco Alberti si legge: « Sul dosso porta coppette e sonagli, / chiovi da libri e molta merceria, / con borchie da groppiere di cavagli »,95 il Chersino, ai vv. 3-4, scrive di un naso sul quale può camminare un facchino che conduce un vitello. La chiusa riprende il consueto tópos delle generazioni meravigliose (si veda la coda del so-netto iii con il relativo commento).

Su questa linea caricaturale, oltre al caso già visto di vii 6-8, va inclusa anche la quartina « Onde un certo omaccion barba spelata, / che par de le civette la magione, / piangendo una sí fatta perditione, / chiamava tra i sospir’ Gatta Melata » (xxxiii 5-8),96 che sembrerebbe condividere tratti comuni con un testo di Lear.97 Con simili premesse, non stupirà allora di

94. Di nasella (v. 6) si ha finora soltanto un’altra attestazione ne L’Adone del Marino: « e ’nfin al pugno alfin la ruppe in esso / e tra ’l visale e la nasella il colse » (xx 277 5-6): qui sembrerebbe trattarsi di una sorta di protezione per il naso. Quanto a vezza (v. 7), dovreb-be indicare una « conduttura d’acqua rinforzata in legno » (Grande dizionario della lingua italiana, cit., vol. xxi p. 831, con unico esempio proveniente dal Boiardo). Il termine galia (v. 11) significa ‘galea’.

95. f. d’Altobianco Alberti, Rime, cit., l 9-11, p. 114.96. Si tratta di Erasmo da Narni detto il Gattamelata: cfr. A. Calmo, Il saltuzza, a cura

di L. D’Onghia, Padova, Esedra, 2006, iii 55, p. 109: « Mo que pensi-tu, de la morte de Gatta Melà? » e n. 39.

97. Cfr. E. Lear, Il libro dei nonsense, intr. e trad. di C. Izzo, Torino, Einaudi, 20042, p. 6:

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trovare all’interno di questa raccolta nonsensica altri sonetti riscritti sulla scia di tematiche care alla tradizione comico-realistica, come la povertà del poeta (v).98 Disseminati all’interno di sonetti nonsensici, si segnalano alcuni passi che vertono sulla satira antipedantesca: « quando ch’io da Mombel canton disferro / una catena e prendo l’avantaggio, / metten-do un servitiale al Maioraggio, / tanto profondo che tra quel m’atterro » (lxxxv 5-8);99 « Sí ’l cancaro vi mangi que’ zecchini / c’avete spesi intorno a la giandaia / per far stampar de’ grilli la Pedia! » (cii 12-14);100 « Portate-mi, o scolari, la padella, / che vo’ far de l’arosto al Babuïno, / per farmi reputar buon bettolino [‘tavernaio, ostiere’] » (lxxxviii 1-3), dove ho pre-

« There was an Old Man with a beard, / Who said, “It is just as I feared! / Two Owls and a Hen, / four Larks and a Wren, / Have all built their nests in my beard!” ».

98. « L’è una mal cosa aver la paladina / senza un quatrin in borsa o in scarsella, / e l’è piú peggio ch’essere a la mella / appiccato di sera e di matina. / Son l’anima i danar’, sol si facchina / per loro, ed essi empion le canelle / del cor uman e de le sue budelle / e fan veder gli ingegni alla zimina. / Venite, soldi, ormai nel mio braghetto, / ché, se venite, v’imprometto certo / di farvi co’ sonali melodia. / Io vi ontarò col sevo di capretto, / io vi farò del ciel scudo e coperto, / io vi darò del vin di malvasia. / Questa non è bugia, / ché, se venite, voi vedrete a farne / rubin’ le rape e le nottole starne ». Per il motivo si consulti P. Orvieto-L. Brestolini, La poesia comico-realistica. Dalle origini al Cinquecento, Roma, Carocci, 2000, pp. 127-41. La paladina del v. 1 è la “palatina”, ovvero una malattia equina che consiste nell’ingrossamento della lingua (cfr. sB, viii 3 e n.): nel nostro caso indica la man-canza della possibilità di nutrirsi. La scarsella (v. 2) è il ‘borsello’, la ‘bisaccia’. La mella (v. 3) è la punta della spada; l’espressione « essere a la mella » può indicare una forma di puni-zione o di tortura, e qui potrebbe significare in senso esteso ‘trovarsi in una situazione pericolosa’: cfr. rime | piacevoli | di diversi | auttori | Raccolte da M. Modesto | Pino, & intitolate | la caravana. | Di nuouo ristampate, & ricorrette. [segue marca tipografica] | in venetia, mdcxvi. | Appresso Lucio Spineda, f. 4b: « Puochi dí innanti s’havea da de i den-ti, / Rinaldo, e Urlando per sta viscarella, / e se ben tutti do iera parenti, / niente de manco i stava in su la mella ». Credo sia da escludere l’allusione al fiume lombardo Mella (citato invece in xii 17). L’espressione alla zimina (v. 8) significa ‘in modo elaborato, come un lavoro d’intarsio, complesso’: si veda la recente disamina di A. Dardi, Alla zimina, in « Lingua nostra », lxix 2008, pp. 37-38. Infine, il sevo (v. 12) è il ‘grasso’.

99. Il servitiale è il ‘clistere’, mentre il il Maioraggio è Marcantonio Conti (1514-1555): vd. Anonimo di Utopia [O. Lando], La sferza de’ scrittori antichi et moderni, a cura di P. Procac­cioli, Roma, Vignola, 1995, pp. 51 e 65.

100. Potrebbe trattarsi di un’opera immaginaria, ricalcata sulla Ciropedia (di Senofon-te), che il Lando chiama la Pedia di Cirro (vd. La sferza de’ scrittori antichi et moderni, cit., p. 73). Il grillo è metafora per indicare, in genere, stupidità o bizzarria.

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ferito stampare « Babuïno » con la maiuscola, perché credo che vi si na-sconda un doppio senso giocato sull’animale e sul nome dell’antico testo impiegato per l’alfabetizzazione (suggerito anche dagli « scolari » del v. 1).101 Ma l’attacco sferrato investe anche i commentatori (« O povera la-tuca e ravanello, / che pan avete, o ver qual buona scusa, / per tirarvi da dosso Lampedusa, / el comento del Varchi al Vellutello? », xci 5-8),102 e gli ignoranti in generale (« che gl’ignoranti or son incoronati / con quei che son di mal francese enfiati », li 16-17).

In linea fedele con quanto espresso nelle poesie della medicina alla rovescia, francesco Moise offre la personale ricetta paradossale per gua-rire dal mal francese, ossia la sifilide (xiv),103 la quale si modella sui sonet-ti burchielleschi Chi guarir presto delle gotte presto vuole (sB, ciii) e Qualun-que al bagno vuol mandar la moglie (sB, cxxvii):

Vendo, signori, un oglio di Medusache fu regina de la Prïapea,già fatto per le mani di Medeaper compiacerne la regal Lanfusa.

101. Cfr. P. Lucchi, La santacroce, il salterio e il Babuino. Libri per imparare a leggere nel primo secolo della stampa, in « Quaderni storici », xiii 1978, pp. 593-630; Id., Leggere, scrivere e abbaco, l’istruzione elementare agli inizi dell’età moderna, in scienze, credenze occulte, livelli di cultura, firen-ze, Olschki, 1982, pp. 101-19, e da ultimo A. fabris, « Il Babuin over alfabetto in lettera araba », in « Lingua nostra », li 1990, pp. 40-41.

102. Alessandro Vellutello è un commentatore dantesco (1473 - metà Cinquecento); Varchi non lasciò un commento al Vellutello (citato ne L’Hercolano), ma alcune lezioni sull’Alighieri.

103. Per il tópos cfr. l’Appendice di Rossi in A. Calmo, Le lettere, riprodotte sulle stampe migliori, con introduzione ed illustrazioni di V. Rossi, Torino, Loescher, 1888, pp. 371-97. Utili anche le indicazioni storiche e letterarie fornite da C. Chiodo, Le rime burlesche di Giovanni Gelsi (1982), in Id., Il gioco verbale, cit., pp. 146-47. Tra le testimonianze quattrocen-tesche vanno annoverati i sonetti del Baldinotti se sanza benefizio ebbi le bolle e Chi non vuole in Italia esser francioso (si leggono in A. Lanza, Introduzione a T. Baldinotti, Rime volgari, a cura dello stesso, Roma, Archivio Guido Izzi, 1992, pp. xv-xvi). Che proprio le invenzioni burchiellesche potessero costituire un punto di partenza per la scrittura del genere viene confermato dal fatto che nell’opuscolo Historia noua de barzellette capitoli, s.i.t. (ma XVI secolo: cfr. Segarizzi, Bibliografia, cit., pp. 194-95) vengono stampati tre sonetti caudati contro la rogna, il mal francese e la gotta, ossia, rispettivamente, Recipe dexedoto pullexe bianchi (c. 3b), Volse Hipocrate & auicen(n)a ancora (c. 3b) e Chi de le gotte presto guarir vole (4a), l’ultimo dei quali è il noto testo burchiellesco (sB, ciii).

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Questo è un balsamo tal che chi ben l’usa 5

guarisce ogni malsania orrida e reae già guarí le tette ancor d’Astrea,che impiagate l’avean la rocca e ’l fuso. Quest’è il napello al fin del mal francese,de la tigna; et uccide gli pedocchi 10

se ben fusser di quegli d’Ungheria. E sempre è buon e basta d’ogni mesebagnarlo con la sberza c’hai ne gli occhie col sudor de la melanconia. Questa non è bugia, 15

quest’oglio a tutto ’l mondo bisogna,perché guarisce, ontandosen, la rogna.

Il sonetto, che si popola di personaggi letterari (Lanfusa)104 o mitici (Astrea)105 e di voci e di espressioni inconsuete (« napello », « sberza », « su-dor de la melanconia »),106 può essere accostato a quello del Lomazzo Rècipe ragli di moschin Tedeschi,107 che tratta del medesimo argomento. E

104. Vd. Boiardo, L’inamoramento de orlando, cit., i v 51 5 (to. i p. 183): « Hor foss’io adesso il figliol de Lanfusa » e n., dove si segnalano due diverse ipotesi: Lanfusa può esse-re il nome della madre di Malagise e Viviano, o quello della terribile madre di ferraú.

105. Astrea era la dea dell’età dell’oro.106. Il napello è un’erba impiegata come medicinale. La sberza è l’« umore cisposo degli

occhi » (n. a folengo, Baldus, cit., vii 413-14, vol. i p. 340: « Deque povinatis oculis ad pec-tora colat / sbercia, sed labrum recipit cagatoria nasi »). Il « sudor de la melanconia » forse allude alla bile prodotta dai malinconici.

107. « Rècipe ragli di moschin Tedeschi / Con quattro oncie di Sol e tre di Luna, / Et capelli con vista di fortuna, / Col strepito di tavole e di deschi; / Et tutte queste cose fa’ che meschi / Con pensier d’una gatta che digiuna: / E l’oglio ne trarrai a l’aria bruna / Ch’arà forma di sorzi Indi e Moreschi: / Di questo n’ungerai tutto l’arnese / Ne l’ora qual è fuor di settimana, / Che subito guarrai del Mal francese. / Questa ricetta mi diè una villana / Nel cavalcar cantando ogni paese / Sopra lo spirto perso d’una rana », (in Lomaz­zo, Rime, cit., vi 136, pp. 586-87). Per l’ingrediente del primo verso, il Lomazzo altrove racconta che all’interno di un’osteria « Dentro gli stette il raglio d’una mosca » (ivi, vi 133 9, p. 585). Simili ricette si riscontrano nel Cinquecento anche nel menzionato opuscolo Capriccii, et nuove fantasie Alla Venetiana, Di Pantalon de’ Bisognosi, che alla c. 16a contiene i sonetti Recipe le beccade d’vn zueton, mentre alla c. 16b Recipe la miseria d’vn’auaro, Recipe vn’impiastro de piera e Recipe tutte le ocche d’vn Hebreo. Se ne trovano attestazioni anche nelle Lettere del Rao: si veda M.C. figorilli, « L’argute, et facete lettere » di Cesare Rao: paradossi e

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ancora sulla ricetta paradossale sono strutturati i sonetti Le mie balle, si-gnor’, non son di quelle (xv) e Piglia una soma di formento magro (xciii), il se-condo dei quali dovrebbe aiutare a curare la gelosia:

Piglia una soma di formento magroc’abbia crosta di perle e pel di ramepiglia una gran nave di corame,un tiro d’arcobugio et un di sagro. Metti ogni cosa in vin, or dolce or agro, 5

c’abbia una concia fina di letame,e prendi il sospirar poi di due dameben chiusi dentro al capo a Meleagro. fanne un confetto a guisa di cipolla,c’abbia la pelle com’ avea Gabrina 10

et impastala di Tripoli aspoltia. Ogni cosa ben légati a la gola,ché questa cosa è rara medicinaper risanar la matta gelosia. Questa non è bugia, 15

sana questa teriaca ogni gran maleproducendo ne’ corpi un ospitale.108

In àmbito peninsulare il motivo della medicina alla rovescia era stata vulgato da Niccolò Povero e da Burchiello, ed era stato accolto da Anto-nio Cammelli e da Matteo franco: va però ricordato che non si tratta di un tema esclusivamente italiano, ma conosce una diffusione in tutta l’Europa medievale e rinascimentale: se ne trovano esempi in Germania o in Gran Bretagna.109

plagi (2004), in Ead., Meglio ignorante che dotto. L’elogio paradossale in prosa nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 2008, p. 157.

108. Il formento (v. 1) è il frumento. Il sagro (v. 11) indicava le artiglierie da campagna. Gabrina (v. 10) è il nome di una vecchia citata piú volte nell’orlando Furioso (si veda alme-no xxi 50 3), per cui la pelle della cipolla sarà vizza. La teriaca (v. 16) è un impiastro medi-camentoso.

109. Si veda l’esempio inglese risalente al secondo Quattrocento (stampa del 1481): « She must have of the wyntyrs nyghte / vii. myle of the mone-lyght / fast knyt in a bladder; / She must medyl ther among / vii. Wellsshemens song, / And hang yt on a la-der; / She must have the left fot of an ele, / Wyth the kreking of a cart-whele […] »: si

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Non sempre la scrittura è impermeabile all’esegesi: talvolta, nella se-quenza di alcuni versi, si riesce a penetrare nella logica che muove le as-sociazioni: nella terzina « Et una tinca allor prese Bagnolo / e lo portò in un fiasco a Re Buffone / senza dimostrar mai buffoneria » (ix 9-11), Ba-gnolo è la località piemontese,110 nota per la produzione del vino, circo-stanza che spiega il fiasco del verso successivo. E cosí nella quartina « Ma portate gli scudi di cristallo / e state venti miglia di lontano / e fate il Nicolotto e ’l Castellano / che vi faran le teste di corallo » (civ 5-8), lo “scudo di cristallo” è l’espressione con la quale generalmente si intende lo specchio di cui si serví Perseo per difendersi da Medusa, evocata indi-rettamente al v. 8 con il richiamo a Dante, Inf., ix 52: « Vegna Medusa: sí ’l farem di smalto ». Per il caso di « Uva passa et zenzale e gnocchi a lesso / infilzati con seta siciliana, / facendo a una bertuccia la collana » (cvi 1-3),111 è probabile che la raffigurazione dell’animale con una collana (seppure costituita di materiali esteticamente discutibili) possa essere stata suggerita dall’iconografia della Vanitas, nella quale una scimmia ma-neggia vanae merces, tra cui, appunto, anche una collana.112 Cosí, la descri-zione di abitazioni costituite di gnocchi (« Se volete venir meco al Golet-to, / vi voglio dar in premio un marangone, / che fa case di gnocchi alle

legge in Malcolm, The origins, cit., p. 91; la traduzione in inglese moderno suona: « She must have of the winter’s night / Seven miles of moonlight / Tightly knitted in a bladder; / She must mix into it / Seven Welshmen’s songs / And hang it on a ladder; / She must have the left foot of an eel, / With the creaking of a cart-wheel… » (trad. del curatore). Cfr. pure il breve contributo di A. Birlinger, ein scherzhaftes Rezept, in « Zeitschrift für deut sches Alterthum », a. xv 1872, pp. 510-12 (segnalato dallo stesso Malcolm). Aggiungo S. Maspero, Una affettuosa « ricetta burlona », in « Bullettino della Società pavese di Storia patria », cvii 2007, pp. 335-59, e il sonetto di Vincenzo Belando detto Cataldo, Recipe quatro vuova de finise, in G.A. Quarti, Quattro secoli di vita veneziana nella storia nell’arte e nella poesia. scritti rari e curiosi dal 1500 al 1900, pref. di R. Simoni, 2 voll., Milano, Gualdoni, 1941, vol. i p. 116.

110. Ma esiste anche Bagnolo nel Mantovano, come mi segnala gentilmente Andrea Canova.

111. La seta siciliana era assai nota: cfr. C. Trasselli, Ricerche sulla seta siciliana (secoli XV-XVII), in « Economia e storia », xii 1965, pp. 213-58.

112. Cfr. H.W. Janson, Apes and Ape Lore in the Middles Ages and The Renaissance, Lon-don, The Warburg Institute-Univ. of London, 1952, p. 225 fig. 14 e p. 237 n. 117.

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persone / e gliele vende sol per un marchetto », lxxxix 1-4) sembra esse-re ricalcata su quelle degli edifici ricordati nel paese di Cuccagna.113

Scritti sulla scia della fortuna del Bugiardello e sulla base di una topica nonsensica comunemente accettata e sfruttata, i sonetti menzogneri del Chersino racchiudono tuttavia alcune componenti che li diversificano dagli altri della tradizione, in primo luogo l’esplicito richiamo alla topo-nomastica relativa a Brescia e al suo territorio e, coerentemente, l’impie-go di una componente lessicale bresciana:114 mi pare, in questo senso, che sia chiara la volontà di dare voce ad una realtà locale. Una scrittura che si arricchisce dell’esperienza ariostesca e soprattutto di quella, piú vicina, folenghiana, come induce a pensare l’onomastica: Zambono (ii 5),115 fal-chetto (ii 13),116 Tonello (vii 3),117 Zanolo (xxiii 16),118 e la Gosa (cviii 9).119

113. Cfr. sB, iv 1-2: « Se ’ cappellucci fussin cavalieri / e ’ tegoli lasagne imbullettate »: dove Claudio Giunta, per le lasagne, chiosa: « saranno piú semplicemente la tegole dei tetti, in una bella immagine da carnevale o da Cuccagna: ‘se le tegole fossero lasagne’ » (C. Giunta, A proposito de ‘I sonetti del Burchiello’, a cura di Michelangelo Zaccarello (Torino, einaudi 2004), in « Nuova rivista di letteratura italiana », vii 2004, p. 473).

114. I toponimi in prossimità di Brescia sono Veròla (iii 2), da identificare con l’attuale Verolavecchia; Buffalora (iii 9): cfr. C. Bonera-V. Treccani, Buffalora-Bettole e dintorni. Immagini e testimonianze storiche, s.i.t. [ma 1992]; Monpiano (xi 3); Comezano (xi 7); Calino (xxii 7); val di Sabbio (xxiv 2), ossia Val Sabbia; Ronchedone (lii 6); Mombel (lxxxv 5), cioè Mombello; Goletto (lxxxix 2), probabilmente il colle Goletto di Cludona; Alfianel (xcv 14), cioè Alfianello; Rezato (xcix 13), ovvero Rezzato. Monumenti di Brescia sono il Broletto (ii 10), per il quale cfr. P. Marconi, Il Broletto di Brescia: filologia e progetto. La ria-bilitazione di un palinsesto architettonico degradato ma prezioso, Brescia, Comune di Brescia-Grafo, 1990; e la torre detta La Palata (ciii 6).

115. Nei versi del Chersino, Zambono è un ladro (« quando che Zan Tognazzo e un tal Zambono / gli rubbâr la polenta damaschina », ii 5-6), mentre nella Zanitonella un deru-bato: cfr. T. folengo, Macaronee minori. Zanitonella. Moscheide. epigrammi, a cura di M. Zaggia, Torino, Einaudi, 1987, Zan., v 1015-17, pp. 282-83: « Scilicet andamus vignas taiare novellas, / ut de nocte meas taiasti, deque polaro / Zamboni septem robasti, ladre, gali-nas » (e vd. Id., Baldus, cit., ix 514-15, vol. i p. 440: « Pizzagnoccus habet spetum roncamque Stivallus, / Zambonus cettam duro de azale molatam »).

116. Vd. folengo, Baldus, cit., iv 130, e passim.117. Vd. Folengo, Macaronee minori, cit., ad indicem, e cfr. Stefonio, Maccheronee, Maca-

roidos, 406, p. 28, ma ricordo che dietro il nome di Tonello, nel Cinquecento, si nasconde-va Giulio Quinziano (nuova antologia, cit., p. 46).

118. Vd. folengo, Macaronee minori, cit., Zan., v 1030, p. 283.119. Corrisponde al nome di una delle muse di folengo, e poteva indicare anche un

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i sonetti della bugia di francesco moise chersino

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Tuttavia sospetto che nei versi si celino allusioni a personaggi ed episodi della coeva vita bresciana che, con gli strumenti che ho utilizzato, non sono riuscito a far emergere (il sonetto proemiale parla di ziffere). Come appena detto, nei sonetti si riconoscono numerosi accorgimenti sfruttati nelle poesie della bugia, ma un altro dato mi sembra evidente: il Chersi-no ha tentato di riproporre la formula del Bugiardello, ma nell’atto dell’imitazione, lanciandosi nella scrittura di fantasie e di immagini iper-boliche, quasi per tentare di superare il modello, ha sottovalutato la forte componente letteraria dei versi imitati, che, pur apparendo irreali e menzogneri, erano in realtà intrisi di puntuali riferimenti ai mirabilia me-dievali. In secondo luogo, c’è da osservare una sorta di snaturamento della componente burchiellesca: intendo dire che alcuni sonetti sembra-no burchielleschi, ma in realtà non lo sono. L’autore delle Bugie, fermo alla superficie dei testi letti, è stato in grado di appropriarsi soltanto del nonsenso assoluto; dei versi “alla burchia” non ha colto il complesso la-voro di scavo linguistico attuato, né ha percepito la componente verna-colare o quella paremiologica.

Che comunque il Burchiello fosse tra i piú solidi punti di riferimento del Moise insieme al Pulci è testimoniato anche dalla citazione diretta in xcviii 1-4: « Volse il Burchiel far pasto a molti ingegni, / onde a sòn di ribeba [‘strumento simile alla lira’] si adunaro / quanti giamai mai s’inge-neraro / in questi de la terra ampî e gran regni », dove il barbiere rimato-re figura alla guida dei letterati cinquecenteschi. Proprio sul Burchiello, per porre fine al nostro discorso, val la pena di riportare i primo otto versi del penultimo sonetto della raccolta (cix):

Un lavezzo di piombo col cerchiellodi smeraldo oriental, fatto a divise,che bolliva del Turco le camise,m’ha fatto di piacer colmo il budello.

« essere misterioso » (cfr. folengo, Baldus, cit., i 14, vol. i p. 68: « Gosa, Comina, Striax Ma-felinaque, Togna, Pedrala » e n. di Chiesa). Sul folengo a Brescia cfr. P. Gibellini, Momen-ti di letteratura bresciana antica, in Bresciana…mente. storia lingua cultura arte e tradizioni bresciane, a cura di V. Soregaroli e A. Scalera, Brescia, fondazione Civiltà Bresciana, 2002, pp. 103-6.

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giuseppe crimi

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V’eran sotto per foco del Burchiello 5

l’ossa ordinate per le man’ d’Anchisee vi soffiava sotto il re Cambise,ch’era sentato [‘seduto’] sopra un pipistrello.

La scena comica e, se si vuole, anche grottesca mi pare che si rivesta di un senso metaletterario: le ossa del Burchiello, in sostituzione del consueto legname, sono impiegate per alimentare il fuoco sotto un cal de rone,120 come in un rogo simbolico con cui la Poesia comica tenta di liberarsi – ma solo per poco piú di un secolo – dei residui del cadavere di un mae-stro ancora tanto influente quanto ingombrante.121

120. Il lavezzo è un « recipiente da cucina, di pietra ollare con manico » (n. di Chiesa a folengo, Baldus, cit., i 54, vol. i p. 74).

121. Ma già anni prima il Caporali aveva descritto la morte del Burchiello, causata da un calcio del cavallo Pegaso (cfr. N. Cacciaglia, Il ‘Viaggio di Parnaso’ di Cesare Caporali, Perugia, Guerra, 1993, ii 737-48, pp. 99-100).

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APPEndIcE

Si dànno in trascrizione diplomatica gli incipit dei sonetti della raccol-ta del Chersino. Con l’asterisco * dopo l’indicazione numerica sono con-trassegnati i testi plagiati:

Per darui vn poco di piacer’honesto (i)Venne una noua già mill’anni sono (ii)Portaua vn di Nettuno vna caualla (iii)fate castrar’vn’oca beretina (iv)L’è vna mal cosa hauer la paladina (v)Vna Ninfa di stoppa inghirlandata (vi)Vn Bracco, vn Tigre, vn Gatto, & vna Mona (vii)Staua vn carro di fieno ne la Luna (viii)L’anno del bistestil corse in Morauia (ix)Pauia, e Milan son fatti per incanto (x)Pesaua vn’asinello de’ carpioni (xi)Vna gnacchera fatta di dobletto (xii)Vn menacò c’hà buona sale in zucca (xiii)Vendo Signori un’oglio di Medusa (xiv)Le mie balle Signor, non son di quelle (xv)Vn coscin di polenta informaggiata (xvi)Pescando vn Pescator l’Acque d’Antona (xvii)*Io viddi in Catalogna partorire (xviii)*Io viddi vn armarol dentr’a Milano (xix)*Ne l’India maggior de l’Etiopia (xx)*Di rouaiotto, e di panico gialdo (xxi)Vn naso hò visto, largo, e longo, e piano (xxii)Su’l monte di Parnaso vn dí si vidde (xxiii)Soleua un cocodril mangiar de l’oro (xxiv)Visse di già vn gran Rè, ne la Bertagna (xxv)*Codro fabricò già sul mar vn ponte (xxvi)*Viddi un’Alocco vscir d’una pantiera (xxvii)*Tre vaghe donne viddi in vn bel piano (xxviii)*Date a Pasquin de la minestra calda (xxix)Ogn’anno fà vna festa il Prete Eganni (xxx)*Vn gran conuito fú fatt’in Milano (xxxi)*Combattendo ser Turno co’ Rifei (xxxii)*

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giuseppe crimi

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Un cantaro di faua mal menata (xxxiii)Staua vn fachino al porto di Brandicio (xxxiv)*Nel mar di Grecia, appresso alla Vallona (xxxv)*Io viddi in Camalech vn’ortolano (xxxvi)*In Lombardia, nel Lago di Garda (xxxvii)*Hauendo vn ragno tesa la sua rete (xxxviii)*Quando Cambise amazzò ’l gran gigante (xxxix)*fú già ne la pignera di Rauenna (xl)*Nella Città gentile di fiorenza (xli)*Molti addimandan qual’è la cagione (xlii)*Passando il Golfo di Costantinopoli (xliii)*Io vidi in dito al Rè Carlo, vn’anello (xliv)*Volendo campeggiar il Tamburlano (xlv)*Nel Monte Olimpo, nascon Sparauieri (xlvi)*Ne l’Elba, qual’è lí presso a Piombino (xlvii)*Quand’il Rè Carlo conquistò la Spagna (xlviii)*Al Cairo ne la casa del Soldano (xlix)*Vn becco azurro nacque in ferrarese (l)*Vna gran frotta d’Asini Spagnuoli (li)Riritateui tosto a far l’vsura (lii)Oltra ’l Regno di Troia, viddi in vn loco (liii)*Già ne la destruttion di Troia antica (liv)*Vna gallina nacque in Padoana (lv)*Passando già per la dura montagna (lvi)*Piouendo a goccie vna volta in Damasco (lvii)*Io mi raccordo hauer visto due galli (lviii)*Oltra ’l mar rosso, è poi vn’altro mare (lix)*Di Cartagine il Rè, fece già vn’ dono (lx)*Molti ignoranti, a’ quai legger incresce (lxi)*Passando per il Pò viddi un sturione (lxii)*Il Rè di francia hauea due armellini (lxiii)*Io viddi ne la corte al Saladino (lxiv)*Io viddi vn giocator di bagatelle (lxv)*Teneua in casa il Duca da Storlich (lxvi)*Un’arbor nasce nel Settentrione (lxvii)*Tenia il Turco vn bel gatto maimone (lxviii)*Il gran Mastro di Rodi, fè vn’armata (lxix)*Vna volta la Luna venne in terra (lxx)*Caualcando Alessando per Thessaglia (lxxi)*

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i sonetti della bugia di francesco moise chersino

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Io viddi vn’orbo, che guardaua vn muto (lxxii)*Essendo io vna volta in Trebisonda (lxxiii)*Ne’ campi Elisi appresso alla sua porta (lxxiv)*Io fui pur vna volta nel Toniso (lxxv)*Questa notte insognai, ch’vn gatto hauea (lxxvi)Chi crederebbe, che due pecorelle (lxxvii)Da la man destra del vento sirocco (lxxviii)Egli è per certo vn beccar a Viterbo (lxxix)*Ricordomi hauer visto in Sardigna (lxxx)*Quando in Cucagna staua ’l Rè Gualfoni (lxxxi)*Nel tempo, che ’l filosofo Solone (lxxxii)*Brindisi, e bonprofaccia, & un stafilo (lxxxiii)Ritornate facchini alla Dogana (lxxxiv)Vn melon tondo, come vn pal di ferro (lxxxv)Combattendo rabbiosi, a ferri aguzzi (lxxxvi)Plotin, Plutarco, e ’l gran Leon Hebreo (lxxxvii)Portatemi ò scolari la padella (lxxxviii)Se volete venir meco al Goletto (lxxxix)Cento grue pelate in Auignone (xc)La codesella hà fatto hoggi vn duello (xci)Vna scardoua acconcia coi budelli (xcii)Piglia vna soma di formento magro (xciii)Porgetemi gli incudi, ò barbagianni (xciv)Vna mariola di lardo porcino (xcv)I verzi le spinaccie, e ’ rauanelli (xcvi)Rideuan le cicale a mezzo Agosto (xcvii)Volse il Burchiel far pasto a molti ingegni (xcviii)Vna trombetta dolce come ’l pane (xcix)Due sporton di naranci, & vn di lame (c)Trentasei millia gnocchi di Leuante (ci)Chi crederebbe, ch’vn fornar peloso (cii)La sganduffia famosa, e la fandonia (ciii)Andate a far a’ sassi in mezzo al ballo (civ)Vna bilancia fatta di mascherpa (cv)Vua passa, & zenzale, e gnocchi a lesso (cvi)Menando la fauetta a rompicollo (cvii)Esopo vendemiaua vn piè di pieri (cviii)Vn lavezzo di piombo col cerchiello (cix)Rimaneteui priui di salsume (cx).

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Massimo Castoldi

« Il PREtE RIdE E lA SERvA bAllA ». PIEtRo MIchElI E lA StoRIA dEl nonSEnSo

Nell’ultimo decennio dell’Ottocento in Italia il dibattito sul simboli-smo, e in particolare sulla poesia di Verlaine e di Mallarmé, fa riflettere poeti, critici e lettori non solo sul ruolo e sulla funzione del poeta, ma anche sull’autonomia poetica del significante e con essa inevitabilmente sul valore e sulla tradizione del nonsenso, pur nella consapevolezza del-le diverse implicazioni estetiche. Enrico Panzacchi data al 1891 un suo breve saggio, intitolato simbolisti (Frammento), pubblicato nel 1898 nel vo-lume Morti e viventi.1 È il solo saggio esplicitamente datato fra i dodici che compongono il volume, insieme con una breve nota su d’Annunzio pla-giario. Certamente a Panzacchi interessava insistere su quella data, che avrebbe anticipato sia il libro di Vittorio Pica, Letteratura d’eccezione (1898), sia il saggio di Arturo Graf, Preraffaelliti, simbolisti ed esteti (1897), sia soprat-tutto l’articolo di René Doumic, La poétique nouvelle (1895), nonché la traduzione italiana in due volumi del molto discusso saggio di Max Nor-dau, Degenerazione (1893-1894, dedicato a Cesare Lombroso), articolata denuncia, ma a un tempo anche accurata analisi, delle nuove tendenze della cultura letteraria europea.2

Il 1891 è anche la data della prima edizione delle Myricae di Giovanni Pascoli (pubblicate a Livorno nella tipografia di Raffaello Giusti in cento copie per le nozze di Raffaello Marcovigi), che certamente rappresenta-rono un momento significativo per la nuova concezione della poesia.

1. E. Panzacchi, Morti e Viventi, Catania, Giannotta, 1898, pp. 88-99.2. V. Pica, Letteratura d’eccezione, Milano, Baldini e Castoldi, 1898. I primi due capitoli

sono interamente dedicati a Paul Verlaine (pp. 5-93) e a Stéphene Mallarmé (pp. 95-207), seguono pagine su Maurice Barrès, Anatole france, francis Poictevin, Joris-Karl Huy-mans. Cfr. anche A. Graf, Preraffaelliti, simbolisti ed esteti, in « Nuova Antologia », s. iv, vol. lxvii 1897, fasc. 1 pp. 29-46, e fasc. 2 pp. 268-92; R. Doumic, La poétique nouvelle, in « Revue des deux mondes », lxv, to. cxxx 1895, pp. 935-46; M. Nordau, Degenerazione, versione autorizzata sulla prima edizione tedesca per G. Oberosler, 2 voll., Milano, Dumolard, 1893-1894.

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Con quella data, pertanto, cosí ben evidenziata a fine articolo, Panzacchi sembra voler dichiarare una precedenza, o comunque sentirsi legittima-to a scrivere senza dover tener conto di tutto quanto scritto negli anni successivi. Bisognerebbe indagare se nei fatti queste pagine siano state scritte o magari anche pubblicate su qualche rivista nel 1891, sinceramen-te non ho condotto ricerche sistematiche in questa direzione e quindi non saprei rispondere con sicurezza. Quel che è indiscutibile è, tuttavia, l’importanza attribuita da Panzacchi a quella data.

Il breve saggio coglie l’essenza del simbolismo nel principio che « le parole e le frasi del linguaggio oltre i loro significati oggettivi e noti al-l’universale, hanno, per chi possegga uno squisito senso artistico, un va-lore di impressione e di associazione ideale e fantastica tutto proprio del loro organismo fonetico e della loro stessa configurazione grafica ». « La Parola », precisa Panzacchi, « è studiata dai Simbolisti in tutti i suoi piú minuti elementi di eccitamento sensorio e fantastico, in tutte le sue piú recondite prerogative di sensazione musicale ». « Avviene », conclude, « piú d’una volta che questa eccessiva cura della musicalità renda oscuris-simo il senso delle loro liriche, oppure che non si riesca a trovarvi senso alcuno. Non importa. […] Chi legge o ascolta […] vedrà a poco a poco, come il fumatore d’oppio, delinearsi e colorirsi le mirifiche visioni di-nanzi alla sua mente… Intanto tutto il suo sistema nervoso vibrerà come una lira ».3 Da questo momento, in Italia, come in francia e nel resto d’Europa, il significante affermerà sempre piú la sua autonomia e pertan-to anche il nonsenso verrà percepito non piú soltanto come gioco infan-tile o giocosa parodia, ma anche come una complessa modalità di cono-scenza e di rappresentazione.

In questo decennio di serrato dibattito critico sulla nuova poesia non sorprende che al giovane professore livornese Pietro Micheli sia venu-to in mente di pubblicare un saggio dal titolo Letteratura che non ha senso, aggiornandolo a piú riprese tra 1893 e 1900, al fine di tracciare la storia del nonsenso in tutti i suoi aspetti, in tutte quelle forme di espressione lette-raria, come egli stesso scrive, che sono animate dal « desiderio di trasfor-mare le parole per compiacersi dell’armonia che ne deriva » e incentrate

3. Panzacchi, Morti e viventi, cit., pp. 91-92, 98-99.

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« sulla proprietà che hanno alcuni vocaboli di attirare la nostra attenzione col loro suono »: dal gioco, alla filastrocca, alla parodia, alla nuova poe-sia.4

È un’opera, dunque, sicuramente contemporanea, che anche diviene e si amplia con attenzione al dibattito critico di quegli anni e si diffonde almeno fra gli addetti ai lavori. Non è un caso che l’edizione definitiva, pubblicata per Raffaello Giusti a Livorno nel 1900, sia presente nelle bi-blioteche private di Giosue Carducci, di Giovanni Pascoli, e di Luigi Pi-randello.5 In due foglietti conservati nel suo esemplare Pirandello tra-scrive per esteso una porzione di testo compreso tra la p. 16 e la p. 18, nella quale Micheli si sofferma sui mostri favolosi della mitologia e li paragona a certi nonsensi in poesia, spiegando che « in questi, sono appic-cicate fantasticamente le membra di animali differentissimi », in quelli « le frasi sono messe l’una dietro l’altra senza nesso », secondo un criterio analogico, simile a quello dei sogni e delle allucinazioni. E cosí Leonar-do da Vinci avrebbe trovato affinità tra il sorriso della donna e il guizzo dell’onda. La poesia, prosegue Micheli e trascrive Pirandello, a differen-za della pittura e della scultura, che « non possono evitare la materialità », « può rendere la momentanea illusione ed il successivo ritorno alla realtà, con l’animo ancora vibrante per la gioia del sogno fugace ». A esempio di tale possibilità Micheli cita il sonetto Il bosco dalle Myricae di Pascoli, che Pirandello trascrive integralmente. Il bosco pascoliano si anima infatti di

4. P. Micheli, Letteratura che non ha senso, Livorno, Giusti, 1900, p. 9. Un primo accenno del saggio è in Id., saggi e conferenze: letteratura che non ha senso, l’originalità degli scrittori, i poeti del vino, i cani nella letteratura, Livorno, Tip. della Gazzetta Livornese, 1893, pp. 3-16; seguí l’articolo Letteratura che non ha senso, in « Il Pensiero italiano », vol. xv, v 1895, fasc. 59 pp. 321-34 e fasc. 60 pp. 443-61, un estratto del quale Micheli inviò a Giosue Carducci (Biblio-teca Museo Archivio Casa Carducci, buste 141 21); infine il vol. Letteratura che non ha senso, Conegliano, Cagnani, 1897. Ringrazio Nicoletta Campana del Centro di Documentazio-ne e Ricerca Visiva della Biblioteca Labronica « f.D. Guerrazzi » di Livorno e Matteo Rossini della Biblioteca Museo Archivio Casa Carducci di Bologna per le preziose indi-cazioni bibliografiche.

5. Biblioteca Museo Archivio Casa Carducci, segnatura 1 a 465; Biblioteca di Casa Pascoli a Castelvecchio, segnatura XI 2f 23; per la biblioteca di Pirandello, cfr. A. Barbi­na, La biblioteca di Luigi Pirandello, con una premessa di U. Bosco, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 58 e 129.

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fauni e di ninfe, che quando dileguano lasciano un inconfondibile palpi-to di vita nella « boscaglia ».6

Pietro Micheli, nato a Livorno nel 1865, è certamente un minore nel panorama letterario italiano tra Ottocento e Novecento, ma non privo di originalità. Sul finire del secolo fu insegnante al corso superiore della scuola di viticoltura e di enologia di Conegliano veneto ed ebbe la felice in-tuizione di sfruttare la circostanza per divenire un esperto di letteratura enologica, scrivendo vari articoli sulla presenza del vino nell’opera degli scrittori, in parte poi raccolti nel volume La gloria del vino; del medesimo orientamento tematico è anche un saggio su I cani nella letteratura.7 Mi-cheli fu autore di tre romanzi,8 studioso di letteratura popolare e dialet-tale, nonché di Manzoni, Guerrazzi, Poliziano, Boiardo, Ariosto e Berni. È noto il suo commento all’orlando Furioso.9 Oltre che a Conegliano, insegnò a Crema, a Catania, dove nel 1908 divenne collaboratore del lo-

6. « O vecchio bosco pieno di albatrelli, / che sai di funghi e spiri la malía, / cui tutto io già scampanellare udia / di cicale invisibili e di uccelli: // in te vivono i fauni ridarelli / ch’hanno le sussurranti aure in balía; / vive la ninfa, e i passi lenti spia, / bionda tra le interrotte ombre i capelli. // Di ninfe albeggia in mezzo a la ramaglia / or sí or no, che se il desio le vinca, / l’occhio alcuna ne attinge e il sol le bacia. // Dileguano; e pur viva è la boscaglia, / viva sempre ne’ fior de la pervinca / e ne le grandi ciocche de l’acacia ». Un terzo foglietto autografo di Pirandello allude al tema della derisione: « La derisione. Di-ceva il La Bruyère che la derisione è sovente povertà di spirito. E il La Rochefoucauld che: “Se non avessimo difetti, non prenderemmo tanto piacere osservandone negli altri” ».

7. P. Micheli, La gloria del vino, Casalmonferrato, Marescalchi, 1929; Id., I cani nella letteratura. Conferenza tenuta al Circolo filologico di Livorno il 25 Marzo del 1891, Conegliano, Cagnani, 1891; poi in Id., saggi e conferenze, cit., pp. 33-43, e in Id., Conferenze, Città di Ca-stello, Lapi, 1909, pp. 89-119.

8. Rassegnazione, Livorno, Giusti, 1904; Ribellione, Città di Castello, Lapi, 1909; A mezza strada, Livorno, Giusti, 1925.

9. L. Ariosto, orlando Furioso, con intr. e note seguite da un commento estetico di P. Micheli, 2 voll., Milano, Vallardi, 1908. Tra i saggi di critica letteraria piú significativi di Pietro Micheli: Due poeti vernacoli livornesi, Conegliano, Cagnani, 1897 (poi in Id., saggi critici, Città di Castello, Lapi, 1906, pp. 101-43); Dal Boiardo all’Ariosto, Conegliano, Cagna-ni, 1898; L’orlando innamorato rifatto dal Berni, Padova, Randi, 1900 (poi in Id., saggi, cit., pp. 145-67); Guerrazzi, Pascoli e la critica moderna con alcuni scritti inediti di Giovanni Pascoli, Livor-no, Giusti, 1913; La vita e le opere di Angelo Poliziano, ivi, id., 1917; Intorno alle liriche del Man-zoni, Napoli, Perrella, 1917; La morte di ermengarda, ivi, id., 1918. Per un profilo compiuto di Micheli si legga il fascicolo a lui dedicato in morte nella rivista livornese « Liburni Civi-tas », vii 1934, fasc. 6 pp. 261-314, con i saggi di Bianca flury Nencini, Arturo Marescalchi,

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cale « Giornale di Catania », e a Bologna, per tornare nel 1911 nella sua Livorno, dove morí nel 1934. A Catania fu per parecchi mesi vicino di camera e commensale di Luigi Capuana, del quale ci ha lasciato un signi-ficativo ritratto;10 a Livorno fu amico in gioventú di Giovanni Pascoli; e anche su Pascoli uomo e poeta ci ha lasciato numerose testimonianze a partire da una delle prime recensioni a Myricae, apparsa su « La Gazzetta Livornese » del 20 agosto 1891.11 fu anche grande amico di Dino Proven-zal, col quale intrattenne un fitto carteggio.12

L’edizione Giusti di Letteratura che non ha senso è un volume composito, eterogeneo, con qualche ripetizione, una disposizione degli argomenti non sempre ordinata, ma ricco di aneddoti, di spunti e di osservazioni, talora anche di prima mano, altre volte suggerite da letture non comuni, molto utili per ricostruire aspetti e tendenze del nonsenso, piú forse nella prospettiva contemporanea tardo ottocentesca, che in quella piú de finitamente storica, che, invece, si appoggia su riferimenti piuttosto vulgati. Interessanti sono le pagine dedicate al gusto per il nonsenso nel

Paolo Zàlum, Arturo Bini, Dino Provenzal, frida Gabrielli, Gino Galletti, Luigi Man-nucci, Luigi Pescetti, che ricordano l’amico, il professore, il narratore, lo studioso.

10. P. Micheli, Luigi Capuana. Ricordi personali, in « Liburni Civitas », vii 1934, fasc. 6 pp. 261-66, tratto postumo dagli appunti per una conferenza che il Micheli tenne al Circolo filologico livornese nel 1928. Cfr. M. Castoldi, « Liburni Civitas »: Pietro Micheli e i ritratti di Capuana e Pascoli, in Letteratura e riviste. Atti del Convegno internazionale di Milano, 31 marzo-2 aprile 2004, a cura di G. Baroni = « Rivista di letteratura italiana », xxii 2004, pp. 133-36.

11. Altri contributi di Pietro Micheli su Pascoli sono: Myricae, in « La Gazzetta dell’Emi-lia », 21 maggio 1894; La poesia di Giovanni Pascoli, in « L’Edelweiss », i 1897, fasc. 26 pp. 410-12; Una visita al Pascoli, in « La vita internazionale », iv 1901, fasc. 6 pp. 190-92; Giovanni Pa-scoli, ivi, v 1902, fasc. 13 pp. 404-7 e fasc. 14 pp. 432-35; Giovanni Pascoli, in Id., saggi, cit., pp. 57-78; Guerrazzi, Pascoli e la critica, cit.; Due madrigali dimenticati del Pascoli, in « La Rassegna », xxvi 1918, fasc. 4-5 p. 275; Rassegna pascoliana, ivi, xxvii 1919, fasc. 1-2 pp. 40-45; Il vino nella poesia di Giovanni Pascoli, in « Il Telegrafo », 21 febbraio 1922; Bizzarrie e fatti personali, in Li-vorno a Giovanni Pascoli. vi Luglio mcmxxiv, Livorno, Giusti, 1924, pp. 50-52; storia di un’ode latina, in « I nostri quaderni », i 1924, fasc. 12 pp. 394-95; Ricordi pascoliani, in « Pègaso. Ras-segna di lettere e arti », v 1933, fasc. 3 pp. 261-72; nuovi ricordi pascoliani, in « Liburni Civitas », vii 1934, fasc. 2 pp. 81-97.

12. D. Provenzal, Ricordi di Pietro Micheli, in « Liburni Civitas », vii 1934, fasc. 6 pp. 282-89.

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linguaggio comune, negli usi e nelle tradizioni popolari, delle quali Mi-cheli era esperto conoscitore.

C’è, a giudizio di Micheli, un vero e proprio « compiacimento, che han-no gli uomini, di emettere suoni, che non hanno significato, o ne hanno uno indeterminato e confuso ».13 Il linguaggio stesso sarebbe derivato da suoni imitativi. L’approccio è positivista e sperimentale. Prendendo spunto da un recente studio di Ludovic Dugas, Le Psittacisme et la pensée symbolique. Psychologie du nominalisme,14 Micheli si sofferma su questa mo-dalità del linguaggio, psittacismo appunto, incline a ripetere automatica-mente ciò che si legge o si sente senza però comprenderne il significato e che sarebbe, laddove non diventa patologia, all’origine del nonsenso.

Può essere che alcune parole vengano assunte nell’uso piú per il gusto di ripeterne il suono, che per il loro significato, cosí Micheli ricorda di aver conosciuto un tale « per cui tutte le persone e le cose erano trabiccoli e trabiccolai », cosí registra l’abuso che si farebbe della parola tranvai: « una donna grassa è un tranvai, un poco di buono un tranvai, un abito mal fatto, un impiccio, un ragazzo noioso e tante e tante altre cose sono tranvai » (pp. 5-6). Ne seguirebbe il valore puramente evocativo, « feticismo della parola » dice Micheli, che assumono gli slogan, gli scongiuri, le formule magiche, addirittura molte preghiere.

Ripetendo o ascoltando i modi di dire degli altri, si crede di appropriarsene il pensiero e il sentimento. [Si diventa cosí] monarchici, repubblicani, socialisti, anarchici, senza sapere che cosa sia socialismo, monarchia, anarchia, repub blica! (p. 7).

E cosí « la fiducia nelle parole, non intese, fa sí che il popolo non trova strano l’ascoltare la Messa, di cui non capisce nulla, e il recitare le pre-ghiere latine, che egli non sa quello che significhino, e che, passate per la sua bocca, non significano piú niente ». E come Sacchetti nell’undicesima delle sue Trecentonovelle parla del balbuziente Alberto da Siena che aveva trasformato il « da nobis hodie » del Paternoster in una misteriosa « Don-

13. Micheli, Letteratura, cit., p. 4 (le successive indicazioni di p. dir. a testo).14. L. Dugas, Le Psittacisme et la pensée symbolique. Psychologie du nominalisme, Paris, félix

Alcan, 1896.

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na Bisodia » che doveva darci il pane quotidiano, cosí a Livorno Micheli sentí dire « che lo misero in du’ casse », dal « ne nos inducas » della mede-sima preghiera latina (p. 8).15 Il suono arriva prima del significato, lo stravolge, e crea nuove libere associazioni di suono piú che di idee. Can-tilene infantili, frasi per giochi e balli sono per questo tutte, scrive Mi-cheli, come le ninne nanne, « serenamente incuranti del concetto » (p. 10). Non hanno senso, importano solo per il loro suono, che deve trastul-lare, divertire o addormentare.

L’antologia è molto essenziale, ma gli esempi sono sufficienti e illumi-nanti: parole semplici che alludono genericamente alla quotidianità del-la vita agreste (il pollo, la buccica o buccia dell’olmo, la polenta, il prete, la serva) accostate per generare sonorità suggestive, ma senza alcun sen-so, oppure col gusto del paradosso. Scrive Micheli:

Sul desiderio di trasformare le parole per compiacersi dell’armonia che ne deri-va, sulla proprietà che hanno alcuni vocaboli di attirare la nostra attenzione col loro suono, sull’errore diffusissimo che la cognizione dei vocaboli porti quella delle idee, si fonda la letteratura che non ha senso (p. 9).

fate la nanna, coscine di pollo,la vostra mamma vi ha fatto un gonnello,e ve lo ha fatto di buccica d’olmo;fate la nanna, coscine di pollo.

Polenta dolce,polenta gialla,il prete ride e la serva balla.Il prete fa le conchee la serva gliele rompe.Il prete le rifàe la serva le lascia stà.

15. Nella novella di Sacchetti, Alberto è richiamato per burla dall’inquisitore che, d’ac-cordo con l’amico Guccio Tolomei, gli fa recitare il Paternoster, ma la sua lingua incespica sul « da nobis hodie » e l’inquisitore lo accusa allora di essere un patarino e in quanto tale di non riuscire a dire le « cose sante ». Spaventato della minaccia e timoroso di essere con-dannato spiega all’amico Guccio che l’inquisitore « dice che io sono paterino, e che io torni a lui domattina, e ancora non mancò per quella puttana di donna Bisodia che è scritta nel Paternostro che non mi facesse morire allotta allotta ».

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Uno due e tre:nun guardare e nun vedè.

C’è dunque un nonsenso primitivo, essenziale, all’origine stessa del lin-guaggio e del ritmo, che Micheli paragona addirittura allo scodinzolare e all’abbaiare del cane, allo scuotere la criniera e al nitrire del cavallo, ai fischi acuti delle rondini che s’inseguono nell’aria (pp. 11-12).

Un’altra forma di nonsenso sulla quale Micheli indugia con ampiezza di riferimenti, a volte anche sorprendenti, e definendola quasi fosse un vero e proprio genere letterario, in gran parte perduto per la sua carat-teristica specifica di oralità, è l’arte del discorso senza senso, fatto talora per parodia, talora per inganno, talora semplicemente per gioco. Ne furono maestri nel Decameron Maso del Saggio coi suoi inganni a Calan-drino e frate Cipolla, quando predica ai contadini di Certaldo, inaugu-rando un genere che ebbe molti continuatori nei novellieri successivi a partire dal Sacchetti. Affini a queste sarebbero, per Micheli, molte pre-diche religiose volte a confondere piú che a chiarire le idee, come quel-la, allusa ma non trascritta, del teologo francescano Andrea Vega al Con-cilio di Trento, che, come racconta Paolo Sarpi, « dopo avere parlato con tanta ambiguità che esso stesso non si intendeva, concluse che tra la sentenza dei teologi e protestanti non v’era piú differenza veruna » (Isto-ria del Concilio tridentino, ii 61 9). Paolo Sarpi ci farebbe immaginare con questa breve battuta tutto il suo discorso sonoro, ma sconclusionato (pp. 24-25). Carattere analogo avrebbero molte profezie, che fondano nella confusione e nell’ambiguità la loro ragione di esistere. Ma la consuetu-dine a straparlare per il piacere di farlo era invalsa anche nel secondo Ottocento, sia tra il popolo, sia tra gli artisti. Si va dal vinaio di Livorno, che si divertiva a dare insensate indicazioni a chi gli chiedeva una strada sul tipo di:

Guardi, lei va dritto, poi volta a destra, poi a sinistra, dove trova un venditore di lumi da incenso, allora va piú in là, dove ci sono dei monticelli d’acqua, passati i monticelli, a sinistra, c’è una strada; lei domanda: è questa la via tale? Gli rispon-deranno di sí (p. 19);

a un tale signor Salvatore Affinito, che in provincia di Lecce era noto per

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imitare gesto e voce specialmente degli uomini politici, formulando di-scorsi dal perfetto ritmo oratorio, ma senza alcun senso:

Onorevole consesso, pubblico immenso, popolo grande, a cui io rivolgo la mia parola; non è certamente la metempsicosi dei fatti, l’alienazione della mente, la progenesi medesima; ma l’apocalisse di ciò che affermasi è dimostrato e patriot-tico. Grandi furono gli uomini, sublimi le idee, preconcetti i sentimenti, che dovevano apportare al vero progresso della patria e nazione (p. 35).

fra gli eredi ottocenteschi di frate Cipolla e di Maso del Saggio ci sa-rebbe stato anche il pittore milanese Campi, noto per avere illustrato i Promessi sposi (Milano, Hoepli, 1912), che a dire dell’avvocato milanese Pirro Aporti, direttore del periodico « Il pensiero italiano », sul quale nel 1895 Micheli aveva pubblicato la seconda redazione del saggio, era solito improvvisare discorsi senza alcun senso anche in alcune lingue straniere. Pare che avesse parlato in tal modo presso la famiglia Artistica in onore di Emile Zola, il quale, di passaggio a Milano, non avrebbe saputo « capa-citarsi di non aver capito nulla di uno splendido discorso accademico indirizzatogli scherzosamente in francese dal Campi » (p. 36 n.).16 Per non parlare poi degli improvvisatori di versi e canzoni senza senso che si aggiravano nelle varie città per osterie. Il Micheli ne ricorda uno a Por-denone, che descrive minutamente nell’aspetto, nei vestiti e nei modi, ma anche nella sua voce, abilissima tanto nel variare timbro, ora lenta e cadenzata ora rapida e vibrata, quanto nel non dire mai una frase sensata, ma nell’intrattenere il pubblico interi quarti d’ora con parole del tipo:

16. Qui il Micheli si riferisce a una « Nota della Direzione », che Pirro Aporti aveva aggiunto alla sua seconda redazione del saggio in « Il pensiero italiano », vol. xv, v 1895, fasc. 60 p. 446: « Auguriamo all’amico articolista di assistere a qualcheduna di quelle scene comiche che, senza farsi mai pagare, regala agli amici e talora al pubblico a scopi benefici quel singolarissimo ed esimio artista che è il pittore milanese Campi, noto urbi et orbi per le sue mirabili ombre. Egli pronunzia in modo sorprendente squarci d’oratoria, prediche, brindisi, discorsi, lezioni et similia, non solo senza senso ed in lingua italiana, ma pure in lingue straniere, o per dir meglio con suoni articolati che imitano a perfezione parole ed accenti di queste lingue; e ciò fa sí bene che Zola, una sera che lo si festeggiò qui a Milano alla famiglia Artistica, non sapeva capacitarsi di non aver capito un bel nulla d’uno splen-dido discorso accademico dal Campi scherzosamente indirizzatogli in francese, e ch’egli aveva religiosamente ascoltato ».

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Vola aquila nefasta, sopra il patrio olivo riscaldato dalle sublimi carezze del sole morituro in un delirio di nebbia: vola o bipede implume ricoperto di stelle […] (p. 48)

Un altro in Basilicata, oste con la bottega a Sant’Eligio sulla via da Matera a Grottole, che faceva brindisi con versi e prosa, canti e balli, « gorgheggi, che ora parevan gargarismi ora grugniti », balletto « da orso male ammae-strato », una vera e propria singolare performance, della quale rimane me-moria forse solo nelle parole di Micheli, ma che fa riflettere (pp. 49-50).

Un terzo aspetto del volume di Micheli è quello della vera e propria storia del nonsenso, attraverso le sue testimonianze scritte. forse è la parte, per noi, meno interessante, perché ci dice a volte in modo anche piuttosto frettoloso quello che già sappiamo. Dai medievali « cicalamen-ti sconclusionati » dei giullari (resveries, fatras, fatrasies, fatrasseries, in Spagna ensaladas, ensaladillas) in Italia frottole, secondo Antonio da Tempo « verba rusticorum, nullam perfectam sententiam continentia », ovvero nonsen-si, ai gliommeri di francesco Galeota e di Jacopo Sannazaro, fino ai preve-dibili Burchiello e Berni, con allegati burchielleschi e berneschi (pp. 32, 36, 42). Né manca Micheli di segnalare la canzone « proverbiosa o frotto-lata » di Petrarca, Mai non vo’ piú cantar come soleva, alcune farse toscane come La villana di Lamporecchio, dell’attore fiorentino Luigi del Buono (1751-1832), e anche Il poeta fanatico di Carlo Goldoni, che faceva improv-visare a Brighella (a. iii sc. 7) ottave del tipo (p. 52):

Era di notte e non ci si vedea,perché Marfisa aveva spento il lume;un rospo colla spada e la livreaballava il minuetto in mezzo a un fiume.L’altro giorno è da me venuto Eneae m’ha portato un origlier di piume:Cleopatra ha scorticato Marcantonio,le femmine son peggio del demonio;

o giornali satirici stravaganti e al tempo popolari come il « Travaso delle idee » del contemporaneo maceratese Tito Livio Cianchettini (1821-1900), fino ad arrivare niente meno al dramma Rodolfo di Giovanni Prati (p. 79):

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Dottrine di rattoppo, a frusti e ciarpecome fa il rigattier di sua mondigliaspaccian gli industri: e giubberelli e scarpegiuran cucir d’Adamo alla famiglia.Ma per ciottolo o tigna che le carpela costura si frange e si scaviglia,o a mezza falda il refe si discruna,e il mal di morte è il segno della cuna.

Micheli non lo dice, ma anche ferdinando Martini nella sua edizione delle Poesie di Prati dichiara apertamente di non aver capito e che questi versi « sfidano le lucubrazioni de’ commentatori piú pazienti ed ar guti ».17

Il nonsenso è spesso stato anche parodia. Tra gli esempi recenti piú si-gnificativi Micheli ricorda Baretti che nella « frusta letteraria » fa la paro-dia al facile « saltare di palo in frasca » di Passeroni o il dramma Adramiteno dragma anfibio per ragione di musica, canzonatura dei melodrammi di Meta-stasio. Talvolta è burla, semplice gioco, e anche qui gli esempi di Micheli sono numerosi (p. 61). Terminato il suo excursus storico letterario, Miche-li, prima di concludere, si vuole soffermare su quegli scrittori « special-mente poeti » che « si occupano nelle loro opere non tanto di esprimere sentimenti o pensieri, quanto di ottenere con la combinazione ritmica delle sillabe un’armonia prestabilita, che di per sé deve risvegliare idee vaghe, sensazioni indeterminate », e dichiara « caposcuola di questi mo-dernissimi poeti in francia », Paul Verlaine (p. 76). La posizione di Miche-li è incerta e perplessa, in alcuni passaggi oserei dire imbarazzata, sia pure ben documentata: condanna il nonsenso richiamandosi ora a Dante, Vita nuova, xxv 10: « grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura e di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace in-tendimento »,18 ora all’Uomo di lettere difeso ed emendato di Daniello Bartoli,

17. « Vi sono nel Rodolfo ottave che sfidano le lucubrazioni de’ commentatori piú pa-zienti ed arguti. In questa, pare – dico pare – il Prati volesse descrivere e rampognare le vergogne sociali del tempo suo […]. Avete capito voi? Io confesso umilmente che no » (G. Prati, Poesie scelte, a cura di F. Martini, firenze, Sansoni, 1892, p. xxiii).

18. Cfr. D. Alighieri, Vita nuova, a cura di D. De Robertis, Milano-Napoli, Ricciar-di, 1980, pp. 177-78.

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allorché il gesuita del Seicento accusa chi nell’esegesi letteraria cerca stra-vaganti « chimere », « fuor d’ogni pensiero dell’autore » e « vuol mutare le libidini in misteri ».19 E precisa: « Sbaglierò, ma mi pare che del simboli-smo presente possa dirsi lo stesso. Certo alcuni simbolisti hanno mag gior raffinatezza dei grossolani seicentisti, ma li somigliano in moltissime co-se, fino nel mutare le libidini in misteri » (p. 83). Ancora si richiama alla polemica contro d’Annunzio di Giovanni Marradi, per il quale (p. 80):

No, il verso non è tutto, se non volasulle ali d’un pensiero alto, o poeta,non ha profumi il fior della parolase non l’effonde l’anima secreta.20

Altre volte, però, dimostra di sentire nel potenziale connotativo della poesia simbolista una grande opportunità. A differenza di Panzacchi, che si era prudentemente collocato nel 1891, Micheli si confronta col dibatti-to contemporaneo e in particolare nell’ultima redazione coi citati saggi di René Doumic, La poétique nouvelle (1895), e di Max Nordau, Degenerazione (1893-1894), che cita espressamente piú volte.21 A Verlaine Micheli rico-nosce in una nota che « anche nei riposi e nelle aberrazioni l’anima sua era interamente poetica »; il poeta simbolista, con il sostegno delle tesi del Doumic, è per Micheli colui che « ode voci arcane, vede immagini inav-vertite dai profani, sente palpitare la vita nelle cose inanimate e crea i simboli ». Il simbolismo « anima l’inanimato, scopre il contenuto ideale sotto l’involucro materiale », a differenza dell’allegoria che « riveste fatico-samente d’immagini concrete un’idea astratta » e pertanto il simbolismo sarebbe « proprio delle età primitive, l’allegoria di quelle man canti di sen-timento poetico » (pp. 77, 80, 82). Ne consegue una dichiarata polemica col saggio Degenerazione di Max Nordau, « un’opera che fece molto chias-so anni addietro », spiega Micheli, ma che ormai non può che essere con-futata. L’arte contemporanea non sarebbe infatti per Micheli una forma

19. D. Bartoli, Dell’huomo di lettere difeso, et emendato, firenze, Stamperia di S.A.S. alla Condotta, 1645, p. 82.

20. Cfr. G. Marradi, Poesie, firenze, Barbèra, 1920, p. 186: Arte e vita (A Gabriele d’An-nunzio), ii 1-4.

21. Cfr. n. 2.

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di corruzione, frutto, come vede il Nordau, di una « ridda di degenerati e di rimbecilliti che cicalano ubriacandosi di parole senza nesso »; Micheli si dimostra convinto dell’importanza del ritmo, del “significante” direm-mo noi, che definisce « uno degli elementi principali della poesia, quello che ne rende cosí difficile la traduzione da una lingua all’altra » (pp. 83-85). Inoltre quello che Nordau stigmatizza come misticismo, ovvero quello « stato di mente in cui si crede di avvertire e di presentire relazioni ignote ed inesplicabili tra i fenomeni, in cui si riconosce nelle cose un accenno a misteri considerati come simboli, mediante i quali una forza occulta cer-ca di scoprire o di accennare miracoli di ogni specie, ad indovinare i qua-li ci si affatica invano » (p. 84),22 altro non sarebbe, come lo stesso Nordau riconoscerebbe, « uno stato ordinario dell’uomo », sempre esistito, consu-stanziale alla sua complessa natura, del quale la nuova poesia non avrebbe fatto altro che trarre una piú lucida consapevo lezza.23

Micheli pertanto, pur se polemico nei confronti di certi eccessi di oscurità dei simbolisti e pur se criticamente ingenuo nell’accostare cosí semplicemente nonsenso e simbolismo, sembra condividere le istanze fondamentali della nuova poesia francese, sia per quanto riguarda il rap-porto tra poesia e conoscenza, sia nella conseguente autonomia del si-gnificante, e sembra cosí implicitamente anche comprendere le nuove frontiere del nonsenso. È molto probabile che tale consapevolezza gli sia derivata anche dal magistero di Giovanni Pascoli, del quale, oltre che amico, fu tra i primissimi lettori, ottenendo piú volte gli apprezzamenti del poeta come uno dei pochi in grado di comprendere la novità della sua poesia. Pascoli gli scrisse per esempio una cartolina a proposito della sua recensione alle terze Myricae, apparsa su « La Gazzetta dell’Emilia » del 21 maggio 1894, dicendo che mai avrebbe potuto « immaginare con quale lucida letizia » sentisse d’essere « cosí indovinato e scoperto », e ag-giungendo che la spiegazione proposta da Micheli del sonetto Il bosco (quello che si era trascritto dal libro di Micheli perfino Pirandello) valeva « piú del sonetto stesso ».24

22. Nordau, Degenerazione, cit., vol. i p. 90.23. Ivi, p. 130.24. Micheli, Guerrazzi, Pascoli e la critica, cit., p. 35.

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Micheli aveva parlato in quella circostanza di capacità pascoliana di rendere « fugaci allucinazioni prodotte dai rumori e dall’aspetto della campagna » e in particolare di « visione rapida, simile all’abbagliamento momentaneo della vista, che si dilegua con un batter di palpebra » e del « successivo ritorno alla realtà, cogli occhi e l’animo ancora pieni del so-gno fugace ». A parte il « ritorno alla realtà », sembra di leggere quello che Panzacchi aveva scritto sui simbolisti: « Chi legge o ascolta […] vedrà a poco a poco, come il fumatore d’oppio, delinearsi e colorirsi le mirifiche visioni dinanzi alla sua mente… Intanto tutto il suo sistema nervoso vi-brerà come una lira ».25

Il dibattito sulla ricezione dei simbolisti, tra il maestro Panzacchi, che in piú occasioni Pascoli ebbe modo di apprezzare piú di ogni altro poeta della generazione precedente e anche di contrapporre a Carducci,26 e il lucido interprete Micheli, che pur giunge al simbolismo seguendo le tracce del nonsenso, si sviluppò, dunque, non solo ma anche nei dintorni pascoliani, nonostante l’autore di Myricae non avesse mai dato segno di averne coscienza. Ma anche le esplicite riserve di Micheli verso il non-senso della nuova poesia francese, col richiamo al valore dell’allegorismo dantesco, al verso che deve volare « sulle ali d’un pensiero alto » di Mar-radi, al generico pericolo di « mutare le libidini in misteri » hanno tutte una probabile matrice pascoliana, rivelando infatti alcuni dei punti di evidente distanza di Pascoli dai poeti d’oltralpe. L’atteggiamento ambi-guo di Micheli verso i simbolisti, che caratterizza le ultime pagine di Letteratura che non ha senso, potrebbe essere dunque condizionato dalla suggestione di Pascoli, il poeta che Micheli seppe intendere meglio di altri fin dal loro primo incontro livornese nel 1888, al punto da dichiarare quello che è, a mio giudizio, segno di un precocissimo intuito, e cioè che « quando il Pascoli venne a Livorno, s’era in troppi a scrivere in versi. […] Ma quando Lo conobbi, io smisi ».27

25. Cfr. n. 3.26. M. Castoldi, Pascoli e Guinizzelli: ‘Al cor gentil ripara sempre amore’, in « Rivista pasco-

liana », xii 2000, pp. 45-50; G. Pascoli, Le canzoni di re enzio, a cura di M. Castoldi, Bolo-gna, Pàtron, 2005, pp. 11-12.

27. P. Zàlum, Il romanzo non scritto, in « Liburni Civitas », vii 1934, fasc. 6 p. 276.

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« Ah, l’ARtE è UnA coSA bEn MIStERIoSA PER ME ». lA REAltà fAntAStIcA dI cESARE zAvAttInI

si legge come seguendo dei passi nell’aria.

Elio Vittorini [1931]

Il diavolo ristabilí la calma distribuendo nerbate a destra e a manca. « Quale piacere », mormoravano quegli spiriti bugiardi.

Cesare Zavattini, Parliamo tanto di me [1931]

Che cosa vedono i pazzi? Bat vorrebbe sapere che cosa vedono le formiche. Egli non oserebbe pren-dere Maria davanti a una formica.

Cesare Zavattini, I poveri sono matti [1937]

Nelle brume del Nord, in un paesaggio nebbioso e umido, come solo sa essere quello del Po lungo i villaggi e le cascine della Bassa, Cesare Za-vattini, inesauribile macchina della creatività e dell’inventiva, estrae da misteriosi filtri una scrittura propria, densa di un surrealismo di natura, inaspettato e incalzante, per nulla prevedibile, interamente rivolto ad inondare il lettore di nonsenserie ad alto voltaggio, portandolo con mano in un altrove dove si nasconde un prezioso « senso del magico senza ma-gia »:1

Zavattini ha capito subito che il realismo è una truffa e, introducendo il nonsense nella vita quotidiana, ha contribuito a mettere in crisi una letteratura che, dopo la prosa d’arte, non aveva esitato a utilizzare gli opachi modelli veristi, masche-rati talvolta dietro squisite metafore dannunziane.2

1. G. Contini, Prefazione a Italia magica. Racconti surreali novecenteschi, Torino, Einaudi, 1988, p. n.n.

2. L. Malerba, Introduzione a C. Zavattini, opere 1931-1986, a cura di S. Cirillo, Mila-no, Bompiani, 1991, p. x.

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Sottrattosi ad ogni facile definizione, Za « ha continuato indenne a costruire i propri racconti inquieti e a spendere se stesso con prodigalità, perfino con qualche sospetto di dissipazione ».3 Da queste acute conside-razioni di Luigi Malerba occorre partire per svolgere un’analisi critica sull’opera narrativa di Cesare Zavattini,4 in particolare sugli scritti che precedono il suo impegno nel cinema, per avvicinarsi alla complessità di « una singolare ma solidissima presenza » nella civiltà letteraria italiana del Novecento:

Nessuna verifica esterna può insomma convalidare la poetica di Zavattini, dob-biamo entrare nelle sue stanze, seguire i suoi percorsi a rischio di perderci, acco-

3. Ivi, pp. x-xi.4. I romanzi e le prose di Cesare Zavattini sono raccolti nel vol. opere 1931-1986, cit., a

cui si rinvia per la Bibliografia, ivi, pp. 1883-96. Sempre per Bompiani nel 1974, a cura di R. Barilli, era apparsa una raccolta di opere. Romanzi, Diari, Poesie. Per le lettere vd. C. Za­vattini, opere. Lettere. Una, cento, mille lettere (lettere dal 1929 al 1983), a cura di S. Cirillo, Milano, Bompiani, 1986; Id., Cinquant’anni e piú… Lettere, a cura di V. Fortichiari, ivi, id., 1995. Inoltre vd. Zavattini parla di Zavattini, a cura di S. Cirillo, Roma, Lerici, 1980; C. Zavattini, Io. Un’autobiografia, a cura di P. Nuzzi, Torino, Einaudi, 2002. Tra le ristampe cfr. Dite la vostra, a cura di G. Conti, pref. di V. Fortichiari, Parma, Guanda, 2002; Parlia-mo tanto di me, pref. di V. Fortichiari, Parma, Monte Università Parma, 2003; Totò il buono, pref. di D. Marcheschi, cit.; Le bugie e altri raccontini, ill. di R. Capasso, ????, 2004; Domande agli uomini, firenze, Le Lettere, 2007. Tra i tanti contributi critici apparsi negli anni Trenta vd. S. Timpanaro, ‘Parliamo tanto di me’, di Cesare Zavattini, in « Solaria », vi 1931, num. 9-10 p. 63; E. Vittorini, oggi, « great attraction »!, in « Il Bargello », iii 1931, fasc. 38 p. 3 (rec. A Parliamo tanto di me), poi in Id., Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 1997 (20082), pp. 427-29. Inoltre vd. G. Debenedet­ti, Lettera all’‘Ipocrita’ [1958], in Id., saggi, progetto editoriale e saggio introd. di A. Berar­dinelli, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1159-68; P.P. Pasolini, rec. a C. Zavattini, stri-carm’ in d’na parola [1974], in Id., saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. ii, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, Milano, Mondadori, 1999, pp. 2043-48; vd. anche G. Brunetta, Zavattini poeta dell’uomo, in « La Repubblica », 14 ottobre 1989, e piú recente studio di S. Parigi, Fisiologia dell’immagine. Il pensiero di Cesare Zavattini, Torino, Lindau, 2006, e S. Cirillo, nei dintorni del surrealismo. Da Alvaro a Zavattini: umoristi, balordi e sogna-tori nella letteratura italiana del novecento, Roma, Editori Riuniti, 2006, in partic. pp. 183 e sgg. Ancora utile è l’agile volumetto di L. Angioletti, Invito alla lettura di Zavattini, Milano, Mursia, 1978, nonché il profilo di W. Mauro, Cesare Zavattini, in novecento, vol. xi, Mila-no, Marzorati, 1988, pp. 482-97. Sui rapporti con Vittorio De Sica vd. P. Nuzzi-O. Iemma, De sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Roma, Editori Riuniti, 1997.

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gliere con alta opinione anche le sue stranezze perché fanno parte della stranez-za del mondo al quale apparteniamo, non soltanto come lettori.5

Racconti e raccontini, novelle, conversazioni scritti e pubblicati tra il 1927 e il 1940, raccolti in seguito nel volume Al macero (1976),6 il trittico giovanile Parliamo tanto di me (1931); I poveri sono matti (1937); Io sono il dia-volo (1942) e il racconto Totò il buono. Romanzo per ragazzi (che possono legge-re anche i grandi), uscito nello stesso anno in cui Zavattini pubblicò per Einaudi un’edizione delle Avventure di Pinocchio (1943),7 e libri colmi di autobiografismo come Ipocrita 1943 (1955), straparole (1967), non libro piú disco (1970), formidabile prova della costante capacità dello scrittore di trovare nuove forme espressive e di manifestare liberamente, senza ipo-crisie o inibizioni, le sue idee sul mondo,8 La notte che ho dato uno schiaffo a Mussolini (1976), e gli ottantanove pezzi usciti dal 1946 al 1984 che for-mano il volume Gli altri (1986), realizzano intanto un unitario esempio di una non generica frequentazione dei territori del surrealismo, perme-ato, certamente per gli scritti fino agli anni Quaranta inoltrati, da corpo-se ascendenze solariane e tratti non frammentari di crepuscolarismo con influenze provenienti dalla lettura fatta in gioventú della poesia di Sergio Corazzini. All’incandescenza del magma degli anni della formazione, in

5. Malerba, Introduzione a Zavattini, opere 1931-1986, cit., p. xvi.6. Vd. C. Zavattini, Al macero, a cura di G. Marchesi e G. Negri, Torino, Einaudi,

1976.7. « Dopo altre vicende, stanco della cattiveria e dell’ottusità degli abitanti di Bamba,

finiti persino ad inseguirlo, Totò inforca una scopa, che si alza nell’aria e sparisce all’oriz-zonte, “diretto verso un regno dove dire buon giorno vuol dire veramente buon giorno”. La fiaba confluisce quindi nell’asserzione dell’utopia, la fantasia e la magia nella speranza di libertà, di vincere meschinità e miseria: un auspicio, un desiderio che ragazzi ed adulti possono ben condividere. È qui il segreto di questo romanzo di Zavattini, dallo stile terso e dal tratto lieve per la freschezza dell’ironia, delle invenzioni surreali, che, ad esempio nell’immagine degli uomini volanti, precedono addirittura certe famose idee pittoriche del René Magritte di Giolconda (1953) » (D. Marcheschi, Prefazione a C. Zavattini, Totò il buono, Parma, Monte Università Parma, 2003, p. vi). Qualche anno dopo la sua uscita, Totò il buono, omaggio nel titolo all’attore napoletano Totò, ispirò il film Miracolo a Milano, diretto da Vittorio De Sica (1951).

8. Vd. P. Dallamano, Zavattini segreto esplode nel libro, in « Paese sera », venerdí 3 luglio 1970.

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cui non si può trascurare la determinante passione per il cinema di Cha-plin, si deve sempre aggiungere una frequentazione, rorida di naturalez-za e sincerità, delle piú raffinate province del surrealismo e del fantastico, che iscrivono il Nostro in una riconoscibile geografia e storia dell’Italia magica.9

Scrittore limpidissimo, tra quelli del pieno Novecento, Zavattini è costretto a subire la consumata e disattenta etichettatura di neorealista ad oltranza, persino per gli scritti che piú e meglio lasciano trapelare una consistente dimensione surreale e favolistica, in cui pur si ravvisa una innata vocazione al comico, all’esercizio dello spirito e dell’intelligenza. Si può senz’altro affermare che, nonostante il surrealismo come movi-mento abbia attecchito scarsamente in Italia, in quanto depurato e disat-tivato sul piano delle tendenze piú eversive dalla letteratura di regime, ha avuto un’influenza rilevantissima nel realismo magico di Massimo Bon-tempelli (1878-1960), « ma anche e in misura piú rilevante nei testi di Zavattini, dall’inizio degli anni Trenta fino agli anni Ottanta inoltrati ».10

Nel rincorrere analogie e confronti appaiono necessari richiami ad Aldo Palazzeschi (1885-1974), Antonio Baldini (1889-1962), a Nicola Lisi (1891-1975), a Tommaso Landolfi (1908-1979) e, possibilmente, anche se per la tangente, ai racconti di Dino Buzzati (1906-1972), apparsi a partire dalla fine degli anni Trenta. Anche per Zavattini, pur con le dovute, so-stanziose differenze, può essere valida una considerazione critica di Ma-solino d’Amico relativa all’opera del contemporaneo Achille Campanile (Roma 1899-Lariano [Roma] 1977), a cui l’accomuna però la frequenta-zione dell’assurdo e del nonsense, nonché alcune importanti esperienze comuni:

Evidentemente consapevoli di un profondo legame fra importanti attributi del cervello umano, gli inglesi hanno una parola per indicare una sorta di fusione

9. Si rinvia naturalmente all’antologia Italia magica. Racconti surreali novecenteschi, cit. Nel volume si pubblicano di Zavattini i seguenti testi: Al caffè; Racconto di natale; Dal medico; Ballo a A…, ivi, pp. 145-56. Utilissime indicazioni critico-bibliografiche in M. Farnetti, scritture del fantastico, in Letteratura italiana del novecento. Bilancio di un secolo, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2000, pp. 382-409.

10. F. Bernardini Napoletano, Poetiche e scritture sperimentali, in Letteratura italiana del novecento. Bilancio di un secolo, cit., p. 329.

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ideale di spirito e intelligenza, la parola wit, applicabile anche alle persone. Chi possiede molto wit è un wit, ossia un uomo eccezionalmente intelligente e spi-ritoso, osservatore arguto, dispensatore di bon mots.11

In una intervista di molti anni dopo, ricostruendo l’attività letteraria degli anni giovanili, caratterizzati dal suo lavoro di scrittore, giornalista ed elzevirista, Za rivendicava fermamente la sua appartenenza alla fami-glia degli scrittori del nonsense e del fantastico, disubbidendo e disertando ogni socievole comandamento, non lasciandosi intrappolare, da grande mentitore ed inventore di storie, nei modelli della consuetudine e del prevedibile. Le sue antinomie giocano sul rapporto con il reale, terreno di giochi infiniti ma anche di acuta, tragica osservazione dei suoi para-dossi:

Inventavo situazioni, comportamenti, alla radice dei quali c’era una predisposi-zione a vedere piú le contraddizioni nelle idee che nelle cose. Svolgevo le sor-prese del pensiero, della logica, nel mio piccolo ambito, direi quasi in astratto, piú vicino al nonsense che a una forma di osservazione critico-satirica, sui fatti.12

Giorgio Manganelli con la proverbiale, provocante intelligenza ha scritto che la letteratura nasce come diserzione:

Non v’è letteratura senza diserzione, disubbidienza, indifferenza, rifiuto del-l’ani ma. Diserzione da che? Da ogni ubbidienza solidale, ogni assenso alla pro-pria o altrui buona coscienza, ogni socievole comandamento. Lo scrittore sce-glie in primo luogo di essere inutile; quante volte gli si è gettata in faccia l’antica insolenza degli uomini utili: buffone. Sia: lo scrittore è anche un « buffone ». È il fool: l’essere approssimativamente umano che porta l’empietà, la beffa, l’indiffe-renza fin nei pressi del potere omicida. Il buffone non ha collocazione storica, è un lusus, un errore.13

L’umorismo surreale di Zavattini, intarsiato di trovate efficacissime e immagini fulminanti, rappresenta però, quasi in una lettura rovesciata

11. M. d’Amico, Achille Campanile come « Wit », in A. Campanile, Poltroni numerati, Bolo-gna, Il Mulino, 1992, p. 111.

12. Zavattini parla di Zavattini, cit.13. G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi, 20042, p. 218.

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ma condivisa di Manganelli, in concreto una consapevole quanto marca-ta dimostrazione di tolleranza e civiltà in un tempo di rovente ed insulso fanatismo, in cui le suscettibilità dei potenti erano alquanto facili a mani-festarsi sotto forma di persecuzione e d’altro. Il totalitarismo fascista e le reiterate affermazioni di un rinvigorito principio di autorità da parte della politica trovano nella scrittura zavattiniana un formidabile motivo di salutare quanto beffarda contestazione. Calvino, mettendo a confron-to forme diverse di umorismo, cosí spiega la posizione e le motivazioni di Zavattini:

Un umorista può trovarsi in due diverse posizioni rispetto alla società. Può tro-varsi un passo avanti e criticare e deridere la società nelle sue contraddizioni. Può trovarsi un passo indietro e criticare e deridere quelli che sono un passo avanti o comunque si mettono in opposizione alla società. Cesare Zavattini è dei primi, Giovanni Mosca è dei secondi. La differenza di valore artistico corrispon-de a una differenza di valore politico.14

I giornali umoristici italiani di quegli anni si sforzavano, cosí come « Il Settebello » – su cui Bruno Munari disegnava le sue Macchine inutili e Saul Steinberg le Mucche col fiore in bocca – e « Il Bertoldo » (1936-1943), fondato da Giovanni Mosca e Vittorio Metz, entrambi romani rivelatisi sulle pagine del settimanale « Marc’Aurelio », di « codificare un tipo di umori-smo possibile in un regime in cui c’erano troppe cose e persone su cui non era permesso scherzare. Per questo non restava che aprire degli spa-zi diversi, una comicità bonariamente surreale, basata soprattutto sul-l’espressione verbale ma non tanto sui giochi di parole quanto sulle tra-sposizioni logiche assurde ».15 In qualsiasi regime e in qualsiasi epoca l’importante, calvinianamente pensando, è poter trovare un altrove. Za-vattini sapeva bene che alcune sue storie o soggetti come Diamo a tutti un cavallo a dondolo o Totò il buono, non erano tanto gradite negli ambienti politici ufficiali: « Allora, c’erano dei controlli di vario genere: bastava un niente, che immediatamente un soggetto veniva censurato. Arrivava nel-

14. I. Calvino, saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. ii pp. 2100-1.

15. I. Calvino, Ricordo di Vittorio Metz, in Id., saggi 1945-1985, cit., vol. ii p. 2903.

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l’aria un fiato e diventava un rimbombo addirittura ».16 Antidoto contro i conformismi di vario genere, Zavattini nella sua prosa è sempre orienta-to ad offrire un riparo morale a quanti avvertono il peso ingombrante della società dei benpensanti e di una dominante logica dell’utile a cui contrappone la lunarità di personaggi mai dominati dal senso comune, da poveri e matti a cui non mancano buon senso e poetica capacità di sognare e fantasticare.17

Nato a Luzzara, un paesino sulla riva del Po in provincia di Reggio Emilia, nella bassa nebbiosa, nel 1902, « discendente di caffettieri e panet-tieri », Za nel periodo giovanile ebbe importanti esperienze che ne in-fluenzarono in profondità la sua attività letteraria e artistica.18 La cultura del Po, la lingua ancestrale e selvaggia della sua terra, furono ripresi nel volume di versi stricarm’ in d’una parola (stringermi in una parola, Milano, Scheiwiller, 1973), a cui Pier Paolo Pasolini riservò una complessa, entu-siastica recensione soprattutto per la capacità di Zavattini di laicizzare il dialetto ossia costringendolo « a contenuti perfettamente contrari al suo spirito » conservatore e conformista:

Anche Zavattini all’età di venticinquemila cinquecento giorni, ha scoperto il dialetto. Tale scoperta gli ha permesso di scrivere il suo libro di gran lunga piú bello. Anzi, un libro bello in assoluto. Tutto è rimesso in gioco, tutto, per dir meglio, ritorna finalmente in gioco. Non c’è strofa, verso, addirittura parola, che non sia stata oggetto di un’invenzione nata dall’energia dovuta alla riscoperta dell’inventare. Ogni poesia è una “trovata”, nell’aureo e liberatorio senso del trobar.19

Nelle poesie di Zavattini si rintracciano tutti gli ingredienti di una tradi-zione linguistica regionale che nel corso dei secoli aveva sempre espresso

16. Zavattini, Io. Un’autobiografia, cit., p. 106.17. Su questo affascinante tema nella letteratura italiana novecentesca vd. P. Guara­

gnella, Il matto e il povero. Temi e figure in Pirandello, sbarbaro, Vittorini, Bari, Dedalo, 2000.18. Ricordi e impressioni autobiografiche sugli anni giovanili vd. in Zavattini, Io.

Un’autobiografia, cit.19. P.P. Pasolini, rec. a C. Zavattini, stricarm’ in d’na parola [1974], in Id., saggi sulla let-

teratura e sull’arte, cit., vol. ii p. 2044. Sul dialetto di Za vd. F. Brevini, Zavattini poeta nel dialetto di Luzzara, in « Il Ponte », xlvii 1991, pp. 98-111.

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il suo dissenso nei confronti del potere e delle ingiustizie del mondo cosí come i versi del riminese Giustiniano Villa.20 Si legga, come rapido campione di lettura La Basa, nella traduzione offerta dall’A. in nota al testo dialettale:

La Bassa. Ho visto un funerale / cosí povero / che non c’era neanche / il morto nella cassa. / La gente dietro piangeva, / piangevo anch’io / senza sapere il per-ché / in mezzo alla nebbia.21

Za naturalmente non rinuncia al gioco, alla parodia, al sarcasmo fero-ce. In Dés [Dieci] ritorna a riemergere una venatura burchiellesca, sapi-da, non disgiunta da uno spirito assolutamente moderno di considerare la comicità:

Dieci. Erano dieci / naufragati su un isolotto / in mezzo al mare. / I giorni pas-savano affamati. / Chi mangiare per primo? / Dopo un mese erano rimasti in due, / si guardavano. / A un tratto / là in fondo una nave! / Si sono abbracciati in lacrime e ripetevano / ci telefoneremo tutti i giorni [trad. dell’A.].22

Il mondo dell’infanzia, Luzzara appunto e non Suzzara,23 luogo del-l’eterno contrasto tra ricchi e poveri,24 la Parma musicale e teatrale degli anni Venti – nel 1928 in città venne Pirandello con la sua compagnía per rappresentare Diana e la Tuda e Za ebbe modo di conoscerlo –,25 la firen-

20. Cfr. A. Piromalli, società e cultura in emilia e Romagna, firenze, Olschki, 1980, pp. 81-97.

21. Cfr. Zavattini, opere 1931-1986, cit., p. 911.22. Ivi, p. 944.23. Zavattini, nel breve testo Luzzara, raccolto in Le voglie letterarie, ricordava: « Il mio è

un paese veramente comune: Luzzara sulla riva del Po; voi scrivete Luzzara e spesso la nostra posta arriva a Suzzara invece, che è una città vicina » (Zavattini, opere 1931-1986, cit., p. 988). Per un curioso errore Contini nell’antologia L’Italia magica, cit., p. 147, nella breve presentazione di Zavattini scrive: « Nato a Suzzara (in provincia di Mantova, ma a sud del Po) nel 1902 ».

24. Sul rapporto affettivo con Luzzara vd. C. Zavattini, Un paese, fotografie di P. Strand, Torino, Einaudi, 1955 (poi Milano, Scheiwiller, 1974, con l’aggiunta di una foto-grafia inedita di Strand).

25. C. Zavattini, Pirandello a Parma, in Id., Le voglie letterarie [Bologna, Boni, 1974], in Zavattini, opere 1931-1986, cit., pp. 973-75, nonché Id., Io. Un’autobiografia, cit., pp. 31-33.

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ze della rivista « Solaria » ma anche del « Bargello » di Alessandro Pavolini, e la Milano del Bagutta, e delle grandi case editrici (Mondadori, Rizzoli, Bompiani).26 Queste determinanti esperienze sono raccontate nel libro Le voglie letterarie (1974), in cui l’A. ripubblica ventuno testi apparsi intor-no ai primi anni Quaranta (novembre 1941-settembre 1942) su « Prima-to » diretta da Giuseppe Bottai; gli scritti, dal sapore aneddotico e auto-biografico, raccontano momenti essenziali della formazione e delle rela-zioni umane ed artistiche dell’A. con la società letteraria del tempo.

A firenze, città in cui svolgeva il servizio di leva, Zavattini fu in stret-tissimi rapporti con i solariani Eugenio Montale, Alberto Carocci, Emi-lio Cecchi, Giansiro ferrata, Raffaello franchi, Bonaventura Tecchi, Ales-sandro Bonsanti, Vieri Nannetti, Bruno fallaci, Mario Praz, Pietro Pan-crazi e Giuseppe De Robertis:27

In dieci mesi di permanenza a firenze come soldato non ebbi mai la tentazione di vedere la galleria degli Uffizi, il Davide, simili cose famose. I miei monumen-ti erano Montale e gli altri di solaria. Per trascorrere con loro ore o minuti scap-pai spesso dalla caserma, una volta mi videro entrare alle Giubbe rosse con la bici-cletta verde e dura del militare.28

A Milano, dove conobbe Valentino Bompiani, editore di gran parte

26. Nel piccolo comune emiliano frequentò solo la prima elementare, poi la sua tor-mentata carriera scolastica si svolse tra Bergamo, Segni Scalo, dove si recò nel ’17 per se-guire i genitori che avevano preso in gestione il caffè ferroviario, Roma, dove frequentò senza grandi successi il Liceo Umberto, e infine Alatri, in provincia di frosinone, dove conseguí la maturità classica presso il Liceo Conti-Gentile. Qui fu allievo del padre sco-lopio Luigi Pietrobono, noto dantista. Iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza di Parma, lasciò presto gli studi universitari ed iniziò a collaborare alla « Gazzetta di Parma » e a la-vorare come istitutore presso il convitto nazionale « Maria Luigia », dove ebbe tra i suoi alunni Giovannino Guareschi. Nel 1930, terminato il servizio militare, Zavattini rientrò a Luzzara per poter seguire la difficile situazione familiare, aggravatasi in quell’anno dopo la morte del padre. Le disperate condizioni economiche della famiglia dopo la vendita della caffetteria ferroviaria lo portarono a cercare un lavoro a Milano, dove fu assunto dalla Rizzoli come correttore di bozze.

27. Vd. Antologia di solaria, a cura di E. Siciliano, intr. di A. Carocci, Milano, Lerici, 1958.

28. C. Zavattini, Cena con Montale, in Le voglie letterarie, in Id., opere 1931-1986, cit., p. 979.

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dei suoi libri e di tutti gli scritti della giovinezza, frequentò Riccardo Bacchelli, Orio Vergani, Giovanni Titta Rosa, Raffaele Carrieri, Dome-nico Cantatore, Sergio Solmi, Arturo Tofanelli. Inoltre al Caffè Donini e alla Trattoria Bagutta, dopo i primi successi letterari, conobbe anche Salvatore Quasimodo, Giuseppe Marotta, il poeta salernitano Alfonso Gatto, di cui fu testimone di nozze:

Millenovecentotrenta, giunsi a Milano con il cappello in mano, dalla bassa neb-biosa. Salutavo tutti, in gran parte perché la storia della letteratura italiana co-minciava per la mia mente da quegli anni ma un poco per ipocrisia, il male del secolo che la vita tra gli scrittori porta a rapide e obbrobriose maturazioni.29

Su « Solaria » pubblicò Tre raccontini – « avrei dei motivi per svenire di gioia » –30 ed una recensione al Kipling di M. Brion (entrambi nel 1929, n. 12) ma fu anche recensito nel 1931 da Sebastiano Timpanaro in occasione dell’uscita di Parliamo tanto di me, un’opera che svela, pur nella sua brevità, uno scrittore nuovo, originale, del tutto privo di complessi nei confronti delle mode letterarie imperanti. Davvero nell’operetta si colgono i sin-tomi, gli argomenti, le scelte che caratterizzarono tutta la ricca produzio-ne zavattiniana futura, dalla letteratura al cinema e alla pittura. In solo settanta pagine il libro raccoglie un Ritratto d’autore e 20 “storiette”, cosí come amava definire i suoi racconti Zavattini:

Sul tavolo da lavoro ho pochi oggetti: il calamaio, la penna, alcuni fogli di carta, la mia fotografia. Che fronte spaziosa! Cosa mai diventerà questo bel giovane? Ministro, re?

Guardate il taglio severo della bocca, guardate gli occhi. Oh, quegli occhi pensosi mi fissano! Talvolta provo una viva soggezione e dico: sono proprio io? Mi do un bacio sulle mani pensando che sono proprio io quel giovane, e mi ri-metto a lavorare con lena per essere degno di lui.31

Testo lirico, surreale e paradossale, Parliamo tanto di me, il cui titolo gli fu dato da Valentino Bompiani,32 è un viaggio nell’aldilà in compagnía di

29. C. Zavattini, Bagutta, ibid.30. Zavattini, Io. Un’autobiografia, cit., p. 45.31. Zavattini, opere 1931-1986, cit., p. 3.32. « Rizzoli non faceva libri (sono stato io poi a fargli stampare il primo libro) e allora

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uno spirito per poter raccontare liberamente, o quasi, ma in modo non compassionevole, vicende e situazioni facilmente riscontrabili nella vita terrena:

Se io fossi ricco passerei buona parte della giornata sdraiato in una soffice poltro-na a pensare alla morte. Sono povero, invece, e posso pensarci solo nei ritagli di tempo o di nascosto. Alcuni giorni fa il signor Better mi sorprese che guardavo incantato il soffitto e gridò: « Sia l’ultima volta che la trovo a pensare alla morte in ufficio ». Presto andrò in pensione e sarò libero. Quando incontrerò il signor Better, per fargli dispetto, mi metterò a pensare alla morte con tutte le mie forze. Se fossi re obbligherei anche i bambini a pensarci almeno un’ora al giorno. Ec-coli ancora accaldati per i recenti giuochi, con le braccia conserte sul banco, che pensano che pensano […]33

Cesare Cadabra è lo scrittore-protagonista che il suo fantasmatico inter-locutore guida tra le ombre dei vivi e dei morti. In sostanza « i personag-gi sono tutti a misura d’uomo, sono padri e figli, vecchi e bambini, ritrat-ti con una pietas, con una passione che li fa grandi e piccoli insieme ».34

Nel giovane Zavattini suscitano interesse i problemi e le angosce degli uomini, le loro vite, i loro pensieri; rifiuta l’indifferenza e l’incapacità di capire la vite degli altri. Nonostante il sarcasmo e la virulenza di talune polemiche che connotano gli anni della vecchiaia, Za definí da subito il

sono andato a portare il mio libretto a Bompiani: non so perché proprio a lui, forse perché era giovane e aveva appena cominciato a fare l’editore, dopo aver lavorato con Monda-dori. Andai a trovare il conte Valentino Bompiani. Gli diedi il mio libro, tirandolo fuori dalla tasca dove giaceva da qualche settimana. Era tutto disordinato, era un montaggio di pezzi già stampati e di altre cose, sparse in cartelle di vari tipi. Era un manoscritto proprio disordinato “fisicamente”. Bompiani lo guardò e mi disse: “Lo riprenda, ci deve lavorare ancora”. Glielo riportai messo un po’ meglio ma senza una riga in piú e Bompiani mi disse: “Io pubblico il libro. Non solo lo pubblico, ma lo pubblico in un certo modo”. fu lui a trovare il titolo. Sfogliando le pagine del manoscritto, per trovare una frase, un’espres-sione adatta…tac: Parliamo tanto di me » (Zavattini, Io. Un’autobiografia, cit., p. 53). Valentino Bompiani era stato attirato dalle due paginette conclusive del ventesimo capitolo del li-bro: « Adesso ho una casetta bianca, una moglie affettuosa, un bambino ubbidiente. Alla sera, finita la cena, seduti sulla morbida ottomana per un’oretta o due, sin che non ci prende il sonno, parliamo tanto di me » (Zavattini, opere 1931-1986, cit., p. 65).

33. Ivi, pp. 10-11.34. V. Fortichiari, Prefazione a Parliamo tanto di me, cit., p. vi.

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suo paesaggio interiore, fatto di spirito e intelligenza ma anche d’infinita pietà umana, che il tempo seppe solo conservare e rafforzare. Ancora una volta è la raffinatissima critica di Malerba a cogliere nel segno rap-presentandoci il nocciolo dello scrivere di Zavattini:

Svolazzando qua e là come uccelli vagabondi i personaggi zavattiniani si avven-turano addirittura attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso ma anche lí, ahimè, trovano lo stesso disordine e le stesse ingiustizie delle periferie urbane dalle quali sono fuggiti. L’io che sta al centro dei racconti, che si muove inquieto nei caffè, nelle anticamere, nelle cucine, nei vicoli, nelle piazzette della città, non ha una solida coscienza perché non è giusto né decoroso avere una coscien-za in un mondo cosí sconnesso e cosí privo di senso. Meglio avere una solida immaginazione e misurarsi sui tempi lunghi, che non sono nemmeno quelli della Storia (esiste il passato per Zavattini?), ma quelli delle stelle e dei pianeti, della vita e della morte, dell’Inferno e del Paradiso.35

Cesare Zavattini, come ha scritto Geno Pampaloni, è stato sopraffatto dal l’uomo di cinema e dal focoso polemista quale si è scatenato negli anni;36 nonostante lo scrittore, il poeta dialettale, lo sceneggiatore, il pit-tore Zavattini sembra sfuggire ad una precisa catalogazione, in realtà le sue varie manifestazioni sono riconducibili ad una complessa ma coe-rente unità. Il brano che segue, tratto da Parliamo tanto di me, ne appare una prova esemplare:

Matita in mano: una donna distribuisce in media circa trentamila baci e ne rice-ve circa duecentomila, durante la sua vita. Nella mia città vi sono trecentomila donne, cioè un movimento di alcuni miliardi di baci. A chi ne toccano migliaia e migliaia, a chi poche dozzine. Con tale cifra sbalorditiva si potrebbe far sta re allegro mezzo mondo. Nossignore, c’è persino chi resta senza. Osservi, per esem-pio, quegli uomini fermi agli angoli delle strade, smunti e dimessi, che seguono con lo sguardo lucido le belle passanti. Darebbero un patrimonio per un solo bacio. Ahimè, hanno appena i soldi per la colazione. Io vorrei essere la piú bella donna dell’universo: con cento baci al giorno beneficherei cento di costoro. Verrebbero a frotte anche dai lontani sobborghi, secondo turni stabiliti per evi-

35. Malerba, Introduzione, cit., p. ix.36. Cfr. G. Pampaloni, Prefazione a C. Zavattini, Io sono il diavolo-Ipocrita ’43, nota bio-

bibliogr. di A. Bernardini, Milano, Bompiani, 1983.

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tare ingombri, litigi, abusi. « Io lo voglio sul naso ». « Io sulla guancia destra ». « Io lo voglio dietro l’orecchio ». Bambini!37

La incomunicabilità, la povertà e la difficile difesa della dignità umana, la solitudine dell’esistenza, temi fondamentali di capolavori del cinema come sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951) e Umberto D (1952),38 tutti diretti da Vittorio De Sica, conosciuto nel 1934, trapelano senza indugi da questa prima, esemplare favola morale:

A me veramente, non interessano i fatti quanto gli uomini, questi mondi isolati come pianeti nello spazio. Ognuno cammina per la strada come se gli altri non ci fossero. Eppure si può passare ad una spanna dall’uomo piú felice del mondo o da quello piú illustre. Una sera attraversai la piazza per andare sul ponte. Ave-vo deciso di uccidermi. Ebbene, la gente mi passava vicino, mi urtava, senza voltarsi neppure.39

Questo “viaggetto nell’oltretomba”, scritto in prima persona, si compie nella notte del 17 gennaio 1930 e si sviluppa tra i capitoli vi e xx. Il nonsen-se, anche nell’uso improvviso di digressioni, appare da subito uno degli ingredienti caratterizzanti dell’operetta:

È primavera, porto a mia moglie le viole. Lungo la strada mi prende un pensiero umiliante: quanti, quanti uomini, in questo stesso momento staranno portan-do alla cara consorte un mazzolino di viole. Giunge la notte, andiamo a letto, si spegne la luce: « buona notte, buona notte… ». Da lontano giunge un confuso brusio. Sí, ora ve ne saranno molti come me, vicino a una donna amata, con gli occhi fissi nel buio e i pensieri vaganti. Ho paura di essere soltanto l’immagine di uno specchio. Mi metto a fischiettare una canzone. Maria si sveglia, stupita, accende la luce. Le domando a bruciapelo: « quanto fa sette per otto? » « Cin-quantasei », risponde. Mi guarda con i suoi occhi grandi e tristi e io volto fianco, m’addormento contento per una segreta speranza (p. 36).

Oppure si pensi alla descrizione dei gironi dell’Inferno, in particolare a quello incredibile dei golosi. Ci sono punte di comicità estreme, irro-

37. Zavattini, opere 1931-1986, cit., p. 17.38. Cfr. G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano 1905-2003, Torino, Einaudi,

2003, p. 167.39. Zavattini, opere 1931-1986, cit., p. 16 (le indicazioni subito successive dir. a testo).

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rate da situazioni e dialoghi autenticamente geniali, governati da uno spirito supremo e ineffabile, a cui il lettore oppone una minima resisten-za prima di divertirsi con gusto:

I golosi erano reclusi in ampie stanze smaltate di rosa pallido. Nel mezzo di ciascuna, pile di croccanti, di budini, di gelati, si affiancavano in un sontuoso disordine. Rivoletti di rosolio e di vino passito scorrevano gorgogliando, come l’acqua fra l’erba dei prati, entro tubi di cristallo che circondavano con la piú elegante delle architetture la montagna dei cibi. Sui cibi vagavano fumi bianchi e un venticello alpestre profumato di resina faceva frusciare le foglie di un albe-ro, carico di pesche dai colori delicati, che pendeva dal soffitto.

I condannati assiepati intorno a quelle meraviglie, guardavano con gli occhi sgranati. Intanto i diavoli divoravano a quattro palmenti mugolando di giubilo, e taluno, battendosi il ventre, esclamava: « Questo è il Paradiso ».

Udii un defunto che diceva a un diavolo:« Vuole scommettere uno schiaffo che in cinque minuti mangio cento sfo-

gliatini? ».Rispose il diavolo:« Marameo ».Mi allontanai in punta di piedi. Avevo il cuore molto triste e l’acquolina in

bocca (p. 23).

Cadabra racconta storielle che mandano in visibilio i custodi infernali e contribuiscono a mutare le abitudini e la vita degli abitanti dei vari giro-ni al punto che i diavoli sembrano essere diventati diversi, quasi piú buo-ni. Solo all’arrivo degli angeli ricominciavano i lamenti dei peccatori mentre i diavoli riprendevano a distribuire pugni, schiaffi, pedate.

La bravura nel narrare storielle farà sí che il protagonista potrà raggiun-gere il Paradiso per far divertire angeli e cherubini. Qui addirittura viene sfidato ad una singolare tenzone da un’anima di nome Ted Mac Namara, che risulterà vincitore con il racconto della Gara mondiale di ma tematica. I due dovranno raccontare due storiette ciascuno ma alla gara intende par-tecipare anche un modesto impiegato del municipio di Deg. Il viaggio si chiude con il ritorno di Cesare Cadabra nel suo letto malgrado al prota-gonista resta un desiderio che svela intimamente la tenera poe sia che so-vrasta l’intero racconto:

Avrei voluto anch’io diventare subito una nuvoletta. Invece fra poco dovevo ri-

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prendere il viaggio attraverso vie lattee, comete, pianeti, innumerevoli mondi per raggiungere un piccolo paese, una piccola casa, e il giorno dopo avrei litiga-to con il signor Smith per futili motivi e avrei ancora provato un’oscura appren-sione nel pensiero dei camposanti d’inverno sotto la pioggia, dei cortei funebri, visti al mattino presto attraverso la nebbia, quando anche i vivi dietro al feretro sembrano ombre (p. 66).

Il testo ebbe subito un successo clamoroso e non vi fu rivista letteraria che non se ne occupò. Telesio Interlandi sulla prima pagina del « Tevere » poteva pubblicare un fondo non firmato con l’impegnativo titolo Arriva uno scrittore (13-14 agosto 1931). La scrittura, libera e arbitraria, ma nel fondo letteratissima, costituiva la natura nuova ed indipendente di rap-presentare la morte e la pietà. Inventore di grandi e piccole storie, Za aveva saputo trovare il ritmo giusto per richiamare sul suo scrivere l’in-teresse della critica. Nel ricordo autobiografico colpisce anche un seve-ro giudizio sull’indipendenza di Indro Montanelli, critico verso i motivi ispiratori della sua opera:

Nel luglio del ’31 uscí Parliamo tanto di me, uscí coi manifesti sui muri e fu un fatto straordinario, un successo clamoroso. Ne scrissero « Il Corriere della sera », « La Stampa », altri giornali, tutte critiche meravigliose. Ebbi contro quelli come Mon-tanelli, è facile immaginarselo: io qualche barbaglio d’indipendenza ce l’a vevo.

Non ci fu letterato che non mi scrisse complimenti, chi in tre righe e chi in dieci: Bontempelli, Baldini, Pirandello. Mi scrisse Benedetto Croce: quando arrivò quella lettera, io feci tre chilometri di corsa fino alla Rizzoli per mostrar-la, e poi andavo in giro per Milano facendola vedere a tutti.

Una parte della critica molto importante fu tutta d’accordo nel dire che l’au-tore doveva essere un topo di biblioteca, un uomo di cultura solida, non si spie-gava altrimenti quel tipo di stile. E non era vero. Avevo risolto tutto con un enorme lavoro, perché io lavoro sempre, ogni mio libro mi è costato anni, ma non era il frutto, come credevano, di un lungo romitaggio culturale, bensí di un grande istintivo stile, di equilibrio: E poi, pur essendo “disarmato”, sono sempre stato “armato”: con l’intuito colmavo le mancanze.40

Tutta la prosa di Zavattini « si legge come seguendo dei passi nell’aria » secondo una felice espressione del giovane Elio Vittorini. Infatti la re-

40. Zavattini, Io. Un’autobiografia, cit., pp. 58-59.

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censione che lo scrittore siciliano dedicò a Parliamo tanto di me nella rubri-ca settimanale dei libri, ospitata ne « Il Bargello » di firenze nel 1931, rap-presenta un punto decisivo per l’avvio del dibattito critico sull’opera let-teraria zavattiniana.

Nell’incipit dell’articolo, emblematicamente (e ironicamente) intito-lato oggi, « great attraction! » Vittorini, piú che mai impegnato a rivendicare l’avvento di una nuova letteratura contro i falsi scrittori, e sempre attento a non dare « a intendere lumicini per stelle »,41 ricorda lo straordinario successo del libro ed implicitamente offre una geografia dei centri del dibattito culturale in Italia agli inizi degli anni Trenta:

C’è in giro un libretto di 120 paginette, dal titolo strano (Parliamo tanto di me) dal prezzo irrisorio (cinque lire) dall’autore fino a ieri ignoto (Cesare Zavattini) e tutta Italia gli sta correndo dietro facendolo salire a tirature favolose; le terze pagine si azzuffano a chi ne parla prima e il via fu dato, incredibile, dal piú fine dei nostri scrittori politici, Telesio Interlandi, in un articolo di fondo del « Teve-re »; torinesi, milanesi, genovesi, romani, napoletani, pugliesi, hanno ormai, per merito dei rispettivi quotidiani, la loro giusta opinione in proposito; a firenze siamo i primi a parlarne. Ma cosa cantano le terze pagine? Cantano la nascita di un novello umorista. Cesare Zavattini sarebbe il piú grande, il piú autentico dei nostri umoristi. Altro che Campanile! […]. La prosa è lieve; le parole si fermano appena sulle immagini, e queste scappano dinanzi agli occhi come veli. Tutto il libro è scritto cosí, si legge come seguendo dei passi nell’aria; si vola: e in poco piú di un’ora si arriva in fondo. Dentro, ogni persona, ogni oggetto, ogni frase pronunciata da qualcuno, sono nitidi e fermi.42

Nel 1933 lo scrittore emiliano si vede costretto ad iscriversi al Partito nazionale fascista per non perdere il posto come redattore alla Rizzoli che, solo l’anno dopo, gli affida la direzione di nuova collana intitolata I giovani. Za la inaugura pubblicando Tre operai di Carlo Bernari, conosciu-to a Milano alla trattoria toscana « Bagutta », nella via omonima. La cen-sura intervenne per evitare che il romanzo fosse recensito o aprisse di-scussioni alquanto indigeste al regime. Vittorini sulle pagine del « Bar-gello » fu particolarmente critico nei confronti del testo e della scelta di

41. E. Vittorini, enrico Pea [1931], in Id., Letteratura arte società, cit. p. 439.42. Ivi, p. 427.

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Zavattini, accusato polemicamente di averlo fatto stampare « allo scopo di mettere scompiglio nelle file territoriali della letteratura italiana »:43 nel settimanale dei libri pubblicò la stroncatura intitolandola Tre operai che non fanno popolo (vi, num. 29, 22 luglio 1934).

In questi anni Zavattini inizia a scrivere le prime sceneggiature; nel ’35 il soggetto d’esordio, per la regia di Mario Camerini, viene utilizzato per realizzare il film Darò un milione. Il primo film con De Sica, Teresa venerdí, risale al 1941. Sono anni d’intensissimo lavoro nel cinema che porteranno Za a firmare una quindicina di soggetti tra cui Quattro passi tra le nuvole (1942) di Alessandro Blasetti. Intanto nel ’36 era stato licenziato da Riz-zoli ma immediatamente assunto da Mondadori, che gli affidò l’innova-tivo settore dedicato ai fumetti per ragazzi e alla pubblicazione dei pe-riodici di Walt Disney.44 Lo scrittore però continua a creare storielle e situazioni irresistibili; nel 1937 esce ancora per Bompiani I poveri sono mat-ti, romanzo composto da una Prefazione, una sorta di gioco divertente e folle da fare in famiglia (e alla moglie) con al centro il personaggio Ce sare Zavattini, e 28 storielle, subito definito da Guido Piovene uno dei libri piú belli di quegli anni.45

La sintassi e la punteggiatura concorrono a dare un significato surrea-le alle microstorie, che sono anche arricchite da alcuni disegni. Questa seconda prova allarga la linea surrealista percorsa dall’A.; racconta la sto-ria di Bat, un povero impiegato che vorrebbe ribellarsi al suo insoppor-tabile capoufficio Dod: progetta di schiaffeggiarlo pur di placare la sua rabbia ma, non realizzando la sua idea, è condannato ad accumulare una definitiva frustrazione. Tutte le storiette si caratterizzano per l’uso di una vena magica e fantastica che si palesa nei comportamenti del protagoni-sta, che per sentirsi uguale agli uomini deve necessariamente dedicarsi all’esercizio effimero di un mondo soltanto immaginato.

Mirabile dimostrazione della maturità espressiva, il testo conferma l’assoluto accordo che Za ha saputo trovare con il consapevole, ricercato sfoggio di nonsense:

43. Ivi, p. 783.44. Vd. Nuzzi-Iemma, De sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, cit., in partic. pp. 38-39.45. Cfr. Angioletti, Invito alla lettura di Zavattini, cit., pp. 123-24.

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BAT BAT BAT

« Sí », disse, « io gli darò uno schiaffo ».Erano le sette di sera, in aprile. Un aeroplano apparso dietro le ciminiere

dello stabilimento entrò in una nuvola.Il signor Dod doveva passare di lí, e Bat gli avrebbe detto. « Dod ». Poi la mano

sarebbe scesa fulminea sulla guancia di Dod. Le mani erano calde nella tasca del soprabito, le dita si toccavano: da ragazzo, aperte contro il lume di una candela, ne aveva visto trasparire le ossa. Care mani, voi brandirete spade, nere di polve-re e di sudore vi alzerete minacciose sugli uomini.

Ora aspettava in una piazza il suo principale per percuoterlo; gli aveva negato un prestito. Tutti i suoi compagni sognavano ardentemente di fare questo, ma egli solo ne aveva il coraggio. Udí venire dal cielo squilli di tromba e i suoi occhi fissarono un sentiero d’oro: avanzavano guerrieri l’ombra dei quali per un atti-mo sovrastò la città.

Le sue mani un giorno raccolsero l’acqua per dissetarlo: si sentiva un puledro che nitriva tra le alte erbe, e disse a un albero: « Buon giorno ».

Alle sette e un quarto passò una donna dalle anche larghe.Bat la seguí sin dopo il ponte. Bat Bat Bat, pensava, un nome. Provò a dire

tante volte Bat. Era soltanto un suono, niente.Arrivò a casa tardi mentre la radio trasmetteva da Norfolk il discorso del Re.

Dopo pranzo raccolse la famiglia e obbligò ciascuno a ripetere cento volte il proprio nome al posto della preghiera. Poi tutti andarono a letto, ed egli, fatti i conti, si affacciò alla finestra.46

I poveri sono matti propone un almanacco inesauribile del nonsense; in-numerevoli battute al lampo di magnesio vivificano le pagine e tendono continue imboscate al lettore. Nella storietta intitolata sui bastioni ritor-nano i ricchi e i loro tic:

Guardate lungo le strade, hanno fretta di arrivare a casa: chiudono con forza la porta dietro di loro, qualcuno poco prima li ha umiliati. Essi hanno strisciato davanti a T. ora li aspetta una fanciulla lentigginosa, col grembiule bianco, ed essi fissano con occhi severi. Che cosa c’è di male se Dio ha dato ai ricchi cavalli e campi? Egli doveva dire vi do tutto questo a patto che ogni sera prima di cori-carvi pensiate al dito di un bambino. Essi avrebbero accettato, figuratevi, non è faticoso.

46. Zavattini, opere 1931-1986, cit., pp. 71-72 (le indicazioni subito successive dir. a testo).

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Arrivano a casa, sono allegri, si tolgono il frac, si ficcano sotto le coltri, stanno spegnendo la luce quando balzano dal letto pallidi, con il cuore che batte, che batte: stavano addormentandosi senza pensare al piccolo dito di un bambino. Come diventano magri e spaventati con l’andare del tempo (pp. 87-88).

Ma è Dod la vera ossessione di Bat, la prova che i buoni possono vivere solo come aria che sale nel cielo mentre i malvagi « riprendono forma umana e precipitano in una valle nera » (p. 75). Ancora una volta nella notte i personaggi di Za sono sconvolti da visioni e da visite inaspettate e pau rose:

Una notte Suc ha confessato: « A mia moglie piace quest’uomo, non metterò mai la sua fotografia nel giornale ». Suc di notte è buono e racconta tante cose segrete. Una volta disse che aveva voglia di buttarsi giú dalla finestra: quante persone ai suoi funerali, impiegati, redattori, operai, il signor Dod in testa. Si dice che il signor Dod ha un vestito apposta per i funerali. Tutti camminano in punta di piedi, ordinati, non vanno dietro al feretro, ma al signor Dod. Attraver-sano le vie della città: cammina cammina, il signor Dod è stanco, si volta, fa un segno e tutti si spargono per i prati mentre sale sopra la sua automobile: un rombo, un gran polverone e parte salutato dagli evviva di Matter. Questo Matter è castigato dal Signore, ha le braccia come stecchi, non riesce a sollevare i suoi figli (ibid.).

In una lettera inviatagli dopo la lettura de I poveri sono matti Giovanni Papini coglieva alcuni importanti assonanze nell’opera letteraria di Za che meritano di essere considerate. Tra l’altro il diciassettenne Cesare ave-va amato infinitamente Un uomo finito del suo noto recensore:

Il suo ultimo libro è uno dei piú “imprevisti”, di quanti, italiani e moderni, ho letto in questi anni. Vedo che battezzano lei ‘umorista’. In questo libro, invece, trovo un poeta tragico che si giova del grottesco apparente per meglio raffigura-re e rivelare la dolorosa malinconica, paurosa realtà quotidiana. C’è qualcosa, alla lontana, di un Kafka e di un Joyce, ridotti alla piú elementare e sobria espres-sione, e resi, perciò, piú italiani e piú lirici.47

Nel 1941 Bompiani diede alle stampe il terzo libro di Zavattini, Io sono

47. Nuzzi-Iemma, De sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, cit., p. 39.

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il diavolo, 42 storiette e raccontini usciti, in parte, sul settimanale « Tem-po » tra il luglio 1940 e l’agosto del 1941. Nella forte ed emblematica Pre-fazione, sempre di natura autobiografica, il malessere e le contraddizioni del tempo s’estrinsecano in forme meno vaghe: la guerra aveva iniziato a far sentire tutto il peso della tragedia che investiva il paese nella sua interezza. La verve comunque non è appannata e l’inventore della Bassa conserva quella identità ritmica che avvolge le raffigurazioni abolendo qualsiasi segno di discorso intellettuale. Nel primo raccontino da cui prende il titolo l’intera raccolta, Io sono il diavolo, l’io narrante manifesta il sospetto di essere ormai diventato un essere demoniaco ma di sperare che gli altri non se ne accorgano:

Il sospetto che io sia il diavolo mi è venuto ieri. Niente di sulfureo: ascoltavo un uomo alla fermata del tram e provai improvvisamente un urto di vomito alle sue parole, parlava di cose comuni, del tempo troppo spesso piovoso. […]. Io non so quale sarà la fine di questa scoperta. È possibile che la mia vita continui a essere giudicata normale dagli altri, che nessuno si accorga del mio passaggio.48

Anche quando i giochi appaiono favolosi e bizzarri, l’autorità della fan-tasia s’impone senza ostacoli:

Mi distrae un verde che traspare sotto l’acqua di una risaia, un verde non esisten-te prima d’oggi. L’aeroplano scende e io sono un ragazzo affacciato alla finestra che dice: guarda un aeroplano.49

Il successo dei primi libri di Za fu tale che nel 1942 e poi nel ’55 l’edi-tore Bompiani pensò di riunirli in un unico volume intitolandolo Tre li-bri. L’anno dopo, nel pieno della spaventosa crisi militare e politica che stava per travolgere il regime, uscí Totò il buono, inizialmente apparso a puntate su « Tempo ». Talune fonti di questo straordinario scritto, perva-so da un umorismo triste e non insolitamente amaro,50 risalivano alle sue prime collaborazioni alla « Gazzetta di Parma », tra il 1927 e il 1929. Un

48. Zavattini, opere 1931-1986, cit., p. 133.49. Ivi, p. 202.50. « Tutto il mio umorismo nasce da una grande tristezza infantile » (Zavattini, Io.

Un’autobiografia, cit., p. 45).

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libro apparentemente utopico nel quale si materializzano tutti gli ele-menti portanti dell’opera di Zavattini, impegnato nella ricostruzione di un linguaggio che doveva riportare nel suo giusto funzionamento il si-gnificato delle parole, evitando fraintendimenti su concetti quali giusti-zia, democrazia, povertà, solidarietà.

Giacomo Debenedetti nella sua Lettera all’« Ipocrita », apparsa su « La fiera Letteraria » col titolo L’autorità delle tue fantasie (xiii, 2 marzo 1958, fasc. 9 pp. 3-4), considerando proprio le conclusioni di Totò il buono, – che indirizzato la sua scopa verso nord, era diretto « verso un regno dove dire buon giorno vuol dire veramente buon giorno » –,51 rivolgendosi a Za, gli scriveva:

Il caso classico è stato quando ti sei accorto che « buon giorno » può davvero voler dire « buon giorno », cioè che le parole, prese alla lettera come sono state coniate, significano realmente il loro contenuto. Si capisce che, in un mondo che ha speso tanto tempo e tanto ingegno a cercare di conoscersi, certe tue constata-zioni, se uno se le ripetesse in astratto, possono parere risapute. Viceversa, quan-do le leggiamo sulla tua pagina, suonano come se in tanti millenni il mondo si fosse sempre dimenticato di dirle: o addirittura, in una vanitosa ricerca del com-plicato, di ciò che fa parere superiormente intelligenti, le avesse trascurate come troppo elementari.52

La letteratura tendeva a mutare profondamente e Sergio Solmi, che pure non si era mai occupato di Zavattini benché lo avesse abitualmente frequentato durante gli inizi del soggiorno milanese, nel ’46 scriveva:

Oggi lo scrittore non si muove piú in un campo di prospettive stabili e note, tutt’al piú lentamente cangianti nel corso storico, ma quasi su di un mare infor-me e malfido, dove la rotta appare sempre piú dettata, piú che da una agevole ed orientata predilezione.53

La stagione neorealista si tingeva di esasperazioni ideologiche e lasciava smarrire, e in taluni casi sommergere, le antiche, agevoli “predile zioni”.

51. Ivi, p. 274.52. Debenedetti, saggi, cit., pp. 1159-68, a p. 1160.53. S. Solmi, La letteratura italiana contemporanea, to. i. scrittori negli anni, a cura di G. Pac­

chiano, Milano, Adelphi, 1992, p. 292.

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Pensando allo Zavattini scrittore occorre ripensare le illuminanti, bre-vi pagine critiche di Luigi Malerba. In esse si riassume la originale crea-tività di Za ma soprattutto il senso di una scrittura ancora largamente capace di sorprendere e tradire l’angosciosa serietà del lettore di buon sen-so. In realtà, pur essendo un « divo di primo piano, ma sempre nella irre-golarità, è stato visto con sospetto anche dagli araldi dell’effimero, sem-pre cosí attenti a ciò che succede sulla strada e sulla piazza ». Mai del tutto accolto nel cerchio magico dell’alta cultura, la comparsa di Zavattini « sulla scena letteraria è stata accolta da un coro immediato di entusiasmi, ma accompagnato quasi sempre dalla difficoltà di inquadrare questo cor-po estraneo nel contesto italiano ».54

Cesare Zavattini, anche grazie al cinema e alla pittura, è giunto ad una percezione della realtà e della condizione umana davvero unica dando di oltre mezzo secolo di vita italiana e dei suoi costumi una esemplare te-stimonianza. La sua figurazione del mondo ha avuto una scintillante rappresentazione nel nonsense, nella forza creatrice di innumerevoli gio-chi fantastici e surreali. Nella raccolta di Racconti e racconti, tutti scritti dal 1927 al 1940, che formano il volume Al macero, ad esempio, non manca nessuno degli ingredienti che hanno reso la scrittura di Za una enciclo-pedia di immagini e trovate uniche, in cui lo Zavattini personaggio compe-te con agonismo con lo Zavattini scrittore. Nel raccontino che segue è possibile rintracciare anche l’appassionata ammirazione per il teatro e il cinema comico di Antonio de Curtis, in arte Totò, la cui sensibilità lin-guistica e la paradossabilità di ascendenza pirandelliana si affermarono dai primi anni Trenta:55

Evasioni celebri

Toth, lo sventratore di donne, racconta ai nipotini nelle sere d’inverno, vicino al grande camino, le sue meravigliose gesta: « Nella Guiana eravamo sorvegliati da cento secondini. Come fuggire? Mi venne un lampo di genio: un pomeriggio

54. Malerba, Introduzione, cit., p. xi.55. Sull’attività artistica e cinematografica di Totò e sul suo nonsense vd. Totò parole di

attore e di poeta, a cura di P. Bianchi e N. De Blasi, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2007; sull’assimilazione della paradossalità pirandelliana vd. A. Palermo, sul primo Totò, ivi, pp. 17-36.

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che tutti eravamo nell’immenso cortile centrale mi misi a camminare all’indie-tro verso il cancello. Le guardie credettero cosí che io stessi entrando. Invece uscivo ».56

Ed ancora, nella Vita di Dam Mark si propone al lettore un gustoso episo-dio di carità umana:

L’episodio piú commovente della mia vita. All’angolo del ponte Wellcome fer-mai un signore distinto e attempato. « Alto le mani », gl’intimai. Ubbidí. Non aveva che un bell’orologio d’oro. « Me lo lasci », supplicò, « è un caro ricordo di famiglia ». Mi allontanai con le lacrime agli occhi e con l’orologio (1098).

E sempre a proposito di orologi e di racconti direttamente illuminati da saette di nonsense, una felice proposta narrativa viene dall’isola dove van-no tutti gli orologi sfuggiti alla furia distruttrice dei bambini in attesa del giudizio universale:

C’era un’isola dove vanno un bel giorno tutti gli orologi del mondo a finire la loro vita laboriosa. Sono sfuggiti alle mani terribili dei bambini: disseminati fra l’erba come fiori, essi riposano tranquillamente. Sono fermi: chi sulle cinque, chi sulle nove e due minuti. Ogni orologio predilige un’ora.

Il giorno del giudizio universale anch’essi torneranno a battere, muniti di piccole invisibili ali voleranno nei panciotti dei loro antichi proprietari: un ladro, un barone, o il santo, o il ladro, o il fanciullo: « Guarda, sono le cinque e un quar-to ». E tutto riprenderà come prima. forse qualcuno obietterà: « Prego, sono le cinque e dieci… ». Registrando l’orologio si avvieranno tranquillamente insie-me verso la valle di Giosafatte (p. 1209).

Nelle pagine migliori di Za però si coglie un costante, rispettoso rappor-to con la morte che il Bat de I poveri sono matti continua a raccon tarci:

Un giorno aveva udito un uomo: « La morte non arriva se io sarò sempre in un posto diverso dall’ultima volta ». Bat pensa invece che non è penoso morire se con sé sparisce ogni altra persona, ogni cosa, anche quel palo rosso visto ieri dall’autobus (p. 105).

56. Zavattini, opere 1931-1986, cit., p. 1093 (le indicazioni subito successive dir. a te-sto).

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Per Zavattini, e la storia di Bat lo rende evidente, si aprono nuovi per-corsi ma il nonsense resta una costante imprendibile e indefinibile, talvol-ta persino impossibile, del suo essere scrittore « predisposto a vedere le contraddizioni piú nelle idee che nelle cose ».57 In fondo la lettura dei suoi libri, pur seguendo una topografia complessa non sempre cataloga-bile nel corso di circa un sessantennio di attività, offre la sensazione di vedersi aprire un mondo davanti agli occhi, svelando la sua laica conce-zione delle cose: « La realtà? Era enormemente ricca. Basta saperla guar-dare ». Purché sappia giungere, come è stato limpidamente intuito, « al linguaggio egalitario dell’immaginario ».58 Magari una storietta dagli inso-liti lampi di coscienza morale, come vide Calvino,59 raccontata dopo qualche inquietudine notturna da Cesare Cadabra. D’altronde un altro emiliano, Silvio D’Arzo, l’autore dell’equilibratissimo Casa d’altri, in suo racconto, Una storia cosí, aveva consigliato: « […] (se volete far soffrire un vostro nemico, non pensate a mali complicati e inverosimili, ma augura-tegli soltanto una lunga notte lunga, senz’alba) ».60

Il surreale e mai domo Za da luzzara ha saputo raccontarci il mondo attraverso occhi di un ragazzo pronto a stupirsi e a commuoversi di fron-te ai miracoli della vita e alle sue infinite, dolorose ambiguità. Al volto diabolico e livido del potere, zavattini, pur in una crescente inquietudi-ne, ha sempre ritenuto di contrapporre l’idea della letteratura come un costante « notare verso gli altri ».61

57. Vd. Malerba, Introduzione, cit., p. xv, che cita dal libro-intervista Zavattini parla di Zavattini, cit.

58. W. Pedullà, Zavattini scrittore. Parole come saette, in « Avanti! », 15 ottobre 1989.59. Calvino, nel ricordare Vittorio Metz nel 1984, sottolineava: « Ed ancora sul “Sette-

bello” scriveva Zavattini, il cui discorso era già diverso dagli altri e coi suoi poveri angeli-ci portava nel nuovo umorismo insoliti lampi di coscienza morale »: (Calvino, saggi, cit., vol. ii p. 2903).

60. S. D’Arzo, L’aria della sera e altri racconti, a cura di S. Perrella, Milano, Bompiani, 1995, p. 21.

61. Cirillo, nei dintorni del surrealismo, cit., p. 232.

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Barbara Silvia Anglani

tUttI A cEnA dAl bARonE MAnUEl. Il nonsense In AchIllE cAMPAnIlE

Il titolo di questo intervento si rifà a una scena famosa del primo, splen dido romanzo di Campanile, Ma che cos’è quest’amore,1 un passo esemplare per quanto riguarda l’uso del nonsense da parte di questo auto-re. La scena presenta al lettore tutti gli elementi tipici della narrativa di Campanile: l’ambientazione – sommaria ma contemporaneamente pre-cisa – in una dimora aristocratica; il dialogo assurdo tra i personaggi; la loro impassibilità di fronte al manifestarsi dell’assurdo stesso. Si tratta di una conversazione durante la quale, come spesso accade fra amici, i pre-senti si trovano a scambiare ricette di cucina:

Si parlava di gusti e Carl’Alberto disse:« A me gli zucchini non piacciono ».« Sono squisiti » disse il barone, gran buongustaio « cucinati con l’aragosta ».« Ah, sí? » fece Lucy « non sapevo. Come si fanno? ».« È molto semplice. Per sei persone si prendono sei zucchini, si mondano e si

tagliano in fettoline di un centimetro di spessore per lunghezza; si fanno bollire, poi si mettono in una salvietta e s’appendono per farli sgocciolare. Mentre sgoc-ciolano, si fanno cuocere tre aragoste finché diventino ben rosse. Quindi le ara-goste si spaccano a metà, per lunghezza e, preparata una salsa maionese, si ser-vono in tavola su piatti d’argento ».

« E gli zucchini? » disse Lucy.« Restano a sgocciolare ».« Un altro buon piatto » disse Carl’Alberto, che s’intendeva un po’ di cucina

« sono le costolette di vitello al limone ».« Come si fanno? ».« Battete bene dieci costolette di vitello, fate liquefare 300 grammi di strutto

in una teglia, infarinate la teglia sopra e sotto, fate cuocere le costolette nella cenere finché siano diventate nere. Aggiungete un bicchiere d’acqua di selz e la raschiatura della scorza d’un arancio. Preparate un trito di prezzemolo e cospar-

1. A. Campanile, Ma che cos’è quest’amore?, Milano, Corbaccio, 1927; l’opera aveva visto la luce a puntate nel « Sereno » durante il 1924.

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gete di lupini, lasciate una mezz’ora le costolette per terra e dieci minuti prima d’andare a tavola gettatele dalla finestra ».

« Le proveremo domani » disse la baronessa prendendo appunti.2

Come si vede, l’autore si diverte a rilanciare. A una prima ricetta, già pri-va di senso perché prevede l’utilizzo di un ingrediente all’unico scopo di buttarlo via, ne segue una seconda, nella quale addirittura l’intero piatto viene gettato e i cui passi di preparazione sono palesemente tesi a rende-re le costolette incommestibili. Qual è, dunque, l’obiettivo di questo genere di nonsense?

Il brano scelto offre subito una risposta: prendere allegramente in giro – alla maniera, leggerissima, di Campanile – le usanze e le conversazioni della buona società, dunque denunciarne le ovvietà dei dialoghi. Non bi-sogna dimenticare che la scena è ambientata in una sontuosa dimora, nel-la quale non manca nessun elemento alla moda: « un’orchestra di stru-menti ad arco e di arpe suona[va] misteriose arie orientali »,3 mentre dan-zatrici velate si pro ducono in uno spettacolo e petali di rose cadono sui convitati. Il romanzo nasce per la pubblicazione a puntate su un periodico (« Il Sereno ») nel 1924: la contestazione nei confronti dei riti borghesi, in qualsiasi punto d’Europa, è ancora da venire, fatta salva l’esperienza futu-rista, che Campanile ha conosciuto e di cui si serve in modo personalissi-mo. Come non pensare, infatti, che questa scena non sia la traduzione, in chiave ironica anziché drammatica, dello slogan Uccidiamo il chiaro di luna?

Tuttavia, non è solo al futurismo che si deve pensare, cercando gli antecedenti campaniliani. La sorvegliatissima scrittura rimanda di conti-nuo ai buoni studi, alle buone letture, all’amore per la misura, ai manua-li di comportamento per signore che negli anni Venti godevano di gran successo, anche sotto forma di rubriche nei periodici; mentre il tema della conversazione rimarrà, per colui che è anche e soprattutto autore teatrale, un obiettivo gettonatissimo durante tutti i settant’anni di inin-terrotto mestiere di scrittore.4

2. Si cita da A. Campanile, opere. Romanzi e racconti 1924-1933, a cura e con introduzio-ne di O. Del Buono, Milano, Bompiani, 1989, pp. 22-23.

3. Ibid.4. Sul tema delle letture di Campanile, e in particolare sul suo attingere ai libri di scuo-

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La chiave del nonsense praticato da Achille Campanile è stata affronta-ta da validi studiosi fin dai suoi primissimi successi. Letta appunto in chiave antisistema, deflagrante, quindi avanguardistica e dunque futuri-sta negli anni Venti, ha subito poi numerosissime interpretazioni, tutte caratterizzate dal tentativo di individuare il movente di quell’atto desta-bilizzante che consiste nell’abolire la logica, realizzando un prodotto ar-tistico rispondente a criteri altri, diversi, talvolta inaccessibili. E dunque, ecco il Campanile che, contrariamente a quello che molti futuristi poi diventati Accademici finiranno appunto per fare, tramite la sua scrittura sbeffeggia l’oratoria fascista (e questo è senz’altro vero, come risultato; rimane da vedere se fosse anche nelle intenzioni dell’autore). Ecco anco-ra Campanile che destruttura gli stilemi della letteratura ufficiale (e que-sto è ancor piú vero). Ecco infine il Campanile addirittura « sovversivo », in una lettura che fa del comico in sé una componente critica del « siste-ma » inteso come norme sociali e letterarie condivise e prevalenti in un dato periodo.5

Questa linea critica si aggancia, negli ultimi decenni, a studi che sono andati piú a fondo sulla questione dell’umorismo e della comicità spe-cialmente negli anni del Ventennio. È chiaro che, lette da una prospetti-va post-ideologica qual è quella di oggi (per semplici criteri generazio-nali, se non per altro), tutto il rapporto fra potere e arte durante la ditta-tura viene letto con chiavi diverse. Non per negare né la dittatura né gli

la e alla manualistica, non si può non far riferimento alle Vite degli uomini illustri; si veda in proposito A. Colasanti, Un certo generale romano, pref. ad A. Campanile, Vite degli uomini illustri, Milano, Rizzoli, 1999, pp. i-xx.

5. La critica su Achille Campanile annovera, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, numerosissimi contributi. Impossibile segnalarli tutti; si vedano almeno G. Al­mansi, Il pensiero a retromarcia, pref. ad A. Campanile, In campagna è un’altra cosa, Milano, Rizzoli, 1984, pp. i-xiv, poi in G. Almansi, La ragion comica, Milano, feltrinelli, 1986, pp. 31-41; C. Bo, Il Manuale senza regola, pref. ad A. Campanile, Manuale di conversazione, Mila-no, Rizzoli, 1973, pp. v-xii; Del Buono, Introduzione, cit.; U. Eco, Campanile: il comico come straniamento, in Id., Tra menzogna e ironia, Milano, Bompiani, 1998, pp. 53-98; P. Pancrazi, Il riso scemo di Campanile, in Id., scrittori d’oggi, Bari, Laterza, 1946, pp. 154-58. Le monografie sullo scrittore che ci risultano edite sono le seguenti: C. De Caprio, Achille Campanile e l’alea della scrittura, Napoli, Liguori, 1990; G. Cavallini, estro inventivo e tecnica narrativa di Achille Campanile, Roma, Bulzoni, 2000; B.S. Anglani, Giri di parole. Le Italie del giornalista Achille Campanile (1922-1948), Lecce, Manni, 2000.

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sforzi di emancipazione dalle pesantissime e invadenti direttive di regi-me, che si facevano sentire in particolare nelle redazioni dei giornali an-che umoristici, ma piuttosto per capire quale fu realmente il clima e quali furono le intenzioni di questo e di altri scrittori che in quei tristis-simi tempi si trovarono a vivere.6

Se andiamo in cerca delle caratteristiche del nonsense campaniliano, troviamo che esso è dotato di due obiettivi comici: la letteratura e la so-cietà, vale a dire il linguaggio letterario e gli utenti di quello e di altri linguaggi. Questo perché il nonsense di Campanile si serve dello stru-mento linguistico sia in chiave antiletteraria sia in chiave antisociale. Per far ciò, e per essere largamente compreso (esigenza che, se è di quasi tut-ti gli scrittori che ambiscano a pubblicare, lo è ancor di piú per chi prati-ca il giornalismo come attività retribuita e principale), egli deve agire su un pre-testo (o ipo-testo) già noto e codificato, sia sociale che letterario. Campanile lo fa ma, come si è visto nell’esempio iniziale, la sua arte lo conduce ad attivare non risate bensí sorrisi. Il meccanismo, che egli pra-tica con varianti ma la cui ossatura non muta mai per tutti i suoi settanta anni di carriera, si basa sempre su piccoli spostamenti di senso, su sfuma-ture, su slittamenti logici, che automaticamente fanno trapassare la lettu-ra da un piano serio a un piano comico e, potremmo meglio dire, ludico, dove la dimensione del gioco e dello scherzo è la piú appropriata. Quan-do, invece, Campanile si lascia andare a toni piú decisi, piú aspri, a pole-miche piú aperte, l’obiettivo viene mancato: è il caso del Diario di Gino Cornabò, che egli tenne a puntate sulla « Gazzetta del Popolo » durante la seconda metà degli anni Trenta e che poi raccolse in volume.7 Nono-stante il grande successo della rubrica, tanto che « Gino Cornabò » fu ri-tenuto addirittura il vero nome di Achille Campanile, la cifra di questa scrittura rimane la veemenza, l’invettiva, l’arrabbiatura: un tono poco idoneo al nostro, e tuttavia disvelatore di un’altra faccia, quella nervosa,

6. A questo tema si è dedicata in particolare Caterina de Caprio nel vol. citato in n. 5.7. A. Campanile, Il diario di Gino Cornabò, Milano, Rizzoli, 1942, poi, con intr. di L.

Terzi, Milano, Rizzoli, 1999. Sulla « Gazzetta del Popolo », il testo – con il titolo oscillan-te: Il diario di Gino Cornabò oppure Il diario di un uomo amareggiato – era comparso durante il 1938. Alcuni brani del Diario sono stati portati in scena, con la regia di Antonio Calenda, da Piera degli Esposti.

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e di un diverso atteggiamento, quello talvolta apertamente critico, nei confronti del regime.

Il nonsense agisce allora contro l’ideologia superomistica della quale Mussolini si vanta di essere l’incarnazione stessa, e allo stesso tempo con-tro il sistema d’informazione, che (già allora) si adagiava su notizie senza senso:

Non c’è giorno senza amarezza per me. In occasione dei giuochi olimpici avevo mandato un messaggio. Non già che mi sia commosso tanto. Tutt’altro. Me ne infischio. Ma era per far circolare il mio nome. Signori miei, se non ci penso io nessuno ci pensa. Purtroppo siamo a questo: che, per farmi ricordare, debbo attaccarmi a simili sciocchezze. Perciò ho diramato ai giornali un comunicato: « In occasione, ecc. ecc., Gino Cornabò ha diretto il seguente messaggio: Io vi saluto, o vittoriosi incoronati del lauro, ecc. ecc. »

Credete che i giornali l’abbiano pubblicato? Nemmeno una riga. Nemmeno una parola. Ho comperato tutti i giornali, li ho sfogliati da cima a fondo: del mio messaggio non v’era traccia. Allora ho mandato altri messaggi dandone notizia ai giornali.

Niente. Niente alla lettera.Ora io dico: se i messaggi fossero stati di Gabriele d’Annunzio i giornali si

sarebbero fatti in quattro per pubblicarli. I miei no. I miei si cestinano. Ma, di-sgraziati, voi non sapete quanto il mio destino sia simile a quello del Poeta. Piú ci penso, e piú mi convinco che io e d’Annunzio siamo tutta una cosa: se egli lo fu soltanto negli oscuri tempi della disconoscenza nazionale, io sono tuttora perseguitato dai creditori.8

Nel passo emergono con chiarezza gli obiettivi, diremo comici e non po-lemici, dell’autore: primo fra tutti, la retorica ufficiale. I discorsi inaugu-rali, sembra dirci Campanile, sono tutti uguali; l’unico motivo per il qua-le a essi viene dato un certo risalto è che a pronunciarli sono personalità famose. Ci sarebbe di che riflettere sull’attualità di una tale critica verso i mezzi di informazione che, nel 1938, subivano censure e direttive rigidis-sime. Il secondo obiettivo, diremo ironico, è il grande scrittore, messo sullo stesso piano – sia pure per scherzo – di Cornabò, assediato dai cre-ditori. Questo tipo di comicità riusciva sgradito al regime se già nel 1937

8. Campanile, Il diario di Gino Cornabò, ed. 1999 cit., p. 63.

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il Ministro della Cultura Popolare, Dino Alfieri, aveva allestito un Pro Memoria destinato ai direttori di giornali umoristici nel quale raccoman-dava: « non disturbare per raggiungere effetti comici alte figure della storia da Dante a Colombo a Cellini a Cavour ».9

Ma il terzo obiettivo, che sottotraccia si estende in tutto il Diario, è piú complesso: perché da un lato sembra essere costituito proprio da quella media borghesia decaduta che cerca il successo a ogni costo (non si capi-sce perché Cornabò abbia diritto alla fama, eppure egli la pretende); dall’altro, Cornabò rappresenta lo scrittore fallito (manda continuamen-te manoscritti puntualmente rifiutati dagli editori), livoroso, incattivito, vittimista, cioè l’esatto opposto di quello che Campanile rappresenta per la pubblica opinione in quegli anni: lo scrittore brillante, col monocolo, che firma decine e decine di autografi in ogni luogo pubblico in cui si presenti.

Ma ritorniamo alla chiave piú propriamente e piú felicemente campa-niliana, per ricordare come essa si basi su alcune delle leggi proprie del comico:– una tensione alla regressione infantile: quello di Campanile è un riso

di rilassamento, di abbassamento delle difese, in primo luogo logiche oltre che for mali;

– l’accettazione, da parte di tutti i giocatori, delle regole del gioco stesso:10 e si veda, per questo, l’autentico pezzo di bravura che è rappresentato dal linguaggio immaginario messo in opera da due innamorati che, per non rendere note le loro passioni erotiche, camuffano le parti del corpo (la bocca, la vita, i seni ecc.) con nomi di montagne, di fiumi, di elementi naturali (quindi una frase erotica si tramuta in « Ti voglio ac-carezzare dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanare al Reno »).11 Qui il

9. Su questo argomento, cfr. anche De Caprio, Achille Campanile e l’alea della scrittura, cit., pp. 46-47.

10. Umberto Eco ha accennato alla tipologia di architesto sotteso alle parodie campa-niliane e dunque alle competenze di un lettore che lo scrittore immagina mediamente istruito (si veda Eco, Campanile: il comico come straniamento, cit.). Caterina De Ca prio dedi-ca un capitolo della sua monografia alla ricezione di Campanile (Il pubblico dei lettori, in Ead., Achille Campanile e l’alea della scrittura, cit., pp. 75-103).

11. A. Campanile, Ma che cos’è quest’amore?, in Id., opere. Romanzi e racconti 1924-1933, cit.,

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lettore accetta il gioco, e soltanto a questo patto gli si disvela quello che altrimenti sarebbe un autentico nonsense. Quindi, possiamo dire, Cam-panile fornisce il nonsense e la chiave per decifrarlo.Il vertice del nonsense di matrice linguistica si raggiunge probabilmen-

te in Agosto, moglie mia non ti conosco. Qui uno dei personaggi è una povera ragazza rimasta vittima di un precettore il quale, per vendicarsi di essere stato rifiutato come suo sposo, le insegna la lingua italiana apponendo al lessico piccole variazioni: Isabella, finalmente innamorata, dirà al suo amante « Son la tua bombola… dagli occhi di condor » invece di « Son la tua bambola dagli occhi di candor », oppure « Sento in cuore una prugna » (il fidanzato la corregge: « una pugna »), o anche « Tu mi sembri com-messo » (« Io ti sembro commosso? » risponde il ragazzo che ormai ha capito il linguaggio dell’amata: « – Che gioia! Una carrozza sul callo. – Taci: è una carezza sul collo »).12 Ancora una volta, sono chiari gli obiet-tivi ironici di un linguaggio inventato che non colpisce tanto la passione degli amanti, quanto piuttosto le migliaia di romanzetti nei quali il lin-guaggio amoroso (e anche erotico) viene banalizzato senza pietà, con il ricorso, da parte degli scrittori, a figure sempre uguali. Non è secondario dunque che il romanzo appaia a puntate, poiché le pubblicazioni perio-diche sono da sempre il luogo nel quale il linguaggio, per esigenze co-municative e di vendita, viene banalizzato piú che altrove. Nella scena finale di Agosto, accanto a Isabella che colloquia con gli esiti che abbiamo visto con l’uomo che finalmente ama, vi è un’altra coppia:

« Ti prego », mormorò Mystérieux « vien gente e si potrebbe credere che fra noi sia avvenuto chissà che cosa; fingiamo almeno di parlare ».

Aggiunse, coi gesti di chi fa una conversazione:« Balabà, racatà, barabà ».

pp. 137-39: « “Taci!” Sussurrava il giovane. “La tua barca a vela è ardente e tormentosa, la tua guerra dei trent’anni è pura come un’alba serena e le tue piramidi sembrano rose di maggio. Taci: […] ch’io ti solletichi ancora, dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanare al Re-no, due volte sulla polvere, due volte sull’altar!” », dove l’autore dispone per il lettore il seguente glossario: bocca - barca a vela; fronte - guerra dei Trent’anni; guance - piramidi; sopracciglia - Alpi; mento - Manzanare; ricciolo - Reno; gola - polvere; capo - altare.

12. A. Campanile, Agosto, moglie mia non ti conosco, Milano, Treves, 1931; si cita dall’ed. Milano, Rizzoli, 1981, pp. 143-47.

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« Mairilú onestí vitalí » bisbigliò Caterina, seccamente, fingendo di rispon-dere.

E ovviamente, trattandosi di Campanile, la faccenda non può concluder-si cosí: assecondando la sua regola del rilancio, giunge infatti una seconda coppia in crisi:

« Tu » bisbigliò Marina « hai deciso di partire e sta bene. Ma finché sei qui, ti prego di parlarmi ».

Camillo taceva, guardando con indifferenza il tramonto.« Vedi quei due come si parlano affettuosamente? » insisté Marina, indican-

do l’altra coppia « ora capiranno che abbiamo bisticciato. Almeno fingi di dirmi qualche cosa. Se non vuoi parlarmi, fa’ la commedia ».

Camillo si voltò verso di lei e mormorò, con malagrazia:« Caradità maradità ».« Vidisapiú, sí mai piú, no mai piú » bisbigliò Marina, reprimendo a fatica i

singhiozzi.13

Paradossalmente, gli unici a dirsi davvero qualcosa sono dunque i due amanti che attribuiscono un significato sbagliato a parole autentiche, mentre gli altri, quelli che non hanno niente da dire, sono però condan-nati dalle norme sociali alla parola desemantizzata, anzi totalmente in-ventata. Campanile continua, in pieno 1930, a uccidere il chiaro di luna, e lo fa prevalentemente con un nonsense di tipo linguistico.14 Vediamo invece l’altra tipologia campanilana, che con questa si intreccia: il nonsen-se prevalentemente logico.

Se volessimo dichiarare quale sia la chiave costitutiva di questo secon-do nonsense del nostro autore, la rinveniremmo probabilmente in uno scardinamento dei procedimenti abduttivi e deduttivi: lo stesso che ci ha condotto a sorridere leggendo l’esempio che ho riportato inizialmente, quello della ricetta dell’aragosta. Un meccanismo di disconferma, che

13. Ivi, pp. 249-53.14. Su questo si era espresso già Enzo Siciliano: « In Campanile c’è l’eco di un futuri-

smo disinnescato da qualsiasi miccia superomistica. È il futurismo che se la prende con la logica del linguaggio comune. Diciamo: invece che Marinetti, è presente il Palazzeschi del Codice di Perelà o dei Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi » (E. Siciliano, Introduzione a Campanile, Agosto, moglie mia non ti conosco, ed. 1981 cit., p. v).

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colpisce innanzitutto i procedimenti logici: anzi, potremmo dire che ba-sa lo scardinamento logico su una assoluta e rigorosa aderenza ai model-li e alle norme linguistiche. Al contrario di quella rivoluzione formale annunciata e praticata dai futuristi, infatti, la lingua campaniliana si man-tiene sempre fedele a un andamento piano, correttissimo; le frasi di Campanile, è stato detto, « rotolano » come biglie da biliardo una dopo l’altra;15 il lettore non è mai afflitto dal dovere di interpretare questa “sov-versione” logica attraverso scarti grammaticali o sintattici. Anzi, Campa-nile lo conduce per mano, passo passo lo porta ad aderire a quel nonsense infine confessato come fulmen in clausula. Paradossalmente, si tratta per-ciò di un nonsense ragionato:

La baronessa Irene dormiva nella sua poltrona di vimini. Ella si vantava di dor-mire pochissimo. Ed era vero. Il sonno della baronessa era una cosa strana: le permetteva di tenere gli occhi aperti, di conversare, di camminare e dedicarsi a tutte le pratiche della vita domestica.

Per di piú durava solo pochi minuti al giorno. Il resto del suo tempo la pove-ra signora lo passava sveglia. E, quando era sveglia, aveva la singolare abitudine di stare con gli occhi chiusi, quasi sempre immobile in una posizione perfetta-mente orizzontale. In queste lunghe veglie non parlava mai ed emetteva uno strano rumore dal naso.16

Quali sono i linguaggi, e quindi i mondi, parodiati da Campanile? An-che qui, tutti quelli che le colonne dei quotidiani sui quali egli pubblica-va ospitavano regolarmente. Le righe di Campanile diventano una sorta di controlettura del giornale: la cronaca del Giro d’Italia sulla « Gazzetta del Popolo » affiancava quella ufficiale; le scene ambientate in case bor-ghesi o addirittura aristocratiche comparivano accanto alle rubriche in cui si dispensavano consigli di buone maniere e cronache di avvenimen-ti mondani. Nasce da questo autentico controcanto alla vita sociale e alle sue regole la memorabile cronaca dell’incendio a palazzo, diventata, sot-to la penna di Campanile, un favoloso evento mondano:

15. « I gerundi rotolano soddisfatti. […] l’effetto è quello di una scrittura, come dire, grammaticale, tirata giú con gli esempi del vocabolario sotto agli occhi » (Colasanti, Un certo generale romano, cit., p. iii).

16. Campanile, Ma che cos’è quest’amore?, cit., p. 14.

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Barbaglio di luci e di splendori, indimenticabile turbinio di nudità femminili, ecco lo spettacolo che la vita mondana offre di quando in quando allo stanco monocolo del disincantato croniquer. Ieri sera, nei sontuosi saloni di palazzo fo-lena s’è svolto un grandioso, indimenticabile incendio a cui hanno partecipato tutti gli inquilini dello stabile.

Notato, fra gli intervenuti, il corpo di pompieri au grand complet. Qualche nome, a caso: Pacchierotti Ettore, francesconi Pasquale, Casulli filippo […].

La contessa folena indossava uno splendido paio di scarpe di suo marito e uno scendiletto le copriva le forme scultoree; il conte, in corrette pantofole, bombetta e mutande a righine celesti allacciate alla caviglia, indossava una inap-puntabile giacca del suo nipotino dodicenne. […]

L’incendio si protrasse animatissimo fino all’alba, ora in cui i pompieri e gli altri intervenuti presero commiato, portando seco, imperituro, il ricordo del bello spettacolo che – ne siamo certi – la tradizionale cortesia dei conti folena vorrà ripetere ancora, per la gioia dei loro amici.17

Come si vede, la matrice giornalistica del nostro autore ne influenza in modo determinante la scrittura anche quando egli è ormai famoso co me romanziere. Sulle pagine dei quotidiani, d’altro canto, il “pensiero late-rale” tipico del nonsense può fare le sue prove consapevole di rappresen-tare, per la sua collocazione anche fisica, lo specchio segreto della retori-ca (quindi del linguaggio) e dei personaggi (quindi della società) che sulle altre pagine del giornale erano ospitati in modalità non comiche. La prova piú esemplare in questo senso è data senza dubbio dalla cronaca del Giro d’Italia del 1932, condotta da Campanile sulla « Gazzetta del Popolo » e solo successivamente raccolta in volume.18 Qui il cronista dà

17. A. Campanile, In campagna è un’altra cosa, in Id., opere. Romanzi e racconti 1924-1933, cit., pp. 1117-18.

18. A. Campanile, Battista al Giro d’Italia, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932, ora in Id., opere. Romanzi e scritti stravaganti 1932-1974, a cura di O. Del Buono, Mi-lano, Bompiani, 1994. L’edizione in volume presenta una imbarazzante dedica a Erman-no Amicucci, direttore della « Gazzetta del Popolo », nella quale Campanile manifesta ammirazione per la prosa di Mussolini. Tra i pochi interventi critici su questo testo, cfr. Luca Clerici nel vol. a sua cura, Il viaggiatore meravigliato. Italiani in Italia (1714-1996), a cura di L. Clerici, Milano, Il Saggiatore, 1999, pp. 232-34; inoltre L. Ciferri, Premessa, in A. Campanile, Battista al Giro d’Italia, Milano, Edizioni La Vita felice, 1996, pp. 7-9; De Ca­prio, Achille Campanile e l’alea della scrittura, cit., pp. 43-45; in partic. sul nonsense linguistico,

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prova di mestiere: il lessico, il ritmo, i temi sono quelli tipici delle crona-che autentiche, d’altro canto ospitate al contempo sul quotidiano. Cam-panile dimostra quindi di padroneggiare perfettamente ciò che vuole irridere. Lo scivolamento nel nonsense avviene in modo leggero, con una piccola curva, con un sassolino inatteso lungo la strada; e può verificarsi soltanto a patto di basarsi su un mestiere non effimero, su una eleganza e un senso della misura che Campanile non abbandonerà mai e che co-stituiscono forse la cifra piú duratura del suo stile. Ecco la colazione dei campioni, alla vigilia della partenza:

Sono le sette del mattino. Milano si sveglia piena di fervore nel pulviscolo d’oro del sole, ma già alla « fiaschetteria Toscana » di Via Vettor Pisani la giornata è piuttosto avanti: giganteschi ossi scarnificati, costole spezzate, femori sanguino-lenti e tibie infrante giacciono nei piatti, davanti a vigorosi giovani dalle maglie a vivaci colori e dalle gambe nude.19

È sempre il linguaggio a offrire il destro dell’assurdo: ha scritto Eco, « Prendere il linguaggio per i fondelli vuol dire prenderlo “per” la lettera, ottenendo effetti di straniamento »;20 e questo straniamento è quello che con ogni probabilità si insinuava – con leggerezza – nel lettore del 1932. Non si può dimenticare che le glorie sportive costituivano per il regime un autentico vanto e che lo stesso Mussolini propagandava di sé l’imma-gine di un individuo dalle energie illimitate, dedito a ogni tipo di pratica sportiva, dal volo in aeroplano all’equitazione. Proprio per questo, l’in-venzione del gruppo dei « Sempre in coda », che Campanile segue con affetto e simpatia e che contrappone ai veri campioni del Giro, può cari-carsi di un significato diciamo « non allineato » rispetto alle direttive di regime. Dire « sovversivo » è, secondo me, dire troppo.

Anche lo stesso Campanile guarderà con interesse a sé stesso durante il Ventennio. Nel tardo romanzo L’eroe (1976), ecco un significativo dia-logo a proposito della dittatura:

vd. H.P. Grice, Logica e conversazione, in Gli atti linguistici, a cura di M. Sbisà, Milano, fel-trinelli, 1978, pp. 199-219.

19. Campanile, Battista al Giro d’Italia, cit., p. 12.20. U. Eco, Maestro del postmoderno, in « La Repubblica », 7 ottobre 1989.

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« Siete un fascista, dunque » fece Zorapide con crescente ribrezzo.« Ma nemmeno per sogno. fui vittima dell’antifascismo, benché io non fossi

affatto un fascista. […] La mattina in cui era caduto il fascismo, io uscii di casa, per partecipare alle dimostrazioni di giubilo. Era la mattina in cui, lo ricorderete, per le strade si camminava calpestando uno strato di distintivi fascisti, come avesse grandinato ».

« Naturalmente » disse Zorapide. « Tutti avevano buttato via l’odiato emble-ma, simbolo di violenza e di tracotanza. Anch’io mi affrettai a liberarmi di esso, con ribrezzo ». […]

« […] bisogna dire che Mussolini fu veramente un uomo straordinario. […] Riuscí a tenere soggetti sotto di sé ben quaranta milioni di persone che non lo volevano. Ce ne fosse stata una che lo gradisse. Niente. Tutti contrari. Tutti che mordevano il freno ».

« E come! ».« Ohé, ma erano quaranta milioni a mordere il freno. forse sarebbe bastato che

qualcuno, invece di mordere il freno, mordesse lui. Viceversa, tutti ostili, tutti contrari, ma in quaranta milioni non ce la potettero contro un solo uomo. […] Ecco. La mattina in cui era caduto il fascismo, io, calpestando uno spesso strato di distintivi, camminavo per la città percorsa da camion irti di dimostranti che esul-tavano, gridavano […] e cercavano disperatamente un fascista per percuoterlo, per sfogare finalmente l’odio per le angherie subite in venti anni. Ma niente. In tutta la città non si trovava uno che fosse stato fascista. Tutti erano stati segreta-mente antifascisti. A un certo punto arrivo dove si stava riunendo una colonna di dimostranti per andare a caccia di fascisti da percuotere, e in quel momento, per un guasto del congegno, il maledettissimo braccio [il protagonista ha infatti una protesi al braccio] scatta in alto e si mette in posizione di saluto romano ».21

Cosa accade quando, dopo la Liberazione, Campanile si trova privato dei suoi abituali bersagli, non solo, ma catapultato in una società che muta sensibilmente e rapidamente? Si può dire che, allo stesso tempo, i suoi bersagli cambino e rimangano gli stessi. Si prenda per esempio il Giro dei miracoli, un réportage dell’Italia delle Madonne piangenti realizza-to nel 1949.22 In questi articoli, Campanile non giudica, non interviene: si pone dal punto di vista dell’osservatore colto ma non partecipe, facen-do della lingua uno strumento di indagine capace di dare spessore al

21. A. Campanile, L’eroe, intr. di f. Cordelli, Milano, Rizzoli, 1976, pp. 70-71.22. A. Campanile, Il Giro dei miracoli, Milano, Milano-Sera Editrice, 1949.

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racconto ed evidenza narrativa ai personaggi ma, allo stesso tempo, di sottolineare i loro paradossi logici:

Che avvengano fatti strani è indubitato. Dappertutto c’è gente che ha visto la Madonna. Madonne che parlano, che respirano, che muovono il capo, che striz-zano gli occhi. Ma il fatto è che ad avere queste visioni non sono soltanto dei fanatici ma molto spesso persone che non ci pensano o addirittura degli atei.

Il popolino ha già codificato la cosa.– La vede chi non crede, – dice una popolana nel tram che da Pisa va a Mari-

na, affollato di donne che vanno a vedere la Madonna nel giardino dove è appar-sa a una bambina. – Io credo, ci sono stata anche alle tre di notte e non l’ho mai vista.

La donna è tutta soddisfatta di questa prova a rovescio.23

Ne viene fuori un’Italia povera, in piena ricostruzione ma al tempo stesso priva di punti di riferimento; un popolo che si guarda intorno senza riuscire a orizzontarsi e che finisce per aggrapparsi all’unico punto di approdo che trova disponibile: l’ingenua fede nelle Madonne parlanti. Non si deve pensare che il nonsense sia dedicato esclusivamente al versan-te comico e spensierato di Campanile. Anche il suo lato malinconico e meditativo se ne serve, come di un grimaldello utile a indagare la vita. Diciamo intanto che non si può suddividere la produzione campaniliana in un periodo comico e in un periodo contemplativo o meditativo, in quanto in realtà egli passa da un tono all’altro fin dagli esordi. Già un suo romanzo del 1927, se la luna mi porta fortuna,24 contiene frequenti medita-zioni sul tema che sempre assilla Campanile, vale a dire la caducità della vita umana e l’incombere della morte; e, non caso, è questo l’unico ro-manzo nel quale muore un personaggio, una donna, a conferma del fat to che qui ancora il tema è affrontato in modo troppo esplicito, mentre in seguito farà capolino con meccanismi piú velati, piú eleganti: « Vorrei vedere chi, essendo immortale, si alzerebbe presto la mattina ».25 Il passo

23. Ivi, pp. 53-54.24. A. Campanile, se la luna mi porta fortuna, Milano, Treves, 1927, ora in Id, opere. Ro-

manzi e racconti 1924-1933, cit., pp. 201-422.25. A. Campanile, Cantilena all’angolo della strada, in Id., opere. Romanzi e racconti 1924-

1933, cit., p. 1489.

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piú drammatico, forse, dell’intera vastissima produzione campaniliana è quello che ritrae un assurdo che questa volta non è nelle parole di Cam-panile: l’assurdo, l’inaccettabile, è nei fatti. L’inspiegabile, ingiustificabile offesa che la natura fa alla vita: la morte di un bambino. « Ma andiamo! È un bambino! », scrive sconcertato Campanile:

E, in verità, non ha alcun merito ad esser morto.Anzi, a voler essere rigorosi, ci sarebbero molte cose da dire.Ma guarda un po’ quel bambino, cosí piccolo e già morto.È ammirevole a quell’età, non lo neghiamo; è un caso di precocità sorpren-

dente. […]Quel bambino aveva l’età per essere ammesso tra i morti? […] No. Non ave-

va nessuno dei requisiti necessarii, nessun precedente. Era piccolissimo. Non sapeva nemmeno parlare.26

In una conversazione del 1960 con Indro Montanelli, Campanile ave-va dichiarato che l’umorismo nasce « dall’imprevedibile, dall’assurdo ver-bale contrapposto all’ovvietà di una situazione oggettiva »:27 e questo si è, infatti, verificato negli esempi che ho proposto. Qui invece, abbiamo il meccanismo opposto: l’ovvietà linguistica si oppone a un assurdo logico. Per non chiudere questo intervento con l’immagine di un bimbo defun-to, rimando a quello che è un autentico pezzo di bravura dell’assurdo: un brano del 1962, da Campanile pubblicato su « L’Europeo », rivista sulla quale egli ha tenuto una rubrica di recensioni televisive, in molti casi anticipatrice rispetto agli sviluppi che il mezzo televisivo ha avuto nei decenni successivi. Questa volta la satira è diretta contro una puntata di Tribuna politica che ha affrontato il tema della scomparsa del latino dalle scuole medie; ed ecco l’opinione di Campanile:

Pollice verso al latino? Sottoscrivo toto corde. Te Deum laudamus! Era tempo. Un requiem aeternam, et pax. Requiescat in pace. Del resto, non esisteva ab aeterno. Questo è noto lippis et tonsoribus.

Benché nemo propheta in patria, io, assertore dell’hic et nunc, pater familias,

26. Ivi, p. 1473.27. I. Montanelli, Introduzione a A. Campanile, La televisione spiegata al popolo, a cura di

A. Grasso, Milano, Bompiani, 1989, p. v.

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unus ex omnes, primum inter pares, come potrere rilevare dal mio curriculum vitae, assumo l’interim per proclamare che il latino andava bene in temporibus illis. In diebus illis. Ma ruit hora. Ed eccoci al redde rationem. Che speriamo non diventi un dies irae. È ora di fare tabula rasa.28

28. A. Campanile, Apertis verbis, ore rotundo, urbi et orbi, basta con il latino, in Id., La televi-sione spiegata al popolo, cit., p. 244.

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Andrea Cedola

« Il MARE dEllA nonSEnSERIA ». Horcynus orca dI StEfAno d’ARRIgo

La lingua del romanzo Horcynus orca, lingua di straordinaria densità semantico-lessicale, è il prodotto del « genio insistentemente deforman-te », come notava I. Baldelli, e del « gusto derivativo ed etimologico »1 di uno scrittore, Stefano D’Arrigo, il quale s’è consumato in un lavoro eroi-co e quasi ossessivo di elaborazione e rifacimenti durato almeno vent’an-ni: dal ’56 al ’75, e oltre.2

È una lingua iperletteraria (pur su base in gran parte dialettale),3 e fitta di formazioni analoghe al neologismo nonsenseria che ho riportato nel titolo del mio intervento. nonsenseria: da nonsenso ed -ería; il suffisso, mol-to frequente in Horcynus orca, qui non si limita, come in altri casi,4 ad

1. I. Baldelli, Dalla fera all’orca, in « Critica letteraria », iii 1975, num. 7, pp. 287-310 (ora in Id., Conti, glosse e riscritture, dal secolo XI al secolo XX, Napoli, Morano, 1988, p. 269).

2. S. D’Arrigo, Horcynus orca, Milano, Mondadori, 1975 (da cui cito, di qui in avanti). Già per la ristampa del 1982 l’autore aveva preparato nuovi interventi sul testo, che non vennero accolti dall’editore. Le varianti sono state inserite nella riedizione del libro cura-ta da W. Pedullà, per Rizzoli, nel 2003. Per la gestazione e per le vicende redazionali del romanzo, fino al ’75, cfr. gli apparati di S. D’Arrigo, I fatti della fera, intr. di W. Pedullà, a cura di A. Cedola e S. Sgavicchia, Milano, Rizzoli, 2000, e il notevole studio di Sgavic­chia, Il folle volo, Roma, Ponte Sisto, 2005. Per le ristampe e le riedizioni, oltre al capitolo ad esse dedicato da Sgavicchia, cfr. i Riferimenti bibliografici, pubblicati al termine di queste pagine.

3. Dichiara D’Arrigo, in un’intervista pubblicata su « Il Giorno », 12 gennaio 1966: « Il mio linguaggio non è né dialetto né italiano letterario, lingua per me d’accatto. È come se io avessi inventato una mia lingua, diversa sia dal dialetto sia dall’italiano. Certo, se faces-si leggere il mio libro ai pescatori siciliani dello Stretto, questi riconoscerebbero la lingua come propria, ma nello stesso tempo penserebbero che non è proprio quella loro. Si tratta di una lingua fortemente intrisa di termini dialettali, in grado di rappresentare situa-zioni ed emozioni: un italiano rinvigorito dal dialetto, pur senza essere una fusione fra i due linguaggi ». Sulla componente dialettale e sulla « raffinata […], estrema letterarietà » della lingua darrighiana, si veda, tra gli altri, Baldelli, Dalla fera all’orca, cit., pp. 285 sgg.

4. Qualche esempio: sgarberia, prepotenteria, teatranteria, scaltreria, tronferia, sprezzanteria, loquenteria, ecc.

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aggiungere al vocabolo un connotato spregiativo,5 ma addirittura gli conferisce una piú ampia e vibratile6 indeterminatezza: vibratilità che – attraverso un processo di rimotivazione che percorre tutto il libro – ren-de infine la parola disponibile al rovesciamento ironico-tragico, in « mare della nonsenseria »,7 del celebre verso dantesco.

Baldelli aveva da subito riconosciuto e mirabilmente illustrato i mec-canismi « neoformativi », e perfino « neoplastici »8 della lingua horcynia-na, osservando « lungo tutta l’opera, una festa sfrenata di denominali, di deverbali, di parasinteti verbali, di parole composte e ripetute ».9 È una esu beranza lessicale, metamorfica, che lo scrittore almeno in parte « gram- maticalizza » (uso il termine continiano)10 attraverso l’iterazione, l’asso-ciazione etimologica o paraetimologica, le combinazioni, le riprese, le « meta-glosse »,11 e soprattutto attraverso una perfetta adesione, o reci-proco rispecchiamento, tra le dinamiche dell’elaborazione linguistica e le linee di sviluppo dell’azione narrata; e il piú delle volte sono in effetti i contesti, di cui i termini conservano memoria nelle successive oc-correnze,12 a ridefinire, di sequenza in sequenza, i significati, in partico-lare dei neologismi.

Si tratta di procedimenti d’invenzione lessicale e d’organizzazione

5. Si veda il glossario horcyniano pubblicato da G. Alvino in Id., onomaturgia darrighia-na, in « Studi linguistici italiani », xxii 1996, pp. 74-88 e 235-69, poi in Id., Tra linguistica e letteratura. scritti su stefano D’Arrigo, Consolo, Bufalino, in « Quaderni pizzutiani », 4-5, 1999, pp. 1-59, a p. 34 il termine è tradotto da Alvino, genericamente, ‘astruseria’.

6. Uso il termine nel senso evocato da S. Agosti in « Je dis: une fleur! ». L’idea della natura e dell’arte in Mallarmé, in « Il piccolo Hans », 34 1982 (ora in Id., Critica della testualità, Bolo-gna, Il Mulino, 1994).

7. L’espressione compare per la prima volta, nel romanzo, a p. 1125.8. Baldelli, Dalla fera all’orca, cit., p. 295.9. Ivi, p. 269.10. G. Contini, schedario di scrittori italiani moderni e contemporanei, firenze, Sansoni,

1978, p. 61.11. S. Lanuzza, scill’e Cariddi. Luoghi di ‘Horcynus orca’, Acireale, Lunarionuovo, 1985,

p. 55.12. Cfr. f. Gatta, La rigenerazione del lessico: lingua comune e neologia in ‘Horcynus orca’, in

Il mare di sangue pestato, a cura di f. Gatta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, in partic. p. 150.

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sintattico-semantica ampiamente studiati in D’Arrigo, anche di recente,13 sui quali in generale non vorrei qui soffermarmi. Vorrei piuttosto evi-denziare come la tensione tra caos e forma, a livello sia linguistico sia die-getico, o per dirla in altro modo, tra forze centrifughe e centripete, nel testo, si risolva a vantaggio delle prime, col prevalere dell’escrescenza sul sistema, della « nonsenseria » sulla grammatica.

Intendo dire che la lingua di Horcynus orca è, sí, un organismo unita-rio,14 autonomo e coerente;15 la realizzazione – secondo le intenzioni dichiarate dello stesso D’Arrigo – di una « totalità lessicale, sintattica e semantica », di un sistema espressivo « completo e assoluto ».16 Ma nel suo funzionamento, come lingua oggettivata (nelle voci dei pellisquadre)17 e messa in scena nel romanzo, rivela in sé proprio quella matrice neopla-stica individuata da Baldelli, cui prima accennavo. Non solo: ne trasmet-te il codice alterato all’intera compagine testuale. Horcynus orca è insom-ma un’opera che concentra e mostra le tensioni di un doppio processo di generazione e di autodistruzione, attraverso il quale restituisce un’im-magine potente – realistica e simbolico-visionaria – del disastro bellico e delle sue immani conseguenze – lo sconvolgimento di qualsiasi ordine, delle vite degli uomini e degli equilibri della natura –, allo stesso tempo trasfigurandola in una dimensione metastorica, esistenziale. È il metodo di D’Arrigo: al rigoroso calcolo sintattico-strutturale, egli contrappone grado a grado, nelle voci narrate, il gene del disordine; alla costruzione del discorso, la distruzione e lo scompaginarsi di ogni norma comunica-tiva. La lingua e le cose (i luoghi, le azioni, i personaggi) appaiono gene-

13. Vd. i lavori di Gatta, Alfano, Sgavicchia, e di Baldelli, Contini, Lanuzza, Pedullà, Alvino, prima di loro, citati nei Riferimenti bibliografici. Cfr., su questo e su altre questioni “horcyniane”, anche il num. monografico, dedicato a D’Arrigo, de « L’illusionista », num. 25-26, ix 2009.

14. E nella disputa tra plurilinguisti e monolinguisti darrighiani, io mi schiererei con quest’ultimo partito, che è per es. quello di G. Alfano, Gli effetti della guerra. su ‘Horcynus orca’ di stefano D’Arrigo, Roma, Sossella, 2000.

15. Una « poderosa macchina di significazione », come scrive Gatta, il cui « sistema di riferimento » è tutto interno e « coincide con quello della comunità » di Cariddi (f. Gatta, ‘Horcynus orca’: un romanzo e la sua lingua, in « Atelier », num. 43 2006, p. 38).

16. Dall’intervista a D’Arrigo, pubblicata in Lanuzza, scill’e Cariddi, cit., pp. 134-35.17. Sono i pescatori di Cariddi.

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rati e prendono forma, nella sua scrittura – come per osmosi, o per me-tastasi – da un medesimo impulso di morte. Cosicché, la polisemia pla-stica della parola horcynusa si converte, per tutto il romanzo, in ambiguità ed enimma; nell’emergere della sostanziale inconoscibilità del reale.

Metamorfosi, corrosione, neoplasia. Horcynus orca rovescia, sul piano del linguaggio, il paradisiaco, tomistico « gran mar dell’essere » nell’in-fernale, nembrottiano e babelico « Mare della nonsenseria ». Ne è em-blema la piaga, la contagiosa infezione o cancrena dell’orca eponima: orca, orcagna, orcarogna, carcassorca,18 che occupa e svuota le acque strette e ocea-niche dello scill’e cariddi. E allora, cominciamo con l’osservare che la lin-gua di Cariddi, nel romanzo, è una lingua “demente”: lo è rispetto all’ita-liano, alla lingua per es. del guardiamarina Monanin,19 che solo d’autori-tà riesce a imporre ai pellisquadre la parola delfino al posto della fera che loro hanno sempre conosciuto (come parola e come creatura « besti-na »):20

« Lei non se la deve pigliare per offesa, ma a noi delfino non ci dice niente di niente, nella nostra lingua… »

« Nella vostra lingua? […] Ma cosa è sta lingua che dici, cosa è sta lingua che parli, la lingua forse che ha in bocca quella vostra fera là? Quella, se è quella, è vostra, hai ragione, quella solo, voi la parlate la lingua di quella là, e voi soli la

18. Questa modalità neoformativa (agglutinazioni, “parole valigia”) è ampiamente presente nel testo darrigliano.

19. E prima di lui, dell’« eccellenza fascista » che in mare, nel 1935, minacciandoli col mo-schetto, impone ai pellisquadre di liberare la fera cui loro stanno imponendo una lunga agonia allo scopo di terrorizzare le altre (che hanno fatto strage di reti e di pescispada nello stretto): li chiama « massacratori di delfini innocenti », e alle loro rimostranze risponde, sempre mano al moschetto, elencando e facendogli ripetere – e compitare, oltre al nome “corretto” – le « belle qualità » del delfino: « fanciullo… divertente… elegante… bello… vergi-ne… martire » (per poi prenderlo di mira e ucciderlo lui stesso). Il « casobello feradelfino » (pp. 181-218) richiama quindi quest’altro, piú recente, alla memoria di ‘Ndrja: a bordo della corvetta su cui il protagonista è imbarcato, il guardiamarina ha imposto a lui e a un suo commilitone siciliano di chiamare col “vero nome” una giovane fera che s’è messa sulla scia della nave: perché fera significa bestia feroce, mentre quello, secondo Monanin, è un animale gentile, innocente e amico degli uomini (pp. 219-62).

20. E la parola fera suscita in Monanin « soltanto a ripeterla, l’effetto di una nonsenseria strabi-liante » (p. 230).

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parlate e voi soli la intendete… […] Voi non avete una lingua, non avete nessuna lingua, voi, hai capito? ».21

Ma, oltre che demente, quella horcynusa (la lingua del romanzo) è mol-to spesso una lingua poeticamente, metodicamente folle e “insensata”, allo stesso modo di certi giochi linguistici – anche letterari (tipici, ad es. del filone nonsensical ) – che attaccano e rovesciano nel disordine dell’ana-logia fonico-ritmica la logica e l’ordine formale, la razionalità e l’efficien-za discorsiva della lingua (e con essa, delle modellizzazioni epistemiche dominanti). Giochi del tipo di quelli che G. Dossena ha descritto e cata-logato, per es., in Lewis Carroll,22 alcuni dei quali potremmo ritrovare nei procedimenti linguistici di Horcynus orca: le “parole-valigia” (con la fera e con l’orca, oltre che con la barca; un es: nuovoliando);23 i giochi di “scarto/aggiunta” (come con barca-bara-arca) e la serie palindrone (le cui modulazioni si direbbero sistemiche ben piú che lessicali); le “false eti-mologie”. Altra patologia, o demenza, del linguaggio horcynuso è l’eco-lalia: piú avanti ne esaminerò un caso, dalle pagine di barca-bara-arca, che configura una sorta di ipnotica e funerea afasia. Ma qui, subito, una pre-cisazione (che svilupperò col procedere del mio intervento): mentre il puro nonsense sconvolge allegramente le forme della logica, della lingua e della letteratura, la nonsenseria – con le sue permutazioni e vibratilità semantiche – è utilizzata in D’Arrigo, lo vedremo, come forma della negatività assoluta; come nonsenso solo apparente, eppure ben piú radi-cale, perché attinge al livello piú profondo di un guasto immenso, indi-cibile; del piú irreparabile sconvolgimento dell’essere. Le modalità del gioco distruttivo, nel nonsense e nella nonsenseria, possono dunque sem-brare simili; ma sono del tutto diversi il tono, la prospettiva, gli esiti.

Giochi linguistici, dicevo, come i giochi « bambineschi » (o pseudoinfan-tili) della letteratura nonsensical. Ci sono bambini, « muccusi » che giocano in Horcynus orca. Ma i loro giochi sono spesso dichiarati, negativamente,

21. D’Arrigo, Horcynus orca, cit., p. 239.22. Cfr. G. Dossena, Il sorriso del gatto, Grosseto, Biblioteca Comunale Chelliana,

2001.23. Su « nuovoliare » cfr. le parole di D’Arrigo riportate in C. Marabini, Lettura di D’Ar-

rigo, Milano, Mondadori, 1978, p. 22.

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nonsenserie. forse perché non sono mai giochi innocenti; né del tutto al-legri: fanno, sí, « venire le vertigini »; sono cioè giochi dell’ilinx (cosí li classificherebbe Caillois),24 per questo aspetto analoghi a quelli del non-sense (che disorientano coi capogiri della logica);25 provocano, sí, in chi li pratica, un senso di ebbrezza e di spossessamento; ma si tratta di « pertur-bazioni » che infine evocano – o fanno affiorare – l’angoscia di una per-dita di sé, come una demartiniana “crisi della presenza”. Alcuni esempi, qui di seguito.

Il gioco che nella cuccetta della nave da guerra, dopo la discussione con Monanin, torna alla mente di ’Ndrja, mentre pensa al delfino come “fera ingentilita”:

Quel pensiero andava e veniva dalla sua mente, cosí, senza senso e senza scopo, come una pietrabambina gettata a mare: si sentiva stanco, col corpo travagliato che si riposava nella branda e la mente che si sboriava in quel pensiero bambine-sco, non diverso in niente dal gesto di pigliare e tirare pietrebambine. Se aveva un senso, quel pensiero curioso, era proprio questo: un senso bambinesco e sfanta-siato, il senso che ha gettare a mare delle pietrebambine e vedere i cerchi d’acqua che s’ingrandiscono, s’ingrandiscono e intanto che s’ingrandiscono, svaniscono; il senso poi, che nel nome stesso, nella natura stessa e nella stessa vista di confet-to, suscita alla mente la pietrabambina, per cui anche un uomo fatto, anche un pellesquadra, se istintivamente la piglia e la getta a mare, fa una figura bambine-sca; e per cui anche il mare dove si getta, anche se è un mare scabroso e vecchio col pelo bianco, come il mare dello scill’e cariddi, fa una figura bambinesca. […] Era come stare sulla spiaggetta della ’Ricchia, con la mente imbambolata e la mano, quasi da sola, che cerca, riconosce, piglia e getta pietrebambine in quello specchietto d’acque, riparate e nascoste, fra gli scogli renosi e la grotta.

Là e allora: alla ’Ricchia, e in un tempo lontano lontano, il tempo bambinesco dei giochi che di padre in figlio, muccusi e muccuselli, passavano in quel luogo […].26

24. R. Caillois, I giochi e gli uomini, Milano, Bompiani, 2004.25. Cfr. P. Albani, La stupidità in azione, ovvero il “comico demenziale” performativo, inter-

vento al dibattito su Demenziale-concettuale nell’attività performativa, svoltosi al Caffè Giubbe Rosse nell’ambito dell’8° « festival internazionale di poesia in azione a+voci », firenze, 11 marzo 2006.

26. D’Arrigo, Horcynus orca, cit., pp. 263-64 (le indicazioni subito successive e avanti, ove possibile, dir. a testo)

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Ma i giochi di allora, del padre muccuso Caitanello e dei suoi compagni, s’erano interrotti con l’uccisione della feruzza addomesticata, la « Mezzo-giornara » (pp. 265-95), colpita a fucilate e ridotta a

un orrendo essere informe, avvolto nel suo sangue, qualcosa che allora e per lungo tempo ancora non seppero mai definirsi e che poi, avanti negli anni, an-darono definendosi, per via di paragone, come un grosso, spaventevole feto, uno sbozzo di grumi sanguosi, che scaricava il suo cieco istinto di vita (p. 266).

E ancora, sempre lí alla spiaggetta, i giochi d’iniziazione sessuale – i gio-chi e i camuffamenti delle sirene e dei naviganti naufraghi:

Ognuna allora s’impadroniva del suo pesce con la barba, afferrando il navigante per la caviglia e trainandoselo dietro: in uno strano silenzio, che era venuto improv-viso col naufragio, il corteo scompariva allora nell’apertura nera della ’Ricchia. Di laddéntro, veniva poi uno sciacquío come di corpi che si arruffavano facendo la lotta, e poi un rifiatare basso, affannoso, un vento occuposo di sospiri, e poi piú nulla. La ’Ricchia allora tornava di colpo, dentro e fuori, silenziosa e deserta, e quella apparente solitudine spandeva subito intorno come una oscura paura, un misterioso senso di allarme e di sterminata, accorante malinconia. Se qualcuno di loro era rimasto fuori, perché essendo disparo, non era potuto entrare nel gioco, al vedersi solo veniva pigliato immancabilmente da una specie di sgo mento: era come se il gioco fosse diventato tutto vero, la farsa finita a tragedia, come se i suoi amici non sarebbero mai piú ricomparsi fuori dalla grotta. E lo assa liva l’impulso di gridare, e qualcuno a volte gridava veramente, chiaman do i suoi compagni uno per uno per nome, e a furia di chiamare e non avere risposta, c’era chi scoppiava in lagrime e questo succedeva infallibilmente quando fuori restava qualcuno dei piú muccusi, Enzo o Salvatore, ad esempio. Pareva allora che quel muccusello piangesse per la triste sorte di quei naviganti forestieri e questo, a ripensarci, ren-deva tutto straordinariamente veritiero nella loro immaginazione (p. 667).

Ed è un’anticipazione del destino del reduce ’Ndrja Cambria.Il nonsense, in Horcynus orca, è insomma convertito in nonsenseria; e nel

gioco senza senso del muccuso sembra già inscritta la demenza all’ultimo grado del nonnavo, del pellesquadra ormai troppo vecchio, ormai ridotto a mummione di sale:27 come ad esempio quei compagni di barca, o chiumma,

27. Come quei « vecchi pellisquadre, messi alla sedia davanti alla porta la mattina e ritirati la sera » (Horcynus orca, p. 162).

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del l’antico patriarca di Cariddi, don ferdinando Currò,28 i quali adesso – in tempo di carestia di mare e di guerra – decidono di togliersi di mez-zo rigiocando al vecchio gioco della caccia all’orca, e vanno a perdersi con lui in mare a bordo della « borietta », l’ultima barca rimasta a Cariddi.29 Allora era stata la nonsenseria di voler arpionare e dare la morte all’orca, o ferone, che è la morte stessa fatta animale, colei che dà la morte essendo, lei invece, immortale:30

L’animalone arrancava, ma arrancava come poteva arrancare lui, potentissima-mente: arrancava, si vedeva, con la potenza del suo fatale destino, in una ag-ghiacciante, sconfinata solitudine. […] … poi ferdinando Currò aveva detto che gli dispiaceva di averli messi in quel mare di guai, ma qualcuno della chiumma gli rispose che non si doveva dispiacere per loro perché a loro, al contrario, pia-cere gli aveva fatto, lo stesso piacere che gli aveva fatto a lui. Ci pigliammo una libertà, gli fecero. Eh, don ferdinando? per una volta nella vita ci pigliammo una libertà, vagabondammo maremare, per nostro capriccio, per soddisfare una no-stra curiosità. Per una volta nella nostra vita ci pigliammo un lusso. Però, ne valse la pena, dato che si trattò del ferone. Chiunque lo sente: faceste bene, ci dice (pp. 743, 745).

E ora, appunto, fatti mummioni per guerra e per vecchiaia, rigiocano quel-l’antica nonsenseria (non per l’orca, stavolta, ma per non togliere piú il pane di bocca ai muccusi):

Con la loro, s’appurava contempo la scomparsa della Borietta, una lancitta d’an-tica data, che serviva piú ai muccusi per spassarsi a lanzare aguglie, che per altro, e che era l’ultimo avanzo della stirpe infelice delle loro barche […]. Dei parenti dei quattro nonnavi, nessuno si gettava alle grida, nemmeno Catina e Anselmo per don ferdinando, perché piú grande del dolore che provavano, era lo sbalor-dimento che gli dava quella pensata dell’altromondo, che avevano messo in atto quei quattro vecchioni (p. 537).

28. Il quale, durante il terribile « terremaremoto » del 28 dicembre 1908, s’era prodigato per la salvezza dalle onde di « muccusi e muccuselli », appendendoli ai rami degli alberi « come tanti passerelli stracquati » (ivi, p. 530). Per questo era amato e rispettato come un padre, co-me un capostipite.

29. Essendo state distrutte o requisite, per guerra, tutte le barche dello stretto.30. « Era l’Orca, quella che dà morte, mentre lei passa come immortale: lei, la Morte

marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola » (ivi, p. 721).

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Varare per morte: è un motivo ricorrente lungo la dorsale simbolica del testo (e « quaglia » nell’immagine della barcabara).31

nonsenseria, dicevo, non vale semplicemente ‘nonsenso’. La parola ri-corre 22 volte. Vediamone, nel piú breve spazio possibile, qualche cam-pione. Il termine compare per la prima volta già all’inizio del romanzo, quando ’Ndrja viene apostrofato da uno spiaggiatore che « bazzica ormai piú per morte che per vita »:32

« Ehi, a voi, sentite… A voi… A voi… » l’apostrofò, prima cosí, diretto, al perso-nale, e poi gli aggiunse però come se parlasse d’un altro: « Eh, ma che ci fa un marinaro per questi piedipiedi, eh? Che ci fa un marinaro per queste bande deserte e solinghe? Ma come? Bianchi e neri fanno la guerra lassòpra e voi quas-sòtto non la fate né coi bianchi né coi neri? Eh, com’è? ».

E questa nonsenseria era stata il preambolo del vecchio occhiuto e linguto.33

Nella sua prima occorrenza, la nonsenseria ha un valore ambiguo: l’inde-terminatezza del deittico (questa) fa sí che il termine sia ugualmente ri-feribile alle parole del vecchio (secondo la prospettiva del protagonista) e alla situazione di ’Ndrja (secondo la prospettiva ironico-autoriale).34 Questi sembra infatti stupito dello stupore del vecchio: non pare accor-gersi, vale a dire, che è una nonsenseria la sua stessa presenza, lí, di marina-io via dalla guerra, fuori posto; il suo essere « straviato »,35 come un morto tra i vivi.36 Ma prima ancora, nonsenseria è il suo essersi fatto, da pellesqua-dra, marinaio; da cacciatore di fere, delfinaro, come vedremo. Sono gli ef-

31. Al centro della quale considererei il famoso « traghettamento » notturno di ‘Ndrja sulla barca nera di Ciccina Circè, nella parte finale della prima sezione.

32. Gli spiaggiatori sono la « razza misteriosa di quelli che si vedevano passare per la marina di Cariddi, maitino o serotino, cercando con un ramo fra rigetti, lordure e corpi estranei del mare » (Horcynus orca, p. 101).

33. Ibid. Il corsivo è mio, come tutti gli altri nelle citazioni dal testo darrighiano.34. Con ciò evidenziando uno sdoppiamento di voce e di prospettiva tra narratore e

protagonista che la scrittura horciniana tende invece per norma a coprire.35. straviato come lo sono, per prime, le « femminote » che egli incontra all’inizio del

romanzo: « straviate dal loro verso e senso abituali […] come gabbiani, rondini marine e quaglie, quando sono fuori tempo e fuori luogo, e allora sono sempre avvisaglia di qual-che novità, e novità sempre dispiacente, se si sa smorfiarla » (ivi, p. 13).

36. Per tutte le prime due parti del romanzo, i personaggi si rivolgono al protagonista quasi come a un revenant: dalle « femminote straviate », che lo apostrofano « marinaio

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fetti della guerra;37 ma anche di un trauma piú remoto, súbito rimosso.38 E il narratore, proprio attraverso l’ambivalenza grammaticale, libera ora, nelle parole dello spiaggiatore,39 il senso ulteriore – che è quello sostanzia-le – dell’apostrofe. La sorpresa del vecchio al cospetto del marinaro fa dunque intravedere il significato, qui, di nonsenseria: quel significato, o contenuto rimosso, che le autocensure e gli occultamenti difensivi mes-si in atto dal personaggio lasciano affiorare soltanto nei sogni,40 o per segni e indizi che, disseminati nel racconto, sin quasi alla fine (con l’epi-fania barca-bara-arca) restano per lui indecifrabili.

Affioramenti, nello spazio della rêverie, come quello in cui ’Ndrja, a distanza di molte pagine da quest’episodio, nella sequenza notturna che sopra citavo, si mette a ripensare – « nella sua branda, mentre cercava di pigliare sonno » (p. 263) – alla “fera ingentilita” in delfino, e ha cosí la prima percezione – seppure attenuata, o meglio, eufemizzata – del pro-prio « straviamento »:

Non era una stranezza di mente? Non era anche questa una nonsenseria? Perché […] a rifletterci, poteva pure essere un primo segno di risentimento di delfino dentro di lui: perché […] non era come farli un poco reali, i delfini, come am-mettere che esistevano, non solo di nome, ma anche di fatto, di fatto ovverossia da soli, indipendentemente dal fatto, dall’unico e vero fatto che erano fere ca-muffate, camuffate per avere maggiore agio? Sí, poteva essere, ma […] che c’era di strano se gli faceva piacere pensare a questo? forse non doveva fargli piacere perché si trattava d’un delfino? Ma nemmeno ci badava che era un delfino, an-che se con questo non voleva dire che si rimangiava la fera. […]

Ed ecco l’ibrido, effetto della neoplasia horcynusa:

’ntartarato », agli spiaggiatori, via via fino al padre Caitanello, col suo prolungato rito di ri-conoscimento.

37. Rimando ovviamente al titolo del volume, sopra citato, di Alfano (tra i piú acuti e assidui lettori darrighiani di questi ultimi anni), dove tali effetti sono analizzati nel loro proiettarsi entro la coscienza e la lingua (e la struttura testuale) horcynuse.

38. La morte dell’Acitana e le sue conseguenze, come vedremo.39. Che pare, con i suoi discorsi, con la sua strana carnevalesca divisa, l’emblema stesso

della nonsenseria (cfr. D’Arrigo, Horcynus orca, cit., pp. 101-4).40. Come quello del cimitero delle fere-delfino, e di lui « delfinaro » (ivi, pp. 164-84).

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In quel momento, per lui, non era né delfino né fera, o era delfino ed era fera, come fosse un nuovo animale chiamato delfífera: e questo animale, come doveva dire? lo riposava, lo attirava lontano dal luogo e dal tempo in cui si trovava (ibid).

Il nonsense della parola composta si materializza nella nonsenseria del mo-stro delfifera.41 Questi addensamenti di materiale onirico-linguistico sono un fenomeno ricorrente in Horcynus orca.42

La nonsenseria, dicevo – come indecifrabilità degli eventi –, è già nella situazione che ha prodotto il trauma infantile, origine della perdita di pre-senza. ’Ndrja muccuso ascoltava l’amoroso « ciuciulio di nomi » tra i genitori, Caitanello e l’Acitana, invocanti l’un l’altra con nomi esotici e segreti:

Solo questo, sempre questo: Aci mio… Aci reale mio… lei, e: Galatea… Gala a te… lui, ed era come si passassero e ripassassero, sempre uno stesso garofano lei a lui, sempre una stessa rosa lui a lei […]. Allora, a senso suo, al senso di quel muccusello, quella gli pareva una nonsenseria. La prima volta l’aveva pigliata ad-dirittura per opera di pazzia: che s’intendono di essere, ora? si era domandato. Si rimbambirono? Uscirono di senno? Gli erano parsi anche un poco ridicoli e vergognosi come tornassero a fare zito con zita, come se parlassero con la lingua fra i denti e senza sapere perché […] (pp. 453-54).

Quasi un altro gioco dell’ilinx, bambinesco e perturbante:

Una nonsenseria, questo gli pareva allora, ma contempo, allora, era come lo capis-se che se gli pareva una nonsenseria era perché non se ne capacitava.

Non era cosa che lui potesse decifrare coi suoi soli mezzi, era cosa troppo intima, segreta fra lui e lei (p. 455).

E poi, l’evento traumatico, che sembra svelare ma invece rende ancora piú angoscioso l’enimma:

41. Si potrebbe immaginare una suddivisione della teratologia fantastica horcynusa in “mostri-chimera”, come questo, e in “mostri-feto”, come la Mezzogiornara (e come, a un certo punto, l’orca). I primi, e specie la delfifera, rimandano allusivamente (come nel sogno « delfinaro ») anche a un’incertezza d’identità sessuale. È un’ipotesi di lavoro, intanto, si veda C. Spila, Il nostro barocco, Pescara, Tracce, 1997.

42. Si veda per es. la sequenza onirica in cui la parola delfino, che il protagonista vede tracciata sulla sabbia, si trasforma in figura e poi in corpo vivo (D’Arrigo, Horcynus orca, cit., pp. 175-78).

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La morte di sua madre scoprí un fianco a quell’enimma, proprio come lasciò un posto vuoto a letto: e una notte, per un caso, fu quasi sul punto, per quel varco, di trovarsi dentro all’enimma, nel mezzo, fra Galatea e Aci. Per un caso, diceva: per un azzardo, doveva dire, per un vero azzardo, un azzardo di quelli che inco-scientemente può fare solo un muccuso.

Era successo una notte che sua madre era morta da alcuni mesi e da pochi giorni suo padre gli aveva detto di venirsene a dormire al posto di lei (pp. 455-56)

Nel sonno Caitanello aveva continuato a invocare Galatea; finché ’Ndrja s’era azzardato a rispondere – « Aci » – al posto dell’assente. Ne era seguita una « nottata d’arruffamento fra padre e figlio », che forse avrebbe potuto aiutare il muccuso a chiarire e a farsi adulto; a diventare pelle-squadra. Invece, era subentrato il silenzio; l’enimma non s’è sciolto, e ades-so, passato per guerra, e tornato, egli ritrova il padre ancora preso nella nonsenseria di Aci e Galatea; e si rivede, ancora, « perenne muccuso ».

Nella terza parte del romanzo l’orca affiora e occupa le acque dello stretto, deserte di barche.43 I pellisquadre, già stremati dagli orrori della guerra, dall’invasione delle fere,44 dall’impossibilità di uscire a pesca, ne sono come stregati, e annichiliti; come impestati dalla sua piaga in can-crena. Per qualche ora, poi, l’animalone sembra aver preso il largo, e i cariddoti se ne sentono rinfrancati. Ecco allora la nonsenseria del loro ria-nimarsi: la ripetizione meticolosa, ma “in folle”, dei gesti (e delle parole esatte) del « mestieruzzo », quasi come sonnambuli:

I pellisquadre, come se fosse stata solo la presenza dell’orcaferone a impedirgli di varare sino allora, dopo mesi tornarono a trafficare, come per simbolo di bo-naugurio, con il loro mestieruzzo. Per prima cosa, avevano tirato fuori e sbro-

43. Cfr. sopra, n. 29.44. « Mai forse si era visto prima un cosí impressionante spostamento di quei geni e

genie di pescibestini, né forse si sarebbe mai piú visto dopo. Era un’apparizione che met-teva ansia e disorientamento, e faceva paurosamente nascere in testa il pensiero di qual-cosa d’oscuro e minaccioso che veniva con quel mare di fere […] “E questa è la fine del mondo, la fine nostra…”. / ‘Ndrja lo sapeva, come lo sapevano tutti, […] e la loro fine, la fine del loro mondo, se doveva venire, era dal mare che sarebbe venuta, e la loro fine, la fine del mondo di terraferma, sarebbe stata il principio del mondo dell’acqua salata, il principio del mondo della fera » (Horcynus orca, pp. 503-4).

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gliato la palamitara, la mutulara, l’acciara e la sciabica; Luigi Orioles aveva sfo-derato il ferro della traffinera e don Mimí le reste di ami sui sugheri delle lenze del conzo. Quelli si erano allungati in fila nel mezzo delle case, stirando le reti secche secche e controllandole ognuna, maglia a maglia, quasi fossero fresche di mare e ci sgocciolasse acqua; Luigi Orioles, con le boccettine della vasellina, le boatte di grasso e le pezze di lana, disposte sulla sedia davanti, oleava, lustrava e provava il delicato congegno del ferro; don Mimí, da parte sua, tornò a ranun-chiarsi nella sua gistra, con le labbra zeppe di ami, e quella sua vista dette ancora, a vederlo, quella stessa strana impressione di sempre, di essere contempo pesce ed esca.

Ed era don Mimí, perlappunto, a personificare meglio la nonsenseria di quello che facevano: e facevano come sonnambuli, che dormendo a occhi aperti, si al-zano la notte a fare quello che fecero al giorno, un giorno, e un lontano giorno. […] (p. 815).

La realtà del lavoro è convertita in simulazione (cosí anticipando la messinscena della parola barca, fatta da ’Ndrja – anche lui come sonnam-bulo – sullo sperone):

si fingevano rientrati dalla prima uscita, e ora andavano rimediando smagliature e strappi, riguardando galleggianti, piombi, romanello e ami, ed esche di pesci e di lana, e ferri e aste di traffinere, come dovessero varare ancora, appena calato il sole, e varare armando con ogni tipo d’armamento, con ontro, feluca e traffine-ra, con palamitara e con mutulara, con acciara e con sciabica, con rete insomma a maglia larga e a maglia stretta, rete per pesce grosso e pesce fino, per pesce di passa e pesce allogato, per pesce di fondo e pesce di scoglio (ibid.).

Il mestieruzzo, senza la barca, è allucinazione, teatro, nonsenseria.E veniamo, dunque, alla barca. Le pagine del “discorso sullo sperone”

(che formano l’inserto aggiunto da D’Arrigo in bozze solo dopo il ’72),45 e specie quelle di barca-bara-arca, costituiscono l’acme, e forse – come “a posteriori”, a spiegare i lunghi ripensamenti di D’Arrigo sul romanzo in forma di « enigma »46 (nodi che proprio nel ’72 si vanno sciogliendo) –

45. Cfr. Sgavicchia, Il folle volo, cit.46. Cfr. la lettera di D’Arrigo all’amico C. Zipelli (da me riportata, insieme ad altre, in

‘I fatti della fera’ nelle lettere di D’Arrigo a un amico, in D’Arrigo, I Fatti della fera, cit., pp. xxxvii-xlv, da cui cito di qui in avanti): « Tutti i giorni spero di trovare la chiave, la soluzione

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possono considerarsi il nucleo generatore del sistema linguistico-narra-tivo horcyniano. Vi troviamo molti dei fenomeni descritti da Baldelli: procedimenti già attivi nelle altre parti del romanzo, ma qui protratti si-no alla « follia analogica »47 e al « gioco a sé », che produce svuotamento di senso. L’iterazione isola e corrode la parola, fino a ridurla a « puro fanta-sma sonoro » (rimando alla pagina commentata da Alvino, con l’« itera-zione » della parola daffare).48 Cosicché la grammatica degrada in sillaba-zione:

« Si … sife … sife … sife … fecelo … celon … lon … lonta … naaana… » come se lo stesso sforzo che gli era costato alzare la testa mezza in luce, lo dovesse fare ora per spingere fuori alla luce, sillaba a sillaba, le parole.49

Davvero si fece lontana la barca. « sillaba a sillaba »: sillabare è un termine fondamentale delle metamorfosi horcynuse; le sue funzioni significanti si prolungano, si trasmettono e si complicano negli intrecci e nelle inter-ferenze con altre formazioni: sillabare, slabbrare, sillabbrare, sdillabbrare;50 sba-viarsi, sillasbaviarsi, sdillabaviarsi.51

La parola è sdillabbrata, come la piaga dell’orca;52 è sdillabbrata in grumi sonori, scomposta e ricombinata secondo linee di massima suggestione fonico-analogica: echi, allitterazioni e paronomasie; associazioni, disso-ciazioni, rigeminazioni neoplastiche. Un pullulare che dalla piaga mo-struosa dell’orca, o dal fondo dell’ilinx e della memoria, si estende, dicevo, al mare stesso, allo scillecariddi, che diviene mare della nonsenseria, azzera-mento della mera possibilità di riconoscere un senso, o l’essere, nelle pa-role e nelle cose.

dell’enigma (perché tale per me è, un quesito della Sfinge […]). Tutti i giorni spero di trovare il filo della matassa in cui mi pare d’essermi legato colle mie stesse mani. Mi di-spero sino alle lagrime ma mi pare miracoloso che ritenti, mi pare il solo buon segno che forse ci riuscirò. » (8 novembre 1958).

47. Sgavicchia, Il folle volo, cit., p. 69.48. Alvino, onomaturgia, cit., pp. 5-7.49. D’Arrigo, Horcynus orca, cit., p. 1114.50. Labbra e slabbrare, con eco-allusione ai denti della fera.51. Labbra e bava, rinvianti a una sorta di regressione infantile-ipnotica.52. « il sole, facendo svaporare il sale, gli aveva asciugato quel massacro di piagona

sdillabbrata e conseguentemente, fatto inselvaggire il fetore » (Horcynus orca, p. 785).

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Per inventare la scrittura del romanzo, D’Arrigo si è orientato sull’os-servazione filologica – e ci tiene a rimarcarlo:

Io vi ho lavorato basandomi su precisi dati filologici. Nel libro ci sono tutte le isolette linguistiche che prese insieme formano l’isola Sicilia […] tendevo a rico-struire, strato dopo strato, la lingua di Scilla e Cariddi.53

Opera come un filologo,54 ma perviene a un esito in ogni caso an ti mi-me tico;55 e a un flusso monologico in cui la ipervalorizzazione dell’ele-mento significante culmina, a tratti, con lo svuotamento di senso dell’eco-lalia.

L’inserto dello sperone è di circa 200 pagine. I Cariddoti, dall’alto del-la roccia protesa sullo stretto, osservano incantati e inquieti l’agonia del-l’orca, in un mare di sangue, orrendamente piagata nel fianco, poi colpita dalle bomboatte56 dei pescatori di frodo, e infine scodata a morsi dalle fere. Lo scodamento è un altro gioco molto in voga nello scill’e cariddi: è il di-vertimanto piú crudele e gratuito delle fere. Di solito c’incappa il pesce-cane; stavolta è toccato al ferone. Il mostro è infine ridotto a un’« orcarogna », e i pellisquadre cominciano a « cogitarci » sopra. Una tale massa di carne, se s’arenasse, li salverebbe dalla fame, per molto tempo. Ma le correnti potrebbero tenerla lontana, o ferma lí a impestare il mare. ’Ndrja allora interviene: un maltese, mister Maniàci, « factotumo » del comandante mili-tare di Messina, gli aveva offerto « mille lire » per partecipare a una regata fra equipaggi inglesi e italiani. Lui dapprima aveva rifiutato, ma ora – es-sendo giunto mister Maniàci, con un « barcone » da guerra britannico, a rinnovargli la proposta – finirà per accettare: in cambio della « vogata », si farà tirare a riva l’orca (ormai morta).

53. Le parole di D’Arrigo – riportate in Sgavicchia, Il folle volo, cit., p. 58 (cui rimando per i riferimenti) – comparivano in un comunicato stampa del 1975.

54. Uno scrupolo documentale che lo scrittore usa in ogni momento della sua opera: ne testimoniano per es., oltre ai risultati, le pubblicazioni oceanografiche presenti nella sua biblioteca a Roma, e il carteggio con Zipelli (per cui rimando al mio studio cit. in n. 58).

55. Ancora D’Arrigo, nel comunicato del ’75: « …a me non interessano i differenti dialetti ma ricreare una lingua compiuta e globale ».

56. Su questa formazione, cfr. Baldelli, Dalla fera all’orca, cit., p. 276.

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Lo « scagnozzo » del maltese è sbarcato a Cariddi con le mille lire in ma-no; ma proprio i suoi modi ambigui e volgari scatenano l’« incazzatoria » del protagonista: ’Ndrja comprende che il recupero della carogna trasci-nerà i pellisquadre all’estremo degrado (cibarsi di carne bestina, carne morta per di piú), causando la fine del loro mondo. Tenta di arginare la crisi facendo balenare nelle menti ormai « straviate » dei compagni l’idea dell’antico « mestieruzzo »: le mille lire potrebbero bastare come anticipo per una barca nuova. Per ricominciare a pescare. Ma i cariddoti non pen-sano che all’orca. Anche il loro capo carismatico, Luigi Orioles (alter ego paterno-utopico di ’Ndrja),57 sembra aver rinunciato a qualsiasi resisten-za: « Si fece lontana la barca, ’Ndrja » (p. 1081). La frase è pronunciata da don Luigi ma « oreocchiata »58 dal protagonista sulle labbra di un vecchio spiaggiatore (il « cannadastendere »). La voce è alterata, irriconoscibile; le pa-role sono spezzate: « Si… sife… sife… sife… fecelo… celon… lon… lon-ta… naaana… » (p. 1107).

Con l’inserto dello sperone, D’Arrigo fa passare la morte dell’orca per il mare stretto, per l’imbuto, o gorgo, della parola sdillabbrata. Nei Fatti della fera il compiersi dell’agonia giungeva pressoché inavvertito: il fero-ne pareva già morto quando era ancora vivo, e sembrava ancora vivo quando era ormai un’orcarogna. Lo scrittore inserisce il nuovo blocco nar-rativo proprio in quel mezzo: ’Ndrja, fra i cariddoti, contempla la fine dell’animale marino, e allo stesso tempo, per cosí dire, la verbalizza nel monologo interiore, « oreocchiando » le parole di Luigi Orioles. E men-tre nei Fatti della fera ad essere sdillabbrata era soltanto la piaga dell’orca, qui lo sarà la parola stessa: confusione, ibrido mostruoso tra corpo fisico e segno.59 La “neoplasia”, infatti, produce sull’articolazione del linguag-gio, sulle parole oreocchiate da ’Ndrja, come stiamo per vedere, la stessa azione dilaniante e trasfiguratrice cui è sottoposta la carne dell’orca. Allo stesso modo vi era stato sottoposto, alcune pagine prima, il corpo di

57. Un vero e proprio « idolo » per lui, col suo « stile netto, specchiato, solare, […] il comportamento dell’animo, statuario, statuario marmorino » (D’Arrigo, Horcynus orca, cit., p. 976).

58. A ’Ndrja pare cioè di leggerla e udirla sulle labbra dello « spiaggiatore » (ivi, pp. 1080 sgg.): cosí avverrà anche in seguito, durante l’epifania.

59. Cosí come avveniva nel sogno della parola delfino (cfr. sopra, n. 42).

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quell’affogato – « smangiato » e scorciato in forma di pesce –60 col quale ’Ndrja per un attimo, oscuramente, s’era identificato.61 Adesso quel so-vrapporsi d’identità e di sorte, come un dubbio irrisolto riaffiora, e s’al-larga, dal corpo naufrago all’orca dilaniata, a ’Ndrja. Dunque, proprio con le pagine dell’inserto – in quella « voce come d’affogato », come il sospiro di chi muore per acqua – il destino del reduce protagonista si chiarifica identificandosi con quello dell’orca, e con quello dei tanti che non torne-ranno piú a casa (e che, persi in mare, ormai fantasmi, « invocano sepoltu-ra »), in una medesima sconfitta e rovina.

La voce di Luigi Orioles, sillabando incide la frase (« si fece lontana la barca, ’ndrja »), scheggiandola, cavandone la parola « Barca… Barca… » (p. 1112); che poi continua a ripetere, come un’ecolalia:62 un nonsenso che

60. « lo vedettero bene, sin troppo magari, come se lo erano lavorato sarde e compa-gnia bella: […] gli avevano accorciato e affilato le braccia, spuntandogliele come pinne; delle gambe, se non era stata qualche cannonata o qualche bomba a portargliela via di netto a netto, gliene avevano lasciato una sola, e a quella, avevano sfrangiato le dita del piede, in modo tale che oscillavano a pelo d’acqua come la frangia di una coda; e poi, gli avevano smangiato il cranio, squadrandoglielo e appiattendoglielo, e fatto scomparire naso e orecchie, e là, ai due lati, ora, i buchi degli orecchi avevano qualcosa di somiglian-te agli occhi da cieco d’un pesce degli abissi: e poi, per finire, gli avevano slargato la bocca, ammascellandogliela in dentro, come gliela modellassero su quella, a becco, della fera. forse, lo avevano fatto da sole le sarde, quel travaglietto, sarde, sardelle, sardine, tutta la gran famiglia vomitosa, o forse la guerra aveva fatto il grosso ed esse lo avevano rifinito, ricamando quello sventurato coi loro dentuzzi a punta d’ago » (Horcynus orca, p. 901).

61. « “Ti ricordò qualcuno, eh, ’Ndrja?”/ “Ma lo vedesti?” gli fece lui. “E ti pare che può ricordare qualcuno quello là? Ma lo vedesti, lo vedesti bene?”/ Si sentiva dalla voce che gli era venuto un po’ di nervino perché quella figura sfigurata a testa e coda di pesce, gli ricordava veramente qualcuno, uno che fu qualcuno per lui, e lui non capiva come glielo potesse ricordare… » (ivi, p. 903).

62. E. De Martino, Il mondo magico, Torino, Bollati Boringhieri, 1973, parla dell’ecola-lia come una delle manifestazioni, da lui descritte, di quella « singolare condizione psichi-ca … chiamata olon »: questa condizione è relativa a un « senso di perdita o di attenuazione della propria realtà personale ». In tali fenomeni, come è noto, De Martino individua l’origine del « dramma storico del mondo magico », ma riconosce che quella perdita della realtà è riscontrabile anche nell’uomo moderno, nell’angoscia esistenziale rispetto a gravi crisi come un profondo dolore, una malattia, una guerra. Ed è quanto sta avvenendo a Cariddi. L’arenamento del ferone rappresenta infatti una minaccia grave all’identità carid-dota (già indebolita dalla fame e dalla guerra).

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investe, minandola nel profondo, la coscienza di sé e del mondo del pellesquadra-marinaio ’Ndrja Cambría, che ascolta: « “Barca… Barca…” …come se non si dovesse fermare mai piú » (pp. 1112-13). Ed ecco lo sdil-labbrare:

A un certo punto, quella voce come di mare, come di schiuma d’alghe e rena in bocca, quella voce, a flusso e riflusso, ebbe come un arresto, un sussulto, fece risuc chio, sfiatò, ebbe come un risentimento umano, dette insomma segno di vita, anche se quello era segno di vita che se ne andava per sempre, e difatti pigliò a farsi faglio, sgarrò, sdillabbrò: « Bar… cabar… cabar… abar… cabar… a… » […], trattenendo il fiato e rifiatando in continuazione dentro quella parola, … cominciò a perdere colpi, a defagliare, sdillabaviarsi, sdillabbrarsi … sdillabbra-va, però sempre a un punto della barca, il punto dove smangiava e allascava, come fosse un’asca della stessa barca, sempre la stessa lettera, la c: « Bar… cabar… abar… a… » […], dal fasciame, sfasciame di quella sbavatura di barca era venuta fuori la bara (1113-14).

La parola sdillabbrata, insomma, rivela la bara nella barca. È un gioco di parole, il culmine dell’orrore horcyniano. ’Ndrja osserva don Luigi, ore-occhiando la sua voce, e ne è perturbato, come da un impronunciabile enimma:

« Bar … cabar … abar … cabar … abar … cabar … a »faceva senso, faceva specie […]: lui, uno come lui, per il quale non esistette

mai mare dilà, ma solo mare di qua, e ora faceva, si poteva dire, faceva carte false, si sdillabbrava tutto, con quella voce affogata, quella bocca schiumeschiume, come avesse il duemari nella strozza, baviandosi con quella sua barabarca, per imbarcarsi, ancora a occhi aperti, verso quello che per lui fu sempre il mare della nonsenseria.

« Bar … cabar … abar … cabar … abar … cabar … a » (p. 1125).

Il « mare della nonsenseria ». Nelle parole di Luigi Orioles, « sdegettato a quel grado di immalinconimento, a quella degradazione » di « scafarsi » la bara nella barca; nello spettacolo impressionante di « quella ricchezza ridotta a questa miseria » (p. 1114),63 ’Ndrja contempla infine il proprio

63. . In diverse occorrenze la nonsenseria è il contrario del ragionamento chiaro e mo-rale, caratteristico di Luigi Orioles.

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naufragio64 e la sparizione di Cariddi come approdo del nostos: « la guer-ra aveva lasciato le sue intacche […]. E in conseguenza di queste intacche, ’Ndrja trovava al suo ritorno il mondo sottosopra » (p. 913). È il « finimon-dorioles »: un « immalinconimento all’ultimo grado, l’immalinconimento che gli piglia all’uomo quando ormai lo bazzica la morte » (p. 1114). Non c’è piú Cariddi, non c’è via di salvezza, se non imbarcarsi per morte – come hanno fatto don ferdinando Currò e la sua chiumma di mummio-ni –, « ancora a occhi aperti ». Si va sciogliendo l’enimma: ’Ndrja è come Luigi Orioles, come questo don Luigi immalinconito. Come don ferdi-nando: un « pellesquadra fatto ormai mummione non piú o non tanto per vecchiaia, ma come i piú, presentemente, per guerra » (p. 1136).

Cosí, dalla bara la voce sdillabbra, ancora, l’arca:

… ripigliando la c che prima aveva allascato dalla barca per scafarsi la bara, la barca ora la spruava, spuntandola di netto a netto della b, sicché dalla barca non si scafava piú la bara, ma si scatasciava tutta, ordinate e traversine, murate e ma-sconi, operamorta fuori, a vista, a summo, come l’operaviva natante o meglio, galleggiante, si scatasciava la cosa che meno si sarebbe potuto immaginare, l’arca nientemeno:

« Barca. Barca » fece, e poi subito, subitissimo: « Barca, ’arca… ’arca… arca » (p. 1130).

Un nuovo gioco di parole: l’arca nella barca. Anch’esso effetto della guer-ra; dello straviamento. La nonsenseria di trovare salvezza nella morte: « arca cioè, non perchè gli salvava la vita, ma proprio per il contrario, perchè li salvava dalla vita, da quel miserabile residuo di vita » (p. 1140).

’Ndrja ha sperimentato in sé l’origine del cataclisma horcynuso, del finimondorioles; lo straviamento del mondo cui è tornato è il suo stesso stra-viamento. L’ha capito, adesso: è lui il naufrago rimasto solo, senza com-pagni, sulla spiaggetta della ‘Ricchia’ (e là, in quel « gran silenzio, ora, lassòpra sullo sperone », p. 1143). Ecco perché « si sentiva l’animo senza dolore né conforto, come se questo che succedeva, fosse già successo per lui » (p. 1083). Era già tutto successo, ma ’Ndrja aveva continuato ad an-

64. « era come se la sua vita si smagasse di tutto, tutta in una volta, e nell’attimo stesso, per il fatto stesso che si smagava, la perdeva » (Horcynus orca, p. 1123).

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naspare, come l’orca scodata, come se fosse ancora vivo (mentre era già come morto, quando al termine del suo viaggio di ritorno s’affacciava alle acque dello « scill’e cariddi »).65 Solo attraverso l’epifania, nelle tre « pa-rolette » oreocchiate sulle labbra del cannadastendere – barca, bara, arca –, egli può infine decifrare il senso dell’enimma: il marinaio, nocchiero sem-plice ’Ndrja Cambrja è un fantasma, un cervello scodato che continua a vibrare, funereo e insensato. La sua presenza nel mondo dei vivi è ormai fuori luogo (aveva visto giusto, il vecchio spiaggiatore); è una nonsense-ria.

’Ndrja e l’orca: col loro arrivo al duemari si compie la distruzione del cosmo Cariddi. L’orca perde la proverbiale immortalità, e ’Ndrja, facen-dosi arenare la carogna dagli inglesi (per cui davvero c’è confusione, or-mai, tra corpi vivi e corpi morti, tra cibo « cristiano » e bestino), conduce il proprio villaggio-mondo alla rovina, rovinando lui stesso. La morte dell’orca – cui egli « si lega », come scrive Contini, « per necessità simboli-ca » –66 è la sua morte, già prima di morire davvero, ed è il disgregarsi della lingua che l’ha generato; il dissolversi di tutto nel mare della nonsen-seria. La barca si fece lontana, quella che ’Ndrja avrebbe voluto far costru-ire al maestro d’ascia don Armandino Raciti, troppo lontana per i pelli-squadre decaduti a mummioni. Ora tocca a lui decidere. Separare il proprio destino da quello di Cariddi. E ha già deciso: « mi pare che mi fa come un groppo in gola e mi soffoca se non la dico, se non la sputo, subito, subi-tissimo, ecco: orca, orca, orca, orcarca » (p. 1144).

È lo scioglimento. Da qui l’azione volge rapidamente al termine: ’Ndrja va incontro alla pallottola della sentinella inglese, che lo ripiom-berà nella notte, « dentro, piú dentro, dove il mare è mare ».67

La nonsenseria è dunque un nonsense “funereo” (formulo questa propo-sta d’allargamento, giacché qui discutiamo anche di confini di genere); il segno di un negativo ontologico. Ed è un nonsenso che D’Arrigo mette in scena nello spazio del romanzo, fino a quell’ultima parola “impossibi-le”, orcarca, pronunciata dal suo protagonista; vale a dire, non un nonsense

65. Cfr. l’incipit del romanzo, p. 7.66. Contini, schedario, cit., p. 61.67. Sono le ultime parole del romanzo (cfr. p. 1257).

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“lirico”, d’autore, ma la rappresentazione oggettiva (come quella dei gio-chi di muccusi e nonnavi) della nonsenseria che ha invaso e intaccato la lin-gua – e l’identità, e l’esistenza – di Cariddi (quale luogo immaginario del racconto), dei suoi abitanti, dei loro discorsi, della coscienza e memoria del personaggio – ’Ndrja – il cui sguardo fa da filtro alla narrazione.

È evidente – e non mi sogno di formulare ipotesi diverse – che D’Ar-rigo è il contrario esatto di uno scrittore “nonsensico” (e tanto piú, di uno scrittore giocoso o umorista). Non è un dadaista, né un surrealista; e nem-meno uno sperimentale68 o avanguardista. Si considerava, anzi, un reali-sta classico. Direi che è stato un visionario “scrittore di cose”. Inventore di una lingua-mondo di sorprendente coesione e autonomia,69 e allo stesso tempo di precisa evidenza realistica e congruenza storica, D’Arri-go ha fatto propri i materiali piú diversi, alti e bassi, grezzi o formati; li ha ogni volta riplasmati, combinati e ricodificati secondo il principio inter-no, fortemente modellizzante (lingua-mondo), del suo interminabile work in progress; e tra questi, ha dato grande rilievo significante a certe “patologie del linguaggio” – cui mi riferivo all’inizio dell’intervento – che nella storia della letteratura, convertite in “giochi linguistici” (non solo come puro nonsense), sono state adottate in funzione trasgressiva, antitradizionale, carnevalesca, se non addirittura come elementi di « di-struzione del linguaggio ».70 D’Arrigo ha insomma oggettivato quegli elementi distruttivi, ricodificandone la funzione a scopo narrativo.

E dunque: i giochi linguistici horcyniani – giochi di iterazione, meta-morfosi, neoformazione – sembrano denotare la medesima incoerenza

68. Cfr. la lettera di D’Arrigo a Zipelli: « Insomma io ho detto sí a Mondadori perché il Menabò mi sembra abbia un carattere “sperimentalistico” […] e tale carattere limite-rebbe mi pare il mio libro » (24 giugno 1959).

69. D’Arrigo, come è noto, si è sempre mostrato contrario alle proposte di affiancare un glossario al romanzo (sono peraltro interessanti quelli approntati da Lanuzza e da Alvino, vd. infra, Riferimenti bibliografici), e cosí scriveva a Zipelli, mentre correggeva le bozze per il « Menabò »: « Torno, trovo un espresso del Menabò, dentro l’elenco dei voca-boli tradotti non so da chi – stupefacente no? – e inviatomi perché lo visionassi. Com’è non importa (il meglio possibile – ho pensato persino che l’abbia fatto Guttuso – ma non da me) importa che io non lo volevo » (20 luglio 1960).

70. Di « distruzione del linguaggio », a proposito del nonsense, parla ad esempio Dosse­na, Il sorriso del gatto, cit.

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dei sogni; sennonché, il narratore e gli stessi personaggi protagonisti del-la vicenda tendono continuamente a interpretarli, a cercare in essi – nei giochi di parole come nei sogni e « visionamenti » – un significato utile, o almeno l’indizio, la traccia di un senso. Ogni produzione onirica, ogni escrescenza fonomorfologica è seguita e accerchiata dalla sua spiegazio-ne, diretta, allegorica o simbolica. È una disposizione che accomuna, dicevo, personaggi e narratore,71 per i quali i fatti si svolgono come una catena (o meglio, come una trama) d’enigmi, il cui scioglimento è sem-pre questione di vita o di morte.

Il procedimento è evidente, all’interno del romanzo, nella scena dello sperone: oreocchiando – quasi in stato ipnotico – la metamorfosi della bar-ca nella bara e nell’arca, fino alla nonsenseria dell’orcarca, ’Ndrja allo stesso tempo (con un accanimento analitico ossessivo) s’interroga sul senso di ciò che gli accade, per darsene una spiegazione. Che alla fine trova, e sulla quale ordina le proprie scelte, facendo procedere l’azione: dall’are-namento dell’orca al viaggio a Messina, fino al proiettile cui sembra an-dare incontro. Allo stesso modo, in diverse parti del romanzo ’Ndrja ha sognato (anche a occhi aperti)72 e ha poi subito analizzato i propri sogni e visioni, piegandoli – ed essi si sono ben lasciati piegare – a un’interpre-tazione e a una funzione allegorico-simbolica che è risultata determi-nante per la struttura e per lo sviluppo della narrazione: si pensi al sogno della fera-delfino, nella prima parte del romanzo.

Il fatto è che le dinamiche metalinguistiche e metadiscorsive, in Hor-cynus orca, oltre a produrre, di volta in volta, un effetto derealizzante di parallessi, risultano sostanzialmente non esaurienti rispetto ai fenomeni che le innescano; girano in folle, causando un ulteriore svuotamento di

71. Ma questa è anche l’intenzione espressivo-comunicativa su cui D’Arrigo dichiara di fondare la lingua di Horcynus orca: « ogni volta che ho adoperato neologismi o seman-tiche inedite mi sono preoccupato di fornire immediatamente il corrispettivo metafori-co, di scrivere, riscrivere, rifondare il periodo e “mirare” il vocabolo finché non giudicavo d’avere raggiunto la certezza che il risultato ottenuto fosse quello giusto e definitivo, che la totalità lessicale, sintattica e semantica fosse realizzata, che, sulla pagina finita, la scrit-tura parlasse » (cfr. sopra, n. 16).

72. È il « vistocongliocchi della mente », che ricorre spesso nel romanzo, in opposizione al « sentitodire » e al « visto con gli occhi ».

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significato. Ma è esattamente questa la funzione del nonsenso in Hor-cynus orca: esso acquista, per corrosione o sdillabramento dei nessi e della materia linguistica, il ruolo estremo (postumo) di produrre sulla pagina la manifestazione epifanica della nonsenseria – la piaga e il disordine, la negatività essenziale dell’essere nello spazio dei personaggi.

Riferimenti bibliografici

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comune e neologia in ‘Horcynus orca’, in Il mare di sangue pestato, a cura di f. Gatta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002; Id., ‘Horcynus orca’: un romanzo e la sua lingua, in « Atelier », num. 43 2006, pp. 37-39.

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Daniele Baglioni

lIngUE InvEntAtE E nonsense nEllA lEttERAtURA ItAlIAnA dEl novEcEnto*

1. Lingue inventate e nonsense

Generalmente, quando si parla di nonsense in letteratura ci si riferisce a testi in cui il senso d’incongruo e paradossale è dato da violazioni della relazione logica tra i significati delle parole: inserti in lingue inventate parrebbero quindi inadatti a generare il necessario cortocircuito tra la semantica del testo e i processi cognitivi messi in atto dal lettore sulla ba se della logica, dell’enciclopedia e della presupposizione. C’è però un’ac- cezione piú ampia di nonsense, data dai semiologi Civ’jan e Segal, che in-clude nella categoria tutti i testi costruiti sulla « violazione delle correla-zioni abituali tra il sistema del mondo e il sistema della lingua ».1 In que-sta prospettiva l’effetto di nonsense può essere creato non solo con una lesione della coerenza testuale, ma anche con l’inserimento nel testo di elementi linguistici d’invenzione che, se ben sfruttati, possono costituire essi stessi dei non-sensi, o meglio dei non-segni, trattandosi in ultima analisi di significanti sprovvisti di un significato.2

* Questo articolo si basa per la gran parte dei testi commentati sull’utilissimo reperto-rio di P. Albani e B. Buonarroti (Aga Magéra Difúra. Dizionario delle lingue immaginarie, Bologna, Zanichelli, 1994). Preziosi suggerimenti e indicazioni mi sono stati forniti in sede di discussione dell’intervento orale da Barbara Anglani e Michele Napolitano, a cui va la mia gratitudine.

1. T. V. Civ’jan-D.M. Segal, struttura della poesia inglese del nonsense (sulla base dei ‘lime-ricks’ di e. Lear), in I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, a cura di R. faccani e U. Eco, Milano, Bompiani, 1969, pp. 151-61, a p. 155.

2. Occorre precisare fin d’ora che in questo articolo vengono considerati “inventati” soltanto quegli elementi (parole, frasi, inserti di lingue immaginarie) in cui l’invenzione linguistica è immotivata e a priori, ovvero non si basa o si basa in minima parte su lingue naturali. Ciò comporta l’esclusione di due categorie, quella dei codici, ossia dei camuffa-menti delle parole di una determinata lingua attraverso una o piú regole di trasformazio-ne (come ad esempio nei linguaggi infantili del farfallino o del parlare all’incontrario), e quella dei pastiches, intendendo con questo termine non solo la semplice giustapposizione di parole di varietà linguistiche diverse, ma anche l’applicazione della morfologia e meno

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La letteratura nonsense, fin dai suoi esordi, ha fatto spesso ricorso all’uso di parole inventate per produrre nel lettore uno straniamento analogo a quello ottenuto con la violazione delle relazioni logico-testuali. Si pren-da in considerazione un classico di Edward Lear, tratto dalla raccolta one Hundred nonsense Pictures and Rhymes del 1872:3

There was an Old Man of Spithead,Who opened the window, and said,‘fil-jomble, fil-jumble,fil-rumble-come-tumble!’That doubtful Old Man of Spithead.

A differenza di altri nonsense leariani, in cui « la regolarità sintattica […] risalta sullo sfondo dell’anomalia del livello semantico »,4 in questo com-ponimento nessuna azione del protagonista (aprire la finestra, parlare, essere in dubbio) può essere classificata come anomala o tanto meno as-surda. Il nonsense è tutto nella frase del vecchio, in cui a parole dell’ingle-se comune (jumble, rumble, come, tumble) si mescolano vocaboli d’inven-zione (fil-jomble, fil-, fil-): una filastrocca senza senso, caratterizzata dal l’« almost obsessive repetition of alliterative-onomatopœic combina-tions »,5 che però viene presentata come un enunciato con una sua logica e una sua veridicità – lo dimostra il fatto che il protagonista può dubitar-ne. Nei Twenty-six Rhimes and Pictures dello stesso Lear, che hanno per protagonisti per lo piú degli animali, aggettivi inventati come dolom-

frequentemente della sintassi di una lingua al lessico di un’altra, come nel macaronico, op-pure la creazione di una nuova varietà su imitazione delle lingue e dei dialetti di una de-terminata famiglia linguistica (è il caso delle cosiddette lingue alternative, di cui sono esem-pi gli pseudodialetti romanzi inventati da Pier Paolo Pasolini e Ugo Gimmelli; cfr. risp. G. Chiarcossi, ‘Poesie in una lingua inventata’ di Pier Paolo Pasolini, in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia, 4 voll., Modena, Mucchi, 1989, vol. ii pp. 393-410, testi ii 1-6 alle pp. 394-99, e U. Gimmelli, Quattro liriche in una lingua ipotetica, con una nota introduttiva di L. Blasucci, in « L’approdo letterario », xxii 1976, num. 75-76, pp. 110-14).

3. E. Lear, The Complete nonsense, ed. by H. Jackson, London, faber & faber, p. 203.4. A. Caboni, nonsense. edward Lear e la tradizione del nonsense inglese, Roma, Bulzoni,

1988, p. 57.5. D. Ponterotto, Rule-Breaking and Meaning-Making in edward Lear, in « Revista Ali-

cantina de Estudios Ingleses », vi 1993, pp. 153-61, a p. 157.

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phious, fizzgiggious, higgeldipiggledy e runcible si associano a violazioni delle conoscenze enciclopediche (un’anatra col cucchiaio, un pesce con i tram-poli, una gallina che va a fare spesa al mercato, ecc.) nel generare un senso di forte paradosso e d’incongruenza.6 Si può poi solo accennare in questa sede a quello che è probabilmente il piú riuscito esempio di non-sense ottenuto tramite l’uso di parole inventate, la ballata dal sapore vaga-mente epico del Jabberwocky contenuta in Through the Looking Glass di Lewis Carroll, per la quale l’autore si è servito di uno pseudoinglese in cui un lessico quasi interamente d’invenzione convive con parole gram-maticali della lingua comune (« ’Twas brillig, and the slithy toves / Did gyre and gimble in the wabe; / All mimsy were the borogoves, / And the mome raths outgrabe […] »).7 L’interesse mostrato verso il Jabberwocky da un linguista del calibro di firth e un poeta della levatura di Artaud, che ne tradusse i primi versi in francese, è indice dell’estrema complessità del-l’operazione carrolliana, vero e proprio punto di riferimento delle lette-rature nonsense ed espressionista novecentesche.8

Dagli esempi addotti emerge con evidenza che la buona riuscita del nonsense dipende non dall’uso esclusivo di parole inventate, che lascereb-be il lettore totalmente disorientato, ma dall’impiego congiunto e sa-pientemente calibrato di elementi “significanti” e “non significanti”: chi legge ha cosí l’impressione di trovarsi di fronte a un testo con un senso compiuto, il cui accesso gli è però vietato perché non ha la chiave per decodificarlo. Davanti ai Rhymes di Lear è portato a chiedersi « che ani-male è il dolomphious duck? », oppure « com’è fatto un runcible spoon? », e dalla lettura del Jabberwocky può trarre le stesse conclusioni di Alice: « So-mehow it seems to fill my head with ideas – only I don’t exactly know what they are! However, somebody killed something, that’s clear, at any ra-

6. Lear, The Complete nonsense, cit., pp. 209-21.7. L. Carroll, Through the Looking Glass, London, Penguin Popular Classics, 1994,

p. 28.8. Cfr. J.R. Firth, The use and distribution of certain english sounds, in Id., Papers in Lingui-

stics 1934-1951, London, Oxford Univ. Press, 1957, pp. 34-46; Id., Modes of meaning, ivi, id., pp. 190-215, alle pp. 193-94; ‘Humpty Dumpty’ di Lewis Carroll nella traduzione di Antonin Artaud, versione italiana di G. Almansi e G. Pozzo, Torino, Einaudi, 1993, p. 32.

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te--- ».9 Per questo motivo, nel passare rapidamente in rassegna gli esem-pi di lingue inventate nella letteratura italiana del Novecento, abbiamo scelto di rinunciare a criteri canonici come l’ordine cronologico oppure la forma letteraria delle singole opere (prosa, poesia o teatro) e di pren-dere invece a riferimento un criterio esclusivamente linguistico, la pro-porzione tra gli inserti inventati e la lingua primaria dell’autore o una qualsiasi altra lingua naturale. In questo modo abbiamo potuto ridurre le molteplici manifestazioni d’inventività linguistica, dalle parodie delle lin-gue straniere ai linguaggi teatrali alle sondersprachen poetiche, a un nume-ro limitato di categorie, allo scopo di proporre una classificazione tipolo-gica delle lingue inventate in letteratura e dei meccanismi testuali attra-verso cui con il loro impiego si realizza il nonsenso.

2. Gerghi

Cominciamo dal tipo di lingua inventata che contiene il minor nume-ro di elementi d’invenzione, quello cioè in cui l’inventività linguistica è confinata al solo lessico, mentre la morfologia e la sintassi appartengono a una lingua-ospite naturale, che generalmente coincide con la varietà dell’emittente e del destinatario. Dal punto di vista formale una lingua cosí costruita è un gergo: nei gerghi infatti, termine con cui in linguistica ci si riferisce alle parlate di gruppi sociali marginali che fungono da ele-mento identitario di tali minoranze rispetto al resto della comunità, pa-role inventate s’inseriscono in una struttura grammaticale che è quella della lingua comune.10 Il rapporto che nei gerghi s’instaura tra l’elemen-to d’invenzione e la lingua-ospite è di tipo parassitico: il primo ha biso-gno del sostegno della seconda, « si sviluppa strettamente abbarbicato al la lingua e […] solo dalla lingua può trarre vita e alimento ».11

Gli scrittori hanno spesso attinto al patrimonio lessicale del gergo con intenti mimetici o puramente espressivi; alcuni di loro, poi, hanno occa-

9. Carroll, Through the Looking Glass, cit., p. 30.10. Cfr. G. Sanga, Gerghi, in Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi,

Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 151-89.11. f. Ageno, Per una semantica del gergo, in « Studi di filologia italiana », xv 1957, pp. 401-

37, a p. 436.

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sionalmente creato dei gerghi personali. Gli ultimi componimenti della raccolta Chi l’avrebbe detto di Alfredo Giuliani del 1973, in particolare In-vetticoglia, presentano una lingua accostabile al gergo. In essi parole in-ventate sono unite tra loro per mezzo di preposizioni, congiunzioni, pronomi e interiezioni dell’italiano:12

sgrondone leucocitibondo, pellimbuto di farcime,la tua ficalessa sbagioca e tricchigna tuttadelicaturala minghiottona: ohi sottilezze cacumini torcilocchipresticerebrazioni, che ti strangosci polpando mollicume,arcipicchiando la voraciocca passitona, la tua dolcettache allucchera divanissimamente il pruggiculo;cagoscia vizzosaggini il bàrlatro grattoso:la tua merlosa irabondaggine e vita

Nelle poesie di Giuliani il lessico, per quanto inventato, evoca parole della lingua comune: ad esempio pellimbuto e leucocitibondo sono “parole valigia” ottenute rispettivamente dall’unione di pelle e imbuto e dall’in-crocio di leucocito con moribondo, mentre farcime è un sostantivo formato dal verbo farcire piú il suffisso -ime di mangime e becchime. Non mancano poi tecniche onomaturgiche comuni ai codici (nell’accezione che ne ab-biamo dato nella n. 2), come ad esempio l’inserimento di una consonan-te non etimologica (bàrlatro) o la sostituzione di una consonante con un’altra (minghiottona, sottilezze). Il gergo di Giuliani è quindi a metà stra-da tra l’invenzione lessicale immotivata, che pure vi si ritrova (sbagioca, tricchigna, allucchera), e un’audace neologia sulla base di lessico esistente.

Diverso è il caso delle Fànfole di fosco Maraini, una raccolta di com-ponimenti di poesia “metasemantica” – cosí la definisce l’autore – che il noto orientalista, viaggiatore e scrittore pubblicò per la prima volta nel 1966. Nelle Fànfole il lessico è quasi interamente inventato e per lo piú non evocativo, come si evince dalla lettura del Lonfo:13

Il lonfo non vaterca né gluiscee molto raramente barigatta,

12. A. Giuliani, Chi l’avrebbe detto, Torino, Einaudi, 1973, p. 125.13. f. Maraini, Le Fànfole, Bari, De Donato, 1966, p. 29.

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ma quando soffia il bego a bisce biscesdilenca un poco, e gnagio s’archipatta.È frusco il lonfo! È pieno di lupignaarrafferia malversa e sofolenta!Se cionfi ti sbiduglia e t’arripignase lugri ti botalla e ti criventa.Eppure il vecchio lonfo ammargellutoche bete e zugghia e fonca nei trombazzifa lègica busía, fa gisbuto;e quasi quasi in segno di sberdazzigli affarferesti un gniffo. Ma lui zutot’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

In assenza dell’informazione lessicale, il lettore è costretto a fare ipo-tesi sulla base di sostegni che « concorrono a sterzare il discorso entro i binari del senso », cioè la morfologia, la sintassi e della testualità.14 Cosí nella prima quartina dall’uso dell’articolo determinativo (il lonfo) abbina-to al presente imperfettivo dei verbi vaterca, gluisce, barigatta, sdilenca e s’ar-chipatta il lettore capisce che il misterioso lonfo è il membro di una specie che compie o non compie abitualmente determinate azioni, mentre dall’appartenenza dell’onomatopeico gluire alla iii coniugazione, come ruggire, nitrire, grugnire e muggire, deduce che il verbo indica un verso ani-male. In questo modo, grazie anche all’informazione del condiziona-mento del vento al v. 3, Maraini permette a chi legge di identificare il lonfo con un animale senza ricorrere mai al lessico. Con procedimenti analoghi nel corso della poesia il lettore comprende che il lonfo è un ani-male generalmente ostile all’uomo, ma che può dare occasionalmente un’impressione diversa (cfr. il connettivo eppure che apre l’ultima parte del componimento). Ha ragione quindi Alessandro Bausani, autore di un ampio e pionieristico saggio sulle lingue inventate, a osservare che la poesia di Maraini è solo « apparentemente senza senso comune », giacché

14. M. Longobardi, educazione all’ “obscuritas”: applicazioni didattiche, in obscuritas. Re-torica e poetica dell’oscuro. Atti del xxix Convegno Interuniversitario di Bressanone, 12-15 luglio 2001, a cura di G. Lachin e f. Zambon, pres. di f. Brugnolo, Trento, Univ. di Trento, 2004, pp. 633-61, a p. 642.

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il significato, sottratto alle unità lessicali, viene in buona parte recuperato grazie alle relazioni grammaticali che vincolano il significante.15

Agli antipodi dell’operazione marainiana si collocano i tre sonetti In italico modo dello scrittore argentino Julio Cortázar, contenuti nella rac-colta salvo el crepúsculo pubblicata postuma nel 1985. Nei sonetti di Cortá-zar, che per ammissione dello stesso autore « acumulan frases sin sentido donde se mezclan voces italianas con otras inventadas a vuelapluma », l’elemento d’invenzione è molto ridotto, come appare immediatamente evidente dalla lettura di Carla:16

Vae victis, Carla, se le strombe urlanteti immérgono fra i túrpidi stormenti!Lo so: supplicherai che ti ramentila guancia rotta e le pestiglie umante.Vai, e lascia che il labbro dell’amanteguarisca i seni tanto blu e mordenti,mentre le alani dell’estate ai ventifrózzano la svergura palpitante.Poi sará il calmo, la deserta nottedove sul ventre cádono le meleliete di brisa soave e di funghine,e tu, supino uccello delle grotte,verrai alzarsi l’occhio delle miellee tutto sará d’ombra e di caline.

La gran parte del lessico appartiene al vocabolario dell’italiano letterario e tra gli elementi d’invenzione abbondano le parole camuffate tramite aggiunte di fonemi non etimologici (strombe, stormenti), variazioni del grado d’intensità delle consonanti (ramenti, mielle) e risuffissazioni di basi esistenti (túrpidi, pestiglie, funghine); il lessico non evocativo è limitato a

15. A. Bausani, Le lingue inventate, Roma, Ubaldini, 1974 (prima ed. in tedesco: Geheim- und Universalsprachen: entwicklung und Typologie, Stuttgart, Kohlhammer, 1970), p. 48. Per una trattazione piú approfondita della poesia “metasemantica” di Maraini si rimanda a D. Baglioni, Poesia metasemantica o perisemantica? La lingua delle ‘Fànfole’ di Fosco Maraini, in studi linguistici per Luca serianni, a cura di V. Della Valle e P. Trifone, Roma, Salerno Editrice, 2007, pp. 469-80.

16. J. Cortázar, obras completas, a cura di S. Yurkievich con la collab. di G. An chieri, 6 voll., Barcelona, Galaxia Gutenberg, 2005, vol. iv. Poesía y poética, pp. 161-63.

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poche isolate unità (umante, frózzano, svergura, caline). Ci si attenderebbe, quindi, una maggiore trasparenza del sonetto di Cortázar rispetto alla fànfola marainiana. Il risultato invece è opposto: se nel Lonfo le relazioni grammaticali restituiscono in parte la semantica sottratta al lessico, nel sonetto di Cortázar sono proprio le relazioni grammaticali, che associa-no parti del corpo dell’amata e dell’amante (guancia, labbro, seni, ventre, occhio) a vegetali (mele), animali (uccello), indicazioni temporali (estate, not-te), fenomeni atmosferici (venti) e formazioni geomorfologiche (grotte) violando tanto la coerenza (i seni tanto blu e mordenti, supino uccello delle grot-te) quanto la coesione (le strombe urlante, le pestiglie umante, verrai alzarsi l’occhio), a ostacolare la comprensione del testo.

Possiamo quindi dire che, se la poesia di Maraini è apparentemente senza senso, quella di Cortázar è apparentemente sensata: a una prima e superficiale lettura chi legge, disorientato dalla presenza delle parole in-ventate e dagli accostamenti di termini appartenenti ad ambiti semantici diversi, attribuisce la mancata decodificazione alla complessità del testo poetico; gli basta però una lettura leggermente piú approfondita per ren-dersi conto che è il testo, con le sue vistose infrazioni della grammatica e della logica, a non veicolare alcun significato. L’effetto finale è quello del-la parodia, tanto piú riuscita se si considera che prende di mira un genere letterario tipicamente italiano, il sonetto amoroso di stile petrarchesco, rivolgendosi in primo luogo a un pubblico ispanofono. La distanza dalle Fànfole di Maraini è misurabile anche solo da un piccolo, ma non trascu-rabile, elemento: se la poesia metasemantica « va letta con una certa len-tezza », perché « correndo si riduce ad un bantú, un tocarico, un buruscia-schi insensato », i sonetti di Cortázar necessitano invece di « una lectura en voz alta […] apasionada y vehemente », giacché in essi « lo único ver-dadero es el soneto como forma, y el resto puro camelo ».17

3. Grammelot

Benché formalmente analoga al gergo, la lingua dei sonetti di Cortá-

17. Cfr. risp. Maraini, Le Fànfole, cit., p. 12, e Cortázar, obras completas, cit., vol. iv p. 161.

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zar è vicina per intento dell’autore e reazione provocata nel lettore a un’al- tra tipologia di lingua inventata, il grammelot. Con questa parola francese, diffusasi in Italia grazie a Dario fo, s’intende una lingua priva di un les-sico “significante” e di una propria grammatica, la cui fonologia è presa a prestito da una lingua naturale: chi legge (o piú frequentemente chi ascolta, trattandosi per lo piú di una lingua teatrale) ha cosí l’impressione di ricevere un messaggio in una lingua conosciuta, quando invece non si tratta che di un’imitazione di quella lingua. Ovviamente, una lingua co-sí costruita è d’uso esclusivamente artistico – la sola fonologia non è in grado di veicolare significati – e prevalentemente orale, perché il carat-tere immediato della comunicazione verbale non consente al destinata-rio un controllo diretto sull’enunciato come davanti a un testo scritto.18

Al grammelot, in particolare all’uso che di esso fa fo, è dedicata una monografia di Alessandra Pozzo, che ne ha individuato tre caratteristi-che fondamentali: il fatto di essere sempre modellato su una “lingua di riferimento”; il fatto di essere un linguaggio inarticolato; il fatto di neces-sitare l’ausilio di codici semiotici secondari quali la mimica e la gestuali-tà.19 In realtà solo la prima caratteristica, quella che prevede per ogni grammelot una lingua di riferimento, è effettivamente rilevante: infatti, anche se nella forma orale il grammelot viene percepito come inarticolato, nelle sue rare codificazioni scritte esso deve essere per forza di cose seg-mentato in parole, senza che ciò ne infici l’efficacia. Lo dimostra il gram-melot dello speaker del telegiornale, inserito da fo nel suo Manuale minimo dell’attore come esempio eccezionale di applicazione del grammelot all’ita-liano e non, come generalmente accade nel teatro dell’autore lombardo, ai dialetti:

Oggi traneguale per indotto-ne consebase al tresico imparte Montecitorio per altro non sparetico ndorgio, pur secministri e cognando, insto allegò sigrede al presidente interim prepaltico, non manifolo di sesto, dissesto: Reagan, si può intervento e lo stava intemario anche nale perdipiú albato – senza stipuò lagno en sogno-la-prima di estabio in Craxi e il suo masso nato per il-luco saltrusio ma

18. Cfr. P. Trifone, L’italiano a teatro. Dalla commedia rinascimentale a Dario Fo, Pisa-Ro-ma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000, pp. 146-48.

19. A. Pozzo, Grr… grammelot. Parlare senza parole, Bologna, Clueb, 1998, p. 135.

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non sempre. Si sa, albatro spertico, rimo sa medesimo non vechianante e, anche, sortomane del pontefice in diverica lonibata visito Opus Dei.20

Quanto poi alla mimica e alla gestualità, se è vero che l’attore vi ricor-re per supplire alla mancanza di senso del grammelot, è altrettanto vero che si tratta di due codici indipendenti, il cui uso basterebbe a comunica-re anche in assenza del codice orale. Si può dire piuttosto che l’attore che recita in grammelot rinuncia volontariamente alla lingua per portare l’at-tenzione del pubblico su codici non linguistici, come la mimica e la ge-stualità, o su livelli periferici della lingua, come la prosodia: l’attenzione dello spettatore è tenuta viva tramite l’inserimento sporadico di parole (indotto, Montecitorio, per altro, allegò, presidente, interim, ecc.) e morfemi di lingue naturali (-ico, -ando, -ario, -ato, -ante), che però sono troppo pochi per consentirgli la decodificazione del testo, anzi possono confonderlo ulteriormente (cfr. gli accostamenti presidente - dissesto, Craxi - masso, alba-tro - pontefice - opus Dei).

I procedimenti glottopoietici appena analizzati sono stati sfruttati an-che al di fuori della letteratura teatrale, specie all’interno di romanzi, allo scopo di parodiare una determinata varietà linguistica. Non ci sembra fuori luogo includere anche questi testi nella categoria dei grammelot, mal-grado le ovvie differenze strutturali e funzionali tra le lingue teatrali, destinate all’oralità, e la prosa, concepita per la lettura endofasica. Ad esempio, si potrebbe parlare di un grammelot bergamasco per le due frasi Hanfa la Hapa Hota’l Hoc! e Hegn Hobet Hò de Hot! pronunciate da un grup-po di carbonai nel Barone rampante di Calvino, o ancora di un grammelot greco antico per la scritta Velt chimòseon stoà ramnesi fata che Nivasio Dol-cemare, protagonista del romanzo La nostra anima di Savinio, legge intor-no al polso di Psiche in un surreale museo di manichini di carne a Salo-nicco.21 Tipologicamente affini ai grammelot, poi, sono le sequenze silla-biche senza senso concepite per ingannare l’interlocutore o un osserva-tore esterno facendogli credere di ascoltare frasi della lingua comune: se

20. D. fo, Manuale minimo dell’attore, Torino, Einaudi, 1987, pp. 108-9.21. Cfr. risp. Calvino, Il barone rampante, in Id., Romanzi e racconti, 2 voll., Milano, Mon-

dadori, 2003, vol. i pp. 547-777, a p. 615, e A. Savinio, La nostra anima, Milano, Bompiani, 1960, p. 36.

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ne trovano numerosi esempi nella prosa novecentesca, dal balbettio dei protagonisti di Agosto, moglie mia non ti conosco di Achille Campanile (Ba-labà, racatà barabà, Mairilú onesí vitalí, Vidisapiú, sí mai piú, no mai piú, Cara-dità! Maradità) alla pseudofrase rivolta dall’avvocato Guerrieri a un noio-so interlocutore per testarne l’attenzione in Ragionevoli dubbi di Gianrico Carofiglio (Cortollasera, gniapro).22

Particolarmente interessante, perché riferito non a una varietà parlata ma a una lingua scritta di registro elevato, è il grammelot contenuto nel racconto Il critico d’arte di Dino Buzzati. In esso il critico Paolo Malusardi, per commentare la mostra del pittore Leo Squittinna, elabora una lingua tanto astratta quanto i quadri dell’artista:

Il pittrore […] di del dal col affioriccio ganolsi coscienziamo la simileguarsi. Recusia estemesica! Altrinon si memocherebbe il persuo stisse in corisadicone elibuttorro. Ziano che dimannuce lo qualitare rumelettico di sabirespo padro-nò. E sonfio tezio e stampo egualiterebbero nello Squitinna il trilismo scernosti d’ancomacona percussi. Tambron tambron, quilera dovressimo, ghiendola na-micadi coi truffo fulcrosi, quantano, sul gicla d’nogiche i metazioni, gosibarre, che piò levapo si su predomioranzabelusmetico, rifè comerizzando per rerare la biffetta posca o pisca. Verè chi…23

Il testo inizia in una forma intermedia tra il grammelot e il gergo: il lettore riesce a tratti a individuare una struttura grammaticale e basi lessicali della lingua comune (coscienziamo la simileguarsi, Altrinon si memocherebbe, lo qualitare rumelettico, ecc.). Nell’ultima frase però, fin dall’inizio (Tambron tambron) la grammatica viene totalmente offuscata dal gioco fonico, fino al punto che la stessa fonologia di riferimento viene messa in crisi con l’uso di combinazioni di fonemi rare o persino impossibili in italiano (sul gicla d’nogiche). Cosí Buzzati fa dissolvere l’italiano ampolloso del critico, dietro cui s’intravede la polemica di Buzzati giornalista contro i critici « troppo spesso fumosi e incomprensibili anche nelle recensioni destina-

22. Cfr. risp. A. Campanile, Agosto, moglie mia non ti conosco, in Id., opere, vol. i. Romanzi e racconti 1924-1933, a cura di O. Del Buono, Milano, Bompiani, 1989, pp. 689-891, alle pp. 888-90, e G. Carofiglio, Ragionevoli dubbi, Palermo, Sellerio, 2006, p. 94.

23. D. Buzzati, Il critico d’arte, in Id., sessanta racconti, Milano, Mondadori, 1995, pp. 511-16, alle pp. 515-16.

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te al grande pubblico »,24 in un balbettio senza senso, secondo un assurdo processo di regressione dal senso al nonsenso presentato al lettore come raffinata ricerca sperimentale.

4. Prelingue e pseudolingue

La parodia della lingua dei critici d’arte caratterizza un altro breve te-sto in una lingua inventata, la Discussione di due critici sudanesi sul futurismo di Giacomo Balla, declamata dal pittore insieme a Marinetti e Cangiullo il 29 marzo 1914 alla galleria romana di Giuseppe Sprovieri. A differen-za di Buzzati, Balla, con un gusto spiccatamente futurista che ricorda il linguaggio-rumore marinettiano, opta per la formazione di parole se-condo regole estranee all’italiano e alle principali lingue europee, in cui abbondano le ripetizioni di sillabe uguali. Le basi lessicali non sono evo-cative (le uniche eccezioni sono costituite da futuro e pompa magna) e l’ef-fetto è quello di una filastrocca infantile e, per alcune parole come sgnac-gnacgnac e chr chr chr, di un’onomatopea:

farcionisgnaco gurninfuturo bordubalotapompimagnusa sfacataca mimitirichi-ta plucu sbumu farufutusmaca sgnacgnacgnac chr chr chr stechestecheteretete maumauzizitititititititi.25

Un testo simile non solo non presenta elementi riconducibili a una lin-gua naturale, ma è immediatamente avvertito dal lettore come « estra-neo alla lingua come istituto », al pari di quel « linguaggio agrammaticale o pregrammaticale » che Gianfranco Contini individuava nella poesia di Pascoli.26 Esso non è un’imitazione della lingua, bensí una forma inter-media tra i linguaggi infantili e la lingua umana come sistema articolato, uno stadio precedente alla lingua, una pre-lingua. Il suo effetto straniante è funzionale allo scardinamento della lingua comune, specie della sua

24. A. Macchetto, Buzzati critico d’arte del « Corriere della sera »: bibliografia 1967-1971, in « Studi buzzatiani », vi 2001, pp. 137-65, a p. 137.

25. M. Fagiolo Dell’Arco, Futur Balla, Roma, Bulzoni, 1970, p. 81.26. G. Contini, Il linguaggio di Pascoli, in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi

(1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 219-45, a p. 222.

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varietà piú alta, quella letteraria, ciò che spiega l’impiego frequente delle prelingue da parte delle avanguardie poetiche novecentesche. Nella let-teratura nonsense l’uso delle prelingue può essere sfruttato per creare un forte contrasto tra il testo e la funzione a esso attribuita dall’autore: è quel-lo che avviene nel breve testo di Balla, in cui una filastrocca senza senso viene presentata come una discussione altamente intellettuale tra due critici d’arte. Analoga la funzione della prelingua nel Canto di trionfo del funzionario di polizia francese del poeta argentino, ma romano d’adozione, Juan Rodolfo Wilcock, in cui i funzionari di polizia vengono descritti come animali in competizione tra di loro per assicurarsi una compagna e il loro canto di trionfo assomiglia ora al verso di un uccello (tiuuu, tio, tsii) ora a una lingua esotica (shpetiu tokua, tsirrhadeng):

Tiuuu-tiuuu-tiuuu-tiuuu-tiuuu,shpetiu tokua,tio-tio-tio-tio,kuutio-kuutio-kuutio-kuutio,tskuo-tskuo-tskuo-tskuo,tsii-tsii-tsii-tsii-tsii-tsii-tsii-tsii-tsii,tso-tso-tso-tso-tso-tso-tso-tso-tso-tso-tso,tsirrhadeng!27

Sempre di prelingua, sebbene il modello non siano i linguaggi infan-tili o animali ma le onomatopee dei fumetti, è possibile parlare per le frasi dalle « parole strane con suoni ancora piú strani » rivolte a Guizzardi dai signori raccoltisi intorno al suo capezzale nelle Avventure di Guizzar-di di Gianni Celati: attraverso l’uso di sequenze consonantiche impro-nunciabili che il protagonista, al pari del lettore non è in grado di capire (Prrrcz mmt?, Drrrxpú?, sssz prrx?, Grrp tmm!, ecc.) l’autore rende l’aliena-zione della moderna società tecnologica, la cui lingua non ha piú nulla di umano e ricorda a tratti un linguaggio di programmazione informa-tica.28

La sottrazione di un lessico, di una grammatica e di una fonologia ri-

27. J.R. Wilcock­F. Fantasia, Frau Teleprocu, Milano, Adelphi, 1976, p. 72.28. G. Celati, Le avventure di Guizzardi, Torino, Einaudi, 1973, pp. 53 e 150.

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conoscibili non va però necessariamente in direzione di un disfacimento della lingua in una mera sequenza fonica. Essa può invece essere sfrutta-ta per costruire con elementi d’invenzione un sistema linguistico nuovo e alternativo alla lingua comune. Se l’effetto desiderato è il nonsenso, l’autore cospargerà il testo inventato di elementi ricorrenti che lascino sospettare la presenza di una morfologia, facendo cosí credere al lettore di trovarsi davanti a una lingua straniera ignota quando invece si tratta di una finzione, di una pseudolingua. È ciò che accade nel brevissimo raccon-to di Wilcock Pagosti kealte, dove al lettore viene presentata una finta iscri-zione in un’antica lingua italica (ma che « difficilmente si presta a una interpretazione indoeuropea »): « Ma Kaprih K. oram opsu Tr Minis R akinebihi pomp… II ».29 L’efficacia del nonsense di Wilcock deriva dalla verosimiglianza del testo inventato, non solo per la presenza di termina-zioni indoeuropee e piú specificamente italiche (-m, -u, -is, -i) secondo una tecnica affine ai gerghi e ai grammelot, ma anche per la ripetizione dello pseudosuffisso -ih in Kaprih e, con l’aggiunta di -i, in akinebihi: il lettore che abbia consuetudine con le lingue fusive può a ragione pensa-re che akinebihi sia una forma flessa di akinebih (-ih + morfema -i) e che Kaprih sia invece una forma nominativale espressa dal puro tema (come il latino orator). A rivelare l’inganno stanno le righe finali del brevissimo racconto, dove dell’iscrizione vengono date due interpretazioni opposte ed entrambe estremamente improbabili (nel primo caso perché nessuna delle radici dei nomi propri è rintracciabile nel testo, nel secondo perché l’uso del turpiloquio è estraneo non tanto all’epigrafia antica, quanto al saggio scientifico da cui s’immagina tratta la traduzione):

Il significato attribuitogli dal Minuzzo è: « Nenda Pureno distrusse in guerra nella città di Burena l’arce ». Invece il Pehr lo interpreta cosí: « Ma io le ragnatele ve le tolgo a furia di cazzo! ». Il tutto però è ancora aleatorio e vago.

La presenza diffusa di inserti di pseudolingue contraddistingue i rac-conti fantastici di Tommaso Landolfi, maestro nell’impiego di questa tecnica allo scopo di ottenere effetti di nonsenso e paradosso. Landolfi, che dal 1928 al 1932 aveva studiato all’Università di firenze dove aveva

29. Wilcock­Fantasia, Frau Teleprocu, cit., p. 76.

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probabilmente seguito le lezioni di glottologia di Giacomo Devoto e Carlo Battisti, dimostra di conoscere bene la linguistica del primo Nove-cento, che si diverte a parodiare nel finto saggio del 1941 Qualche notizia sull’L.1: in esso si descrive il funzionamento di una lingua immaginaria d’inverosimile complessità, l’L.1, caratterizzata da quattro generi (ma-schile, femminile, neutro e astratto), sette numeri (singolare, duale, tria-le, decale, centale, miliale e milionale), diciotto aspetti verbali, nove con-creti e nove astratti (lentivo, rapidivo, buttivo, gioivo, tristivo, ugualivo, prossimivo, lungivo, ugualivo spaziale) e ben centoquarantasei casi.30 Sempre del 1941 è la raccolta di racconti La spada, al cui interno è conte-nuto La tenia mistica, dove vengono narrati i viaggi del norvegese Niel Klim nei pianieti immaginari di Nazar, Martinia, Mezendor e Quama: tanto la frase pronunciata dal principe di Nazar, in cui in ben quattro parole si ripete un -k che potrebbe essere un morfema o un suffisso (spik autri flok skak mak tabu mihalatti), quanto la parola Pikil-fu ‘Inviato del Sole’ della lingua degli abitanti di Quama, dove il trattino sembrerebbe indicare un composto come in molte lingue indoeuropee, sono costruite su imitazione di lingue naturali con una loro morfologia e sintassi.31

Ma è nel suo primo racconto, il Dialogo dei massimi sistemi contenuto nel l’omonima raccolta del 1937, che Landolfi dà la prova piú ingegnosa di uso di una pseudolingua per creare effetti di nonsenso: come in Pagosti kealte di Wilcock, il paradosso è generato dalle contraddizioni tra il testo e la sua traduzione, ma nel racconto di Landolfi le incongruità sono assai meno evidenti e possono facilmente ingannare il lettore meno attento. Non sarà inutile riassumerne la trama: il protagonista è un uomo che in gioventú, in uno dei suoi innumerevoli viaggi, ha appreso da un capitano inglese una lingua che egli credeva essere persiano e si è talmente impra-tichito da scrivere poesie in questa lingua. Col passare degli anni ha di-menticato la lingua, finché un giorno, ritrovando i suoi vecchi componi-menti, non decide di consultare una grammatica persiana per poterli comprendere. Con suo grande stupore, però, scopre che la lingua da lui imparata non era persiano né una qualsiasi altra lingua esistente, ma pro-

30. T. Landolfi, Qualche notizia sull’L.1, in « Letteratura », v 1941, pp. 48-51.31. T. Landolfi, La tenia mistica, in Id., La spada, Milano, Adelphi, 2001, pp. 11-13, a p. 12.

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babilmente il frutto della fervida immaginazione del capitano. Decide quindi di recarsi da un critico letterario e sottoporgli una delle sue poe-sie, della quale ricorda una traduzione approssimativa:32

Aga magéra difúra natun gua mesciún Anche piangeva della felicità la faccia stancaSánit guggérnis soe-wáli trussán garigúr Mentre la donna mi raccontava della sua vitaGúnga bandúra kuttávol jerís-ni gillára. E mi affermava il suo affetto fraterno.Lávi girréscen suttérer lunabinitúr E i pini e i larici del viale graziosamente

[incurvatiGuesc ittanóben katír ma ernáuba gudún Sullo sfondo del tramonto rosa-caldoVára jesckílla sittáranar gund misagúr, E di una villetta che inalberava la bandiera

[nazionale,Táher chibíll garanóbeven líxta mahára Parevano il viso solcato d’una donna che

[non s’è accortaGaj musasciôr guen divrés káes jenabinitúr D’avere il naso lucido. E quel lucido guizzoSòe guadrapútmijen lòeb sierrakár masasciúsc Per molto tempo ancora, beffardo e pungen-

[te, Sámm-jab dovár-jab miguélcia gassúta mihúsc Sentii saltellare e contorcersi come un pescio- [lino-pagliaccioSciú munu lússut junáscru gurúlka varúsc. In fondo alle tenebre della mia anima.

La lingua concepita da Landolfi ha molti elementi di verosimiglianza. Ricorda una lingua mediorientale per la presenza congiunta delle con-sonanti h e ch e degli pseudoarabismi mesciún, wáli, katír, gudún, jesckilla, mi sagúr, táher, mahára, musasciôr, masasciúsc e mihúsc, costruiti su modelli morfologici simili a quelli semitici. Ma lo pseudopersiano di Landolfi è molto piú di un semplice grammelot: se si osservano le terminazioni delle parole, s’individuano alcuni elementi ricorrenti, come -úr, -úra, -ún, -en, -ára e -úsc, nei quali è facile individuare dei morfemi. Alcuni di essi pre-sentano sempre la stessa consonante con una vocale variabile (ad esem-pio magéra, difúra, gillára, oppure garigúr, musasciôr, sierrakár), ciò che potreb-be far pensare alla presenza di regole di alternanza morfologica. Ben quattro volte negli undici versi del componimento compare il trattino, ai vv. 2 e 3 (soe-wáli e jerís-ni) e al v. 10 (sámm-jab, dovár-jab): in quest’ultimo caso potrebbe avere valore morfologico, congiungendo la radice alla de-

32. T. Landolfi, Dialogo dei massimi sistemi, in Id., Dialogo dei massimi sistemi, Milano, Adelphi, 1996, pp. 73-92, alle pp. 86-87.

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sinenza dell’infinito, dato che gli unici elementi grammaticali che si ri-petono nella traduzione sono i due infiniti saltellare e contorcersi.

Ma le corrispondenze non sempre funzionano: Landolfi si diverte a giocare col lettore, premiandolo e deludendolo di volta in volta. Sarebbe vano, ad esempio, cercare la parola per donna nell’originale, che pure si ripete nella traduzione ai vv. 2 e 7, cosí come impossibile è individuare il termine per lucido, che compare due volte nello stesso v. 8, e i pronomi personali mi e suo/sua, che si ripetono ai vv. 2 e 3. Il lettore ha l’impressio-ne di essere a un passo dalla decifrazione, ma viene puntualmente smen-tito. Di certo, anche se la grammatica gli sfugge, non può non riconosce-re la raffinatezza della lingua del componimento, evidente nel rigido rispetto del metro, nelle rime, negli omoteleuti e nel fonosimbolismo dell’ultimo verso, di cui si accorge anche il critico del racconto che escla-ma entusiasta: « Ma sentite dunque questi u degli ultimi versi! Sentite queste rime in usc! ».33 Soprattutto, può far sua la questione che il prota-gonista pone al critico, se cioè una poesia in una lingua inesistente abbia un valore letterario come le altre poesie, rovesciando cosí l’assioma cro-ciano e dissolvendo l’estetica in linguistica.

5. Conclusioni

Nella classificazione proposta abbiamo individuato quattro diversi ti-pi di lingue inventate: i gerghi, i grammelot (intesi non solo come lingue teatrali), le prelingue e le pseudolingue. In realtà, come si è visto com-mentando alcuni casi particolari come il grammelot di Buzzati o la pseu-dolingua italica di Wilcock, i confini tra le diverse categorie non sono netti e una lingua inventata può avere allo stesso tempo elementi che la accomunano a tipi differenti. La scala che va dalla lingua comune a una lingua completamente inventata, che abbiamo riassunto nella tabella di seguito, ha quindi le caratteristiche di un continuum, al cui interno le quattro tipologie individuate sono comunque ben riconoscibili:

33. Ivi, p. 87.

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lingua comune

gergogram-melot

prelinguepseudo-lingue

fonologia + + + – –

morfologia + + – – –

sintassi + + – – –

lessico + – – – –

Il vantaggio di una simile classificazione è quello di prescindere dalla funzione della lingua inventata e fondarsi su criteri esclusivamente lin-guistici. funzione e struttura interna, infatti, vanno tenute distinte, per-ché a un tipo linguistico possono corrispondere funzioni diverse secon-do il testo: è il caso delle Fànfole di Maraini e dei sonetti di Cortázar, en-trambi formalmente gerghi ma, come si è visto, opposti per intento del-l’autore ed effetto provocato nel lettore. Del resto, è vero anche il contra-rio, ovvero una stessa funzione può essere espletata da tipi linguistici differenti: i sonetti di Cortázar e la recensione del Critico d’arte di Buzza-ti sono entrambi concepiti come parodie della lingua scritta, ma i primi sono formalmente dei gerghi, mentre la seconda è strutturalmente affi-ne al grammelot. La differenza tra le prelingue e le pseudolingue è, alla luce di queste considerazioni, sia strutturale sia funzionale: strutturale perché, benché entrambi i tipi si caratterizzino per l’assenza di elementi della lingua comune, diverse sono le regole di formazione del lessico inventato (ripetizione di sillabe nella stessa parola, nessi consonantici impronunciabili e onomatopee nelle prelingue, impiego di modelli fo-nologici ricorrenti e terminazioni uguali o quasi uguali nelle pseudolin-gue); funzionale perché l’uso delle prelingue rimanda il lettore a forme elementari di comunicazione come i linguaggi animali e infantili, men-tre quello delle pseudolingue gli dà la sensazione di essere di fronte a forme altrettanto complesse, se non piú complesse, delle lingue naturali a lui note.

Nella letteratura nonsense italiana del Novecento e nei generi letterari affini – lo si è visto – i quattro tipi sono tutti abbondantemente presenti. L’effetto di nonsenso viene generato attraverso due strategie differenti, che potremmo definire di nonsenso “esterno” e “interno”: nel primo

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caso il nonsenso è prodotto dal contrasto tra le aspettative del lettore e il dettato senza senso del testo inventato; nel secondo, invece, il nonsenso deriva dal contrasto tra gli elementi “significanti” e “non significanti” al-l’interno del testo inventato. Esempi di nonsenso “esterno” sono i sonet-ti di Cortázar, il grammelot dello speaker del telegiornale di fo, la recensio-ne del Critico d’arte di Buzzati, la Discussione di due critici sudanesi di Balla e il Canto di trionfo di Wilcock: in essi l’autore sottopone al lettore testi senza senso presentandoli come poesie d’amore, notizie di cronaca, arti-coli di giornale, ecc. Di nonsenso “interno”, invece, è lecito parlare per le Fànfole di Maraini, l’iscrizione di Wilcock e gli inserti in lingue inven-tate di Landolfi, specie i versi in pseudopersiano del Dialogo dei massimi sistemi: il lettore viene sfidato a cercare un senso nel testo inventato, nelle Fànfole ricostruendo la semantica del lessico d’invenzione tramite le rela-zioni grammaticali, nelle pseudolingue di Wilcock e Landolfi ricostruen-do la grammatica della lingua inventata attraverso l’individuazione di elementi ricorrenti e il confronto con la traduzione. Questa seconda strategia, piú raffinata e complessa di quella del nonsenso “esterno”, ri-chiede tipi linguistici in cui sia possibile individuare una struttura gram-maticale soggiacente, che può essere quella della lingua comune, come nei gerghi, oppure una grammatica inventata, come nelle pseudolingue; i grammelot e le prelingue, invece, del tutto privi di elementi “significan-ti”, si prestano piuttosto a effetti di nonsenso “esterno”. Lungi dall’essere casuale, la scelta del tipo di lingua inventata è quindi fondamentale alla riuscita del nonsenso e, negli esempi piú ingegnosi come il Dialogo dei massimi sistemi di Landolfi, può persino costituire il perno attorno al qua-le ruota il paradosso dell’intero testo.

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Andrea Afribo

APPRoSSIMAzIonI Al nonsense nEllA PoESIA ItAlIAnA dEl novEcEnto*

1. L’obiettivo è quello di individuare le possibili derive o contatti, coin-cidenze o intersezioni della mentalità e della prassi del nonsense nel codi-ce della poesia “sensata” del Novecento: dunque non autori nonsensical istituzionalizzati o ghettizzati in generi (burchielleschi o berneschi, scia-loiani, limerick, “poesia per gioco”, ecc.), ma ad esempio figure piú o me-no insospettabili come Montale, Caproni, Nelo Risi, Zanzotto, la Neo-avanguardia, ecc.

In tale prospettiva, al di fuori del seminato dell’ortodossia nonsensical, per il ricercatore cominciano i guai, tra tutti il rischio di vedere, vista la natura speciale della lingua poetica, effetti di nonsense dappertutto. Qua-li criteri dunque, e limiti, mi sono posto per evitare che l’oggetto della mia ricerca non si allargasse troppo, perdendo in efficacia critica? Con-fesso che anche ora ho molti dubbi su quanto ho fatto, ma avrei desistito del tutto dal presentare questo lavoro, se avessi trovato in certi poeti “sen-sati” solo e soltanto materiali approssimativamente nonsense. Non l’ho fatto perché, insieme e accanto alle figure di cui sopra, ho trovato figure e altro di vaglia metrico-linguistica senz’altro in comune con il pia neta nonsense, cioè ad esempio: jeux de mots, paronomasie, qualche stortura verbale, uso compulsivo della rima (ecco allora le non rare tirades mono-rime, ecco soprattutto i distici baciati che, ha detto Arbasino parlando dei suoi, fanno tanto « Corrierino dei Piccoli »),1 e poi le anafore pro lungate e altre ripetizioni in serie che danno al testo il ritmo della litania o della filastrocca. Per cui non ho ritenuto azzardato pensare che tra le due serie di figure ci fosse una relazione, e che le differenze tra le due fossero non di genere ma, forse, solo di grado. In piú, mi ha tolto qualche dubbio anche il fatto che le due serie procedono di conserva: cioè entrambe

* Inserire nota.1. Cfr. Poesia satirica dell’Italia d’oggi, a cura di C. Vivaldi, Parma, Guanda, 1964, p. 267 n.

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prima di una certa data nel poeta “sensato” non ci sono, e ci sono do po una certa data. Infine: dopo una certa data tutti questi poeti, chi piú chi meno, mi hanno soddisfatto altre tre condizioni. Pretendevo cioè da loro che, punto primo, a monte del loro scarto dal senso codificato non agisse l’idea consueta dell’oscurità e della difficoltà, cioè di quanto è la norma della grande lirica tragica moderna, ma che agisse invece la strategia con-sueta del nonsense, ovvero il divertissement, lo humour, con i relativi effetti apotropaici e antiautoritari, anarchici. Punto secondo: da questi poeti non nonsense pretendevo che qualche volta citassero nella loro poesia o in altre sedi, autori, episodi ecc. legati all’istituzione nonsensical; e infine, punto terzo, che almeno una volta nella vita, esibissero exploits non sensical con tutti i crismi. Le mie richieste non sono cadute nel vuoto.

Esplicito allora la certa data, tra l’altro prevedibile, di cui sopra. Il ter-mine post quem sono ovviamente gli anni Sessanta, e questo significa che i piú “antichi” autori e i libri coinvolti sono: l’ultimo Montale, quello da satura in poi; Nelo Risi, del ’56 è Polso teso, la sua prima vera raccolta; l’ul-timo Caproni, da Il muro della terra in poi; Zanzotto, quello della Beltà ma soprattutto di Pasque; i poeti novissimi e in generale la Neoavanguardia. Poi ovviamente tutti gli altri poeti a venire, che esordiscono dopo o ben dopo la data suddetta. Ma cosa rappresentano gli anni Sessanta e din torni ai fini del nostro discorso? Rappresentano un’età di massima circolazione e concentrazione di vecchi e nuovi surrealismi e dei piú vari sperimenta-lismi con i loro, cosí fortini, « miti del Non-Senso »;2 un’età di messa in crisi delle distinzioni piú elementari del tipo di, ha scritto Calvino, giusto e sbagliato, sí/no, soggetto e oggetto, razionale e irrazionale, conscio e inconscio. Si pensi ad esempio a queste pillole montaliane: « il distorto era il dritto » (p. 466),3 oppure « stasi o moto / in nulla differiscono » (p. 471), o al fatto che, da satura in poi, le non poche occorrenze della parola senso risultano sem-pre situate in contesti negativi e dubitativi: « se un prima e un dopo hanno ancora un senso » (p. 509), « non può nemmeno avere un senso » (p. 567), « se ha un senso dire punto dove non è spazio » (p. 712) e cosí via; e che in

2. F. Fortini-L. Binni, Il movimento surrealista, Milano, Garzanti 1991, p. 14.3. I numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine di E. Montale, Tutte le poesie, a cura

di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1984.

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un luogo senso e nonsenso letteralmente si incontrano: « bisogna fingere / che movimento e stasi / abbiano il senso / del nonsenso / per compren-dere / che il punto fermo è un tutto / nientificato » (p. 359).

E sono un’età, gli anni Sessanta, nel mondo e anche in Italia, in cui entrano decisamente in crisi i sistemi filosofici tradizionali, e trionfano invece le nuove filosofie, le nuove matematiche, le geometrie non eucli-dee, Wittgenstein. In due articoli famosi ancora Calvino parla di un mé-nage inedito e piú stretto che in passato tra letteratura, filosofia e scienza, con un guadagno per tutti di nuovi stimoli all’immaginazione e di « di-versissimi mondi visionari e linguistici », di « giochi tra segni e significa-ti »4 di tipo non convenzionale. Ancora Calvino: « il clima oggi dominan-te tra i giovani scrittori è piú filosofico che mai, ma di una filosofia inter-na all’atto stesso dello scrivere »,5 e tra i nomi che fa non pochi apparten-gono o sono prossimi all’universo nonsense: Lewis Carroll, Queneau, i surrealisti e post-surrealisti, oulipo e Tel Quel, Borges, in Italia Calvino stesso e implicitamente la neoavanguardia coeva. E si vedrà, infatti, come non pochi episodi di esibita e allegra approssimazione al nonsenso siano debitori di tecniche concettuali e stilistiche proprie del discorso logico-filosofico: paradossi soprattutto e paralogismi vari, fino al filosofese piú civettuolo e manierista come ad esempio qui, nel Caproni postumo di Res amissa: « Il Nulla, spiegano, è il “non essere” E allora / come può al-lora / “Essere” il “non essere”? » in un testo che non a caso si intitola Pierineria.6 E infine gli anni Sessanta sono, come è piú che noto per la questione poesia, età di allargamento e abbassamento del tradizionale standard linguistico-stilistico, ovvero del cosiddetto “grande stile” qua-lunque esso sia. Da qui in poi la lirica novecentesca include tutto quell’al-tro da sé che prima aveva escluso. Come scrive Montale in Poesia inclusi-va, un articolo del 1964 (« Corriere della sera », 21 giugno), i poeti sono « inclusivi di tutto »:7 e che in questo tutto sia compreso anche la risorsa

4. I. Calvino, Filosofia e letteratura, in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Milano, Mondadori, 1995, p. 189.

5. Ivi, pp. 186-87.6. G. Caproni, L’opera in versi, ed. critita a cura di L. Zuliani, intr. di P.V. Mengaldo,

cronologia e bibliografia a cura di A. Dei, Milano, Mondadori, 1998.7. E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Milano, Monda-

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del nonsense, dell’arbitrarietà e del gioco è appunto quello che spero di di-mostrare – e si veda tra l’altro il risvolto di copertina, firmato dall’autore, del pasoliniano Trasumanar e organizzar (1971): « Il terzo principio è stato quello di concedersi una certa libertà linguistica rasentante talvolta l’ar-bitrarietà e il gioco (cose in precedenza mai avvenute […] ) ».8 Nello stes-so tempo sia chiaro che non mi permetterei mai di dire che l’ultimo Montale e gli altri sono poeti nonsense.

2. Tra le restrizioni che dicevo, la prima riguardava che sullo sfondo ci fosse – semplifico – il comico e non il tragico. Tra i derivati del comico non è sbagliato annoverare la parodia. Ora la parodia di proverbi o di loci letterari seri e famosi, se non è sostanza della scrittura nonsense è certo non l’ultimo degli accidenti. Cosí è da Burchiello a Lewis Carrol fino a Scialoja, per quest’ultimo si pensi a incipit come « Sempre caro mi fu quest’ermo corno », « Il sabato del vigliacco », « La lepre ha il piú crudele dei musi » ecc. Ma la parodia è una possibilità anche in Montale, e pro-prio a partire da satura. Si pensi a Piove, nota parodia dannunziana, ma tutta satura e libri successivi fanno tendenzialmente il verso al Montale serio di un tempo. Oppure si pensi a Nelo Risi dove ad esempio un testo come La siepe è la versione desacralizzata dell’Infinito leopardiano.9

Restando sempre in tema di humour, un altro motivo di possibile con-vergenza tra autori nonsense e poeti come Montale, o Risi o Caproni, è la presenza di testi in cui si registra la comune vocazione al ghiribizzo con-cettuale ai fini di una conclusione straniante e paradossale. Si prenda il caso di Montale. Una delle novità, piú nel male che nel bene, del suo fi-nale di carriera è la presenza piuttosto massiccia di testi che si fanno beffe del senso comune, che lo prendono per il naso sabotando con vari mezzi la coerenza e la sostenibilità delle varie idées réçues.10 Questi testi

dori, 1996, vol. i p. 2632.8. P.P. Pasolini, Trasumanar e organizzar, pref. di f. Cordelli, Milano, Garzanti, 2002,

p. 220.9. N. Risi, Di certe cose (poesie 1953-2005), intr. di M. Cucchi, Milano, Mondadori,

2006.10. Per questo aspetto cfr. G. Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contempora-

nea, Milano, Marcos y Marcos, 2002, pp. 90-113.

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sono costruiti come, o quasi come, un sillogismo. Dunque presentano una o piú premesse e appunto una conclusione volentieri dotata di para-dosso e agudeza, in quanto generata da una interpretazione solo apparen-temente corretta delle premesse, oppure dallo sposare lo sviluppo logico delle premesse fino in fondo, fino a che diventa assurdità (mentre, si sa, che il senso è qualcosa che accetta la logica fino a un certo punto). Meglio dunque chiamarli non sillogismi ma sofismi o paralogismi. Iniziano con la presentazione di una doxa, tramite o un se, ad esempio: « Se dio è il linguaggio, l’Uno che ne creò tanti altri / per poi confonderli / come fa -remo […] », ecc.; o una frase apodittica, o una frase con Dicono che, Credo-no che, di cui un sottogenere è il tipo Dice il filosofo. Ora, anche restando fermi alle premesse, è facile capire di essere quasi del tutto dentro l’orbi-ta del ridicule e dell’assurdo. Proprio l’antonomasia del filosofo infatti co-nosce una serie di declinazioni strampalate e improbabili del genere di « teologi in tuta o paludati », « il filosofo interdisciplinare », « i filosofi del-l’omogeneo e dell’eterogeneo » che, mettiamo, non possono non ricor-darci gli astrusi, quanto ridicoli e inutili, scienziati dell’Accademia di La-gado degli swiftiani Viaggi di Gulliver. Ma anche leggendo avante ci si convince che questi ragionamenti non sono una cosa seria e sensata: non rarissimo è ad esempio il jeu de mot, come nel testo che segue, in cui Mon-tale cita il noto incipit giovanneo, « In principio era il Verbo », giocando sul doppio senso di Verbo-Dio e verbo-parola. La freddura arriva nella classica sede dell’explicit:

Si risolve ben pococon la mitraglia e col nerbo.L’ipotesi che tutto sia un bisticcio,uno scambio di sillabe è la piú attendibile.Non per nulla in principio era il Verbo.

E si faccia attenzione: la conseguenza di questa mislettura, cioè che quanto accade nel mondo reale sia riconducibile a « uno scambio di silla-be », credo possa ricondursi in generale al concetto di arbitrarietà del se-gno, alla logica surreale e nonsensical di un nominalismo ricreativo e irri-verente, una sorta di res sunt consequentia nominum e non il contrario. Entro questa prospettiva metterei l’insistenza in questo Montale per l’immagi-

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ne di Dio come correttore di bozze o Proto, o per il refuso come costrut-tore di altri mondi e nuove verità possibili, cfr. ad esempio « solo i refusi del cosmo / spropositando dicono qualcosa » (p. 707).

3. La seconda condizione pretende che i suddetti poeti seri abbiano fatto talvolta riferimento diretto ad autori nonsense. Basti qui un esempio mirato e poi un’indicazione di massima. Nelle Pasque di Andrea Zanzot-to, trovo una poesia, Qualcuno c’era, che finisce cosí: « La maestra lo dice / lo dice Lewis e Alice ». Ovviamente Lewis è Carroll, e Alice è quella di Wonderland.11 L’explicit ci suggerisce di ricondurre anche a tali icone del nonsense i caratteri tipici di questo testo e dello zanzottismo in generale, quali stato di trance fiabesco-onirica e proliferazione rapidissima di segni linguistici sganciati da una normale logica connettiva e associativa (pro-liferazione che nel testo è metaforizzata dalle figure di conigli e coni-glietti senz’altro carrolliani, a cui si deve la seguente serie di neoconiazio-ni: conigliare, sconigliare, conigliazione). Carroll e Alice sono poi letteralmen-te citati nei primi cinque versi di una poesia di Nelo Risi: Il reverendo e la bambina è il suo titolo significativo. Ma ancora su Carroll-Zanzotto: pro-prio dello stesso anno di Pasque, 1973, è il lungo saggio intitolato Infanzie, poesie, scuoletta, dove il nome di Carroll compare piú volte ed è sentito co-me colui che « propone libertà da ogni schema noto, e che reinventa il mondo per tutti ».12 Il fatto ancora piú interessante è che qualche pagina dopo, e senza soluzione di continuità concettuale, Zanzotto propone uno schizzo di storia della poesia italiana del Novecento, e soprattutto del se-condo Novecento, alla luce di surrealismo e nonsense francese e an glosas-sone, facendo i nomi di Breton, Prevert, Edward Lear e ancora di Carroll.

E proprio Prevert, Queneau e dintorni sono autori de chevet (e pertan-to volentieri tradotti) per poeti come Risi e Caproni. Loro traduzioni compaiono ad esempio in una antologia curata da Attilio Bertolucci e Pietro Citati per Garzanti, anno 1961, dal titolo Gli umoristi moderni, che sono anche, tra gli altri, Petrolini, Campanile, Ionesco, e ancora Carroll

11. A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G.M. Villata, Milano, Mondadori, 1999.

12. Ivi, p. 1171.

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e Lear. facendo un bel salto di tempo, tra le fonti confesse di un poeta di oggi come Valerio Magrelli (amante di paradossi, di calligrammi, di rea-dy-made poetici, e di tutto quanto disturbi o vada oltre la logica del siste-ma binario, per parafrasare il titolo del suo libro piú recente), in Magrel-li, dicevo, ritroviamo ancora Queneau la galassia Dada e l’oulipo, Perec, Wittgenstein (precisamente ricordato per i suoi cortocircuiti paradossa-li), Borges, Toti Scialoja, le geometrie non-euclidee. Significativa per i nostri temi questa sua dichiarazione di poetica: « [la poesia è un] campo di scambi in cui regna un ordine diverso. […] Si sta andando da qualche parte, ma non si sa dove. Qualcosa di simile avviene nelle geometrie non euclidee, nel nastro di Moebius ».13 E tra parentesi e sempre restando al-l’oggi, segnalo che Ottavio fatica, cioè il traduttore dei Limerick di Edward Lear per Einaudi, traduttore eccellente e diciamo cosí informato sui fat-ti, schizzando nelle sue note finali un breve paragrafo sulla fortuna del limerick dopo Lear, include anche il poeta italiano Gabriele frasca con il suo libro, anno 1995, intitolato proprio cosí: Lime.14

La terza condizione: che almeno una volta questi poeti si lascino an-dare a qualche exploit nonsensical. Si prenda, da Polso teso di Nelo Risi, il delizioso divertissement La settimana del poeta, dotato di classico jeux de mot in perfetto stile surrealista (Duchamp o Prevert, ecc.) e nonsensical:

Lunedi forse che síMartedi forse QueneauMercoledi Giovedi ValérySabato RilkeDomenica prosa.

Oppure si consideri Caproni, la sua Litania (che veramente è prima de Il muro della terra), un testo sulla città di Genova in couplets baciati (cioè vec-chie conoscenze della famiglia nonsensical). Qualche tessera:

Genova di banchina, / transatlantico, trina […] Genova di canarino, / persiana verde,

13. V. Magrelli, L’enigmista e l’invasato, in seminario sulla poesia, a cura di F. Nasi e L. Vetri, Ravenna, Essegi, 1991, p. 135.

14. O. Fatica, otto note (e tre postille) per una postfazione, in E. Lear, Limericks, a cura del-lo stesso, Torino, Einaudi, 2002, p. 232.

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zecchino. […] Genova nome barbaro. / Campana. Montale. sbarbaro. […] Genova vecchia e ragazza, / pazzia, vaso, terrazza. […] Genova di Corso Oddone. / Ma-reggiata. spintone. / Genova di piovasco, / follia, Paganini, Magnasco. […],

ovvero una serie di uno-due in rima paradossali, arbitrari, dove è tutta a nudo la finzione dell’artificio poetico. Ed è un Caproni forse non troppo dissimile dalle sperimentazioni automatiche di Antonio Porta e in parti-colare dal suo Rimario del 1973 (nella raccolta Week end), di cui qui sotto uno specimen:

[…] vestaglia / canaglia // caduto / muto // lama / chiama // brandello / fratello // muco / buco // conforme / dorme // corde / morde // pane / cane […].15

Nel novero degli esempi si può aggiungere, strano a dirsi, anche Monta-le. Si tratta di pochissimi testi, ovviamente esclusi dall’opera in versi con-tiniana, inclusi invece tra le Poesie inedite dei Meridiani Mondadori, o leggibili in quella miniera di acrobazie e civetterie linguistiche (alla lun-ga snob e fastidiose) qual è il Carteggio con Gianfranco Contini.16 Un primo esempio è il seguente – notizie & Consigli, inviato a Bobi Bazlen nel ’38: « Manda Mirò, / non dir di no, / i libri rei / lascia di ebrei. / Ri-cerchi invano / posti a Milano, / solo tra i proci / mangi peoci » eccetera eccetera. Oppure questo, che compare come poscritto in una lettera a Contini datata 1943: « Piú no se puede / reggersi in piede, / piú no se posse / rodersi l’osse » e cosí via. Si pensi infine che nel suddetto carteg-gio tra le varie formule di congedo molte sono di questo tenore: « Euse-biolin / plin plin »; « Caro Trabuccolin quin quin ».17

4. Dopo questa carrellata due parole su un caso particolare, quello dell’ultimo Caproni, nel quale l’insensatezza e l’assurdo inscritti fin dalle origini nella sua storia poetica fanno ora un salto di livello, cioè da dati di esperienza storico-esistenziale diventano un problema ontologico. Co-

15. A. Porta, Tutte le poesie (1956-1989), a cura di N. Lorenzini, Milano, Garzanti, 2009, pp. 275-83.

16. eusebio e Trabucco. Carteggio di eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di D. Isel­la, Milano, Adelphi, 1997.

17. Ivi, risp. pp. 185 e 181.

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me prova basterà citare dal postumo Res amissa il seguente apoftegma: « Ogni verità / è nel suo contrario », che ha tra l’altro la forma di quel nonsense sui generis che è il cosiddetto “paradosso semantico”, anzi: è una perfetta variante formale del piú classico di questi paradossi, quello del mentitore. E dunque: se si suppone che l’enunciato « Ogni verità / è nel suo contrario » sia vero, allora esso è falso, ma se si suppone che sia falso, allora esso è vero. Ora in questo Caproni, per tacere di molto altro, trovo figure nelle quali si condensa al massimo e quasi manieristicamente il nonsenso. Tra cui, in primo piano e persino troppo idolatrata dai fans della sua ultima fase, la serie di paradossi o adynata del genere di: « Sapevo che non l’avrei trovato / a casa, quel giorno. / Per questo avevo scelto quel giorno / per andarlo a trovare […] Non c’era. Avevo ragione. / Cosí, venne lui in persona / ad aprirmi » (ed. Zuliani, cit., p. 327); « Meglio ch’io vada prima che me ne vada anch’io » (p. 348); « Se volete incontrarmi cercatemi dove non mi trovo » (p. 406); « Sono tornato là / dove non ero mai stato » (p. 374); « Tutti i i luoghi che ho visto […] non ci sono mai stato » (p. 382). Dietro a questi esempi c’è molta storia della filosofia, ma anche, mettiamo, la poetica del surrealismo. Si pensi a una scena de Il fantasma della libertà di Buñuel, dove un padre denuncia al commissariato la scomparsa della figlia portandosi dietro la figlia e suggerendone l’iden-tikit con lei lí, sotto gli occhi.

Ma anche, restando in poesia e in Italia, credo giusto e istruttivo ricor-dare due versi di Sbarbaro come questi: « tutto quello / che vedo è come non veduto mai »18 e mettergli a fianco il caproniano « Tutti i i luoghi che ho visto […] non ci sono mai stato » (p. 382). Lo credo istruttivo, perché ci consente di misurare nel quasi identico la differenza, cioè il salto di qualità in tema di forma nonsensical compiuto da questo Caproni rispetto al suo predecessore. Sbarbaro con quel come, con quel come se, tiene il piede in due staffe: enuncia la sostanza paradossale, ma insieme ne atte-nua lo shock, glossandola razionalmente, mantenendo le paratie tra il senso e il nonsenso – insomma: dice che sembra cosí e non che è cosí. Diversamente, senza il come, Caproni può presentare il suo paradosso come se fosse normale, restando impassibile al suo gioco. Insomma, per

18. C. Sbarbaro, Pianissimo, a cura di L. Polato, Venezia, Marsilio, 2001, p. 65.

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dirla con Carroll, Sbarbaro non attraversa del tutto lo specchio, è un’Ali-ce alle prime armi, sempre incredula e stupefatta perché ancora aggrap-pata alla normalità, Caproni è invece tutto dentro, tutto calato nel gioco, è come la lepre marzolina o il Cappellaio.

Attorno a questo nucleo possono poi gravitare altri satelliti circa non-sensical come freddure del tipo « La morte non mi avrà vivo » (p. 453, va-riazione su temi lapalissiani del genere di « s’il n’estoit pas mort / il serai encore en vie », « un quart d’heure avant sa mort il était encore en vie »), bisticci come « spara prima che sparisca » (p. 555) o giochi piú estesi come il seguente, dove prima e piú di Caproni ci sarà Zanzotto, quello di Mi-crofilm di Pasque, e prima ancora Risi:

Caproni, Tristissima copia/ovvero/qua- Caproni, Lo stravolto (da Il muro della ter-rantottesca (da Il muro della terra) ra)

Partivan tutti e addio … io, e addio e addio e a Dio. quant’è vero Iddio, a Dio, Soltanto chi non partiva (io) io Gli spacco la faccia (326), partiva in quel rimescolio;

Zanzotto, Microfilm (da Pasque) Risi, Giú per li rami (Dentro la sostanza) Dio iodio (siam tutti un po’ sargassi) Io O di (Giotto) odio (di classe) oddío! díodo (è già la scienza) addio (ai dolci amici e al mondo.

5. Ma si passi dal particolare al generale, e ci si chieda: i fatti ora visti sono effetti nonsensical solo qua e là, superficiali e fine a sé stessi, oppure sono gli indici piú vistosi di un sistema, quello della poesia “sensata”, che è meno lontano di un tempo, lo sappia o no, dal pianeta del nonsense? Mi sento autorizzato a sposare la seconda ipotesi per la ragione che – in Mon-tale, Caproni, Risi, Zanzotto, ecc. – ho visto nascere o crescere, contem-poraneamente ai citati episodi nonsensical, tutta una serie di figure retori-co-linguistiche particolari, che nei loro libri precedenti agli anni Sessanta

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non esistevano affatto. Sono figure che riguardano in sintesi tutti i casi di surplus del significante e dunque di liberazione, tanta o poca, dalle leggi del significato. Intendo perciò paronomasie, metaplasmi, strisciate di fi-gure etimologiche, polittoti in libertà anche a costo di piú o meno aber-ranti agglutinazioni come, in Montale, « il fondatore non fonda perché nessuno / l’ha mai fondato o fonduto » (ed. Zampa cit., p. 377); o come, in Risi, « defletto declino decado decampo e degrado […] sono un Pilato deietto delato » (ed. cit., p. 104), che è quasi un tautogramma. Queste figu-re – forse le piú immediatamente o proverbialmente legate alla scrittura nonsense – sono, beninteso, presenti in tiratura limitata, ma che ci siano in autori siffatti, è già una buona notizia e non bisogna pretendere troppo. Le troviamo invece in abbondanza in poeti seri sí ma sperimentali come, per intenderci, Zanzotto o piú o meno tutta la neo avanguardia.

Ha invece riempito le mie schede tutta una serie di figure legate alla indecidibilità del senso, figure di ambivalenza, tanto di reversibilità quan-to di coincidentia e/o contiguità degli opposti o dei molto diversi, e benin-teso senza l’obbligo di presenza di una gerarchia del tipo vero-falso, o sen za l’obbligo di una successiva e razionalizzante sintesi dialettica. Reversibilità è ad esempio il titolo di una sezione de Il franco cacciatore, nel quale libro caproniano trovo sequenze esemplari come « … l’inseguito insegue / il suo inseguitore. Dove non si può piú dire (figure concomitanti / fra loro, e equidistanti) / chi sia il perseguitato / e chi il persecutore » (ed. Zuliani cit., p. 484). figure ‘di coincidenza’ si registrano in Mon tale, in Risi e certo non mancano nemmeno in Caproni e in Zanzotto, ovvero ossimori e antinomie varie, sintagmi copulativi come, nell’ultimo Montale, i non pochi « tutto e nulla » (ed. Zampa cit., pp. 393, 424, 440, 462, 480), « il vero e il falso » (che sono « come il retto o il verso della stessa medaglia », p. 453), « pieno e vuoto » (pp. 489, 526); ma luoghi fertili di ossimori e simili sono pure, tra gli altri, la poesia di Zanzotto, per cui si veda di Gnessulógo (ne Il Galateo in Bosco) il seguente verso con doppia antinomia: « (è cosí che bo-sco e non-bosco in quieta pazzia tu coltivi) » (ed. cit., p. 554). E poi ricordo che Pasolini, tra i principi del suddetto Trasumanar e organizzar, annovera « la rassegnazione di fronte al persistere dell’oximoron, o della sineciosi ».19

19. Pasolini, Trasumanar e organizzar, cit., p. 220.

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Ancora piú significativa è la frequenza, cioè la crescita, delle disgiunti-ve, i cui o non sono mai degli aut ma dei vel, cosí che i poeti che le scrivono sono come degli Amleti postmoderni, in fondo compiaciuti di non pote-re o non voler decidere tra l’essere o il non-essere. In Montale ad esempio, nel solo Diario del ’72 le disgiuntive sono quasi il doppio di quelle di occa-sioni e Bufera sommate insieme, 51 contro 29. Infine, un altro reparto mol-to nutrito è quello degli elenchi, che sono sempre piú casuali e sganghe-rati, o sempre piú lunghi, da qui la comparsa di veri e propri testi-elenco, quasi litanie potenzialmente aperte e allungabili ad libitum. Giusta la loro insensatezza potremmo chiamarli elenchi “alla burchia” o, per dirla con Rodari, elenchi-« bastimento », dove spesso l’unico collante certo è l’omo-teleuto o la rima. Cosí in Risi: « la nemesi l’osceno la questura / l’europa tutelare, il figlio / nato per partenogenesi / e il cancro con l’incenso / e l’età d’oro […] » (ed. cit., p. 39), « Giullari paria / pecore di Dio / […] / la bambina col diadema / nel suo gelato di cristallo / lo studente di Magon-za / che la morte ha colto in viaggio / […] » (pp. 87-88), « un Coriolano vinto / un cameriere defunto / un artigiano al tornio / un aratro forbito / un uccellino dipinto / una ragazza in topless / due versi di Cummings / diecimila negri che manifestano […] » (pp. 158-59). Cosí in Arbasino: « In amore fra siepi di mortella / Annaffiate dagli enciclopedisti / Dai classicisti / dagli antologisti / dagli autolesionisti / dai legittimisti […] »,20 o ancora nel Montale di satura, in Piove, La storia, o in Fanfara:

[…]la meraviglia sinteticanon idioletticané individualeanzi universaleil digiunoche nutre tuttie nessuno[…]il trionfonel sistema trinitario

20. Da Apprendista Tebaide, in Poesia satirica dell’Italia d’oggi, cit., pp. 275 sgg.

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dell’ex primatesu se stesso su tuttoma senza il truccodella crosta in ammollonella noosferae delle bubboleche spacciano i papistimodernisti o frontistipopolari gli impronti![…],

ovvero fenomenologia di un Montale che « ha letto Arbasino (!) e anche altri nuovi e piú giovani »,21 tra cui ad esempio flaiano e Risi.22

In conclusione: le suddette sono tutte figure in cui si avverte il gioco e il divertimento intellettuale, il gusto della libertà ottenuta grazie a una combinatoria nonchâlante e libera dagli schemi di ogni binarismo o dua-lismo conflittuale. È in fondo la logica dadaista del « groviglio degli op-posti e di tutte le contraddizioni » come si legge nel Manifesto Dada 1918 di Tzara e Picabia,23 o è la logica della porta di Duchamp sempre chiusa e sempre aperta – porta di Duchamp che ad esempio Gio ferri, uno dei padrini della poesia sperimentale italiana di questi anni, riprende per definire la sostanza della poesia di Scialoja e i suoi « universi conclusi e sempre aperti ». E infine sono tutte figure che un fontanier includerebbe sicuramente nel paragrafo paradoxisme, e concettualmente coincidenti in toto o per difetto con quelle usate nella letteratura nonsense. Si pensi ad esempio al botta-e-risposta tra il Re e il Coniglio Bianco in Wonderland, dove dire important e subito dopo unimportant è del tutto indifferente:

« That’s very important », the King said […] « Unimportant, your Majesty means of course » he [the White Rabbit] said […] « Unimportant, of course, I meant », the King hastily said;24

21. P.P. Pasolini, satura [1971], in Id., saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un sagio di C. Segre, Milano, Mondadori, 1999, vol. ii p. 2562.

22. Cfr. Mazzoni, Forma e solitudine, cit., pp. 99-113.23. Fortini-Binni, Il movimento surrealista, cit., p. 59.24. L. Carrol, Alice nel paese delle meraviglie, Milano, feltrinelli, 2006, p. 174.

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oppure a una delle Filastrocche in cielo e in terra intitolata Quanti pesci ci sono nel mare?, dove un pescatore dice « piú di sette », un altro « piú di mille » e il terzo « piú di un milione » e che cosí si conclude: « E tutti e tre avevano ragione »,25 o al seguente testo di Toti Scialoja:

L’attimo del sospettosi accende e non si accendel’alibi dell’inettosi vende e non si vendel’alito dell’infettosi estende e non si estende,

e cosí via. Ma poi si considerino due poeti della neoavanguardia di secon-da generazione con spiccate doti nonsensical come Giulia Niccolai e Cor-rado Costa e due loro testi esemplari, rispettivamente Positivo & negativo:

Ogni cosa può accadereavere un senso o non averlo.

Non ha verità da proporremantiene aperto il significatoil senso nasce nominando le cose.

Un’impaginazioneuna comunicazione di formel’ipotesi di una realtà in movimento:una vertigine di inversioniinfinite e diverse.

E ciò che ad esse si opponepuò essere sempre rovesciato:nel proprio contrario,

e un frammento da L’uomo invisibile:

Non danno molti filmdi L’uomo invisibile

25. G. Rodari, I cinque libri. storie fantastiche, favole, filastrocche, Torino, Einaudi, 1995, p. 63.

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one danni molti.Con Claude Rains, Peter Lorreosenza[…].

6. E sia, infine, la neoavanguardia che, va da sé, per ragioni ideologiche che fanno tabula rasa di ogni senso in quanto mercificato ecc., e per le note tecniche linguistico-stilistiche, appare naturalmente portata a spo-sare la causa del nonsense. I fatti lo confermano: tanto i padri fondatori quanto i fratelli minori o i figli o i nipotini, tutti, chi piú chi meno, ci re-galano prima o poi frutti nonsensical al cento per cento. Anche per i novis-simi della prima ora vale, credo, la legge generale per cui non si dà non-sense senza gioco e procurata, cioè ideologica, svagatezza. Dunque c’è piú vena nonsense, e fin dalle origini, in Giuliani e Balestrini o in Porta che in Sanguineti. Ma anche per quest’ultimo: basterà che il rigido e psicotico trobar clus del libro d’esordio, Laborintus, si sciolga per avere prodotti non-sensical. A mio avviso le prime attestazioni risalgono al 1968 con la plaquet-te T.A.T.; ma poi gli episodi si moltiplicano direi esponenzialmente: si va dai quattro-cinque testi del ventennio 1951-1971 alle decine e decine del-le raccolte successive. La tipologia comprende soprattutto testi-elenco basati sulla logica del tautogramma o del ribattimento leporeambico o dell’acrostico acrobatico da qui un titolo come Acrobistico,26 ma compren-de, ad esempio con sequenze del genere di « versavice viceversa e dice », anche la maniera del Carroll di Jabberwocky. C’è poi Antonio Porta, sia il poeta, sia il critico e l’operatore culturale. L’ultrasenso del nonsense è in-fatti uno dei fili rossi che attraversano e costruiscono la sua famosa anto-logia per feltrinelli, Poesia degli anni settanta (1979). Scialoja, ad esempio, è trattato con i guanti e pur ammettendo la sua extravaganza se ne riven-dica una certa vicinanza al discorso della neoavanguardia. Cosí con Por-ta è in primo piano il binomio nonsense e mondo dell’infanzia, cioè forse il principale destinatario, soprattutto virtuale s’intende, del nonsense. Nel-

26. Cfr. E. Sanguineti, Il gatto Lupesco. Poesie (1982-2001), Milano, feltrinelli, 2002, p. 454.

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la raccolta Metropolis del 1971, Modello di bambini per linguaggio è non a caso il titolo del seguente nonsense (ed. cit., pp. 245-46):

mangia sale d’india ficoscotta dito fico ficobarba scotta forma latte[…] latte panciapiccio vola frutta benefoglia verde verdu duracampa suona […][…] inna sono rato mosali sediametto gliolo rompo belloprendo forca sonno sto sonno bello[…] sveglia no.

E su questa scia andrà collocata la curatela con Raboni della raccolta di poesie per bambini Pin pidin, dove c’è abbondanza di autori e testi non-sense: da Balestrini a Scialoja. Ancora nell’antologia portiana ritroviamo poeti della Neoavanguardia di seconda generazione ad alto contenuto nonsense come i già citati Niccolai e Costa piú il sodale Adriano Spatola, ma si consideri anche, al di fuori dell’antologia, il nome di Milli Graffi. Confesso la mia simpatia per la Niccolai, che dà un titolo carrolliano, cioè Humpty dumpty, a una sua raccolta del 1969, e che scrive, tra le altre, questa deliziosa poesia:

Igea travagliatotrento, treviso e triestedi disgrazie in disgraziafino PomeziaComo era trieste Venezia.

Un testo tra i piú celebri della raccolta di nonsense geografici Greenwick (1971), dunque in linea tanto con, ovviamente, la tradizione del limerick, quanto con la Gertrude Stein di The Geographical History of America, che

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infatti la Niccolai traduce. Se poi si volesse avere una prova in piú del nesso neoavanguardia e spirito nonsense basterà sfogliare gli indici della rivista piú importante del movimento, cioè « il verri ». Si troveranno cosí inediti di Toti Scialoja, traduzioni da Carroll, saggi su Carroll o Edward Lear e cosí via. C’è poi un numero, del marzo-giugno 1974, dedicato a Aldo Palazzeschi, dove si scopre, o almeno io ho scoperto, che il nonsense è un ulteriore ponte tra l’avanguardia primonovecentesca e la Neoavan-guardia. Il numero è dedicato a Palazzeschi, ed è un Palazzeschi molto celebrato e proprio perché lo si pensa autore nonsense. Cosí lo vede Milli Graffi nel suo intervento, che lo paragona ripetutamente a Lewis Car-roll, e cosí, evidentemente, lo vede Antonio Porta nella poesia che gli dedica e che intitola proprio cosí, nonsense omaggio a Palazzeschi (« il ver-ri », marzo-giugno 1974):

1. 3.una giapponese all’albese fontana morganasul far dell’alba al primo del mese put put putcrocchiando i suoi sedani fa la nanasbucciando piselli sotto la fontana ghiacciatasi crocchia le giappesi sbuccia il suo seme 4.chiú chiú chiú abbiatecurapigola in grembo a una francese abbiatefedenell’Antico Piemonte abbiatepazienza nel posto delle rane2. abbiategrassouccia ucciasbuccia sbuccia […].lecca leccache è la meccafa la cuccia nella pannachiudi gli occhitra i ginocchicol rossore sulla guanciacinque dita sulla panciapuccia pucciamia mariuccia

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Luca Serianni

Il gIoco lIngUIStIco nEllA PoESIA dI totI ScIAloJA*

Nonostante un’attività poetica dispiegatasi in un lungo arco di anni (1961-1998), non si può dire che alla figura di Scialoja poeta abbia arriso una fama pari a quella che ha conosciuto il pittore. Se guardiamo alle antologie, un tipico indicatore della fortuna di un poeta novecentesco, è facile constatare come siano molte quelle che lo ignorano senz’altro. Non fosse che per la data di uscita, relativamente alta, non ci aspetterem-mo comunque di trovarlo in due classici del genere, quelli compilati da Sanguineti e da Mengaldo.1 Ma Scialoja è assente anche in antologie pub- blicate molti anni dopo: non solo in opere che trovano altrove le ragioni di un’interpretazione critica dei poeti ospitati (Testa), ma in repertori votati a un’ideale rappresentatività di valori e di tendenze (Cucchi-Gio-vanardi) o che potremmo immaginare sensibili alle sperimentazioni del poeta-pittore (Loi-Rondoni).2 Eppure Scialoja è stato ap prezzato da

* Citerò le poesie di Scialoja dalle seguenti raccolte: Amato topino caro, Milano, Bom-piani, 1971 [= ATC; anni 1961-1969; senza numerazione delle pagine]; Una vespa! Che spa-vento. Poesie con animali, Torino, Einaudi, 1975 [= VsP; anni 1969-1974]; La stanza la stizza l’astuzia, Roma, Cooperativa Scrittori, 1976 [= ssA; anni 1973-1976]; Ghiro ghiro tonto, in Id., Versi del senso perso, Milano, Mondadori, 1989 [= GGT; anni 1976-1978]; La mela di Amleto, Milano, Garzanti, 1984 [= MAM; anni 1974-1980]; Poesie 1961-1998 [= Poe; in realtà il vo-lume abbraccia il quindicennio 1983-1998 e comprende, come si legge nella quarta di copertina, « quella parte della produzione poetica di Toti Scialoja che non ricade nell’am-bito della poesia per bambini e del nonsense »]. La sigla è sempre seguita, tranne nel caso di ATC, dall’indicazione del numero di pagina. Indico il confine di verso col segno /, quello di strofa col segno //.

1. Cfr. Poesia italiana del novecento, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 19722, e Poeti italiani del novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978.

2. Cfr. risp. Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di E. Testa, Torino, Einaudi, 2005; Poeti italiani del secondo novecento (1945-1995), a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, Milano, Mondadori, 1996; Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970-2000, a cura di F. Loi e D. Rondoni, Milano, Garzanti, 2001 (la dichiarazione che potrebbe autorizzare un atteg-giamento di simpatia per la poesia di Scialoja si legge a p. 14 dell’Introduzione: « la poesia si distingue dalla prosa per la propria libertà rispetto a una intenzione e a un ordine narrati-

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critici-scrittori di eccezione: da Antonio Porta – che lo ha accolto in una sua nota antologia3 e gli ha dedicato acuti interventi, soffermandosi su varie raccolte a partire da ATC, definito « folgorante libretto » –4 fino a Giorgio Manganelli, per il quale la sua invenzione linguistica costituisce « uno dei fatti piú singolari della letteratura italiana di questi anni »,5 e a Giovanni Raboni, che ha additato in lui « il talento poetico piú originale e compiuto rivelatosi in Italia nel corso degli anni Settanta e Ottanta ».6

Quel che è certo è che la fisionomia poetica di Scialoja stenta ad ap-parentarsi con quella dei poeti a lui contemporanei. Se per certi esiti qualche critico ha pensato allo sperimentalismo del « Gruppo 63 »,7 è notevole la sua estraneità al plurilinguismo e al pluristilismo tipici non solo di quel cenacolo ma di tanta parte della poesia del secondo Nove-cento.8 Qual che tangenza si può riconoscere, semmai, in singoli episodi.

vi e per la sua assoluta attenzione ai suoni »). Per altre informazioni sulla presenza di Scialoja poeta in antologie rinvio all’accurata tesi di laurea di Orietta Bonifazi, Toti scialoja poeta-pittore. « Un percorso imperfetto verso l’invisibile », relatrice Bianca Maria frabotta, discus-sa nell’Università di Roma « La Sapienza » nell’a.a. 2004-2005 e consultabile all’indirizzo web: www.disp.let.uniroma1.it/fileservices/filesDISP/Toti%20Scialoja.doc.

3. Poesia degli anni settanta, a cura di A. Porta, Milano, feltrinelli, 1979, pp. 195-96 (con la nota ai testi, ivi, p. 71).

4. Nella prefazione a ssA, p. 6.5. Cfr. I percorsi della scrittura, a cura di F. Cavallo e M. Lunetta, Napoli, Ist. italiano di

studi filosofici, 1988, p. 28.6. Cfr. T. Scialoja, Animalie, catalogo della mostra a cura di A. Ranchi, Bologna, Gra-

fis, 1991.7. Per Bianca Maria frabotta, ad es. (Toti scialoja: le malinconie di un poeta comico, in Il

comico nella letteratura italiana, a cura di S. Cirillo, Roma, Donzelli, 2005, pp. 489-503, a p. 490), MAM « poco si distingue dal funambolismo programmatico » di alcuni esponenti di quel gruppo.

8. A titolo di curiosità, noterò l’eccezionalità di fatti post-grammaticali, e tutti nelle poesie piú tarde: regionalismi (« son mica il bagatto! » grida un « macilento in ciabatte » in un’allucinata visione infernale di Poe 460), tecnicismi (« è certo un effetto vasovagale »: Poe 435), arcaismi (pressoché nulla da registrare, fatta eccezione per singole emergenze letterarie debolmente marcate come « è mestieri / esplorare i cespugli »: Poe 161, lunghes-so Poe 460). Quanto al pre-grammaticale (o assimilabile), si può citare un gioco fonico che crea occasionali hapax in ssA 67: « Ieri vidi tre levrieri / mogi mogi, / oggi vedo tre levroggi / neri neri, / che domani sloggeranno / levri levri ». Alquanto rare – e dunque no tevoli in una poesia idealmente indirizzata ai bambini e nella quale tanta parte hanno

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Per esempio nel Modello di bambini per linguaggio di Porta,9 in cui si ripro-duce il linguaggio infantile, con soluzioni tuttavia piú o meno distanti da quelle di Scialoja (giustapposizione di parole e cancellazione di parole grammaticali: « fame pieno / messo acqua / vuole mangia »; decurtazio-ne di pa role: « puli bocca / niente dito / stare tento », fino alla confusione finale, che allude all’addormentarsi del bambino: « inna sono / rato mo // rompo bello / sonno sto / sonno bello / sveglia no »). O alle sequen-ze di toponimi di Giulia Niccolai, che contano solo per la suggestione evocativa del suono (e infatti i nomi di luogo sono trattati graficamente come “nomi comuni”),10 ma che, a differenza di Scialoja, non sono in-gredienti, sia pure imprevisti e imprevedibili, di una frase di senso com-piuto.

La frabotta si è soffermata sulla « lenta metamorfosi » della poesia di Scialoja, la cui storia di poeta comico può dirsi conclusa dopo il 1980.11 E lo stesso poeta, in una conversazione con A. Ranchi, aveva dichiarato già ssA « un libro di nonsense per adulti », mentre « l’esperienza per i bambini è racchiusa tra gli anni Sessanta e Settanta ».12 Ma le filastrocche per l’in-fanzia non sono solari come sembrano13 e del resto lo stesso Scialoja, nel-la conversazione appena citata, precisava che le prime poesie erano scrit-te sí per un nipotino, « ma segretamente erano dirette a [sua] moglie che doveva leggerle al bambino »: dunque, potremmo dire, un doppio livello di lettura presente ab origine, già all’atto dell’ideazione.

I segni di continuità tra la fase nonsensica e la fase drammatica14 non sono pochi. Intanto, una prassi che non meraviglia in chi dichiarava a

gli animali – le deformazioni suggerite dal fonosimbolismo animalesco (la zanzara di VsP 44, gli elefanti di MAM 88).

9. In Poesia degli anni settanta cit., pp. 180-81.10. Cfr. ivi, p. 201 (« Treviglio. Rovato brescia asola visano / e adda e oglio e mincio e

garda / lograto barghe pastrengo e margaria. / Navi che manerbo! Lodi? »).11. Cfr. Frabotta, Toti scialoja, cit., p. 489.12. Scialoja, Animalie, cit., pp. 32-33.13. Cfr. R. Barilli, in Scialoja, Animalie, cit., p. 16, e anche F. Appel, L’animale intellettua-

le. La poesia per bambini di Toti scialoja, in « Bollettino di Italianistica », iv 2007, pp. 101-14.14. Adotto la bipartizione di M.P. Ammirati, L’itinerario di Toti scialoja, in « Tempo pre-

sente », num. 157-158 1994, pp. 71-74.

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Ranchi: « Io non amo i versi liberi »,15 ossia la fedeltà alla rima e comun-que alle corrispondenze foniche in clausola (assonanze e soprattutto con-sonanze).16 Alla sapiente consuetudine con la metrica moderna si deve il ricorso alla sinafía, un istituto introdotto dal Pascoli cultore di versi clas-sici e destinato a « una certa fortuna nella poesia del Novecento, ma na-turalmente al di fuori degli scrupoli di esattezza sillabica manifestati da Pascoli »;17 mentre si va decisamente oltre un certo gusto pascoliano e primo-novecentesco con la rima franta,18 che in Scialoja coinvolge vo-lentieri anche rime imperfette.

Esemplifico i due istituti partendo da Poe.19 Sinafía in consonanza in abbaglia : risvegliano 82. Rima franta in d’ot]tobre (: Lot) 17; labi]rinto : mirabi-li 47; rive]derti : vive 66; rampi]cante : campi 257; consonanza franta in gas : dis]sepolte 62; sequenze allitteranti frante in tanfo : pantofo]le 61 e Parigi : presti-digi]tatore 283. Riscontri nella poesia nonsensica: sinafía in GGT 248 risor-go]no : Gorgo 248; consonanza franta in VsP 16 (zampa : zampi-]rone); asso-nanza franta in VsP 71 (antro : ranto-]lo); rima franta con sistole in VsP 52 (Cerveteri : veteri-]nari); rima franta iterata con dislocazione a distanza in

15. Cfr. Scialoja, Animalie, cit., p. 33.16. Come sondaggio, citerò il primo componimento delle prime cinque raccolte che

costituiscono Poe, ognuno dei quali costituito da due quartine: 15 (da scarse serpi): conso-nanza o semi-conoscenza mare : spire, passaggio : naufragio e anche pallido : spalle; 89 (da Qui la vista è sui tigli): consonanza crudele : aprile, memoria : miseria, soglia : sbadiglio e assonanza primavera : leva; 121 (da Le sillabe della sibilla): consonanza in percorsi : perversi (prima strofa; perversi è anche in rima ricca con riversi, nella seconda strofa), assonanza, o meglio quasi-rima in intarsia : comparsa; 229 (da estate ventosa): consonanza tempo : scampo; 253 (da I violini del diluvio): solo consonanze (Dove : neve, tetra : vetri, strada : bradi, assurda : merda). Nella precedente poesia nonsensica domina la rima regolare, anche con l’intento di arieggiare la cantabilità delle filastrocche infantili. Cosí, la grande maggioranza dei 53 componimen-ti di ATC è rimata e alcuni di essi sono monorimi (ma si ha consonanza in adocchia : ran-nicchia, rondini : grandine; assonanza in verme : eterne, ecc.); il primo componimento di VsP (4 versi) ha rime regolari, il secondo (8 versi) ha rime e assonanze (marzo : scalzo, pietre : lepre); rime, consonanze e assonanze si alternano in ssA (tra le consonanze: nervi : curvi 18, araucaria : gloria 19; tra le assonanze: rauca : aula 19, vasca : annaspa 21).

17. P.G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 189.18. Sul quale cfr. G.L. Beccaria, L’autonomia del significante, Torino, Einaudi, 1989, pp.

252-53.19. I simboli « ] » e « -] » indicano rispettivamente l’assenza e la presenza del trattino di

accapo.

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MAM 14 (do l’intera serie di rimanti: ace]ro – rinoce – lace]ro – pece – pace – noce – fronte – ronte; per il testo vd. p. 325) e 125 (tras]colora : strass).

Non mancano le riprese intratestuali tra le due fasi poetiche. Si veda-no i seguenti componimenti, rispettivamente da ssA 66 e da Poe 101:

Un cane percorreva l’ospedale Quale rondine ho sceltoun dado ruzzolava sul guanciale per richiamarti – qualeun cielo si affacciava al davanzale giravolta – quale ultimoun sole traversava lo spiraglio stridio sull’ospedale?un sale si addensava sul tuo ciglioun tale mascherava lo sbadiglio Nel bicchiere la rosaun giglio nel bicchiere d’ospedale. divide la sua acqua con la mia attesa: in posa cosí come a te piacque.

ssA, è vero, si situa piuttosto in una « zona adulti » che non nella « zona bambini » di precedenti raccolte;20 e questo componimento, in partico-lare, ha un senso agevolmente decifrabile, oltre la litania di frasi descrit-tive, tutte incardinate tranne l’ultima (nominale) sulla struttura sogget-to-predicato-complemento: l’ambiente è quello di un ospedale, con am-malati, forse lungodegenti, abbandonati a sé stessi nella noia di giornate interminabili. Lo stesso del secondo componimento, che non ha piú nulla dell’effetto-filastrocca (si vedano le insistite inarcature) ma che ag-getta su un’immagine simile: il fiore (qui la rosa, lí – con richiamo fonico del rimante sbadiglio che chiudeva il verso precedente – un giglio) in un bicchiere, modesto segno di una presenza e di un’attenzione in un am-biente freddo e impersonale come quello ospedaliero.

Accanto a un tema, si può segnalare la ripresa di un modulo che nasce con una precisa funzionalità proprio nei libri illustrati di poesie per bam-bini: quella di commentare una figura animalesca che appare nella pagi-na di fronte. Cosí in ATC:

Questa sarta tartarugafa modelli in cartasuga,

20. Si vedano la prefazione di A. Porta, p. 8, e la già ricordata dichiarazione a Ranchi, in Scialoja, Animalie, cit., p. 33 (ssA è « un libro di nonsense per adulti »).

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sotto gli occhi ha qualche rugacon due foglie di lattugase le bagna, se le asciuga,ma non sogna che la fuga.

Anche in VsP 48 (« Questo anziano gatto d’Anzio ») un incipit del genere fa riferimento a un’illustrazione, mentre il deittico resta pura-mente virtuale in due componimenti, tipicamente nonsensici, di ssA (« Questa cicala rauca », 19; « Questa blatta, blanda mater », 36), ma anche in due componimenti di Poe 28 (« Questa gaia carriola ») e, con riferi-mento animale, 527 (« Questa mosca si maschera da vespa »).

Un altro elemento tipico dello Scialoja per bambini che ritroviamo anche in Poe è la toponomastica fantastica, suggerita dai suoni e pro-motrice di imprevedibili accostamenti che hanno a fondamento ancora una volta un animale, secondo il consueto processo di antropomorfismo delle fiabe. Un esempio da ATC, in cui un tema familiare nell’esperienza della prima infanzia (l’obbligo di mangiare quando non se ne ha voglia) è affidato a una lepre che, dopo il primo cucchiaio, si risolve a una deci-sione drastica:

C’è una lepre, a Mestre, a destra,che rimesta la minestra,dopo un sorso si fa mesta,lesta lesta la rovesciaa sinistra, fuori della finestra.

Qualsiasi lettore di Scialoja, anche occasionale, potrebbe moltiplicare gli esempi di questa geografia irreale, che punteggia luoghi e abitatori della sezione nonsensica (dalla mosca che ronza a Mosca di ATC alla zanzara che vive a Zara e alla biscia che attraversa sulle strisce a Brescia di VsP 4 e 30, agli alacri bruchi di Locri e alla cincia maschio che fischia a Schio di ssA 24 e 32, al topo che si trova comodo a Como e al mastino di Asti di GGT 139 e 145, alla folla di farfalle di follonica e ai mille lom-brichi in lacrime lungo l’ombre del Lambro di MAM 71 e 75). Ma anche in Poe il procedimento è tutt’altro che raro; la differenza è la rinuncia allo zoo fiabesco e la riduzione – non la scomparsa – della sperimenta-

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zione paronomastica.21 Eccone un esempio (Poe 36), in cui il cane è un cane a tutti gli effetti, mentre la verosimile allocutaria è la compagna di un viaggio nell’alto Egitto (indicato col nome antico di Tebaide, che non funge solo da significante per innestare le allitterazioni di apertura e di chiusura, ma evoca anche, col suo sentore classico, la scomparsa di anti-che civiltà, di cui rimangono miseri resti, le tibie):

Tepida è la Tebaidenon appena s’è spentoil sole – idee di ventotraversano le pallide

valli mal dette laidepurché – tra mugolii –il tuo cane non frughitibie della Tebaide.

Ma torniamo alle lepre e alla sua minestra per osservare un altro aspet-to della poesia di Scialoja (e ancora una volta siamo di fronte a una co-stante, sia pure diversamente declinata nel corso della sua parabola): l’iro nizzazione della lingua piú corriva e automatica (della “lingua di plastica” direbbe Ornella Castellani Pollidori),22 a cominciare dalle frasi idiomatiche. Qui il punto di partenza è il trito dilemma o mangiar questa minestra o saltar dalla finestra; solo che la nostra lepre dalla finestra getta non sé stessa, ma l’aborrita minestra.

Altri esempi del procedimento in MAM 19, in cui una libellula ricorda che « la bile è lilla » (giocosa innovazione cromatica rispetto a essere verde di bile) e conclude con la variazione di un convenevole colloquiale chie-dendo « che fai di bellulo? ». Ancora nella stessa raccolta sette componi-menti (MAM 54-61) muovono da una frase idiomatica, alterandone pa-ronomasticamente il dettato,23 pur mantenendo il senso. Leggiamone

21. Che, semmai, è rilevata da un procedimento metalinguistico: « mi dici con durezza e intanto stacchi / Otto dentali: “Non da adesso odio Odessa” » (Poe, p. 334)

22. O. Castellani Pollidori, La lingua di plastica. Vezzi e malvezzi dell’italiano contempo-raneo, Napoli, Morano, 1995.

23. Seguendo una procedura ben precisa: in ogni verso la struttura grammaticale è la stessa (tanto - va - la + sostantivo femminile - al + sostantivo maschile - pronome relativo

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uno, in cui si evocano i disagi della podagra, l’abbigliamento tradizionale sardo, l’attrazione per un profumo che sembra sollecitare il gusto oltre che l’odorato e infine l’effetto dell’alcol su un cantore alla ricerca del suo destino (MAM 55):

Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampinotanto va la gotta al tardo che si sfascia lo scarpinotanto va la ghetta al sardo che l’allaccia sul gradinotanto va la ghiotta al nardo che lo struscia col linguinotanto va la grappa al bardo che rintraccia il suo destino

Analogamente, in ssA 63 il proverbio iniziale trascina altre immagini, in cui il senso cede via via al gioco fonico (la sarta sbaglierà per la fretta e per il desiderio di finire il lavoro e andare a riscaldarsi, mentre la pezzen-te fuori di senno e i bizzarri stridi della gazza non hanno piú alcun rap-porto, se non fonico, con i versi iniziali):24

La gatta frettolosache fa i gattini ciechila sarta freddolosache fa i golfini sbiechila matta frittellosache fa gli inchini a sprecola gazza fragorosache fa gli stridi in greco.

- verbo - complemento diretto o indiretto). Le componenti lessicali che mutano manten-gono una stretta parentela fonetica: costituendo consonanze o assonanze (gatta - gotta - ghetta - ghiotta e gatta - grappa), rime interne (lardo - tardo - sardo - nardo - bardo), collegamen-ti vari, tutti accomunati dalla presenza di una palatale postonica (sibilante palatale in lascia, sfascia, struscia, affricata palatale intensa in allaccia e rintraccia), rime (-ino).

24. Quanto alla gazza e al greco, Michelangelo Zaccarello e Giuseppe Crimi me ne segnalano giustamente l’ascendenza in un verso del Burchiello: « et una gazza che parla-va in greco »: cfr. I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Torino, Einaudi, 2004, p. 26, xviii 12. G. Crimi mi indica inoltre anche un riscontro da Virginia Woolf (La signora Dalloway, trad. e cura di N. Fusini, Milano, feltrinelli, 1999, p. 21), evidentemente indi-pendente da Burchiello, che fa pensare a una piú larga circolazione di questo motivo: « Un passero si poggiò sulla cancellata di fronte; cinguettò Septimus, Septimus, per quat-tro o cinque volte e, cavandosi di gola le note, continuò a cantare fresco e penetrante in greco ».

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In Poe 317 il procedimento è declinato in senso drammatico, ma il punto di partenza è sempre una frase fatta (« una tempesta in un bicchier d’acqua », e magari anche « affogare in un bicchier d’acqua »); solo che questo bicchiere metaforico genera una nomenclatura ben concreta: piatto, cucchiaio e minestra sono qui gli utensili di un pasto consumato in disperata solitudine:

Una volta quanto mi avrebbe fattopatire il tuo incupito mutamento– ora ceno con la testa nel piattoquanto basta per rimediare al silenzio.

È sempre una tempesta nel bicchierema il vento ora ha girato – ecco il naufragionella minestra – le erratiche lacrimeraccolte adagio – sollevando il cucchiaio.

Agli antipodi della “lingua di plastica” sono gli echi della grande lette-ratura o della grande storia che, di tanto in tanto, si riaffacciano – perfet-tamente riconoscibili, ma straniati in un ambiente in cui domina il suono e la libera varietà degli accostamenti – nella poesia di Scialoja.

A un primo livello il gioco, immediato ed elementare nel suo mecca-nismo, coinvolge tessere famose – in qualche caso divenute tali fin dai primi anni di scuola – e forse Scialoja avrà pensato che i anche i bambini potessero cogliere le sue manipolazioni e sorriderne. È quel che vale per i grandi classici della letteratura italiana, da Leopardi (« “Sempre caro mi fu quest’erto corno” / pensa il rinoceronte / senza nessuno intorno » MAM 44, col terzo verso arieggiante giocosamente il tema leopardiano della solitudine) a Carducci (« T’amo pio bue! / Anzi ne amo due » ATC), a Manzoni (« C’è un ramo che sporge sul lago / di Como, sospeso a quel ramo / un ragno si specchia nel lago » ecc. MAM 33). Ancora Carducci è preso di mira – ma qui, tenendo conto della drammatica occasione in cui fu scritta quella famosa poesia, dovremmo proprio parlare di dissacrazio-ne – in VsP 72: l’albero di Pianto antico diventa un albatro che vola via alla vista di un pericolo: « L’albatro a cui tendevi / un piccolo caimano / volò cosí lontano / che non si vede piú ».

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Un secondo livello è piú elaborato, sia per i testi evocati sia, e soprat-tutto, per le implicazioni soggiacenti. E precisamente:

a) possono essere in gioco testi famosi, ma non certo paragonabili al-l’Infinito e ai Promessi sposi quanto a radicamento nella memoria colletti-va. L’incipit di una celebrata anacreontica di Iacopo Vittorelli riecheggia in MAM 36 (« Guarda che bianco alano! »); ma se il poeta settecentesco dall’incanto di una notte lunare passava agli amori di due usignoli e vi contrapponeva la freddezza della sua Irene, Scialoja si muove nella dire-zione di un grottesco e prudenziale realismo – un po’ come avviene per il rifacimento di Pianto antico – riprendendo al v. 2 l’anafora di Vittorelli ma continuando cosí: « Guarda che zanna aguzza! / Teniamoci per mano / al centro della piazza ». Meno esibita ma altrettanto evidente la citazio-ne carducciana di MAM 86 (da Mors, 3: « e l’ombra de l’ala che gelida ge-lida avanza »; Scialoja: « Un alligatore d’America che gelido gelido avan-za »): ancora una volta le sofferte riflessioni di Carducci sulla morte in tenera età25 suscitano l’immagine dissonante di un coccodrillo; l’epana-lessi di gelido, con valore figurato e causativo in Carducci (‘spietata’ e ‘che uccide, che rende gelidi’), ha ora il valore referenziale pertinente a un animale eterotermo. Nessun intento giocoso ha invece una citazione di françois Villon, che potremmo considerare una variazione sul tema del tempo e della morte, dunque una poesia che appartiene pienamente alla fase “drammatica”: « Dove sono le nevi / addormentate un tempo / nel silenzio di brevi / inverni senza vento? » (MAM 103);

b) altre volte il ricordo parrebbe legato non a una citazione esplicita e a un contesto, riproposto o rovesciato che sia, ma a una mera suggestione ritmica e lessicale. Ciò vale sicuramente per la citazione dantesca di VsP 15 (da Inf., iv 84: « sembianz’avevan né trista né lieta »): « Ho visto un corvo sorvolare Orvieto. / Volava assorto, né triste né lieto ». Anche una famo-sa melodia ottocentesca, santa Lucia, un « piccolo gioiello » col quale si può dire che abbia « inizio la storia della canzone italiana »,26 viene rie-cheggiata in VsP 34: il verso iniziale è spezzato in due versi successivi

25. Del figlioletto Dante, in Pianto antico; dei due bambini del collega Gandino, periti di difterite, in Mors.

26. Cfr. G. Borgna, storia della canzone italiana, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 3.

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(« Sul mare luccica » → « Sul mar si sbriciola / la luna e luccica ») e il rife-rimento a Napoli del testo originale genera metonimicamente un Casa-micciola,27 redditizio sia per la proparossitonia (che crea rima ritmica con sbriciola e luccica e consonanza con lucciola) sia per l’affricata palatale che si ritrova, oltre che nei rimanti citati, anche in cantuccio;

c) Il gioco linguistico può farsi malizioso quando il richiamo letterario è un’occasione per un’irrisione antireligiosa, come avviene con una cita-zione metastasiana in cui a Dio si sostituisce uno dei tanti animali dello zoo dell’autore e precisamente un Ghiro (non casualmente con l’iniziale maiuscola) tutto intento a dormire, indifferente alle vicende del mondo: « Ovunque il guardo io giro / vedo il tuo sonno, o Ghiro! » (VsP 145; e non sfugga il fatto che si tratta dell’ultimo componimento della raccolta, dunque collocato in una posizione di spicco). Alla “grande storia”, ai trecento Spartani delle Termopili – un tema di forte suggestione patriot-tica, se il numero riecheggerà anche nella spigolatrice del Mercantini – si riallacciano i « Trecento topi grigi » di ATC, che « parevano terribili / perché stavano immobili ».

In Poe l’intarsio intertestuale perde la sua natura ludica e diventa spesso l’occasione di un divertissement letterario che – un po’ come avve-niva per tanti “divertimenti da concerto” sfornati dall’editoria musicale ottocentesca, fondati su piú melodie di un melodramma famoso e libe-ramente riproposti dal compositore – intreccia vari temi di un’opera o attinge da diverse fonti. Due temi danteschi figurano in Poe 72 (« Nes-sun maggior dolore / che ricordare il tempo / felice – scarse rose / alla luce di un lampo. // Uno specchio incoraggia / le rose a lume spento / – or le bagna la pioggia / in sogno e move il vento »; cfr. Inf., v 121-22, e Purg., iii 130 e 132). Analogamente Leopardi, Canto notturno, 66, e Carduc-ci, Ad Annie, 1 (« Batto a la chiusa imposta ») sono citati nella seconda quartina di Poe 234 (« Questo supremo scolorare del sembiante / nella

27. Emiliano Picchiorri mi suggerisce un accostamento, che sembra anche a me pro-babile, con la locuzione fare Casamicciola ‘provocare una grande confusione’ (il riferimen-to è al terremoto del 1883): cfr. R. Randaccio, Toponomastica allusiva, in Lessicografia e ono-mastica, a cura di P. D’Achille e E. Caffarelli, Roma, Società Editrice Romana, 2006, pp. 147-58, a p. 149.

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chiara penombra delle chiuse imposte / è il fiato del nulla? »). E in Poe 379 convivono Petrarca, Rvf, xxxv 2, e il Detto del gatto lupesco: « cammina-va a passi tardi e lenti con lo schioppo in spalla », « “Io sono un gatto lupe-sco” ». In un caso riemerge una forte vena antireligiosa (Poe 265):

Se l’idea del Diluviole è passata di mentela lepre – ferma al bivio –leva il muso all’istante.

Nel cielo ancora scurol’arcobaleno scoprelo sguardo di preghieradi nostra madre lepre.

Lo sfondo è il racconto biblico (e si veda anche qui, come sopra per Ghi-ro, la maiuscola di Diluvio); ma è ambiguo il penultimo verso, che po-trebbe alludere semplicemente all’espressione mite della lepre, ed espli- citamente dissacrante l’ultimo, che attribuisce alla lepre l’epiteto tra di-zionale di Maria Vergine.

Ma è tempo di passare a ciò che costituisce l’essenza del nonsense: la frattura della coerenza testuale. La violazione logica pura e semplice (ciò che evidentemente non pregiudica l’individuazione di un senso altro) è rara. In VsP 44 si gioca con le affermazioni inconciliabili dei vv. 4 e 6: « Negli orti di Gubbio / all’ombra di un umbro / sambuco c’è un bruco / senz’ombra di dubbio / colore dell’ambra / o forse lo sembra », e in Poe 361 – dunque in un testo estraneo alla fase nonsensica (e al suo sperimentalismo espressivo) – si trasgredisce il principio di non contrad-dizione: « con stizza ma senza stizza alzi il bavero del cappotto ». Piú in-teressante un componimento di MAM 88, sgranato su un’aritmetica in parte verosimile (v. 3) in parte irreale, che dal numero iniziale di novan-ta rumorosi elefanti passa allo zero, in un « pieno silenzio » desertico che smentisce lo stereotipo di avvio:

« La vita va avanti! La fita fa afanti! »gridavan di naso novanta elefantio meglio sessanta, di cui trenta affranti,

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tra anziani ed infanti non erano venti,un sol pachiderma barriva fra i denti,nessuno fiatava: da sempre era immersonel pieno silenzio l’immenso deserto.

Il tipico nonsense di Scialoja, però, si declina altrimenti. Intanto, una serie di componimenti – spesso i piú memorabili – rappresenta una situa-zione plausibile in un contesto inatteso. Qualche esempio (GGT 253):

La zelante zanzara dell’Alsaziase all’alba s’alza sazia mi ringrazia.

Che una zanzara, dopo averci punto, possa dirsi sazia non fa notizia; ma il gioco sta nell’ambientazione imprevista (l’Alsazia non è nota per essere infestata dai fastidiosi insetti), nell’antropomorfismo della zanzara (che non solo « ringrazia », ma all’alba « s’alza », come un essere umano) oltre che nell’investimento fonico, qui trasparentemente fonosimbo lico.28

Se viaggia russando la vecchia tarantolae sibila e rantola tra Taranto e Mantovail controllore la scrolla, la brontola,finch’essa, alterata, discende a Terontola. (ATC)

La cronaca dell’allontanamento di un viaggiatore che disturba gli altri passeggeri ha come dato fantastico l’avere a protagonista una tarantola (ma siamo poi proprio sicuri che designi il ragno e non, metaforicamen-te, una vecchia donna dall’aspetto disgustoso?); per il resto appare plau-sibile persino il percorso ferroviario: il gioco anche qui non sta nei signi-ficati, ma nella suggestione fonica (la paronomasia di Tarantola, Taranto e Terontola) e ritmica (addensarsi di sdruccioli; oltre ai citati: sibila, rantola, Mantova, brontola).

Giunse un topino egizioa piè della Piramidevi scorse un orifizioe mormorò: « Mirabile! » (VsP 88).

28. Alla zeta associata alla zanzara Scialoja fa ricorso anche in VsP 117, alterando l’as-setto di parole messe in bocca all’insetto: « Buona zera! » e « ho tanta zete! ».

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È prevedibile che un topo resti insensibile di fronte alla maestà delle pi-ramidi e sia interessato invece al buco nel quale insinuarsi. Ancora una volta un dato realistico, almeno nella specifica realtà delle fiabe; il gioco sta tutto nell’esclamazione, che riconduce ogni dato esterno alla partico-lare prospettiva di chi giudica.

Sogno che una zanzara con le staffemi dica: « Salta in groppa! La tariffadel volo è quella antica – non far gaffe –e tenera è la notte a Teneriffa ». (MAM 81)

Qui la componente fiabesca è addirittura esplicitata dalla fantasia onirica (« Sogno ») e una qualche coerenza ha il riferimento a una tariffa « antica » e l’uso di forme, se non antiche, certo con l’apparenza di esserlo: i due forestierismi italianizzati e posti in punta di verso; ma, ad ammonirci contro interpretazioni lineari sta la voluta dissonanza del riferimento, qui incongruo, al romanzo di fitzgerald.

Molte altre volte si ha una vera e propria lesione del senso superficiale. Le modalità espressive sono assai varie:

a) lo spunto iniziale può consistere in un’asserzione banale (« Oggi è Pasqua e vado a pesca » GGT 135), alla quale i versi successivi tolgono ogni plausibilità: si può anche partire senza l’occorrente e senza la pro-spettiva di pescare un pesce o magari la sua lisca (vv. 2-3: « senza lenza senza lasca / senza lisca senza l’esca »), ma certo l’acqua è un presupposto ineliminabile per esercitare quest’attività (v. 4: « senza l’acqua nella va-sca »). Inversamente, si può esordire con una serie di dichiarazioni assur-de (le etimologie dei vv. 1 e 2), continuare con asserzioni sufficientemen-te perspicue, anche se espresse con un certo investimento figurale e fo-nico (vv. 3-5: il dado è il simbolo tradizionale del giocatore; l’innamorato, colpito dalla freccia d’amore, riesce a liberarsene con fatica; il ladro è cauto e non commette leggerezze o ingenuità) per concludere con un verso di prosaica verosimiglianza (MAM 54):

Chi crede alla corda si chiama cordarochi adotta la coda si chiama codardochi adora l’azzardo si attarda col dado

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chi ha un dardo nel cuore lo strappa in ritardochi è ladro di rado si sdraia su un cardosoffrigge col lardo chi è cuoco di bordo.

b) Un corrispettivo dell’antipatia di Scialoja per le frasi fatte si ritrova nel suo gusto di rovesciare i ruoli; in GGT 143 un insetto finito in un bicchiere di aperitivo, e dunque votato a probabile morte anche perché invischiato dalle sostanze zuccherine della bevanda, si rivolge all’io poe-tante guardando a lui come un non-vivo perché privo della capacità (rea-le? figurata?) di spiccare il volo:

Calata nel calicedell’aperitivoun’ape che tremami scruta in tralicedal vetro e mi dice:« Per essere vivoti manca una piuma! ».

c) frequente è un procedimento, ampiamente praticato già dal Bur-chiello, per il quale la perdita di coerenza si accompagna a un forte au-mento degli indicatori della coesione testuale, cioè dei connettivi tipici di un discorso organizzato razionalmente e scandito da ipotesi (se), da con-tro deduzioni (benché ) o anche dal riferimento a circostanze temporali (quando). In due esempi di VsP 63 e 94 il componimento si riduce a un periodo ipotetico (se X …, Y) di folgorante assurdità (ma nel primo caso l’apodosi può ben alludere al delirio del febbricitante):

Se cresce la febbrela porta si apreappare la leprein mezzo alla neveche turbina sempre;

Se la farfalla ha fatto la valigianon è azzurra né gialla: è tutta grigia.

Converrà ribadire che la perdita del senso superficiale, in poesia, è pur

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sempre una nozione relativa. In MAM 106 l’ipotetica dei vv. 3-4, appa-rentemente irrelata, coopera in realtà al concetto dominante in cui, col consueto spirito irreligioso, Scialoja vede nell’estasi mistica una pura « as-senza », la perdita del controllo sulla realtà (si legga l’ultimo verso), non il contatto con il divino e dunque una « presenza » piú intensa, una piena comprensione delle verità ultime:

In quel d’Assisi l’estasisui sassi è solo assenzadi attese se l’estateesausta ne fa senza.

« Sí, sí » dicono assisiangeli dagli sguardicolor dei fiordalisi:« È assurdo che sia tardi ».

Del resto, questo tipo di ipotetiche evanescenti, che invitano a cercare un senso riposto oltre la lettera del testo, è assai frequente in Poe, dun-que successivamente alla fase nonsensica (e certo non è una modalità esclusiva di Scialoja). Solo un esempio, dalla seconda quartina di Poe 223:

Chiusi l’ombrello in frettaal vento delle origini– la piazza era desertase calpestavo glicini.

Due esempi con connettivi temporale e concessivo (da MAM 22 e 14; e nel primo si noterà anche l’ultimo verso, che costituisce formalmente una frase giustapposta ma che, con talmente, implica un valore consecuti-vo nella sovraordinata):29

Quando l’iguana si sfila i guantitra i calicanti del Paraguaylo fa guardinga, con gesti esangui,

29. Cfr. L. Serianni, Italiano, Milano, Garzanti, 1997, xiv p. 134.

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guatando attorno, fiutando guai,talmente ha in uggia i guaraní;

Sotto un acero il rinocebenché lacero e di pecedorme in pace.Sotto un nocech’è di fronteronfa il ronte.

Con gli animali fantastici delle sue poesie l’autore intesse un dialogo che qualche volta è incardinato sul tu metastorico della tradizione poeti-ca (e fiabesca), ma altrove utilizza il lei della conversazione borghese.30 Cosí, in MAM 92 e 94 si dà del tu a una marmotta riluttante a salire su una « rossa carriola » (« Esclamo: “T’ho ammaestrata! Non far la matta, amo-re! ») e a una lepre, qui con sovrapposizione del ruolo canonico della donna amata31 (« Respiro sul tuo muso roseo di lepre e spio / che a sve-gliarti non sia questo odore di rose: / rose e rose traboccano attorno al nostro addio / ma il sonno di una lepre non sopporta la dose »), mentre si dà del lei a una fillossera (« Per quanto non mi fidi degli afidi verdastri / le dico: “Perché piange?” e le riannodo i nastri / mentre con gli occhi rossi fissa il cielo che stinge »).

Il dialogo con un’ape in VsP 104 dà luogo a una delle rare notazioni metalinguistiche della poesia di Scialoja:

Vidi l’ape e là per làseppi dirle: « Oh, vera perla! »Mi rispose: « Come faquesta iperbole a saperla? ».

30. Per gli allocutivi in poesia cfr. L. Serianni, La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma, Carocci, 2009, pp. 180-82.

31. Una voluta ambiguità che si ritrova anche altrove, per esempio in MAM 83 (« Vio-lento un vento soffia stanotte e mi risveglia, / ti riassesto la cuffia sul musino di triglia, / mi abbottono la maglia, sento il mare che muglia » ecc.), in cui il musino di triglia potrebbe non essere il volto affilato di una compagna – magari di un’anziana compagna che dorme con la cuffia – ma letteralmente di un pesce.

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L’interlocutore umano, verosimilmente femminile, è raro nella fase nonsensica e si affaccia non casualmente solo in ssA: abbiamo già incon-trato almeno un esempio utile (ssA 66: « Un cane percorreva l’ospeda-le ») e altro potremmo aggiungere, per esempio il seguente incipit (ssA 51), che evoca un tema tipico dell’idillio sentimentale32 ma che si caratte-rizza immediatamente per un componimento tipicamente scialojano (paronomasie, gusto del nome geografico come spunto fonico, coerenza testuale almeno dubbia del v. 3):

Ti ricordi gli storni che a storminei tramonti dei nostri bei giorniquando i treni si fanno notturniattorniavano Terni e dintorni?

Abbiamo esordito ricordando gli apprezzamenti venuti alla poesia di Scialoja – ai suoi giochi fonici, alla sua ricerca della parola come « incan-tevole meccanismo sonoro » –33 da parte di altri poeti; e, pur non rinun-ciando a far emergere il senso o i sensi che è pur dato riconoscervi né a ricostruire alcuni meccanismi che ne regolano il funzionamento, dob-biamo convenire che proprio in questo libero gioco linguistico sta il fa-scino della sua poesia. Del resto, ricordando il destarsi in sé bambino dell’interesse per i versi, Giovanni Giudici, un poeta che con Scialoja condivide quantomeno l’ironia – e l’autoironia – ha scritto:

Nelle poesie mi attirava la rima, credo soprattutto perché sembrava quasi di-spensare dal comprendere il concetto. Purché tornasse la rima andava tutto be-ne. E in fondo, benché stravagante, non era un approccio sbagliato.34

32. Si pensi, per es., a E. Praga, Brianza (in Id., opere, a cura di G. Catalano, Napoli, Rossi, 1969, p. 223): « Come è bella la sera in mezzo ai monti! / Te ne ricordi?… ti ricordi quando / si vagheggiava i rapidi tramonti / e tornavamo a braccio e sussurrando » ecc.

33. Per riprendere le parole che si leggono nel risvolto di copertina di ATC, sulle quali richiama giustamente l’attenzione Porta nella Prefazione a ssA, p. 6.

34. Si veda la Testimonianza di G. Giudici contenuta in L’oro e l’alloro. Letteratura ed eco-nomia nella tradizione occidentale, a cura di G. Ioli, Novara, Interlinea, 2003, pp. 105-7, a p. 105.

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IndIcI

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IndIcE dEI noMI

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IndIcE

Premessa, di Giuseppe Antonelli e Carla Chiummo 7

Giuseppe Antonelli, Il nonsoché del nonsenso 9

Marco Berisso, Preistoria (mancata) del ‘nonsense’ nella poesia me- dievale italiana 27

Michelangelo Zaccarello, Una forma istituzionale della poesia bur- chiellesca: la ricetta medica, cosmetica, culinaria tra parodia e ‘nonsense’ 47

Alessio Decaria, Con Burchiello dopo Burchiello. Il ‘nonsense’ nella poesia toscana del secondo ’400 65

Carla Chiummo, « sí grande Apelle, e non minore Apollo »: il ‘non- sense’ del Bronzino manierista 93

Pasquale Guaragnella, Il nonsense in alcune fiabe del ‘Pentame- rone’ di Giambattista Basile 125

Giuseppe Crimi, Un caso di poesia nonsensica secentesca: i sonetti della bugia di Francesco Moise Chersino 147

Massimo Castoldi, « Il prete ride e la serva balla ». Pietro Micheli e la storia del nonsenso 191

Toni Iermano, « Ah, l’Arte è una cosa ben misteriosa per me ». La real- tà fantastica di Cesare Zavattini 205

Barbara Silvia Anglani, Tutti a cena dal barone Manuel. Il ‘non- sense’ in Achille Campanile 229

Andrea Cedola, « Il mare della nonsenseria ». ‘Horcynus orca’ di ste- fano D’Arrigo 245

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indice

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Daniele Baglioni, Lingue inventate e ‘nonsense’ nella letteratura ita- liana del novecento 269

Andrea Afribo, Approssimazioni al ‘nonsense’ nella poesia italiana del novecento 289

Luca Serianni, Il gioco linguistico nella poesia di Toti scialoja 307

INDICI

Indice dei nomi 327

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composizione presso grafica elettronica in napoli

finito di stampare nel dicembre del mmixpresso ???????????

in napoli

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