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AA 2012-2013 SP 2013

Prof. Uberto MOTTA

Corso monografico di letteratura moderna

Le Odi e Il Giorno di Parini

(mercoledí 17-19h, MIS 3028)

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Calendario1) 20 febbraio2) 27 febbraio3) 6 marzo4) 13 marzo5) GIOVEDÌ 14 marzo, 17-19h (recupero del 24 aprile) MIS 30266) 20 marzo7) 27 marzo 3 aprile: vacanze di Pasqua8) 10 aprile9) 17 aprile 24 aprile: lezione sospesa – recupero: 14 marzo10) 1 maggio11) GIOVEDÌ 2 maggio, 17-19h (recupero del 15 maggio) MIS 302612) 8 maggio 15 maggio: lezione sospesa – recupero: 2 maggio13) 22 maggio14) 29 maggio

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Bibliografia (1)

Edizione d’usoG. Parini, Il Giorno. Le Odi, a cura di Giuseppe Nicoletti, Milano, Rizzoli-BUR, 2011. Edizioni di consultazioneG. Parini, Poesie e prose, a cura di Lanfranco Caretti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951.G. Parini, Il Giorno, ed. critica a cura di D. Isella, 2 voll., Milano-Napoli, Ricciardi, 1969.G. Parini, Le Odi, ed. critica a cura di D. Isella, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975.G. Parini, Il Giorno, edizione critica di Dante Isella, commento di Marco Tizi, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda Editore, 1996.G. Parini, Le Odi, a cura di Nadia Ebani, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda Editore, 2010.

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Bibliografia (2)R. Spongano, Il primo Parini, Bologna, Patron, 1963.L. Poma, Stile e società nella formazione del Parini, Pisa, Nistri-Lischi, 1967.D. Isella, L’officina della «Notte» e altri studi pariniani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968.R. Leporatti, Per dar luogo a la notte. Studi sull’elaborazione del «Giorno» del Parini, Firenze, Le Lettere, 1990.M. Tizi, La lingua del «Giorno» e altri studi, Lucca, Pacini Fazzi, 1997.Interpretazioni e letture del «Giorno», Atti del Convegno (2-4 ottobre 1997), a cura di G. Barbarisi e E. Esposito, Milano, Cisalpino, 1998.L’amabil rito. Società e cultura nella Milano del Parini, Atti del Convegno (8-10 novembre e 14-16 dicembre 1999), 2 voll., Milano, Cisalpino, 2000.Le buone dottrine e le buone lettere, Atti del Convegno (17-19 novembre 1999), a cura di B. Martinelli, C. Annoni e G. Langella, Milano, Vita e Pensiero, 2001.Rileggendo Giuseppe Parini. Storia e testi, Atti del Convegno (10-12 maggio 2010), a cura di M. Ballarini e P. Bartesaghi, Milano, Biblioteca Ambrosiana, 2011.

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Milano nel Settecento• 1706, il Ducato di Milano è integrato all’Impero Asburgico• 1740, sale al trono Maria Teresa d’Austria• 1780, morte di Maria Teresa e successione di Giuseppe II• 1790, morte di Giuseppe II; gli succede il fratello Leopoldo

II, e alla morte di questi (1792) sale al trono Francesco II• 1796-97, campagna d’Italia di Napoleone. Costituzione

della Repubblica Cisalpina, di cui Milano è capitale

• Nel 1769 Milano ha 125mila abitanti : il 4% nobili (5160), il 5% ecclesiastici (6670), il 91% (114500) terzo stato (di cui 64800 donne, fanciulli o vecchi, e 49700 individui attivi).

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La cultura milanese alla metà del Settecento

• Accademia dei Trasformati, 1743-1768, fondata dal conte Giuseppe Maria Imbonati

► autori dialettali: Carl’Antonio Tanzi, Domenico Balestrieri, Giancarlo Passeroni

• Accademia dei Pugni, 1761-1766, fondata da Pietro e Alessandro Verri

► 1764, Dei delitti e delle pene ► 1764-66, «Il Caffè»

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Pietro Verri, Perché mai gli uomini di lettere erano onorati nei tempi addietro, e lo sono sì poco ai tempi nostri?

“Sorge una disputa fra due o più oscuri scrittori per sapere qual fosse la patria d’Omero, di Plinio, del Tasso, e che so io: ciascuno vi suda degli anni, e partorisce un grosso tomo, e lo fa stampare, e poi si lagna perché nessuno lo legga. Ma che vuole egli, che gli uomini s’annoino a leggere un ammasso disordinato di rottami d’erudizione per cavarne poi una notizia la quale non contribuisce in nulla al bene di alcuno? Viene un altro, e vi scarabocchia egloghe, sonetti, eterne inezie in rima, le quali partono da un animo vôto d’idee, e non lasciano al lettore che il rimorso d’avere malamente speso il suo tempo: con quale titolo pretende egli alla stima de’ suoi contemporanei? Scrivete, o giovani di talento, giovani animati da un sincero amore del vero e del bello, scrivete cose che riscuotano dal letargo i vostri cittadini, e gli spingano a leggere, e a rendersi più colti; sferzate i ridicoli pregiudizi che incatenano gli uomini, e gli allontanano dal ben fare; comunicate agli uomini le idee chiare, utili e ben disposte; cercate in somma di rendere migliori e nel cuore e nello spirito i vostri contemporanei”.

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D. Balestrieri, Rime milanesi: Sora l’ignoranza (ed. 1774)

De ignoranza ghe n’è propri a baloche par quistalla no ghe va sudor,e l’è par quest che ’n vedem minga pocch,che la cobbien col titol de dottor. La tacca l’ignoranza e sciori e sbiocch,ma in di sciori la troeuva de impostor,c’hin marzocch, e no passen par marzocchmediant i fed fals di adulator.

Gh’è l’ignoranza, che la se po’ dìde so pè; gh’è poeù l’oltra de chi lassamal coltivaa on talent, che ’l pò fruttì.

Ma via d’on cert epitet tutt coss passa;el mè brusor de stomegh l’è a sentìquella, che ciammen ignoranza grassa.

Di ignoranza ce n’è proprio a bizzeffe e non occorre sudare per acquistarla; per questo ne vediamo non pochi, che la accompagnano col titolo di dottore.L’ignoranza contagia ricchi e miserabili, ma fra i ricchi trova degli impostori, i quali pur essendo dei babbei non passano per tali, grazie alle false attestazioni degli adulatori.C’è l’ignoranza che su può definire naturale; c’è poi l’altra di chi lascia mal coltivato un talento, che potrebbe dare frutti.Ma tutto è ammissibile, tranne un certo epiteto; mi viene il brucior di stomaco sentendo quella che chiamano ignoranza crassa.

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Giuseppe Parini (1729-1799)Tratti fondamentali di una personalità complessa

• l’umile origine• l’innata vocazione pedagogica • la fermissima fede nell’utilità sociale della

poesia e della cultura• la concezione non formale del cristianesimo

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J.B. D’Alembert, Essai sur la société des gens de lettres et des grands (1753)

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Appunti per una biografia (I)• 1729, nascita• 1738, trasferimento a Milano• 1740-52, studi presso la scuola di Sant’Alessandro

dei padri Barnabiti• 1752, Alcune poesie di Ripano Eupilino• 1753, ingresso nell’Accademia dei Trasformati• 1754-62, precettore in casa dei duchi Serbelloni• 1763-68, precettore in casa dei conti Imbonati• 1763, Il Mattino• 1765, Il Mezzogiorno

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Appunti per una biografia (II)

• 1768, nomina a poeta del Regio Ducale Teatro• 1769, redattore della «Gazzetta di Milano» e

professore di eloquenza e belle lettere alle Scuole Palatine

• 1771, Ascanio in Alba• 1774, membro della commissione per la riforma delle

scuole• 1776, membro della Società patriottica• 1791 sovrintendente alle Scuole pubbliche; edizione

delle Odi (a c. di A. Gambarelli)• 1799, morte

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Alcune poesie di Ripano Eupilino, I

Voi, che sparsi ascoltate in rozzi accentii pregi eccelsi della Donna mia,non istupite, se tra questi fiacosa ch'avanzi 'l creder delle genti; poichè, sebbene per laudarla i' tentile penne alzar per ogni alpestre via,quel che meglio però dir si devria,riman coperto alle terrene menti. Nè sia chi dall'esterno mio dolore,onde in pianti mi struggo a poco a poco,misuri la pietà dentro al suo core: perchè, quantunque in ogni tempo e locofar mostra i' soglia del mio grande ardore,assai maggior, ch'i' non dispiego, è 'l foco.

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Alcune poesie di Ripano Eupilino, LXXIII

O Fortuna, Fortuna crudelaccia,

che se' fatta per mia disperazione;

Fortuna non più no, ma Fortunaccia,

ha a durare un pezzo sta canzone?

Vogliam finirla, e volger quella faccia

un poco ancora alle buone persone?

Che sì, che mi daresti roba a braccia

s'io t'avessi la ciera d'un briccone?

S'io fossi, verbigrazia, una puttana,

o un castrato, o una cantatrice,

o un bel marmocchio, ovvero una ruffiana?

Allora sì diventerei felice.

Ma perchè osservo la legge cristiana,

ognun mi scaccia, ognun mi maladice,

e son sempre infelice.

Ma vivrò, sguaiataccia, al tuo dispetto;

e se ti grappo un dì per quel ciuffetto,

te lo strappo di netto:

sicchè i ragazzi, a vederti sì bella,

t'abbian a gridar dietro: — Vella, vella!

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Alcune poesie di Ripano Eupilino, LXXXI

Voi me ne avete fatti tanti e tantidi questi vostri attacci arcipoltroni,che se tornate a rompermi i. . . . . . . .vi tratterò da birbe e da furfanti. Voi siete una tormaccia di pedanti,che non volete intender le ragioni;e perchè fate i saggi e i dottoronistimate gli altri goffi ed ignoranti. Che c'è egli drento in que' vostri libraccia non volere che sien letti maiquando voi nol volete, ignorantacci? Il diavol, credo, che vi salti omaisu que' vostri muffati granellacci,e vi faccia gridare: — Ahi ahi ahi ahi! —

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Opere di Giuseppe Parini, a cura di F. Reina, 6 voll., Milano 1801-1804

F. Reina, Vita di Giuseppe Parini

GIUSEPPE PARINI da Bosisio terra del Milanese situata presso il Lago di Pusiano nacque il 29 maggio 1729 di oscuri, ma civili parenti. Il padre suo, che teneramente l'amava, benchè possessore di un solo poderetto, recossi a vivere in Milano, per dare al vivacissimo ed ingegnoso figliuolo una diligente. Questi applicò alle Umane Lettere, ed alla Filosofia nel Ginnasio Arcimboldi diretto da' Barnabiti, e gli studj suoi furono, quali da' tempi volevansi, infelici. Apparve in esso di buon'ora un genio libero filosofico e singolarmente dedito alla Poesia; nè vi si richiese meno della paterna autorità, per istrascinarlo repugnante alla Teologia, ed al Sacerdozio. educazione.

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G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (I)

Poeta. Questo è un luogo ove tutti riescono pari; e coloro, che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassù, una buona fiata [> volta] che sien giunti qua, trovansi perfettamente appaiati [> agguagliati] a noi altra canaglia: non ècci [> vi è] altra differenza, se non che, chi più grasso ci giugne, così anco più vermi se 'l mangiano. Voi avete in oltre a sapere che quaggiù solo [> solamente] stassi ricoverata la verità. Quest'aria malinconica, che qui si respira fino a tanto che reggono i polmoni, non è altro che verità, e le parole, ch'escono di bocca, il sono pure.

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G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (II)

Poeta. Onde vien egli però che, quando io era colassù tra' viventi, a me pareva che una così gran parte di voi altri fosse ignorante, stupida, prepotente, avara, bugiarda, accidiosa, ingrata, vendicativa e simili altre gentilezze? Forse che talora per qualche impensato avvenimento si è introdotta qualche parte del nostro sangue eterogeneo per entro a que' purissimi canali de' vostri antenati? Ed onde viene ancora, che tra noi altra plebe io ho veduto tante persone letterate [> scienziate], valorose, intraprendenti, liberali, gentili, magnanime e dabbene? Forse che qualche parte del vostro purissimo sangue vien talora, per qualche impensato avvenimento, ad introddursi negli oscuri canali di noi altra canaglia?

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G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (III)Poeta. Non vi sembra egli giusto che, se voi avete ereditato i loro meriti, così ancora dobbiate ereditare i loro demeriti, a quella guisa appunto che chi adisce un'eredità assume con essa il carico de' debiti che sono annessi a quella? e che per ciò, se quelli furono onorati, siate onorato ancora voi, e, se quelli furono infami, siate infamato voi pure? Nobile. No certo, ché cotesto non mi parrebbe né convenevole né giusto.Poeta. E perché ciò?Nobile. Perché io non sono per verun modo tenuto a rispondere delle azioni altrui.Poeta. Per qual ragione?Nobile. Perché, non avendole io commesse, non ne debbo perciò portare la pena.Poeta. Volpone! voi vorreste adunque godervi l'eredità, lasciando altrui i pesi, che le appartengono, eh! Voi vorreste adunque lasciare a' vostri avoli la viltà del loro primo essere, la malvagità delle azioni di molti di loro e la vergogna che ne dee nascere, serbando per voi lo splendore della loro fortuna, il merito delle loro virtù, e l'onore ch'eglino si sono acquistati con esse. Nobile. Tu m'hai così confuso, ch'io non so dove io m'abbia il capo.

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G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (I)

Non siete voi letterato? Non siete voi cittadino? Non siete voi cristiano? Non siete voi Religioso? […] Le scienze vi debbon pure avere insegnato che tanto vale l’uno quanto l’altr’uomo: gli obblighi del cittadino debbono avervi ammaestrato a non far veruna distinzione tra i vostri compatriotti, quando questi, ciascuno per la sua via, tendono alla comune felicità: la carità del cristiano a portare e mostrare anche nelle menome cose amore indistintamente ed universalmente a tutti quanti i prossimi vostri: e l’osservanza religiosa, per fine, a perfezionare in voi tutte queste virtù, che debbono esser proprie del letterato, del cittadino e del cristiano. Ecco le riprensioni che vi si potrebbero fare, se voi vi burlaste delle povere femminelle milanesi contra i doveri del cittadino, e contra il precetto il qual dice: Merita pena colui che chiama il suo fratello pazzo o carogna ‑[cfr. Mt 5,22: “chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna”].

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G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (II)Ma via, sia pur vero che voi abbiate biasimato solamente il linguaggio della plebe nostra, come andate dicendo nel secondo Dialogo. Tenete però voi in così piccolo conto questa lingua, che meriti d’esser chiamata, anche in presenza di chi la parla, lingua d’oca, lingua sgraziata, goffa, fetente, unta, lercia, scipita, disadatta? Questo linguaggio anzi della plebe, che voi nel secondo Dialogo volete aver solo biasimato, questo anzi è il vero e più puro linguaggio milanese, e quello per conseguenza che meno dovrebbe meritarsi le vostre derisioni.Le lingue, come voi medesimo a me potete insegnare, sono tutte indifferenti per riguardo alla intrinseca bruttezza o beltà loro. Le voci, onde ciascuna è composta, sono state somministrate agli uomini dalla necessità di spiegare e comunicarsi vicendevolmente i pensieri dello animo loro; e la Natura, a misura che negli uomini sono cresciute le idee, ha dato loro segni da poterle esprimere al di fuori: onde nasce che ciascuna lingua è abbastanza perfetta, qualora non manchino ad essa quelle voci che si richieggono a potere spiegare ciascuna idea di colui che la parla.

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G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (III)

Noi Milanesi siamo presso le altre nazioni distinti per la semplicità e per la schiettezza dello animo; e per quella nuda ed amorevole cordialità che è il più soave legame della società umana. […] Questa medesima schiettezza e semplicità, che i forestieri riconoscono come singolarmente propria della nostra nazione, è paruto di trovar nella nostra lingua milanese a coloro de’ nostri che posti sonosi ad esaminarne la natura. E, o sia che realmente i Milanesi non abbiano giammai appreso a favellare dall’arte, e non abbiano vocaboli o maniere di dire proprie a deludere altrui, siccome quelli che non ne hanno i pensieri; o sia che gli osservatori del nostro dialetto abbian creduto di vedere in esso ciò ch’eglino stessi desideravano; certa cosa è che la nostra lingua è sembrata loro spezialmente inchinata ad esprimer le cose tali e quali sono, senza aver grande bisogno in qualunque argomento di sostenerla con tropi e traslati ed altre maniere artifiziose del dire, che nate sono, o dalla mancanza dell’espressioni proprie e naturali. o dall’arte di sorprendere il cuore ferendo l’immaginazione.

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Due discorsi ai Trasformati

• 1761, Discorso sopra la poesia, BAM = ms con cancellature e correzioni autografe; Reina, IV, pp. 49-68

• 1762, Discorso sopra la carità, BAM = ms con cancellature e correzioni autografe; Reina, IV, pp. 100-121

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G. Parini, Discorso sopra la poesia (1761)

Il poeta, come si può dedurre da quel che di sopra abbiamo detto della poesia, dee toccare e muovere; e, per ottener ciò, dee prima esser tócco e mosso egli medesimo. Perciò non ognuno può esser poeta, come ognuno può esser medico e legista. Non a torto si dice che il poeta dee nascere. Egli dee aver sortito dalla natura una certa disposizione degli organi e un certo temperamento che il renda abile a sentire in una maniera, allo stesso tempo forte e dilicata, le impressioni degli oggetti esteriori; imperocchè come potrebbe dilicatamente o fortemente dipingerli ed imitarli chi per un certo modo grossolano ed ottuso le avesse ricevute? La poesia che consiste nel puro torno del pensiero, nella eleganza dell'espressione, nell'armonia del verso, è come un alto e reale palagio che in noi desta la maraviglia ma non ci penetra al cuore. Al contrario la poesia che tocca e muove, è un grazioso prospetto della campagna, che ci allaga e ci inonda di dolcezza il seno.

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G. Parini, Sopra la carità, 1762Quanto desiderabile cosa sarebbe mai che tutti coloro che sortito hanno dalla natura uno ingegno adatto alle Lettere, fossero stimolati allo studio ed allo scrivere non da una leggiere curiosità o da un vano amore di gloria; ma dalla carità de’ suoi prossimi, de’ suoi concittadini, del suo paese? Quanti inconvenienti non si verrebbono a schifare così, e di quanto maggior utile sarebbono le lettere e i letterati nel mondo! L’uomo che dalla semplice curiosità o dal solo amore della gloria è condotto alle lettere, non avviene giammai che non sia accompagnato nella sua carriera da uno stuolo di vizii, che a lui recano danno e notabilmente ostano all’altrui utilità, la quale ogni uomo dabbene dee proporsi per iscopo principale del suo operare. […] La nuda ambizione letteraria non solo è fabbricatrice di strane e pericolose opinioni per amore di singolarità; ma eziandio, per sua natura e per suo proprio interesse, si ostina pertinacemente in quelle; e, posciaché non le è permesso di sostenerle colla ragione, almeno tenta di farlo co’ sofismi, e con ciò che per onta della letteratura chiamasi cabala letteraria; e non di rado ancora colla prepotenza. […] Quell’uomo d’ingegno che sul principio della sua letteraria carriera è assistito dallo spirito della carità, prima d’ogni altra cosa riflette seco medesimo che l’uomo dabbene dee consacrare alla utilità de’ suoi prossimi, o sia della repubblica in cui vive, ciò che, oltre la conservazione di se medesimo, formar dee l’occupazione principale della sua vita.

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Struttura e storia interna del Giorno

• Giorno I = Mattino 1763 (due stampe; vv. 1083) e Mezzogiorno 1765 (vv. 1376)

• Giorno II = Mattino II (8 mss.; vv. 1166), Meriggio (2 mss.; vv. 1178), Vespro (1 ms.: 349 vv.), Notte (vari mss. per un totale di 673 vv.)

datazione approssimativa: 1777-1790 (più ►precisamente: 1784-88, con riprese tra il 1792 e il 1796)

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Lettera di G. Parini a G. Bodoni, 18.X.1791

Nella primavera ventura spero e quasi tengo per certo d’avere in pronto due poemetti, per séguito e per termine di quelli altri antichi due, che hanno avuto la fortuna di non dispiacere. Se mai ella mi facesse l’onore di meditar nulla anche intorno all’edizione di essi, ella si compiaccia di farmene cenno. I due primi uscirebbero corretti, variati in qualche parte e accresciuti. Così tutti e quattro verrebbero ad essere nuovi e ridotti in un slo poema, che avrebbe per titolo Il Giorno.

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Della vita e degli scritti di G. Parini. Lettere di due amici [Luigi Bramieri e Pompilio Pozzetti], Milano 1802, p. 47

• Pompilio Pozzetti afferma che Parini, da lui sollecitato a pubblicare l’opera, avrebbe risposto che dal 1796 «aveva cominciato a riguardare qual pretta viltà, niente men turpe che insaevire in mortuum, l'acconsentir, dopo tanto procrastinare, all'edizione d'uno scritto, ove si pungono di sarcasmo quelli singolarmente che nel gran corpo sociale formavano una classe distinta, di cui i politici cangiamenti sopraggiunti allora nel proprio paese facean veder manifesta la totale decadenza".

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D. Isella, Introduzione a Parini, Il Giorno, 1996

Parini non dovette mai avere un disegno generale, sia pure non rifinito nei dettagli, a cui rapportarsi; gli bastò, o gli parve all’inizio che potesse bastargli, l’ordine offertogli dal naturale succedersi delle ore del giorno, da un’alba all’altra: un filo molto semplice lungo il quale distribuire i molteplici «riti» del Bel Mondo, alcuni vincolati ad ore canoniche, altri più mobili. Ma per molte cose la collocazione rimaneva incerta, specie crescendo con gli anni il gusto dell’osservazione dal vero, lo spunto da taccuino. Fermo restando il tema dell’opera, costante l’idea del poema da compiere, Parini accettava ogni volta di buon grado i suggerimenti dell’occasione e, senza preoccuparsi più che tanto di come se ne sarebbe servito, componeva gruppi di versi che al momento non sapeva dove, e al limite neppure se, gli sarebbero potuti servire. […] Come pedine di una partita senza regole su una scacchiera senza caselle, fino a che ciascuno di essi trovi il suo posto immutabile in un equilibrio compositivo non preventivato. Il fatto però che Parini non sia arrivato al punto conclusivo del mobilissimo gioco combinatorio servirà a mettere in evidenza come ormai in lui forze le centrifughe di un’ispirazione lirica sensibile alle illuminazioni del particolare avessero il sopravvento sulla forza centripeta dell’ispirazione unitaria.

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Fonti e modelli

• Gian Lorenzo Lucchesini, In antimeridianas improbi iuvenis curas, 1672

• Pier Jacopo Martello, Il segretario Cliternate, 1717

• Alexander Pope, The rape of the Lock, 1712 (edd. trad. it.: 1739, 1750, 1760)

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L’endecasillabo sciolto

• Impiegato a partire dal Cinquecento: G. Trissino, L’Italia liberata dai Goti; L. Alamanni, La coltivazione; A. Caro, trad. dell’Eneide

→ poesia narrativa e discorsiva • Dal Settecento comincia a essere impiegato anche

in sede lirica (Carlo Innocenzo Frugoni)• 1757: ed. del vol. Versi sciolti di tre eccellenti

autori, cioè Algarotti, Frugoni e Bettinelli• 1763: ed. della trad. in end. Sciolti delle Poesie di

Ossian a c. di M. Cesarotti [orig. ingl. in prosa, opera di James Macpherson]

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La notte, vv. 601-617

Già per l'aula beata a cento intornoDispersi tavolier seggon le dive,Seggon gli eroi, che dell'Esperia sonoGloria somma o speranza. Ove di quattroUn drappel si raccoglie: e dove un altroDi tre soltanto. Ivi di molti e grandiFogli dipinti il tavolier si sparge:Qui di pochi e di brevi. Altri combatte;Altri sta sopra a contemplar gli eventiDe la instabil fortuna e i tratti egregiDel sapere o dell'arte. In fronte a tuttiGrave regna il consiglio: e li circondaMaestoso silenzio. Erran sul campoAgevoli ventagli, onde le dameCercan ristoro all'agitato spirtoDopo i miseri casi. Erran sul campoLucide tabacchiere.

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Il vespro, vv. 51-83

Ecco ella sorge; e del partir dà cenno:Ma non senza sospetti e senza baciA le vergini ancelle il cane affidaAl par de' giochi al par de' cari figliGrave sua cura: e il misero dolenteMal tra le braccia contenuto e i pettiBalza e guaisce in suon che al rude vulgoRibrezzo porta di stridente lima;E con rara celeste melodiaScende a gli orecchi de la dama e al core.Mentre così fra i generosi affettiE le intese blandizie e i sensi argutiE del cane e di sè la bella obliaPochi momenti; tu di lei più saggioUsa del tempo: e a chiaro speglio innanteI bei membri ondeggiando alquanto libra

Su le gracili gambe; e con la destraMolle verso il tuo sen piegata e mossaScopri la gemma che i bei lini annoda;E in un di quelle ond'hai sì grave il ditoL'invidiato folgorar cimenta:Poi le labbra componi; ad arte i guardiTempra qual più ti giova; e a te sorridi.Al fin tu da te sciolto, ella dal caneAmbo al fin v'appressate. Ella da i lumiSpande sopra di te quanto a lei lasciaD'eccitata pietà l'amata belva;E tu sopra di lei da gli occhi versiQuanto in te di piacer destò il tuo volto.Tal seguite ad amarvi: e insieme avvinti,Tu a lei sostegno, ella di te conforto,Itene omai de' cari nodi vostriGrato dispetto a provocar nel mondo.

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Il mezzogiorno, vv. 715-743

Or d'avi, or di cavalli, ora di FriniInstancabile parla, or de' CelestiLe folgori deride. Aurei monili,E gemme e nastri, gloriose pompeL'ingombran tutto; e gran titolo suonaDinanzi a lui. Qual più tra noi risplendeInclita stirpe, che onorar non vogliaD'un ospite sì degno i lari suoi?Ei però sederà de la tua DamaAl fianco ancora: e tu lontan da GiunoTra i Silvani capripedi n'andraiPresso al marito; e pranzerai neglettoCol popol folto degli Dei minori.

Ma negletto non già dagli occhi andraiDe la Dama gentil, che a te rivoltiIncontreranno i tuoi. L'aere a quell'urtoArderà di faville: e Amor con l'aliL'agiterà. Nel fortunato incontroI messaggier pacifici dell'almaCambieran lor novelle, e alternamenteSpinti, rifluiranno a voi con dolceDelizioso tremito sui cori.Tu le ubbidisci allora, o se t'invitaLe vivande a gustar che a lei vicineL'ordin dispose, o se a te chiede in veceQuella che innanzi a te sue voglie pungeNon col soave odor, ma con le noveLeggiadre forme onde abbellir la seppeDell'ammirato cucinier la mano.

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Alcune grandi scene

• Mattino: risveglio, vestizione, colazione, acconciatura

• Mezzogiorno/Meriggio: il rito del pranzo, la passeggiata in carrozza lungo il corso

• Vespro: la visita all’amica malata la sfilata notturna delle carrozze

• Notte: i giochi in un salotto aristocratico

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G. Parini, Il Giorno I, Alla ModaA te vezzosissima Dea, che con sì dolci redine oggi temperi, e governi la nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo Libretto si dedica, e si consagra. Chi è che te qual sommo Nume oggimai non riverisca, ed onori, poichè in sì breve tempo se' giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso, e l'Ordine seccagginoso tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci questo secolo avventurato? Piacciati adunque di accogliere sotto alla tua protezione, che forse non n'è indegno, questo piccolo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari ove le gentili Dame, e gli amabili Garzoni sagrificano a se medesimi le mattutine ore. Di questo solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e contento. Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in Versi Sciolti, sapendo, che tu di questi specialmente ora godi, e ti compiaci. Esso non aspira all'immortalità, come altri libri, troppo lusingati da' loro Autori, che tu, repentinamente sopravvenendo, hai seppelliti nell'oblìo. Siccome egli è per te nato, e consagrato a te sola, così fie pago di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cangiarti, e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà riguardare con placid'occhio questo Mattino forse gli succederanno il Mezzogiorno, e la Sera; e il loro Autore si studierà di comporli, ed ornarli in modo, che non men di questo abbiano ad esserti cari.

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Il Mattino 1763, vv. 1-15

Giovin Signore, o a te scenda per lungoDi magnanimi lombi ordine il sanguePurissimo celeste, o in te del sangueEmendino il difetto i compri onoriE le adunate in terra o in mar ricchezzeDal genitor frugale in pochi lustri,Me Precettor d'amabil Rito ascolta.Come ingannar questi nojosi e lentiGiorni di vita, cui sì lungo tedioE fastidio insoffribile accompagnaOr io t'insegnerò. Quali al Mattino,Quai dopo il Mezzodì, quali la SeraEsser debban tue cure apprenderai,Se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti restaPur di tender gli orecchi a' versi miei.

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«Di magnanimi lombi ordine il sangue» (Matt. I v. 2)

Nel secondo verso appare per la prima volta una situazione ritmica a cui Parini ricorre in misura crescente nell’elaborazione del Giorno: «l’endecasillabo con sinalefe in settima sede, in cui figuri, come secondo elemento [della sinalefe], una parola, piana o sdrucciola, iniziante per vocale accentata […], dove lo stacco rilevato dall’accento della vocale (una sorta di dialefe nella sinalefe) impenna il verso e lo tiene verticalmente sospeso: un attimo, per poi riprendere con più ampio respiro o per scendere rapido alla chiusa» (Isella, L’officina, p. 51). La figura giova qui a mettere il rilievo il sostantivo ordine, a distanza dall’aggettivo lungo, impiegato nel senso latino di ‘successione’.

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Mattino I, 1-4: la tecnica dell’enjambement + iperbatoGiovin Signore, o a te scenda per lungoDi magnanimi lombi ordine il sanguePurissimo celeste, o in te del sangueEmendino il difetto i compri onori

«Il ritmo è tutto orientato nel senso del movimento, del rapporto tra gli endecasillabi. Ma la caduta dell’unità-verso non porta con sé anche quella dello scatto che dà al ritmo la fine del verso. […] Lo sforzo maggiore è però sopportato da un’istituzione tipicamente pariniana, come l’inversione al limite, che […] nasce dalla soppressione dell’enjambement dellacasiano, di nome più aggettivo, troppo logorato dalla tradizione pastorale. In questa sede l’inversione si attua naturalmente con un movimento di clausola […] dove sia l’inserzione del verbo che quella dell’aggettivo bloccano il frammento, e rinnovano, riscattano la sua personalità ritmica» (P. Citati, Per una storia del Giorno, 1954, pp. 16-17).

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Il Mattino 1763, vv. 33-52

Sorge il Mattino in compagnìa dell'AlbaInnanzi al Sol che di poi grande appareSu l'estremo orizzonte a render lietiGli animali e le piante e i campi e l'onde.Allora il buon villan sorge dal caroLetto cui la fedel sposa, e i minoriSuoi figlioletti intepidìr la notte;Poi sul collo recando i sacri arnesiChe prima ritrovàr Cerere, e Pale,Va col bue lento innanzi al campo, e scuoteLungo il piccol sentier da' curvi ramiIl rugiadoso umor che, quasi gemma,I nascenti del Sol raggi rifrange.

Allora sorge il Fabbro, e la sonanteOfficina riapre, e all'opre tornaL'altro dì non perfette, o se di chiaveArdua e ferrati ingegni all'inquietoRicco l'arche assecura, o se d'argentoE d'oro incider vuol giojelli e vasiPer ornamento a nuove spose o a mense.

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Il Mattino 1763, vv. 53-76Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,Qual istrice pungente, irti i capegliAl suon di mie parole? Ah non è questo,Signore, il tuo mattin. Tu col cadenteSol non sedesti a parca mensa, e al lumeDell'incerto crepuscolo non gistiIeri a corcarti in male agiate piume,Come dannato è a far l'umile vulgo.A voi celeste prole, a voi concilioDi Semidei terreni altro concesseGiove benigno: e con altr'arti e leggiPer novo calle a me convien guidarvi.

Tu tra le veglie, e le canore scene,E il patetico gioco oltre più assaiProducesti la notte; e stanco alfineIn aureo cocchio, col fragor di caldePrecipitose rote, e il calpestìoDi volanti corsier, lunge agitastiIl queto aere notturno, e le tenèbreCon fiaccole superbe intorno apristi,Siccome allor che il Siculo terrenoDall'uno all'altro mar rimbombar feoPluto col carro a cui splendeano innanziLe tede de le Furie anguicrinite.

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Il Mattino II, vv. 1-20

Sorge il Mattino in compagnìa dell'AlbaDinanzi al Sol che di poi grande appareSu l'estremo orizzonte a render lietiGli animali e le piante e i campi e l'onde.Allora il buon villan sorge dal caroLetto cui la fedel moglie, e i minoriSuoi figlioletti intepidìr la notte;Poi sul dorso portando i sacri arnesiChe prima ritrovò Cerere o Pale,Move seguendo i lenti bovi, e scuoteLungo il piccol sentier da' curvi ramiIl rugiadoso umor che di gemme al paroLa nascente del Sol luce rifrange.

Allora sorge il Fabbro, e la sonanteOfficina riapre, e all'opre tornaL'altro dì non perfette, o se di chiaveArdua e ferrati ingegni all'inquietoRicco l'arche assecura, o se d'argentoE d'oro incider vuol giojelli e vasiPer ornamento a nuove spose o a mense.

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Il Mattino II, vv. 21-44Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,Qual istrice pungente, irti i capegliAl suon di mie parole? Ah il tuo mattinoSignor, questo non è. Tu col cadenteSol non sedesti a parca cena, e al lumeDell'incerto crepuscolo non gistiIeri a posar qual ne’ tuguri suoiEntro a rigide coltri il vulgo vile.A voi celeste prole, a voi concilioAlmo di Semidei altro concesseGiove benigno: e con altr'arti e leggiPer novo calle a me guidarvi è d’uopo.

Tu tra le veglie, e le canore scene,E il patetico gioco oltre più assaiProducesti la notte; e stanco alfineIn aureo cocchio, col fragor di caldePrecipitose rote, e il calpestìoDi volanti corsier, lunge agitastiIl queto aere notturno, e le tenèbreCon fiaccole superbe intorno apristi,Siccome allor che il Siculo terrenoDall'uno all'altro mar rimbombar feoPluto col carro a cui splendeano innanziLe tede de le Furie anguicrinite.

Page 44: AA 2012-2013 SP 2013 Prof. Uberto MOTTA Corso monografico di letteratura moderna Le Odi e Il Giorno di Parini (mercoledí 17-19h, MIS 3028)

Mezzogiorno (vv. 1376)vv. 1-1194: «Ardirò ancor tra i desinari illustri… che ancor l’antico strepito dinota»

vv. 1195-1219, «Già de le fere, e degli augelli il giorno… che da tutti servito, a nullo serve»

vv. 1220-1376, «Già di cocchi frequente il corso… splende… per entro al tenebroso umido velo»

Meriggio (vv. 1178)vv. 1-1178: «Ardirò ancor fra i desinari illustri… che ancor l’antico strepito dinota»

Vespro vv. 1-25, «Ma de gli augelli e de le fere il giorno… che da tutti servito, a nullo serve»

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Il Mezzogiorno, vv. 1-6

Ardirò ancor tra i desinari illustriSul Meriggio innoltrarmi umil Cantore,Poichè troppa di te cura mi punge,Signor, ch'io spero un dì veder maestroE dittator di graziosi modiAll'alma gioventù che Italia onora.

Purg. XXIV 58-60Io veggio ben come le vostre pennedi retro al dittator sen vanno strette,che de le nostre certo non avvenne.

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Il Mezzogiorno, vv. 250-267Forse vero non è; ma un giorno è fama,Che fur gli uomini eguali; e ignoti nomiFur Plebe, e Nobiltade. Al cibo, al bere,All'accoppiarsi d'ambo i sessi, al sonnoUn istinto medesmo, un'egual forzaSospingeva gli umani: e niun consiglioNiuna scelta d'obbietti o lochi o tempiEra lor conceduta. A un rivo stesso,A un medesimo frutto, a una stess'ombraConvenivano insieme i primi padriDel tuo sangue, o Signore, e i primi padriDe la plebe spregiata. I medesm'antriIl medesimo suolo offrieno loroIl riposo, e l'albergo; e a le lor membraI medesmi animai le irsute vesti.Sol'una cura a tutti era comuneDi sfuggire il dolore, e ignota cosaEra il desire agli uman petti ancora.

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Il Mezzogiorno, vv. 517-556[…] Or le sovviene il giorno,Ahi fero giorno! allor che la sua bellaVergine cuccia de le Grazie alunna,Giovenilmente vezzeggiando, il piedeVillan del servo con l'eburneo denteSegnò di lieve nota: ed egli audaceCon sacrilego piè lanciolla: e quellaTre volte rotolò; tre volte scosseGli scompigliati peli, e da le molliNari soffiò la polvere rodente.Indi i gemiti alzando: aita aitaParea dicesse; e da le aurate volteA lei l'impietosita Eco rispose:E dagl'infimi chiostri i mesti serviAsceser tutti; e da le somme stanzeLe damigelle pallide tremantiPrecipitàro. Accorse ognuno; il voltoFu spruzzato d'essenze a la tua Dama;Ella rinvenne alfin: l'ira, il dolore

L'agitavano ancor; fulminei sguardiGettò sul servo, e con languida voceChiamò tre volte la sua cuccia: e questaAl sen le corse; in suo tenor vendettaChieder sembrolle: e tu vendetta avestiVergine cuccia de le grazie alunna.L'empio servo tremò; con gli occhi al suoloUdì la sua condanna. A lui non valseMerito quadrilustre; a lui non valseZelo d'arcani uficj: in van per luiFu pregato e promesso; ei nudo andonneDell'assisa spogliato ond'era un giornoVenerabile al vulgo. In van novelloSignor sperò; chè le pietose dameInorridìro, e del misfatto atroceOdiàr l'autore. Il misero si giacqueCon la squallida prole, e con la nudaConsorte a lato su la via spargendoAl passeggiere inutile lamento:E tu vergine cuccia, idol placatoDa le vittime umane, isti superba.

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Il Mezzogiorno, v. 533: Precipitaro…«La collocazione enfatica del verbo a inizio verso, staccato in enjambement dal soggetto, determina un parallelismo oppositivo con i vv. 530-31 («i mesti servi / asceser tutti») ed è parte di un effetto cumulativo che coinvolge i sette versi successivi («Fu spruzzato», «Ella rinvenne», «L’agitavano», «Chiamò», «Al sen le corse», «Chieder sembrolle»), contribuendo alla concitazione narrativa in modo solidale con la frammentazione metrico-sintattica. Da notare, agli stessi fini, la polarità metrica che si instaura coi successivi vv. 543-548, dove la serialità anaforica concerne i secondi emistichi («A lui non valse», «a lui non valse», «in van per lui», «In van novello»). A partire dall’episodio della vergine cuccia, Parini si avvarrà sempre più spesso delle risorse enfatiche connesse alla seriale frammentazione metrico-sintattica degli endecasillabi» (M. Tizi)

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E ¦ tu ¦ ver¦ gi¦ ne ¦ cuc¦cia,^i¦ dol ¦ pla¦ca ¦ to 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 Da ¦ le ¦ vit ¦ ti ¦ me^u¦ ma ¦ne,^i¦ sti ¦ su¦per¦ba 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

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Il Mezzogiorno, vv. 1220-1254

Già di cocchi frequente il Corso splende:E di mille che là volano roteRimbombano le vie. Fiero per novaScoperta biga il giovine leggiadroChe cesse al carpentier gli avìti campiLà si scorge tra i primi. All'un de' latiSdrajasi tutto: e de le stese gambeLa snellezza dispiega. A lui nel senoLa conoscenza del suo merto abbonda;E con gentil sorriso arde e balenaSu la vetta del labbro; o da le ciglia,Disdegnando, de' cocchi signoreggiaLa turba inferior: soave intantoEgli alza il mento, e il gomito protende;E mollemente la man ripiegando,

I merletti finissimi su l'altoPetto si ricompon con le due dita.Quinci vien l'altro che pur oggi al cocchioDai casali pervenne, e già s'ascriveAl concilio de' numi. Egli oggi imparaA conoscere il vulgo, e già da quelloMille miglia lontan sente rapirsiPer lo spazio de' cieli. A lui davantiOssequiosi cadono i cristalliDe' generosi cocchi oltrepassando;E il lusingano ancor perchè sostegnoSia de la pompa loro. Altri ne vieneChe di compro pur or titol si vanta;E pur s'affaccia, e pur gli orecchi porge,E pur sembragli udir da tutti i labbriSonar le glorie sue: Mal abbia il lungoDe le rote stridore, e il calpestìoDe' ferrati cavalli, e l'aura, e il ventoChe il bel tenor de le bramate vociScender non lascia a dilettargli 'l core.

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Mz 1229: E con gentil sorriso arde e balenaTasso, GL, XIX 70 1-4: Alza alfin gli occhi Armida, e pur alquanto / la bella fronte sua torna serena; / e repente fra i nuvoli del pianto / un soave sorriso apre e balena.

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Il Mezzogiorno, 1255-1282

Di momento in momento il fragor cresce,E la folla con esso. Ecco le vagheA cui gli amanti per lo dì solenneMendicarono i cocchi. Ecco le graviMatrone che gran tempo arser di zeloContro al bel Mondo, e dell'ignoto CorsoLa scelerata polvere dannàro;Ma poi che la vivace amabil proleCrebbe, e invitar sembrò con gli occhi Imene,Cessero alfine; e le tornite braccia,E del sorgente petto i rugiadosiFrutti prudentemente al guardo aprìroDei nipoti di Giano. Affrettan quindiLe belle cittadine, ora è più lustriNote a la Fama, poi che ai tetti loroDedussero gli Dei; e sepper meglio,

E in più tragico stil da la toiletteAi loro amici declamar l'istoriaDe' rotti amori; ed agitar repenteCon celebrata convulsion la mensa,Il teatro, e la danza. Il lor ventaglioIrrequieto sempre or quinci or quindiCon variata eloquenza esce e saluta.Convolgonsi le belle: or su l'un fiancoOr su l'altro si posano tentennanoVolteggiano si rizzan, sul cuscinoRicadono pesanti, e la lor voceAcuta scorre d'uno in altro cocchio.

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Il Mezzogiorno 1195-1219 Il Vespro 1-25

Già de le fere, e degli augelli il giorno,E de' pesci notanti, e de' fior varj,Degli alberi, e del vulgo al suo fin corre.Di sotto al guardo dell'immenso FeboSfugge l'un Mondo; e a berne i vivi raggiCuba s'affretta, e il Messico, e l'altriceDi molte perle California estrema.Già da' maggiori colli, e da l'eccelseTorri il Sol manda gli ultimi salutiAll'Italia, fuggente; e par, che bramiRivederti, o Signore, anzi che l'Alpe,O l'Appennino, o il mar curvo ti celiAgli occhi suoi. Altro finor non vide,

Ma de gli augelli e de le fere il giornoE de' pesci squammosi e de le pianteE dell'umana plebe al suo fin corre.Già sotto al guardo de la immensa luceSfugge l'un mondo: e a berne i vivi raggiCuba s'affretta e il Messico e l'altriceDi molte perle California estrema:E da' maggiori colli e dall'eccelseRocche il sol manda gli ultimi salutiAll'Italia fuggente; e par che bramiRivederti o Signor prima che l'alpeO l'appennino o il mar curvo ti celiA gli occhi suoi. Altro finor non vide

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Che di falcato mietitore i fianchiSu le campagne tue piegati e lassi,E su le armate mura or fronti or spalleCarche di ferro, e su le aeree capreDegli edificj tuoi man scabre e arsicce,E villan polverosi innanzi ai carriGravi del tuo ricolto, e sui canaliE sui fertili laghi irsute bracciaDi remigante che le alterne merciAl tuo comodo guida ed al tuo lusso,Tutt'ignobili oggetti. Or colui vegga,Che da tutti servito, a nullo serve.

Che di falcato mietitore i fianchiSu le campagne tue piegati e lassi,E su le armate mura or braccia or spalleCarche di ferro, e su le aeree capreDe gli edificj tuoi man scabre e arsicce,E villan polverosi innanzi a i carriGravi del tuo ricolto, e su i canaliE su i fertili laghi irsuti pettiDi remigante che le alterne merciA' tuoi comodi guida ed al tuo lusso;Tutti ignobili aspetti. Or colui veggiaChe da tutti servito a nullo serve.

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G. Carducci, Storia del «Giorno»

«Felicissimo il trasferimento dal Mezzogiorno a qui della descrizione del tramonto. L’apertura del poemetto risponde così al principio del Mattino e al principio della Notte; e sta fra i due mirabile nella novità e larghezza della rappresentazione naturale e nella potenza ed efficacia della rappresentazione morale, riaffermando a mezzo il poema gli intendimenti sociali ed umani».

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Il Vespro, 270-303

Già le fervide amiche ad incontrarseVolano impazienti; un petto all'altroGià premonsi abbracciando; alto le goteD'alterni baci risonar già fanno;Già strette per la man co' dotti fianchiAd un tempo amendue cadono a piomboSopra il sofà. Qui l'una un sottil mottoVibra al cor dell'amica; e a i casi alludeChe la Fama narrò: quella repenteCon un altro l'assale. Una nel visoDi bell'ire s'infiamma: e l'altra i vaghiLabbri un poco si morde: e cresce in tantoE quinci ognor più violento e quindiIl trepido agitar de i duo ventagli.Così, se mai al secol di TurpinoDi ferrate guerriere un paro illustreSi scontravan per via, ciascuna ambivaL'altra provar quel che valesse in arme;

E dopo le accoglienze oneste e belleAbbassavan lor lance e co' cavalliUrtavansi feroci; indi infocateDi magnanima stizza i gran tronconiGittavan via de lo spezzato cerro,E correan con le destre a gli elsi enormi.Ma di lontan per l'alta selva fieraUn messagger con clamoroso suonoVenir s'udiva galoppando; e l'unaRichiamare a re Carlo, o al campo l'altraDel giovane Agramante. Osa tu pureOsa invitto garzone il ciuffo e i ricciSì ben finti stamane all'urto esporreDe' ventagli sdegnati: e a nuove impreseLa tua bella invitando, i casi estremiDe la pericolosa ira sospendi.

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La notte, vv. 1-60

Nè tu contenderai benigna Notte,Che il mio Giovane illustre io cerchi e guidiCon gli estremi precetti entro al tuo regno.Già di tenebre involta e di perigli,Sola squallida mesta alto sedeviSu la timida terra. Il debil raggioDe le stelle remote e de' pianeti,Che nel silenzio camminando vanno,Rompea gli orrori tuoi sol quanto è duopoA sentirli assai più. Terribil ombraGiganteggiando si vedea salireSu per le case e su per l'alte torriDi teschi antiqui seminate al piede.E upupe e gufi e mostri avversi al soleSvolazzavan per essa; e con ferali

Stridi portavan miserandi augurj.E lievi dal terreno e smorte fiammeSorgeano in tanto; e quelle smorte fiammeDi su di giù vagavano per l'aereOrribilmente tacito ed opaco;E al sospettoso adultero, che lentoCol cappel su le ciglia e tutto avvoltoEntro al manto sen gìa con l'armi ascose,Colpìeno il core, e lo strignean d'affanno.E fama è ancor che pallide fantasimeLungo le mura de i deserti tettiSpargean lungo acutissimo lamento,Cui di lontano per lo vasto buioI cani rispondevano ululando.

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«La celebre notte ‘medievale’, iniziata su un tono altissimo, di largo respiro cosmico […], tutta corsa subito poi da sbattiti d’ombre e da voli sinistri, si chiude, qui, in accordo al suo avvio, suggerendo nuove lontananze e profondità di spazi: cinque versi, questi ultimi, ritmicamente ordinati a chiasmo (accenti principali di 4, 6, 10 nel primo e nel quinto, di 4, 8, 10 nel secondo e nel quarto: in mezzo, isolato, un endecasillabo di 3, 6, 10, Spargean lungo acutissimo lamento: centro della lacerazione fonica che si propaga in vasti cerchi di echi e silenzi). E già l’orecchio avvertito del Carducci ne rilevava l’armonia ‘ondulante’, conseguita però pienamente soltanto con la lezione degli Ambr. IV 15 e 17 che smorzano il fitto battito di 4, 6, 8, 10 del penultimo verso (Cui di lontan per entro al vasto buio)» (Isella, L’officina, p. 47).

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La notte, vv. 25-29E ¦ fa¦ma è an¦cor ¦ che ¦ pal¦li¦de ¦ fan¦ta¦si¦me 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 (12)Lun¦go ¦ le ¦ mu¦ra ¦ de i ¦ de¦ ser¦ ti ¦ tet¦ ti 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11Spar¦gean ¦ lun¦ go a¦cu¦tis¦si¦mo ¦ la¦men¦to, 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11Cui ¦ di ¦ lon¦ta¦no ¦ per ¦ lo ¦ va¦sto ¦ bu¦ io 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11I ¦ ca¦ni ¦ ri¦spon¦de¦va¦no u¦lu¦lan¦do.1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

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Verg. Georg. I 476-486

Vox quoque per lucos vulgo exaudita silentisingens, et simulacra modis pallentia mirisuisa sub obscurum noctis, pecudesque locutae(infandum!); sistunt amnes terraeque

dehiscunt,et maestum inlacrimat templis ebur aeraque

sudant. Proluit insano contorquens vertice silvasfluviorum rex Eridanus camposque per omniscum stabulis armenta tulit. Nec tempore eodemtristibus aut extis fibrae apparere minacesaut puteis manare cruor cessavit, et altae per noctem resonare lupis ululantibus urbes.

Si è udita popolarmente anche una gran voce per i boschi silenti, sono stati visti fantasmi stranamente pallidi nell’oscurità della notte ed hanno parlato — oh che schifo! — le bestie; si fermano i fiumi, si squarciano le terre, nei templi lacrima mestamente l’avorio (= delle statue) ed essudano i bronzi (= delle statue). L’Erìdano (= il Po), re dei fiumi, straripò, travolgendo le selve nel pazzo vortice, e trascinò via per ogni campo gli armenti con le stalle. In quello stesso tempo, o comparvero fibre infauste negli atri intestini (= degli animali sacrificati), o cessò il sangue di colare dai pozzetti (= degli altari) e le città alte (= di montagna, o più vicine alla montagna) risuonarono di lupi ululanti nella notte.

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Tal fusti o Notte allor che gl'inclit'avi,Onde pur sempre il mio garzon si vanta,Eran duri ed alpestri; e con l'occasoCadean dopo lor cene al sonno in preda;Fin che l'aurora sbadigliante ancoraLi richiamasse a vigilar su l'opreDe i per novo cammin guidati riviE su i campi nascenti; onde poi grandiFuro i nipoti e le cittadi e i regni.Ma ecco Amore, ecco la madre Venere,Ecco del gioco, ecco del fasto i Genj,Che trionfanti per la notte scorrono,Per la notte, che sacra è al mio signore.Tutto davanti a lor tutto s'irradiaDi nova luce. Le inimiche tenebreFuggono riversate; e l'ali spandono

Sopra i covili, ove le fere e gli uominiDa la fatica condannati dormono.Stupefatta la Notte intorno vedesiRiverberar più che dinanzi al soleAuree cornici, e di cristalli e spegliPareti adorne, e vesti varie, e bianchiOmeri e braccia, e pupillette mobili,E tabacchiere preziose, e fulgideFibbie ed anella e mille cose e mille.Così l'eterno caos, allor che AmoreSopra posovvi e il fomentò con l'ale,Sentì il generator moto crearsi,Sentì schiuder la luce; e sè medesmoVide meravigliando e i tanti aprirsiTesori di natura entro al suo grembo.

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La notte, vv. 39-40

Ma ecco Amore, ecco la madre Venere,Ecco del gioco, ecco del fasto i Genj,

Ma^e¦cco^A¦mo¦re,˅¦ ec¦co ¦ la ¦ ma¦ dre ¦ Ve¦ ne ¦re, 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12Ec¦co ¦ del ¦ gio¦ co,^ec¦co ¦ del ¦ fa¦ sto^i ¦ Ge¦nj,1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

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La notte, v. 44

«L’opzione per la forma con –i prostetica, unica occorrenza nel poema […], è forse ascrivibile alla sopraggiunta intenzione di generare una sinalefe in un verso privo di incontri vocalici, ulteriormente frazionato dalla pausa interpuntiva forte» (M. Tizi).

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Le Odi

• 1791, ed. a cura di Agostino Gambarelli (22 testi)

• 1795, ed. a cura di Giuseppe Bernardoni (25 testi: Per l’inclita Nice, A Silvia, Alla Musa)

• 1802, ed. a cura di Francesco Reina (Opere, vol. II; esclude Il piacere e la virtù, Piramo e Tisbe, Alceste)

• 1975, ed. a cura di Dante Isella (25 testi)

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Le Odi ed. Isella• L’innesto del vaiuolo (1765)• La salubrità dell’aria (1759)• La vita rustica (1758)• Il bisogno (1766)• Il brindisi (1777)• La impostura (1761)• Il piacere e la virtù (1771)• La primavera (1765)• La educazione (1764)• La laurea (1777)• La musica (1762)• La recita de’ versi (1783-84)

• La tempesta (1786)• Le nozze (1777)• La caduta (1785)• Il pericolo (1787)• Piramo e Tisbe (?)• Alceste (?)• La magistratura (1788)• In morte del maestro Sacchini (1786)• Il dono (1790)• La gratitudine (1791)• Per l’inclita Nice (1793)• A Silvia (1795)• Alla Musa (1795)

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La vita rustica (1757-58), vv. 1-8

Perchè turbarmi l'anima,O d'oro e d'onor brame,Se del mio viver AtropoPresso è a troncar lo stame?E già per me si piegaSul remo il nocchier brunColà donde si niegaChe più ritorni alcun?

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La salubrità dell’aria (1758-59), vv. 1-12

Oh beato terrenoDel vago Eupili mio,Ecco al fin nel tuo senoM'accogli; e del natìoAere mi circondi;E il petto avido inondi.

Già nel polmon capaceUrta sè stesso e scendeQuest'etere vivace,Che gli egri spirti accende,E le forze rintegra,E l'animo rallegra.

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L’innesto del vaiolo (1765), vv. 1-18prima ed. in G. Bicetti, Osservazioni sopra alcuni innesti di

vaiuolo... con l'aggiunta di varie lettere di uomini illustri e un'ode dell'ab. Parini sullo stesso argomento, Milano 1765

O Genovese ove ne vai? qual raggioBrilla di speme su le audaci antenne?Non temi oimè le penneNon anco esperte degli ignoti venti?Qual ti affida coraggioAll'intentato pianoDe lo immenso oceano?Senti le beffe dell'Europa, sentiCome deride i tuoi sperati eventi.

Ma tu il vulgo dispregia. Erra chi dice,Che natura ponesse all'uom confineDi vaste acque marine,Se gli diè mente onde lor freno imporre:E dall'alta pendiceInsegnolli a guidareI gran tronchi sul mare,E in poderoso canapè raccorreI venti, onde su l'acque ardito scorre.

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L’educazione, vv. 115-138 e 151-162Altri le altere cuneLascia o Garzon che pregi.Le superbe fortuneDel vile anco son fregi.Chi de la gloria è vagoSol di virtù sia pago. Onora o figlio il NumeChe dall'alto ti guarda:Ma solo a lui non fumeIncenso e vittim'arda.È d'uopo Achille alzareNell'alma il primo altare.

Giustizia entro al tuo senoSieda e sul labbro il vero;E le tue mani sienoQual albero straniero,Onde soavi unguentiStillin sopra le genti.

Perchè sì pronti affettiNel core il ciel ti pose?Questi a Ragion commetti;E tu vedrai gran cose:Quindi l'alta rettriceSomma virtude elice.[…]Ma quel più dolce senso,Onde ad amar ti pieghi,Tra lo stuol d'armi densoVenga, e pietà non nieghiAl debole che cadeE a te grida pietade. Te questo ognor costanteSchermo renda al mendico;Fido ti faccia amanteE indomabile amico.Così, con legge alternaL'animo si governa.

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Le Odi ed. Isella• L’innesto del vaiuolo (1765)• La salubrità dell’aria (1759)• La vita rustica (1758)• Il bisogno (1766)• Il brindisi (1777)• La impostura (1761)• Il piacere e la virtù (1771)• La primavera (1765)• La educazione (1764)• La laurea (1777)• La musica (1762)• La recita de’ versi (1783-84)

• La tempesta (1786)• Le nozze (1777)• La caduta (1785)• Il pericolo (1787)• Piramo e Tisbe (?)• Alceste (?)• La magistratura (1788)• In morte del maestro Sacchini (1786)• Il dono (1790)• La gratitudine (1791)• Per l’inclita Nice (1793)• A Silvia (1795)• Alla Musa (1795)