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Renzo Baldo A M A N E C E R Il chiarore dell’alba Interventi sulla rivista Amanecer tra il Febbraio 1996 e il Novembre 1998

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Renzo Baldo

A M A N E C E R

Il chiarore dell’alba

Interventi sulla rivista Amanecertra il Febbraio 1996 e il Novembre 1998

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INDICE

Per mantenere viva la speranza ............................................................. 4

Storie da calendario ................................................................................... 5

Analogie ................................................................................................. 6

Meglio ridere .......................................................................................... 7

Santa Evita ............................................................................................. 8

Tra furbizia e becerismo ....................................................................... 10

Consiglieri delegati e predicatori ......................................................... 12

Chi è inutile e superfluo… ................................................................... 14

Il ministro cireneo ................................................................................ 16

Una sensazione di vertigine .................................................................. 17

I “romantici” e il neoliberista .............................................................. 20

Informazione e ottundimento dei valori ............................................. 22

A proposito di “terzomondisti” ............................................................ 24

Asterischi .................................................................................................. 26

Alla ricerca del connettivo ................................................................... 27

Che ne è della “borghesia”? ................................................................. 28

Ricordando Roberto Balzani: Contro il “naufragio” della “informazione” .................................................................................... 30

Una abiura dal capitalismo? I sobbalzi della coscienza ...................... 32

Una “bella notizia”: La politica delle teste di cuoio ............................. 34

Il complesso di Erostrato: La Resistenza sotto processo ................... 36

In Bolivia: Alternanza ed “eterno ritorno” .......................................... 38

L’Abitudine all’occhio strabico ............................................................. 41

Dalle parole ai fatti? Ma Càrdenas non avrà vita facile ...................... 43

Futuro “borghese” o “feudale”? ........................................................... 45

Tra emarginazione e povertà: Carenze politiche sopraffazioni economiche .......................................................................................... 47

A proposito di “libri neri” .................................................................... 49

Quando gli eventi non sono “naturali”: Crocifissi e crocifissori .......... 51

Si può rimediare al caos? .................................................................... 53

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Per mantenere viva la speranza

C’è, in Italia, una norma di legge, per la quale il “direttore responsabile” di un giornale o di una rivista deve essere iscritto all’albo dei giornalisti. Poiché il sottoscritto possiede questo requisito, gli è stato cortesemente chiesto di accettare di dare il suo nome.

Si consenta però qui, al sottoscritto, di dire, forse un po’ presuntuosamente, ch’egli ha sentito questo invito come un gesto di stima e di amicizia, fondato sul riconoscimento di una affinità di convinzioni, che lo hanno sempre orientato a privilegiare un giornalismo anticonformista, pronto a percorrere il terreno dove si possa fondare un’informazione e si possa tenere aperto il dibattito su quelle realtà che dovrebbero inquietare le coscienze, per mantenere viva la speranza di poter contribuire a gettare luce sul cumulo di opacità, che, nelle più varie forme e misure, irretisce noi tutti, sia che si tratti delle piccole e modeste dimensioni della nostra vita quotidiana, così come del vortice dei problemi planetari, impedendo alle nostre domande e ai nostri bisogni di ottenere risposte degne e giuste.

In questa prospettiva, firmare una rivista, che si occupa prevalentemente dei problemi dell’America latina - va detto senza enfasi, ma con calda partecipazione - è non tanto un’assunzione di responsabilità formali, quanto una sottolineatura dell’importanza dell’impegno di chi finora ha collaborato e intende non rinunciare al progetto, che alla rivista sottende.

Nel groviglio dei problemi, che travagliano attualmente l’umanità, il problema America Latina resta un punto cruciale. E ne è pericolosa testimonianza anche il silenzio quasi totale, che le fonti di informazione gli dedicano. Un continente alla deriva, un luogo tragico, dove l’umano è sottoposto alle più distruttive umiliazioni, un luogo dove il sistema nel quale viviamo non esita a mettere in atto le sue prove più sconcertanti per far pensare come probabile un futuro governato da implacabili leggi di emarginazione e di selezione.

Il muro di Berlino è stato sicuramente un brutto episodio, una realtà dietro alla quale si tentava di occultare qualcosa, che esigeva, invece, di essere guardata bene in volto e chiarita per quello che era e per quello che comportava. Ma i muri non si costruiscono soltanto con la calce e i mattoni. Il muro del silenzio con il quale si occultano drammatiche realtà, è altrettanto, e più, deplorevole, anche perché questo muro viene costruito proprio da coloro che (sia pur certo non senza ragioni) tanto hanno strepitato per quello che, fisicamente e metaforicamente, divideva l’Est del cosiddetto socialismo reale dall’Ovest della “libertà” e del benessere.

Vuole il caso (per brevità di discorso chiamiamolo pure “caso”) che l’Ovest della “libertà” si trova a determinare, di fatto, non soltanto le frequenti e diffuse illibertà del continente latino-americano, ma anche, in larghi strati delle popolazioni, una vasta e offensiva carenza non diciamo del benessere, ma delle più elementari condizioni di umana esistenza.

La risposta che di solito - ben lo sappiamo - viene data a questo inquietante quesito, è che si tratta di una contingenza storica che troverà rimedio nel futuro sviluppo mondiale. Siamo o no in una società, in una contingenza storica, in fase di pieno sviluppo? Uno sviluppo i cui benefici effetti toccheranno a tutti?

È probabilmente un’illusione, se non proprio una bugia. Ma pur tentando di darle credito, visto che quel futuro, nella sua futuribilità, resta per ora una invisibile lontananza, non appare molto accettabile tanto silenzio sul presente.

Ma si consenta ora di dire che non è senza commozione che traccio queste righe di saluto e di partecipazione al lavoro della rivista firmando al posto di Roberto Balzani, scomparso così prematuramente e dolorosamente, un giornalista che ho conosciuto fin dai primi tempi della sua attività e che ho stimato per la tensione morale, che lo ha sempre mantenuto coerentemente nelle orbite ideali che animano questo periodico.

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Storie da calendario

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Renzo Baldo

Analogie

In molti, da tempo, affiora la sensazione che l’Italia si stia avviando a costituire, in Europa, una realtà politico-sociale dalle forti analogie con l’America latina

Proviamo ad esemplificare: la forbice sempre più crescente fra gli strati alti e gli strati bassi e mediobassi della popolazione; la conseguente crescita percentuale delle aree di povertà; la sempre più marcata arroganza elitaria di persone e gruppi oligarchici; il ricorso a linguaggi e pratiche demagogiche e l’allargarsi delle fasce di persone. che ne vengono irretite; il sospetto diffuso che i meccanismi con cui si costruisce una democrazia vengano troppo facilmente adoperati per nascondere corruttele e interessi non propriamente puliti.

A questi fenomeni, non certo irrilevanti, si è ora aggiunta, con clamore, la richiesta delle cosiddette riforme istituzionali. Brilla, al centro di questa richiesta, il progetto cosiddetto presidenzialista. Per la verità, un caos: alla francese, alla tedesca, all’americana, all’israeliana, all’australiana? Il sindaco della nazione(!?), il maggioritario corretto, imperfetto… e via dicendo.

Non possiamo naturalmente dubitare che gli esperti di ingegnerie istituzionali e di diritto costituzionale abbiano in proposito da dirci molte cose interessanti, e nemmeno possiamo del tutto negare che forse qualche onesta, meditata e puntuale proposta di modifica dei meccanismi sui quali si regge lo Stato italiano possa avere un qualche fondamento. Resta, però, il sospetto, che è quasi una certezza, che in realtà sotto questo bailamme si muova ben altro, cioè quel che è in movimento già dalla campagna elettorale per le elezioni del Marzo’94, e che si è ampiamente rivelato con la gestione dei pochi (per fortuna) mesi del governo che ne è uscito.

Il “ben altro” fa capo alla sostanza di cui si sostanziano i due poli che costituiscono il Polo (battezzato, senza ironia, “delle libertà”): da un lato l’aggressiva ambizione al Governo-Azienda, cioè al governo in funzione di azienda, dall’altro la spinta a realizzare (antico sogno della destra italiana, fin dal celeberrimo progetto, tardo ottocentesco, ma già così moderno, di Sonnino) a realizzare un potere “forte”, che mortifichi il Parlamento e garantisca, come è nelle aspettative della Destra retriva (purtroppo in Italia quasi tutta la Destra è retriva) un potere stabile, demagogico e, nei fatti, antipopolare (queste due cose stanno bene insieme, ma la gente spesso non se ne accorge), un potere, appunto, “forte” (lèggi: senza o con scarso controllo parlamentare; con i mass-media controllati dall’esecutivo).

La discussione se Fini sia fascista o si sia convertito alla democrazia fanno, francamente, ridere. Non occorre, oggi, il fascismo in orbace per spegnere o ottundere la democrazia, con tutte le conseguenze politiche, sociali, culturali che ciò comporta. Basta un bel presidenzialismo, che, per cinque o sette anni (e magari qualche anno in più: queste malattie diventano facilmente lunghe), mantenendo, arrugginiti, i meccanismi della democrazia, governi rovesciando sul paese la “cultura di destra”.

Perché, non va dimenticato, in Italia non si è mai riusciti a vedere una Destra liberale. L’Italia è il paese che, per far governare la Destra, ha inventato, in tempi di entusiasmi militareschi, il fascismo. E nemmeno ora è in grado di inventare quel che assolutamente non c’è. Se passerà questo progetto, se lascerà con tanto di naso i democratici pasticcioni, che si dilettano di formule giuridiche-elettorali, saremo sempre più come l’America latina, dove di presidenzialismi di varia natura abilmente e brutalmente capaci di far finta di avere realizzato la democrazia, ce ne sono stati e ce ne sono in abbondanza.

E non sarà una gradevole “affratellanza”. Anche perché quel poco (pochissimo) che un’Italia democratica può fare o sperare di fare per l’America Latina sarà, in tal caso, anch’esso rapidamente spento.

Ve li figurate gli uomini (i politici) espressi da AN (o da aree circonvicine) porsi il problema degli indios, degli emarginati delle favelas, dei campesinos del Chiapas?

Febbraio 1996

AMANECER: Storie da calendario 6

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Renzo Baldo

Meglio ridere

L’inclinazione a trasformare le muraglie in tazebao, in luoghi dove predicare i propri convincimenti, ha subito qualche rallentamento. Con soddisfazione dei proprietari dei muri, non più costretti a ridipingerli e, diciamolo pure - a costo di passare per stantii conservatori - con qualche profitto per il decoro delle strade.

Eppure qualche volta quelle lettere capitali, tracciate alla brava e spesso irritanti o gaglioffe, aprono qualche squarcio, aiutano a capire cosa bolle in pentola, che cosa qualcuno pensa e vuol comunicare e d’altri mezzi di comunicazione non dispone. Ci è accaduto così di leggere: “non ci resta che ridere” o, in altra versione:”meglio ridere”; con tanto di sigla a testimoniarne il substrato ideologico.

Confessiamo che ci ha colpito. Già: non resta che ridere. Un’opinione, e uno stato d’animo, che forse sanno di qualunquismo, ma probabilmente dettate, se non proprio da disperazione, certamente da una radicale disillusione, da un disagio totale, senza speranza; un disagio dal quale si cerca di salvarsi, appunto, ridendo: il riso come reazione e difesa. Ma pur sempre una difesa nel proprio isolamento e nell’estraneazione. Forse è il caso di pensarci.

Ma c’è di più. Sotto quel “meglio ridere”, un’altra mano, con diversa grafia e diverso colore, ha scritto: “e bere”.

Non è il caso di pensare da dove nascono queste pubbliche dichiarazioni? Di quali processi, di quali itinerari sono la voce? Itinerari, che sono probabilmente un diffuso Bildungsroman, del quale si può anche presentire qualche drammatica tappa successiva.

E meno male che, speriamo, ci si limiti a ridere e a bere; perché talvolta il Bildungsroman può essere tragicamente diverso: non solo nelle aree dell’America Latina, ma anche in quelle dell’Italia pre- o para- America latina.

Febbraio 1996

AMANECER: Storie da calendario 7

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Santa Evita

La notizia che Madonna, sul set per un film di Alan Parker, sta interpretando il personaggio di Evita Peron, ha destato qualche subbuglio, ovviamente soprattutto in Argentina.

Evita Peron è morta nel 1952, all’età di 33 anni (circostanza anch’essa che ha contribuito a irrobustirne il mito). Sono passati oltre 40 anni, ma il mito, a quanto pare, resiste. Ogni giorno - così raccontano, e non c’è motivo di non crederlo - qualcuno rinnova i fiori sulla sua tomba. Né è mancata la fioritura di libri che ne hanno narrato la vita e cercato di comprenderne la vicenda, umana e politica.

Una vicenda intinta di tutti gli ingredienti del romanzo-rosa: un’attricetta che sposa un uomo politico - come definirlo? - un capopopolo, un utopista, un confusionario, un demagogo, una riproduzione in America Latina del modello soreliano del super-uomo…

Non è qui il caso di entrare nel merito. Certo un politico ragguardevole, Presidente dell’Argentina: una nazione che allora godeva la fama di essere un paese a livello europeo, in fase di grande e sicuro sviluppo, economico e culturale. Al suo fianco l’attricetta, passata dalle telenovelas alla casa Rosada, quale Presidentessa, in un groviglio di spericolate improvvisazioni populistiche costruì un’avventura politica con al centro un’immagine di sé, che non soltanto entusiasmò larghi strati della popolazione argentina, ma pure affascinò, nei più vari interstizi sociali e politici, la razionale (?) Europa. Basta leggere le cronache e i commenti dei giornali dell’epoca per rendersene conto: Evita fu sentita come una “santa”, non soltanto in Argentina.

Sono passati 40 anni. Ma che il mito di Evita non sia tramontato, e non solo tra i peronisti o gli aspiranti tali, non deve stupire, soprattutto se non ci si lasci sfuggire che non si tratta di un mito germogliato su inconsistenti banalità di stampo divistico. Sulla tomba di Evita è stato scritto: “Tornerò e saremo milioni”. Appunto: un mito intorno al quale si possono aggregare masse intere, con le loro speranze e le loro attese: non, si badi bene, masse rincitrullite in psichedeliche evasioni.

Recentemente i giornali hanno dato notizia di un libro, non ancora tradotto in Italia, intitolato “Santa Evita”; un saggio tra la ricerca, la riflessione e il romanzo, di uno scrittore argentino, non peronista; a detta di qualcuno che l’ha letto, scrupolosissimo nella ricostruzione di quelle vicende (lontane, ma non poi troppo) e acuto indagatore dei nessi sociali e culturali che le hanno prodotte.

Emerge da questo libro una domanda di fondo: come è potuto accadere un così vistoso fenomeno di regressione fideistico-miracolistica in un paese che “si vantava di essere cartesiano ed europeo”?

Questa domanda sembra supporre che la “razionalità” si identifichi con la lucidità e chiarezza “cartesiana” e che essa sia la connotazione più qualificante della civiltà europea. Su simile convinzione è lecito prendere qualche distacco, ma anche se si ritiene che le cose stiano così, anzi in forza di tale convinzione, sicuramente non si può non essere sconcertati, perfino sgomenti, quando ci si accorge che la “razionalità”- questo atto prodotto, e concausa, della nostra civiltà - viene così spesso sopraffatta da spinte e da fenomeni cariche di attese magico-miracolistiche; dalla “irrazionalità”.

E lo sconcerto può farsi ancora più inquietante, se si trae, correttamente, la deduzione che la sconfitta della razionalità può produrre i casi Evita a tutte le latitudini. Magari in forme larvali, che possono però rapidamente crescere ed esplodere fino a travolgere le dighe alzate dalla ragione.

Si affaccia allora un’altra domanda: come difendersi dalle convulse irrazionali ondate che producono le forme del fideismo magico?

Si può tentare una risposta, sia pure qui in forma necessariamente schematica ed abbreviata: bisogna usare una ragione “non cartesiana”.

La cosiddetta “ragione cartesiana” può fondare scienze e saperi, costruire meccanismi che consentano di conquistare il mondo, può accrescere la ricchezza, può acquistare benemerenze per la sua capacità di offrire strumenti giuridici capaci di aiutare la civile convivenza, ed altro ancora. Ma da sola, senza la luce di una diversa e più alta “Ragione”, essa non è in grado di avvistare e di

AMANECER: Storie da calendario 8

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Renzo Baldo

comprendere le radici che generano gli impulsi dell’irrazionale, che nascono dalle condizioni reali, concrete degli uomini, della gente, così come essa si trova a vivere, a soffrire e a sperare

Perché la ragione cartesiana è una ragione fredda, calcolatrice, utilitaristica e quindi non esente da “cinismi”. Se non si tiene conto di ciò, continueranno a nascere Evite, cui guardano i “milioni” che si sentono umiliati e offesi dai meccanismi messi in opera da ciò che, per comodità di discorso, possiamo continuare a chiamare “ragione cartesiana”.

E le Evite, anche nel caso che riescano a sottrarsi al narcisismo che fa loro credere, e ad altri fa credere, di essere sante, per sincere e generose che esse siano (e non sempre lo sono) sono destinate a non cambiare nulla, anzi, a generare confusioni. Restano voce e sintomo del disagio delle masse e delle nazioni.

I cartesiani, nel frattempo, continuano il loro lavoro, con qualche merito, ma con la oggettiva drammatica inadeguatezza, che è loro propria, nei confronti dell’“irrazionale”.

In America Latina, come altrove.

Marzo 1996

AMANECER: Storie da calendario 9

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Renzo Baldo

Tra furbizia e becerismo

Questo numero di Amanecer giunge ai lettori a campagna elettorale conchiusa. Occuparsi d’essa potrebbe ormai qui sembrare del tutto inutile. Eppure quel ch’essa ha rivelato, in modo macroscopico, può essere tema di qualche riflessione, che aiuti a guardare al dopo, che si sta aprendo, dove vincitori e vinti, eletti ed elettori, dovranno confrontarsi con la realtà, che è ben più vasta e seria cosa di quel che può emergere dai discorsi elettorali.

Si sa che in ogni cambiamento elettorale le ambiguità, l’inclinazione alla demagogia, le bugie, lo sfrontato screditamento dell’avversario sono armi usuali. Ad ogni latitudine. Ma forse in Italia, da sempre, con maggior virulenza. Può darsi, chissà, che da noi alligni la convinzione che gli italiani sono facilmente suggestionabili e quindi più facilmente trascinabili nel vortice delle parole inconsulte, dei discorsi tra l’ipocrita, l’astuto e il becero. Tra gli italiani - anche questo si sa - diffusa è la pratica della furbizia, avvertita come un segno araldico di superiorità. E, come spesso accade, poiché la furbizia non sempre ha a che fare con l’intelligenza, i furbi sono facilmente preda dei furbi più matricolati Questo, almeno in parte, può spiegare perché le campagne elettorali, in Italia, più che altrove, si convertano in uno spettacolo poco entusiasmante per chi non rinunci all’uso della ragione e, con qualche ingenuità, si ostini ad apprezzare un po’ il decoro. Ma nel recente scontro elettorale lo spettacolo ha raggiunto livelli di degrado che non conosce confronti. Al punto che c’è da domandarsi se, al di là dei risultati e della situazione che essi hanno determinato e con la quale, vincitori o vinti, ci si dovrà pur misurare, il problema di fondo sia quello della, auspicabile, rieducazione civile de popolo italiano.

Si comprende perché alcuni opinionisti si siano lasciati prendere dallo scoramento e, sfiorando un qualunquismo amaro, probabilmente spesso inconscio, abbiano letto le recenti vicende con uno sguardo desolato, che coinvolge tutto e tutti. Stato d’animo comprensibile, anche se non si dovrebbe mai dimenticare che l’avere a schifo in modo generico e globale può essere segno di virtù, ma si tratta di virtù astratta e un po’ inutilmente aristocratica.

Comunque sia, se, come non v’è dubbio, di desolazione si tratta, lasciando ad ognuno la libertà di vederne le cause dove meglio gli riesce e con riferimento alle parole e alle cose che più l’hanno colpito e offeso, l’aspetto più inquietante della situazione è dato dalla incapacità di molti italiani, milioni, di afferrare il senso delle cose, nemmeno di ciò che si riferisca ai propri interessi.

Ai tempi della cosiddetta prima repubblica moltissime persone (milioni) facevano scelte elettorali convinti di contribuire a salvare la civiltà occidentale, anzi la civiltà cristiana, pronti a turarsi il naso, come era loro consigliato con autorevolezza, pur di evitare la iattura del comunismo. Erano, si usa dire, tempi di ideologismi prevaricanti. Oggi che, si usa dire, son morte le ideologie (non è vero, ma per il momento evitiamo di discutere l’argomento), masse intere votano “pragmaticamente” sull’onda della radicale incomprensione di quello che stanno facendo e di quello che sta accadendo. Bottegai, negozianti, artigiani pieni di lamenti per la spietata concorrenza dei grandi centri commerciali, danno il voto a chi di questi centri è uno dei massimi organizzatori; sbandieratori del verbo liberista sono schierati con chi fonda la sua fortuna su pesanti e vaste situazioni di monopolio; pensionati, persone che si dolgono della scarsa assistenza sanitaria, optano per chi sostiene che ai minori introiti nel bilancio dello stato per diminuzione del reddito fiscale si rimedia tagliando le spese improduttive (che sono, principalmente, pensioni e sanità); né sono mancati intellettuali amanti delle arti e della cultura, che non si sono accorti che anche la scuola e le istituzioni culturali in genere rientrano nel cosiddetto improduttivo; il papa insiste sul concetto di solidarietà e nega perentoriamente l’accettabilità delle leggi del puro mercato, e strati interi di benpensanti cattolici o sedicenti tali portano il loro contributo a movimenti che proclamano un intransigente liberismo, più allegramente ancora, si attestano attorno a cespugli e spezzoni che ne sono in esplicita, dichiarata e totale alleanza. Questo ormai non è più il paese dove si può far politica con i mezzi dell’astuzia e della menzogna furbescamente ovattata, è il paese della confusione e dell’ignoranza.

AMANECER: Storie da calendario 10

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Renzo Baldo

Del resto chi ascolta i discorsi e le dichiarazioni di taluni leaders può ben avvertire (ma a quanto pare non sono molti ad avvertirlo) che la confusione e la piattezza dei discorsi non sono soltanto scaltrezza e becerismo, ma autentica ignoranza.

Liberismo e liberalismo (sistematicamente adoperati come se significassero la stessa cosa), libertà, lavoro, progresso, sviluppo, capacità produttive, volontà imprenditoriali, pubblico e privato, la norma, la legge, i problemi della magistratura, decentramento, secessione, federalismo e via dicendo, tutte cose grosse, di cui, sia pure spesso confusamente, si stanno occupando ristrettissime fasce di competenti, o presunti tali e che comunque occupano qualche posto di responsabilità decisionale, suonano, a livello di massa, di coloro che si dovrebbero chiamare cittadini, chiacchiere, vuote parole, formule da cui si aspetta, oscuramente, qualche beneficio; spesso non ci si aspetta nemmeno niente.

Che cosa si possa fare per rimediare a questa colossale caduta civile, quasi nessuno sembra pensarci. Quasi che si possa avere non diciamo “democrazia” ma decente vita civile con un simile impressionante vuoto.

Aprile 1996

AMANECER: Storie da calendario 11

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Consiglieri delegati e predicatori

Dalla Rerum Novarum a Giovanni Paolo II, la buona volontà cristiana e cattolica ha cercato di contrastare la durezza della logica del profitto richiamando al rispetto della dignità della persona umana. Quanto e come si possa realizzare la mediazione fra le istanze della produzione, del mercato, delle cosiddette leggi economiche e l’appello alla solidarietà, al riconoscimento dei diritti umani, non a parole, ma in atti concreti, non risulta sempre ben chiaro, anzi, spesso, come tutto ciò che fa appello alla buona volontà, resta alquanto nel vago.

Su questo terreno emergono inevitabilmente approssimazioni, anzi profonde disparità d’opinioni. Come, del resto, ampiamente testimoniano le diversità di scelte e di comportamenti, che si manifestano nello stesso mondo cattolico, nel quale si va dal fervido impegno, fino al sacrificio e alla morte, per difendere i diritti degli umiliati nella miseria e nello sfruttamento, alla indifferenza o alla tranquilla convivenza, che spesso si tramuta in appoggio, con uomini e istituzioni, che sicuramente per la cosiddetta dottrina sociale della chiesa non hanno alcuna considerazione, salvo eventualmente interpretarla nelle forme più pesantemente classiste.

Resta comunque il fatto che quella richiesta di mediazione c’è, e viene ripetuta con insistenza. Giovanni Paolo II, in particolare, da quando, fermamente convinto della sua inaccettabilità, ha ampiamente collaborato a demolire il tentativo, che era in atto nell’Est, di costruire in sistema che si proponeva come progetto il superamento dell’economia fondata sul profitto e sul mercato, non si è mai stancato di richiamare all’esigenza di rifiutare la perentoria durezza con la quale questa forma di organizzazione economica si presenta, in linea di principio e di fatto.

Si sa, però, che molti pensano che sia compito della chiesa predicare e compito degli uomini di azione fare, lasciando predicare. Questa convinzione, anziché essere espressa in termini così rozzi, l’abbiamo sentita esporre con una sottile punta provocatoria, in un dibattito televisivo, con l’affermazione che “ il Papa non è un consigliere delegato.”

Il consigliere delegato, cui spetta, formalmente e di fatto, di prendere tutte le decisioni in grado di garantire la vitalità dell’azienda che gli è affidata; non può transigere con i sentimenti, farsi portavoce di “bisogni” estranei a questo fine o che addirittura lo possono intralciare. Chi non ha responsabilità di consigliere delegato, può, se lo ritiene, predicare. Ma è il consigliere delegato che decide, che deve decidere.

È facile rendersi conto che, nell’attuale contingenza storica, anzi epocale, assistiamo allo scontro fra “predicatori” e “consiglierei delegati” (usiamo il plurale perché fra i “predicatori” non c’è soltanto il Papa).

I predicatori, per la verità, cadono spesso in contraddizioni, facendo perfino sospettare che non abbiano sempre le idee chiare. Ma dobbiamo concedere loro la buona fede e considerarli quindi, giustamente, come portatori di un’idea “morale” della umana convivenza. Ad essi spetta la responsabilità di sottrarre l’umanità alla prepotente virulenza della macchina che produce, che fa crescere i profitti, che realizza lo sviluppo, che distribuisce il benessere, ma così ciecamente, che molti, troppi uomini ne vengono calpestati.

Da come vanno le cose, in verità pare proprio che i “consiglieri delegati” siano molto più potenti dei “predicatori”. Eccone un esempio fresco. Dopo due anni e mezzo di trattative avviate dall’O.N.U. per mettere al bando le mine si è ora arrivati ad un nulla di fatto. Anzi, ad un nulla che è un esempio insigne di ipocrisia: si potranno produrre soltanto mine “intelligenti”, che non possono esplodere dopo centoventi giorni dalla loro messa in opera. Non solo: la nuova norma sarà applicata tra dieci anni.

Si tenga presente che la media delle persone uccise o mutilate dalle mine è di duemila al mese. Tra dieci anni 260 mila. E probabilmente anche più, visto che questa decisione incrementerà la produzione. I “predicatori” sono stati serviti, i “consiglieri delegati” soddisfatti. Molti, anche in Italia, che è uno dei massimi produttori di mine.

L’Italia, tra l’altro, pare che sia un paese cattolico. Ma, si sa, un conto è la religione, un conto gli affari. Che, anzi, possono benissimo stare insieme. Qualche anno fa su un medaglione di una

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Renzo Baldo

casa produttrice di armi c’erano, da un lato, immagini di armi varie e, dall’altro, l’immagine della Madonna.

Maggio 1996

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Chi è inutile e superfluo… È convinzione diffusa che quando gli avvenimenti gravidi di orrore si ripetono può verificarsi

un ottundimento delle coscienze, che ne annulla il peso e li avvolge nelle nebbie dell’indifferenza o della rassegnazione. Il che, nel linguaggio giornalistico, si traduce nella affermazione che la cosa non fa più notizia. Questo spiega perché quasi assoluto è stato il silenzio dei mass-media sulla strage compiuta in Brasile dalla polizia federale: 23 contadini del movimento dei Sem-terra massacrati mentre per protesta contro le inadempienze governative occupavano la strada bloccando il traffico.

Questo spiega perché questo numero di Amanecer dedica alla vicenda molte pagine.A un primo impatto essa appare, e indubbiamente per molti versi lo è, uno dei tanti feroci

episodi, che costellano sanguinosamente e vergognosamente la storia dei paesi latino-americani. Gli ingredienti sono i soliti: lo stato di miseria endemica delle popolazioni contadine indie, il cinismo delle élites latifondiste, che possono tranquillamente usare la polizia di stato come strumento di repressione. Sembrerebbe, dunque, un problema interno allo stato del Brasile: una classe politica che anche quando, come è il caso dell’attuale presidenza di Fernando Henrique Cardoso - un illustre sociologo, di formazione socialdemocratica - sembra aprire prospettive di trasformazione, non riesce a controllare la violenza che governa le vaste periferie del paese.

In realtà c’è qualcosa d’altro di più. Le prospettive di trasformazione sono reali per quanto riguarda il potenziamento dello sviluppo di “modernizzazione”, ma del tutto verbali per quanto riguarda le condizioni di esistenza di coloro (masse intere), che la modernizzazione emargina, espelle dal circuito economico messo in atto dal modello di sviluppo “liberale”, che il mondo occidentale persegue. Quel che accade in Brasile è una cartina di tornasole tramite la quale possiamo vedere quale è il destino, ipotizzato e ipotizzabile, al quale rischiano di essere sottoposti milioni di uomini, in America Latina, in Africa, con tutta probabilità anche altrove. In altre parole: i “superflui” - per usare un termine molto efficace suggerito da Enzesberger, che su queste cose ha lo sguardo lucido - vanno lasciati alla deriva, nelle più varie forme: la fame, le condizioni subumane di esistenza, quando si ribellano un po’ di piombo.

I contadini brasiliani vittime di questa recente strage sono la spia di una situazione planetaria diffusa, sulla quale troppo spesso ci si dimentica di rivolgere adeguata attenzione.

Forse perché siamo intimamente convinti che il “progresso” ci salverà, anzi che il progresso salverà l’umanità.

È l’ottimismo perverso, di cui ci si nutre stando all’interno dello spazio nel quale opera la macchina che produce gigantesche trasformazioni e incrementa a dismisura la ricchezza. Per alcuni. E non è molto rilevante che questi alcuni siano anche molti, visto e considerato che ci sono tanti altri molti che non ne partecipano. La macchina, infatti, procede senza troppi riguardi, e chi non è in grado di controllarla, di verificarne i movimenti o addirittura nemmeno di averne nozione, rischia di esserne stritolato, di venir travolto dai suoi congegni. E sotto sotto, nei recessi del nostro io, biologico e non, alligna sempre la convinzione, più o meno inconscia, che, per il progresso, qualche vittima può anche essere sacrificata

L’importante, naturalmente, è che “altri” siano sacrificati, e, possibilmente, “altri” che ci siano lontani, stiano di casa un po’ più in là. Tanto meglio se, più o meno oscuramente, li sentiamo “diversi”. Con una contorsione mentale, che consenta di interpretare il passo evangelico “ama il prossimo tuo” nel senso di “ama coloro che ti sono vicini”, gli altri lasciali perdere (sembra una barzelletta, ma c’è davvero chi l’ha interpretato così; e, più o meno subconsciamente, non pochi lo interpretano così).

Riesce difficile sottrarsi alla sensazione che sia una testimonianza evidente di queste inclinazioni e contorsioni il modo con il quale gli stessi mass-media e i più vari settori dell’opinione pubblica “qualificata” brasiliani hanno dato lettura della strage (in Brasile il clamore è stato alto; e il silenzio che fuori dal Brasile ha accolto la vicenda è la dimostrazione della miopia con cui vengono ritenuti di esclusiva rilevanza locale i fatti che hanno ben altra valenza): accanto alla

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indignazione, allo sdegno, alla protesta (categorie che in questi casi vengono usate con volonteroso moralismo) è affiorata con decisione la sottolineatura della “arcaicità” della protesta contadina.

E questo è veramente il fatto nuovo, e sintomatico. Non più soltanto il richiamo alla intollerabilità della condizione contadina o, da destra, l’accusa di sovversivismo, ma, appunto, l’“arcaicità”. Come a dire: stiamo razionalizzando, stiamo modernizzando, e voi perché ci mettete nei pasticci con i vostri irrazionalismi? E massimo impulso irrazionale è certamente, in fase di modernizzazione, pretendere qualche fazzoletto di terra per una economia di pura sopravvivenza.

Di questo drammatico equivoco si nutre la tragedia degli emarginati. Nel caso specifico del Brasile la tragedia dei Sem-terra, strati di popolazione che la “modernizzazione” non può assorbire, nemmeno nel rango di sfruttati. Essere sfruttati rischia di essere un privilegio, perché lo sfruttato, bene o male, anche se spesso più male che bene, è coinvolto in un sistema che gli consente la sopravvivenza. Ma chi è inutile e superfluo?

Forse non ci si rende conto che i processi mentali che consentono di non pienamente sottrarsi all’accettazione di questo ordine di cose, anche se ammantati nelle cortine del silenzio o oggetto di abili coperture ideologiche, sono esattamente quelli con i quali i nazisti giustificavano l’eliminazione fisica o l’assoggettamento a schiavitù dei “popoli inferiori”.

Sottrarsi a questi processi mentali, alle culture e alle ideologie che li rendono possibili, sicuramente non è facile. Ma è, o dovrebbe essere, il compito dell’oggi, della prospettiva di civiltà nella quale viviamo, se vogliamo che sia civiltà.

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Il ministro cireneo

Chi era fermamente convinto che la vittoria del polo delle destre sarebbe stata una iattura ha certamente vissuto un momento di euforia quando i risultati elettorali hanno allontanato questo rischio. Ma immediatamente dopo non può non essersi posta la domanda: e ora come se la caveranno i vincitori? Esprimiamo qui la domanda con un linguaggio volutamente un po’ rozzo, per dare risalto realistico al problema, poiché, non bisogna nasconderselo, la situazione non è rosea, l’eredità, chiamiamola così, è pesante.

Con tutta la stima o fiducia che si può dare a persone per molti versi indubbiamente rispettabili, il cosiddetto uomo della strada non può non essersi posto quella domanda. Per esempio: come se la caverà la brava Rosaria Bindi in mezzo al ginepraio delle sanità? e Ciampi con l’abisso del debito pubblico? e via via esemplificando. Domande, del resto, che stanno affiorando, esplicite o implicite, in quegli angolini dei mass media dove non ci si limiti a boutades o a sparare sul mucchio o a limitarsi a neutre notizie di cronaca.

Ma forse in pochi - tranne probabilmente, magari in sordina, tra gli addetti ai lavori - si sono domandati: e come se la caverà il ministro della Pubblica istruzione?

Notoriamente, il problema della scuola sta molto ai margini, sollecita attenzioni sporadiche e superficiali. Ci si dimentica, o non si sa, o non se ne avverte il peso, che la scuola italiana è in uno stato che non si sbaglia troppo a definire comatoso. Una prova lampante è data dal fatto che in cinquant’anni non si è riusciti ad attuare una riforma globale e credibile della scuola superiore. Chi conosce davvero e da dentro la scuola, sa che tra rappezzamenti, burocratismi, velleità sperimentali, abbozzi e conati vari, la scuola, intesa come luogo di formazione, vive sulle spalle della buona volontà, della serietà di preparazione, delle capacità didattiche, delle qualità umane “individuali” degli insegnanti, quelli, appunto (non sappiamo nemmeno se molti o pochi) dotati di queste qualità, difese spesso a denti stretti, con caparbia ed esemplare volontà, ripetiamo, “individuale”.

La ragione di questa situazione sta, in primo luogo, nel fatto che la società italiana, e quindi le sue classi dirigenti, in cinquant’anni non è stata in grado di creare e di esprimere un humus compattamente unitario - sia pure, ovviamente, di una unità articolata - che consentisse di imprimere alla scuola un orientamento fondato su salde e organiche prospettive. Diciamolo pure così: si tratta di una situazione “storica”, inquietante e drammatica.

Dobbiamo di conseguenza considerare davvero un cireneo il ministro che si addossi l’incarico di governarla.

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Una sensazione di vertigine

Chi si affaccia alla conoscenza dell’America Latina, della sua storia così come della sua presente realtà, può essere facilmente preso da un senso di vertigine. È vero che tutta la storia si presta a spingerci verso la sconsolante conclusione che si tratta di un cumulo di pazzie e di disastri, negli interstizi nei quali come insetti in sciami pulviscolari gli uomini si affannano a sopravvivere. È

Ma a chi percorre le cronache delle vicende latino-americane, anche soltanto fermando l’attenzione sui più asettici dati cronologici, sopravviene facilmente una sorta di sgomento, come se ci si incontri con il caos, con il trionfo dell’irrazionale. Violenze, stragi, massacri, sopraffazioni, repressioni, cinici conquistatori, masse di vinti e di schiavizzati, spietate dittature, dittatori che salgono, dittatori che cadono, militari occhiuti, feroci e strapotenti, guerre rovinose, genocidi. Un vero e proprio roman noir, anzi un intersecarsi e virulento stratificarsi di romanzi neri. E forse proprio per questo l’America Latina è conosciuta soprattutto tramite il filtro dei suoi scrittori, dei suoi narratori, che hanno largamente contribuito a darci di questo immenso paese un’immagine di vertiginoso, anche se spesso sognante e poetico, caos romanzesco.

Ma forse proprio per questo le vicende dell’America Latina offrono l’opportunità di penetrare a fondo in quella che si potrebbe chiamare la contraddittorietà della storia, per scoprirne tasselli e giunture nel loro fascino e nella loro complessità, inquietante e misteriosa.

Con il suo progetto di informazione e di divulgazione Amanecer cerca in ogni suo numero di portare un contributo a questa conoscenza. Nel seguito delle tappe di questo progetto, il presente numero, totalmente monografico, raccoglie ampio materiale per aiutare a comprendere, del continente sudamericano, la realtà certamente meno nota: il Paraguay. Probabilmente nell’incontro con questa realtà il senso di vertigine raggiunge il suo acme. E non solo perché sul Paraguay per la sua collocazione geografica, che gli crea attorno un alone di irraggiungibilità e quasi estraneità, aleggia un senso di leggendario mistero, ma anche perché la sua storia, pur, ovviamente, in un contesto generale di affinità, offre aspetti di singolare e inaspettata diversità rispetto a quella degli altri paesi sudamericani.

È noto che, dopo la “dipendenza” coloniale, le “rivoluzioni” dei primi anni dell’800, mediante le quali fu conquistata l’“indipendenza”, hanno creato di fatto la radicale “dipendenza” di tutti gli stati sudamericani dal sistema economico e dalla volontà politica dell’occidente anglosassone.

Unica eccezione l’area del Paraguay, che ripetutamente ha cercato di realizzare una struttura socio-politica di piena autonomia, sottratta a condizionamenti e sfruttamenti dall’esterno. Nel quadro di un’ottica - certamente sempre irrinunciabile - che privilegi il problema dello scontro fra poteri dittatoriali e/o oligarchici e istituzioni democratiche, la storia del Paraguay è rigorosamente contestuale a quella dell’intera America Latina. Ma la sua diversità sta nel fatto che - sia pur non sempre, e in modi e misure disuguali - le dittature che si sono succedute al governo di questo paese hanno mostrato la propensione a fare del Paraguay un modello di sviluppo indipendente. Certamente, non si può negarlo, progetto favorito dalla collocazione geografica.

Da questo punto di vista si può affermare che già le celebri reducciones dei Gesuiti nel’600 avevano creato il primo capitolo di questa storia singolare. E drammatica.

Così come le reducciones, con la loro “autonomia”, furono travolte dal mercantilismo paleocapitalistico spagnolo, l’autonomia del Paraguay subì altri soffocamenti, il più tragico quello della cosiddetta “guerra della triplice alleanza”., cinicamente sovvenzionata dalle banche inglesi e americane, che tra il 1865 e il 1870 ridusse il paese in macerie, con un vero e proprio terribile genocidio.

Era un’autonomia costruita senza alcuna di quelle garanzie che nel nostro Occidente chiamiamo “democratiche” e che, giustamente, riteniamo fondamentali. Ma era pur sempre, oggettivamente, autonomia, garanzia di potersi sottrarre a esosi e rovinosi condizionamenti; un’autonomia, che consentiva anche, come è testimoniato da dati sicuri e inequivocabili, risultati di vita civile di buon livello.

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Il Paraguay di oggi, uscito, nel 1989, dalla dittatura di Stroessner, sembra, ad alcuni osservatori, avviato - certo in mezzo a molte difficoltà e non senza qualche contraddizione - a riproporre un paese capace di realizzare un minimo di autonomia, e per di più anche con un buon incremento delle regole democratiche.

Sarebbe certamente un caso interessante. Un tentativo e una speranza di uscire dall’imperversante e tragico neoliberismo, che arricchisce minoranze e stritola masse intere con un processo, che in questo continente sembra essere anche più minaccioso che altrove.

* * *

Ma, a proposito di neoliberismo, vogliamo segnalare un caso, a metà fra il divertente e il sintomatico.

È quasi sempre un’operazione abbastanza divertente, quella di raccogliere “scicchezzai” e “stupidari”, cioè le contraddizioni, le debolezze logiche, le confusioni o le approssimazioni, magari alle soglie del ridicolo, che si sono espresse in pronunciamenti sconnessi, in verbosità altisonanti o in troppo comode formulette rituali. Tutti inconvenienti, nei quali a qualcuno, o a molti, è accaduto di inciampare.

Ci si sono messi in tre, in America Latina, per pubblicare “El manual del perfecto idiota latino-americano”, cioè la raccolta delle frasi, dei messaggi ideologici, dei pronunciamenti, che, a detta degli autori del libro, appaiono come luoghi comuni, di cui per cinquant’anni si è nutrito il dibattito politico in America Latina, “cose ridicole e assurde che si continuano a sentire”.

I tre, si badi bene, sono Alvaro Vargas Llosa, figlio del celebre scrittore Mario, ex incline a simpatie rivoluzionarie e reduce da un tentativo non riuscito di farsi eleggere presidente del Perù, Carlos Alberto Montaner, ex castrista esule in Spagna, Plinio Apuleyo Mendoza, ex guerrigliero colombiano attualmente direttore di un’agenzia di stampa. Si tratta, dunque, di “convertiti”. A parte la scarsa simpatia che destano i “convertiti” che sparano con aggressiva petulanza e addirittura con toni ridanciani sul terreno dal quale sono usciti, la domanda ovviamente è di sapere a cosa si siano convertiti, che cosa li abbia così convinti e persuasi. La risposta, implicita ma di piena evidenza, è: convertiti al neoliberismo, al libero mercato, alla tranquilla accettazione del corso delle cose, a non domandarsi perché le cose vanno in un certo senso e tanto meno se non sarebbe il caso di tentare e di sperare che vadano in altro modo.

Tutto ciò - il libro, i suoi autori, e perfino il dibattito a cui esso ha dato luogo sui mass media latino americani - potrebbe anche molto relativamente importare, se non ci fossero due dati abbastanza sintomatici da rilevare.

Il primo che in Italia la stampa, di solito abbastanza avara nel concedere spazio all’informazione su quel che succede nell’America Latina, ha dato un certo risalto a questa vicenda “editoriale”. Era l’occasione giusta per parlare di “caduta dei miti”, di “stupidario guerrigliero”, di “tabù” infranti, e via dicendo. È scattato il medesimo processo mentale, che ha accompagnato la caduta del muro di Berlino e il crollo dei regimi dell’Est. Tra i compiaciuti rallegramenti e i respiri di sollievo ci si dimenticava di chiedersi se per caso c’erano dei problemi che quei regimi, sia pure con scelte e metodi discutibili, anzi, se si vuole, fallimentari, avevano tentato di affrontare, problemi rimasti aperti, e pesanti, che non pare abbiano soluzione con la “conversione”, sic et simpliciter, alla libertà di mercato nella interpretazione più o meno reaganiana del termine, quale è ancora oggi molto corrente. Così nell’America latina, il fallimento di mezzo secolo di tentativi di avviare verso qualche soluzione più umanamente accettabile i problemi che la travagliano, non può fare ignorare che la ricetta neoliberista riesce soltanto a drammaticamente aggravarli. Può darsi che le sinistre si siano nutrite di stupidari, ma il cibo proposto come nutrimento dai “convertiti” al cosiddetto neoliberismo si sa assai bene - o si dovrebbe sapere - che cosa comporta.

* * *

L’altro dato è la singolare coincidenza fra questa uscita di allegro trionfalismo dell’intellighenzia neoliberista con l’incontro organizzato dai neozapatisti del Chiapas: “Incontro intercontinentale per l’umanità e contro il neoliberismo”.

Nel Chiapas, in quell’angolo sperduto del Messico, un’esigua minoranza0 india conduce da tempo una resistenza, che, assai più che affidata alle armi, appare governata da una salda prospettiva ideologica, di autentica e consapevole “modernità”. Lo testimonia questa singolare iniziativa di chiamare a raccolta tutti coloro, che hanno avvertito la inaccettabile tragica disumanità

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del neoliberismo che imperversa nel mondo. Può darsi che nell’occasione di questo incontro si lancino messaggi, che l’intellighenzia neoliberista raccoglierà per arricchire la prossima edizione del “Manual del perfecto idiota”. Ognuno alla storia del mondo dà il suo contributo: c’è chi si dà da fare per alleviare le sofferenze, c’è chi ci specula sopra, c’è chi in vario modo combatte, c’è chi si “converte” e trova anche modo di divertirsi.

Del resto non è nemmeno escluso che nel Chiapas per l’occasione siano arrivati, per partecipare all’incontro, inguaribili sognatori, romantici svaporati, gente che confonde il folklore con la rivoluzione, professionisti dell’hippismo. Resta il fatto che dove ci si raduna per una testimonianza enunciata con tanta chiarezza, qualcosa resta, un’eco si diffonde per il mondo. Quando e come questi fermenti e questi messaggi possano prendere corpo in concrete conquiste in grado di trasformare le condizioni di vita di intere moltitudini, nessuno può profetarlo. Ma pensarlo come possibile è già aiutare a creare le condizioni perché queste attese si realizzino.

I “convertiti” con il loro più o meno allegro cinismo operano esattamente in senso contrario: hanno trovato delle “ragioni” per ridere delle speranze.

Altri, per fortuna, continuano a trovare delle “ragioni” per continuare a sperare.

Agosto 1996

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I “romantici” e il neoliberista

A pagina 5 del numero 6/7 di Amanecer, uscito nell’Agosto scorso, a proposito dell’incontro organizzato dai neozapatisti del Chiapas, osservavamo che quell’iniziativa era, positivamente, sintomatica di un bisogno profondo, e aggregante, di decisamente manifestare il rifiuto di quel dilagante “neoliberismo”, che nella sua teorizzazione e, drammaticamente, nella sua prassi, si configura come la più inquietante e la più pericolosa prospettiva di fondo su cui si stanno assestando le scelte messe in atto dall’attuale corso del capitalismo, che governa le aree del cosiddetto “mondo sviluppato”. Osservavamo, anche, che l’intellighentia neoliberista, quando si trova di fronte a testimonianze, nelle quali si legga la convinta consapevolezza delle rovinosa disumanità del progetto a cui si è votata, assume volentieri toni di altezzoso disprezzo, anzi, “si diverte” a ridicolizzare chi non ne accetta il verbo. Il disprezzo e l’altezzosità di chi è dogmaticamente convinto di possedere la verità.

Manco a dirlo. ne abbiamo avuto la controprova con gli articoli, pubblicati su La Stampa, che pur è un giornale serio, di Paolo Guzzanti, che pur è un giornalista che sa usare la penna con intelligenza, ma, ahimè, questa volta con intelligenza neoliberista, cioè, questa volta, con radicale non-intelligenza, nel senso etimologico della parola, cioè di “intelligere”, di capire la cosa di cui ci si sta occupando.

L’inviato speciale Paolo Guzzanti ha costruito i suoi bei pezzi di colore rovesciando a piene mani arguzie a buon mercato e un pessimo gusto da giornalismo ridanciano sui protagonisti di una vicenda di cui gli è sfuggito completamente il senso.

D’altra parte era inevitabile, visto che, testualmente, in un suo ritorno sull’argomento in data 28 settembre u.s., egli afferma che “la colpa dei secolari delitti” compiuti in quelle terre “da satrapi e caudillos, cacicchi e governatori” non va “addebitata al neoliberismo occidentale e mercantile, cioè alla civiltà che ha prodotto quanto di meglio abbia saputo finora costruire il genere umano”.

C’è da trasecolare! Ma quei caudillos etc, chi mai li ha non solo tollerati, ma sistematicamente adoperati come elementi integranti dei meccanismi di potere messi in atto da quella “civiltà”? Del resto, a proposito di “civiltà”, forse Paolo Guzzanti non sa, o si è dimenticato di queste letture, che la sottolineatura della grandiosa straordinarietà delle imprese compiute dalla civiltà mercantile è già stata fatta da qualcun altro, per esempio da un certo Marx, in pagine famose di un opuscoletto che ha circolato in Europa ed altrove a partire dal 1848. Ma il problema era, ed è: come evitare “lacrime, orrori e sangue” (sono parole di Guzzanti), che hanno accompagnato e accompagnano il sistema con il quale è stata messa in opera questa civiltà? Questo è il problema, di cui hanno precisa nozione i “romantici” del Chiapas. Ed è il problema, che i neoliberisti si rifiutano di affrontare. Perché il “neoliberismo”, nella sua intransigenza ideologica, nella sua convinzione che non si può e non si deve fare diversamente, è “cinico”, non importa se in buona fede, che spesso fa tutt’uno con l’ignoranza, o in mala fede, cioè con un’alzata di spalle di fronte alla tragicità dei costi umani provocati dalle forme con cui è organizzata e cresce la “civiltà”; quelli in atto e quelli che inesorabilmente vengono preparati per il prossimo futuro.

Il neoliberismo è l’accettazione di una macchina implacabile, e i giornalisti, che la propagandano come il migliore dei mondi possibili, questi leibniziani da strapazzo, trovano “ridicoli” coloro che si rifiutano di accettarla come una “Necessità”, come un Moloch a cui si devono vittime e sacrifici.

Nell’allegro funambolesco fluire delle sue trovate ridicolizzanti Paolo Guzzanti, facendo uso delle armi più spregiudicate del giornalismo d’assalto, trova il modo di attribuire, a coloro che non rinunciano a contestare e a denunciare i risultati del neoliberismo, il desiderio di farsi “restituire le ricchezze” (sic, evidentemente con nell’orecchio Proudhon), una deplorevole inclinazione a coltivare il mito del buon selvaggio (sic! sic!, perché Guzzanti conosce anche Rousseau), l’incapacità di attenersi al “principio di realtà” (un bravo giornalista cerca sempre una pezza d’appoggio freudiana), la perversa ostinazione a non persuadersi che le leggi dell’economia sono

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eterne (della complessità di quest’ultimo problema il Guzzanti, da buon epigono del neoliberismo, sembra proprio non abbia alcun sentore).

Tra l’altro, si diverte anche, il Guzzanti, a infliggere punzecchiature a chi si muove nei dintorni della Teologia della Liberazione, con la tipica irritazione neoliberista nei confronti dei cattolici che non si accontentano di andare a messa.

Come si può notare, la cultura serve sempre a qualcosa, se non altro produce cascami, che, diceva l’immortale, ma purtroppo dimenticato Crapotti (orniamoci anche noi di un citazione colta) fanno “bèl védere”, alias riempiono di luccichii le pagine dei giornali.

Ma, dulcis in fundo e con volo pragmatico, gli zapatisti vengono anche accusati, oltre che di illecita concorrenza con le organizzazioni del turismo internazionale, di non sapersi imporre alle classi dirigenti del Messico, costringendole finalmente ad abbandonare le loro cattive abitudini di governo corrotto. (Bravo Guzzanti, vediamo un po’ se riusciamo ad aiutare quei “romantici” a uscire dalla foresta).

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Informazione e ottundimento dei valori

Chi entra negli anni della vecchiaia, e deve affrontare il disagio e il dramma della decadenza fisica, merita sempre, (un sempre da sottolineare), manifestazioni di attenzione, di rispetto e di affetto. Se, poi, la persona che porta su di sé quei segni dolorosi e “sacri”, è altamente rappresentativa di valori e gode quindi della stima e dell’affetto di chi in quei valori fermamente crede, si comprende che le manifestazioni acquistino risonanza e si facciano fenomeno di massa.

Ci siamo capiti: stiamo accennando alla malattia e al ricovero in clinica del papa. Un papa che ha costruito il succedersi dei giorni del suo pontificato con spettacolare sapienza, ottenendo grandiosi risultati di immagine.

Giovani Paolo II ha capito che i moderni mass-media sono in grado di realizzare una “visibilità” totale, accattivante e piena di fascinazione.

Li ha usati. Ma, ci sembra, in questa recente vicenda è accaduto qualcosa che, già latente o in germe in precedenti occasioni, è ora emerso macroscopicamente: i mass media hanno usato il papa.

Era, probabilmente, inevitabile. Nel rapporto di reciprocità e di scambio, che si instaura fra chi cerca il potenziamento della propria immagine e i detentori dei mezzi in grado di attuarlo, questi ultimi finiscono con l’avere il sopravvento: la “tecnica”, le “macchine” si impongono.

Non sembri dunque segno di gretto laicismo e di incomprensione del significato che ha l’immagine del papa, se diciamo che qualcosa è accaduto di sproporzionato e quindi di dannoso per la stessa immagine del papa e, in definitiva, per i valori di cui quell’immagine dovrebbe essere portatrice e simbolo.

Perché - sebbene la cosa a molti sfugga o per ingenuità o per indifferenza al senso e al peso di quei valori - un’immagine che si presenti puramente come tale, un’immagine che sia solo scena, spettacolo, curiosità, ridotta e parificata ad altre immagini, che servono per occupare i rotocalchi, i video, i titoli, che giganteggiano sulle pagine dei giornali, inevitabilmente non lascia più spazio ai valori nella loro complessità e problematica ricchezza.

Le cronache, i resoconti, i pezzi di colore, i commenti hanno invaso le pagine dei giornali raggiungendo livelli allucinanti di gigantografia La perdita del senso delle proporzioni si è accampata nei titolo cubitali: “Il mondo in ansia per Wojtyla”, titolava un importante giornale,“laico” anch’esso.

Il “mondo?” Un po’ di buon senso e di elementari cognizioni etnogeografiche non può far pensare che molto “mondo” non abbia avuto alcuna ansia?

È arma del peggior giornalismo usare la “falsificazione” retorica, attribuendo, come in questo caso, al mondo intero quel che si presume sia bello e commovente ostentare e celebrare. D’altra parte - come opportunamente e realisticamente si è chiesto qualcuno in una trasmissione RAI del mattino, trasmissione che consente di fare emergere opinioni e valutazioni, che di solito i mass media trascurano - siete mai stati al bar o in altri luoghi consimili, dove si può misurare il polso agli uomini reali, della gente, per avvertire come, appunto, le gente ha recepito quella gigantografia?

Giornali, si badi bene, ben inquadrati, nell’impianto che quotidianamente li governa, in una lettura di interpretazione, beninteso legittima, dei meccanismi in cui si travaglia il nostro tempo, quasi del tutto agli antipodi dei pronunciamenti di Giovanni Paolo II, quali in questi ultimi anni si sono particolarmente susseguiti, dopo la caduta del muro di Berlino, in vista di un mondo non dominato dal denaro e dl profitto.

Si dirà: un omaggio a chi autorevolmente è portatore e simbolo di valori che meritano riconoscimento. Può darsi. Ma si tratta, vistosamente, di omaggi e di riconoscimenti ostentati con la verbosa teatralità di chi sta praticando il vizio dello sfruttamento della notizia.

La “cattiva coscienza” ha indotto un articolista, che pur di solito è protagonista di un giornalismo meditato e avveduto, a sostenere la tesi che le esasperazioni, lo sfruttamento della notizia, gli eccessi, l’“impudicizia” (testuale), che “giustamente vanno stigmatizzate in altre occasioni”, qui andavano accettate, perché si tratta di un evento con “il respiro del sacro”.

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Lasciamogli questa responsabilità di pensare che il “sacro” possa accettabilmente convivere con ciò che lo nega.

Non è il caso di insistere troppo in questa casistica. e con il materiale esemplificativo, che video e stampa ci hanno offerto in pletorica abbondanza, con la clangorosa e sistematica presenza di un metodo fondato sull’idea, che quel che conta, dell’evento, è la spettacolarizzazione, costi pure il naufragio e l’annegamento di serietà, ponderatezza, senso della misura. Difficile non avvertire, nel fenomeno, uno dei rischi più gravi che stiamo correndo, l’ottundimento dell’informazione, sostituita dalla prepotenza della enfatizzazione. Magari anche un po’ servile.

Potrà sembrare irriverente, ma coloro che hanno imbastito questa scenografia non sanno, probabilmente, di esser già stati descritti, prima ancora che in una spassosa sequenza di “Blob”, che certamente avranno visto, da Rabelais nel cap.48 del libro quarto de “I fatti e i detti eroici del nobile Pantagruele”.

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Renzo Baldo

A proposito di “terzomondisti”

Accade, talvolta, di sentir dire che, con tanti problemi che abbiamo in casa nostra, non si vede proprio perché ci si debba tanto preoccupare di quel che accade in aree politico–geografiche, che appaiono, per la loro lontananza, fuori dai nostri immediati interessi e dalla marea delle difficoltà in cui siamo immersi.

Qualcuno perfino usa sarcasticamente il termine “terzomondisti” per additare al pubblico dispregio chi si dà da fare per tener desta l’attenzione su quei luoghi e su quelle realtà, anziché occuparsi dei nostri dilemmi e delle nostre quotidiane angustie, piccole o grandi che siano. Ricordiamo un onorevole che, con legittima aspirazione a vedersi riconfermato nel suo ruolo, in campagna elettorale cercava di sottrarre voti a un candidato domandandosi se, visto che si occupava, poniamo, del Salvador o del Cile, gli elettori del suo collegio potevano aspettarsi che dedicasse tempo ai loro problemi, nella loro circoscritta rilevanza locale, certamente estranea a quelle tematiche.

A costo di ingenerare sensazioni di noia e di saturazione, forse non è inopportuno ricordare, ai lettori di Amanecer, che questa rivista si occupa, prevalentemente, dell’America latina - con qualche attenzione, sia pure in maniera assai ridotta, anche ad altre aree del cosiddetto “terzo mondo” - perché appare oggi fondamentale recepire in tutta la sua portata la nozione, che possiamo indicare col termine di “orizzonte planetario”.

In altre parole, pur senza, ovviamente, nulla togliere all’importanza di capire cosa accade in casa nostra, e magari, se possibile, impegnarsi, perché a questa “casa nostra” si diano quei connotati, che sempre più ci sembrino rispondere a norme di civile dignità, occorre insistere, perché ci si renda conto che da almeno mezzo secolo in qua non è più possibile ipotizzare “isolamenti, più o meno “splendidi”. Il pianeta non è più fatto di isole, ma strutturato in vasi comunicanti, che ne condizionano ogni sua parte. Quel che accade in America latina o in Africa, e che così drammaticamente continua ad esplodere, in vicende come quelle che ultimamente hanno occupato le cronache dell’Algeria, del medio oriente, dello Zaire, ha direttamente a che fare anche con noi.

Non soltanto perché eticamente ci sconvolgono le notizie di quelle ecatombi di sofferenze e di morte che colpiscono quei popoli e quelle nazioni. Ed è certamente consolante constatare che mantiene solida presenza, abbastanza diffusa, lo zoccolo duro di una pubblica opinione, che sente come scandalosa la offensiva disumanità di quegli eventi (diciamo “abbastanza”, perché qualche cinica indifferenza non manca, condita con ideologismi di basso darwinismo). Non soltanto, dunque, per motivi etici, ma per ragioni “politiche”, perché quegli avvenimenti non sono, come qualcuno crede, il frutto di insuperabili situazioni locali, attardate in irrimediabili barbarie, ma il risultato di processi e di comportamenti, per peccati di omissione o per scelte deliberate, che scaturiscono da una vicenda di scontro e di lotta che è implacabilmente in atto. Una vicenda, che oppone chi è protagonista della scalata verso una globale gestione del potere economico a chi inesorabilmente ne viene travolto e in un modo o nell’altro ne paga le spese.

“Spese”, che, variamente distribuite, nelle forme più diverse, dall’emarginazione allo sfruttamento, ricadono, come tempeste e come cicloni, sui luoghi più indifesi e sui luoghi dove le difese sono state scardinate.

Accade spesso di leggere, sugli organi di stampa, articoli che con buona informazione e con rigorosa analisi descrivono, con accenti di deplorazione più o meno espliciti, la intollerabile tragicità di eventi, che le cronache registrano. In uno di essi, forse per rimediare alla sensazione di desolato pessimismo che ne risultava, si concludeva affermando che, per fortuna, la speranza non muore mai, perché, diceva, “dal grembo sanguinoso della guerra alla fine è sempre nata la pace”. Che rischia di essere, suppergiù, il celebre argomento di Bertoldo, che quando c’era brutto tempo si rallegrava, perché sicuramente poi sarebbe venuto il bel tempo.

Siamo proprio sicuri che, come dopo il temporale di solito viene il sole, dopo i disastri della guerra o di suoi equivalenti, arrivi, risolutrice, la pace, intendendo per pace la reale soluzione dei

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problemi? Questa opinione può essere consolatoria, ma è certamente ingenua. La speranza non può essere pensata come una certezza, che si attua per una sua intrinseca forza “naturale”.

Descrivere, anche con dolorosa partecipazione, i fatti, senza individuarne le cause, e nulla dire e fare, perché esse vengano rimosse, cioè senza scoprirne le “ragioni politiche”, cioè le molle e gli ingranaggi, che scatenano gli eventi, appartiene, appunto, alla sfera, lodevole, ma non sufficiente, delle emozioni etiche.

Potrà sembrare predicatorio, ma è irrinunciabile ricordare che è importante saper coniugare etica e politica, cioè accompagnare i buoni sentimenti con la consapevolezza di ciò che è causa del male, che ci fa soffrire. Anche per evitare di rimanere intrappolati nella, abbastanza frequente, abitudine di falsificare la nozione esatta dei fatti e delle loro cause. Il fenomeno si manifesta nei modi più impensati, anche dove meno te l’aspetti.

Recentemente, in una trasmissione radiofonica, che gode, meritatamente, di buoni indici di attenzione, un ascoltatore ebbe a chiedere, al giornalista incaricato delle risposte ai quesiti posti dagli interlocutori, di esprimere la sua opinione sul fatto che, da accertamenti statistici operati su periodo abbastanza lungo da potersi interpretare come in grado di fondare una certezza, le affermazioni contenute nei titoli o nel corpo degli articoli di un giornale, noto per la sua polemica aggressività, a distanza di breve tempo risultavano, in altissima percentuale, gravemente inesatte o, spesso, addirittura false. Senza mai alcuna rettifica.

L’opinione del giornalista, che pur dichiarava di non condividere quel tipo di giornalismo, era che, sostanzialmente, la cosa era accettabile, perché serviva a stimolare l’attenzione e a vivacizzare il dibattito.

Probabilmente non si è trattato, come potrebbe sembrare a prima vista, di una difesa corporativa. È l’ombra lunga della consuetudine di accettare la menzogna come ingrediente naturale della vita quotidiana.

Dicembre 1996

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Asterischi

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Renzo Baldo

Alla ricerca del connettivo

Qualche tempo fa, in occasione di un incontro–dibattito, Massimo Cacciari ebbe ad affermare che una convivenza civile, pur nella diversità delle opinioni, delle ideologie, delle scelte, degli orientamenti, è possibile soltanto se esiste un connettivo di valore morale, vale a dire se alcuni principi di natura etica sono accettati e condivisi. Anche il cardinale Martini, nel suo intervento, ribadiva la fondamentalità di questa esigenza.

Possiamo considerare augurale che la concordanza di vedute su quel principio sia stata espressa con risolutezza da un filosofo di cultura laica, e per di più politicamente impegnato, e da un prelato, che non ha mai esitato a conferire alle proprie responsabilità pastorali una solida prospettiva di impegno civile.

Forse si potrà osservare che si tratta di un convincimento che dovrebbe darsi per scontato. Quasi una ovvietà.

Ma non poi tanto. Si tratta, infatti, di un principio largamente disatteso. Ovunque? A testimonianza di un irrimediabile difetto della umana natura?

Per certi versi può anche darsi. Non possiamo però disconoscere che il peso, con cui questo “difetto” si manifesta, assume rilevanze maggiori o minori a seconda di come condizionamenti storici e culturali lo limitano e, per così dire, lo tengono sotto controllo. Sicché non è senza inquietudine (forse anche sgomento) quando se ne avverta un suo dilagare in forme fluviali, da fiume in piena. In Italia, per esempio.

Chi, in Italia, si guarda attorno, fa un po’ fatica a individuare qualche principio etico, che si sia instaurato come norma diffusa e universalmente accettata, come connettivo che garantisca sicuri livelli di vita civile. Si può, invece, con molta maggior facilità, scoprire la diffusa presenza di principi del tutto antagonistici a tale esigenza.

Pensiamo sia giunta con solerte tempestività, in questi giorni, la pubblicazione di “Storie delle repubbliche italiane” del Sismondi (ed. Bollati Boringhieri), un libro che, quasi due secoli or sono, denunciava il collasso morale della nazione italiana.

Con una denuncia, che, per quanto risorgimentalmente accompagnata dalla quasi certezza che gli italiani, se volevano, potevano recuperare la loro dignità morale e civile, fece molto scalpore. Ma viene oggi il sospetto che quel degrado della moralità civile sia un fenomeno endemico e di difficile modificabilità. Stratificato e tramandato per successioni ereditarie, e potenziato di generazione in generazione. Ed è fin troppo facile avvertire la presenza del fenomeno, oltreché a livello di documentazione storica, perfino nelle voci, non certo trascurabili, anzi per certi versi particolarmente sintomatiche, delle letteratura. Si pensi per esempio, a I vecchi e i giovani di Pirandello o a Gli indifferenti di Moravia.

Ma stiamo pure ai tempi nostri. E, per non ricorrere al fin troppo comodo cliché di Tangentopoli, del quale ci si può sbrigare con l’osservazione che riguarda i politici e non il popolo italiano, proviamo a diversamente esemplificare, ricorrendo a dati anche fin troppo noti, ma che non per questo perdono di significato, soprattutto se si evita di farli cadere nel baratro della noia provocata dalle cose fin troppo enunciate. I dati, per esempio, della evasione fiscale, recentemente conosciuti tramite, finalmente, una elaborazione statistica, che ha altissimi gradi di certezza. Essi collocano il nostro Paese larghissimamente al di sopra delle media europea, in proporzioni percentuali che fanno spavento. Da noi la cosiddetta “evasione fisiologica” è un punto di riferimento inesistente. Esiste, semplicemente, l’evasione massificata.

Forse è il casi di ricordare che, da non molto, ma in modo esplicito, nell’ambito della Chiesa cattolica, con il superamento di talune antiche definizioni che ne attenuavano la rilevanza morale, la evasione fiscale è stata annoverata tra i peccati mortali. Gli italiani, statisticamente quasi tutti cattolici, continuano imperterriti nella loro consuetudine di evasori, con un gusto per l’illegalità, che non contribuisce sicuramente a costruire orizzonti di vita civile.

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Che ne è della “borghesia”?

In una intervista pubblicata da Laterza, Giuseppe De Rita, grande esperto di dati e di fatti, nonché abile tessitore di griglie interpretative, è giunto alla affermazione che, in Italia, non c’è borghesia. Anzi, non c’è mai stata, almeno negli ultimi cinquant’anni.

Quel caotico agglomerato che chiamiamo “ceto medio” è un calderone nel quale confluiscono disordinatamente i più disparati gruppi sociali, preoccupati esclusivamente di mantenere e incrementare guadagni, profitti e rendite, che gli consentano di godere, poco o tanto - possibilmente tanto - dell’offerta di benessere in atto.

Naturalmente chi non riesce a districarsi tra le maglie dei meccanismi che garantiscono il godimento di almeno qualche quota percentuale del benessere, esce dal “calderone”, passa tra i poveri. Una volta si chiamava proletariato. E anche questo mutamento di terminologie è sintomatico.

Comunque sia, tutti quelli che si trovano nel calderone non hanno nulla a che fare con la “borghesia”, quale nel passato si è storicamente configurata come classe, che opera in funzione dei propri interessi, ma radicata in una cultura in grado di costruire un progetto capace di coinvolgere, almeno in fieri, l’interezza di una nazione.

Così come non ha niente a che fare chi si libra nei cieli più alti della ricchezza. I Gianni Agnelli, sostiene De Rita, non senza pungente provocazione, non sono borghesi, ma aristocratici, e le aristocrazie, per loro natura, sono estranee all’idea di bonum commune.

De Rita pensa dunque alla borghesia come a un “non luogo”, ma non nel senso di Tommaso Moro, come luogo che sarebbe bene che ci fosse, ma come a un luogo scomparso. C’era, poniamo, nelle Fiandre del’600, nell’Inghilterra da Cromwell a Gladstone o, più che ovvio, nella Francia dell’Encyclopedie. In Italia, chissà, forse, almeno larvatamente, ai tempi di Cavour o, con qualche dubbio, di Giolitti.

Ma come mai quel “luogo” è scomparso?Nel discorsi di De Rita si possono intravedere accenni a possibili risposte. Per esempio quando

allude alla dilagante propensione della “non borghesia” a immaginare un futuro abitato da popoli di rentiers.

Questa, che sembra una battuta spiritosa, consente invece, in realtà, di avviare davvero un tentativo di spiegazione. Che non è certo una gran novità, ma a cui forse non sempre si dà il dovuto risalto: la crescita a spirale della ricchezza o anche, semplicemnente, della aspirazione ad essa, tramutata in esclusiva molla propulsiva della vita civile, determina un devastante svuotamento, che non consente altro progetto che quello di alzare difese o di scatenare aggressioni per garantirsi la sopravvivenza in una battaglia - in realtà, piuttosto una rissa - che davvero assume le caratteristiche dell’homo homini lupus.

Celata dietro accattivanti veli ideologici, questa battaglia ha intessuto, sempre più pesantemente con il volger degli anni, la vita della cosiddetta prima repubblica. Di questa battaglia, sempre più rissosa, è intriso il faticoso avvio della cosiddetta seconda repubblica. Coloro che tentano di contrapporsi a questa dilagante marea facilmente rischiano di essere travolti o di essere condannati ad una rapida emarginazione. Può darsi che ad essi tocchi, biblicamente, di essere il “sale della terra”. Ma nel frattempo sembra proprio di vivere su una terra segnata dall’assenza di fertlizzanti.

Ce ne stanno dando drammatiche testimonianze le vicende, i comportamenti, le ipocrisie pseudogarantiste tramite le quali si cerca di riportare la magistratura al silenzio e all’inazione, a cui per anni era stata condannata o si era autocondannata..

Con il risultato di tener celato e di avallare un sistema di corruzione, che ha inquinato il Paese e che, si voglia o no, direttamente o indirettamente ha addentellati con l’alto grande male storico italiano, che è la criminalità organizzata di matrice mafiosa.

Vi sta portando un massiccio contributo lo spiegamento di forme di corporativismo, che hanno avuto il loro capitolo terminale negli incredibili pronunciamenti dei massimi esponenti di

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organismi come la Confindustria, che sembrano convinti che tocchi ad essi di stabilire come si debba governare il Paese. Questa è la strada verso il crollo di ogni legalità. Esattamente il contrario di quello per cui la “borghesia” aveva condotto le sue battaglie storiche. Che erano battaglie, e non risse.

Dicembre 1996

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Ricordando Roberto Balzani: Contro il “naufragio” della “informazione”

È trascorso un anno dalla improvvisa scomparsa di Roberto Balzani. Firmava questa nostra rivista, uno dei tanti luoghi dove aveva esercitato la sua attività di giornalista appassionatamente attento alle cose e agli eventi.

In anni, si badi bene, nei quali l’appassionarsi in nome di un’assunzione di impegno civile sembra aver sempre più ceduto spazio a forme di disincanto, nelle quali possono tranquillamente convivere dignitosa professionalità e ben dosato distacco. A questa oscillazione o, forse per meglio dire, contrapposizione, ha fatto riferimento l’iniziativa di una tavola rotonda organizzata da un gruppo di amici di Robi nell’occasione di questo anniversario .

In realtà, a voler meglio puntualizzare, i percorsi, sui quali ci si può avviare quando venga meno la “passione”, sono molto variegati e possono facilmente andare oltre il semplice disincanto: è, per esempio, breve e comodo il passo dal disincanto all’assopimento. Comunque sia, percorsi e scelte, che a Robi non si adattavano.

Nemmeno il disincanto. Come testimoniano le pagine che un gruppo di amici ha raccolto, affidandoli alla Piccola Editrice come segno di memoria e come invito alla lettura e alla riflessione. Una bella scelta antologica, di interventi maturati negli anni fra l’82 e il’95, nelle più diverse occasioni e su molteplici testate.

Chi percorra, anche solo per averne una prima rapida nozione (ma è facile notare che alcuni meritano un’attenzione meditata e circonstanziata) avvertirà subito, riteniamo, la fondatezza della caratterizzazione, che stiamo dando, della figura di Roberto Balzani e della sua esperienza di giornalista. Un’esperienza orientata a non lasciarsi mai sfuggire l’importanza della simbiosi fra il rigore dell’informazione e l’impiego, su di essa, degli strumenti etici e intellettuali capaci di sottrarla al naufragio dell’insignificanza.

Si tratta, come è ben noto, di un problema capitale, la cui soluzione è resa sempre più difficile dal dilagare limaccioso di una informazione disordinata, caotica, fittizia, che ingorga i video e la carta stampata: una palude dove è difficile orientarsi, scegliere, distinguere, capire.

Roberto Balzani ha combattuto tenacemente per contrastare questo grande male del nostro tempo. Un male che filtra nel tessuto della vita quotidiana, la corrode e la inquina, tra i furbeschi ammiccamenti di chi è interessato allo spegnimento delle consapevolezze, gli ingenui entusiasmi di chi si rallegra dell’abbondanza da bazar, la rassegnata pace interiore di chi avverte il fenomeno e lo ritiene ineluttabile.

La proposta della tavola rotonda sui problemi dell’informazione, in concomitanza con la presentazione del libro, era quanto di più giusto si poteva pensare per onorare la memoria di una persona, che di questo problema si era nutrita, portandovi una così intensa partecipazione

Sebbene la formulazione del tema facesse riferimento al luogo geografico dove Balzani ha operato (nel sottotitolo esplicitamente si diceva: “l’informazione a Brescia”) e di conseguenza, ovviamente, i relatori si siano prevalentemente soffermati su questa specifica realtà locale, l’argomento non poteva non coinvolgere questioni generali, che interessano tutti coloro che, in un modo o nell’altro, operano nel campo dell’informazione o di essa usufruiscono.

E per questo vorremmo darne accenno anche in questa sede. Almeno ad una di esse, che ci sembra porsi come supporto a tutte le altre, anzi come luogo propulsivo che tutte le coinvolge.

Possiamo tentare di esprimerla così, con un interrogativo: i Roberto Balzani e quanti, come lui (pochi o poco più che pochi), poco o tanto, sistematicamente o saltuariamente, si sono dati da fare per porre in opera qualche strumento, che, non diciamo assumesse la funzione, difficile, della informazione alternativa, ma almeno quella di non allineamento alle fonti di cui dispongono i poteri egemonici, sono dei Don Chisciotte o, se si preferisce, dei Robin Hood, impegnati in generose battaglie, che, se non proprio inutili - poco più di scaramucce, di episodietti marginali ed estemporanei - non possono certo intaccare e tanto meno mutare la realtà di fatto?

La quale, è noto, privilegia l’occultamento e, come abbiamo accennato prima, l’assopimento, privilegia quindi il disarmo dei Don Chisciotte.

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Parrebbe proprio di sì, se si ascoltano voci autorevoli, quali si sono levate anche nel corso del dibattito seguito alla tavola rotonda cui sopra abbiamo accennato.

Queste voci sostengono un argomento forte, che potrebbe perfino essere considerato “bello”. e cioè che una informazione, che non voglia essere ininfluente e che voglia avere le caratteristiche di essere alternativa o diversa o comunque capace di sottrarre le cose all’occultamento o alla deformazione, di impedire che diventino “le cose di cui non si sa più niente”, insomma che tenga il potere sotto controllo (perché, in ultima analisi, il problema è questo: chi detiene egemonie inevitabilmente tende all’occultamento e alla disinformazione) è possibile soltanto se si creano “cordate”, che con forza si propongano, con tutti i mezzi necessari, di costruire “diversità”, alternativa vera, solida, compatta, una diversità, ovviamente, da giocarsi sul piano politico, sulle grandi scene della politica.

Non si nega che questa prospettiva, questa progettualità, costituiscano un’idea forte. C’è però, almeno ci sembra, il rischio che resti soltanto un’idea. Possiamo anche con tutta sincerità augurarci di sbagliare, ma si fa molta fatica a intravedere. nella realtà in cui viviamo, uomini e strutture capaci e intenzionate ad assumere siffatte responsabilità e di affannarsi per dare peso coagulante a siffatti orientamenti.

Sicché, nel frattempo, tra gli interstizi di questa realtà sembra accettabile e opportuno che non si spenga la specie dei Robin Hood, dei Don Chisciotte, dei Roberto Balzani. Può darsi che non riescano a cambiare il mondo, ma sicuramente ci aiutano a portare su di esso un’occhiata non da dormienti.

A proposito: il titolo della tavola rotonda era “bella e addormentata”; l’informazione, s’intende. Ma non si sono ben capite le ragioni del “bella”. Un sinonimo di vistosa, corposa, formosamente fluente? Quanto all’ “addormentata”, siamo d’accordo: dovremmo cercare di svegliarla.

Febbraio1997

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Una abiura dal capitalismo? I sobbalzi della coscienza Ma non serve molto leggere Popper

Pochi mesi or sono sulla rivista statunitense “Atlantic Montlhy” George Soros, uno dei personaggi più “esemplari” dei piani alti dell’alta finanza mondiale - Soros dispone di una potenza economica gigantesca, e, tra l’altro, ha avuto un ruolo da protagonista nelle operazioni di supporto finanziario ai movimenti che hanno contribuito alla disgregazione dei regimi dell’Est, in particolare a Solidarnosc e a Cartha 77 - ha pubblicato un articolo-intervista di “abiura dal capitalismo” (testuale).

George Soros, sorprendentemente, vi sostiene la tesi che “la proliferazione incontrollata“ del capitalismo e il trionfo dell’ideologia neoliberista, con la sua celebrazione del mercato, distrugge ogni valore morale, produce “iniquità”, fa vincere “il più forte” e produce danni e devastazioni a livello individuale e collettivo.

Siamo dunque, pare, di fronte a un “pentito” del capitalismo.Non sappiamo cosa Soros in realtà intenda fare per contribuire de facto allo smantellamento o

alla correzione di rotta del capitalismo neoliberista. Tanto più che nel suo intervento egli sembra affidarsi, quale ipotesi di soluzione, alla teoria popperiana della “società aperta”, che, come è noto, si configura come un volonteroso tentativo di fondazione della società democratica, teorizzata, appunto, come una “società aperta” contrapposta alla società delle “verità assolute” (siano esse nazifasciste o comuniste), ma con assai scarsa predisposizione ad uscire dalla astratta “nobiltà” del principio per affrontare la corposa durezza della realtà, in altre parole per dirci cosa si debba fare per contrastare le devastazioni prodotte dalla macchina del capitalismo. Quel capitalismo che, per di più, si presenta oggi in modo perentorio proprio come una “verità assoluta”.

Il che dovrebbe far nascere il sospetto di qualche contraddizione.Comunque sia, la inaspettata esternazione di Soros ci può interessare non tanto per una sua

possibile interna capacità - sulla quale è lecito nutrire qualche dubbio - di prospettare soluzioni (i sobbalzi etici sono sempre apprezzabili e lodevoli, ma cosa possiamo congetturare che ora possa e voglia fare George Soros? continuerà nelle sue abili operazioni speculative? ne metterà i frutti a disposizione di coloro che si danno da fare per correggere o superare quelle “negatività” che anch’egli ha scoperto? ipotesi che davvero speriamo qualcuno gli suggerisca) quanto - dicevamo - per altri motivi, un po’ collaterali, ma abbastanza stimolanti.

Il primo è che, dopo qualche breve scalpore, rimasto appollaiato su qualche titolo di giornale, nessuno più si è soffermato a fare qualche riflessione su questa inaspettata e, certamente, clamorosa presa di posizione da parte di un personaggio di così grosso rilievo, un pilastro del “sistema”.

La risposta all’interrogativo, che non può non nascere da questa constatazione, potrebbe essere: siamo circondati da stuoli di intemerati leibniziani, convinti che questo in cui viviamo è, se non proprio il migliore, l’unico dei mondi possibili. Sicché sono trascurabili le opinioni e i sussulti di coscienza che pretendano di intaccare questa convinzione: la convinzione della immodificabilità della realtà.

E così, singolare cosa, al “pentito” George Soros è accaduto di trovarsi nella stessa situazione nella quale si trovano i “pentiti” di mafia, i cui racconti di orrori e nefandezze appaiono, a molti, come ovvie risultanze di una realtà, che è quello che è, inesorabile e intramontabile.

Questo accostamento tra alta finanza e mafia non paia irrispettoso o arbitrariamente provocatorio. Esso vuole essere, semplicemente, problematico.

Appaiono, di rado, e fuggevolmente confinati in qualche angolino di pagina, i dati relativi al “fatturato”, presumibile, ma quasi sicuramente assai vicino a verità, delle mafie, compresa quella italiana. Decifrare la mafia e le mafie è sicuramente impresa difficile. Ma sicuramente gigantesche sono le cifre che testimoniano la presenza delle strutture organizzative mafiose nei più diversi settori della vita economica. Domande: fa parte anche questo della “libertà” di cui teorizza il neoliberismo? non c’è proprio nessun rapporto fra i metodi e le forme organizzative del

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Renzo Baldo

capitalismo, tout-court, ma, nella fattispecie, del capitalismo neoliberista e la dilagante potenza delle mafie? E come mai questa dilagante potenza e presenza, internazionale e globalizzante, è irrefrenabile?

Le notizie che circolano, si tratti della Russia o del Giappone o di quanti altri mai, sono impressionanti. Esiste un “sistema” mafioso. Che si nutre di metodi, consuetudini, tradizioni “locali”, ma riceve linfa, impulso e giustificazione da interessi e consuetudini ben radicate a livello “globale”.

Questo “sistema” è in contrapposizione con il “sistema” capitalistico, ne è, per dire, l’immagine rovesciata, un prodotto malsano, un’escrescenza che si può sperare di curare e di eliminare, il rampollo degenerato di una nobile e onesta famiglia o non, piuttosto, una sua naturale filiazione? in una simbiosi inevitabile, utile e perfino ad esso necessaria?

Pensiamo sia lecito porre queste domande. Anche a Soros o a chi per lui. Sperando che non ci rispondano di leggere Popper.

Un secondo motivo di interesse, più consolante, potrebbe essere questo, che, dunque, c’è, serpeggia, anche se fa comodo negarlo o ignorarlo, una qualche presa di coscienza della inaccettabilità del verbo dominante. Serpeggia e si manifesta e non appaia paradossale se diciamo che, in qualche modo, finisce col portare i Soros, i possibili Soros, su un percorso che si incrocia - guarda un po’ che sorpresa - con gli uomini del Chiapas e con i Tupac-Amaros. Non c’è dubbio che questi, infatti, possono trovare incitamento e giustificazione da questa notizia, che perfino i Soros si accorgono di quel che accade sulle vie del mondo.

Aprile 1997

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Renzo Baldo

Una “bella notizia”: La politica delle teste di cuoio

La mattina di Giovedì 24 Aprile il corrispondente dall’Italia di un giornale di Berlino, ospite di un canale radio italiano, apriva la rassegna stampa dichiarandosi lieto di poter dare agli ascoltatori una “bella notizia”: erano stati liberati gli ostaggi dei Tupac Amaru.

Ha proprio detto così: “bella notizia”, senza aggiungere in solo aggettivo o un avverbio rituale, poniamo “purtroppo”, sul piccolo particolare, dato come marginale, che i Tupac Amaru erano stati tutti ammazzati.

Pur concedendo le attenuanti, che forse si devono a chi non servendosi della propria lingua madre può incappare in qualche approssimazione linguistica, appare indubitabile che la scelta dell’aggettivo, “bella”, indicava non solo una personale soddisfazione, ma il convincimento che essa fosse ovvia, naturale, largamente condivisa.

Non sappiamo quanto questo convincimento sia fondato, non abbiamo dati statistici per accertarne la presenza e la consistenza in termini percentuali.

Ma già il fatto che qualcuno, addentro nei meandri dove si recepiscono gli umori diffusi e, soprattutto, si contribuisce a formarli e ad alimentarli, dia per scontato che una simile notizia sia “bella”, è un dato sintomatico: il. sintomo di un modo di sentire e di pensare costruito dai mass-media in obbedienza ad una precisa direttiva, che ha il suo volano nelle centrali dove si stabilisce quel che è “bello” e quel che è “brutto”, quel che è “bene” e quel che è “male”. Nel caso specifico: niente compromessi con il “terrorismo”, comunque esso si manifesti; il problema “terrorismo” va risolto così, senza mezzi termini, senza mediazioni, con la politica delle teste di cuoio.

Questa perentoria radicalità di lettura e di giudizio su un fenomeno, nella sua drammaticità, così variegato e complesso, radicalità nella quale rovinosamente si mescolano rozzezza politica e ipocrisia, toglie di mezzo ogni possibilità di valutazione delle radici che generano il terrorismo, dei modi con i quali esso si manifesta e dei fini che intende perseguire. Con il risultato che non solo non lo si comprende, o si fa finta di non comprenderlo, ma si offrono le occasioni per perpetuarlo, anzi per renderlo più virulento

Come non è difficile prevedere che accadrà in Perù, dove l’inflessibilità che ha portato al massacro dei Tupa Amaru non è detto che produca maggior “sicurezza” a chi l’ha perpetrato con tanta implacabilità.

Peggio ancora: questa radicalità mette fuori gioco l’ipotesi o la speranza che abbia ancora un senso “dialogare”, che si possa far leva sullo strumento della mediazione, che non è rinuncia alla legalità, ma avvio ad una legalità più autentica, più capace di rispondere a problemi e a bisogni reali, di contribuire a risolvere situazioni nelle quali i cosiddetti “diritti umani” - così facilmente proclamati a parole, addirittura invocati, a parole, come criterio dirimente nelle grandi questioni che agitano le scene internazionali - sono cinicamente ignorati.

È proprio il caso del Perù. Della sua situazione, in occasione di questi ultimi eventi, perfino giornali e TV solitamente disattenti o guardinghi, hanno dato ampi e circostanziati ragguagli, tali da non lasciare dubbi che il terrorismo, in quelle contrade, è sollecitato da una realtà che non è enfatico definire di disperazione.

Alcuni commentatori hanno applicato alla vicenda la sottile distinzione tra “guerriglia”, che mette uomini armati contro uomini armati, e iniziativa “terroristica”, come tale condannabile, perché sottopone a sofferenze e a rischio di morte persone sequestrate, che non possono difendersi e vengono ridotte a puro oggetto di mercanteggiamento.

Distinzione, in linea di astratto principio, di ovvia accettabilità. Ma la violenza feroce, capillare, prolungata e aggravata di un sistema di governo che ritiene intoccabile il proprio monolitismo, a che sottile distinzione la sottoponiamo?

Sottili distinzioni, del resto, che, non dobbiamo dimenticarlo, appartengono alla riflessione, che, almeno presso certe sue componenti, è in grado di fare il cosiddetto mondo civile, quale si esprime o tenta di esprimersi negli interventi sui giornali, nei commenti e nei dibattiti, quali, sia pure in modo abbastanza marginale, si affacciano sui mass-media. Ad altri livelli, quelli che talvolta

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sogniamo come praticabili, quelli di una comunità internazionale che si faccia carico delle infamie che macchiano il mondo, pare sia impossibile di poter far ricorso, neppure con l’immaginazione.

Questa battaglia è affidata al “volontariato”: qualche associazione, qualche Amnesty, qualche prete, qualche madre de la Plaza de Majo. Che, come diversamente non può essere, scalfiscono quelle realtà con l’atroce sensazione della sua irrimediabilità, lasciando l’orrendo sospetto che non si riesca a far compiere alcuna retromarcia o contromarcia alle previsioni, perfino teorizzate, di coloro che, vuoi con sgomento vuoi con “scientifica” accettazione della cosa, sono certi che ormai il mondo vada avanti così: sobbalzi di protesta. irresistibile trionfo del rullo compressore della macchina che governa il mondo, alla difesa dei cui ingranaggi militano i Fujimori.

E così, nel frattempo, ci si può augurare che tutti gli ostaggi tornino sempre a casa sani e tranquilli, senza nemmeno domandarsi che ne è dei “cattivi”, non solo dei cattivi che li sequestrano, ma di tutti coloro che attendono il futuro nei luoghi dove sono rinchiusi per essere “rieducati”.

Giugno 1997.

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Il complesso di Erostrato: La Resistenza sotto processo

Il rifiuto, espresso con l’ordinanza di un giudice di Cassazione, di archiviare l’inchiesta a carico dei partigiani di via Rasella, con la conseguente richiesta di supplemento d’indagine, perché “l’attentato deve qualificarsi come un atto illegittimo di guerra”, ha suscitato, come era naturale, l’entusiasmo di coloro che - certamente non pochi - si possono qualificare, si voglia o no, come fascisti o cripotofascisti o parafascisti. Mettere sotto processo la resistenza è, per usare un aggettivo caro a certo loro antico linguaggio. sogno immarcescibile.

E che questo sogno o desiderio o istanza gli appartenga, è comprensibile. Ma - usiamo pure una sfumatura eufemistica - è sconcertante che qualcuno ipotizzi come ragionevole che in termini astrattamente giuridici un tribunale sia chiamato a decidere sulla legittimità delle scelte operate nel corso di una drammatica vicenda di scontro ideologico e militare, che ha sconvolto l’Italia e l’Europa.

Chi scelse di schierarsi contro l’ipotesi e il rischio di un’Europa nazifascista poteva anche discutere l’opportunità (non la legittimità) delle scelte operative, e questa discussione ci fu, e spesso con forti tensioni. Ma trasformare quella discussione, che poteva e può dar luogo a diversità di opinioni, nella pretesa di valutare gli eventi storici con interventi di natura giuridica apre la strada all’assurdo

E allo sconcerto e all’assurdo si accompagna una sensazione di grottesco, quando si viene sapere che l’ordinanza si richiama ad una convenzione dell’Aja, del 1907, nella quale si affermava il dovere, per i belligeranti, di “portare apertamente le armi” e di avere “un distintivo fisso e riconoscibile a distanza”. Ve li figurate i partigiani, soprattutto nelle città, con le armi in bella mostra e il “distintivo fisso e riconoscibile a distanza?”

Può sembrare perfino una goffa stramberia quella di pensare che i nobili e volonterosi principi enunciati nel 1907 in un contesto storico abissalmente diverso possano essere applicati per valutare le vicende che hanno segnato l’Italia e l’Europa negli anni della violenza nazista, negli anni, nei quali chi aveva instaurato un regime di terrore, deportava, fucilava, impiccava, schiavizzava. E aveva sì - su questo non c’è dubbio - “ un distintivo ben riconoscibile a distanza”.

La sensazione di assurdità e di grottesco fa perfino sospettare che il giudice in questione sia affetto dal complesso di Erostrato. Erostrato, si sa, ansioso di fama e di immortalità, per far passare il suo nome alla storia, incendiò il tempio di Apollo ad Efeso. Da allora, come è pure noto, ogni tanto qualche Erostrato emerge alla cronaca, con la speranza di passare alla storia. E non si può negare una qualche carica di allettamento all’idea di diventare protagonista di un evento in grado di diffondere l’idea che in ultima istanza la storia debba essere giudicata dai tribunali, magari anche con il gradevole risultato di criminalizzare ciò che non ci sta troppo a cuore. Eccola là, la storia, sotto l’occhio vindice del giure.

In realtà, a parte i possibili complessi di Erostrato, la vicenda ha tutt’altro rilievo. Criminalizzare la Resistenza, cioè negarne il significato di movimento nato dal rifiuto - etico, civile, politico - del progetto, tragicamente disumano, di un’Europa nazifascista, implica l’idea (il progetto) che non ad essa, ed ai valori, che essa ha rappresentato e rappresenta, ci si debba rifare, ma ad altri valori, ad altri principi. Se ne renda conto o no, quel giudice - che probabilmente, anche se non si può esserne sicuri, ritiene di aver proceduto con criteri puramente giuridici e formali - ha portato il suo contributo a spingere il nostro paese in una direzione, che può forse anche non essere, almeno per il momento, necessariamente quella della riproposta di forme fasciste dello Stato, ma sicuramente quella di una democrazia svuotata dei suoi contenuti sostanziali, per lasciar spazio esclusivamente alla democrazia dell’homo oeconomicus, di quel totale pragmatismo degli affari, che non senza motivo è stato recentemente definito dell’ “orrore economico”. Una scelta che non è molto sensibile alle sollecitazioni della coscienza civile, anzi le irride.

Sono in molti oggi a pensare la democrazia entro questi contorni; un insieme di meccanismi, di congegni, di marchingegni che consentono di partecipare alla giostra (come dobbiamo chiamarla? kermesse, saturnalia…) in cui confusamente si mescolano le idee di progresso, di sviluppo, di

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“crescita”, ridotte di fatto a vuote crisalidi riempite soltanto di una spasmodica ansia di accumulazione. Il benessere non come strumento di umanizzazione, ma come pletorico e inarrestabile accumulo.

Criminalizzare la Resistenza significa, oggi, più ancora che dare fiato e soddisfazione ai sostenitori di forme autoritarie e fasciste dello Stato, negare che abbia un senso (l’abbia avuto, allora; l’abbia oggi) combattere per forme di convivenza “diverse” da quelle sorrette dalla pura forza di chi detiene la grande macchina del potere. Che è, oggi, fuor d’ogni dubbio, la macchina gigantesca del potere economico.

Agosto 1997

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In Bolivia: Alternanza ed “eterno ritorno” Questo numero di Amanacer, dedicato monograficamente alla Bolivia, esce in un momento del

tutto particolare della vita del paese andino. Un momento, che potremmo definire “delicato”, per usare, tra l’eufemismo e la diffidenza, un termine, che abitualmente si usa in frangenti, nei quali non si capisce bene cosa stia succedendo e, soprattutto, non si vuole date l’impressione di essere, a priori, già pronti a pronosticare guai.

Perché “delicato”?Negli anni dal’93 al 97 la Bolivia è stata governata da un “liberale”, Gonzalo Sànchez de

Lozada. Non si può negare che, pur nel totale “rispetto” delle prospettive neoliberiste, qualche tentativo di ammodernamento del Paese sia stato compiuto - lo possono testimoniare anche alcuni contributi informativi che compaiono su questo numero della rivista - se non altro a livello di abbozzi e proposte legislative orientate a fare un po’ d’ordine nei comparti dell’amministrazione dello Stato. Si tratta di interventi legislativi, che, per conseguire i risultati che si prefiggono, hanno bisogno di tempi adeguati per la verifica delle loro capacità di superare antiche inerzie, di introdurre meccanismi in grado di governare gli apparati istituzionali in modi più formalmente corretti

Nel frattempo, però, nelle recenti elezioni ha avuto la meglio Hugo Bànzer. Un nome, che forse dice poco a chi si informi sulle vicende dell’Amer8ica Latina leggendo le notizie che appaiono (poche, rare, frammentarie) sui nostri giornali.

Dobbiamo allora ricordare che Hugo Bànzer ha esercitato la dittatura in Bolivia fra il’71 e il’78. Di quegli anni è il caso di ricordare qualche dato: enorme incremento delle sovvenzioni militari da parte degli USA; migliaia di incarcerazioni per motivi politici; una incessante diaspora di oppositori che cercavano di sottrarsi alla repressiva durezza del regime; assassinii e stragi: tanto che il tribunale Russel ebbe a pronunciarsi sulla dittatura Bànzer dichiarandola gravemente colpevole di violazione dei diritti umani.

Con questo bel curricolo alle spalle, Hugo Banzer non solo ha potuto tranquillamente presentarsi alle elezioni, ma le ha anche vinte .

È diventato Presidente “democratico.”, questa volta.Ora, sarà pur vero che la Democrazia, come una Gran Madre, può, anzi deve. accogliere tutti

fra le sue braccia generose, magari per rieducare. i figliol prodighi. Ma è difficile sottrarsi ad una sensazione di sospetto quando i dittatori si convertono alla democrazia. Tanto più che non si sono nutriti di ghiande; né sembrano inclini a fare atti di contrizione. Bànzer, per esempio, tranquillamente sostiene di essere stato un benemerito della patria. I dittatori, come è noto, si sentono tutti “Salvatori” .Difficile, anche, non sentire come ingenua la soddisfazione di chi interpreta questa “conversione” come un segno, un simbolo, di un processo in atto nell’America Latina: magari lento, ma sicuro progressivo superamento della tradizione, che l’ha pesantemente caratterizzata, di affidare a scelte militaresco-dittatoriali il proprio destino politico.

Chi di questa ipotesi è convinto, cita l’ammorbidimento del regime di Pinochet in Cile, la fine dello spietato regime militare in Argentina, il “socialdemocratico” Cardoso alla presidenza del Brasile. Perfino l’ineffabile Fuyimori, che, come è noto, non recede di un passo dalla implacabilità della gestione politico-economica che fa del Perù uno dei paesi dove la violazione dei diritti umani è endemica.

Bisogna certamente guardarsi dal pensare che sia facile affrontare con speranza di qualche successo il cumulo di disagi, di inadempienze, di drammatiche incrostazioni, di arretratezze, che si sono stratificate in quelle realtà.. Ma quando un ex-dittatore viene richiamato al potere con metodi democratici non si può non temere di essere di fronte alla testimonianza clamorosa che in America latina la storia non proceda, come i progressisti sperano, per moto rettilineo, pur con qualche sobbalzo, ma oscilli, come un’altalena, in una alternanza da “eterno ritorno” (ci scusino i filosofi dell’abusivo impiego di questa terminologia), dove il su e il giù, l’alto e il basso non arrecano alcun reale mutamento. Detto con altre parole, un po’ grossamente: quando la democrazia sta per

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realizzare davvero qualcosa, arriva il dittatore; quando il dittatore ha compiuto il suo repulisti, si recuperano gli strumenti della democrazia, e così via di seguito.

***

Chi vive e si è formato in Europa, in questa Europa dalle pur terribili vicende, nel suo modo di guardare alla storia, non solo passata, ma quella in atto, è condizionato dalla sensazione o convinzione che, bene o male, sul terreno delle conquiste sociali, e quindi sul non solo formale, ma sostanziale affermarsi dei metodi della democrazia sia abbastanza evidente il conseguimento di risultati apprezzabili.

Non possiamo dar torto a chi afferma che questo risultato è la vera patente di superiorità dell’Europa. Diciamo allora: di conseguenza, almeno in Europa, in molti siamo nutriti, o viziati, da una visione dialettica della storia, dall’idea che dagli scontri che la scuotono non possa non nascere “progresso”, positività, misurabile in termini concretamente visibili e godibili. Chi ha fede nel “progresso” è incline a credere che questo processo abbia caratteristiche di universalità, che, quindi, sempre ed ovunque abbia a realizzarsi.

Possiamo esserne sicuri? Non può darsi che altrove, magari nell’America Latina, le cose vadano altrimenti? Vadano nella direzione della stagnazione senza rimedio, dove la materia umana viene sottratta ad ogni speranza di mutamenti?

Naturalmente è facile fare un atto di fede, appellarsi all’inestinguibile accendersi delle speranze, che alberga, o può o deve albergare nei cuori umani; confidare, soprattutto, nella forza propulsiva di coloro (non pochi e ammirevoli), che operano affinchè questa minaccia di condanna non si imponga senza rimedio.

Ma il problema, allora, assume una configurazione che, a enunciarla, sa, purtroppo, di ripetitivo: questo eventuale processo di “liberazione”, di umanizzazione, per essere messo in atto sottraendolo alla prospettiva nebbiosa e fuligginosa di lontani, inquietanti e non calcolabili futuri, avrebbe bisogno di qualche maggiore attenzione. Il che, finora, non sembra essere preso molto in considerazione. Con il risultato di recuperare i dittatori mediante i metodi della democrazia.

Un fatto, questo, che sembra soltanto toccare gli affari interni di un Paese, e per di più di un paese, che, anche rispetto alla “lontananza” in cui si muovono le vicende dell’America latina, pare sprofondato in una totale estraneità, capace al più di stimolare qualche curiosità e di produrre qualche alone leggendario (il mito di Guevara ne è una prova lampante.)

Si tratta, però, di un fatto, che, a guardarlo bene, assume un significato che ci riguarda direttamente Si tratta, infatti, del significato “reale”, che assume quella prospettiva politica che usiamo indicare con il termine di democrazia. Una prospettiva a cui siamo, giustamente, affezionati, anche e soprattutto perché riteniamo che essa sia in grado di dare risposte adeguate a bisogni vari e profondi, in grado di garantire la vita civile nelle sue forme più giuste, opportune e necessarie.

Orbene, il problema, o la domanda, diventa questo: quale affidamento. di vita civile possono dare “democrazie”, che non riescono non diciamo ad attuare, ma nemmeno a dare avvio a processi di trasformazione, che sottraggano masse intere a condizioni di sudditanza e di emarginazione spesso tragiche? e comunque tali che la dostojewskiana condizione di “umiliati e offesi” in troppi luoghi di questa cosiddetta Madre Terra appaia come eterna e senza mutamento?

Abbiamo avuto occasione, altra volta, su questa rivista, di citare quel George Soros, uno dei grandi della finanza mondiale, uno di quegli Zeus dei quali basta un cenno per fare ruotare gli eventi come meglio loro aggrada. Dobbiamo dire che, se non altro, come alcuni suoi scritti tradotti anche in italiano testimoniano, si tratta di un Nume che non si nasconde, che anzi si impegna a riflettere sul rapporto tra i meccanismi della vita economica e le domande di carattere politico ed etico-sociale.

Recentemente in un’intervista rilasciata ad un quotidiano italiano sembra aver ben incentrato il problema. Testualmente: “Io parlo spesso della deficienza dei mercati, ma noi oggi abbiamo a che fare con la deficienza del processo politico e delle democrazie”. Molto bene. Salvo che nemmeno accenna al fatto che il sistema in atto consente, a coloro che governano i mercati, di imporre, con prepotente implacabilità, la loro volontà, la volontà economica, fino al punto di impedire il formarsi di una volontà politica, che abbia forza cogente, in grado di determinare orientamenti, che consentano di ottenere risultati di interesse collettivo, di interesse generale. Su questa meta

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“utopica” il disinteresse è largamente diffuso. Che ne è della possibilità di conferire autorità politica agli organismi internazionali? All’O.N.U.? Alle Conferenze Internazionali di varia natura?

Il disinteresse è addirittura teorizzato, sia con il conferimento al “mercato” del governo del mondo sia con l’affermazione che pensare diversamente è frutto di sogni utopistici ( e ci si consenta di ricordare la differenza tra “utopico” e “utopistico”).

Si spiega così il vuoto politico, vuoto riempito dalla prepotenza dell’economia pura. Si spiega la radicale inefficienza di molte cosiddette “democrazie”: producano esse “dittatori” o “presidenti”.

Dicembre 1997

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L’Abitudine all’occhio strabico

Poteva essere considerato antirusso, chi, negli anni tra Lenin e Breznev, avesse avuto qualche perplessità, o addirittura lo avesse dichiarato inaccettabile, sul sistema cosiddetto sovietico? o antitedesco chi, ai tempi di Hitler, avesse manifestato netto rifiuto del nazismo? Pensiamo di no. Pensiamo che il rifiuto di un certo modo di organizzare la vita politica e di governare i processi economici di un paese non comporti animosità nei confronti dei suoi abitanti, svalutazione delle forme che vi assume la vita culturale, negazione delle eventuali conquiste della scienza e dell tecnica, rifiuto di vedere e di capire aspetti del costume in grado di testimoniare presenze e fermenti di positiva umanità.

Come mai, invece, viene definito antiamericano (dove, come consueto, americano sta per statunitense), chi ha qualcosa da ridire sugli USA, su quel gigantesco centro di produzione di ricchezza, che fa da volano al sistema economico,

che governa ormai, più o meno, i 4/5 del pianeta?La difesa o, addirittura, la celebrazione del “modello” USA, diffusa dai mass-media (c’è un

columnist di un grande giornale italiano, che si è assunta questa specializzazione), e abbastanza corrente nella pubblica opinione, assume volti diversi

Diversità, che, ovviamente, è frutto della molteplicità dei volti di una società complessa (semplice ed omogenea solo apparentemente, forse soprattutto per chi la guarda da comodi itinerari turistici).

È comprensibile, per esempio, che si rimanga colpiti da quella sorta di spettacolo prodotto, soprattutto nelle metropoli, dalla convivenza di lingue, razze, religioni, l’una accanto all’altra, “in un comune senso di appartenenza” (cito da un bell’articolo che recentemente abbiamo avuto l’occasione di leggere). E certamente non si può non trovare una sensazione di stupore, intriso di bagliori fantascientifici, quando si abbiano informazioni, sia pure magari soltanto parziali, sui grandiosi successi del cosiddetto “sviluppo”, dai quali, tra l’altro, emerge quella prospettiva cosmico-spaziale, che nelle masse dei non addetti ai lavori coinvolge curiosità, fantasia, attese da psichedelico teatro siderale. E ancora: dietro le quinte, alle spalle del palcoscenico dove si svolge questo spettacolo, si può anche intravedere il pulsare della vita culturale, che lo prepara e gli si affianca, dalle roccaforti del sapere, le celebri scuole universitarie, i centri di ricerca, fino alle ribalte dei teatri, al mitico Metropolitan, crogioli, come oggi si usa dire, di una cultura planetaria o aspirante tale.

Né occupa meno posto, giustamente, in questa allettante e fascinosa panoramica, l’ammirazione per taluni meccanismi istituzionali, che permettono, per esempio, di mettere sotto processo il Presidente, l’uomo più potente del mondo (salvo verifica: forse c’è qualche Soros che lo condiziona) o, cosa ancora più importante, di colpire la cosiddetta “criminalità economica” (usiamo questo termine in senso giuridico-penale, perché, val la pena di non dimenticarlo, si possono compiere azioni criminali, moralmente e civilmente, anche in piena legalità), colpirla, dicevamo, in modi rigorosi, che, tanto per capirci, se applicati in Italia porterebbero in galera amministratori e imprenditori, che invece sfaccendano in ogni luogo e garriscono dai pulpiti televisivi.

Tutto vero, anche se fa sorridere l’entusiasmo celebrativo con cui alcuni corsivisti o detentori di rubriche ne parlano, che sembra di leggere Marinetti quando celebrava il passo di corsa, la velocità, il dinamismo, le macchine, senza per nulla sospettare cosa ci fosse dall’altro lato della medaglia. Perché anche negli USA c’è l’altro lato della medaglia, il lato, come qualcuno ha detto con immagine ben calzante, che sfugge agli occhi strabici dell’Occidente.

Si tratta, innanzi tutto, di un processo che colpisce il tessuto stesso degli USA, un processo, che sembra drammaticamente inarrestabile, di offesa al “materiale umano”, che vive nel territorio degli USA: costante crescita dell’area di povertà, rifiuto di accedere ad un qualunque progetto di sicurezza sociale, privatizzazione che ha invaso perfino le carceri, con l’impiego massiccio dei detenuti come forza lavoro a costo minimo, con coazioni, anche fisiche, che ripropongono forme di schiavitù.

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Questi fenomeni non sono riconducibili a quella marginalità sociale endemica, che, secondo alcuni, sarebbe, con qualunque regime, difficilmente eliminabile. Si tratta di fenomeni macroscopici, frutto di una precisa scelta socio-economica, teorizzata e perseguita con piena convinzione. E, con evidenza, coerentemente e strutturalmente organica con la grande macchina economico-finanziaria, che regge la “libera” economia mondiale, su gran parte del mondo producendo i suoi effetti perversi. Un modello che fa veramente sgomento, orrore. Ma chi ha l’abitudine all’occhio strabico, non vede. E quindi non vede, o fa finta di non vedere, che, proprio perché modello imperante, oltre che responsabile di scelte disumane già in atto, è dotato di una forza di imprevedibile espansione.

Gennaio 1998

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Dalle parole ai fatti? Ma Càrdenas non avrà vita facile

Come è noto, le recenti elezioni amministrative di Città del Messico hanno portato al governo della capitale il partito (PRD), che nel governo del paese è all’opposizione. Si è così instaurata, di fatto, una situazione di “dualismo”, i cui sviluppi potrebbero essere, se non proprio dirompenti, certamente però gravidi di qualche interessante sorpresa. In quale situazione essi potranno muoversi è azzardato prevedere e congetturare. Si può, per ora, prendere atto che Cardenas, che ha condotto il PRD al successo, non sembra molto disponibile al compromesso. I suoi primi interventi pubblici hanno messo allo scoperto l’ntreccio di arretratezza malavitosa con la quale la città è stata governata e portata ad uno sfascio fra i più rovinosi, che siano toccati in sorte ad una metropoli.

Cardenas ha pubblicamente letto l’elenco delle irregolarità, degli affari clientelari, degli occultamenti, dei buchi di cassa, delle frodi, dei rapporti fra criminalità e polizia, delle falsificazioni di documenti, che hanno fatto della capitale del Messico uno dei luoghi dove con maggior evidenza è in vista l’intreccio tra politici e criminalità organizzata. Dire queste verità e prendere i primi provvedimenti per tentare di far uscire la capitale da questo disastro, significa dunque non solo proporre un programma di risanamento (con l’augurio di riuscirci; almeno parzialmente, vista l’entità del degrado), ma chiamare in causa gli attuali detentori del potere, con il Presidente Zedillo in testa, quali corresponsabili, anzi conniventi (Cardenas ha perfino citato un sottosegretario del governo Zedillo, che ha gestito un ufficio incaricato di eliminare documenti, cosiddetti “confidenziali”, in grado di testimoniare malefatte di ogni genere). Possiamo scommettere che Cardenas non avrà vita facile.

È interessante osservare che nel suo discorso di insediamento Cardenas ha esordito affermando che la battaglia per dare al Messico ordinamenti civili capaci di sottrarlo alla rovinosa ingordigia di ristrettissime élites, che sullo sfascio del paese hanno costruito i propri privilegi e le proprie ricchezze, è incominciata 87 anni fa.

Forse è il caso di ricordare che nel 1910 hanno avuto inizio quelle vicende del Messico, i cui eco sono giunti a noi soprattutto tramite il cinema, con i film che avevano come protagonisti i Villa e gli Zapata, per non parlare del celeberrimo e quasi sconosciuto, “Lampi sul Messico” di Eisenstein. Una storia drammatica, spesso segnata da scelte coraggiose, ma altrettanto spesso confusa, frutto di caotici intrecci di interessi e di speranze, con i risultati di volta in volta o perversi o contraddittori o, comunque, privi di stabilità e continuità (assai brevi i momenti di autentico, sia pur parziale, progresso civile, tra cui sembra giusto ricordare la presidenza, tra il 1934 e il 1940, di Làzaro Cardenas, padre dell’attuale Cardenas.)

Il Cardenas di oggi, dunque, interpreta questa storia come un processo che può, anzi deve condurre, tramite il legittimo manifestarsi della volontà popolare, di cui anche la sua elezione è un risultato, la “democrazia”. Democrazia, evidentemente, non solo come sistema formale. ma come sostanziosa e sostanziale risposta ai bisogni reali “popolari”.

C’è un passo del suo discorso che merita di essere riportato integralmente: “Vivono e lavorano in Città del Messico più di mezzo milione di indigeni delle più diverse etnie del paese, che si trovano in situazioni di grave emarginazione e di svantaggio rispetto ad altri settori della società. Il nuovo governo si propone di lavorare con questi gruppi al fine di sviluppare le loro proprie forme di organizzazione e di partecipazione sociale, per promuovere le loro tradizioni culturali, per garantire il rispetto dei diritti umani di base”.

Si dirà che di belle parole è facile rivestirsi. Non risulta però che mai nel Messico si sia enunciato, a livello di responsabilità ufficiale e in sede di presa del potere, un programma politico-sociale, che solo ad enunciarlo può produrre effetti dirompenti, se si pensi a situazioni come quella del Chiapas, dove finora non sono state inviate belle parole, ma l’esercito e squadroni della morte.

Certo, a voler guardare con una certa dose di prudenza, le vicende storiche cui Cardenas ha fatto riferimento, proponendosi come continuatore e attuatore dell’anima “progressiva” in esse riscontrabile, rivelano un inquietante dato di fondo. Nel variare dei tempi e delle contingenze un dato si è sempre mantenuto con forte stabilità e incessante continuità: il permanere, in forme di

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assoluta gravità, della condizioni di emarginazione di cui soffrono vasti settori delle popolazioni messicane. Chi dà una scorsa alla storia del Messico (quasi tutti coloro che hanno cercato di portarvi una qualche speranza di riscatto sono morti ammazzati) fa fatica a sottrarsi alla tentazione di pensare in termini di fatalistica rassegnazione.

Nel penultimo numero di Amanecer 1997 (sul numero 7/8 stampato nel Dicembre scorso) prendendo spunto dalle recenti vicende della Bolivia, richiamavamo l’attenzione sulla drammatica alternanza, che caratterizza la storia degli Stati dell’America Latina, tra momenti, che sembrano avviare all’instaurazione di forme democratiche della organizzazione politica, e pesanti recuperi di regimi illiberali. Non senza quindi osservare che occorre evitare l’ingenua applicazione meccanica del troppo facile schema “democrazia - non-democrazia”, perché anche con la messa in atto dei metodi della democrazia - l’aspetto formale della democrazia ha la sua importanza, ma esso non ne esaurisce il senso e il significato sostanziale - si possono di fatto instaurare regimi intinti, sia pure con qualche variabilità di sfumature, nel nero inchiostro del peggior illiberalismo.

Sul Corriere della sera di Giovedì 22 Gennaio u.s. un ampio servizio è stato dedicato all’informazione su dei contributi di riflessione politica comparsi sulle pagine delle riviste statunitensi Foreign Affairs e The Atlantic, ad opera di due noti commentatori, sul problema che essi definiscono della “democrazia illiberale”.

Ce ne sono molte di “democrazie illiberali”, sparse un po’ dappertutto, dalla Slovacchia alla Corea del Sud, al Pakistan alla Thailandia, con larga presenza nell’America Latina, “democrazie” dove i Presidenti, regolarmente eletti, perseguono programmi di radicale illiberalismo, “democrazie oppressive”, come quei saggisti le definiscono.

Per la verità, non è una si travaglia, in aree marginali, e spesso emarginate, del dibattito politico, queste cose le sa, le discute, cerca di farle conoscere. Ma è certo positivo che su riviste statunitensi se ne parli, e che qualche giornale anche qui da noi se ne occupi.

Il Messico del Presidente Zedillo è un esemplare insigne di una democrazia che liberamente “elegge” e illiberalmente viene governata. Sulla complessità dei fattori che determinano queste situazioni è bene informare, è bene discutere, come, ci si consenta di autocitarci, la rivista Amanecer ha sempre tentato di fare.

Che un Cardenas stia impegnandosi a passare dai volonterosi recinti del “pensiero” e della “parola” a quello dei fatti, non può non indurci a registrare l’evento con grande partecipazione.

Febbraio 1998

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Renzo Baldo

Futuro “borghese” o “feudale”?

In un recente convegno tenutosi a New York, al quale hanno partecipato personalità di grande rilievo, sono stati affrontati i problemi di fondo della attuale situazione economico-politica mondiale, avendo come filo conduttore o, forse è meglio dire, come punto di riferimento, il dilemma fra la scelta che conferisce il primato alla “produzione” e quella che alza la bandiera della “cooperazione” e della “solidarietà”.

Di fronte a questo dilemma può venir facile la risposta, per usare un’espressione di Machiavelli, che “si vorrebbe e l’uno e l’altro”. Ma - il “ma” avversativo è nello stile di Machiavelli - ma sembra difficile, se si vuole il benessere e la ricchezza, rinunciare al primato della “produzione”. Questa secca contrapposizione è davvero insuperabile?

Per “cooperazione “ e “solidarietà” crediamo non debbano intendersi soltanto gli interventi - ben vengano, naturalmente; e che, di solito, non trovano molte difficoltà, salvo quando vadano a toccare o a sfiorare qualche interesse ben costituito - gli interventi della generosità, quale si manifesta nei molti rivoli suggeriti dallo slancio etico che segna le scelte di tanto “volontariato”, sostenuto spesso, anche, dalla convinzione che solo questa azione capillare può correggere il “male”, prodotto dall’implacabile funzionamento dei meccanismi economici; con quei termini, anche se in proposito suonano un po’ imprecisi, si può alludere anche a una consapevole, teorizzata, organizzata volontà di controllo e di orientamento del “produrre”.

In tal caso, comunque questa ipotesi o progettualità di orientamento debba manifestarsi, il superamento del contrasto tra le due esigenze appare come strada non soltanto auspicabile, ma necessaria. Se non si accetta l’idea di questa “necessità” vuol dire abbandonarsi al più nero pessimismo, vuol dire accettare qualunque conseguenza quello scontro abbia a determinare, tenendo ben presente che, nello scontro, è il “produrre” che sicuramente vince. Non si tratta dunque soltanto di una scelta etica, ma di una scelta politica. La scelta opposta, ovviamente, è anch’essa di natura politica. Si tratta, dunque, di due politiche, radicalmente diverse.

Queste considerazioni nascono spontanee se ci si guarda attorno, quando si è investiti dal vento delle notizie che giungono un po’ da tutte le direzioni.

Leggiamo, inorriditi, di lavoro minorile diffuso endemicamente in forme di spietato sfruttamento (e non soltanto nei paesi sottosviluppati); assistiamo al crollo di intere economie nazionali, crollo che produce cumuli di sofferenze e di miseria; sappiamo del diffondersi sistematico di forme di lavoro coatto, che ripropongono in modo “moderno” regimi di schiavitù. Ce ne informano perfino i telegiornali, con quelle loro immagini transeunti, che vengono a disturbare per qualche attimo la nostra quiete familiare, quando pranziamo o stiamo facendo la digestione.

Domandiamoci: è proprio un atteggiamento da buonismo predicatorio non dimenticare tutto ciò e chiedersi se quel che accade nel mondo dipenda da leggi inesorabili, che governano l’umano operare, con il suo affanno per la sopravvivenza e la corsa alla ricchezza o, piuttosto, da volontà ben determinate, che conferiscono queste impronte ai modi con cui gli uomini organizzano la loro esistenza? Proprio queste forme, e non altre, che pur potrebbero essere possibili?

Gli hobbesiani, chiamiamoli così, continuano da quasi tre secoli a ricordarci che l’uomo è lupus, egoista, competitivo; gli smithiani, chiamiamoli così, insistono nel ripeterci il ritornello che la “libertà” esige tutto questo e che solo con la libertà il mondo progredisce.

Consentiteci una citazione letteraria. Il nostro bravissimo (come scrittore; un po’ meno, anzi molto meno come elaboratore di ideologie) Giovanni Verga nella prefazione ai Malavoglia ci informava che nella “fiumana del progresso… i deboli piegano il capo” e devono accontentarsi di quello che gli tocca. Sembra che questo basso darwinismo sia ancora diffuso teorizzato e convincente.

Capita di leggere che nei paesi sottosviluppati le condizioni che schiacciano i poveri sono quelle che consentiranno la nascita di una borghesia che con la sua ricchezza (i suoi capitali) condurrà il paese ai fasti dello sviluppo.

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Renzo Baldo

Questo discorso ce lo siam sentito dire da quegli storici, che, per esempio, occupandosi dell’Italia post-unitaria, hanno teorizzato l’opportunità, anzi, la necessità della riduzione delle masse contadine alla miseria più nera e alla disperazione della emarginazione, per consentire il necessario rastrellamento di capitale su cui far poi partire il volano della rivoluzione industriale in Italia.

Ma siamo sicuri che fosse proprio così necessaria una scelta siffatta e tanto drastica? che non ci fossero alternative in gradi di eliminare o almeno ridurre quel pesante costo umano?

Questa logica, applicata all’America latina (ma non solo ad essa) fa ipotizzare entusiasmanti risultati (futuri, di un futuro inaccessibile all’immaginazione).

Ma oltre ad essere una logica insensibile ai costi umani, sembra, in realtà, essere contraddetta dal sospetto - oseremmo dire dalla quasi certezza - che, oggi come oggi, rebus sic stantibus, stando così le cose, come effettivamente si mostrano e stanno, lo sbocco sia drammaticamente un altro: il cristallizzarsi delle ineguaglianze, peggio ancora, il sempre più marcato accentuarsi della formazione di una società di stampo feudale, con caste o blocchi sociali chiusi in una immobile rigidità, dove chi è subalterno vede lo sviluppo esattamente come i servi della gleba vedevano lo svettare delle torri dei castelli

Certo, si forma una “borghesia”. Ma difficile immaginarla, in America Latina; in Africa, in Asia, con un destino e una funzione paragonabili a quella storicamente assunta nei paesi che oggi chiamiamo “occidentali” o “sviluppati”.

Per ora il meccanismo operativo sembra tutt’altro. Sembra essere quello di una passiva obbediente risposta agli impulsi messi in atto dalla “grande borghesia” che risiede altrove. I risultati quotidiani son lì a vedere, anche se i nostri quotidiani se ne accorgono molto saltuariamente.

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Renzo Baldo

Tra emarginazione e povertà: Carenze politiche sopraffazioni economiche

Forse i nostri lettori si ricorderanno di una riflessione che Amanecer aveva fatto, non senza qualche tono di stupore, in occasione di alcune dichiarazioni, con le quali un illustre esperto dei vertici della finanza mondiale prendeva le distanze dal “sistema” del quale egli è parte eminentemente attiva, indicandone la pericolosità. Ci sembravano dichiarazioni un po’ sospette, anche se, tutto sommato, da prendere come un sintomo interessante di “presa di coscienza”.

Non ci aspettavamo che il fenomeno assumesse proporzioni perfino dilaganti. C’è chi, con comprensibile pessimismo, lo ha etichettato come fenomeno riconducibile al gusto dell’omaggio verbale a qualcosa che si presume abbia valore etico; c’è chi lo individua come una ormai diffusa adesione al “verbo” Woytiliano, quale si è espresso con sempre maggior decisione nel richiamo alla difesa dei valori, che una visione puramente economica dei rapporti umani inevitabilmente calpesta.

Ma probabilmente queste spiegazioni non sono sufficienti. È anche possibile che, sia pure tra contraddizioni, e marginalmente rispetto all’impatto pesante con il quale l’esercizio in atto del cosiddetto neoliberismo schiaccia e offende, stia davvero maturando la percezione della pericolosità di un sistema, che è ecologicamente insostenibile e socialmente produttore di situazioni, che non si può esitare a definire catastrofiche, e tali, comunque, che soltanto una sordida inclinazione al cinismo può considerare accettabili.

A Ginevra, recentemente, su iniziativa di personaggi importanti per le cariche che rivestono, tra i quali Thomas Spencer, presidente della Commissione affari politici internazionali del Parlamento europeo, in un convegno dal titolo “Policing the word Economy” (cioè, “la conduzione politica dell’economia mondiale”), con il significativo sottotitolo perché, come, per chi?, in una tre giorni alla quale hanno partecipato politici ed economisti, si sono discussi i problemi della cosiddetta globalizzazione, non solo con una netta impostazione critica nei confronti dei sostenitori dell’attuale processo economico, su cui si reggono le relazioni internazionali, ma con il preciso rifiuto di considerarlo processo definitivo e vincente.

Altrettanto e ancora più sintomatico, a Londra il presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ha organizzato un incontro con le religioni di tutto il mondo (ne erano rappresentate tredici) per concordare una sorta di “nuovo corso”, che dovrebbe consentire alla Banca Mondiale e, di conseguenza, allo stesso Fondo Monetario Internazionale, di muoversi tenendo conto delle condizioni di povertà, delle problematiche ecologiche e, in linea generale, delle condizioni sociali (salute, istruzione, etc).

Il titolo del rapporto che la Banca Mondiale farà uscire nel 2000 è: “Capire la povertà”. Il progetto di “nuovo corso” dovrebbe reggersi su un costante scambio di informazioni tra la Banca Mondiale e i gruppi di lavoro e di informazione, che sarà cura delle “religioni” organizzare e rendere operativi.

Richiesto di come mai il progetto sia nato confidando nelle “religioni”, il presidente ha risposto che “quando si tratta di bisogni, le religioni hanno la rete migliore che esista”. Un riconoscimento probabilmente abbastanza fondato. Ma che, al tempo stesso - non sappiamo con quanta consapevolezza del problema da parte di chi così lo ha formulato - implica la convinzione che gli “Stati”, cioè la rete nella quale prende corpo la società civile e politica, sia a bassissimi livelli di volontà operativa, di capacità organizzative e di credibilità. Esso indica, dunque e soprattutto, la diffusa convinzione che è pur sempre il potere economico, che deve decidere, è il gigantesco apparato della rete del danaro e degli affari, che stabilisce come deve andare il mondo. Con, se appare utile, le opportune “segnalazioni” fornite dalla rete delle “religioni”. A testimonianza della intramontabilità dell’idea, che fa, delle Chiese e del “sacro”, lo strumento “provvidenziale”, che aiuta a rimediare ai guasti prodotti dal “profano”. Non resta, pare, che augurarsi che le “religioni” segnalino con decisione, e alzando fortemente la voce.

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Renzo Baldo

Le pagine che Amanacer propone in questo numero sono, nella loro varietà e perfino frammentazione, sintomatiche delle situazioni di “carenza” politica, nella quale si dibattono i paesi dell’America Latina. I tentativi di fare emergere linee di progettualità politica dotate di un minimo di autonomia rispetto agli interessi dei ceti economici dominanti vengono sistematicamente imbrigliati o svuotati o travolti Non è, lo sappiamo, solo un problema dell’America latina, ma non v’è dubbio che in America Latina esso ha assunto proporzioni devastanti e sconsolanti. Non c’è paese, in tutto quel continente, dove la democrazia non sia “limitata”, in “fase di transizione”, come eufemisticamente qualcuno ha detto, ma è una transizione che non finisce mai.

Si accede ogni tanto alle procedure che rendono formalmente attiva la democrazia, ma la sopraffazione e la violenza, con alternanze di sottili astuzie corrompitrici e disgreganti, restano. E restano l’emarginazione e la povertà, in forme offensive. La buona volontà di chi “segnala” e la generosità di chi porta il proprio contributo di presenza operativamente confortatrice, sono realtà inoppugnabili e degne di essere perseguite. Ma non bisogna stancarsi di ripetere che i meccanismi, che generano cumuli di sofferenze e devastazioni del tessuto sociale e civile, hanno il loro volano altrove.

Può sembrare una forma di fissazione mentale o il risultato di una cristallizzazione ideologica il ricordare che questo “altrove” sta nei grandi apparati dove si compiono le scelte economiche che condizionano la vita dei popoli e delle nazioni. Da lì discende l’arroganza, la prepotenza, la sopraffazione, la cloroformizzazione di ogni tentativo serio di democrazia. Si tratta di fenomeni corposi, diffusi come pratica di ogni giorno, favorita dalla certezza dall’impunità.

Ne sono testimonianza inquietante la facilità con cui in Argentina si impedisce di far luce sui crimini odiosi perpetrati dalla dittatura militare, il fatto, incredibile, che in Cile può diventare senatore a vita l’artefice di una spietata dittatura., l’endemico stato di violenza, che segna la vita quotidiana della Colombia, le remore che impediscono al Guatemala di uscire dal limbo di una “pace” raggiunta faticosamente, ma continuamente minacciata e gravida di un futuro del tutto incerto.

Non è un mistero che molte decisioni di fondamentale importanza, a livello mondiale, vengono prese da organismi che operano al di fuori di ogni controllo politico in grado di esprimersi in forme democratiche.

Il risultato di quelle decisioni, orientate in funzione di calcoli e di interessi economici, ricade su “popoli e nazioni” (chiediamo scusa delle ripetizione di questa formula, ma è inevitabile) condizionandone brutalmente l’esistenza

Lo ha ricordato recentissimamente anche Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai membri e agli esperti della Pontificia Accademia delle Scienze, sollecitando “governanti e nazioni” a “cercare nuove vie” per “attuare la democrazia”, al di là del prepotere “tecnologico” dei grandi organismi internazionali, che obbediscono alla pura dinamica economica.

Questo “verbo”, al di là del deferente ossequio, non pare, per il momento, ottenga molto ascolto. Nemmeno da parte di cristiani: anagraficamente “cristiani”, e perfino devotamente praticanti.

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A proposito di “libri neri”

“Il libro nero del comunismo”, frutto del lavoro di una équipe di storici francesi,ha fatto clamore. Se, almeno, stiamo alla risonanza che se ne è avuta sulla stampaÈ stato osservato che la cosa lascia un po’ stupefatti, perché il libro non offre, in realtà, quanto

a informazione, molto di più di quel che già era noto, raccontato e documentato in abbondanti serie di saggi e ricerche, uscite già da tempo, con contributi informatissimi, anche recenti. Il che può essere ulteriore testimonianza di un fatto non propriamente positivo, e cioè che non è alta, anzi assai bassa - pare, stando alle statistiche, soprattutto in Italia - la percentuale dei lettori abituali, nel caso specifico dei lettori di libri di storia.

Sicché si è costretti a pensare che il clamore si alzi soltanto quando un libro, indipendentemente dalla solidità e serietà con cui è stato costruito, vien fatto proprio dai mass media o, peggio ancora, adoperato con fini bassamente politici. Come, in questo caso, è avvenuto. Francamente, in modi perfino goffamente scoperti.

Ma su questo non è il caso di insistere. Per, invece, cercar di individuare quel che di rilevante è emerso, almeno là dove si è dato spazio a un dibattito serio.

Gli interventi, numerosi, hanno assunto le articolazioni più varie, toccando temi molteplici, che qui non possiamo certo indicare o riassumere, nemmeno per sommi capi. Possiamo, invece, fermare l’attenzione almeno su un punto.

A qualcuno, crediamo non a torto, è sembrato “sterile” che al conteggio delle vittime dei sistemi comunisti si contrapponga il conto, certo anch’esso altissimo, delle vittime del nazismo. (questa contrapposizione, effettivamente, sembra essere, alquanto rozzamente, il fine primario del libro in questione).

Il nazismo si fondava su un apparato ideologico, che esplicitamente propugnava la distruzione o l’assoggettamento schiavistico del “diverso”. Non c’è da meravigliarsi che con implacabile ferocia cercasse di raggiungere questo fine: Il “male”, il disastro in termini di costi umani provocato dai sistemi che si sono instaurati sul fondamento di una ideologia, il comunismo, che proclamava il “riscatto” degli uomini, merita una riflessione ben diversa di quella costruita sulla contrapposizione in termini di pura contabilità. Esige che ci si domandi se si è trattato di una serie di “errori”, di stravisamenti . dovuti alle contingenze storiche o alla deplorevole arroganza di apparati di potere persuasi della giustezza o della necessità delle proprie scelte o se, invece, il “disastro” fosse inesorabilmente collegato alle radici stesse del “progetto”.

Certamente per qualunque dei due corni del dilemma si opti, siamo di fronte a un dramma storico di proporzioni enormi. E, va detto, è tale enormità che probabilmente ha determinato l’aggrapparsi di molti, anche personaggi di chiara fama, al secondo corno del dilemma.

Il primo può sembrare più consolatorio (si può ancora sperare che, chissà, la provvidenza o l’astuzia della storia o, insomma, qualcuno ben protetto dalla sorte, riesca a quelle mete nella cui conquista altri, molti, troppi, hanno fallito).

Ma, anch’esso quasi consolatorio, il secondo (ripetiamo: quel “progetto” è malamente tarato, anzi, “mostruoso” fin dalle radici) si carica di ambiguità. Ed è su questa ambiguità che, in genere, gli interventi sono stati poco chiari.

Da un lato, infatti, esso comporta la spinta a ripiegare sulla convinzione, sempre pronta a balzar fuori dal groviglio dei nostri avvilimenti e sostenuta dalle memorie storiche (la storia è sempre stata un libro nero, ampiamente documentato, dalla ferocia degli Assiri in poi, lungo i millenni, fino ai nostri giorni) sulla convinzione che, comunque sia, gli uomini sono sempre malvagi e che il potere ne esalta l’intrinseca disponibilità ala sopraffazione, sicché, a destra o a sinistra, comunismo o nazismo, “qui non se ne esce” - direbbe il popolano del Belli - e non resta che barcamenarsi, sperando di riuscirci alla meno peggio, tra i marosi della violenza che percorre la storia.

Dall’altro lato, esso induce a riconoscere, magari con compiacimento,, che il “sistema” nel quale attualmente ci troviamo (diciamo: “occidentale”) è il migliore possibile, quello che pur tra

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intralci e difficoltà consente quella civile tolleranza nella quale può instaurarsi una civile convivenza, senza “utopie”, senza “ideologie”.

Se le cose stessero davvero e solo così, si potrebbe perfino lasciar correre sugli sdegni, di varia matrice, di chi accusa di piattezza, volgarità, goffa e tronfia vuotaggine il “borghese” che ne è il protagonista esemplare. Si potrebbe perfino tentar di accettare la civiltà del conto in banca e della omologazione telematica, in nome di una tranquilla esistenza garantita e protetta.

Ma non è così. La convivenza “occidentale” ha dato adito a un “libro nero”, che troppo frequentemente si è indotti a dimenticare: dimenticare le pagine nere, lontane e recenti, nemmeno vedere quelle che attualmente si stanno scrivendo. È la civiltà che ha prodotto e produce emarginazione, condizioni intollerabili di povertà, provocato rovinosi fenomeni migratori, messo in atto cinici interventi economici e militari che hanno alimentato razzismi e genocidi.

È il caso di ricordare che questa “civiltà” ha scatenato (giustificandola con mille sfumature “ideologiche”, alcune delle quali ancora in atto) la prima guerra mondiale (una inutile “strage”, come esattamente ebbe a definirla Benedetto XV, mentre ad altri è sembrata utile), terreno fertile per far maturare la seconda, i cui dati, altrettanto e più spaventosi, non stiamo a elencare, perché pensiamo siano noti a tutti, anche a quelli che non leggono i libri di storia.

È strano che quasi nessuno dei commentatori abbia riflettuto sul fatto che anche le pagine nere del comunismo non sono nate dal vuoto, ma da quella fitta, tragica serie di eventi, nella speranza di potervisi contrapporre con una scelta che fosse in grado di liberare dai meccanismi che li avevano determinati Sarà stata una speranza illusoria, ma ciò non toglie che fosse una speranza comprensibile.

Sicché risulta lecito pensare che gli autori del libro e, soprattutto, chi lo ha così vistosamente lanciato, abbiano affrontato la questione per “far cambiare discorso”, per nascondere da dove è nato il comunismo e per celare i problemi nei quali il mondo è, oggi - ma da molto tempo in qua - immerso.

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Quando gli eventi non sono “naturali”: Crocifissi e crocifissori

Le notizie, si sa, arrivano, transitano sulle pagine dei giornali con minore o maggiore evidenza, a seconda della forza di richiamo, che si ritiene possano avere sulla media dei lettori in relazione alla fluttuante variabilità degli umori redazionali, per scomparire nel giro di un giorno o poco più. Questa è, di fatto, la funzione entro la quale hanno preso forma gli strumenti mediante i quali si danno le notizie, i giornali appunto, e i mass-media in generale. Non c’è da stupirsene, tanto più che il vero problema, come è noto, sta non tanto nella, inevitabile, transitorietà del dato, di cui la notizia si costituisce, quanto, piuttosto, nei criteri di scelta e di evidenziazione.

Stando così le cose, può dunque, invece, suscitare qualche scalpore quando arriva la notizia, che a una notizia di forte consistenza non è stato dato alcuno spazio. Così, per esempio, recentemente soltanto dopo un mese si è saputo che un ciclone di spaventose proporzioni ha provocato,in India, migliaia di morti. Nemmeno i giornali di Nuova Dehli ne avevano parlato!

Sorpresa, stupore, recriminazioni, indignazione. Come è stato possibile ignorare un tale disastro? Non portarlo in evidenza sui titoli dei giornali del mondo intero? Sgomento, giustamente, e dolore, per i morti e per i vivi coinvolti nella devastante situazione di sofferenza, che ha colpito quelle popolazioni rivierasche dell’Oceano Indiano.

È però il caso di osservare che anche in questo drammatico caso, nonostante purtroppo non sia mancato un tasso non marginale di responsabilità attribuibili a negligenza umana (nessuno, per esempio, ha avvertito quella gente dell’approssimarsi della tempesta) è prevalsa la propensione a fare dei bei pezzi di colore, in grado di sollecitare emozioni davanti alle sventure provocate dallo scatenarsi delle forze naturali. Sarà probabilmente il loro aspetto spettacolare, che le privilegia, o forse lo sgomento ancestralmente radicato (e che in queste occasioni si rinnova) per l’incomprensibile e spietata indifferenza della natura nei confronti dell’uomo.

Alle calamità, alle situazioni endemicamente tragiche provocate dalla violenza messa in atto dalle umane decisioni si dà, di solito, assai meno rilievo. Per un verso, anzi, pure ad esse si applica, per una sorta di istintiva analogia, il medesimo trattamento: vengono sentite come episodi “naturali”, inevitabili; anche fonte di commozione e magari di raccapriccio, ma con scarsa o nulla attenzione alle umane decisioni che li hanno generati. La catena di scelte, di decisioni, di comportamenti, di errori, di sopraffazioni, che hanno creato quelle situazioni, passa in ombra e la notizia si accampa nell’alone oscuro della ineluttabilità.

Confessiamolo: stiamo di fronte a quel che accade (da decenni!) in Palestina o in Indonesia o nel Sudan o in Sierra Leone esattamente come davanti alle immagini di un bosco che brucia. Sappiamo che può essere la rovinosa intrapresa di qualche piromane, ma pensiamo che comunque non c’è niente da fare: il bosco brucia, e il piromane nessuno lo trova. Incliniamo anzi a pensare che forse la causa vera è l’autocombustione: esattamente così come in Palestina e in tutti quegli altri luoghi (drammatico elenco!) la causa sentita come vera è una sorta di “destino naturale”, immodificabile, che governa quelle genti, immerse nel groviglio delle loro situazioni “storiche” e dei loro comportamenti : anche la storia, anche i processi mentali che producono e governano le azioni possono diventare “natura”, stratificarsi in una difficilmente modificabile geologia.

Arriviamo allora al “dunque” di questa nota. Non possiamo negare che anche gli articoli e i servizi che compaiono su questo numero di Amanecer nella loro articolata complessità possano contribuire a provocare la mortifera sensazione che in America latina l’incrociarsi degli interessi, la prepotenza dei privilegi, il confuso tumultuare delle aspirazioni a mutare le condizioni dell’esistente, la sgomentante forza compressiva dei detentori del potere (quelli in primo piano sulla scena e quelli occulti) non lascino alcuno spazio a probabilità di mutamento, che la realtà vi abbia assunto le forme della immutabilità.

Un illustre giornalista, interpellato recentemente sulle tematiche cui abbiamo qui accennato, ha ricordato che “la capacità di emozionarsi non ha lunga durata nel tempo, e che, comunque, non possiamo farci carico del dolore di tutti”. E ha aggiunto: “persino le donne sotto la croce di Cristo hanno pianto, ma dopo un po’ se ne sono andate”.

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L’immagine è forte e certo non priva di efficacia (anche se, ci sembra, non del tutto pertinente). Ma il problema è, in verità, proprio quello di “ non andarsene” (del resto, quelle donne, di cui parlano i vangeli, si sono davvero allontanate per non pensarci più? non si saranno, invece, date da fare, perché quel dolore in qualche modo non restasse inutile?)

Fuor di metafora: insistere nel conoscere i fatti, non pensare mai che non ci sia più nulla da fare, scoprire, dei fatti, la radice, che ci faccia capire da quali scelte essi derivino, individuarne l’inaccettabilità, partecipare, per poca cosa che sia il nostro individuale apporto, al formarsi di una diffusa coscienza che bisogna fare in modo che non ci siano più né crocifissi, né crocifissori.

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Renzo Baldo

Si può rimediare al caos?

Nei primi anni del ’700, in Inghilterra un volonteroso e abile letterato, l’Addison, inventò il giornalismo (o almeno i suoi incunaboli) teorizzando la portata civile del giornale, fornitore di informazioni e sollecitatore di riflessioni e di prese di coscienza. L’ondata di ottimismo generata da queste convinzioni contagiò anche Hegel, il quale, come è noto, ebbe a definire la lettura del giornale una “preghiera laica”.

Le cose stanno ancora così? Dobbiamo pensare che la, indubitabile, scarsa diffusione (stando almeno alle statistiche) della consuetudine della lettura debba essere attribuita a una ancora troppo ampia cerchia di persone cui non interessa essere informata, né sentirsi sollecitata a riflessioni in grado di accrescere il loro tasso di coscienza civile?

Forse no. Stando ad alcuni sondaggi pare che, invece, chi sfoglia i giornali oggi sia indotto a rinunciarvi, perché indotto a sensazioni di sgomento: le realtà di cui ci informano sono così aggrovigliatamente devastanti da indurre a pensare che è meglio chiudere gli occhi e ripiegare nel nostro privato, per coltivarlo alla bell’e meglio (senza perdere tempo né in riflessioni né in “preghiere”).

Ci sono due raggruppamenti di coordinate, che trascinano verso questa sensazione di smarrimento. La prima è quella che possiamo definire come apocalittico-catastrofica: quale sarà il futuro dell’umanità? La mente si smarrisce: salirà l’acqua degli oceani per effetto dello scongelamento delle calotte polari sì da devastare il mondo intero? Assisteremo all’invasione degli emarginati e affamati del terzo mondo, di cui sperimentiamo già oggi i primi anticipi? Cosa costerà il crollo della supremazia statunitense quando i popoli islamici e gli indiani e i cinesi dilagheranno con forza e potenza tecnologicamente aggressiva e con materiale umano numericamente immenso? dobbiamo pensare il futuro della superficie terrestre come un arroccamento di isole assediate da masse formicolanti?

Si tratta di un terreno, nel quale si oscilla verso il fantascientifico, con la sensazione, comunque, che si è in balia di forze incontrollabili, che ci trascendono, tra la casualità e la quasi assoluta imprevedibilità. Avverrà quel che vorrà avvenire: io che ci posso fare?

Ma c’è un altro fascio di coordinate, quelle prodotte dai fatti che emergono nelle dimensioni del quotidiano, in ambiti più facilmente afferrabili dalla nostra mente. Anch’essi però tali da darci, se non proprio sgomento, certo qualche inquietudine, anzi la spinta verso stati d’animo che definiremo di “depressione”.

Facciamo un esempio. Per quanto oggetto delle irrisioni e delle battute mordaci dei “realisti”, che respingono ogni appello a progettualità di tipo utopico, è difficile non ricordare, e ribadire, che il tragico che incombe sul mondo potrebbe essere prevenuto, attenuato, avviato a possibili positive soluzioni, se davvero si instaurassero degli organismi di controllo, dotati di reali poteri, in gradi di superare gli handicaps in cui si è arenato l’O.N.U. Senza l’instaurazione, reale e operante. di meccanismi di questo tipo, la “celebrazione” dell’attuale “sistema” (meglio potremmo chiamarlo “sistemazione”), che governa il mondo, risulta, prima ancora che offesa all’etica, un insulto all’intelligenza (ammesso che si voglia adoperarla).

Un avvio a percorrere questa strada poteva essere l’istituzione di quel Tribunale Penale Internazionale, di cui si è recentemente discusso e di cui abbiamo assistito al varo, ma con poteri così limitati e con tali contraddizioni, anche procedurali, da gravemente limitarne la portata e le potenzialità. Si dirà: ma questi sono piagnistei su problemi tutto sommato di natura marginale. Può darsi. Ma è difficile sottrarsi alla sensazione che radicale sia l’inadeguatezza con cui le volontà politiche in atto nel mondo, così come oggi è congegnato, sappiano affrontare il problema cardine, che è quello di creare istituzioni in grado di mettere freni al caos, che tragicamente imperversa, quali che ne siano le radici. Un caos dai costi umani spaventosi, a cui si dovrebbe pur cercare un rimedio.

Sembra invece che si possa soltanto prendere atto della loro presenza. Se qualcuno, mosso da spirito caritatevole, vuole intervenire, faccia pure, dimostri la sua inclinazione al ben fare, magari

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Renzo Baldo

perfino alla santità. Gliene saremo grati, ampiamente lo loderemo (purché, naturalmente, non intralci troppo con qualche sua pretesa eccessiva). Ma sui nodi, sui grovigli che generano il male (il male con il peso offensivo della sua concretezza), è ancora convinzione diffusa e ben radicata che nessuno può farci niente.

Questa conclusione non esenta dal porsi domande. Tante domande. Eccone una: come mai crescono di numero gli squatters, con una ideologia così radicalmente negativa da non concedere nulla, nemmeno un abbozzo di dialogo, per quanto in forma di contestazione e di virulenta protesta, convinti che bisogna “rassegnarsi al letamaio”?

Sulla propria connivenza ad alimentare il letamaio in non pochi dovrebbero interrogarsi. Forse anche qualcuno che crede di aver la coscienza a posto.

Novembre 1998

AMANECER: Asterischi 54