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Storia costituzionale. Appunti dalle lezioni (Prima parte) * Paolo Passaglia Indice Introduzione................................................. 2 Prima lezione – Le origini della storia costituzionale unitaria..................................................... 4 Seconda lezione – La forma di Stato nel periodo monarchico- liberale.................................................... 19 Terza lezione – La forma di governo nel periodo monarchico- liberale.................................................... 38 * Testo inedito.

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Storia costituzionale. Appunti dalle lezioni(Prima parte)*

Paolo Passaglia

Indice

Introduzione.................................................................................................................2

Prima lezione – Le origini della storia costituzionale unitaria.......................................4

Seconda lezione – La forma di Stato nel periodo monarchico-liberale......................19

Terza lezione – La forma di governo nel periodo monarchico-liberale.......................38

* Testo inedito.

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Introduzione

La storia costituzionale italiana, pur nella sua relativa brevità – constatabile soprattutto

allorché la si compari con quella di altri Stati europei, quali, ad esempio, Inghilterra o

Francia – è segnata da una serie di avvenimenti fortemente caratterizzanti, non solo sul

piano istituzionale, ma anche su quello politico, economico e sociale, che suggeriscono la

successione di fasi diverse, connotate da elementi di più o meno marcata discontinuità.

Alla luce di tale constatazione, appare opportuno tratteggiare una periodizzazione che,

nella misura in cui non venga ad essa attribuito valore euristico, può offrire un utile

orientamento preliminare.

Per tradizione consolidata (cui non sembra dato derogare, tanto più in un caso, come il

presente, nel quale la finalità perseguita è esclusivamente quella didattica), le fasi della

storia costituzionale italiana sono così individuate:

1] un primo periodo, denominato «monarchico-liberale», copre i decenni che vanno

dall’unità (salvo quanto si dirà tra breve in ordine allo strutturarsi delle istituzioni) sino

all’avvento del regime fascista;

2] segue il periodo corrispondente alla dittatura fascista, il cui dies a quo è solitamente

indicato nel 28 ottobre 1922 (data della c.d. «marcia su Roma»), sebbene sia preferibile

argomentare nel senso dell’esistenza di una fattispecie a formazione progressiva, che da

quella data prende avvio;

3] la fine dell’esperienza fascista, storicamente datata 25 luglio 1943 (allorché il Gran

Consiglio del Fascismo ebbe «sfiduciato» Mussolini), apre il c.d. «periodo costituzionale

provvisorio» (o «transitorio»);

4] finalmente, l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il 1° gennaio 1948,

introduce una fase nuova, nella quale stiamo tuttora vivendo.

La quadripartizione appena accennata non esclude – anzi, implica, vista almeno la

durata di alcune fasi – la possibilità di individuare sottoperiodi, senza che, tuttavia, essi

inficino una fondamentale unitarietà delle esperienze dei quattro segmenti temporali

indicati: in quest’ottica, la trattazione che segue – di cui si pubblica la prima parte –

cercherà di rimarcare l’esistenza di continuità, discontinuità e «micro-discontinuità»,

suggerite dall’evoluzione della forma di Stato e della forma di governo. Tali ultime nozioni

orienteranno il metodo della ricerca, tesa ad isolare i caratteri essenziali dell’una e

dell’altra nelle singole fasi di cui si compone la storia costituzionale italiana.

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Prima di entrare in medias res, due ulteriori premesse sono peraltro necessarie. In

primo luogo, una particolare attenzione dovrà essere dedicata all’origine dello Stato

italiano ed all’iniziale suo assetto istituzionale, al fine di cogliere i rapporti sussistenti tra il

Regno di Sardegna ed il Regno d’Italia. In secondo luogo, lo studio storico dell’esperienza

costituzionale italiana consiglia di concentrarsi «sul passato», trasferendo l’esame più

approfondito della fase attuale all’esame degli istituti di diritto positivo, auspicabilmente

condotto anche in chiave diacronica.

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Prima lezione – Le origini della storia costituzionale unitaria

1. La formazione dello Stato italiano

La penisola italiana, nella prima metà del XIX secolo, era percorsa da un diffuso anelito

all’unificazione dei vari Stati ivi presenti, onde giungere ad una congruenza, personale e

territoriale, tra la Nazione italiana e lo Stato italiano: altrimenti detto, era radicata la volontà

di accomunare gli italiani all’interno di un unico Stato, indipendente dalle potenze straniere

egemoni (e segnatamente da quella austriaca).

Nel pensiero politico, questa volontà si tradusse in prefigurazioni teoriche

dell’unificazione sussumibili in due grandi categorie, l’una comprendente i fautori dell’unità,

l’altra i sostenitori della necessità e/o dell’opportunità di una federazione tra gli Stati

esistenti.

A teorizzare la formazione di uno Stato unitario fu, innanzi tutto, Mazzini, auspice di

un’insurrezione democratica al termine della quale raggiungere il duplice obiettivo

dell’unità e della repubblica. Analogamente, ma con un seguito assai esiguo in termini

numerici, il pensiero socialista-rivoluzionario propugnava una rivoluzione che associasse

all’unità un diverso assetto degli equilibri tra le classi (ciò che implicava, tra l’altro, la

necessità di una rivoluzione promossa direttamente dalle masse lavoratrici ed il connesso

rifiuto di una insurrezione di stampo mazziniano, condotta da intellettuali e borghesi).

Alle impostazioni insurrezionali si affiancò, ma solo dopo il 1848 (e per le ragioni che

vedremo tra breve), l’idea, che risulterà vincente, di una unità come frutto di un processo

guidato dall’«alto», ispirato dal liberalismo moderato sotto l’egida del Regno di Sardegna.

La difficoltà pratica di ipotizzare la creazione di un unico Stato, testimoniata anche dal

tendenziale fallimento dei tentativi di insurrezione che costellarono l’età della

Restaurazione e che culminarono con gli avvenimenti della Prima guerra di indipendenza

(1848-1849), alimentò approcci teorici diversi, accomunati dall’idea di creare una

federazione tra gli Stati esistenti. In questo ambito teorico si muovevano il federalismo

cattolico, il federalismo laico ed una impostazione che potremmo definire – mutuando il

lessico corrente negli studi di storia dell’integrazione europea – come «funzionalista».

Quest’ultima era propria essenzialmente dei teorici del libero scambio, che vedevano un

primo passo verso l’unificazione nel superamento di quelle divisioni giuridiche e materiali

che si frapponevano tra i diversi Stati: nella prospettiva di addivenire, in tempi

relativamente rapidi, ad una federazione, si propugnava, quindi, la formazione di un

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mercato unico delle merci, attraverso l’eliminazione dei dazi interni (sull’esempio

dell’unione doganale – lo Zollverein – sviluppatasi a partire dal 1818 tra gli Stati tedeschi),

ma anche attraverso l’unificazione dei codici di commercio e del sistema monetario,

nonché – al precipuo fine di rendere più agevoli le interazioni tra le comunità – la

creazione di una rete ferroviaria unificata. A questa impostazione potevano ascriversi

anche i nove congressi degli scienziati italiani tenutisi tra il 1839 (a Pisa) ed il 1847.

Attorno agli anni quaranta dell’Ottocento, si sviluppò un federalismo di impronta

cattolica, veicolato dal c.d. «neoguelfismo», che vedeva la necessità di affermare un

cattolicesimo liberale che favorisse l’indipendenza nazionale, anche attraverso riforme

interne agli Stati, tese a rendere possibile una confederazione di Stati posta sotto la guida

ideale e, poi, politica del Papato. Questa fusione di sentimento religioso e sentimento

nazionale, sancita dalla attribuzione al Papa della presidenza della confederazione, che

significativamente ribaltava l’ottica di Machiavelli (per il quale era proprio il Papato a

costituire l’ostacolo principale all’unità italiana), poneva in evidenza la circostanza secondo

cui, in un contesto nel quale la penisola era egemonizzata da una potenza straniera

fortemente ancorata alla religione cattolica, la Chiesa sarebbe stata l’unico organismo

capace, per autorità morale, di imporsi sull’Austria.

Il massimo esponente del pensiero neoguelfo fu Gioberti, il quale immaginava una

sinergia tra l’autorità pontificia e la forza politica del Piemonte sabaudo, destinato ad

essere lo Stato guida della confederazione per la sua superiorità (anche militare) rispetto

agli altri. Gli avvenimenti del 1849, con la fine della Repubblica romana, imporranno,

tuttavia, allo stesso Gioberti una rivisitazione di quanto teorizzato nel suo Del primato

morale e civile degli Italiani (1843).

Se per Gioberti la guida spirituale pontificia avrebbe permesso una confederazione

anche con la perdurante presenza austriaca nella Lombardia e nel Veneto e restando

immutati i confini territoriali dei diversi Stati, il presupposto di coloro che propugnavano un

federalismo in chiave laica era proprio l’allontanamento dell’Austria dal territorio italiano.

La polemica anti-austriaca era però uno dei pochi elementi di comunanza tra le diverse

teorie, sovente molto divergenti: alla visione sabaudo-centrica della federazione di un

liberale moderato come Cesare Balbo, si opponevano – pur se con minore successo in

seno all’opinione pubblica – il federalismo con forti accentuazioni sociali(ste) di Ferrari e la

concezione gradualistica, nell’ottica di una forte autonomia municipale, propria di

Cattaneo, avverso tanto al regime dispotico austriaco quanto a quello – ritenuto

culturalmente e politicamente arretrato – del Piemonte.

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La poliedricità di queste impostazioni (qui solo sommariamente evocata, tacendo di

molte altre posizioni pur autorevolmente espresse) venne ricondotta ad unità dalla azione

del Regno di Sardegna, che, sotto la guida del Re Vittorio Emanuele II e di Camillo Benso

Conte di Cavour, riuscì ad egemonizzare il panorama politico, convogliando lo sforzo per

l’unificazione sotto le insegne sabaude, nella prospettiva di una unità istituzionale di tutta

la penisola, strutturata sui modelli propri del regno subalpino.

La centralità assunta, nel processo di unificazione, dallo Stato sabaudo pone, sul piano

giuridico, il problema fondamentale dei rapporti che sussistono tra questo Stato e quello

che risulterà dopo che la penisola sarà stata unificata. In altri termini, il giurista è chiamato

ad interrogarsi sulla riscontrabilità di una continuità di fondo tra ciò che precede e ciò che

segue la proclamazione del Regno d’Italia ovvero sulla necessità di marcare un discrimen.

A tal riguardo, sono state avanzate fondamentalmente due tesi, l’una detta della fusione

(ANZILLOTTI), l’altra, prevalente, della incorporazione-annessione (SANTI ROMANO).

Secondo la prima, la progressiva riunione dei territori del Regno di Sardegna con quelli

degli altri Stati (o con province degli altri Stati) presenti nella penisola sarebbe stato il

risultato di una fusione tra ordinamenti giuridici diversi tesa a produrre l’esistenza di un

ordinamento giuridico nuovo ed il contestuale dissolversi di quelli preesistenti. Di contro, la

tesi della incorporazione (di Stati) – annessione (di territori appartenenti ad altri Stati)

postula la continuità del Regno di Sardegna, che si sarebbe esteso territorialmente a

scapito delle altre entità giuridiche sino a coprire (quasi) tutta la penisola (con l’eccezione,

fino al 1866, della provincia di Mantova e del Veneto, e, fino al 1870, del Lazio), ciò che

avrebbe reso il Regno d’Italia nulla più che la continuazione, con un nome diverso, dello

Stato sabaudo.

Onde prendere posizione sul tema, le indicazioni provenienti dai vari procedimenti di

unificazione territoriale del biennio 1859-1860, per quanto significative, non appaiono

conclusive, principalmente per la loro eterogeneità. Di seguito, se ne fornisce, comunque,

una sintesi.

a) La Lombardia (con l’esclusione della provincia di Mantova) venne ceduta dall’Austria

(per il tramite della Francia) con il trattato di Zurigo (10 novembre 1859). Il passaggio delle

province dallo Stato asburgico a quello sabaudo non venne subordinato ad alcuna

manifestazione di volontà popolare, essendosi – invero, opinabilmente – ritenuto valido nei

suoi risultati il plebiscito svoltosi nel 1848, con il quale, però, la volontà di far parte del

Regno sabaudo era stata manifestata nel quadro della espressa previsione di una

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assemblea costituente incaricata di stabilire le basi di un nuovo Stato, di cui la dinastia

sabauda avrebbe avuto la corona.

b) Il Granducato di Toscana venne annesso a seguito di un plebiscito indetto, per l’11

marzo 1860, da un governo provvisorio; il quesito che si poneva si sostanziava nella

dichiarazione di volontà di unirsi al Regno di Vittorio Emanuele.

c) Del tutto analogo (e pressoché contestuale, essendosi i plebisciti svolti il 12 marzo

1860) fu il procedimento che condusse alla riunione dei territori dei Ducati di Modena e

Parma e delle Legazioni pontificie di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna.

d) Il 21 ottobre 1860 si tennero, sotto il governo provvisorio di Giuseppe Garibaldi, i

plebisciti nei territori del Regno delle Due Sicilie. Con essi il popolo si pronunciò per

«l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi

discendenti». Precedentemente, peraltro, lo stesso governo provvisorio, per decreto,

aveva dichiarato l’annessione dei territori al Regno di Sardegna.

e) Finalmente, il 4 novembre 1860, plebisciti il cui quesito era identico a quello redatto

per il Granducato di Toscana e per i territori emiliani vennero tenuti, sotto l’autorità dei

commissari del Regno sabaudo, nelle Marche e nell’Umbria.

Ora, confrontando i diversi procedimenti seguiti, possono rintracciarsi tanto elementi a

favore della tesi della fusione quanto elementi a favore della tesi opposta: a titolo

esemplificativo, possono citarsi, nel primo senso, i quesiti dei plebisciti svoltisi in

Lombardia e nel Regno delle Due Sicilie, mentre, nel secondo senso, gli altri quesiti e, in

certi casi, anche l’organizzazione dei plebisciti direttamente da parte di agenti del Regno di

Sardegna.

Per sciogliere dunque l’alternativa tra la fusione e l’incorporazione-annessione non

possono non prendersi in esame una pluralità di altri fattori.

In favore della tesi della fusione, e della conseguente soluzione di continuità tra Regno

di Sardegna e Regno d’Italia, milita certamente la constatazione delle profonde differenze

tra i due riscontrabili in ordine a due degli elementi costitutivi dello Stato, quali il popolo ed

il territorio.

Ad una osservazione più compiuta, tuttavia, gli argomenti che fanno propendere per la

tesi dell’incorporazione-annessione, e dunque per la continuità tra Regno di Sardegna e

Regno d’Italia, risultano preponderanti.

Innanzi tutto, la fusione non è astrattamente configurabile per tutti i casi di riunione di

territori, bensì soltanto per quelli che hanno visto una unione tra due entità statuali (Ducati

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di Modena e Parma, Granducato di Toscana, Regno delle Due Sicilie), altrove trattandosi

necessariamente di trasferimenti di frazioni di territorio e di popolazione di uno Stato

(Austria, nel caso della Lombardia; Stato pontificio, per le Marche e l’Umbria) ad un altro

(Regno sabaudo).

Anche così delimitata la sua valenza, la tesi della fusione si scontra con la circostanza

che i plebisciti furono, in ogni caso, atti non di diritto internazionale ma di diritto interno,

riconducibili agli Stati destinati ad estinguersi oppure al Regno di Sardegna, che li aveva

indetti facendo dipendere dal loro esito la continuazione della situazione di fatto venutasi a

creare con l’occupazione militare da parte dell’esercito sabaudo.

Se i plebisciti furono atti di diritto interno, appare assai problematico far derivare da essi

tutti gli effetti che postula la tesi della fusione: la manifestazione di volontà di una

popolazione, infatti, avrebbe avuto il triplice effetto di far estinguere lo Stato preesistente

(ad esempio, il Granducato di Toscana), di far estinguere il Regno di Sardegna, per come

esso era fino al momento del plebiscito, e di creare uno Stato nuovo, risultante dai primi

due. In buona sostanza, si sarebbe attribuito alla volontà di una popolazione estranea

(sino a quel momento) al Regno di Sardegna il potere di far dissolvere il Regno di

Sardegna, ciò che pare – quanto meno – difficilmente argomentabile. Aggiungasi che, in

tal modo, si sarebbe in presenza di una successione – quasi un tourbillon – di Stati nati e

morti nel giro di poco tempo, nell’intervallo tra un plebiscito e l’altro (giungendosi anche a

recensire uno Stato durato lo spazio di un giorno, tra l’11 ed il 12 marzo 1860, data dei

plebisciti toscano ed emiliani).

Oltre che dai problemi che emergono a seguire la tesi opposta, la tesi della continuità

(come conseguenza della incorporazione-annessione) è poi suffragata da tutta una serie

di ulteriori elementi formali e sostanziali di non trascurabile rilievo.

Per quanto attiene agli elementi formali, viene in evidenza, in primo luogo, la

formulazione dei reali decreti emanati al fine di dichiarare, prendendo atto dei plebisciti,

l’avvenuta annessione delle province di volta in volta interessate allo Stato sabaudo (da

notare è, peraltro, che, nei decreti più recenti, quelli cioè relativi al Mezzogiorno, alle

Marche ed all’Umbria, si faceva espresso riferimento, a testimonianza dell’avvenuta

percezione del successo dell’opera di unificazione, allo «Stato italiano»).

Altro aspetto rilevante per la qualificazione giuridica in termini di continuità è la forma

che ha assunto la proclamazione del Regno d’Italia. La legge 17 marzo 1861, n. 4671, alla

quale si riconduce tradizionalmente la proclamazione ufficiale del «nuovo» Regno, si

limitava a prevedere, nel suo articolo unico, che «Vittorio Emanuele II assume[va] per sé e

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per i suoi successori il titolo di Re d’Italia»: la continuità con il Regno di Sardegna è qui

dimostrata dalla laconicità di un testo che parrebbe quasi tendere a risolvere l’intero

procedimento di unificazione nell’attribuzione al sovrano sabaudo di un nuovo titolo.

Puramente formale, ma non per questo da trascurare aprioristicamente, nella misura in

cui si inserisce nel contesto appena descritto, è la decisione che fu assunta di mantenere

inalterata la numerazione ordinale del Re ed anche quella delle legislature, che fece sì che

la prima legislatura del Parlamento post-unitario fosse connotata dal numero ordinale

«VIII», a segnare il continuum rispetto alle sette legislature del Parlamento subalpino (dal

1848).

Relativamente agli aspetti di sostanza che indicano uno stretto legame tra ciò che

precedette e ciò che seguì l’unificazione istituzionale della penisola può sottolinearsi la

circostanza che, nei rapporti internazionali, rimasero fermi soltanto i trattati stipulati dal

Regno di Sardegna, cadendo invece quelli stipulati dagli altri Stati.

Ad essere veramente dirimente è, peraltro, la spiccata continuità normativa tra il Regno

subalpino ed il Regno italiano, prodotto di una generale estensione del complesso del

diritto positivo piemontese all’intera penisola, simbolizzato dalla estensione a tutta la

penisola della vigenza dello Statuto albertino (su cui, v. infra) e veicolato, altresì, dalla

legge 20 marzo 1865, n. 2248, sull’unificazione amministrativa del Regno, comprensiva di

sei allegati, concernenti, rispettivamente, la legge comunale e provinciale, quella di

pubblica sicurezza, quella sulla sanità pubblica, quella sul Consiglio di Stato, quella sul

contenzioso amministrativo e quella sui lavori pubblici. L’insieme di queste normative (e di

altre, precedenti e successive), per quanto esse potessero apparire parzialmente nuove, si

caratterizzava per il forte legame con il diritto piemontese (non a caso significativamente

innovato nel 1859, nella prospettiva dell’ampliamento della sua sfera territoriale).

Non è dunque casuale che, per argomentare sul piano teorico la tesi

dell’incorporazione-annessione, chi – come MORTATI – ha preso spunto da questa

continuità normativa, ha potuto constatare il mancato mutamento della c.d. «costituzione

materiale», testimoniato dal fatto che «l’estensione al resto della penisola del complesso

normativo vigente in Piemonte fu espressione del predominio delle forze accentrate

intorno alla monarchia, che riuscì a frustrare l’aspirazione di quelle élites le quali, sotto la

guida spirituale di Mazzini, tendevano a realizzare un ordinamento del tutto diverso che si

adeguasse alle nuove esigenze».

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2. L’antefatto istituzionale: lo Statuto albertino

La conclusione cui si è giunti in tema di continuità della costituzione materiale tra il

Regno di Sardegna ed il Regno d’Italia rende indefettibile, ogniqualvolta si vadano ad

analizzare le istituzioni post-unitarie, un flashback che consenta di tratteggiare la struttura

delle istituzioni subalpine, destinate a divenire le prime dell’Italia unita.

In una indagine siffatta, valido punto di partenza può essere quello della promulgazione

dello Statuto concesso dal Re Carlo Alberto ai regnicoli sardi il 4 marzo 1848, e destinato

a reggere lo Stato italiano almeno per tutto il periodo monarchico-liberale (sulla perdurante

validità dello Statuto in epoca fascista, v. infra).

Per cogliere appieno la natura di questa carta costituzionale, conviene esaminare

partitamente il contesto nel quale essa venne redatta e le sue caratteristiche formali.

2.1. Quando l’ondata rivoluzionaria del 1847-1848 scosse l’Europa continentale, il

Regno di Sardegna era ben lungi dal potersi considerare come uno Stato politicamente e

socialmente avanzato. Il regnante, Carlo Alberto, una volta salito al trono nel 1831, aveva

abiurato le giovanili simpatie «liberali» (che lo avevano condotto ad appoggiare, durante i

moti del 1821, i militari rivoltosi) in favore della conservazione di istituzioni monarchiche

largamente ispirate al modello assolustico di Ancien régime.

Sul finire del 1847, tuttavia, la penisola italiana veniva percorsa da aliti riformistici

(soprattutto nello Stato pontificio, dopo l’avvento al soglio di Pio IX, e nel Granducato di

Toscana), riverberatisi, all’interno del Regno di Sardegna, in dimostrazioni e moti di

piazza, che, tra il settembre e l’ottobre, si verificarono a Genova ed a Torino, e che

indussero il monarca sabaudo a licenziare i più reazionari tra i suoi ministri ed a concedere

alcune, pur timide riforme (annunciate il 30 ottobre e consistenti, tra l’altro, nell’abolizione

di alcuni tribunali straordinari, nell’introduzione di una limitata libertà di stampa e nel

passaggio della polizia, già incardinata nel Ministero della guerra, al Ministero degli

interni).

Con il 1848, e la deflagrazione di una ondata rivoluzionaria che finirà per coinvolgere

l’intero continente, le riforme albertine si appalesarono insufficienti a soddisfare una

opinione pubblica profondamente colpita dal proclama del 29 gennaio con il quale il

sovrano di un regno notoriamente arretrato sul piano politico, quale quello delle Due

Sicilie, promise la concessione di una Costituzione, poi effettivamente promulgata il 12

febbraio, sulla base del modello rappresentato dalla costituzione francese del 1830 (la

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Costituzione c.d. orleanista).

La decisione del Re di Napoli ebbe vasta eco negli Stati della penisola, tanto che, nel

giro di poche settimane, costituzioni vennero concesse anche nel Granducato di Toscana

(17 febbraio) e nello Stato pontificio (14 marzo).

È in questo contesto che, su pressione dell’opinione pubblica, il Re di Sardegna si aprì

alle istanze riformatrici. Qualche giorno dopo il proclama del Re di Napoli, Carlo Alberto

convocò (3 febbraio) un «Consiglio di conferenza» (l’organo corrispondente, in larga

misura, a quello che verrà poi denominato Consiglio dei ministri), in cui discutere della

concessione di una costituzione.

Quale fosse l’atteggiamento della monarchia e dei ministri e quali fossero le intenzioni

che li animavano è ben rappresentato dalla frase con cui il Ministro dell’interno, Borelli,

argomentò la propria posizione (peraltro condivisa da tutti i colleghi) in merito alla

promulgazione di una costituzione: «bisogna concederla, non farsela imporre; dettare le

condizioni, non riceverle» [T.d.A.]. In buona sostanza, tutti i ministri di Carlo Alberto,

professandosi ostili, in astratto, ad ogni limitazione dell’autorità regia, si pronunciarono

nondimeno a favore della costituzione, ché essa veniva percepita alla stregua di un «male

minore», se non addirittura come un passo ineluttabile (dirà, ancora, Borelli: «la

costituzione è un male […]. Ma questo inconveniente sarebbe meno grande dell’altro. È

dunque meglio […] adottare un rimedio che sarà forse una sventura, che cadere in un

male più grande. […] questo rimedio è una costituzione» [T.d.A.]).

All’esito della riunione del 3 febbraio conseguì una nuova convocazione del Consiglio di

conferenza, allargato ad una decina di personalità di diverse tendenze, per il 7 febbraio.

La discussione allora svoltasi si concluse con una conferma degli intendimenti già espressi

e con la decisione di emanare un «proclama reale» che, unitamente all’annuncio della

concessione della costituzione, enucleasse quelli che ne sarebbero stati i caratteri

fondamentali.

Il giorno seguente, venne pubblicato un proclama con il quale Carlo Alberto dichiarava

di voler concedere «un compiuto sistema di governo rappresentativo», che si fondasse su

una serie di principi contestualmente enunciati in quattordici articoli. Tra i cardini del nuovo

sistema si segnalavano, in particolare: il riconoscimento della religione cattolica come

religione ufficiale dello Stato (gli altri culti essendo «tollerati», conformemente a previsioni

legislative); l’irresponsabilità del Re, il quale sarebbe comunque rimasto l’unico titolare del

potere esecutivo; l’attribuzione del potere legislativo al Re ed a due camere, di cui una

elettiva e l’altra di nomina regia; l’esercizio della giurisdizione, nel nome del Re, da parte di

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giudici inamovibili; la garanzia della libertà personale; la libertà di stampa (salva la

previsione di leggi repressive).

Così tracciati gli assi cartesiani del testo costituzionale che doveva essere redatto, il

Consiglio di conferenza in composizione integrata si riunì nuovamente il 10 febbraio e,

dopo sole cinque sedute, presentò al sovrano uno «Statuto», promulgato il 4 marzo e

pubblicato in duplice lingua (in italiano a Torino, in francese – lingua in cui le sedute del

Consiglio di conferenza si svolsero – a Chambéry, in Savoia).

Le vicende che seguirono, con la radicalizzazione dell’ondata rivoluzionaria, videro le

iniziali vittorie dei liberali successivamente annichilite dal ritorno delle forze moderate e

reazionarie, sì che tutte le costituzioni quarantottesche erano, alla fine del 1849, solo un

ricordo. Tutte, tranne una: lo Statuto del Regno di Sardegna era, infatti, sopravvissuto alla

disastrosa guerra tra Piemonte ed Austria. Da quel momento, lo stato sabaudo restò

l’unica entità politica italiana nella quale non fosse stato restaurato un regime di stampo

prettamente reazionario; su di esso, dunque, si concentrarono – come si è accennato – le

speranze di molti fautori dell’unificazione.

2.2. Il frangente in cui lo Statuto venne redatto caratterizzò fortemente il testo, per ciò

che attiene sia al suo significato storico-politico originario che ai suoi aspetti formali, oltre

che, ovviamente, ai contenuti in esso trasfusi.

Tralasciando, per il momento, l’analisi dei contenuti, pare di poter dire che il contesto in

cui la carta vide la luce e l’arrière-pensée dei redattori costituiscono una efficace chiave di

lettura per spiegare, quanto meno con buona approssimazione, (a) la denominazione che

alla carta venne data, (b) la scelta dei modelli di riferimento, ma anche (c) il tipo di

costituzione che ne risultò.

(a) Alla luce dell’evoluzione del diritto costituzionale posteriore alle rivoluzioni francese

ed americana, il nomen «Statuto fondamentale del Regno» suona anacronistico, se è vero

che le carte fondamentali dei regimi ottocenteschi si definiscono tutte (o quasi)

«costituzione».

La diversa denominazione fu scelta essenzialmente per la sua alienità da ogni afflato

rivoluzionario, generalmente veicolato, nell’età della Restaurazione, dalla «lotta per la

costituzione» che animava la nascente classe borghese italiana ed europea. L’utilizzo di

una sorta di vox media si coniugava dunque assai meglio, rispetto a denominazioni

politicamente più impegnative, con l’intenzione di tenersi ben distanti da un sovvertimento

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dell’esistente (è indubbio, lo si è visto, che si volesse concedere «quanto necessario», ma

pur sempre «il meno possibile»).

L’individuazione in concreto della vox media da utilizzare fu suggerita dalla necessità di

proporre un nome che avesse comunque una qualche valenza evocativa: in tal senso, lo

«Statuto» appariva particolarmente adatto in ragione del suo richiamare l’esperienza

comunale del Basso Medioevo, idealizzata ad un tempo come simbolo della lotta contro

l’autocrazia imperiale e come espressione di una età gloriosa per la penisola italiana.

(b) In ordine ai modelli cui il Consiglio di conferenza si rifece nel redigere la carta

albertina, è ampiamente attestata la forte influenza che sui redattori dello Statuto

esercitarono le carte costituzionali francesi del 1814 e del 1830. La prima, in particolare,

rappresentava il ritorno ad una monarchia limitata dopo il periodo rivoluzionario, nel

quadro di una Restaurazione che, da moderata, sarebbe divenuta, ma solo con il tempo

(specie con l’ascesa al trono di Carlo X, nel 1824), apertamente reazionaria. La

Costituzione orleanista, nel 1830, rappresentava un aggiornamento – a tratti, una

riproposizione – della carta precedente, modificata essenzialmente nella base di

legittimazione (la sovranità popolare sostituiva la legittimazione dinastica del potere), più

che nella struttura delle istituzioni.

Lo Statuto albertino fu modellato, in buona parte, su questi esempi (in taluni casi anche

attraverso una mera traduzione delle disposizioni), rivisitati però in chiave più tradizionale

e conservatrice, come dimostrava, tra l’altro, l’ordine degli argomenti trattati: ad esempio,

le carte del 1814 e del 1830 si aprivano con un breve elenco dei diritti dei francesi (l’art. 1

sanciva il principio di eguaglianza formale), mentre lo Statuto sanciva, all’art. 1, il carattere

confessionale dello Stato, per poi soffermarsi lungamente sulla figura del Re e – ma in

modo più sbrigativo e solo dall’art. 24 – sui diritti degli individui.

La preponderanza dell’influenza delle carte francesi non venne intaccata che molto

parzialmente dalla Costituzione belga del 1831, ritenuta troppo «avanzata» dai redattori

dello Statuto. Pressoché nessuna eco ebbe, invece, la tradizione costituzionale britannica,

solo sommariamente (ed in modo approssimativo) conosciuta, mentre del tutto ignorata fu

la Costituzione americana.

In definitiva, lo Statuto albertino si poneva in linea di stretta continuità con la

Restaurazione francese e, paradossalmente, lo faceva proprio negli stessi giorni in cui,

con l’insurrezione parigina del 22 febbraio 1848, la monarchia orleanista crollava e si

instaurava una repubblica che, dopo un periodo di assestamento, si sarebbe dotata, il 4

novembre, di una costituzione affatto nuova.

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(c) Dall’aver seguito un modello che si era appena rivelato «vecchio», e dall’averlo fatto,

oltretutto, limandone alcuni degli aspetti più progressisti, risultò un tipo di legge

fondamentale che, per i caratteri suoi propri, si inseriva a pieno titolo nell’alveo delle

costituzioni sino ad allora esistenti. In particolare, lo Statuto albertino, alla stessa stregua

della maggior parte delle carte del primo Ottocento, poteva definirsi come una costituzione

(i) ottriata, (ii) bilancio, (iii) flessibile e (iv) breve.

i) È stato sin qui evidenziato come lo Statuto fosse stato promulgato su iniziativa del Re

di Sardegna e dei suoi consiglieri, sul presupposto dell’assoluta libertà, sul piano giuridico,

in merito all’an della promulgazione. Il preambolo della Carta era, in tal senso,

inequivocabile, là dove Carlo Alberto affermava: «con lealtà di Re e con affetto di padre

Noi veniamo oggi a compiere quanto avevamo annunziato ai nostri amatissimi Sudditi, col

Nostro proclama dell’8 dell’ultimo scorso febbraio […]. […] di Nostra certa scienza, Regia

Autorità, avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di

Statuto e Legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue

[…]».

Una lettura superficiale di questi passi del preambolo rende palese il carattere ottriato

(da octroyer, «concedere») dello Statuto: era il monarca, sino a quel momento assoluto,

che decideva di concedere la costituzione, utilizzando – per l’ultima volta – la formula

tradizionale degli atti sovrani («di Nostra certa scienza, Regia Autorità»). La

partecipazione popolare era del tutto assente dal procedimento di formazione; era ignorata

dal preambolo ogni pressione proveniente dall’esterno del palazzo reale; ogni possibile

sollecitazione diversa dal moto spontaneo del sovrano, per il fatto stesso di essere taciuta,

era confinata al piano degli antefatti – giuridicamente irrilevanti – di natura politica e

sociale.

Ad una analisi più attenta, tuttavia, il preambolo suggerisce l’opportunità di scindere il

piano formale da quello sostanziale. Se, infatti, formalmente la constatazione che si tratti

di una costituzione ottriata è inoppugnabile, sul piano sostanziale non deve essere

sottovalutato il riferimento all’acquisizione del parere del Consiglio di conferenza né quello

al proclama reale di un mese prima. Entrambi questi elementi richiamavano una sorta di

implicito patto tra il sovrano, da un lato, e, dall’altro, la classe dirigente ed il popolo tutto,

un patto «costituzionale» con cui il Re andava incontro alle richieste liberali (incentrate

sull’introduzione di un «governo rappresentativo», non a caso enfatizzata nel proclama

dell’8 febbraio), affinché i beneficiari della concessione rinunciassero alla mobilitazione di

piazza e finanche al sovvertimento dell’ordine costituito (in tal senso, le parole di Borelli

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citate in precedenza sono quanto mai significative).

In definitiva, la qualificazione dello Statuto fondamentale del Regno è duplice:

formalmente ottriata, sostanzialmente pattizia (o, forse meglio, «cripto-pattizia»).

ii) I termini del citato patto costituzionale rendono palese la configurabilità dello Statuto

alla stregua di una costituzione-bilancio, una costituzione, cioè, che non si propone un

programma di innovazione della società e delle istituzioni che si estenda nel futuro, ma

che, viceversa, tende a fare il punto sulla situazione presente, per come essa si è venuta

configurando, in funzione di una sua conservazione e di una sua razionalizzazione.

La monarchia sabauda, conscia dell’impossibilità di mantenere istituzioni ereditate

dall’Ancien régime, cedette (per quanto fosse indispensabile) alle pressioni liberali,

riallineando in tal modo le istituzioni alla società. Il fine dichiarato era, ovviamente, quello

di consolidare lo status quo, lungi restando l’idea di proseguire nel solco appena tracciato.

L’evoluzione, per certi versi profonda, che il sistema conoscerà sarà resa possibile da

una diversa interpretazione dello Statuto propugnata, negli anni a venire, da (buona) parte

del ceto politico; per Carlo Alberto, e per i suoi consiglieri, la costituzione concessa doveva

essere – come si sottolineava nel preambolo – «perpetua ed irrevocabile».

iii) L’origine e le finalità dello Statuto ebbero profonde ripercussioni anche sulla

collocazione della carta costituzionale nel sistema.

Per tradizione consolidata, lo Statuto albertino è definito come una costituzione

flessibile (anzi, come un esempio tipico di costituzione flessibile), all’uopo potendosi

addurre sia l’assenza di un procedimento di revisione costituzionale, sia – e soprattutto –

l’ampio ricorso, già nei primi mesi della sua vigenza, a modificazioni tacite e, sia pure in

minor misura, esplicite da parte di fonti legislative ordinarie.

Tra le modificazioni tacite, si segnalano, per solito, la profonda modifica dell’assetto

della forma di governo e la perdurante vigenza della carta anche dopo il mutamento della

forma di Stato durante il ventennio fascista (su entrambi i temi, v. infra).

Tra le modificazioni esplicite possono distinguersi quelle che hanno avuto l’effetto di

espressamente derogare pro futuro a disposizioni costituzionali da quelle che si sono

sovrapposte alle medesime disposizioni, giungendo in qualche caso a svuotarle di

significato.

Nel primo senso, può citarsi il proclama di Carlo Alberto del 23 marzo 1848 con cui,

meno di tre settimane dopo la promulgazione dello Statuto, si ordinava che le truppe

impegnate nella guerra contro l’Austria sostituissero la bandiera dello Stato di cui all’art. 77

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con quella tricolore. Qualche giorno più tardi, il regio decreto 11 aprile 1848 imponeva di

issare la nuova bandiera su tutte le navi militari e mercantili.

Tra le sovrapposizioni normative, invece, possono citarsi, per un verso, tutte quelle

leggi che, di volta in volta, ampliarono o restrinsero i margini di libertà statutariamente

riconosciuti agli individui, e, per l’altro, la successione di leggi che piegarono la natura

confessionale dello Stato ai canoni liberali dal Cavour sintetizzati nel motto «libera Chiesa

in libero Stato».

Gli argomenti, che parrebbero univocamente diretti a suffragare la tesi della flessibilità

dello Statuto, sono stati recentemente contestati da chi (come PACE) ha evidenziato che,

in realtà, lo Statuto era nato come rigido (anzi, iper-rigido) e che flessibile lo era poi

diventato.

In favore della tesi della originaria rigidità della carta sarda militerebbero, per un verso,

l’affermazione della sua perpetuità e della sua irrevocabilità e, per l’altro, l’assenza di ogni

previsione in merito al procedimento di revisione costituzionale, dalla quale dovrebbe

desumersi, non già la modificabilità con semplice legge ordinaria, bensì la radicale

immodificabilità delle disposizioni statutarie. Ponendosi in quest’ottica, il carattere flessibile

dello Statuto sarebbe il frutto del mutare della situazione socio-politica, tale da provocare

un precoce invecchiamento di un testo che, per parte sua (in ragione di quanto sopra

accennato relativamente ai suoi modelli), già era nato un po’ «attempato».

La tesi ora menzionata, condivisibile nell’analisi del procedimento che ha condotto ad

una perdita di autorità dello Statuto sul piano politico, non lo è altrettanto, almeno così

pare, nel suo presupposto di partenza. Se l’iper-rigidità corrispondeva certamente alle

intenzioni del sovrano, essa non era stata tuttavia pienamente tradotta in termini normativi

(a tal riguardo, potrebbe magari impiegarsi la constatazione, da GIANNINI formulata ad altro

proposito, secondo cui la carta «non [era] un capolavoro di tecnica giuridica»).

Per quanto attiene alla definizione dello Statuto come «Legge fondamentale perpetua

ed irrevocabile della Monarchia», a prescindere dalla problematica attribuzione di effetti

giuridici ad una affermazione contenuta non nell’articolato ma nel preambolo, può

sottolinearsi come la posposizione del genitivo («della Monarchia») all’aggettivazione

(«perpetua ed irrevocabile») suggerisse una lettura dell’inciso in chiave non oggettiva, ma

soggettiva. Altrimenti detto, la perpetuità e l’irrevocabilità non erano da riferirsi allo Statuto,

quanto piuttosto all’atto di concessione del sovrano: lo Statuto parrebbe, cioè, essere stato

una concessione che Carlo Alberto avrebbe fatto ai suoi sudditi, una concessione

vincolante per sé e per i suoi successori, una concessione che avrebbe sigillato l’implicito

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patto costituzionale con le forze liberali. Nel preambolo, dunque, nulla veniva detto in

ordine al potere di queste ultime di modificare lo Statuto; si diceva soltanto che il sovrano

assoluto si auto-limitava pro futuro, impegnandosi di fronte al popolo a non revocare –

formalmente o per facta concludentia – la carta costituzionale, ciò che invece sarebbe

stato fatto, di lì a poco, da tutti gli altri sovrani della penisola italiana, sull’esempio del Re di

Napoli (che già il 15 maggio 1848 aveva inaugurato la svolta reazionaria).

Ad analoghi esiti conduce l’assenza di un procedimento aggravato di revisione

costituzionale. Lungi dal significare un implicito divieto di ogni revisione (peraltro

prontamente smentito, come detto, dallo stesso Carlo Alberto), tale assenza doveva

essere contestualizzata alla luce dello stato della dottrina costituzionalistica ottocentesca,

ancora fortemente ancorata – almeno in Europa – al dogma dell’onnipotenza del

legislatore, con il che, là dove un procedimento ad hoc facesse difetto, non poteva che

applicarsi la regola generale che vedeva nella legge un atto idoneo a recare qualunque

contenuto, con la conseguenza di far rifluire il procedimento di revisione costituzionale

nell’alveo del procedimento legislativo ordinario. Prova ne sia il fatto che quei costituenti

europei che, in quegli anni, intesero redigere una costituzione rigida (come quella belga)

ebbero cura di esplicitarlo attraverso la previsione di un procedimento che rendesse la

revisione più ardua rispetto all’approvazione di una qualunque altra legge. Negli altri casi

(come, ad esempio, in Francia), la legge restò sovrana.

In quest’ottica, la definizione dello Statuto albertino come «legge fondamentale», pure

contenuta nel preambolo, doveva essere letta ponendo l’enfasi non sull’aggettivo (onde

argomentare la sua diversità rispetto alle altre leggi), ma sul sostantivo (onde accomunarlo

agli altri atti di rango legislativo). La «fondamentalità», semmai, si tradurrà in una maggiore

autorità (rectius, autorevolezza) meta-giuridica rispetto alle altre leggi, la quale fece sì che,

nel corso dei decenni, lo Statuto venisse sovente invocato per opporsi o per sostenere

determinate posizioni e determinate leggi, ma ciò sempre nella dialettica politica e mai (o

quasi: v. infra) nelle sedi propriamente giudiziarie.

Questa ricostruzione, d’altra parte, è quella che, meglio delle altre, sembra coniugare il

carattere della irrevocabilità ex parte principis dello Statuto con la natura «cripto-pattizia»

dello stesso. Sul presupposto della modificabilità da parte del legislatore, infatti, il Re si

sarebbe, sì, privato della possibilità di «tornare indietro», ma si sarebbe al contempo

salvaguardato dal vedersi imporre riforme ulteriormente progressiste, se è vero che,

nell’impianto statutario (poi parzialmente superato nella prassi), il potere legislativo doveva

essere esercitato congiuntamente dalle due camere (con l’approvazione delle leggi) e dal

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Re (con la sanzione e la promulgazione): il patto costituzionale era dunque garantito

dall’equilibrio tra i due contraenti.

iv) Sul piano strutturale, lo Statuto fondamentale del Regno di Sardegna è da

annoverarsi tra le costituzioni brevi, tipiche del XIX secolo. Nel caso dello Statuto, in

particolare, la brevità si apprezzava sotto un duplice punto di vista.

Per un verso, l’articolato si concentrava essenzialmente sull’assetto istituzionale,

limitandosi ad un sintetico e lacunoso catalogo di diritti di libertà (collocato nel titolo «Dei

diritti e dei doveri dei cittadini»: articoli 24-32). Il numero di articoli, relativamente ridotto

(ottantaquattro, di cui tre disposizioni transitorie) era dunque specchio della distanza

rispetto alle costituzioni novecentesche, la cui lunghezza sarà generalmente

manifestazione di una più compiuta enucleazione dell’insieme dei diritti e dei doveri degli

individui.

Per altro verso, la brevità poteva essere intesa nel senso che la sintetica formulazione

di molte disposizioni rese le medesime tanto laconiche da fornire nulla più che una cornice

assolutamente minimale all’interno della quale l’attività dei pubblici poteri avrebbe dovuto

svolgersi. In tal senso, ben può dirsi che lo Statuto albertino, sorvolando su taluni aspetti

anche essenziali, si mostrò «lacunoso» e, recando non poche formulazioni generiche, si

mostrò «elastico» nei suoi contenuti. Entrambe queste caratteristiche agevoleranno una

costante opera di interpretazione e di reinterpretazione cui la carta sarà sin da subito

soggetta.

In parallelo con la sua flessibilità, lo Statuto vide le sue disposizioni, formalmente

immutate per decenni, divenire norme sempre più orientate in senso evolutivo. Ciò

contribuì in modo decisivo alla sopravvivenza della carta albertina, sancendone, quanto

meno sino all’avvento del fascismo, la capacità di adattarsi alle mutevoli esigenze storiche

che segnarono i primi decenni dell’Italia post-unitaria. Incapaci di orientare in modo rigido

la prassi costituzionale, le disposizioni redatte nel 1848 la assecondarono, fino al

momento in cui risultarono, di fatto, definitivamente superate.

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Seconda lezione – La forma di Stato nel periodo monarchico-liberale

Per fornire un inquadramento generale della forma di Stato propria del Regno italiano

nei decenni successivi all’unità, possono essere individuati alcuni criteri di riferimento,

onde analizzare partitamente la natura delle istituzioni e dei rapporti tra queste e la società

civile alla luce delle forme di esercizio della sovranità, delle modalità di tutela dell’interesse

generale nei rapporti economici e sociali, dell’applicazione del principio pluralistico in

chiave territoriale e della tutela giuridica apprestata alle situazioni giuridiche soggettive.

In relazione ai quattro criteri appena enucleati, il Regno d’Italia può essere definito,

rispettivamente, come uno Stato [A] elitario a tendenza democratico-rappresentativa, [B]

liberale, [C] unitario e [D] di diritto.

[A] Uno Stato elitario a tendenza democratico-rappresentativa. – La storia del periodo

monarchico-liberale può essere utilmente esaminata in base alla tensione tra la

conservazione dei postulati tradizionali della sovranità e l’introduzione di forme più o meno

avanzate di legittimazione del potere: fu, in effetti, costante il confronto – talvolta ai fini di

una composizione, talaltra ai fini di una contrapposizione – tra la sovranità di matrice

dinastica, traslitteratasi nella egemonia di una ristretta cerchia di impronta oligarchica, e la

sovranità popolare. Questo confronto rimase, nel corso dei decenni, fondamentalmente

irrisolto, sebbene il principio democratico (con la connessa sovranità «dal basso») fosse

andato acquisendo un peso ed uno spazio crescenti.

In ragione di questa considerazione liminare, può dirsi che, per quanto il principio

democratico non sia mai giunto ad una definitiva affermazione sul piano effettuale (da ciò

la possibile definizione di «Stato a-democratico»), esso ha segnato una linea di tendenza

ben rintracciabile, almeno nel lungo periodo (da ciò, forse, la possibilità di aggiungere

quale definizione secondaria quella di «Stato tendenzialmente democratico»).

Il riferimento al concetto di «tendenza» appare particolarmente adeguato, nella misura

in cui può essere declinato, ad un tempo, come una «propensione verso» e come un

«mancato raggiungimento» di un obiettivo, e può perciò riassumere sia la dinamica in

base alla quale l’istanza democratica divenne progressivamente preponderante rispetto ad

un impianto istituzionale (e ad un anelito mai sopito) di segno opposto sia l’assenza di una

compiuta affermazione della sovranità popolare come fonte di legittimazione dell’azione

dei pubblici poteri.

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Senza pretesa di completezza, possono qui prendersi in considerazione due processi

connessi, entrambi convergenti nel senso sopra indicato: (1) l’estensione del diritto di

suffragio, da un lato, e (2) la rilevante crescita, negli equilibri della forma di governo, degli

organi riconducibili alla volontà popolare. L’importanza di questi due processi giustifica,

almeno così pare, il riferimento, nella definizione proposta, alla rappresentatività: nella

pressoché totale assenza di strumenti partecipativi e, men che meno, di democrazia

diretta (lo svolgimento dei plebisciti «di annessione», per la loro eccezionalità, non è tale

da inficiare questa affermazione), il principio democratico fu veicolato esclusivamente nella

forma della rappresentanza, giocandosi dunque essenzialmente in termini di capacità

elettorale e di incidenza della selezione degli eletti sulla vita delle istituzioni.

1) È stato già ripetutamente sottolineato come lo Statuto albertino fosse nato con la

precipua finalità di conservazione – nei limiti del possibile – degli istituti tradizionali, nel

quadro di un allargamento assai temperato della partecipazione alla cosa pubblica, la

quale, da monopolio della Corona e dell’aristocrazia, veniva ad aprirsi anche alle classi

dirigenti borghesi, sostituendo in tal modo uno Stato assoluto di Ancien régime con uno

Stato a matrice (fortemente) elitaria. A questa prima apertura ne sarebbero seguite altre,

in parallelo con i mutamenti indotti, dapprima, dall’estensione territoriale del Regno di

Sardegna (che comportò la necessità di integrare le élites dei territori via via entrati a far

parte dello Stato) e, poi, dalla ridefinizione degli assetti sociali che – a partire dalla fine del

XIX secolo – fece emergere come soggetti politici autonomi – da integrare nelle istituzioni

per garantire ad esse la sopravvivenza – le classi operaia e contadina, secondo modalità

tali da associare queste ultime a politiche comunque guidate dall’alto.

Una tale dinamica trova una significativa testimonianza nell’estensione del diritto di

elettorato attivo e passivo per la Camera dei deputati (una estensione analoga, sebbene

operata in tempi diversi, si ebbe anche per gli organi elettivi di comuni e province). Sul

punto, lo Statuto albertino si mostrava quanto mai «elastico», all’art. 39 prevedendo che

«la Camera Elettiva [era] composta di Deputati scelti dai Collegi Elettorali conformemente

alla Legge», e rinviando così integralmente a fonti successive l’intera materia elettorale.

Astrattamente, qualunque soluzione poteva essere adottata: anche quelle sperimentate

dai governi rivoluzionari del 1848, i quali, a Milano come a Venezia, in Toscana come a

Roma, avevano introdotto il suffragio universale maschile. La soluzione fu seguita, nel

caso del Regno di Sardegna e, poi, del Regno d’Italia, soltanto in occasione dei plebisciti

che scandirono il processo di unificazione della penisola: ciò, evidentemente, al fine di

meglio esplicitare il sostegno popolare a questo processo. Per le elezioni politiche, però, il

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suffragio universale venne escluso ab initio – e per lungo tempo – in conseguenza di una

diffidenza, assai diffusa nel notabilato, nei confronti delle masse, derivante dal pregiudizio

in ordine alla corruttibilità del «povero» e dell’«ignorante», ma anche dal timore di veder

messo a repentaglio l’ordine costituito, sia creando uno Stato che superasse, in chiave

progressista, la visione della classe dirigente, sia affidando le istituzioni alla

preponderanza numerica di una massa ritenuta (sia nella componente maschile che, ed in

maggior misura, in quella femminile) troppo facilmente strumentalizzabile ad opera delle

forze clerico-reazionarie in funzione anti-risorgimentale.

La scelta del sistema censitario venne sancita con il regio decreto 17 marzo 1848, n.

680, il quale delineò una composizione del corpo elettorale che restò giuridicamente quasi

inalterata anche dopo l’avvenuta unificazione. I diritti politici venivano riconosciuti ai

maschi che avessero compiuto i venticinque anni, che fossero alfabetizzati e che fossero

assoggettati ad una imposta diretta annua pari alla ragguardevole cifra di quaranta lire. La

somma era dimezzata per tutta una serie di categorie, individuate su base territoriale (gli

abitanti della Liguria, di Nizza e della Savoia), culturale (i laureati) o professionale (i notai,

gli avvocati, i direttori di stabilimenti industriali di medio-grandi dimensioni, i capitani

marittimi, determinati impiegati civili a riposo, etc.). Il censo era escluso dai requisiti

legittimanti l’esercizio dei diritti politici per alcune altre categorie, in gran parte riconducibili

alle élites culturali (i membri di alcune accademie, i docenti di scuole regie e di università),

militari (gli ufficiali di rango superiore) o professionali (i membri delle Camere di

commercio).

Una volta raggiunta l’unità, la legge 17 dicembre 1860, n. 4513, estese a tutto il

territorio nazionale le previsioni contenute nel decreto del 1848 (emendato nel 1859, ma

solo su aspetti di dettaglio), con il risultato che la già esigua percentuale di elettori rispetto

alla popolazione si assottigliò ulteriormente (in ragione della maggiore arretratezza

economica di alcune parti della penisola rispetto al Piemonte), attestandosi attorno al 2%.

Negli anni settanta, la Sinistra, ancora all’opposizione, pose con forza la questione

dell’allargamento del suffragio, proponendo di agire su due dei tre requisiti fondamentali,

vale a dire abbassando l’età minima da venticinque a ventuno anni (corrispondente alla

maggiore età civile) ed eliminando drasticamente il requisito censuale.

Giunta al governo nel 1876, la Sinistra impiegò però sei anni per approvare una riforma

elettorale che corrispondesse, sia pure solo parzialmente, ai propri intendimenti iniziali. La

legge 22 gennaio 1882, n. 593, abbassò, in effetti, il limite anagrafico per l’elettorato attivo

a ventuno anni; il requisito censuale, tuttavia, venne eliminato solo per coloro che

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sapessero «leggere e scrivere» (l’alfabetizzazione divenendo, in tal modo, un requisito

alternativo a quello censuale) e per alcune categorie ulteriori rispetto a quelle per le quali

già era escluso, mentre, per la generalità degli individui, venne soltanto dimezzato

(l’imposta annua da corrispondere venne fissata a poco meno di venti lire). Con questa

riforma (c.d. Zanardelli, dal nome del proponente), la consistenza del corpo elettorale

risultava triplicata; l’allargamento non era comunque tale da poter evocare, neppure da

lontano, il suffragio universale (maschile), se è vero che gli aventi diritto al voto si

aggirarono, dal 1882 in poi, attorno al 7% del totale della popolazione.

La crescita di una classe operaia ed il ruolo politico assunto dai partiti espressione dei

ceti subalterni rese improrogabile la necessità di dare una adeguata rappresentanza a

questi nuovi soggetti. Fu il quarto Governo Giolitti a far approvare la legge 30 giugno 1912,

n. 665, con cui agli aventi diritto ai termini della legge del 1882 si aggiunsero tutti coloro

che – anche analfabeti ed anche privi dei requisiti censuali – avessero già prestato

servizio militare e tutti coloro che avessero superato il trentesimo anno di età

(prescindendo da ulteriori condizioni). Da allargato, il suffragio divenne quasi universale

(pur se ancora unicamente maschile), andando a coprire quasi un quarto dell’intera

popolazione.

Il testo unico 2 settembre 1919, n. 1495, sancì la definitiva affermazione del diritto di

voto a tutti i maschi maggiorenni, allargando così ulteriormente le basi di legittimazione

delle istituzioni (per il suffragio femminile si dovrà, tuttavia, attendere sino alle elezioni

amministrative del 1945).

All’estensione del diritto di elettorato attivo non corrisposero evoluzioni di particolare

rilievo relativamente al diritto di elettorato passivo. L’art. 40 dello Statuto albertino stabiliva

che «nessun Deputato [poteva] essere ammesso alla Camera se non [era] suddito del Re,

non [aveva] compiuta l’età di trent’anni, non gode[va] i diritti civili e politici, e non riuni[va]

in sé gli altri requisiti voluti dalla legge». Oltre all’abbassamento della soglia anagrafica a

venticinque anni, l’innovazione più importante, quanto meno sul piano politico, si ebbe con

la citata legge n. 665 del 1912, la quale, insieme con l’estensione dell’elettorato attivo,

introdusse una indennità a titolo di rimborso spese (e la franchigia ferroviaria) a beneficio

degli eletti, garantendo in tal modo, attraverso un aggiramento sul piano formale

dell’espresso divieto di corrispondere una retribuzione ai parlamentari (art. 50 dello

Statuto), l’ingresso in Parlamento anche a deputati che non fossero benestanti.

2) Parallelamente all’estensione dei diritti politici, le istituzioni andarono strutturandosi

secondo moduli tali da attribuire un ruolo vieppiù influente a quegli organi che, per il loro

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essere elettivi, si ponevano come interpreti della volontà popolare: la Camera dei deputati,

ovviamente, ma anche, in qualche misura, il Governo, che traeva (recte, poteva trarre) la

propria legittimazione dal sostegno della maggioranza dei deputati.

Rinviando a quanto verrà più diffusamente argomentato in relazione alla forma di

governo, ciò che in questa sede rileva è come, se per lo Statuto albertino pochi dubbi

potevano nutrirsi in merito alla titolarità formale della sovranità in capo al monarca, già con

alcuni atti (e, più ancora, con la prassi instauratasi) la teoria legittimista (e trascendente)

abbia subito contaminazioni non trascurabili, non solo ad opera dell’idea elitaria della

riserva di esercizio del pubblico potere a beneficio della sanior pars (in tal senso, valga

quanto detto con riguardo alle resistenze opposte all’estensione del suffragio), ma anche –

e più incisivamente, sul piano teorico – ad opera del principio della sovranità popolare (o,

secondo la definizione allora corrente, della «sovranità della Nazione»).

Di tutte le manifestazioni di questa contaminazione, può assurgere a paradigma quella

contenuta nell’articolo unico della legge 21 aprile 1861, n. 1, che stabilì la formula con cui

dovevano essere intestati tutti gli atti in nome del Re d’Italia, prevedendo che al nome del

Re seguisse la definizione seguente: «per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re

d’Italia».

Il contemporaneo riferimento a due diversi titoli di legittimazione del sovrano, che sino a

quel momento si era sempre basata sulla trascendenza (l’intestazione dello Statuto del

1848 così recitava: «Carlo Alberto, per la Grazia di Dio Re di Sardegna, di Cipro e di

Gerusalemme, […]»), dimostra che una qualche attenzione al volere dei sudditi venne

tributata sin dall’inizio del Regno d’Italia. Un’attenzione che, nel 1861, non era altro che

formale, ma che, in seguito, acquisì tutt’altro rilievo, man mano che la posizione del Re si

faceva più defilata nel quadro istituzionale, lasciando il campo alla preminenza del circuito

Governo – camera elettiva.

L’elasticità dello Statuto non fece ostacolo ad una sua lettura in chiave progressiva, alla

stregua cioè di un diaframma verso il passato ma non verso il futuro: con obiettivi e con

toni anche molto diversi, da Cavour a Zanardelli, da Giolitti a Turati, numerosi furono gli

statisti che lessero le disposizioni costituzionali come aperte ad una evoluzione in senso

liberale (i primi tre) o anche democratico (il quarto e, forse, anche in parte il terzo), rigido

essendo soltanto l’impedimento a tornare ad una struttura istituzionale di Ancien régime.

Non mancarono, è vero, interpretazioni conservatrici, che tesero a propugnare una

rigorosa attinenza alla lettera delle disposizioni, magari anche attraverso un «ritorno allo

Statuto» che avesse ragione delle interpretazioni «devianti» sedimentatesi (emblematico è

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l’articolo di Sonnino, datato 1897, dal titolo Torniamo allo Statuto). E le interpretazioni

conservatrici e finanche reazionarie ebbero anche momenti di successo (si pensi all’età

crispina o alla c.d. «crisi di fine secolo»). Ad una visione generale del periodo, tuttavia, non

può sfuggire una tendenziale progressiva accentuazione delle tesi di segno opposto.

[B] Uno Stato liberale. – La definizione della forma di Stato del Regno d’Italia nei

decenni successivi all’unità appare pressoché scontata, allorquando si ponga mente alla

denominazione di «fase monarchico-liberale» che del periodo è propria per convenzione

dottrinale.

Ad una osservazione più approfondita, tuttavia, la natura di Stato liberale del Regno non

manca di creare qualche difficoltà, e rende comunque necessaria qualche precisazione,

concernente principalmente l’accezione nella quale l’aggettivo «liberale» venga impiegata.

Se, infatti, esso fa riferimento alla filosofia cui si rifacevano le élites politiche, poche sono

le obiezioni che all’impiego del termine possono opporsi, se non forse quella – ai presenti

fini, di scarso rilievo – di una non costante coincidenza fra la teoria e la prassi. Meno

pacifica è l’attribuzione al liberalismo di una accezione prettamente giuridica: ciò, innanzi

tutto, per (1) il non compiuto recepimento di questa ideologia nell’articolato statutario, ma

anche per (2) il forte dinamismo che ha caratterizzato la storia costituzionale e che ha

visto un prevalere tendenziale delle idee liberali rispetto ad altre (senza però che queste

ultime venissero – specie in taluni momenti – neglette), nonché per (3) il problematico

rapportarsi dello Stato italiano alla Chiesa cattolica ed al fenomeno religioso in generale.

1) Lo Statuto albertino presentava un catalogo di diritti e di doveri che segnava, in linea

generale, un indubbio avvicinamento ai postulati dello Stato liberale. Vi si riconoscevano,

infatti, i principali diritti civili (la garanzia della libertà individuale, art. 26; l’inviolabilità del

domicilio, art. 27; la libertà di stampa, art. 28; l’inviolabilità della proprietà, art. 29; la

legalità dei tributi, art. 30; la garanzia del debito pubblico, art. 31; il diritto di riunione, art.

32), oltre ai diritti politici basilari (il diritto di voto, art. 39; il diritto di elettorato passivo, art.

40; il diritto di petizione, art. 58). Si sanciva il principio di eguaglianza formale (art. 24) e,

parallelamente, il principio di proporzionalità delle imposte (art. 25). Tra i doveri

costituzionali, al fianco della soggezione alla tassazione, si poneva l’obbligo di leva, la cui

disciplina era peraltro integralmente rimessa alla legge (art. 75).

Nell’elenco appena fornito spicca l’assenza di alcuni tipici diritti di libertà, come, ad

esempio, la libertà di manifestazione del pensiero ed il diritto di associazione (quest’ultimo

in ossequio, presumibilmente, alla diffidenza, tipicamente liberale, nei confronti dei «corpi

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intermedi» tra il cittadino e lo Stato). Al di là di queste lacune, peraltro generalmente

colmabili, e colmate, in via interpretativa (entrambi i diritti indicati vennero ritenuti

implicitamente garantiti, rispettivamente, dall’art. 28, concernente la libertà di stampa, e

dall’art. 32, sulla libertà di riunione), da evidenziare era l’assenza di ogni riferimento a diritti

sociali, a dimostrazione della rigorosa aderenza ai paradigmi politico-costituzionali

dell’Ottocento.

Anche in ordine ai diritti riconosciuti, tuttavia, deve riconoscersi come le affermazioni

statutarie presentassero un alto grado di laconicità, associata a generici rinvii alla

disciplina legislativa e, talora, alla previsione di limiti potenzialmente assai estesi. Con ciò

si riproponeva la tematica dell’elasticità propria delle disposizioni statutarie, giustificando

ex ante il dinamismo che, in tema di diritti, sarà proprio di tutto il periodo monarchico. Così,

ad esempio, il principio di eguaglianza era costruito in modo tale da legittimare il

legislatore a porre le più ampie deroghe («tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e

sono ammessibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi»:

art. 24, secondo comma), come testimoniava, solo per citare un caso, la condizione

femminile. Del pari, l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio rischiava di essere

vanificata dai limiti che la legge era abilitata a prescrivere (articoli 26, secondo comma, e

27). Ancora, la libertà di riunione era riconosciuta solo per le adunanze «pacifiche e

senz’armi» (art. 32, primo comma) ed era radicalmente esclusa per «le adunanze in luoghi

pubblici od aperti al pubblico, i quali riman[evano] intieramente soggetti alle leggi di

polizia» (art. 32, secondo comma).

2) Sulla scorta di previsioni costituzionali di tal fatta, non mancarono provvedimenti

legislativi (od anche, contra statutum, amministrativi) volti a limitare considerevolmente il

raggio di operatività dei diritti riconosciuti. Ciò si verificò soprattutto durante i periodi

«eccezionali», nei quali vennero sovente attribuiti al Governo i c.d. «pieni poteri» (v. infra)

al fine di fronteggiare crisi interne (dal brigantaggio ad ondate di protesta popolare) o

guerre. Considerando che, almeno fino al 1870, il Regno di Sardegna e, poi, d’Italia

dovette affrontare le guerre di indipendenza, e, negli intervalli tra l’una e l’altra, varie crisi

internazionali (si pensi alla guerra di Crimea, ma soprattutto agli attriti con la Francia di

Napoleone III derivanti dalle spedizioni garibaldine contro lo Stato pontificio), si ha la

misura del margine di compressione che i diritti individuali potessero subire su tutto il

territorio nazionale o su una parte di esso. Analogamente, forti limitazioni saranno

imposte, più tardi, dalla partecipazione alla Prima guerra mondiale.

A periodi segnati da una certa vena «progressista» si sono dunque alternati periodi di

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ripiegamento, tali da revocare in dubbio le acquisizioni raggiunte; in taluni casi, nel volgere

di qualche tempo, si assistette all’approvazione di provvedimenti di significato politico

opposto: ad esempio, ad una conquista di civiltà come il codice penale Zanardelli (1889),

che eliminò dall’ordinamento la pena di morte, fece seguito un testo unico delle leggi di

pubblica sicurezza fortemente repressivo della libertà di stampa e di quella di riunione.

Senza diffondersi su questi aspetti, onde dimostrare la caducità delle conquiste liberali

può essere sufficiente porre mente alla dinamica legislativa della seconda metà degli anni

novanta dell’Ottocento: dalla repressione dei Fasci siciliani, ordinata dal Governo Crispi ed

agevolata dalla proclamazione dello stato di assedio, fino alla «crisi di fine secolo», in cui

le repressioni ordinate dal Governo di Rudinì, prima (a Milano, nel maggio 1898, le truppe

comandate dal generale Bava Beccaris fecero ottanta morti e più di quattrocento feriti tra i

manifestanti), e dal Governo Pelloux, poi. Sul piano parlamentare, di particolare rilievo

furono i disegni di legge che il Governo di Rudinì presentò contemporaneamente alla

repressione dei moti di piazza: in essi si prevedevano, tra l’altro, lo scioglimento di

associazioni ed il divieto di ricostituire associazioni disciolte, la militarizzazione dei

ferrovieri e dei postelegrafonici, la possibilità di censurare preventivamente i giornali e di

sospenderne la pubblicazione sino a sei mesi. Di fronte all’opposizione della Camera dei

deputati, il Governo non riuscì a far approvare questi provvedimenti, rassegnando pertanto

le dimissioni. Il successivo Governo Pelloux, ripresentò – modificati in senso

maggiormente repressivo – i medesimi disegni di legge; all’ostruzionismo opposto, per la

prima volta nel Parlamento italiano, dai banchi della Sinistra e dell’Estrema (sinistra), il

Governo reagì trasfondendo il contenuto di parte dei disegni di legge nel regio decreto 22

giugno 1899, n. 227. La battaglia parlamentare si concentrò allora sulla conversione di

questi decreti, che non venne da Pelloux ottenuta neppure attraverso la modifica del

regolamento della Camera dei deputati. La crisi che ne derivò portò, nel giugno 1900, a

nuove elezioni, dalle quali la compagine governativa uscì sconfitta.

Le elezioni chiusero simbolicamente la «crisi di fine secolo», aprendo una fase affatto

diversa, corrispondente alla c.d. «età giolittiana», in cui, per un verso, si ripristinarono le

libertà «statutarie» (può constatarsi, per incidens, come l’insistito richiamo allo Statuto, da

parte dell’opposizione al Governo Pelloux, dimostrasse l’autorità meta-giuridica che la

carta albertina ancora conservava) e, per l’altro, si diede luogo ad una serie di innovazioni

legislative tese ad introdurre regimi giuridici di protezione per i lavoratori e, in generale, per

le classi meno abbienti, approfittando della felice congiuntura economica.

La legislazione sociale del Governo Zanardelli-Giolitti (1901-1902) disegnò un quadro

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che, lungi dal poter essere accostato a quello di un moderno Stato sociale, mostrava una

spiccata attenzione per il miglioramento delle condizioni di lavoro operaie e contadine, per

la tutela in caso di infortuni sul lavoro, per l’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia,

per il lavoro femminile e minorile, per l’edilizia popolare. A questa prima fase riformistica

fecero seguito, nel corso dei successivi dieci anni, il miglioramento del trattamento

salariale e pensionistico per gli impiegati, per i maestri elementari, per i pescatori.

Contemporaneamente, venne impostata una politica di industrializzazione, diretta a

favorire lo sviluppo delle aree economicamente depresse (il Mezzogiorno, in primis) e si

procedette alla nazionalizzazione delle ferrovie.

Alle venature «sociali» dei governi Giolitti si associò una impostazione autenticamente

liberale relativamente all’attitudine di fronte alle proteste popolari: contrariamente a quanto

accaduto in precedenza, il Governo mantenne una tendenziale neutralità nei conflitti tra

lavoratori e proprietari industriali ed agricoli; lo sciopero venne «tollerato», così come il

diritto di associazione e quello di riunione non furono più oggetto di limitazioni legislative

né, per solito, di repressioni fattuali. I frequenti scioglimenti dei nascenti partiti e sindacati,

che avevano caratterizzato la fine del XIX secolo, vennero sostituiti da un riconoscimento

de facto del rilievo politico del Partito socialista (oltre che di altri partiti, di matrice non

classista, come il Partito repubblicano) e delle organizzazioni di tipo sindacale, alla cui

azione i lavoratori affidavano la propria tutela.

Alle soglie della Prima guerra mondiale, il Regno d’Italia pareva dunque giunto, dopo

vistose oscillazioni, a potersi definire a pieno titolo come uno Stato liberale. La guerra, con

i sacrifici imposti su questo piano, interromperà questa esperienza, la quale, maturata

tardivamente, non aveva ancora avuto modo di consolidarsi sul piano culturale. Gli eventi

succedutisi negli anni immediatamente seguenti al conflitto lo dimostreranno

drammaticamente.

3) Il dinamismo della prassi (quanto meno di quella inveratasi sino alla Grande guerra)

consentì di superare finanche le disposizioni dello Statuto dettate in stridente contrasto

con i principi di uno Stato liberale. L’esempio più lampante è certamente quello dell’art. 1,

ai sensi del quale, come accennato, il Regno di Sardegna si configurava come uno Stato

confessionale («la Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello

Stato»: primo comma), tale da discriminare i culti diversi dalla religione cattolica,

meramente «tollerati conformemente alle Leggi» (secondo comma). A suffragare questa

scelta, si ponevano anche l’art. 28, secondo comma, che subordinava la stampa di bibbie,

catechismi, libri liturgici e di preghiere al preventivo permesso del vescovo, e l’art. 33, n. 1,

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che poneva gli arcivescovi ed i vescovi tra le categorie di designabili al laticlavio.

Ancor prima dell’unità d’Italia, l’insieme di queste disposizioni venne profondamente

rivisitato, alla luce di tutta una serie di atti normativi, volti, da un lato, a parificare i non-

cattolici ai cattolici, relativamente al godimento dei diritti civili e politici e, dall’altro, a

separare la dimensione religiosa da quella pubblica, attraverso le c.d. leggi Siccardi (la

legge 9 aprile 1850, n. 1013, che eliminava il diritto di asilo religioso ed il privilegio del foro

per gli ecclesiastici; la legge 5 giugno 1850, n. 1037, che imponeva una autorizzazione

amministrativa per tutti gli atti di acquisto dei corpi morali, civili o ecclesiastici) ed altre

leggi successive (la legge 23 maggio 1851, n. 1184, che aboliva ogni immunità fiscale dei

beni ecclesiastici; la legge 29 maggio 1855, n. 878, che sopprimeva le corporazioni

religiose prive di utilità sociale).

Questi provvedimenti culminarono con la legge 13 maggio 1871, n. 214, c.d. «delle

guarentigie», che, dopo la conquista di Roma, consolidò la situazione di fatto,

riconoscendo al Pontefice una serie di prerogative connesse alla sua qualità di capo di

uno Stato estero e improntando – sia pure in modo non sempre efficace – i rapporti tra lo

Stato italiano e la Chiesa cattolica al modello separatista (si noti che la legge pareva aver

abrogato tacitamente anche l’art. 28, secondo comma, dello Statuto albertino).

Più ancora delle discipline legislative, a favorire una scissione tra la sfera pubblica

(rectius, politica) e quella religiosa fu però l’atteggiamento tenuto dalla curia romana in

conseguenza, dapprima, dell’unità d’Italia e del ridimensionamento entro i confini del Lazio

del potere temporale del Pontefice e, poi, del suo tendenziale annichilimento (eccezion

fatta per l’esiguo territorio dello Stato del Vaticano) dopo il 1870.

Era del 1864 la condanna di Papa Pio IX del liberalismo, stigmatizzato attraverso

l’elenco di «errori» enucleato nel Sillabo (in appendice all’enciclica Quarta Cura) ed era di

dieci anni successivo il non expedit, cioè la bolla papale con cui si faceva divieto per i

cattolici sudditi del Regno d’Italia di partecipare alle elezioni del Parlamento.

Nei primi decenni post-unitari, lo Stato dovrà dunque affrontare l’elemento doppiamente

destabilizzante di una Chiesa chiusa ad ogni dialogo e di una componente politica clerico-

reazionaria – minoritaria ma non trascurabile quanto a forza e seguito – volta a rimettere in

gioco le scelte a suo tempo operate per uno Stato laico ed una politica che non fosse

asservita alle gerarchie ecclesiastiche.

Sarà soltanto sul finire dell’Ottocento che la Chiesa ammorbidirà la propria posizione

(anche allo scopo di arginare il seguito del nascente Partito socialista), fino a revocare,

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con Papa Pio X, in occasione delle elezioni politiche del 1904, il non expedit, passando

così da un atteggiamento di pregiudiziale rifiuto («né eletti né elettori») ad uno di cauta

accettazione delle istituzioni italiane («cattolici deputati sì, deputati cattolici no»).

Si dovrà attendere, tuttavia, il c.d. «patto Gentiloni» (1913) per constatare l’assunzione,

da parte dei cattolici, di un esplicito ruolo nel circuito parlamentare: impegnandosi a far

convergere i voti degli elettori cattolici sui candidati liberali, la Chiesa (ché il patto venne

con ogni probabilità autorizzato dal Pontefice) riceveva in contropartita l’impegno degli

eletti a perseguire una politica che si conformasse al volere della curia (ad esempio,

attraverso la garanzia dell’insegnamento religioso nelle scuole, la tutela delle

congregazioni religiose, etc.).

Parallelamente, i cattolici rafforzavano la propria presenza in Parlamento, prima che

questa, dopo la Prima guerra mondiale, venisse ad essere massiccia e, soprattutto,

incardinata nell’appartenenza al Partito popolare, nel frattempo fondato.

La «questione romana» si avviava in tal modo all’epilogo, sancito definitivamente con i

Patti Lateranensi del 1929.

[C] Uno Stato unitario. – Una caratteristica incontestabile della forma di Stato nel

periodo monarchico-liberale è quella relativa alla tendenziale concentrazione nella capitale

(Torino; dal 1864, Firenze; dal 1871, Roma) del potere politico: sebbene esistessero

istituzioni «periferiche», quali province e comuni, queste venivano configurate non tanto

come enti autonomi, quanto semmai come gangli dell’amministrazione statale a livello

locale, vale a dire come apparati di semplice decentramento amministrativo.

Nello stabilire, all’art. 74, che «le istituzioni Comunali e Provinciali, e la circoscrizione

dei Comuni e delle Province [erano] regolate dalla legge», lo Statuto albertino apprestava

la duplice garanzia del riconoscimento costituzionale dell’esistenza degli enti locali e della

riserva di legge per la disciplina della loro struttura, del loro funzionamento e dei loro

poteri. Al di là del rispetto di queste garanzie, tuttavia, il legislatore godeva di un

amplissimo margine di manovra nel disegnare l’articolazione territoriale del potere.

Nel periodo intercorrente tra l’unità e la fine dell’Ottocento, il tema del decentramento fu

oggetto di frequenti dibattiti ed anche di un buon numero di interventi normativi, tutti frutto

di un confronto tra l’anima «centralista» e quella «autonomista» che convivevano nella

classe politica italiana. Sin da subito, a prevalere fu la prima, corroborata com’era dalla

tradizione giuridica, ma anche da preoccupazioni di ordine politico.

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Sul piano giuridico, non era da trascurare la circostanza che la «colonizzazione

amministrativa» veicolata dalle truppe napoleoniche all’inizio del secolo avesse prodotto

una tendenziale aderenza di gran parte degli Stati preunitari al modello francese, basato

su un marcato accentramento del potere decisionale, associato ad una capillarizzazione

delle strutture locali in chiave rappresentativa delle singole comunità (municipali, in primis),

ma soprattutto in chiave esecutiva delle decisioni provenienti «dall’alto». Il Regno di

Sardegna, in particolare, si strutturava in larga misura sulla base di questi canoni: la sopra

ricordata continuità in termini di «costituzione materiale» tra Stato subalpino e Regno

d’Italia può dunque dar conto anche dell’estensione a tutta la penisola del modello

napoleonico.

A ciò non si addivenne, però, in virtù di una pura inerzia progettuale. La scelta del

modello di Stato accentrato rispose, infatti, alle preoccupazioni politiche di alimentare

l’autorità dello Stato appena formatosi, potenzialmente minata, o comunque limata,

dall’attribuzione di ampi poteri ad enti periferici. Parimenti rilevante fu poi l’idea che

soltanto attraverso un processo guidato «dal centro» (rectius, «dall’alto») potesse

effettivamente prodursi lo sviluppo di una società che, per larghi strati ed in vasti territori,

appariva ancora profondamente arretrata.

Alla luce di queste considerazioni non stupisce che tutti i progetti volti a ridisegnare

l’amministrazione pubblica mediante una regionalizzazione (funzionale, tra l’altro, a

conservare uno status privilegiato per quelle città che erano state le capitali degli Stati

preunitari), presentati negli anni immediatamente successivi all’unificazione, siano

decaduti (tra questi devono ricordarsi, quanto meno, i due disegni di legge presentati da

Cavour e da Minghetti, nel marzo 1861, e fatti ritirare, dopo la morte del primo, dal suo

successore, Ricasoli). L’allegato A della legge 20 marzo 1865, n. 2248, sull’unificazione

amministrativa del Regno, giunse poi a sanzionare definitivamente l’opzione centralistica,

attraverso l’estensione del modello piemontese di ordinamento comunale e provinciale.

La tematica del decentramento tornò ad essere oggetto di dibattiti soprattutto a partire

dalla seconda metà degli anni ottanta dell’Ottocento. Si vennero a confrontare, allora, due

concezioni del decentramento che, accomunate dall’idea di avvicinare gli individui alle

istituzioni, rafforzando l’elemento rappresentativo, divergevano radicalmente sul piano dei

raccordi da introdurre tra il centro e la periferia.

Nella visione della Sinistra storica, allo sviluppo delle istanze partecipative e

rappresentative in sede locale, doveva coniugarsi un efficace regime dei controlli, onde

assicurare la perdurante tutela governativa sugli enti locali. Ne era testimonianza la legge

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crispina di riforma dell’ordinamento comunale e provinciale (legge 30 dicembre 1888, n.

5865), la quale, da un lato, attribuiva a nuove categorie di individui il diritto di voto alle

elezioni amministrative e stabiliva l’elettività dei sindaci dei comuni maggiori e dei

presidenti delle province, ma, dall’altro, potenziava i meccanismi di controllo,

principalmente grazie all’istituzione delle giunte provinciali amministrative, presiedute dai

prefetti, competenti a conoscere dei ricorsi promossi dai privati avverso qualunque atto

degli enti locali (legge 1° maggio 1890).

Un diverso orientamento era manifestato in seno alla Destra: il recupero di poteri per gli

enti locali che veniva propugnato mirava, infatti, ad una traslazione dell’esercizio di parte

delle funzioni di interesse generale dalle istituzioni politiche alla società civile, nella

prospettiva di un consolidamento degli assetti sociali tradizionali, minacciati dalla crescita

delle forze popolari. A questo disegno di fondo rispondeva, ad esempio, la legge 29 luglio

1896, fatta approvare dal Governo di Rudinì, la quale introduceva il principio dell’elettività

dei sindaci di tutti i comuni: la sostituzione di funzionari amministrativi provenienti dal

potere centrale con persone espressione della comunità locale, se nei comuni più grandi

aveva l’effetto di valorizzare l’elemento partecipativo, nei comuni di più modeste

dimensioni (e soprattutto nei comuni rurali) garantiva alle élites alto-borghesi ed ai

proprietari terrieri di coagulare intorno a sé le istanze più conservatrici e, al contempo, di

veder assai meglio garantito lo status quo.

Questo intervento legislativo, come del resto i precedenti, non produsse, comunque,

altro che un assestamento della forma di Stato, che rimase ben ancorata, anche nel

prosieguo, al modello centralista.

[D] Uno Stato di diritto. – Per quanto attiene al grado ed alle forme di tutela delle

situazioni giuridiche soggettive, lo Stato italiano, durante il periodo monarchico-liberale,

può essere definito come uno Stato di diritto, con tale nozione facendosi riferimento ad

una organizzazione statuale in cui l’azione dei pubblici poteri è soggetta (non più

all’arbitrio del monarca, ma) alle norme giuridiche, ricavate principalmente dal diritto

positivo, e dalla legge in particolare (principio di legalità).

L’affermazione del principio di legalità, testimoniata in primis dal cospicuo numero di

riserve di legge contenute nello Statuto albertino ed enfatizzata dalla natura flessibile della

carta costituzionale, ebbe profonde ripercussioni, non solo su (1) la struttura del sistema

delle fonti del diritto, ma anche su (2) la concreta applicazione del principio di separazione

dei poteri, ponendosi, ad un tempo, come (3) il fondamento ed il limite intrinseco delle

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garanzie apprestate ai diritti individuali.

1) In ossequio alle teorie giuspositivistiche largamente prevalenti nell’Ottocento, la

funzione normativa venne ad essere quasi integralmente riconducibile all’opera degli

organi politici, residuando uno spazio assai circoscritto per altre forme di produzione, la

consuetudine in special modo. Pressoché nullo fu poi il ruolo del diritto giurisprudenziale,

già «travolto» dalla polemica dei révolutionnaires francesi del 1789 contro gli organi

giudiziari tutori dell’Ancien régime (i Parlements).

La tendenziale omogeneità delle fonti di produzioni rese il sistema delle fonti piuttosto

semplice: nella struttura gerarchica del sistema potevano individuarsi essenzialmente tre

livelli, corrispondenti, rispettivamente, alle fonti primarie, secondarie e terziarie (si noti che

questa terminologia è rimasta in uso ed ha continuato a connotare le medesime fonti

anche al mutare del sistema).

La fonte primaria per antonomasia era la legge parlamentare, la quale, in un regime di

costituzione flessibile (v. supra), veniva ad essere priva di limiti materiali, potendo disporre

in deroga anche rispetto alle disposizioni statutarie.

Il potere, astrattamente illimitato, del Parlamento era, peraltro, grandemente circoscritto,

di fatto, in conseguenza dell’interpretazione invalsa del principio di legalità, inteso non in

senso sostanziale, bensì in senso puramente formale: il legislatore non era dunque

chiamato a disciplinare l’integralità di una determinata materia (con la conseguente

esclusione di altri poteri normativi e/o di ampi margini di discrezionalità per

l’amministrazione), ma semplicemente ad attribuire un potere da esercitare in capo ad un

organo o ad un soggetto, ogni altra previsione restando nella piena disponibilità del

conditor juris (che, in concreto, sul punto rimase spesso inerte).

D’altro canto, il Parlamento non poteva neppure dirsi titolare del monopolio della

normazione di rango primario. Ciò in ragione del concorrere di alcune previsioni statutarie,

da un lato, e di una prassi radicatasi praeter statutum, dall’altro.

La natura dualista della forma di governo disegnata dallo Statuto (su cui, v. infra)

trovava un preciso riscontro nell’attribuzione in via esclusiva al Re dei poteri, anche

normativi, in talune materie, c.d. – appunto – di «prerogativa regia». Salvo tornare più

diffusamente sull’argomento, è qui da sottolinearsi come, ai termini degli articoli 78 e 79

dello Statuto, il Re era l’unico titolare dei poteri normativi in tema di creazione di «Ordini

Cavallereschi» e di conferimento di nuovi «titoli di Nobiltà». Altre materie – e di ben più

ampio respiro – furono fatte rientrare, per il tramite dell’art. 5 dello Statuto, nella sfera di

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prerogativa regia, ma, nella prassi, ad esercitare i poteri normativi non fu il Re (o, almeno,

non fu soltanto il Re), quanto (semmai) il Governo, a tal fine essendosi attribuito alla

previsione della controfirma ministeriale (ex art. 67 dello Statuto) il valore non solo di

assunzione della responsabilità in capo al ministro, ma anche di una sua partecipazione

alla determinazione del contenuto dell’atto (tra gli esempi di materie di prerogativa regia di

quest’ultimo tipo, le principali sono senz’altro quella militare e, forse, quella coloniale).

Da tutte queste materie, per previsione statutaria (o a seguito dell’interpretazione

invalsa dello Statuto), il Parlamento restava escluso, ciò che aveva, evidentemente,

l’effetto di porre dei limiti competenziali alla legge.

L’altra categoria di fonti primarie – quella individuabile praeter statutum – non

produceva limiti analoghi, ricadendo essa nello stesso ambito di competenza della legge

parlamentare: il riferimento è all’insieme degli atti normativi dell’esecutivo cui si

riconosceva forza legislativa.

Siffatti poteri traevano la propria origine da una delega da parte del Parlamento ovvero

da una autonoma iniziativa da parte del Governo, motivata dalla necessità di affrontare

situazioni di urgenza.

La delegazione legislativa, nata in funzione dell’attribuzione al Governo dei c.d. «pieni

poteri», quindi anche dei poteri normativi consoni a fronteggiare situazioni eccezionali

quali quelle belliche, si trasformò progressivamente – anche in ragione della frequenza di

periodi di «emergenza» nei primi lustri di vigenza dello Statuto – in una pratica mediante

cui il Parlamento affidò pro tempore al Governo potestà tendenzialmente illimitate, come fu

dimostrato, ad esempio, dalla grande produzione normativa di matrice extra-parlamentare

contemporanea alla Seconda guerra di indipendenza ed al processo di unificazione,

nonché da quella avutasi durante la Prima guerra mondiale.

Una prassi analogamente rivolta a potenziare il ruolo del Governo fu riscontrabile a

proposito della decretazione d’urgenza, di cui non vennero mai – almeno sino alla legge

31 gennaio 1926, n. 100 – definitivamente chiariti i fondamenti (la dottrina, in particolare,

oscillò tra la configurazione – propugnata da Santi ROMANO – della necessità come fonte

autonoma del diritto ed il riconoscimento del venire in essere di una consuetudine

legittimante l’intervento d’urgenza del Governo), ma che, specie in taluni frangenti (si

pensi, ad esempio, alla già ricordata vicenda del decreto fatto emanare da Pelloux), ebbe

un impatto notevole sul diritto vigente e, in ultima analisi, sulla struttura stessa del sistema

delle fonti.

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A completare un quadro nel quale il Governo, astrattamente ai margini del sistema delle

fonti di produzione, esercitava un ruolo sovente preponderante, si poneva la potestà

regolamentare, intesa come potestà normativa subordinata a quella primaria (indi,

«secondaria»), per taluni (ZANOBINI) vincolata dall’indefettibilità di un esplicito conferimento

di poteri da parte del legislatore, per altri (CAMMEO), invece, addirittura connaturata alla

titolarità del potere esecutivo.

Sul terzo gradino del sistema, le consuetudini ebbero un ruolo puramente integrativo

(eccezion fatta, probabilmente, per alcuni settori, come ad esempio quello commerciale, in

cui agli usi fu riconosciuto uno spazio non trascurabile): la loro vigenza dipendeva

dall’esistenza o meno di un rinvio ad esse operato dalla legge (consuetudini c.d.

secundum legem); tendenzialmente esclusa fu, infatti, la vigenza (oltre che delle

consuetudini contrarie al diritto scritto) delle consuetudini non richiamate da disposizioni

legislative, quand’anche non sussistesse tra le due fonti un contrasto (consuetudini c.d.

praeter legem).

2) Quanto detto in ordine al sistema delle fonti è di per sé indicativo della non compiuta

affermazione del principio di separazione dei poteri, quanto meno se inteso nell’accezione

rigida propugnata da Montesquieu. A suffragare questa conclusione possono addursi

anche ulteriori argomenti.

Innanzi tutto, una commistione tra potere legislativo e potere amministrativo era

chiaramente avvertibile nella figura del monarca, nella cui persona si associavano la

qualità di legislatore (art. 3 dello Statuto) e quella di capo dell’esecutivo (art. 5).

Tralasciando, per il momento, questi profili, che rappresentano una delle chiavi di lettura

fondamentali nella ricostruzione della forma di governo nel periodo statutario, è qui

opportuno soffermarsi, sia pur brevemente, sul terzo potere, quello giudiziario.

L’idea di una separazione dei poteri era riscontrabile in nuce nella carta costituzionale,

là dove si affermava che «i giudici nominati dal Re, ad eccezione di quelli di mandamento,

[erano] inamovibili dopo tre anni di esercizio» (art. 69). Certo, trattavasi di una

affermazione che, di per sé, non era sufficiente a dar conto di un potere giudiziario

realmente indipendente: una lettura sistematica del testo, d’altra parte, lasciava adito a

ben pochi dubbi. In primo luogo, lo Statuto non impiegava mai il termine «potere» per

connotare la funzione giurisdizionale, suggerendo semmai l’esistenza di un corpo di

funzionari circondato da garanzie particolari. Era significativo, in tal senso, che rimanesse

nell’impianto statutario l’idea che «la giustizia emana[va] dal Re ed [era] amministrata in

suo nome dai giudici ch’egli istitui[va]» (art. 68). A chiudere il cerchio giungeva poi l’art. 73,

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il quale, nel precisare che «l’interpretazione delle legge, in modo per tutti obbligatorio,

spetta[va] esclusivamente al potere legislativo», sanciva la superiorità dell’«interpretazione

autentica» su ogni interpretazione giudiziale che aspirasse ad avere effetti erga omnes.

Le scarne disposizioni statutarie vennero attuate, in conformità alla riserva di legge di

cui all’art. 70, secondo periodo, dalle leggi sull’ordinamento giudiziario che si succedettero

nel corso degli anni e che videro, nel lungo periodo, una progressiva attenuazione

dell’influenza – peraltro sempre chiaramente avvertibile – del potere politico, e del Ministro

guardasigilli in primis, nei confronti dei giudici (la funzione dei pubblici ministeri, organi

dell’amministrazione, rimase sempre pianamente dipendente dal potere esecutivo).

Tale influenza si fondava, per un verso, su una interpretazione restrittiva del principio

dell’inamovibilità e, per l’altro, sulla regolamentazione del potere disciplinare.

Nei primi anni di vigenza dello Statuto, l’inamovibilità conobbe una disciplina

doppiamente restrittiva rispetto all’art. 69, in quanto l’eccezione in esso prevista per i

giudici di mandamento venne applicata ad un numero crescente di soggetti, una volta

inseriti in tale categoria anche i pretori; d’altra parte, per coloro cui la garanzia si

applicava, se la legge 19 maggio 1851, n. 1186, aveva previsto che il mancato accordo tra

Governo e destinatario del provvedimento di trasferimento venisse deferito alla decisione

della Cassazione, con il decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3781, l’intervento della

Cassazione fu limitato al caso di trasferimento-sanzione, in ogni altro caso potendo il

Governo autonomamente provvedere «per necessità di servizio». Sarà solo con il decreto

legislativo 6 dicembre 1865, n. 2215, che la lettura della inamovibilità proposta nel 1851

verrà ripristinata.

Ad interinare il rapporto di dipendenza della giurisdizione dal potere esecutivo fu allora

soprattutto la disciplina del procedimento disciplinare, la cui iniziativa spettava al pubblico

ministero e la cui decisione spettava direttamente al Ministro della giustizia. Il medesimo

esercitava poi l’alta sorveglianza su tutti i giudici ed era titolare del potere di promozione e

di trasferimento d’ufficio.

Temperamenti significativi alla subalternità dell’ordine giudiziario furono introdotti

soltanto nel primo decennio del XX secolo. Ciò non tanto con la legge 14 luglio 1907, n.

511, che istituiva il Consiglio superiore della magistratura (organo composto in modo

pressoché esclusivo da membri designati dal Guardasigilli e titolare di funzioni serventi

rispetto a quest’ultimo), quanto semmai con la legge 24 luglio 1908, n. 438, che estendeva

a tutti i giudici la garanzia dell’inamovibilità e che poneva al vertice degli organi disciplinari

la c.d. Corte suprema disciplinare: il Ministro della giustizia perdeva, così, il potere di

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infliggere sanzioni disciplinari, conservando solo quello di iniziativa (attraverso il pubblico

ministero).

Queste riforme, che pure non consentono di affermare l’avvenuta creazione di un ordine

giudiziario autonomo ed indipendente, sono comunque testimonianza evidente

dell’allontanamento della funzione giurisdizionale da quella politica, indicando un

progressivo radicarsi, sotto questo punto di vista, del principio di separazione dei poteri.

3) Il constatato rapporto di dipendenza dell’ordine giudiziario rispetto al potere esecutivo

può contribuire a spiegare i limiti entro i quali la garanzia dei diritti venne assicurata ed il

modello di Stato di diritto che si sviluppò nel corso degli anni.

All’indomani dell’unità, la classe politica fu chiamata a delineare un sistema di tutela del

singolo nei confronti della pubblica amministrazione che superasse la molteplicità di regimi

riscontrabili nei vari ordinamenti preunitari.

Con l’allegato E della precitata legge 20 marzo 1865, n. 2248, la scelta compiuta fu

quella dell’attribuzione al giudice ordinario della quasi totalità delle controversie nelle quali

venisse in gioco un «diritto» individuale. Per taluni, limitati casi, si previde la giurisdizione

di giudici amministrativi speciali (segnatamente, il Consiglio di Stato, oltre alla Corte dei

conti), mentre, per la tutela di tutte le altre situazioni giuridiche soggettive che non

assurgessero al rango di diritto, si ritenne sufficiente la predisposizione di procedimenti

interni agli organi di amministrazione attiva.

L’opzione per una applicazione tendenzialmente generale del principio di unità della

giurisdizione avrebbe potuto condurre il giudice ordinario a porsi quale vero e proprio

«controllore» dell’attività dei pubblici poteri, in funzione di protezione dei privati. Nei fatti,

ciò non avvenne se non molto parzialmente, in quanto i giudici ordinari intesero sovente in

senso restrittivo il ruolo che una normativa di non agevole interpretazione riservava loro;

ne derivarono ampie «zone franche» dal sindacato giurisdizionale, che minarono la piena

esplicazione dei principi propri dello Stato di diritto.

Alla luce di questa constatazione, assume dunque una importanza non trascurabile la

legge 31 marzo 1889, n. 5992, che istituì la IV sezione del Consiglio di Stato, attribuendole

la cognizione di tutte le controversie che coinvolgessero interessi legittimi (e non diritti

soggettivi) dei privati nei loro rapporti con l’amministrazione. Tale innovazione segnò, in

effetti, una tappa fondamentale nel radicarsi di uno Stato di diritto, proprio nella misura in

cui sostituì, nella tutela in vasti settori di attività, agli organi dell’amministrazione attiva un

organo giurisdizionale, in posizione pressoché paritaria rispetto al giudice ordinario.

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La giustizia nell’amministrazione rappresenta il punto di tutela più avanzato raggiunto

dal Regno d’Italia per le situazioni giuridiche soggettive. Il passaggio ulteriore, quello cioè

del radicamento di uno Stato costituzionale di diritto, non venne mai compiuto, a ciò

opponendosi, sul piano teorico, la struttura del sistema delle fonti (ed in particolare la

natura flessibile della carta costituzionale) e, in concreto, il mancato sviluppo di un

consistente indirizzo giurisprudenziale che ritenesse possibile operare un controllo della

validità (recte, dell’esistenza) delle fonti normative primarie, sul modello del sistema

statunitense di controllo diffuso: ciò non fosse altro perché il ricavare per implicito la

configurabilità di un judicial review of legislation presupponeva una collocazione

istituzionale del potere giudiziario ben diversa da quella propria del periodo monarchico-

liberale, pregiudicata, come detto, dall’assenza della necessaria indipendenza e, a monte,

da quella di un radicato prestigio in seno alla società civile (PIZZORUSSO).

Certo, ci furono alcune prese di posizione nel senso di un sindacato, specie in ordine ai

requisiti formali che integravano la perfezione (ergo, l’esistenza) dell’atto legislativo,

tuttavia esse vennero in definitiva soverchiate da pronunzie di segno opposto. Qualche

maggiore spazio lo si ebbe in ordine al controllo degli atti normativi di rango primario che

provenissero dall’esecutivo (si ricordano, in particolare, la declaratoria di inesistenza del

decreto «liberticida» Pelloux da parte della Corte di cassazione, oltre ad alcune prese di

posizione in ordine al vizio di eccesso di delega dei decreti legislativi), ma, anche a tal

proposito, l’evoluzione giurisprudenziale fu così lenta da condurre ad alcuni frutti

significativi soltanto nei primissimi anni venti, all’alba, cioè, di un mutamento di regime che

avrebbe, anche su questo profilo, imposto una profonda rivisitazione (id est, un definitivo

ripiegamento dell’opera delle giurisdizioni).

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Terza lezione – La forma di governo nel periodo monarchico-liberale

La caratteristica principale della forma di governo dello Stato italiano durante il periodo

monarchico-liberale è probabilmente quella del «dinamismo», riscontrabile in tutto l’arco

temporale che va dal 1848 al 1922. Ciò in ragione, da un lato, de [A] l’estrema elasticità

(constatata con riferimento a molti aspetti della vita istituzionale, ma particolarmente

pronunciata per quello che qui interessa) delle disposizioni dello Statuto albertino e,

dall’altro, de [B] l’evoluzione sociale, economica, ma anche politica ed istituzionale che ha

connotato i decenni post-statutari.

[A] Ad una prima lettura degli articoli più caratterizzanti dello Statuto, la conclusione che

pare scontata è quella in base alla quale la forma di governo ivi disegnata fosse quella di

una monarchia costituzionale pura. A tal proposito pareva inequivocabile il disposto

dell’art. 5, primo periodo, ai sensi del quale «al Re solo [apparteneva] il potere esecutivo»,

e dell’art. 65, secondo cui «il Re nomina[va] e revoca[va] i suoi ministri».

Da queste proposizioni sembrava sostanzialmente necessitato (specie allorché si

ponesse l’accento sui termini che si sono sopra posti in corsivo) un assetto istituzionale

caratterizzato dall’esercizio da parte del monarca del potere esecutivo, sul presupposto di

una sua indipendenza dal Parlamento, titolare del potere legislativo, e dagli organi cui

spettava il potere giurisdizionale. A sancire l’accoglimento di questo modello poteva

addursi ulteriormente l’assenza di una qualunque previsione concernente il Governo in

quanto organo costituzionale, fatta eccezione per un fugace – ed incidentale – accenno

agli «atti del Governo» contenuto nel secondo periodo dell’art. 67: finanche le disposizioni

relative al vertice della struttura amministrativa erano raggruppate in un titolo – peraltro

molto esiguo, essendo composto di soli tre articoli – dedicato a «i Ministri», ciò che non

risolveva il dubbio se i ministri fossero «ministri del Re» oppure membri di un organo

complesso, autonomo rispetto al monarca.

Per quanto improntata al modello costituzionale puro, la forma di governo statutaria

presentava, comunque, alcune peculiarità difficilmente riconducibili al genus di

importazione britannica.

Era, in primo luogo, avvertibile una certa quale enfatizzazione del ruolo della Corona,

che poteva porsi come vero architrave del sistema, con pregiudizio del principio di

separazione dei poteri che connotava la (ideale) forma di governo cui Montesquieu si era

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ispirato nell’elaborare la propria teoria istituzionale. In tal senso, assumeva un particolare

rilievo l’art. 5, il quale, nell’individuare la difesa e la politica estera come materie di

«prerogativa regia», introduceva un significativo sbilanciamento dei poteri a beneficio

dell’esecutivo ed a scapito del legislativo, tendenzialmente escluso dal circuito decisionale

in ambiti di particolare importanza (esclusione che conosceva una sola significativa

eccezione in quanto previsto dal terzo periodo dell’art. 5, ai sensi del quale «i trattati che

importassero un onere alle finanze, o variazione di territorio dello Stato, non [avrebbero

avuto] effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere»).

A suffragare la primazia dell’istituto monarchico nelle istituzioni si ponevano, poi, alcune

previsioni che consentivano al Re di condizionare pesantemente il funzionamento del

potere legislativo. Il condizionamento era avvertibile già in ragione della struttura del

potere legislativo, essendo il Parlamento composto di due camere, l’una – la Camera dei

deputati – elettiva e l’altra – il Senato – composta «di membri nominati a vita dal Re, in

numero non limitato», ed appartenenti ad una delle ventuno categorie di persone

contemplate dall’art. 33 dello Statuto (ai termini dell’art. 35, spettava al Re anche il potere

di nomina del Presidente e dei vicepresidenti del Senato).

Anche sul piano funzionale, peraltro, l’incidenza del Re non appariva – quanto meno in

astratto – irrilevante: era il Re a convocare le Camere, a scioglierle ed a prorogarne le

sessioni (art. 9); al Re spettava, alla stessa stregua di ciascuna camera, presentare

progetti di legge (art. 10); ancora, il Re aveva il potere di sanzionare e di promulgare le

leggi (art. 7), potendosi configurare la sanzione come una vera e propria terza

approvazione del testo e, conseguentemente, l’approvazione regia come quella di una

«terza camera».

Oltre alle disposizioni dalle quali emergeva una certa quale preponderanza del Re

rispetto agli altri organi, non potevano trascurarsi gli elementi di obiettiva ambiguità nella

costruzione della forma di governo, concentrati essenzialmente nel primo periodo dell’art.

67 dello Statuto, il quale, nell’affermare che «i ministri [erano] risponsabili», non

specificava nei confronti di chi lo fossero né indicava le modalità attraverso cui la

responsabilità potesse essere messa in gioco, con ciò non essendo da escludere né una

responsabilità nei confronti del Re (il che ben si coniugava con l’aggettivo possessivo

presente nel precitato art. 65) né una responsabilità nei confronti del Parlamento.

Tale ultima lettura veniva rafforzata dal secondo periodo dell’art. 67 medesimo, il quale,

nel porre l’obbligo di controfirma degli atti del Re, sembrava addirittura avvicinare la forma

di governo ad un sistema tipicamente parlamentare, in cui il monarca, irresponsabile (l’art.

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4 recitava: «la persona del Re è sacra ed inviolabile»), «regna ma non governa».

Ora, ponendo a sistema tutte le sopra menzionate previsioni contenute nello Statuto

albertino, sarebbe stato assai arduo individuare con assoluta certezza una forma di

governo «pura», tale da mantenere costanti nel tempo i propri attributi fondamentali. Da

questa constatazione, è stata talvolta dedotta l’impossibilità di formulare una qualunque

definizione che, per il suo essere astratta, prescindesse dalla prassi istituzionale

instauratasi anche solo qualche mese dopo l’entrata in vigore dello Statuto.

A ben vedere, tuttavia, l’importanza che hanno avuto i comportamenti degli attori politici

in chiave conformativa della forma di governo non impedisce di cogliere almeno alcuni

caratteri che, in linea teorica, possono evincersi dal testo costituzionale. Tra questi,

l’elemento di maggior significato è il dualismo intrinseco che dall’insieme delle previsioni

emerge e che, non a caso, si è costantemente mantenuto nel corso dei decenni.

Tale dualismo discende, come è chiaro, dalla duplicità delle fonti di legittimazione degli

organi costituzionali: da un lato, la fonte «dinastica», dall’altro quella «elettiva» (siffatta

definizione risultando assai più appropriata – per quanto visto sopra – rispetto ad altra che

faccia riferimento alla «democrazia»), la prima impersonata dal Re (e, sia pure in minor

misura, dal Senato) e la seconda espressa dalla Camera dei deputati.

Teoricamente ben definiti, i contorni del dualismo sono venuti ben presto a sfumarsi in

conseguenza della non compiuta definizione della posizione istituzionale del Governo

(rectius, del collegio dei ministri), tanto che la causa prima del «dinamismo» della forma di

governo può forse essere individuata nella variabilità della collocazione di questo organo,

talora «appiattito» sul versante dinastico talaltra più propenso ad un collegamento con la

camera elettiva (e, conseguentemente, ad una certa autonomia dal monarca).

Se quanto sin qui detto è vero, la ricerca di una definizione della forma di governo

statutaria che possa dirsi valida anche per tutto il periodo monarchico-liberale conduce ad

evidenziare come il sistema si sia configurato (praticamente ab initio) come «dualista» (nel

senso detto prima), «ad esecutivo bicefalo» (in ragione dell’autonomizzarsi – effettuale o

potenziale – del Governo dal Re) ed «a geometria variabile» (in rapporto alle contingenze

politiche e storiche).

Così ricostruita la forma di governo, si ritiene che non possa essere condivisa, quanto

meno nella sua versione più radicale, la tesi – peraltro assai diffusa, specie nella dottrina

più risalente – secondo cui il regime si sarebbe trasformato assai rapidamente, già nei

primi tempi del regno di Vittorio Emanuele II, in un regime parlamentare, e che tale

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trasformazione sarebbe stata «definitiva». In realtà, per quanto non siano mancati periodi

in cui il sistema ha funzionato come se fosse parlamentare, essi sono sempre stati segnati

dal tacito accordo dei principali attori istituzionali a far funzionare il sistema in quel modo

anziché in un altro (id est, secondo quanto previsto dallo Statuto), accordo sempre

negoziabile, tendenzialmente revocabile (da parte del Re, in primo luogo) e, comunque,

mai definitivo.

A rendere ulteriormente problematica l’adesione alla tesi della «immediata

parlamentarizzazione» del sistema, deve poi sottolinearsi come la «variabilità» della forma

di governo possa essere constatata non solo in relazione ai mutevoli equilibri politico-

istituzionali, ma anche in rapporto al contesto storico-sociale. In particolare, sono da

distinguere nettamente i periodi di «emergenza» (derivanti da guerra interna o da disordini

sociali generalizzati) da quelli di relativa «normalità». Nei periodi di emergenza, infatti, le

considerazioni svolte in ordine alla non ben definita collocazione istituzionale del Governo

perdono gran parte del loro valore, nella misura in cui l’intero assetto del sistema era

fortemente permeato dalle previsioni del secondo periodo dell’art. 5 dello Statuto, secondo

le quali il Re «[era] il Capo Supremo dello Stato: comanda[va] tutte le forze di terra e di

mare; dichiara[va] la guerra; fa[ceva] i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri,

dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il

permett[ev]ano, ed unendovi le comunicazioni opportune».

La prerogativa regia in tema di difesa e forze armate, e dunque di conduzione della

guerra (quanto meno allorché essa avesse come teatro la penisola), restò incontestata

durante tutto il periodo monarchico-liberale, così come restò incontestato il potere del Re,

in quanto Capo dello Stato, di assumere i poteri decisionali supremi ogni qual volta si

verificassero situazioni tali da porre a repentaglio la sopravvivenza dello Stato stesso (e

quindi, non necessariamente in caso di guerra, ma anche, ad esempio, in caso di disordini

interni che avessero una diffusione tale da cagionare un potenziale sovvertimento

dell’ordine costituito).

Questo «potere di riserva» garantiva al Re ampia possibilità di scelta relativamente alle

modalità attraverso cui affrontare la situazione: egli poteva così decidere di condurre le

operazioni belliche in prima persona, recandosi presso il fronte e lasciando nella capitale

un suo luogotenente (è ciò che avvenne nella maggior parte dei casi: si pensi, in

particolare, alle guerre d’indipendenza o alla Prima guerra mondiale), oppure delegare

(come nel caso delle guerre coloniali) ad altri la gestione delle operazioni di guerra o di

ordine pubblico.

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D’altra parte, l’eccezionalità di queste situazioni faceva sì che l’intera dinamica

istituzionale fosse da queste profondamente condizionata (se non addirittura ad esse

funzionalizzata): come logica conseguenza, sul piano fattuale veniva ad essere

sterilizzato, in questi periodi, il dualismo della forma di governo a beneficio esclusivo del

pilastro dinastico della stessa.

In definitiva, è soltanto nei periodi di «normalità» che le istituzioni funzionavano

(potevano funzionare) concretamente secondo i canoni dualistici che si sono descritti (e

che, in taluni frangenti, potevano effettivamente richiamare il regime parlamentare), per

quanto il disposto del secondo periodo dell’art. 5 dello Statuto fosse ben lungi dall’entrare

in uno stato di quiescenza (prova ne sia il fatto che, per quasi tutto il periodo monarchico-

liberale, il Re ebbe il potere di imporre propri fiduciari come titolari dei ministeri della

guerra e della marina, mentre i ministri degli esteri ebbero tutti almeno il suo gradimento).

[B] Le premesse di ordine generale che precedono dovrebbero a questo punto essere

corredate da una analisi più dettagliata dei profili più caratterizzanti della forma di governo.

Onde procedere in tal senso, è forse opportuno operare una periodizzazione (per quanto

essa non possa non rivelarsi almeno per certa parte criticabile, se non anche arbitraria),

alla luce della quale procedere ad una analisi di tipo eminentemente diacronico.

I periodi individuabili nell’arco di tempo compreso tra il 1848 ed il 1922 sono

essenzialmente cinque: (1) la fase di prima applicazione dello Statuto; (2) la fase della

«prima parlamentarizzazione»; (3) la fase della svolta autoritaria; (4) la fase della

«seconda parlamentarizzazione»; (5) la fase della crisi dello Stato liberale.

(1) La fase di prima applicazione dello Statuto. – All’indomani dell’entrata in vigore dello

Statuto albertino, il sistema istituzionale parve concretamente strutturarsi secondo i moduli

teorizzati in sede di redazione della carta costituzionale. Il Re si collocò, infatti, al centro

della scena politica, ponendosi come il dominus incontrastato nella scelta dei ministri, ivi

inclusa quella del Presidente del Consiglio. Carlo Alberto fece largo uso dei poteri che lo

Statuto gli attribuiva, designando al Governo personalità a lui vicine, anche a prescindere

da (e talora persino contro) gli orientamenti maggioritari in seno all’assemblea elettiva. Ne

derivò una rapida successione di ministeri, ben sei nei dodici mesi successivi al marzo

1848. Ciò che più conta, si procedette, già nel gennaio 1849, ad uno scioglimento della

Camera dei deputati, finalizzato essenzialmente a rafforzare in seno ad essa la compagine

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politicamente più affine a quella espressione del «Governo del Re», ormai in procinto di

riprendere le ostilità contro l’Austria, superando in tal modo l’armistizio di Vigevano del 9

agosto 1848.

La sconfitta patita in questa seconda parte della Prima guerra di indipendenza indusse

Carlo Alberto all’abdicazione in favore del figlio, Vittorio Emanuele II. L’uscita di scena del

monarca che aveva promulgato lo Statuto non spostò comunque in modo significativo gli

equilibri istituzionali. Anzi, non appena salito al trono, il nuovo Re, chiamato a gestire la

difficile fase del secondo armistizio (poi concretizzatosi con il Trattato di Milano dell’agosto

1849), non esitò a sostituire il Presidente del Consiglio in carica (al de Launay subentrò

Massimo D’Azeglio) ed a sciogliere (solo poche settimane dopo lo scioglimento

precedente) la Camera dei deputati.

Ma più dell’atto di scioglimento in sé, ad assumere un particolare rilievo ai fini della

configurazione del sistema istituzionale è il proclama reale del 3 luglio 1849, nel quale si

invitavano i sudditi a «non rendere la libertà impossibile né impraticabile lo Statuto» (di cui,

evidentemente, il monarca era il primo garante): all’uopo, si esortavano gli elettori a

designare deputati che – contrariamente alla maggioranza della Camera sciolta, ancora

propensa alla prosecuzione delle ostilità – consentissero al Re di sottoscrivere un

armistizio con l’Austria, ritenuto indispensabile per garantire la sopravvivenza del Regno.

Lo scioglimento si configurava, dunque, come un appello al popolo rivolto direttamente

dal Sovrano, nella sua qualità di supremo reggitore dello Stato, che si ergeva al di sopra

delle «fazioni» politiche per il perseguimento degli interessi generali.

Lo scarso riscontro ottenuto nelle elezioni del 15 luglio (che videro, addirittura, un

rafforzamento del gruppo «democratico», ostile all’armistizio), indussero ad un ulteriore

scioglimento, corredato da un secondo appello al popolo, con il proclama di Moncalieri del

20 novembre 1849. In quest’ultimo, il Re ribadiva l’invito ai sudditi ad associarsi alla sua

politica, onde salvare lo Statuto ed il paese dai pericoli che lo minacciavano; all’invito

seguiva, stavolta, un monito («ma se il Paese, se gli elettori Mi negano il loro consenso,

non su Me ricadrà ormai la responsabilità del futuro; e ne’ disordini che potessero

avvenirne, non avranno a dolersi di Me, ma avranno a dolersi di loro») dal quale si

evinceva – in caso di mancata rispondenza dell’esito elettorale alla politica regia – una

possibile rottura della legalità statutaria, che sola avrebbe consentito di salvaguardare

l’integrità dello Stato.

Il proclama di Moncalieri, che da molti commentatori contemporanei venne letto come

una grave intromissione del Re nella dinamica elettorale, in violazione dei canoni

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essenziali del regime «rappresentativo» che lo Statuto aveva inteso sancire in modo

definitivo, è sintomatico del ruolo assunto dall’istituto monarchico nell’ambito della forma di

governo, un ruolo assolutamente incompatibile con quello di un Re che «regna ma non

governa».

D’altra parte, una volta che lo scopo, nella successiva consultazione elettorale, fu

raggiunto, il Re prese a ritrarsi progressivamente dalla scena, in concomitanza – non a

caso – con la fine della situazione «eccezionale» provocata dagli avvenimenti bellici,

facendo così emergere sempre di più il Governo, allora guidato da un uomo di sua fiducia

quale il D’Azeglio, come soggetto (almeno parzialmente) autonomo, capace di instaurare

una propria dialettica con la Camera dei deputati.

Si creavano, in tal modo, le basi per una parlamentarizzazione della forma di governo

che, fino a quel momento, era stata resa impossibile dalle circostanze storico-politiche,

che avevano reso episodici gli accadimenti che pure avrebbero suggerito l’inizio della

transizione: il riferimento va, in particolare, a quei casi (datati addirittura 1848) nei quali il

Governo si dimise a seguito della constatata ostilità della Camera elettiva (non rilevando,

invece, la posizione dell’altra assemblea, essendosi affermato sin da subito il principio

secondo cui «il Senato non fa crisi»). Non erano ancora, evidentemente, manifestazioni

dell’instaurarsi di un vero e proprio rapporto di fiducia (le dimissioni rappresentavano,

probabilmente, nulla più che un invito al Re a determinarsi in ordine al modo attraverso cui

superare le difficoltà politiche inveratesi), ma le basi per un potenziamento dell’istanza

rappresentativa nel quadro delle istituzioni erano gettate. Con l’avvento di Cavour alla

Presidenza del Consiglio, nel 1852, se ne sarebbero avute ampie conferme.

(2) La fase della «prima parlamentarizzazione». – Questa fase può essere suddivisa in

tre segmenti temporali, corrispondenti (a) all’età cavouriana, (b) al periodo del governo

della Destra storica e (c) a quello del governo della Sinistra storica.

a) La designazione del Conte di Cavour alla guida del Governo segnò una svolta di non

trascurabile rilievo negli equilibri istituzionali del Regno di Sardegna.

In qualità di Ministro dell’agricoltura e delle finanze, Cavour aveva già avuto modo di

segnalarsi per le sue doti politiche, che lo avevano reso uno degli esponenti di spicco della

compagine governativa (a tratti anche in competizione con il Presidente D’Azeglio) e,

soprattutto, uno dei punti di riferimento principali delle forze liberali, maggioritarie in seno

alla Camera dei deputati.

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Una volta divenuto Presidente del Consiglio, l’innovazione principale che Cavour operò

rispetto ai predecessori fu quella di non rivolgersi al «pilastro dinastico» per alimentare la

legittimazione del suo Governo, prediligendo la ricerca di una maggiore saldatura tra il

Governo e la maggioranza parlamentare. Altrimenti detto, Cavour non si configurò come

fiduciario del Sovrano, quanto piuttosto come esponente della maggioranza parlamentare,

che, nell’esprimere propri uomini alla guida del paese, rispondeva agli imperativi fondanti

di quel «sistema rappresentativo» che Carlo Alberto, già nel proclama dell’8 febbraio 1848,

aveva ritenuto essere il cardine del nuovo ordine costituzionale.

Alla visione della monarchia costituzionale come forma di governo espressa nello

Statuto si sostituiva quella di una monarchia tendenzialmente parlamentare, in cui il

rapporto fiduciario consentiva di collocare nel circuito Governo – camera elettiva il fulcro

del sistema: non a caso, il modello ripetutamente invocato fu quello britannico, in cui il

Prime minister, leader della maggioranza parlamentare, rappresentava la più efficace

saldatura tra potere esecutivo e potere legislativo.

Certo, profonde erano le differenze tra la forma di governo consolidatasi a Londra e

quella propria del Regno di Sardegna. Innanzi tutto, profondamente diversa era la

collocazione della Corona, la quale, confinata oltremanica ad un ruolo poco più che

cerimoniale (come ben avrebbe illustrato, di lì a poco, Bagehot nel suo saggio su The

English Constitution), giocava a Torino un ruolo politico attivo, specie nelle materie che

rimasero indiscutibilmente di prerogativa regia: non può trascurarsi, a tal riguardo, la

sostituzione del Cavour con il La Marmora nel secondo semestre del 1859, in seguito al

dissenso manifestato dal primo nei confronti della scelta di Vittorio Emanuele II di firmare

con l’Austria l’armistizio di Villafranca.

In secondo luogo, su un piano eminentemente giuridico il rapporto fiduciario che legava

il Cabinet londinese con la House of Commons poteva solo approssimativamente essere

paragonato a quello instauratosi tra il Governo sardo e la Camera dei deputati:

tecnicamente, infatti, non era dato parlare di un rapporto di fiducia, bensì – al più – di una

non-sfiducia, prescindendosi dalla sussistenza di un appoggio parlamentare esplicito al

ministero e facendo comunque salva la possibilità per i deputati di manifestare un

dissenso che, vista l’opzione operata in termini di fonte di legittimazione del Governo, non

poteva che essere pregiudicante per il perdurare nella carica della compagine ministeriale

(come si ebbe a constatare in occasione della c.d. «crisi Calabiana» del 1855, allorché

l’opposizione al disegno di legge sulla soppressione degli ordini religiosi costrinse Cavour

alle dimissioni, dimissioni cui seguì, dopo una settimana, un nuovo incarico allo statista,

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una volta riscontrata l’impossibilità di convogliare su altri esponenti politici il sostegno della

maggioranza dei deputati).

Del modello britannico non si recepiva, infine, neppure l’idea di un confronto tra forze

politiche alternativamente investite delle responsabilità di Governo. L’avvertita necessità di

puntellare la legittimazione del Governo al di fuori di ogni tutela dinastica si tradusse,

infatti, nel tentativo, riuscito, di dar corpo, con il c.d. «connubio» tra la Destra moderata

cavouriana e la Sinistra riformatrice guidata da Urbano Rattazzi, ad una vasta

maggioranza politica che, nell’occupare il centro dello schieramento, si poneva come forza

egemone in sede parlamentare (tagliando fuori le ali estreme di sinistra e di destra) e

come base di riferimento sicura per il Governo, al riparo dai rischi insiti in un appoggio

numericamente esiguo da parte dei deputati.

Un possibile argine posto all’azione governativa avrebbe potuto essere quello costituito

dal Senato regio, il quale, per le sue modalità di composizione, pareva assai poco

adattarsi al mutato contesto istituzionale. Anche da questo punto di vista, tuttavia, l’età

cavouriana segnò un momento di svolta, attraverso l’affermazione del principio secondo

cui la nomina a senatore era solo formalmente riconducibile al Monarca, spettando però la

decisione, sul piano sostanziale, al Governo (e, in primis, al Presidente del Consiglio).

Ottenuta questa prerogativa, il Presidente del Consiglio seppe farne un uso consono ai

propri fini (in ciò largamente imitato dai successori), procedendo alle c.d. «infornate», cioè

a nomine di esponenti vicini al ministero, in numero tale da neutralizzare l’eventuale

opposizione della camera alta. La mancata previsione di un numero massimo di senatori e

la relativa libertà nella scelta dei designabili (dovuta alla genericità dei requisiti richiesti)

resero possibile una prassi di questo tipo, che, nel rafforzare invariabilmente il Governo,

non mancò, tuttavia, di dimidiare il ruolo politico (e, in ultima analisi, la legittimazione) del

Senato.

Proprio l’assenza di efficaci contropoteri di origine parlamentare disegnò un sistema in

cui il circuito Governo – Parlamento vedeva una preminenza del secondo che era

esclusivamente formale, il primo organo assumendo dunque una posizione di assoluta

centralità. D’altra parte, un contributo fondamentale al fine di rendere il rapporto

fortemente sbilanciato fu giocato dal potere di scioglimento della Camera dei deputati, che

il Governo sovente impiegò (recte, riuscì a far impiegare da parte del Re) come minaccia

al fine di rendere «mansueta» una assemblea dei deputati che si mostrasse recalcitrante

su alcuni provvedimenti.

Ciò detto sul piano dei rapporti tra esecutivo e legislativo, non stupisce che il Governo,

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in quanto tale, assumesse connotati di autonomia sempre più marcati rispetto al Re, ben

rappresentati da quei casi in cui il Cavour sentì di potersi confrontare con Vittorio

Emanuele II, propugnando visioni politiche anche profondamente divergenti (è

emblematica, in tal senso, ancora la «crisi Calabiana», in cui l’opposizione al disegno di

legge governativo trovò un convinto riscontro nel volere del Monarca). Le divergenze

videro non di rado prevalere il Presidente del Consiglio (che, non a caso, in nove anni

restò escluso dal Governo per soli sei mesi), tanto da far comprendere il lapsus in cui il

Cavour incorse quando, durante la Seconda guerra di indipendenza, ebbe ad esclamare:

«il re? Il vero re sono io!» (l’episodio è ricordato da MARTUCCI).

Questa esclamazione è di per sé significativa non solo ai fini della ricostruzione dei

rapporti tra Corona e Governo, ma anche per chiarire quali fossero i rapporti interni alla

compagine ministeriale, nella quale la preminenza di Cavour appariva incontestata, in

ragione del carisma dell’uomo politico e del suo essere il vero leader della maggioranza

parlamentare, ma anche in conseguenza delle scelte operate in sede di formazione dei

governi, tutti caratterizzati dalla presenza di un buon numero di uomini direttamente

collegati al Presidente del Consiglio e dall’assunzione da parte di quest’ultimo dell’ interim

di alcuni ministeri-chiave, onde corroborare con tali «portafogli» la primazia assicurata

dalla presidenza del collegio. Il concorrere di tutti questi elementi stenterà a riproporsi

nelle esperienze di governo successive alla prematura morte di Cavour, all’indomani

dell’unità (6 giugno 1861).

b) Contrariamente a quanto avvenuto nel decennio precedente, gli anni sessanta del

XIX secolo si caratterizzarono per una forte instabilità ministeriale, derivante

principalmente dall’assenza di un capo riconosciuto della maggioranza dei deputati. La

scelta dei presidenti del Consiglio da parte del Re cadde, per lo più, su esponenti della

Destra, che rappresentava, non solo la forza politica numericamente più cospicua, ma

anche la compagine che più adeguatamente garantiva il rispetto delle istituzioni

monarchiche (alcuni settori della Sinistra mostrando una certa contiguità con i

repubblicani).

Nel rapido succedersi dei governi, tuttavia, non mancarono gli incarichi affidati a uomini

della Sinistra moderata (Urbano Rattazzi fu per due brevi periodi a capo del Governo), ma

– ciò che più conta – non mancarono i c.d. «governi del Re», governi, cioè, che – come

era avvenuto sovente in epoca pre-cavouriana, ed ancora nel 1859 – non poggiavano la

propria legittimazione su una salda maggioranza parlamentare, bensì sul pilastro dinastico

(o sul c.d. «partito di corte»): tali, ad esempio, furono il secondo Governo del generale La

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Marmora ed il Governo del generale Menabrea, due dei gabinetti più longevi del periodo (il

primo durò in carica quasi due anni, tra l’autunno 1864 e l’estate 1866, ed il secondo

superò il biennio, tra la fine del 1867 e tutto il 1869).

Questa tipologia di governi suggerisce una riacquisita centralità del Re nel quadro

istituzionale, centralità ulteriormente testimoniata dai casi di «revoca» del Presidente del

Consiglio (si pensi al Governo Minghetti, nel 1864) e da una spiccata inclinazione alla

nomina alla Presidenza di personalità vicine alla Corona (il riferimento va, in particolare, ai

due governi presieduti da Rattazzi, nel 1862 e nel 1867), nonché da qualche intervento

diretto nei lavori parlamentari (si noti che durante il periodo di governo di Menabrea si

ebbe l’unico caso di rifiuto della sanzione regia di una legge, nella fattispecie riguardante

la concessione della cittadinanza italiana agli italiani residenti nei territori peninsulari non

ancora posti sotto la sovranità del Regno d’Italia).

Al ritorno della compagine ministeriale sotto l’egida della monarchia si associò un

depotenziamento della figura del Presidente del Consiglio. Privi del carisma di Cavour,

quei capi del Governo che cercarono di emanciparsi dalla tutela della Corona

perseguirono il disegno di normativizzare la loro preminenza all’interno del Consiglio dei

ministri, ispirandosi, ancora una volta, al modello britannico. A riuscire nell’intento fu

Ricasoli, il quale, nella sua seconda esperienza governativa, fece approvare il regio

decreto 27 marzo 1867, n. 3629, sulle attribuzioni del Presidente del Consiglio. Il decreto

ebbe tuttavia vita breve: emanato quasi al termine dell’esperienza governativa del barone

toscano, il decreto venne prontamente abrogato sotto il Governo successivo, quello di

Rattazzi (sarà poi largamente riesumato da Depretis nel 1876).

Sul finire degli anni sessanta, dopo la caduta del Governo Menabrea, il sistema tornò a

strutturarsi secondo forme più prossime a quelle di un governo parlamentare. Ciò avvenne

allorché il Re designò, nel 1869, alla guida del gabinetto Lanza, il leader parlamentare

della Destra dopo la morte di Cavour. Il nuovo Governo, nel quale si segnalò soprattutto il

Ministro delle finanze, Quintino Sella, per la sua politica di risanamento dei conti pubblici,

si trovò a gestire con successo l’occupazione di Roma e, anche grazie ai buoni risultati

macroeconomici, ottenne un discreto successo elettorale, nel 1870, tanto da esser

confermato in carica fino all’estate 1873. In questo periodo, terminata la fase

dell’emergenza dovuta al succedersi degli episodi bellici finalizzati alla completa

unificazione del territorio italiano, fu più agevole procedere ad una certa rivitalizzazione

dell’istituzione parlamentare, dalla quale il gabinetto traeva la propria legittimazione,

nell’ottica di una dialettica sempre più viva tra la Destra al potere e la Sinistra

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all’opposizione, ma in costante crescita di consensi.

Un voto contrario al Governo su un disegno di legge in materia di oneri fiscali segnò la

caduta del ministero Lanza, al quale subentrò un altro esponente della Destra, Minghetti

(alla sua seconda esperienza come capo del Governo). Sarebbe stato l’ultimo Presidente

del Consiglio espresso dalla Destra storica prima del 1891.

c) Il voto del 18 marzo 1876, con cui la Camera respinse una proposta governativa,

innescò l’avvicendamento al potere tra la Destra e la Sinistra storica, guidata da Depretis.

Questo ribaltamento dei ruoli tra la maggioranza e l’opposizione è stato sovente definito

dalla trattatistica come la manifestazione di una «rivoluzione parlamentare». L’utilizzo di

questa espressione non pare, tuttavia, condivisibile. Ciò per una molteplicità di argomenti:

in primo luogo, la Sinistra, sebbene episodicamente, già aveva rivestito, con alcuni suoi

esponenti, responsabilità ministeriali, ed il suo leader, Rattazzi, aveva addirittura ricoperto

la suprema carica governativa; in secondo luogo, l’idea di «rivoluzione» sarebbe forse

stata idonea ad illustrare un ipotetico avvicendamento compiuto quando la Sinistra era

ancora maggioritariamente attestata su posizioni mazziniane (o comunque anti-

monarchiche), ma non lo era più nel 1876, quando cioè poteva dirsi compiuta ormai da

tempo una piena accettazione dei postulati statutari (paradigmatico, in tal senso, può

essere l’abbandono della pregiudiziale anti-monarchica del garibaldino Crispi, risalente al

1865).

Certo, sulla Sinistra erano state convogliate diffuse istanze di rinnovamento (ben

corrisposte dal discorso di Depretis tenuto a Stradella nel 1875), le quali, però, si

inquadravano nell’ambito di una normale alternanza tra schieramenti politici, già

ampiamente sperimentata in altri ordinamenti (e segnatamente in quello britannico): a

fugare ogni dubbio in tal senso poteva essere addotta la sostanziale omogeneità della

base sociale della Sinistra rispetto a quella della Destra.

Da queste considerazioni non può, però, trarsi l’impressione di una piena continuità tra

il Governo Minghetti ed il Governo Depretis. A cambiare erano, innanzi tutto, gli uomini:

l’avvento al potere della Sinistra segnò da questo punto di vista una cesura, ché pose in

primo piano una classe politica che non era più fondamentalmente ancorata, come la

Destra, al notabilato piemontese, ma che, viceversa, era maggiormente rappresentativa

dell’intero territorio nazionale e che proveniva da esperienze politiche assai eterogenee (vi

figuravano mazziniani e garibaldini, liberali e radicali, etc.). Ma a cambiare era, soprattutto,

il rapporto con la Corona: definitivamente accettato sul piano costituzionale, l’istituto

monarchico veniva osservato con un certo distacco e nella prospettiva di una chiara

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delimitazione di quali fossero le attribuzioni del Re rispetto a quelle del Governo, onde

scongiurare ogni ingerenza di quello negli affari di questo. Almeno per un decennio,

Depretis e gli altri esponenti della Sinistra non manifestarono esitazioni nel riconoscere

nella (sola) Camera dei deputati la fonte di legittimazione del proprio potere, superando in

tal modo i tentennamenti che sul punto avevano caratterizzato la Destra nel periodo post-

unitario.

Proprio al fine di rendere evidente l’autonomia del Governo dalla tutela dinastica,

Depretis pose sin da subito il problema della preminenza del Presidente del Consiglio sugli

altri ministri, nell’ottica del mantenimento di un indirizzo politico unitario. Il problema non

appariva di agevole soluzione, per quanto fosse indiscutibilmente in Depretis che la nuova

maggioranza riconosceva il leader: la Sinistra si presentava, infatti, non come un partito

nel senso moderno del termine, e neppure come un gruppo politico dotato di una certa

coesione, bensì come un insieme di «circoli» di deputati, più o meno ampi, ciascuno

facente capo ad uno degli esponenti più eminenti (Depretis, Cairoli, Zanardelli, Crispi,

Nicotera, etc.).

Alla luce di ciò, il Presidente del Consiglio era chiamato a mediare tra le diverse

componenti della sua maggioranza, cercando un equilibrio che gli garantisse l’appoggio

del più ampio numero di parlamentari. In quest’opera di mediazione rientravano,

ovviamente, anche le designazioni ministeriali, le quali vennero indirizzate ai vari leaders,

onde compattare la maggioranza della Camera dei deputati (per il Senato lo strumento

impiegato fu quello, ormai consueto, delle «infornate»). Ne derivò una accentuata

«ministerializzazione» del Governo, particolarmente difficile da gestire allorché uno dei

titolari di dicastero propugnasse una politica di forte autonomia dal Consiglio dei ministri (il

caso forse più noto – e più significativo – fu quello di Nicotera al Ministero degli interni).

In un contesto siffatto, neppure l’emanazione del regio decreto 25 agosto 1876, n.

3289, che recuperava, peraltro edulcorandolo, quello fatto emanare da Ricasoli sulle

attribuzioni del Presidente del Consiglio, poteva garantire una reale unitarietà dell’indirizzo

politico governativo, e ciò nonostante il chiaro disposto dell’art. 5, ai termini del quale «il

Presidente del Consiglio rappresenta[va] il Gabinetto, [manteneva] la uniformità

nell’indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministri, e cura[va] l’adempimento degli

impegni presi dal Governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni col Parlamento e

nelle manifestazioni fatte al paese»: il capo del Governo restò sempre un primus inter

pares, legato ai ministri, non solo (e non tanto) dalla contiguità politica, ma anche (e,

almeno in certi casi, soprattutto) da rapporti che potremmo definire «di scambio» (da un

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lato l’attribuzione del dicastero, dall’altro l’appoggio parlamentare dei deputati fedeli al

beneficiario).

La logica aggregativa non risparmiò neppure l’opposizione. Lo stesso Depretis non

esitò ad accettare i voti dei deputati della Destra, rilevando come non potesse escludersi

che questo comportamento derivasse da una loro «intima trasformazione». Nasceva, così,

il c.d. «trasformismo», cioè la pratica di coinvolgere nella politica governativa – secondo

moduli in certa parte riecheggianti il «connubio» cavouriano – quei deputati

dell’opposizione che accettassero di condividere le sorti del ministero in carica.

La pratica trasformistica, che ben presto si generalizzò, comportò come conseguenza la

formazione di un vasto schieramento che, da posizione mediana, garantiva al Governo un

appoggio molto ampio, disinnescando le istanze più radicali provenienti dalla destra

clerico-reazionaria e dalla sinistra anti-sistema.

Questo modo di concepire la dialettica politica pervase a tal punto le istituzioni che

divenne arduo discernere tra maggioranza ed opposizione finanche nel momento

elettorale. Sin dal 1848, il sistema elettorale adottato era stato quello del collegio

uninominale a doppio turno, che si riteneva che avesse il pregio di selezionare le

personalità migliori, nel quadro di una competizione nella quale i gruppi politici si

confrontavano per il tramite dei notabili locali. Con la riforma del 1882, che estendeva

sensibilmente il diritto di elettorato attivo (v. supra), si modificò anche il sistema elettorale,

abbandonando il collegio uninominale a beneficio di uno scrutinio di lista nell’ambito di

collegi plurinominali. L’innovazione, che nelle intenzioni avrebbe dovuto intaccare il potere

del notabilato locale, venne in molti casi utilizzata, in assenza di strutture partitiche stabili,

per proporre in sede elettorale quelle combinazioni tra esponenti politici di orientamenti

diversi, accomunati sotto un’unica lista, potenzialmente in grado di marginalizzare

ulteriormente le minoranze esistenti nel Parlamento. Il controllo governativo

sull’andamento delle consultazioni, già sperimentato nel periodo precedente, ma divenuto

particolarmente accentuato dopo le elezioni del 1876, contribuì, non senza violenze e

brogli, ad assicurare alla compagine trasformistica un notevole successo.

La perdurante egemonia sul piano parlamentare assicurò al Governo un costante

margine di autonomia dalla Corona. La frammentarietà della maggioranza, tuttavia, non

consentì una stabilizzazione ministeriale; anzi, la crisi di governo finì per essere essa

stessa utilizzata in chiave tattica: così, se i primi governi Depretis, con i due intermezzi dei

governi formati da Cairoli (nel 1878 e tra la metà del 1879 e la metà del 1881), caddero

tutti a seguito di voti contrari da parte della Camera dei deputati, i cinque governi

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ininterrottamente guidati da Depretis tra il 1881 ed il 1887 (al momento della sua morte)

caddero tutti per crisi c.d. «extraparlamentari», derivanti principalmente dalla decisione del

Presidente del Consiglio di innescare la crisi per sostituire ministri scomodi o per far fronte

– eludendole – a difficoltà riscontrate in Parlamento.

Questa prassi, che assicurò a Depretis una longevità politica inusitata, avrebbe, a lungo

andare, contribuito a delegittimare non solo la classe politica, ma finanche l’istituto

parlamentare. La fase che si aprì nel 1887 lo dimostrò ampiamente.

(3) La fase della svolta autoritaria. – Alla morte di Depretis, il Re Umberto I (succeduto,

nel 1878, al padre Vittorio Emanuele II) designò alla Presidenza del Consiglio, nel segno

della più compiuta continuità, Francesco Crispi, Ministro dell’interno in carica.

L’ascesa di Crispi segnò tuttavia una svolta nell’evoluzione della forma di governo. Il

nuovo Presidente del Consiglio, infatti, sebbene provenisse dall’area politica depretisiana

ed avesse sovente assunto nel decennio precedente responsabilità ministeriali, mostrò

orientamenti istituzionali profondamente diversi dal suo predecessore.

Scarsa era la propensione di Crispi per la mediazione politica di cui Depretis era stato

maestro e non maggiore era la sua considerazione per quel circuito rappresentativo che,

nella ricerca defatigante di equilibri tra le varie fazioni, aveva condannato il sistema ad un

certo quale immobilismo, tradottosi, a sua volta, in una almeno parziale delegittimazione

del Parlamento agli occhi dell’opinione pubblica e, soprattutto, in una ritenuta inefficienza

nel difendere le conquiste risorgimentali contro l’incipiente eversione «rossa» (socialista) e

«nera» (anarchica).

Il contesto generale, unitamente alle convinzioni personali, condussero dunque Crispi a

perseguire una politica che, lungi dall’appiattirsi su una gestione degli affari concentrata

sulla «ordinaria amministrazione», si connotasse per i suoi tratti fortemente «decisionisti»,

prospettando una serie di riforme che contribuissero a rendere lo Stato più forte.

Per far ciò, egli non si esitò a ricercare un esplicito appoggio da parte della Corona,

relegata a partire dal 1876 ai margini del quadro istituzionale: accreditandosi come «uomo

forte», Crispi fece così leva sul Re, ridimensionando il ruolo della Camera dei deputati e

cercando direttamente nell’opinione pubblica un avallo per la propria politica.

Ne derivò un ritorno a moduli istituzionali ormai un po’ desueti, che riecheggiavano gli

equilibri disegnati dalla lettera dello Statuto, attraverso una netta separazione tra il potere

legislativo ed il potere esecutivo, nel quale ultimo il Presidente del Consiglio assumeva

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(recte, conservava e rafforzava) la centralità operativa, ma nel quale, al contempo, il Re

veniva reintegrato a pieno titolo. Il discorso che Crispi pronunciò l’8 dicembre 1887, pochi

mesi dopo la sua investitura, alla Camera dei deputati può essere considerato, a tal

riguardo, un chiaro manifesto della sua politica istituzionale: «secondo lo Statuto vi è un

Parlamento ed un potere esecutivo. Capo del potere esecutivo come Capo dello Stato è il

Re il quale nomina e revoca i Ministri, sanziona le leggi ed i decreti per l’esecuzione delle

medesime. Il potere esecutivo è quindi una istituzione statutaria. E come i due rami del

Parlamento, il Senato e la Camera, hanno il diritto di riordinarsi e di determinare le loro

attribuzioni come meglio credono, il Re Capo del potere esecutivo, Capo dello Stato, ha il

diritto di ordinare il potere esecutivo e di fissare le attribuzioni dei Ministri».

Nei fatti, l’idea della tendenziale separazione tra i poteri giocò tutta a favore

dell’esecutivo, che condusse una politica spesso indipendente dalla volontà parlamentare,

contribuendo a menomare ulteriormente il prestigio della Camera dei deputati. Così,

quando un voto contrario su taluni provvedimenti finanziari condusse alla caduta del

secondo Governo Crispi (il primo era caduto per ragioni analoghe), l’iniziativa nella scelta

del nuovo Presidente del Consiglio ricadde essenzialmente sul Re, il quale designò,

all’inizio del 1891, il marchese di Rudinì, un esponente della Destra.

Il nuovo Governo sembrò formalmente restaurare l’autorità del Parlamento, attraverso

un più aperto dialogo tra la maggioranza dei deputati ed il Gabinetto. Ne è una

dimostrazione, probabilmente, l’abbandono (con la legge 5 maggio 1891) del sistema

elettorale a scrutinio di lista (molto criticato per le degenerazioni cui aveva dato luogo) ed

un ritorno al collegio uninominale.

Sul piano politico, tuttavia, l’azione dell’esecutivo si caratterizzò in senso marcatamente

conservatore, concentrata in modo pressoché esclusivo sul risanamento dei dissestati

conti pubblici. A tal fine, di Rudinì propugnò una riduzione delle spese militari, ponendosi

in aperto con gli ambienti vicini alla Corona: l’avvenuto recupero da parte di quest’ultima di

un ruolo centrale nella forma di governo fu testimoniato dalla circostanza che il contrasto

insorto costrinse il Presidente del Consiglio alle dimissioni a poco più di un anno dalla sua

designazione.

Gli successe Giovanni Giolitti, un uomo «nuovo» (nel senso che la sua esperienza

politica non affondava le proprie radici nel Risorgimento). Esponente della Sinistra liberale,

Giolitti formò un Governo connotato, sul piano sociale, in senso riformatore e progressista,

e, sul piano politico, teso a circoscrivere le inframmettenze della Corona. Un grave

scandalo bancario travolse, però, dopo solo un anno, questa esperienza ministeriale,

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riaprendo la strada della Presidenza del Consiglio a Crispi.

Nella sua nuova esperienza, lo statista siciliano, chiamato a confrontarsi con i crescenti

disordini sociali (il riferimento è, in primo luogo, ai c.d. Fasci siciliani ed ai moti in

Lunigiana), radicalizzò gli orientamenti politici che erano stati tipici del suo primo periodo di

governo. In particolare, quella che era stata una scarsa attenzione nei confronti del

Parlamento divenne una politica tesa a tacitarlo: approfittando del funzionamento (non

continuo, ma) per sessioni, Crispi indusse il Re a chiudere o a prorogare ( id est,

aggiornare ad altra data) le sessioni parlamentari nelle quali l’oggetto di discussione

potesse mettere in difficoltà l’esecutivo, riconvocando le Camere anche dopo alcuni mesi,

o magari sciogliendole e ricorrendo così a nuove elezioni. La combinazione di tutti questi

strumenti raggiunse, in certi frangenti, un effetto di blocco pressoché totale dell’attività

parlamentare. Ad esempio, il 23 luglio 1894 venne chiusa la prima sessione della XVIII

legislatura; la seconda sessione, convocata per il 3 dicembre, venne prorogata al 15; dopo

undici sedute della Camera dei deputati e cinque del Senato, la sessione venne chiusa, il

13 gennaio 1895; l’8 maggio successivo intervenne il decreto di scioglimento della

Camera, che consentì una ripresa dei lavori parlamentari solo il 10 giugno, dopo le

elezioni: in oltre dieci mesi, l’assemblea elettiva aveva tenuto solo undici sedute!

Sostanzialmente costretto il Parlamento al silenzio, Crispi si mosse esclusivamente con

l’appoggio del Re, propugnando una politica che – per la netta avversione ad ogni istanza

sociale «progressiva», per l’espansionismo coloniale, per la ricerca di un consenso

dell’opinione pubblica direttamente sulla sua persona –, da «decisionista» che era stata tra

i 1887 ed il 1891, andò avvicinandosi sempre più ad una larvata dittatura personale.

La disfatta di Adua, nella guerra contro l’Impero etiope, obbligò un Crispi ormai

delegittimato socialmente e politicamente a rassegnare le sue dimissioni (5 marzo 1896).

A subentrargli fu, nuovamente, il marchese di Rudinì, che ripropose, almeno

inizialmente, un programma largamente analogo a quello presentato cinque anni prima.

Sebbene anche il Governo di Rudinì fosse stato emanazione principalmente del Re, il

Parlamento venne reintegrato nelle sue prerogative: il primo atto del nuovo gabinetto fu

infatti quello di presentarsi di fronte alle Camere per discutere circa la strategia da seguire

nel negoziato con il Negus etiope per la pace, da condurre «con prudenza e con fierezza,

ma soprattutto con la ferma risoluzione di respingere qualsiasi proposta non confacente al

nostro decoro».

Per marcare ulteriormente il distacco rispetto al Governo Crispi, di Rudinì giunse

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persino a provocare un voto di condanna contro il suo operato da parte della Camera dei

deputati.

Sul piano politico generale, peraltro, il nuovo esecutivo non si differenziava in modo

sensibile dal precedente, accentuandone anzi gli aspetti conservatori. La deflagrazione di

una vasta ondata di insurrezioni traghettarono il Governo dalla conservazione alla più

aspra reazione, innescando una ondata di repressioni di violenza inusitata.

In questo contesto, la debolezza del Parlamento, ancora fortemente segnato dalle

menomazioni subite negli anni precedenti, non consentì una gestione equilibrata della

crisi, lasciandone al Governo (ed al Re) l’intera responsabilità. Non stupisce, allora, che

proprio in questi anni venisse proposta con forza, da uno dei leaders della Destra, Sonnino

(1897), l’idea di «tornare indietro», di tornare, cioè, ad una forma di governo aderente alla

lettera dello Statuto albertino: le degenerazioni del sistema, imputate al parlamentarismo

inveratosi nella prassi, si riteneva che potessero essere arginate attraverso un recupero

del ruolo della Corona nell’ambito di un regime monarchico-costituzionale.

L’invito a «tornare allo Statuto» fu raccolto da di Rudinì quando, superando le resistente

del Parlamento, proseguì nell’azione repressiva, appoggiandosi integralmente sull’esercito

e proponendo al Re lo scioglimento della Camera dei deputati, alla ricerca di una vittoria

elettorale che corroborasse la propria politica.

Resosi probabilmente conto della sua impraticabilità, Umberto I si ritrasse da questa

operazione, che avrebbe segnato una rottura definitiva degli schemi invalsi nella

costruzione della forma di governo. Di Rudinì, sfiduciato dalla Corona, non poté allora che

dimettersi.

Nella ricerca di una pacificazione politica, il Re chiamò al Governo il generale Pelloux,

gradito sia agli ambienti di corte sia, per le simpatie di Sinistra che gli sia attribuivano, ad

una parte consistente dei deputati.

Durante il primo anno di governo, Pelloux condusse, in effetti, una politica tesa a

mitigare gli eccessi reazionari del ministero precedente, rinunciando, tra l’altro, a quei

disegni di legge «liberticidi» che erano stati presentati da di Rudinì.

Tornato un clima di pace sociale, Pelloux ritenne però giunto il momento di dotare il

Governo di una serie di poteri che gli avrebbero consentito di reagire efficacemente contro

eventuali nuovi moti di protesta. Fu così che nel maggio 1899 varò un nuovo Governo,

fortemente orientato a destra, e riprese quei disegni di legge «liberticidi» lasciati languire

in Parlamento per oltre un anno. Lo scontro parlamentare che su di essi si accese, con

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l’ostruzionismo dell’Estrema via via propagatosi a buona parte della Sinistra, non poté

essere domato neppure attraverso riforme del regolamento della Camera (ché, anzi,

l’ostruzionismo si spostò su di esse). L’estremo tentativo di forzare la mano con

l’emanazione degli atti nella forma del decreto soggetto a mera conversione da parte delle

Camere convinse definitivamente dell’esistenza di un tentativo di «colpo di stato» in senso

autoritario.

Nell’impossibilità di ricondurre il Parlamento ad una linea di obbedienza nei confronti

dell’esecutivo, Pelloux giocò l’ultima carta, quella elettorale. La sconfitta patita dal Governo

in carica rese sostanzialmente obbligate le sue dimissioni. Poco più di un mese dopo, il 29

luglio 1900, il regicidio simboleggiava la chiusura definitiva della c.d. «crisi di fine secolo»

e l’apertura di una fase nuova, nella quale il Parlamento, rinvigorito dalla battaglia condotta

contro i governi reazionari, sarebbe tornato a giocare un ruolo di primo piano.

(4) La fase della «seconda parlamentarizzazione». – All’indomani delle elezioni del

1990, venne incaricato della formazione del Governo il senatore Saracco, che coalizzò

intorno a sé una maggioranza piuttosto eterogenea, legata principalmente dalla necessità

di intraprendere un’azione politica volta a segnare una cesura netta rispetto alle più recenti

esperienze.

Privo di un sostegno convinto da parte di molti deputati pure formalmente ascrivibili alla

maggioranza, il Governo Saracco venne ben presto sfiduciato, nel febbraio 1901, dalla

Camera dei deputati, in ragione della politica, ritenuta troppo conservatrice, seguita in

occasione di alcune agitazioni promosse dalle organizzazioni operaie e sindacali.

Il Re Vittorio Emanuele III chiamò allora alla Presidenza del Consiglio uno dei più

autorevoli leaders della Sinistra liberale, Zanardelli, considerato – per il suo passato e per

le posizioni espresse nel corso della crisi di fine secolo – un efficace garante della reale

apertura delle istituzioni in senso progressista. Al Governo partecipava, come Ministro

dell’interno, Giolitti, destinato ad ispirare molte delle scelte più caratterizzanti del nuovo

gabinetto.

Oltre all’impostazione di alcune delle riforme sociali che caratterizzeranno anche gli

anni successivi (e sulle quali già ci si è soffermati in sede di analisi della forma di Stato), il

ministero Zanardelli-Giolitti si segnalò per il perseguimento di un’azione volta, da un lato, a

riproporre il Parlamento quale base della legittimazione del Governo e, dall’altro, a

potenziare (grazie, in particolare, al regio decreto 14 novembre 1901, n. 466), il ruolo,

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all’interno dell’esecutivo, del Presidente del Consiglio, circoscrivendo le possibilità di

intervento della Corona, cui venne almeno in parte sottratta finanche la tradizionale

prerogativa concernente le designazioni dei ministri della guerra, della marina e degli

esteri.

Il Governo, dopo alcuni momenti di difficoltà in Parlamento, dovuti alla presentazione di

un disegno di legge che introduceva il divorzio, ebbe una vita relativamente lunga, sino a

quando, nell’ottobre 1903, la malattia dell’anziano Presidente del Consiglio condusse alle

dimissioni dell’intero gabinetto, favorendo in tal modo la nomina di Giolitti.

Prendeva così avvio il periodo comunemente definito come l’«età giolittiana», a

testimonianza della preminenza dello statista piemontese nel panorama politico italiano.

Confermando gli orientamenti di fondo, sul piano sociale e su quello istituzionale, del

ministero Zanardelli, Giolitti manifestò una chiara propensione a fare della Camera dei

deputati il centro del proprio potere, all’uopo giovandosi della sua posizione di leader

riconosciuto da parte della maggioranza e, per altro verso, dell’atteggiamento

scarsamente incline all’intervento diretto sulla scena politica con il quale il giovane Re

Vittorio Emanuele III evidenziò una netta differenziazione rispetto alle velleità paterne.

La politica giolittiana non rappresentò, peraltro, la semplice riproposizione dei moduli

istituzionali propri di una nuova «parlamentarizzazione». Furono, infatti, almeno due i

profili di novità significativi rispetto alle esperienze del passato.

Innanzi tutto, il primo decennio del Novecento vide una forte crescita della presenza

pubblica nell’ambito delle attività economiche e nella società civile. Ciò comportò, da un

lato, la necessità di una maggiore «tecnicizzazione» del dibattito politico e, dall’altro, uno

strutturarsi del sistema in modo tale da garantire alla politica un primato

sull’amministrazione. Entrambi questi fattori condussero ad uno spostamento del

baricentro del potere decisionale dalla Camera dei deputati al Governo, unico organo

capace di gestire concretamente l’interventismo statale. Questo spostamento, inizialmente

agevolato dalla posizione di preminenza di Giolitti nell’ambito dello schieramento politico

liberale, finì per essere, a sua volta, uno dei fattori che più incisivamente contribuirono a

concentrare sul Presidente del Consiglio un coefficiente di potere difficilmente riscontrabile

in epoche passate.

Un secondo fattore di novità – probabilmente il principale – fu costituito dall’apertura

programmatica che Giolitti perseguì a più riprese verso le forze politiche espressione delle

classi popolari. Il riconosciuto fallimento delle precedenti politiche di chiusura nei confronti

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del Partito socialista (e delle altre forze dell’Estrema) indusse Giolitti, sin dal suo primo

incarico, a cercare di far entrare nella compagine governativa gli esponenti socialisti e

radicali più lontani dalle posizioni massimaliste. Il tentativo non riuscì, o meglio non riuscì

del tutto, dal momento che l’inserimento nel Governo fu possibile solo per alcuni politici di

matrice radicale e, comunque, in modo sovente transitorio. Ciò nondimeno, si

manifestarono, nel corso degli undici anni in cui Giolitti fu al potere, frequenti aperture da

sinistra a programmi di governo che si presentassero come particolarmente avanzati. In

quest’ottica, un ruolo certo non secondario sarebbe stato giocato dall’allargamento del

suffragio del quale Giolitti fu decisivo propugnatore, constatata la sua ineluttabilità al fine di

far corrispondere le istituzioni ad una società civile che, anche grazie al periodo di

notevole sviluppo economico, troppo era cambiata per continuare ad essere rappresentata

nelle forme ristrette disegnate dal legislatore del 1882.

Altra caratteristica dell’età giolittiana, che contribuì a renderla profondamente diversa da

tutte le altre, fu la relativa stabilità di governo. Giolitti guidò, infatti, il gabinetto per periodi

piuttosto lunghi: dal novembre 1903 al marzo 1905, dal maggio 1906 al dicembre 1909 (il

c.d. «lungo ministero», secondo solo – tra quelli post-unitari – a quello guidato da Lanza) e

dal marzo 1911 al marzo 1914. Ma anche nei periodi in cui lo statista di Dronero non fu a

capo del Governo, fu in lui che la maggioranza parlamentare riconobbe il proprio leader

indiscusso, e ciò non solo quando il gabinetto fu guidato da uomini di sua fiducia (come

Fortis, tra il 1905 ed il 1906, e come Luzzatti, tra il 1910 ed il 1911), ma anche, per certi

versi, durante le due effimere esperienze (entrambe di circa cento giorni) del suo più fiero

avversario, Sonnino (nel 1906 e tra il 1909 ed il 1910).

Nella prassi istituzionale, non mancarono, peraltro, alcuni elementi tali da avvicinare

l’età giolittiana ad altri periodi della storia costituzionale del Regno d’Italia. Si riproposero,

in particolare, alcune caratteristiche che erano state proprie della prima fase dei governi

della Sinistra storica.

Tra queste, può segnalarsi il ritorno su un tema invero piuttosto ricorrente, vale a dire

quello della opportunità o meno di procedere alla riforma del Senato regio, onde restituirgli

un peso che la inveterata consuetudine alle «infornate» aveva grandemente limitato.

L’argomento, caro a buona parte dei maggiori esponenti della Sinistra, venne ripreso sul

finire del primo decennio del Novecento, in non casuale connessione con la prospettata

introduzione del suffragio (quasi-)universale maschile: l’idea di rendere elettiva anche la

camera alta era infatti concepita in funzione di precostituire un potenziale argine contro le

temute derive che la camera bassa avrebbe potuto conoscere dopo l’estensione del diritto

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di elettorato attivo. Come gli altri progetti che erano stati presentati nel passato, anche

quello elaborato dal costituzionalista Arcoleo conobbe però una sorte assai poco gloriosa,

a ciò contribuendo in maniera decisiva l’atteggiamento del Governo Luzzatti, connotato da

una certa resistenza ad ogni innovazione nella struttura del Senato che avesse possibili

ripercussioni negative sul controllo esercitato dall’esecutivo nei confronti dell’assemblea.

Altro aspetto dell’età giolittiana che può essere validamente comparato con alcuni

periodi precedenti (e segnatamente con quello nel quale Depretis aveva guidato il

Governo) fu il sistematico ricorso a crisi di governo extra-parlamentari. Tra il 1901 ed il

1914, soltanto un gabinetto (il primo Governo Sonnino) cadde in seguito ad una esplicita

votazione parlamentare: in tutti gli altri casi (facendo salvo quello, peculiare, del Governo

Zanardelli), si preferì rassegnare le dimissioni con anticipo rispetto ad un voto che avrebbe

potuto ledere il prestigio politico del destinatario. Giolitti, in particolare, fu sempre

particolarmente attento ad evitare questo tipo di censure, lasciando ad altri un ruolo di

primo piano ogni qual volta la situazione politica lasciasse emergere difficoltà non

immediatamente sormontabili, e giungendo finanche a consigliare al Re la designazione

del suo principale avversario allorché intravedeva l’impossibilità di formare un governo

stabile (non a caso, dunque, Sonnino fu chiamato il ministro «dei cento giorni»).

Gli elementi che, sopra ricordati, possono essere considerati come costanti riscontrabili

in tutto il corso dell’età giolittiana non debbono far pensare ad una tendenziale immobilità

sul piano delle dinamiche insite nella forma di governo. Specie nell’ultimo scorcio di questa

esperienza, infatti, non mancarono avvenimenti destinati ad incidere assai profondamente

sul sistema, nell’immediato ma anche nel periodo successivo. Il riferimento va, per un

verso, alla guerra di Libia e, per l’altro, alla prima sperimentazione del suffragio

(quasi-)universale.

Nell’autunno 1911, approfittando della favorevole contingenza internazionale, l’Italia si

impegnò in una guerra contro l’Impero ottomano volta a strappare ad esso la sovranità

sulla Libia. Le vicende belliche arrisero alle forze italiane, le quali costrinsero l’Impero

ottomano a sottoscrivere, nell’ottobre 1912, il trattato di pace con il quale si riconosceva la

conquista della colonia nordafricana da parte del Regno.

L’esito della guerra (così come la decisione di scatenarla) rafforzarono notevolmente la

popolarità di Giolitti agli occhi di un’opinione pubblica che vedeva il diffondersi di

sentimenti nazionalistici. Questo nuovo successo politico venne ottenuto, tuttavia,

seguendo un modus procedendi considerevolmente diverso rispetto a quello che aveva

fino a quel momento connotato la carriera politica dello statista piemontese. La necessità

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di dichiarare guerra «all’improvviso», dopo una serie di preparativi compiuti nella massima

riservatezza, rese indispensabile una azione che non fosse concordata (ma neppure

esplicitata) in sede parlamentare: il Governo (ma, in realtà, il Presidente del Consiglio)

doveva agire al di là di ogni mandato in tal senso proveniente dalla Camera dei deputati,

appoggiandosi, dunque, esclusivamente sulla Corona (peraltro titolare di una prerogativa

in materia di politica estera e politica militare che le veniva in tal modo integralmente

confermata). Il Parlamento intervenne ex post, essenzialmente per ratificare decisioni già

assunte: nell’immediato, le obiezioni di ordine costituzionale vennero tacitate dal positivo

esito del conflitto; nel giro di qualche tempo, però, il precedente creato si sarebbe

dimostrato carico di conseguenze.

L’anno successivo alla fine della guerra di Libia, la Camera dei deputati venne sciolta.

Le elezioni che seguirono furono le prime a svolgersi dopo l’approvazione della legge

sull’allargamento del suffragio maschile. L’estensione del diritto di voto oltre i confini della

classe borghese impose un ripensamento della strategia da condurre in sede di

presentazione delle candidature e di campagna elettorale. Fino a quel momento, la

ristrettezza del circolo degli elettori aveva favorito una identificazione di essi con uno o più

notabili locali, chiara risultando la preponderanza del fattore personale nella scelta dei

deputati; con il mutamento intervenuto a livello giuridico, queste dinamiche erano avvertite

come non più attuali: in particolare, si paventava, da parte dei liberali, l’impatto che

avrebbe avuto sull’elettorato la propaganda condotta da quelle formazioni politiche

organizzate e capillarmente diffuse sul territorio, prima tra tutte il Partito socialista. I

liberali, sotto questo profilo, erano rimasti ancorati alla vecchia logica, vedendosi privi di

una organizzazione che consentisse loro di presentarsi preparati all’allargamento del

suffragio. Giolitti, forse più di altri, se ne rese conto, sebbene ritenesse di poter ovviare alle

difficoltà attraverso il suo prestigio personale, il controllo delle elezioni da parte

dell’apparato governativo (secondo una tradizione non propriamente edificante) e, last but

not least, il mantenimento (da lui tenacemente perorato) del sistema elettorale basato sul

collegio uninominale, che più si confaceva ad una rappresentanza fondata sulle persone

piuttosto che ad una scelta veicolata dall’adesione ad un partito. Nella strategia giolittiana,

doveva poi assumere un ruolo non secondario il c.d. «patto Gentiloni», contratto tra i

liberali e l’Unione cattolica al fine di far confluire il voto dei cattolici su candidati liberali che

si impegnassero in una politica gradita alle gerarchie ecclesiastiche.

I risultati elettorali dimostrarono quanto il quadro politico fosse cambiato in

conseguenza dell’allargamento del suffragio: i socialisti passarono da 25 a 50 deputati, i

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radicali da 50 a 70, i cattolici da 20 a 30; i liberali subirono una sconfitta tutto sommato

preventivabile, e comunque non tale da porre a rischio il perdurare della loro maggioranza,

scendendo da 372 a 310 seggi nella Camera dei deputati. Il dato politico più rilevante non

fu però quello dei seggi ottenuti dalle singole formazioni, bensì la rivelazione del «patto

Gentiloni», inizialmente destinato a restare segreto, e la stima in base alla quale dei 310

seggi ottenuti dai liberali, ben 228 erano stati conquistati grazie all’appoggio determinante

dei cattolici.

La notizia, che dette la misura reale della crisi della classe politica liberale, ebbe subito

una vasta eco, ponendo in chiara difficoltà il Governo Giolitti, cui venne meno, tra l’altro,

l’appoggio dei radicali. In una situazione che appariva difficile da gestire, il Presidente del

Consiglio rassegnò le sue dimissioni, suggerendo al Re il nome di Sonnino come suo

successore. Sonnino rifiutò l’incarico, che venne allora conferito a Salandra.

Quella che poteva apparire come una nuova parentesi governativa, dopo le due che

avevano intervallato i ministeri Giolitti, si rivelò, invece, una cesura profonda nella storia

costituzionale. Si chiudeva, infatti, l’età giolittiana.

(5) La fase della crisi dello Stato liberale. – L’avvicendamento al Governo tra Giolitti e

Salandra precedette di soli pochi mesi l’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco

Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria (28 giugno 1914).

Nell’ambito della crisi internazionale che sfociò nella Prima guerra mondale, il Governo

italiano oscillò lungamente tra neutralismo ed interventismo e, se del caso, tra l’entrata in

guerra a fianco degli Imperi centrali (con i quali era stata rinnovata, ancora nel 1912, la

Triplice alleanza sottoscritta nel 1882) ovvero con l’Intesa anglo-franco-russa.

Inizialmente orientato, almeno nelle prese di posizione ufficiali, per il non intervento, il

Regno d’Italia stipulò, il 26 aprile 1915, il c.d. Patto di Londra, nel quale, all’impegno a

dichiarare guerra all’Austria entro un mese dalla sottoscrizione, corrispondeva

l’assicurazione di compensi territoriali – scil., in caso di vittoria – per mezzo dei quali l’Italia

avrebbe finalmente acquisito le c.d. «terre irredente» (Trento e Trieste, su tutte), oltre ad

altri territori da tempo rivendicati (Bolzano e la costa della Dalmazia).

Tralasciando una disamina delle motivazioni che spinsero all’entrata in guerra (tra le

quali certo un ruolo decisivo ebbe la prospettiva di completare il processo risorgimentale di

unificazione sotto un’unica sovranità della nazione italiana), ciò che devesi qui evidenziare

è che il Patto di Londra venne sottoscritto in gran segreto, essendone a conoscenza

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soltanto il Re, il Presidente del Consiglio, il Ministro degli affari esteri (Sonnino) e,

ovviamente, le alte gerarchie militari e l’ambasciatore italiano a Londra. Il Parlamento non

fu, dunque, minimamente informato, alla stessa stregua, peraltro, della grande

maggioranza dei componenti del Consiglio dei ministri.

L’atteggiamento tenuto dai vertici dell’esecutivo, che dimostrava senza infingimenti

quanto poco pesasse il potere legislativo nella condotta della politica estera, apparve di

particolare gravità anche in ragione del fatto che la maggioranza parlamentare – ed il suo

leader, Giolitti, in testa – si era ripetutamente professata neutralista.

Posto di fronte al fatto compiuto, il Parlamento non opposte, tuttavia, che una iniziale

resistenza, ben presto fiaccata anche dalla pressione di una piazza che, nelle «radiose

giornate» di maggio, si mostrò particolarmente sensibile alla propaganda interventista,

abbandonandosi anche ad atti inqualificabili, come il tentato assalto all’abitazione di Giolitti

o la «caccia al deputato dissenziente», sovente fomentati dagli accesi comizi di Gabriele

D’Annunzio.

Avvalendosi di questo clima, il Governo ebbe buon gioco nell’imporre al Parlamento

l’approvazione di una legge che gli attribuiva i pieni poteri al fine di dichiarare, preparare e

gestire l’imminente conflitto. La legge, che si ricollegava ad altre approvate, in passato, in

vista di periodi di guerra, si distingueva dagli esempi precedenti per l’entità dei poteri

trasferiti: le disposizioni legislative furono, infatti, formulate in modo tanto ampio e generico

da conferire, in sostanza, all’esecutivo l’esercizio pressoché monopolistico della gran parte

dei poteri pubblici, ivi inclusa la funzione legislativa (donde un utilizzo abnorme,

riscontrabile negli oltre quaranta mesi di guerra, della decretazione d’urgenza).

Al Parlamento restò solo la possibilità di controllare il Governo, ed anche di sfiduciarlo,

ciò che avvenne in due occasioni: nel giugno 1916, al gabinetto Salandra subentrò quello

– che vedeva la partecipazione di tutte le forze politiche tranne i socialisti ufficiali – guidato

da Boselli; nell’ottobre 1917, in concomitanza con la rotta di Caporetto, al Governo Boselli

successe il Governo Orlando (anch’esso di «unità nazionale»).

Al di là di questi avvicendamenti, il Parlamento ebbe, però, un ruolo assolutamente

marginale, anche in conseguenza della prassi invalsa di tenere le riunioni in comitato

segreto, recidendo, così, i più efficaci canali di comunicazione con un’opinione pubblica

peraltro distratta dalle pressanti esigenze belliche.

Al termine del conflitto, la vittoria non poteva nascondere le pesanti ripercussioni

economiche e sociali che la durata e l’intensità della guerra avevano avuto e che erano

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destinate ad avere. Il problematico reinserimento degli ex-combattenti nella società civile,

le difficoltà della riconversione dell’industria alla produzione di pace, nonché le ristrettezze

imposte dalle contingenze economiche, gli scioperi, le agitazioni popolari (affrontate con

crescente preoccupazione alla luce della conquista del potere da parte dei bolscevichi a

seguito della Rivoluzione d’ottobre in Russia) ed i frequenti scontri con le forze dell’ordine

che costellarono quello che fu definito come il «biennio rosso» (1919-1920) contribuirono,

con tutta evidenza, a mantenere il paese in una situazione di tensione e di eccezionalità

sempre meno gestibile, anche in conseguenza della nascita di movimenti eversivi di

estrema destra, i c.d. Fasci di combattimento, che, guidati dall’ex-socialista Mussolini,

andavano riscuotendo una crescente simpatia tra i reduci e tra una borghesia vieppiù

intimorita dai disordini.

Sul piano internazionale, poi, le difficoltà da subito insorte nelle trattative di pace resero

evidente l’impossibilità per l’Italia di ottenere tutte le annessioni territoriali richieste con il

Patto di Londra, alimentando il mito demagogico della «vittoria mutilata», acuendo il

risentimento degli ex-combattenti ed ispirando i peggiori avventurismi, tra i quali, in

particolare, l’occupazione della città di Fiume da parte di milizie agli ordini di D’Annunzio.

A governare l’insieme di questi fattori di crisi si trovarono istituzioni uscite fortemente

segnate dall’emergenza bellica: un Parlamento delegittimato dalla scollatura rispetto alla

società civile, non ancora ricucita dopo le «radiose giornate» del 1915, e dall’implosione,

in seguito alla spaccatura tra interventisti e neutralisti, della maggioranza uscita dalle

elezioni del 1913; un Governo scarsamente coeso al proprio interno, e delegittimato dalla

condotta delle trattative per la sistemazione dell’Europa dopo la guerra. Se la pace aveva

intaccato il prestigio finanche del Presidente «della vittoria» (Vittorio Emanuele Orlando),

ad uscire rafforzati dalla Prima guerra mondiale erano dunque solo l’esercito e,

soprattutto, il Re, il primus miles cui la situazione di emergenza aveva consentito, in

aderenza all’art. 5 dello Statuto albertino, di recuperare un ruolo centrale in seno alla

forma di governo.

In questo contesto, la crisi di governo che seguì alla sfiducia pronunciata nei confronti

del Governo Orlando nel giugno 1919 (e motivata proprio dall’andamento delle trattative di

pace di Parigi) apparve di assai ardua soluzione. Su suggerimento di Giolittti, la scelta del

Re cadde su Nitti, già Ministro del tesoro nel Governo Orlando, ma dimessosi nel gennaio

1919.

Il nuovo Presidente del Consiglio riuscì a coagulare intorno a sé una maggioranza

iniziale, ma ben presto si evidenziarono le spaccature nel fronte governativo, agevolate

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dalle tensioni sociali, dall’entrata di D’Annunzio in Fiume (12 settembre 1919) e da alcuni

provvedimenti adottati per far fronte alla situazione drammatica del bilancio statale (venne

congedato un milione di soldati) e per porre le basi di un ritorno alla normalità

(particolarmente contestata fu l’amnistia concessa per il reato di diserzione semplice, con

la quale fu drasticamente ridotta l’entità del contenzioso ancora pendente).

Per ovviare alla sostanziale impossibilità di contare su una reale maggioranza

parlamentare, Nitti ricorse agli strumenti offerti dalla tradizione, quali la proroga e la

chiusura delle sessioni, che resero lungamente inerti le Camere e che consentirono di

interinare la prassi invalsa nel periodo bellico della legislazione per decreto. A

dimostrazione della perdurante centralità della monarchia come sostegno di un Governo

privo di canali di legittimazione alternativa, in occasione della crisi di Fiume, si giunse

addirittura a convocare il Consiglio della Corona, un organo consultivo che era diretto

discendente del Consiglio di conferenza, ma che mai, dopo la promulgazione dello Statuto

albertino, era stato convocato.

Tutto ciò contribuì a marginalizzare ulteriormente il ruolo del Parlamento (con

conseguenze che non avrebbero tardato a manifestarsi), sebbene la condotta del Governo

Nitti fosse stata ispirata dalla necessità di fronteggiare un periodo di transizione, in vista di

un rilancio del sistema. A tal fine, il Presidente del Consiglio ritenne di poter consolidare le

basi popolari del regime, favorendo quell’incontro tra classe media progressista e

proletariato riformista lungamente ricercato da Giolitti, attraverso la riforma del sistema

elettorale. Il collegio uninominale venne così sostituito dal sistema proporzionale a liste

concorrenti.

La riforma non sortì gli effetti sperati. Il sistema proporzionale, infatti, favorì

grandemente i partiti che avevano una struttura organizzativa stabile, cioè principalmente

il Partito socialista ed il Partito popolare, collegato alle strutture cattoliche; i liberali erano

rimasti privi di una organizzazione, ancorati ad una visione personalistica della lotta

politica: in buona sostanza, le ragioni che avevano indotto, nel 1912, Giolitti ad opporsi

all’introduzione di uno scrutinio di lista erano ancora integralmente valide nel 1919. In

ragione di ciò, ben può dirsi che la scelta del sistema proporzionale contribuì in modo

decisivo ad accelerare la crisi in atto dello Stato liberale, senza che, però, si fossero

creare le condizioni sufficienti per il passaggio ad una forma di Stato avanzata (in tal

senso, ad esempio, militavano il ritardo e le incompiutezze nella predisposizione di un

adeguato sistema di istruzione pubblica).

A differenza di tutti i predecessori, poi, Nitti ebbe il merito, sul piano morale, di rifuggire

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da ogni inframmettenza dell’apparato governativo sull’andamento delle elezioni,

contribuendo a rendere ulteriormente precaria la posizione dei candidati dello

schieramento liberale. I risultati delle elezioni del novembre 1919 furono, così, lo specchio

delle previsioni: i liberali (frastagliati sotto un gran numero di sigle) scesero a 252 deputati,

i socialisti salirono a 150 ed i cattolici del Partito popolare a 100; facevano la loro

comparsa anche 6 deputati esponenti di partiti eversivi di estrema destra. Per la prima

volta, i liberali non detenevano più la maggioranza assoluta della Camera dei deputati, e

ciò senza che fosse emersa una forza in grado di sostituirli. D’altra parte, l’auspicato

incontro tra liberali e partiti di estrazione popolare si dimostrò da subito assai difficile, non

solo per la scarsa unione in seno allo schieramento liberale, ma anche per le incertezze

del Partito popolare e per il massimalismo della maggior parte della rappresentanza

socialista.

Rimasto al Governo, ma ormai privo anche formalmente di una vera maggioranza, Nitti,

dopo una prima crisi nel marzo 1920, dovette rassegnare le proprie dimissioni nel giugno

dello stesso anno.

La designazione di Giolitti alla Presidenza del Consiglio ebbe il significato di un estremo

tentativo di rivitalizzare il sistema, ormai in una crisi conclamata. Giolitti elaborò un

programma molto ambizioso, diretto a reintegrare il Parlamento nelle proprie prerogative

ed a ridimensionare quelle della Corona. Nel primo senso, venne escluso il ricorso alla

legislazione per decreto, a beneficio di un ripristino della centralità delle Camere

nell’esercizio della funzione legislativa, e si propose l’eliminazione del potere governativo –

che a troppi abusi aveva dato luogo – di decidere in ordine alla proroga ed alla chiusura

delle sessioni. Nel secondo senso, si progettò l’abrogazione dell’art. 5 dello Statuto

albertino, che costituiva il fulcro delle prerogative regie in seno alla forma di governo. Su

entrambi i piani, Giolitti dovette constatare l’impossibilità di ottenere risultati significativi:

per un verso, l’assenza di una maggioranza parlamentare rendeva impossibile una

proficua traslazione di poteri dall’esecutivo al legislativo; per l’altro, la monarchia, tornata

ad avere un ruolo centrale nelle istituzioni, non pareva intenzionata ad accettare una

nuova marginalizzazione.

L’ultima carta giocata dall’anziano statista fu quella delle elezioni. Nel 1921 la Camera

dei deputati venne, infatti, prematuramente sciolta, con il pretesto di dare una

rappresentanza ai territori entrati solo di recente a far parte del Regno. La scelta dei tempi

era dettata, in realtà, dalla avvenuta scissione all’interno del Partito socialista (nel gennaio

1921, il congresso di Livorno aveva visto nascere il Partito comunista), che si riteneva che

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Page 66: Introduzione · Web viewIntroduzione La storia costituzionale italiana, pur nella sua relativa brevità – constatabile soprattutto allorché la si compari con quella di altri Stati

potesse tradursi in un calo di consensi, e dunque in una maggiore disponibilità al dialogo

in Parlamento con le forze liberali. Al contempo, Giolitti avallò la formazione dei c.d.

«blocchi nazionali», cioè di liste unitarie di liberali, nazionalisti e fascisti, nella prospettiva

di metabolizzare all’interno del sistema liberale le forze eversive di estrema destra in forte

crescita di consensi.

I calcoli si rivelarono errati: il Partito socialista scese a 123 seggi, in parte compensati

dai 15 ottenuti dal Partito comunista; il Partito popolare incrementò la propria

rappresentanza, attestandosi sui 108 seggi; i liberali mantennero pressoché inalterato il

numero di seggi soltanto grazie ai 35 deputati fascisti eletti nei «blocchi nazionali». Questo

numero permise, però, la costituzione di un gruppo parlamentare autonomo, con il risultato

di indebolire il gruppo liberale rispetto alla legislatura precedente.

L’operazione elettorale si era dunque rivelata un fallimento, reso ancor più grave

dall’avvenuta «legalizzazione», da parte del ceto dirigente liberale, delle violenze fasciste.

La assoluta ingovernabilità che ne seguì condusse, nel luglio 1921, Giolitti alle

dimissioni. I governi che seguirono, guidati da Bonomi e, dal febbraio 1922, da Facta,

ormai incapaci di una azione propositiva in chiave di rilancio del sistema, non poterono

fare altro che registrare l’agonia dello Stato liberale.

La «marcia su Roma» del 28 ottobre 1922, resa possibile dal rifiuto del Re di firmare il

decreto sullo stato di assedio, giunse allora a sanzionare la fine di un’epoca storica: il 31

ottobre Benito Mussolini diventava Presidente del Consiglio.

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