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Nonna Cesara, per dire dov’era nata, diceva “Io sono di Antignano”, e aggiungeva subito dopo, “di Antignano di Livorno”. Perché lei era sua, cioè apparteneva a Antignano, e Antignano apparteneva a Livorno. Livorno era Mascagni e la Cavalleria Rusticana - l’opera più bella - e anche il calesse per raggiungere il teatro Goldoni con suo padre e sua madre.

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DESCRIZIONE:

Nonna Cesara, per dire dov’era nata, diceva “Io sono di Antignano”, e aggiungeva subito dopo, “di Antignano di Livorno”. Perché lei era sua, cioè apparteneva a Antignano, e Antignano apparteneva a Livorno. Livorno era Mascagni e la Cavalleria Rusticana - l’opera più bella - e anche il calesse per raggiungere il teatro Goldoni con suo padre e sua madre.

L'AUTORE:

Luca Nardini è nato nel 1962 e vive a Empoli. Nel 2007 ha pubblicato “La carrozza affogata” per le Edizioni Tracce di Pescara.

Titolo: A far tempo da Autore: Luca NardiniEditore: 0111edizioni Collana: Generazione "E"Pagine: 90 Prezzo: 11,00 euro

9,35 euro su www.ilclubdeilettori.com

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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO)

ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI

Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'!

Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione.

TUTTI I RACCONTI VERRANNO PUBBLICATI IN ANTOLOGIA

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Luca Nardini

A far tempo da

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A FAR TEMPO DA 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Luca Nardini

ISBN 978-88-6307-244-0 In copertina: Guido alla Terrazza, fotografia di Piero Fiaschi

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2009 da

Digital Print Segrate - Milano

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A mia sorella Annamaria, la Tata.

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Scrivere è tuttalpiù un esercizio di resurrezione.

Patrizia Valduga

1. Nonna Cesara, per dire dov’era nata, diceva “Io sono di Antignano”, e ag-giungeva subito dopo, “di Antignano di Livorno”. Perché lei era sua, cioè apparteneva a Antignano, e Antignano apparteneva a Livorno. Livorno era Mascagni e la Cavalleria rusticana - l’opera più bella - e anche il calesse per raggiungere il teatro Goldoni con suo padre e sua madre. Giannino A-liboni aveva un laccio di cuoio al polso destro, che voleva dire pugno proibito – era un uomo molto alto e nerboruto, con gli occhi truci. Sua moglie invece una donnina piccola piccola, rossa di capelli, che lui sposò quando lei aveva quindici anni, e che sempre a quindici anni partorì nonna Cesara, si chiamava Terzilia Billi. Con Cesara erano sei tra fratelli e sorel-le: Gino, Amina, Valente, Tétta (Antonietta) Beppe e lei, la primogenita. Ho le fotografie, tranne quella di Terzilia, e poi Valente e Tétta li ho co-nosciuti di persona. Più di tutti nonna mi parlava volentieri di suo padre. Una sera erano seduti a tavola, gli Aliboni al completo. Era la fine di giu-gno, e magari faceva così caldo perché tirava lo scirocco, che strangola e dà alla testa. A nonna Cesara, come primogenita, le spettava di diritto il posto di fronte al capofamiglia. Lui tagliò il cocomero con colpi di coltel-lo secchi e precisi, e poi distribuì le fette. D’improvviso alzò lo sguardo e si accorse che Cesarina si lamentava di qualcosa con Gino. Capì all’istante, Cos’hai Cesarina? cosa c’è che non va? non ti sembra abba-stanza grossa la fetta? ne vuoi ancora Cesarina? E lei si limitò appena a fare spallucce, perché subito sentì che arrivava la tempesta. Metà del co-comero volò sulla tavola e la prese in piena faccia. Mio padre aveva il pugno proibito perché aveva picchiato un guardiabo-schi, racconta nonna Cesara. Non solo lo aveva massacrato di botte, ma quando fu sazio delle sberle e dei calci, gli pisciò nella canna del fucile per spregio. Con lui non c’era da scherzare. E da quella volta doveva met-tersi il braccialetto nero che voleva dire che era un uomo con un carattere violento e che era meglio lasciarlo perdere... insomma, non conveniva at-

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taccarci briga. Tu, invece, cerca sempre di non dare troppa confidenza a nessuno e non parlare mai di opinioni politiche, dài retta a me. Sono cresciuto in mezzo a queste storie io, da quando riuscivo a capire qualcosa ricordo che me le raccontava. Sono cresciuto in collo a lei, a mia nonna - cavallino arrì-arrò prendi la biada che ti dò - e di sicuro cavalcavo dentro queste storie. Ma è ancora troppo poco. Ecco, forse ci sono: io sono cresciuto “di” queste storie, di, come complemento di materia e insieme appartenenza. E allora nonna Cesara era di Antignano, Antignano era di Livorno, Livorno era di Mascagni - e io sono di queste storie e anche di nonna Cesara. Sono fatto di loro e a loro appartengo.

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2. Antignano, il cimitero appena fuori dal paese, sull’Aurelia, poco prima di Calafuria e Sassoscritto, in direzione di Quercianella. Lì è sepolto Aldo, mio padre, e anche tutti gli altri. Dietro il cimitero corre la ferrovia, di fronte si spalanca invece il vasto azzurro, e quella è la Gorgona e quella Capraia. Alcune tombe non ci sono più, anche perché una ventina di anni fa scoppiò un incendio e il cimitero rimase danneggiato, le mura del peri-metro sembravano quelle nere degli essiccatoi di castagne. Se da qui guardi il mare, Antignano ce l’hai sulla destra, Livorno è a nord, e alle spalle Montenero e la sua Madonna. Montenero sarà un piccolo grappolo di ricordi, nelle storie che racconterò, poco più di un nome. Per esempio, nonna Cesara e la sorella Tétta, uniche superstiti, andarono in-sieme a scegliere il posto al cimitero. Due forni, perché a mettersi in terra, ahiboh!, ci sono i bachi e quando calano la bara a volte si sente il tonfo dell’acqua che ha già riempito la fossa. Una sorella di qua e l’altra di là: Tétta volle un forno che guardava il mare, mia nonna invece la Madonna di Montenero, lassù, in alto. Perché nonna Cesara, la Madonna, diceva di averla vista veramente... e non una Madonna qualsiasi, ma proprio la Ma-donna del Santuario, quella con il cardellino e il Bambin Gesù agguantato allo scollo del vestito. Aveva da regolare una questione con una certa per-sona, una parente, c’erano di mezzo dei soldi a strozzo, un debito, o forse era soltanto una questione di offese reciproche, di sentimenti forti e co-munque inarrestabili... perché mia nonna, questa persona, era andata a ca-sa sua per picchiarla. Salivo le scale, non ci vedevo più dalla rabbia! che se l’avessi avuta tra le mani, ti giuro, le avrei strappato tutti i capelli che aveva in capo a quel budello! ma poi “Fermati Cesara!” era la Madonnina di Montenero, in cima alle scale, e il gesto della mano così! con il braccio steso verso di me e il palmo tutto di luce! E io che mi sento le gambe co-me di piombo e come se svenissi, la cattiveria mi abbandonò e allora mi calmai e la Madonnina mi fece un sorriso tanto dolce... e poi sparì, piano piano, come un’immagine che diventa sempre di più trasparente... Mi ha salvato da un gesto sconsiderato, la Madonnina, che se me la trovavo fra le mani, quel budellone! te lo dico io! Forse era anche per questo che mio padre Aldo, a suo modo, anche lui pregava la Madonna di Montenero, e diceva Madonnina di Montenero aiutaci sempre. E poi aveva il medaglione di bronzo sul comodino, la me-

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daglietta d’oro al collo, e una stampa sul letto, sempre quella con il cardel-lino e Gesù Bambino, a tirarle lo scollo, alla Madonnina, perché voleva la puppa. Del resto, quando passavamo con l’auto di fronte a un cimitero, si faceva sempre il segno della croce mio padre, così, a voce alta, Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, e poi si baciava il dorso della mano. E una volta siamo stati insieme anche al Santuario, ma siamo venu-ti via subito, perché anche a lui, con tutte quelle camiciole insanguinate e sforacchiate dai proiettili, e i quadretti infantili degli ex-voto, anche a lui, così superstizioso, quelle cose gli facevano effetto e anche un po’ schifo. Dava un po’ il voltastomaco Montenero. Avevo forse dieci anni, quel giorno lì, ed eravamo lui e io soltanto. Mi portò a Antignano, in quel pae-se dove era nato, a farmi vedere via della Salute che scende giù verso il mare, e la villa bianca di un nostro lontano parente, ma soltanto da fuori. Poi entrammo in un bar, e lui prese un caffè e io una spuma bionda, mi ri-cordo, e poi lì, alla parete di quel bar c’era una fotografia incorniciata molto antica, color seppia, di una nave bellissima con le vele spiegate. Quello, mi disse, era l’Amerigo Vespucci, e su quel veliero, forse anche nel momento di quella fotografia, c’era imbarcato il suo, di padre, cioè mio nonno, che io non avevo mai conosciuto, e che, lo sapevo, si chiama-va Cammillo. Cammillo, il marito di nonna Cesara. E ora, quella che se-gue, è l’inizio della sua storia.

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3. Anche la storia di Cammillo, per me, e non so davvero che cosa farci, ini-zia dal cimitero di Antignano. Ma non quello che conosco io, quello più piccolo, anzi piccolissimo, di fine Ottocento. E’ notte, una notte forse di stelle o forse no, e sul muro di quel cimitero dorme un bambino, un bam-bino che anche lui avrà si e no una decina d’anni. I vestiti che indossa so-no quello che sono, al limite della decenza, sta rannicchiato su se stesso, ha fame e anche un po’ di paura. Quella del bambino è una vita che lui non ha potuto scegliere, che se avesse potuto allora mamma sarebbe anco-ra viva e babbo allora lavorava e i soldi ci sarebbero. E invece è notte e lui dorme sul muro del cimitero, che qui nessuno ti viene a cercare. A casa c’è quell’uomo ubriaco che non riconosci più e che ti picchia e che forse non ti vorrebbe vedere mai, perché sulla tua faccia c’è stampata la faccia di tua madre, e ogni volta che ti vede si ricorda che non c’è più, lei, che è sottoterra, che è sepolta là, nel cimitero, qui accanto a me. Non ha mangiato quasi nulla, Cammillo, ha trovato qualche torso di cavolo a gratis, al mercato, e poco più. Tanto per riempire un po’ la pancia. Domani si darà da fare per qualche commissione, forse qualcosa trova, per esempio il trasporto di una balla di patate, sulla schiena, che lui è forte e lavora quasi come un uomo, anche se lo pagano soltanto due soldi. Cammillo, prima di addormentarsi, guarda giù, in direzione dell’aperto. Certe sere d’estate il mare sembra un lampo e la luce del suo luccicore e della luna ti tiene compagnia. Lui lo sa, in cuor suo lo sa, non sarà così per sempre, lui prima o poi lascerà dietro di sé questa durezza e questa fame e questa sete. E viaggerà, forse proprio in direzione di quell’orizzonte laggiù. E allora si rannicchia più stretto e tiene questo sogno al caldo, dentro di sé, fra le gambe e lo stomaco. Mio nonno diventò un giovane faticante del padrone Gianni Aliboni. Una famiglia ricca, gli Aliboni, sicuramente la prima o la seconda del paese. Vivono in una casa enorme e hanno diverse proprietà, e fondi, e cavalli e operai. Il padrone è un uomo che dicono cattivo, ma non fa il signore, la-vora anche lui e tanto. E’ sempre per i boschi a trattare il legname, per le carbonaie, e gli operai preparano il legno alla cottura e lo coprono di terra, e poi controllano il fuoco e alla fine imballano il carbone e lo rivendono un po’ dappertutto. Hanno facce nere, i carbonai, c’è bisogno di spalle for-

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ti per quel lavoro, c’è bisogno di mani grosse che all’occorrenza sappiano stringersi nei pugni. Lui, il padrone, lo temono tutti e non bisogna mai contraddirlo. E’ bravo nel suo lavoro di padrone, guarda un bosco e ti sa dire quanto guadagno ne viene, e se vale la pena o no. Nessuno legge i bo-schi come Gianni Aliboni, è risaputo. Lavorare per lui ti fa durare una fa-tica boia ma stai tranquillo che con lui il lavoro ci sarà. E anche se è un uomo che bisogna starci attenti… lui mantiene quello che ti promette, lo sanno tutti. E invece il padre di Cammillo, a casa, si trascina sempre più a fondo, nella rovina degli ubriachi e nel rancore che gli ha preso il fegato e il cervello. Morirà di lì a poco. E allora un operaio fra quelli più anziani, un certo Aiace del Gabbro, parlerà a Gianni Aliboni, e il padrone, dopo aver misurato Cammillo con un’occhiata, come si fa con un tronco giova-ne di cerro, lo assumerà fisso. L’età è quella delle bambine che diventano signorine e la prima è Cesara, che tra poco bisognerà darsi da fare per prometterla a qualcuno d’importante. Una volta Cammillo l’ha vista con il padrone sulla spiaggia di sassi. I cavalli stavano a mare per rinvigorirne il manto e spengere sul nascere qualche malattia del pelo, che il mare, si sa, disinfetta e guarisce. Il padre, con lei, a volte lo vedi ridere. Ci parla. Le spiega questo e quello. Cesara è intelligente e ascolta, attenta, lo sa di essere la preferita. Cesarina è già bellissima e ne intravedi la donna che sarà. E allora, prima di dormi-re, hai un altro sogno su cui rannicchiarti. E siccome adesso è un sogno ancora più forte, che ti svuota la spina dorsale, questo sogno si realizzerà per primo, come un miracolo. Se mio padre Giannino avesse saputo quello che avevamo fatto... Cammil-lo, povero lui, lo avrebbero trovato a cuocere con il carbone! E allora non ci fu niente da rimediare, perché una volta che quella cosa era successa non si tornava più indietro ai miei tempi. Lo salvai e insieme a lui salvai anche me, dalla vergogna, e dissi a mamma che ci eravamo innamorati, e non gli raccontai la cosa precisa ma lei la capì lo stesso, e anche se non fu facile convincere mio padre - che quel pezzente non ha nulla! non ha nemmeno una famiglia! – Cammillo e io ci siamo sposati, e per lui, te lo dico io, è stata davvero una fortuna. Ma ora bisogna fermarsi un momento qui, a riflettere, e cercare di capire, per quanto possibile, se a volte l’avverarsi di un sogno non sia, fra gli in-ganni, il più pericoloso. Perché la vita con Cesara, la signora, per Cammil-lo di certo assomigliò alla cella di un penitenziario, o almeno a una soffer-ta e terribile schiavitù. Non solo infatti devi ringraziare il padrone che ti

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ha preso a lavorare a undici anni, che se non fosse stato per lui saresti un morto di fame... e non solo anche la famiglia Aliboni e specialmente i fra-telli, loro che ti tollerano appena, tu, un operaio... ma nemmeno in casa tua, ammesso che questa qui sia davvero la tua casa, nemmeno qui ora tu conti davvero qualcosa. E così, avrà immaginato Cammillo, per annullare un sogno e restituire agli dèi quello che ti hanno concesso, bisogna che un altro sogno si avveri. E il sogno originario, quello delle notti sul muro del cimitero, anche stavolta si avverò: Cammillo fu imbarcato sull’Amerigo Vespucci, il veliero della Regia Accademia di Livorno, i tre alberi gonfi di vento al motto «Per la Patria e per il Re!” Si imbarcò come “famiglio”, e cioè, ancora e sempre, come una sorta di uomo di servizio, questa volta addetto alla cura degli ufficiali. Ma vuoi mettere i viaggi? Atene, Copena-ghen, Costantinopoli, l’Africa! E quando sei a casa tolleri meglio ogni of-fesa, ogni insulto o angheria, perché lo sai che da lì a poco te ne andrai, ti leverai di torno... e attraverserai un altro mare. Cammillo, lui sarà sempre per il re! Così, da quella immagine del veliero nel bar, color seppia antico, insieme a mio padre Aldo e a una spuma bionda, e poi dalle storie intorno alla fi-gura di suo padre Cammillo, che io non ho mai conosciuto e che però mi sono portato dentro per anni e anni covandolo come un uovo, dal rimesco-lio di queste parole di vivi e di morti, prima o poi, io lo sapevo che su di lui sarebbe venuta fuori di sicuro una poesia. E così è stato, molti anni fa, e adesso questa poesia io la metto qui, come una cosa che in parte si capi-sce e in parte ancora no, come l’intrecciarsi di alcune storie che chiarisco-no quello che è stato detto su di lui e l’orizzonte che si apre su qualcosa d’altro. E’ una poesia di viaggi e di dolore, e si intitola, appunto, Cammil-lo, la mia mitologia. Lungo le scese al molo catramate le barche rovesciate raccontano i miei sogni. Torsi di cavolo per cena, i soldi mancano, e babbo è l’ubriaco del paese. Chi nasce dagli scogli non può dimenticare quanto corroda il mare. Io prendo il largo, io voglio navigare.

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“E’ questo nonno, il povero Cammillo... era famiglio dell’Accademia Regia di Livorno”. Così mi dissero. Fra mille chicche salvate alla memoria una fotografia sgualcita tutto quel che resta. Per me nascesti come una mitologia, come una storia d’inappartenenza, eri la cadenzata nenia che concilia al sonno. Poi veramente ti ho incontrato, ti ho baciato in sogno. Quanti cadetti dai bottoni d’oro! Era davvero faticoso smacchiare le uniformi dai rigurgiti! Vomitano sul Vespucci come fonti di spazzatura... e sbraitano! schiantano al sole i mozzi nella rigovernatura. A Copenaghen ci sarà certo qualche sirenetta... non aspettiamo altro. Camillo guarda il cielo, il mare e pensa alle balene, ai mostri carichi d’elettricità come torpedini giganti o giganteschi totani. Quanti ne serba ancora quest’azzurro? Costantinopoli dai tetti a ombrello innumerevoli, il Golfo di Guascogna la burrasca! tre soldi di puttana a Liverpool la pelle sfatta come gli scaricatori. Ma questa pipa che ho comprato a Londra dentro c’è scritto Made in Italy, poi me ne accorsi ché la passai col vino. Eppure non c’è donna eguale a un’altra donna, non c’è un odore. Io prendo il largo, io voglio navigare, se nasci dagli scogli non credere al dolore.

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4. Non c’è presente, in questo vai e vieni fra le parole, se non il rumore chioccio della tastiera. Ma c’è un presente storico, e tocca alla mia voce, ogni volta, dire dove siamo e quello che da lì a poco forse potrà accadere. Ora ci troviamo nella cucina della casa della mia infanzia, a Empoli, non-na Cesara è seduta vicino alla porta finestra che dà sul retro. La vedo, il vestito che indossa è di quelli con una fantasia molto contenuta, piuttosto scuro, e alle gambe, grosse e gonfie, le calze massicce marroni. I ginoc-chi, secondo lei, sono sempre stati il suo punto debole, lo ha confessato più volte, e non soltanto per la salute, anche dal punto di vista estetico, cioè della bellezza. Ma ci ritorneremo, su questo discorso. Per ora mi ba-sta descriverla. I capelli sono grigi, o meglio, di un grigio fatto di capelli ancora nerissimi e molti capelli bianchi. Usa le forcine e qualche goccia di brillantina Linetti, dal vetro zigrinato e un po’ unto, nel cassetto del co-modino. Si pettina con una specie di crocchia. Rarissime volte l’ho vista con i capelli sciolti, molto lunghi, e mi è sembrata davvero una maga. A me l’odore di brillantina piace e mi piace anche la canfora delle pomate che usa per i ginocchi doloranti. Se li struscia, se li friziona, e poi li copre con una pezza di lana per mantenerli caldi. Il bianco di quei ginocchi i-gnudi abbaglia irreale. Quelli sono rimasti gli odori dei vecchi, per me, che sicuramente li ho amati più di lei, perché per lei, la vecchiaia, è una vera e propria sconfitta. Mi dice Io, da giovane, dicevano che ero una del-le donne più belle di Livorno. Tu mi vedi ora, ridotta così, ma ti assicuro che come me ce n’erano davvero poche... E poi si parla di donne oneste, mica di budelli! Dammi un bacio qui, sulla gota... bravo! Ed era vero, una sua fotografia di quando aveva sedici anni io ce l’ho, una di quelle pose studiate dal fotografo, con un mazzolino di fiori, forse il ritratto da regala-re al fidanzato. Ti assicuro che avresti potuto davvero perderci la testa, per una donna così, non esagero. I suoi occhi, nell’ovale limpido del viso, so-no insieme dolci e severi, e ti guardano senza astenersi dal giudizio. E’ una donna che non si fa abbindolare, quella, che è sicura di avere a dispo-sizione non solo l’intelligenza, ma anche il benessere, l’agio, il potere dei soldi e della famiglia. Stai attento a quello che fai dunque, nemmeno con nonna Cesara si scherza!

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Tu non devi preoccuparti, mi dice, quando sarai più grande ti trovi una ra-gazzina onesta da tirarla su, e anche se lei non avesse di che vestirsi ci pensiamo noi. L’importante è che sia onesta, capito? E te la tiri su... Poi c’è da pensare al lavoro... prima però bisogna studiare. Cosa vuoi fare? l’ingegnere? o il dottore? Il dottore è meglio di no, perché metti che sei lì, di notte, a letto con tua moglie, e ti chiamano per un’urgenza e allora devi andare... no il dottore no, meglio l’ingegnere, che poi vai a lavorare come statale, per esempio nelle Ferrovie, che sotto il tetto dello Stato non ci piove, capito? E di donne intorno te ne troverai tante, bello come sei - dammi un bacio qui sulla gota, bravo! - dài retta a me però, non ti ci con-fondere con loro, perché tanto, lo sai? fra le gambe, noi donne, abbiamo tutte lo stesso identico buco. E allora poi ti fai una bella casa, con un giar-dino grande e la donna di servizio, che tua moglie devi trattarla come una signora, capito? che una donna che la tratti bene, accanto a te, è importan-te anche per l’uomo... e poi ti compri una bella macchina e te la godi quando vai in villeggiatura, e i figli meglio due, ma non subito, falla stare bene quella ragazzina che scegli, capito? gli devi volere bene a lei... Capivo, capivo sì. Alla fine degli anni sessanta, mio padre, rappresentante di tessuti e confezioni, aveva portato uno scatolone di collant in garage, e anche le vicine volevano vedere quelle calze nuove, che stavano su senza reggicalze. Erano comode, si confidavano l’una con l’altra, c’era soltanto qualche problema quando andavi al gabinetto. E intanto, alla televisione, si vedevano le prime ballerine scosciate e mia nonna diceva, ahiboh! e si tappava gli occhi con la mano, anche se poi guardava attraverso le dita, e io vedevo quelle sue mutandone nere stese ad asciugare che sembravano una muta da palombaro. E ci giocavo, con lei, alle carte e al gioco dell’oca, e poi, per consumare il tempo prima di cena, c’era quel gioco del filo, che si intreccia nelle figure che si passano dalle mani, prima le mie, di bambino, e poi le sue bietolose di vecchia, e poi ancora le mie e via e via. Le figure erano sempre quelle, la culla, le candele, il pesce, la bandie-ra... e intanto respiravo il suo odore, di canfora e caramelle all’anice di cui era ghiotta, e mi piaceva, e anch’io lo sapevo, io lo sapevo di essere il suo preferito fra i nipoti, perché ero maschio e perché ero il più piccolo, un altro uomo che la donna giusta avrebbe dovuto addirizzare, questi uo-mini storti della nostra famiglia, che bisognava cominciare presto con lo-ro, perché non prendano subito tutti i vizi... del gioco, del bere, dei soldi, delle donne... e poi la famiglia a mare! come fece uno dei suoi fratelli. A-vrò l’occasione di scrivere anche di questo, forse nella prossima pagina. Intanto la lascio qui, la donna anziana, ancora bella e superba come una vecchia rovere, alla cui ombra gioca un bambino di sette anni. Tra poco

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mia madre, che si chiama Margherita, apparecchierà, e allora lei, nonna Cesara, muovendosi adagio con la mazza si avvierà al bagno e poi, di ri-torno da quei dieci passi nell’ingresso - il mangiare sarà scodellato in ta-vola - si metterà a sedere nel posto più vicino alla televisione, perché, an-che se non lo dice, ci vede così e così. Mio padre stasera non c’è, è fuori per lavoro, magari a Trieste, oppure a Padova o Verona.

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5. Beppe, il fratello più giovane degli Aliboni, morì per primo, in conse-guenza di un intervento chirurgico allo stomaco, per un malaccio. Di Bep-pe qui scriverò soltanto questo, e aggiungo che di lui so poco altro, se non che mia nonna diceva che era il più buono dei tre fratelli, un angelo, e che proprio lui, che non se lo meritava, ebbe sfortuna. La vita fa così. La pecora nera della famiglia era invece Valente, Valente lo sfruttatore. Una volta trovò una vedova proprietaria di un albergo-trattoria, a Casta-gneto Carducci. Si accomodò in una delle camere e diventò l’amante di lei, o meglio, l’amato. Nel giro di un anno le aveva mangiato tutto, alber-go e ristorante, e la donna, più anziana di lui, era ridotta sul lastrico. Va-lente così liberò la camera dell’albergo e tornò a casa. Valente non lavorò mai. Una volta ho visto babbo rincorrerlo intorno alla tavola con il coltello a serramanico, mi racconta nonna, l’ha agguantato e l’ha alzato di peso al muro, ce l’ha rincalcagnato, e poi ha fatto scattare la lama e gli ha messo il coltello sotto la gola, a fil di pelle. Mia madre era disperata, urlava e chiamava aiuto appesa al braccio di babbo. Perché lui aveva perso il lume degli occhi e se non fosse stato per un faticante, accorso alle urla della si-gnora Terzilia, quella volta lì Valente, sangue del suo sangue, lui l’avrebbe sfilettato come una sogliola! Nonna Cesara, nel raccontarmi questa storia, si capiva bene che aveva ancora paura. Io Valente l’ho co-nosciuto vecchissimo, a Livorno. Non eravamo andati a trovare proprio lui, era per caso da un cugino di mio padre. La sua immagine non ha con-torni definiti nella memoria, ma era così decrepito e brutto che faceva spavento, una rovina al limite del crollo definitivo. Mi ricordo che mi sor-rise, anche se durava fatica a capire chi fossi io – Luca, il terzo di Aldo, venuto a distanza di diciassette anni da Annamaria, la bimba di Aldo nata qui, a Antignano, ti ricordi? Aldo di Cesara, ti ricordi? Mi sorrise ma non mi rassicurò, perché dopo quella smorfia, uno così, avrebbe potuto anche mangiarmi in un boccone. Valente lo sfruttatore, Valente il lupo, Valente la dissipazione. Se non fosse per la paura, ci sarebbe davvero da ridere... “Valente”, per lui non avrebbero potuto scegliere un nome più sbagliato. A Livorno lo scansavano come una malattia. Frequentava soltanto gioca-tori, puttanieri, ladri... era pieno di debiti e di strozzini, firmava cambiali a babbo morto, giocava e perdeva, perdeva e giocava. Scommetteva sui ca-

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valli, all’ippodromo Caprilli. Per mangiarsi i beni della famiglia basta cir-condarsi di uno sciame di puttane e scambiare la notte con il giorno, poi le cose vanno da sé. Di Gianni Aliboni lui aveva preso il lato oscuro, il dia-volo e l’inferno, la parte nera della scacchiera. Mia nonna mi disse una volta che con lui non c’era stato nulla da fare, lui non si voleva addirizza-re. Sarebbe stato senz’altro meglio se invece di Beppe, l’angelo, moriva Valente, ma la vita si sa, la vita fa quello che vuole. E ora lo lascio qui, l’orco della famiglia, e ritorno a Giannino Aliboni, dentro il nodo avvi-luppato della violenza, della forza incoercibile e del rancore. Forse era un pomeriggio di primavera, quando le giornate si fanno lunghe e soavi e il mare regala un anticipo di estate. Ora è mio padre ad essere un bambino, e lo vedo che piange, che corre e torna a casa disperato, in preda all’angoscia e all’umiliazione. A casa di Cesara c’era per caso nonno Gianni, il padrone di tutto, forse quel pomeriggio era passato per regalare alla figlia del pesce freschissimo della sua barca. E Gianni volle sapere il perché, cos’era successo a Aldo, il nipote dai capelli ramati come quelli di Terzilia? Così il bambino, strozzato dal magone e dai singhiozzi, raccon-tò, Pescavo al molo con il bolentino, e sono salito sulla barchetta del Fac-cenda che era ormeggiata lì davanti, ma non ho toccato nulla io, non ho fatto nulla nonno... c’ero salito soltanto per pescare, te lo giuro nonno! E poi è arrivato lui, che senza farsene accorgere mi si è avvicinato da dietro, mi ha preso di peso e mi ha tirato una manata! e poi mi ha urlato e io mi sono messo a correre e lui rideva. Fa’ vedere, disse Gianni, e allora vide stampata sulla gota del nipote quella chiazza rossa. Chi hai detto che era? Era il Faccenda, Bartolo Faccenda nonno... Ho capito, disse Gianni. Si al-zò e uscì dalla casa di Cesara senza dire una parola di più, ma Cesara lo sapeva di già dove sarebbe andato. Quando arrivò al porticciolo, dopo una decina di minuti, il Faccenda era ancora lì sulla sua barchetta. Gianni lo chiamò sul molo, e lui non voleva scendere, perché soltanto ora si era ri-cordato chi era quel bambino... Allora fu Gianni a salire sulla barca. Non stette a spiegargli niente, perché la didattica non era nello spartito degli Aliboni - le carogne non si picchiano perché così imparano, le carogne le picchi perché sono delle carogne e basta, che tanto le carogne rimangono carogne finché non crepano. Ma forse, se le picchi come si meritano, cre-pano prima. E Gianni gliele dette così tante che quando accompagnarono il Faccenda all’ospedale gli si vedevano i denti di fuori dagli squarci sul muso, e da quel giorno la bocca, al Faccenda, gli somigliava di più a un raffio. Non rideva più Bartolo Faccenda. Era questa la violenza ereditata da Valente? C’era questa forza cattiva dentro di lui? e per altro assorbita così, senza alcuna disposizione nobile, e

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forse ancora più pericolosa perché ritorta su sé stessa? Qual è il senso di una brutalità che non lascia scampo? Come può accadere che da tuo padre erediti solo la malattia? Potrei raccontarne ancora, di queste storie – que-ste storie che fanno parte del mio Vecchio Testamento - ma ora non è possibile, perché il discorso deve ancora spostarsi, e questa volta inizierà da una premessa.

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6. Molto prima di Gianni Aliboni e pochi altri capofamiglia ricchi come lui, qui comandava Antenius, un gentilizio di Roma che era il proprietario di quello che vedevi a destra e a sinistra – e anche del mare di fronte forse, chissà... Antignano da Antenius quindi, e già che ci siamo inoltrati nelle cose notabili, è bene ricordare il fortilizio Mediceo, voluto espressamente da Cosimo I, figlio di Giovanni dalle Bande nere e babbo di quel Ferdi-nando che soverchia i quattro mori all’ingresso del porto di Livorno. Per-ché Livorno, non va dimenticato, è sorta come una città-prigione, un porto di schiavi che lo governava Firenze. Il legame tra Firenze e Livorno infatti non è mai venuto meno. I fiorentini dicono che i livornesi sono rozzi, vol-gari, sboccati – e i livornesi dicono dei fiorentini... è meglio lasciar perde-re. Però i fiorentini, qui, vengono volentieri in villeggiatura, ci sono venu-ti da sempre o almeno da quando la villeggiatura è nata, alla fine dell’Ottocento, e forse per loro è stato come rivivere una ex colonia. Ma Livorno e i suoi bagni, soprattutto i Pancaldi, sono davvero le vacanze al mare dei signori. E dopo la terrazza sul mare e i bagni Pancaldi, verso sud, c’è l’Ardenza, alla fine dell’Ardenza trovi la rotonda e dopo la rotonda il viale di Antignano. Una fila di stabilimenti balneari bellissimi, uno più bello dell’altro. Le signore fanno il bagno nude, per loro si piantano dei pali sul fondale e viene costruita una sorta di tenda a velami bianchi, gon-fiati dal vento. Rimane libero lo specchio del sole, lassù in alto, un disco solare cocente. La signora si spoglia nuda e prende l’abbronzatura intera, circondata dall’abbaglio del cielo e dai lampi riflessi nell’acqua - con una grande freschezza però, perché sta a bagnomaria. Scocca il Novecento e questi stabilimenti sono già collegati dal tram a conduzione elettrica, che parte dalla città e corre lungo la costa, a sud. E’ un nuovo comodo dei tempi moderni, un agio. E sulla costa si cominciano così a costruire quelle ville Art Nouveau, elegantissime, e poi si fanno degli esperimenti raziona-listi, per cercare nell’eleganza la funzionalità. Antignano, insomma, è la bellezza di Livorno, di una bellezza tale che pur facendone parte ne gua-dagna lo stesso in autonomia. Non lo so se il gentile di Roma Antenius lo aveva già previsto, e magari anche Cosimo I. Sì, i livornesi saranno volga-ri... eppure i macchiaioli venivano a dipingere proprio qui, dove ora ci si chiama la Banditella, perché i paesaggi costieri dei loro scorci sono questo e questo e questo, le celebrate riviere. Per non dimenticare Amedeo Mo-

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digliani, piccolo Dedo e grande Modì, il maledetto, che di vedute invece ne ha dipinte soltanto un paio, ma che la bellezza l’ha reinventata a Parigi, setacciando il corpo delle donne palmo a palmo, unico tra i paesaggi. Così l’Art Nouveau è a Parigi e a Parigi c’è anche il livornese Modigliani, e lui ha negli occhi certo l’arte giapponese e il neoplatonismo fiorentino del Botticelli, ma anche i macchiaioli di Livorno e dunque le marine dell’Ardenza e di Antignano. La storia della bellezza, cioè, passa anche da qui. Una volta stavo facendo spesa nel grande magazzino nei pressi di via Grande, e sentii un commesso che diceva a una sua collega, Mi hanno det-to che vai in vacanza a Parigi... ma che ci vai a fare in Francia? ce l’abbiamo noi la più bella città del mondo! è Livorno! Sì, certo, una spac-conata, la considerazione del solito gradasso provinciale... eppure, in que-ste parole, si intravedono gli innumerevoli brindisi di Modigliani, sulla ri-va della Senna, che cominciava dicendo A Dante! e poi All’Italia! e poi, A Livorno! e dentro i suoi occhi brillavano ancora i colori della riviere dell’Ardenza e Antignano nella quiete apparente dei macchiaioli. Così, un giorno non meglio definito del luglio del 1978, sono sceso insie-me a Primetta proprio alla stazione di Antignano. Era la prima volta che vedevo il mare con lei, e allora, anche per lei, io avevo scelto quel mare lì. Dalla stazione alle secche prima del Castello c’è un bel tratto di strada, che ce la siamo fatta a piedi, trascinandoci dietro una cassetta frigo con la frittura e una bottiglia d’acqua. Nonna Cesara era morta da un paio d’anni, ma le sue storie, a quanto pare, cominciavano ad agire dentro di me. Perché in quel tratto di strada io gliele stavo raccontando a Primetta, come se le avessi vissute in prima persona. Fu il mio modo di introdurla nella mia famiglia. Anzi, le dissi che proprio qui, mia madre, un’empolese in villeggiatura, a diciassette anni, nell’agosto del ‘39, aveva incontrato mio padre Aldo. Perché mio padre si chiama Aldo e mia madre Margheri-ta, Margherita come la regina d’Italia. E dire questo è ancora troppo poco, perché in realtà, la casa che la famiglia di mia madre aveva affittato, era una parte della casa di nonna Cesara, la moglie di Cammillo, perché Ca-millo invece è il nome di mio nonno, che io però non ho mai conosciuto. Insomma, mio padre vide questa affittuaria così bella, bionda, alta... e si fece avanti. Siccome era molto galante, ostentava un portasigarette d’argento e una dizione alla Clark Gable. Le domandò, Signorina, permet-te? Posso invitarla alle corse? intendendo le corse di cavalli all’ippodromo di Livorno. E lei, per tutta risposta gli disse, Ma stai zitto moccolone! – perché si era già informata, Margherita, e sapeva che quell’uomo lì, nono-

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stante le apparenze, era un ragazzo di appena sedici anni. Il moccolone comunque non si dette per vinto... che poi, una volta, te le faccio vedere le fotografie di quando si sposarono, in viaggio di nozze, a Roma, lui in doppiopetto grigio e lei con la pelliccia... Sì, me ne accorgevo, le storie di nonna Cesara facevano effetto anche su Primetta. La vedevo per la prima volta in costume da bagno, un costume intero, di un solo colore, blu. A quei tempi infuriavano i bikini e perfino il topless. Niente da ridire, ci mancherebbe altro... però dentro di me sapevo che mia nonna, in quella spiaggia, se avesse dovuto scegliere una ragazzina da tirare su - anche se i suoi criteri potevano dirsi almeno datati, e forse anche un po’ da vergo-gnarsene - avrebbe scelto di sicuro lei, Primetta. Di quella giornata ricordo soprattutto il suo corpo dalla pelle chiarissima nel costume blu e gli occhi azzurri strizzati al sole. E poi fu buffo che quando si accorse che insieme ai carciofi fritti c’era anche un po’ di cervello, si mise a ridere, e mi disse, sputandola, che quella roba lì forse la potevano mangiare i popoli primi-tivi, e magari anche qualche livornese di Antignano, ma che lei non ce la faceva proprio. I pezzetti di cervello e animelle, così, li mangiai tutti io. CONTINUA...