A Cura Di Valerio Verra-Hegel Interprete Di Kant-Prismi (1981)

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LA FILOSOFIA CLASSICA TFDESGA - TESTI L STUDI

collana diretta da Claudio Cesa, Luigi Pareyson, Valerio Verrà

Nel 19 8 1 ricorre il secondo centenario della prima edizione della Critica della ragion pura i- i! centocinquantesimo an­niversario della morte di Hegel. Al di là di una concezione troppo rigida della continuità tra i due grandi interpreti della filosofia classica tedesca, ma senza alcuna scelta pre­concetta a favore dt una semplice contrapposizione, sembra giunto il momento di rivedere la questióne anzitutto in senso storico e domandarsi che cosa abbia veramente signi­ficato Kant per Hegel, quale sia stato il quadro interpre­tativo. la chiave di lettura che lui accompagnato e deter­minato il dialogo con Kant che I [egei ha sviluppato all'in­terno di tutto if ήιο pensiero. Nò la questione manca di una sua specifica dimensione e attualità speculativa. Stu­diare 1 legel come interprete di Kant può essere una delle vie più feconde per prendere posizione rispetto all’alter­nativa (se alternativa ha da essere) rr.i metodo trascen­dentale e pensiero speculativo, che rimangono certo tra i protagonisti de! nostro tempo.Saggi di R. Bodei, C. Cesa. L. Lugarini, G . Marini, V. Ma- thìeu, I , Sichirollo. V. Verrà.

Volumi in preparazione:

G . A. G a i i i j : k , Critica J e l l j coscienza. Introduzione <&U fenomenologia di Hegel, λ a tra <ii Giuseppe <Cantillo.J . E F. RDM ANN, Compendio à i logici; r metafisica l-n. i introduzione alla Scienza della hrj.ka di Hegel, -i cura ìli Valerio Verrà.J. (/, F i o m F W. J . ScilCLLlNC, Polemica e carteggio, » cura di Fran­cesco .Mitiso.F. W . J . Sciif.i.mnc, F ib 'o fia delVarte, a o r a .li L uifj Pareyson.

1 S R \ KK.TOrivrtm-j in u n o i 9 K fm

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ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

NAPOLI

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LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA - TESTI E STUDI

collana diretta da Claudio Cesa, Luigi Pareyson, Valerio Verrà

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© 1981 Prismi Editrice Politecnica Napoli s.r.l., Via F. Caracciolo 17

ISBN 88 7065 001 4

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R. BODEI, C. CESA, L. LUGARINI, G. MARINI V. MATHIEU, L. SICHIROLLO, V. VERRÀ

HEGEL INTERPRETE DI KANT

a cura dì VALERIO VERRÀ

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PRISMI

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INDICE

Presentazione di Valerio Verrà

La ‘ confutazione ’ hegeliana della filosofia critica di Leo Lugarini

Immaginazione trascendentale e intelletto intuitivo di Valerio Verrà

Filosofia della natura e dialettica di Vittorio Mathieu

La libertà nel suo concetto e nella sua realizzazione: su alcuni luoghi della ‘ filosofia del diritto ’ hegeliana di Giuliano Marini

Tra Moralität e Sittlichkeit. Sul confronto di Hegel con la filosofia pratica di Kant di Claudio Cesa

« Tenerezza per le cose del mondo »: sublime, sproporzione e contraddizione in Kant e in Hegel di Remo Bodei

Fede e sapere. Giobbe e gli amici. Riflessioni in tema di filosofia, religione e filosofia della religione in Kant e in Hegel di Livio Sichirollo

Indice dei nomi

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Notizie sui collaboratori

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PRESENTAZIONE

Nel 1981 ricorre il secondo centenario della prima edizione della Critica della ragion pura e il centocinquantesimo anniversario della morte di Hegel. Come talvolta accade, una circostanza pu­ramente fortuita può offrire il destro per richiamare l ’attenzione su un problema sostanziale e questo ci sembra precisamente il caso per quanto riguarda il rapporto tra i due grandi maestri della filo­sofìa classica tedesca.

In effetti molte sembrano essere le ragioni che inducono oggi a riprendere questo tema in una prospettiva lontana e, forse, anche diversa dalle vicende polemiche che per lungo tempo hanno con­trassegnato la rispettiva ‘ fortuna ’ di Kant e di Hegel. Non si è infatti troppo lontani dal vero se si osserva che molto spesso al- l’acuirsi dell’interesse per la filosofia hegeliana ha corrisposto un certo abbandono di quella kantiana; viceversa, proprio in tempi di relativo discredito del pensiero hegeliano in Germania, come nella seconda metà del secolo scorso, è risuonato il celebre appello « bi­sogna tornare a Kant » che ha segnato l’inizio non solo del neokan­tismo, ma anche di una rivalutazione complessiva di Kant e della filosofia critica quale termine di confronto imprescindibile e deter­minante per un pensiero che voglia essere veramente moderno.

A guardare a Kant e ad Hegel come a poli diversi, se non ad­dirittura contrapposti, ha poi contribuito anche il fatto che da varie parti è stata oppugnata la concezione ‘ dinastica ’ delPidealismo tedesco per lungo tempo invalsa; quella concezione che vede il pen­siero kantiano in funzione dello sviluppo dell’idealismo di cui anche Fichte e Schelling sarebbero soltanto momenti, mentre proprio e soltanto nel pensiero hegeliano se ne avrebbe la conclusione esau­stiva e la sintesi speculativa. Dal ridimensionamento di questa con­cezione si è tratto lo spunto per segnare la distanza tra Kant ed

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10 PRESENTAZIONE

Hegel, ora a vantaggio dell’uno, ora a vantaggio dell’altro. Così, da una parte si è evidenziata la peculiarità irriducibile della posizione di Kant filosofo ancora settecentesco, illuminista, vicino alle scienze quali si sono configurate nell’età moderna e basate sul calcolo e sull’esperienza, rispetto ad uno Hegel perdutosi in avventure specu­lative nella scia del romanticismo. D ’altra parte, invece, si è sotto- lineato come Hegel avesse superato e respinto una concezione an­cora rigida ed astratta della ragione quale facoltà dell’uomo, artico­lata a sua volta in facoltà tra loro originariamente distinte e sepa­rate, concezione di cui Kant sarebbe rimasto sostanzialmente pri­gioniero; con Hegel invece, soprattutto attraverso la fenomenologia e la dialettica, si sarebbe affermata una concezione storica e con­creta della ragione, capace di fecondare anche le correnti più vive e più recenti del pensiero contemporaneo, dal marxismo all’esistenzia­lismo, dalla psicoanalisi alla fenomenologia ecc. E questo senza en­trare nel merito del confronto tra Kant ed Hegel rispetto ai pro­blemi specifici della logica, dell’etica, della politica, della religione e dell’arte.

Al di là di una concezione troppo rigida della loro continuità, ma senza alcuna scelta preconcetta a favore di una semplice con­trapposizione, sembra giunto dunque il momento di rivedere la questione anzitutto in senso storico e domandarsi che cosa abbia ve­ramente significato Kant per Hegel, quale sia stato il quadro inter­pretativo, la chiave di lettura che ha accompagnato e determinato il dialogo con Kant che Hegel ha sviluppato all’interno di tutto il suo pensiero.

Tuttavia se l ’angolatura storica è certamente essenziale e impre­scindibile per enucleare i termini del problema, questo non ne esclude o sminuisce la portata ed attualità speculativa. Studiare Hegel come interprete di Kant può essere una delle vie più feconde per prendere posizione rispetto all’alternativa (se alternativa ha da essere) tra metodo trascendentale e pensiero speculativo che riman­gono certo tra i protagonisti del pensiero del nostro tempo, sia pur nella forma e negli sviluppi che sono venuti assumendo attraverso l ’esperienza non soltanto filosofica degli ultimi due secoli.

Avvertendo l ’importanza e l’attualità di questo tema e nella scia

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PRESENTAZIONE 11

di una lunga tradizione di studi hegeliani a Napoli, l ’istituto Ita­liano per gli Studi Filosofici e l’allora suo Direttore Pietro Piovani, nel 1979, prendevano l ’iniziativa di una ricerca su « Hegel inter­prete di Kant » destinata a concludersi nel 1981 per celebrare la duplice ricorrenza e concretatasi nel presente volume.

* * *

Quest’opera, che Pietro Piovani ha promossa con la consueta sensibilità e finezza e di cui non ha più potuto vedere il compimento, è dedicata alla memoria dell’amico carissimo prematuramente scom­parso.

V a l e r io V e r r à

m aggio 1981

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Leo Lugarini

LA ‘ CONFUTAZIONE’ HEGELIANA DELLA FILOSOFIA CRITICA

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Oggetto del presente studio sono le posizioni di Hegel verso Kant sul piano teoretico; di Kant resta invece fuori quadro la dottrina morale, nonostante la sua ben nota influenza sul giovanile pensiero hegeliano. Dal punto di vista propriamente teoretico Hegel si cimenta con la filosofia critica in due tempi: una prima volta nel cruciale periodo della sua formazione jenense, poi nella piena maturità. Preparato dallo scritto suUa„differsn?a dei sistemi filoso­fici di Fichte e di Schelling, il confronto riceve un iniziale svolgi­mento tematico in Fede e sapere: più tardi la Scienza detta logica e la Logica άύΥ Enciclopedia ne offrono le espressioni maggior­mente avanzate, confluenti anche nelle Lezioni sulla storia della ßosofia. Fra i due tempi, l’uno di Jena e l’altro di Norimberga, Heidelberg e Berlino, fa per così dire da spartiacque h Fenomeno­logia dello spirito, il testo rispetto al quale i precedenti scritti jenensi risultano preparatori e che la Scienza della logica dichiarerà suo necessario presupposto. Nell’arco da Fede e sapere alla Scienza della logica, attraverso la Fenomenologìa e inoltre la Propedeutica filosofica di Norimberga, è dato assistere a una continuativa resa di conti (ad una Auseinandersetzung) col pensiero kantiano. Di questa reiterata Auseinandersetzung noi qui seguiremo le linee sa­lienti. Come potremo vedere, ogni volta Hegel mira non tanto a sceverare i diversi aspetti, positivi e negativi, del criticismo e a valu­tarlo alla loro stregua, quanto, principalmente, a coglierne il sotto­fondo e renderlo operante. Il questionare sulla filosofia kantiana si dimostrerà via per innalzarla sopra se stessa e fecondarla.

I - Confutazione della dottrina kantiana

1. Le caratteristiche ora accennate dell’atteggiamento hegeliano nei confronti di Kant vengono ben presto in luce. In un saggio del 1802, discutendo le letture correnti dei testi kantiani, Hegel denun-

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eia la loro prevalente estrinsecità e provvede a definire l ’autentico interesse dell’indagine sulla filosofia critica. Questa — egli dice — è una «filosofia dell’intelletto»: teoreticamente importa «solle­varla al di sopra del proprio principio », la riflessione, ed enucleare « la grande idea della ragione e di un sistema della filosofia, che, come un venerabile rudere in cui abbia preso dimora l ’intelletto, le sta dappertutto a fondamento » * . È così enunciato quello che può dirsi il motto di Hegel nei suoi vari approcci al criticismo. In generale, sono qui individuati due differenti piani considerativi, l ’uno riguardante le esplicite formulazioni dottrinarie di Kant e l’al­tro il loro nascosto fondamento. Sin dai primi anni di Jena l’atteg­giamento di Hegel consiste nell’esaminare la dottrina kantiana sii entrambi i piani, trasponendone però i contenuti dal primo al se­condo mediante un procedimento negativo ed insieme conservativo, diretto a spogliarla dei suoi intellettualistici rivestimenti ed a farne emergere il recondito fondamento razionale e le inerenti implica­zioni. Attraverso tale procedura, come vedremo, più che risültare parzialmente respinta e parzialmente accolta, la filosofia critica giun­ge ad inverarsi in quella hegeliana; vi consegue cioè, secondo Hegel, il proprio compimento.

È questa una linea interpretativa tipicamente dialettica in senso hegeliano ed incardinata nella doppia valenza negativa e positivao meglio conservativa dello Aufheben. In essa è del resto già visi­

1 Cfr. V erhält niss des Skepticismus zur Philosophie, in H e g e l , Gesam­melte "Werke, Bd. 4 (Jenaer kritische Schriften), hrsg. v. H . Büchner u.O. Pöggeler, Hamburg, F. Meiner, 1968, pp. 235-36; trad. it. di N . Merker, Bari, Laterza, 1970, p. 123. L a bibliografia sui rapporti di Hegel con Kant, notoriamente assai ricca, è pressoché coestensiva con la letteratura hegeliana. Nel seguito mi limiterò a citare, fra gli studi utilizzati, quelli più specificamente attinenti ai temi di volta in volta considerati; ma fin d ’ora ricorderò il limpido panorama delle discussioni di Hegel su Kant, dagli scritti giovanili fino alle opere della maturità, offerto da S. V a n n i R o v ig h i nel saggio Hegel critico di Kant, « Rivista di Filosofia Neoscolastica » , 1950 (X LH ), fase. I V . Desidero inoltre preavvertire che i corsivi dei brani via via riferiti non riprodurranno testualmente le sottolineature di Hegel (o di Kant) ed ubbidiranno a sole esi­genze espositive.

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LA ‘ CONFUTAZIONE ’ HEGELIANA DELLA FILOSOFIA CRITICA 17

bile quella che la Scienza della logica, con specifico riferimento a Spinoza, chiamerà « vera confutazione » e farà consistere nel rico­noscere anzitutto « essenziale e necessaria » una determinata posi­zione filosofica e poi nel mostrare come essa si innalzi, « da se stessa », a quella superiore2. Proprio ad una confutazione di questo tipo il pensiero kantiano risulta di volta in volta sottoposto nelle diverse fasi della sua discussione. Nei testi jenensi il processo confu­tatorio si esercita dapprima in base alla distinzione fra lo ‘ spirito ’ e la ‘ lettera ’ della dottrina kantiana; poi evolve a disamina della posizione criticistica alla luce delle relazioni tra sapere e fede; infine si accentra nel preliminare quesito della liceità teoretica di una critica della ragione. La Differenza, successivamente Fede e sapere, quindi la Fenomenologia connotano questi tre distinti momenti e nel loro susseguirsi portano via via a maturazione il problema di una Aufhebung della filosofia kantiana. Da ultimo la Scienza della logica, grazie ai risultati della Fenomenologia e tramite la Propedeutica filosofica di Norimberga, mostrerà il compiersi, dialetticamente, della logica trascendentale nella logica speculativa.

Il primo scritto a stampa di Hegel a Jena — la Differenza — si apre, nel 1801, con una breve analisi del pensiero kantiano3. L ’ac­cento cade sulla dottrina di Kant, allo scopo di sceverarne, dietro l ’esempio di Fichte, la lettera e lo spirito: i due piani considerativi poc’anzi indicati sono subito fatti valere. Sotto il primo profilo tro­viamo menzionate le cose in sé (un’« assoluta oggettività », espri­mente « la vuota forma dell’opposizione »), le categorie (« inerti e vuoti compartimenti dell’intelletto ») e le idee trascendentali (i « supremi principi » mediante cui l ’espressione dell’assoluto, « come

2 Cfr. Wissenschaft der Logik, hrsg. v. G . Lasson, Leipzig, F. Meiner, 1948, Bd. I I , p. 218; trad. it. di A. Moni riv. da C. Cesa, 2 voll, con pagina­zione continua, Bari, Laterza, 1968, p. 656.

3 Differenz des Fichte ' sehen und Schelling ’ sehen Systems der Philo­sophie, in H e g e l , Gesammelte Werke, Bd. 4, cit., pp. 5-6; trad. it. di R. Bodei (Primi scritti critici), Milano, Mursia, 1971 pp. 3-4. D ’ora in poi citerò questo saggio con la sigla Diff, indicando le pagine della sola edizione tedesca, pe­raltro riportate a margine nella traduzione italiana.

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p. es. la sostanza di Spinoza », viene nientificata). Troviamo inoltre ricordato lo « sterminato regno empirico della sensibilità e della percezione »: « un’assoluta aposteriorità, per la quale non è indicata nessuna apriorità [...] ». Lo spirito del criticismo è invece riposto in una latente scoperta kantiana del « puro principio speculativo ». Hegel lo reperisce nel « principio trascendentale che sta alla base della deduzione delle categorie » e lo identifica con 1’« identità del soggetto e dell’oggetto ». Da questo lato la filosofia critica si rivela una Verstandesphilosophie tenuta a battesimo dalla ragione »; si dimostra anzi portatrice dell’idea stessa della Vernunft ed inoltre « scienza dell’assoluto », nel senso che — Hegel d irà4 — in essa « il soggetto è lui stesso soggetto-oggetto e, in quanto tale, ragione ». Siamo già sulla via di un innalzamento della dottrina kantiana al di sopra del suo intellettualistico principio. Ma intrecciandosi con la lettera, il suo latente principio speculativo rimane soffocato. He­gel argomenta che l’irriducibile aposteriorità del moltepHce dell’in- tuizione cela in Kant l’elevazione della non-identità a principio asso­luto, sì che l ’identità di soggetto e oggetto risulta « contrapposta assolutamente all’essere» e colta « a d un livello subordinato»: un’identità non più che « relativa ». Ora è la ragione ad esser trat­tata coi mezzi dell’intelletto, e in questa luce essa si dimostra sog­gettiva, « una ragione pura, ossia formale, i cui prodotti, idee, sono assolutamente contrapposti a una sensibilità o natura, e possono ser­vire soltanto come un’unità ad essi estranea ». £ chiaro l'accenno all’uso regolativo delle idee trascendentali: la ragion pura kantiana si ripiega verso i fenomeni; l’assoluto decade a « un che di sogget­tivo nella forma del conoscere » e corrispondentemente la scienza che lo riguardi si ridimensiona5. Quindi Hegel conclude la sua iniziale presa di posizione teoretica verso Kant denunciandone il « risultato contrastante », secondo cui per la ragione si danno « deter­minazioni assolute, oggettive », che viceversa l’intelletto nega.

Queste indicazioni sono largamente enigmatiche. Nondimeno esse

4 Diff, p. 76.5 Diff, pp. 75-76.

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prendono senso dal globale contesto dello scritto che le contiene e dal nodo di problemi ivi sollevati. Si tratta della tematica generale che, muovendo dalle sue precedenti acquisizioni, Hegel ben presto elabora a Jena e che appunto nella Differenza comincia a svilup­pare 6. Gliela detta lo status della cultura del tempo, a suo avviso dominata dalla Macht der Entzweiung, dalla potenza della scissione, ma pure sottesa da un inquieto sforzo della « vita » per liberarsene e rinascere all’armonia. La scissione fondamentale è così descritta: nella cultura dell’epoca « ciò che è fenomeno (Erscheinung) del- l ’assoluto si è isolato dall’assoluto e si è fissato come qualcosa di indipendente ». Siamo di fronte ad una scissione giudicata epocale. Mentre segna il trionfo, .dell’intelletto — della « forza » che divide e persiste nelle divisioni — e della concomitante riflessione, questa epocale Entzweiung definisce per Hegel la complessiva situazione filosofica della Aufklärung e ancora del pensiero tedesco a cavallo fra settecento e ottocento. La dottrina kantiana rientra nel quadro: l’inconoscibilità dell’in-sé e l ’inversa possibilità di conoscenze oggetti­vamente valide nel solo ambito del fenomeno rispecchiano ed anche codificano proprio tale situazione, trasformando l ’assoluto — come Hegel dirà a proposito di Fichte e Jacobi7 — in un « nulla per il conoscere ». Se questa è la lettera della filosofia critica, tutt’altro, abbiamo veduto, ne è invece lo spirito. Ora entra in gioco il vitale sforzo di liberarsi dai riflessivi irretimenti dell'intelletto (dalle kan­tiane categorie, intese quali vuoti compartimenti). Alla potenza della scissione Hegel vede sotterraneamente contrapporsi la « poten­za della unificazione » e se ne fa intèrprete e portavoce. Chiama Vernunft la « forza » che la incarna e ne concepisce l ’esplicarsi come

6 Su questa tematica, qui solamente accennata, si vedano le pagine in­troduttive della Differenza, spec. pp. 12 ss., e si consenta di rinviare al mio volume Hegel dal mondo storico alla filosofia, Roma, Armando, 1973, pp. 75 ss. Per un’efficace ricostruzione globale del pensiero di Hegel a Jena cfr. G . Can­t i l l o , Hegel a Jena. Dall’« ideale degli anni giovanili » alla elaborazione del « Gesamtsystem » , in « Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche », vol. XC, Napoli 1979.

7 Cfr. Glauben und Wissen, in Gesammelte Werke, Bd. 4, cit., p. 298; trad. it. in Primi scritti critici, cit., p. 231.

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una lotta contro l’intelletto. Affida quindi alla ragione e alla filosofia che vi si imperni il basilare compito di ricongiungere 1 'Erscheinung con l’assoluto, ovvero di porre « i l finito nell’infinito, come vita »; e dice speculativa la riconsiderazione filosofica dell’intero che poggi su questa progettata riunificazione.

A tale compito è finalizzato, in questi tempi hegeliani di Jena, un programma di recupero dello spinozismo, in quanto tipo di filo­sofia adatto, esso solo, a smantellare la dominante Reflexiomphilo- sophie e a ristabilire l ’unità dell’intero 8. Ma in ordine al medesimo compito gli aspetti speculativi della dottrina kantiana sopra riferiti costituiscono a loro volta un momento nodale. Sullo sfondo della più generale opposizione tra fenomeno ed assoluto, finito ed infi­nito, ove la spinoziana unitarietà del reale vistosamente si spezza, Hegel vede infatti concrescere nella cultura filosofica del tempo for­me specifiche di opposizione: fra ragione e sensibilità, intelligenza e natura, in definitiva tra « assoluta soggettività ed assoluta ogget­tività ». Nella misura in cui stabilisca l’identità di soggetto e og­getto Kant viene ad esercitare nei confronti di quest’ultima, saliente opposizione la potenza della unificazione, la ragione stessa, e si rivela pensatore speculativo; nella misura in cui la loro identità resti adom­brata, relativa, colta ad un livello inferiore, è viceversa l’intelletto (la forza divisiva) a tenere presso di lui il campo. Dal punto di vista hegeliano il fattuale intreccio dei due aspetti d mostra Kant sulla via del compito suddetto, o meglio della sua assunzione, e sulla via, anche, di una paradossale ripresentificazione dello spinozismo. Resta peraltro da vedere in che senso il « principio trascendentale » della

8 Sulla centrale presenza dello spinozismo in questa fase di formazione del pensiero hegeliano cfr. K. D ü s in g , Idealistische Substanzmetaphysik. Pro­bleme der Systementwiklung bei Schelling und Hegel in Jena, « Hegel-Stu­dien », Beiheft 20 (Hegel in Jena), 1980, pp. 25-44; F. C h ie r e g h in , Dialettica dell’assoluto e ontologìa della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla Fenomenologia dello spirito, Trento, Verifiche, 1980, pp. 96 ss.; si potrà inol­tre vedere un mio studio sulle Fonti spìnozìane della dialettica di Hegel, che apparirà in un fascicolo dell’annata 1982 della « Revue Internationale de Phi­losophie » dedicato a Hegel.

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deduzione delle categorie esprima secondo Hegel proprio quella identità, e in che essa consista; e rimane da capire che significhi l’attribuzione hegeliana alla Vernunft di un principio che Kant espressamente riserva al Verstand.

2. A tali quesiti offre risposta la prima patte di Fede e sapere. È questo il noto saggio del 1802 in cui l ’esame delle posizioni di Kant, Jacobi e Fichte conduce a giudicarle filosofie della riflessione della soggetjixità: « della riflessione », perché tutte ancorate alla riflessiva o_ppos.izÌQne.tra...soggetio e. oggetto; « della..soggettività », perché attestate sul polo soggettivo di jjuesta basilate .opposizione. Hegel tuttavia non manca di segnalare come in esse, per questo secondo aspetto, trovi espressione quella « grande forma dello spi­rito del mondo » che nell’età moderna è « il principio del Nord e religiosamente del protestantesimo, la soggettività . » 9. Nel loro insieme esse quindi definiscono una prospettiva filosofica epocale, con cui la resa di conti è obbligata; per questo verso la specifica posi­zione kantiana appare essenziale e necessaria e bisognosa del tratta­mento che la Scienza della logica definirà vera confutazione.

Hegel subito nota che le accomuna il dislocare l’assoluto al., di sopra della ragione e riservarlo alla fede, che nel loro caso il sapete· si restringe invece al finito, preso nella sua abituale opposizione all’infinito, e che, in definitiva, è loro esito comune la rinuncia della

9 Glauben und Wissen, cit., p. 316; trad. it., p. 125 (d ’ora in poi citato con la sigla F S e con l ’indicazione delle pagine della sola edizione tedesca). Sulle posizioni di Hegel verso Kant in Glauben und Wissen cfr., oltre che il saggio di J . H yppolite su La critique hégélienne de la réfiexion kantienne (« Kant-Studien », Bd. 45, 1953-54, n. 1-4, ora in Figures de la pensée philo- sopbique, Paris, PU F, 1971, vol. I , pp. 175-95), spec. N . M erker , Le origini della logica hegeliana (Hegel a Jena), Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 218 ss.;I. G örlanb, Die Kantkritik des jungen Hegel, Frankfurt a. Main, Klostermann, 1966, ρρ. 16 ss.; G . M a lu sc h k e , Kritik und absolute Methode in Hegels Dialektik , « Hegel-Studien » , Beiheft 13, Bonn, Bouvier, 1974, pp. 82 ss.; K . D üsing , D as Problem der Subjektivität in Hegels Logik. Systematische und entwicklungsgeschichtliche Untersuchungen zum Prinzip des Idealism us und zur Dialektik, « Hegel-Studien », Beiheft 15, Bonn, Bouvier, 1976, pp. 109 ss.

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ragione « al suo esser nell’assoluto » (FS , p. 316). La separazione della Erscheinung e la sua indipendenza (la sua Selbstständigkeit) ne escono consolidate, mentre l ’assoluto resta fuori tema per la filo­sofia: un nulla « per il conoscere ». Hegel soggiunge che qui si ha a che fare con una ragione affetta da finitezza (« una ragione che pensa soltanto il finito »), scambiata con l ’intelletto, e che alla filo­sofia non compete se non di « determinare l’universo per questa ra­gione finita {ib., p. 342). La replica giunge perentoria: « il primum della filosofia è conoscere il nulla assoluto », « l’infinitezza, il nulla nella sua purezza » (ib., p. 398), quel nulla che nella prospettiva della Entzweiung si affaccia come la notturna, misteriosa sorgente del finito 10. Da quelle generali caratteristiche delle posizioni filoso­fiche considerate riemerge l ’ultimativo compito di ricondurre YEr- scheinung all’assoluto ponendo il finito nell’infinito e così ristabilire la totalità, « che il tempo ha lacerato », e reintegrare l ’uomo « con­tro la disgregatezza dell’epoca » (Diff, p. 81). Ne va della ragione in quanto tale: del suo esser nell’assoluto o trovarsene irrimedia­bilmente estraneata. Dietro le quinte, ad ispirare la problematica hegeliana^ sta chiaramente Spinoza.

La discussione del pensiero kantiano nella prima parte di Fede e sapere si svolge entro questa cornice e ne prende luce. Di nuovo Hegel provvede a discernere i lati per lui positivi da quelli nega­tivi, e stavolta ci fornisce debiti chiarimenti su gli uni e gli altri. Ma il metodo della loro cernita va ben oltre la semplice distinzione fra spirito e lettera; rispecchia invece la specifica metodologia che in vista del compito testé ricordato egli sta predisponendo. In forma ancora aggrovigliata essa si delinea nelle pagine introduttive della

10 Alludo al celebre passo della Differenza (p. 16) in cui si dice che, dal punto di vista della scissione (e si intende la scissione del fenomeno dall’asso­luto), « l ’assoluto è la notte, e la luce è più giovane di essa, e la loro distin­zione così come lo spuntare della luce dalla notte è una differenza assoluta » e che pertanto « è il nulla il primum, donde è emerso ogni essere, ogni mol­teplicità del finito ». Con questa pagina sono da collegare anche le conclusioni di Fede e sapere (pp. 413-14), accentrate nel tema dell’infinitezza come « pura notte » e « abisso del nulla », ove ogni essere sprofonda e donde, tuttavia, si leva la verità.

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Differenza, poi acquista organicità nei primi corsi universitari hege­liani di Jena. Suo stile è la Vernicbtung; suo campo d ’esplicazione il finito; sua sede la logica. In breve: ai fini di quelPultimativo compito Hegel già nel suo saggio del 1801 prospetta il tema di una ‘ nientificazione ’ (appunto, di una Vernichtung) del finito, diretta a lumeggiarne la finitezza e, rimuovendo l ’assolutizzazione delle for­me finite, a ristabilirlo in un intrinseco rapporto con l’infinito ovvero con l ’assoluto. La ragione, a partire dalla Differenza, entra in gioco con funzioni di questo tipo: come un «assoluto negare», quale «forza dell’Assoluto negativo». Si tratta di un intervento nientifi- cante, prossimo tuttavia ad evolvere in positivo non appena le deter­minazioni finite, anziché abbandonate alla finitezza, siano poste come momenti dell’intero e in tal senso « riferite all’assoluto ». Ma que­sta negativa azione della Vernunft non è propriamente diretta contro il finito come tale, e nemmeno contro le determinazioni; colpisce piuttosto l ’intelletto e la correlativa riflessione, perché fonti non solo delle determinazioni ma anche e specialmente del loro irreti- mento in rigide ed isolanti forme oppositive. Hegel preannuncia che la ragione, sopravvenendo, spinge le opposizioni fino airanti- nomia e mostrandole antinomiche e contraddittorie le ‘.toglie ’ (auf- heht). Il toglierle consiste però nel rimuovere la loro intellettua­listica irriducibilità e unificare i termini contrapposti, in tal maniera che una volta unificati essi non sussistano ciascuno per sé, indipen­dentemente dall’altro, ma solo nel senso che ognuno « è posto..nel­l ’assoluto, cioè come identità [con l’altro 1 ». Riferire le determina­zioni all’assoluto significa far valere a loro proposito quella sua struttura che a partire dalla Differenza Hegel ripone nella « iden­tità della identità e della non-identità ». È il positivo sbocco della nientificazione razionale delle forme oppositive; ed è insieme l ’in­gresso nella dimensione dello speculativo, ove le medesime deter­minazioni diventano concepibili in base alla Aufhebung delle loro intellettualistiche opposizioni e secondo mutui rapporti che le elevino a momenti dell’intero u. L 'identità di soggetto e oggetto che se­

11 Per questa impostazione hegeliana cfr. D ijf, spec. pp. 17-18; e si con­ceda di rimandare, per più estesi ragguagli relativi anche al systema reflexionis

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condo la Differenza Kant avrebbe stabilito è speculativa in questo senso: costituisce un principio metaintellettualistico, che Hegel, pe­raltro, non ritiene pienamente conseguibile se non attraverso la Vernichtung dell'intelletto e delle inerenti forme riflessive.

Fra il 1801 e il 1803 questa complessa metodologia sfocia in un systema reflexionis et rationis, sul quale Hegel imposta il proprio insegnamento di Logica e Metafisica 12. Alla base troviamo la distin­zione fra due livelli conoscitivi: il « conoscere, finito », radicato nel­l ’intelletto e nella riflessione, e il « conoscere infinito », apporto della speculazione. Per Hegel si tratta di operare il passaggio dall’uno all’altro o, come egli dice, di muovere « dal finito, onde procedere, in quanto esso venga prima nientificato, verso l ’infinito ». Ma qui il compito della Vernichtung è assegnato alla logica: essa dovrà eri­gere a sua legge suprema l’antinomia e, esercitando la ragione nel suo lato nientificante.. dovrà mostrare la finitezza delle forme rifles­siv ede ll’intelletto e, così, riconoscere compiutamente, la riflessione

et rationis menzionato più sotto, al mio saggio Logica e metafisica nel pensiero jenense di Hegel, « Filosofia », 1978 (XXIX), fase. I I , pp. 175-92. Nella D if­ferenza il tema dell’identità della identità e della non-identità è formulato a p. 64; in esso rifluisce il concetto della vita come « il legame del legame e del non-legame » prospettato nel c.d. Frammento di sistema dell’anno 1800.

12 D i questo suo insegnamento abbiamo notizie sia dai programmi acca­demici di Hegel a Jena (editi da H . K im m er le nei Dokumente zu Hegels Jenaer Dozententätigkeit (1801-1807), «H egel-Stud ien », Bd. 4, 1967: cfr. in particolare p. 53), sia da un brano di lezione hegeliana di questo stesso pe­riodo, riportato da K . R osenkranz nel suo Hegels Leben (1844; rist. fotost., Darm stadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 19713, pp. 189-92; trad. it. di R. Bodei, Firenze, Vallecchi, 1961, pp. 206-8). Nel voi. 5 dei Gesammelte Werke di Hegel saranno pubblicati nuovi manoscritti inediti del filosofo, al­cuni attinenti al systema qui considerato. In proposito cfr. E . Z ie sc h e , Unbe­kannte Manuskripte aus des Jenenser und Nürnberger Zeit im Berliner H e­gelnachlass (« Zeitschrift für philosophische Forschung », 1975, pp. 430-44) per notizie filologiche, nonché M. B aum e K . M e is t , Le premier Systeme de philosophie de Hegel. Manuscrits retrouvés (« Archives de Philosophie », 1977 (40), n. 3, pp. 429-34) per anticipazioni sul loro contenuto. Su tale systema cfr., fra gli studi più recenti, J . H . T rede, Hegels frühe Logik (1801-1803/4). Versuch einer systematischen Rekonstruktion, « Hegel-Studien », Bd. 7, 1972, pp. 147-51; K . D üsing , D as Problem ecc., cit., pp. 150 ss.

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edjnfine estrometterla, « affinché non ponga ostacoli sulla via della speculazione ». In tal modo la logica darà luogo ad un systema reflexionis, concepito non quale intellettualistica sistematizzazione delle forme finite in base a schemi riflessivi, bensì come sistematica Aufhebung del conoscere finito in quanto tale. Hegel osserva che per questi suoi requisiti la logica potrà fungere, lei sola, da « intro­duzione » alla metafisica in quanto filosofia stricto sensu specula­tiva e dovrà anzi nientificarsi a sua volta13. Il conoscere infinito, « ossia la conoscenza dell’assoluto », è invece riservato alla meta­fisica stessa, tramite la istituzione del systema rationis. E di questa ulteriore disciplina egli dice che dovrà « costruire compiutamente il principio di ogni filosofia »: presumibilmente, quel principio che la Differenza identificava con l ’identità assoluta di soggetto e oggetto.

Questo rapporto fra logica e metafisica, destinato a sorreggere anche la hegeliana Logica e Metafisica del 1804-05, ci presenta a termini invertiti quella che sarà la loro relazione nella Scienza della logica. Infatti nel grande testo di Norimberga non la logica precederà la metafisica con funzioni introduttive, bensì la metafi­sica confluirà nella logica — concepita lei stessa come filosofia stricto sensu speculativa — e sotto il titolo di logica oggettiva verrà a costituire il precedente e la base genetica della logica soggettiva. Lo schema logica-metafisica del 1801-1803 rimanda piuttosto alla tra­dizionale concezione della logica come propedeutica alla metafisica e organon del sapere scientifico. Più direttamente esso ci richiama però al programma kantiano di una logica (la logica trascendentale)

13 In proposito è da tenere presente anche un fuggevole cenno della D if­ferenza (p. 82) alla logica, dove Hegel, discutendo le posizioni di Reinhold e Bardili, dichiara che « la conoscenza logica, se progredisce realmente fino alla ragione, deve esser condotta al risultato di nientificarsi nella ragione, deve riconoscere per sua legge suprema l ’antinomia ». Un processo di nientificazione della logica troviamo esposto, alcuni anni più tardi, nella Logik, Metaphysik, Naturphilosophie del 1804-5, dove il momento culminante di essa — il « co­noscere », tout court — viene a costituire da un lato « il togliere (das Aufheben) la logica come dialettica e idealismo » e dall’altro il passaggio alla metafisica (cfr. Gesammelte Werke, Bd. 7 (Jenaer Systementwürfe I I ) , hrsg. v. R. P. Horstmann u. J . H . Trede, Hamburg, F. Meiner, 1971, spec. pp. 126-27).

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preparatoria rispetto alla metafisica. Tuttavia nella presente acce­zione hegeliana la logica non introduce alla metafisica nel senso di metterne in questione la possibilità (la Dialettica trascendentale), bensì nel senso di inquisire e porre fuori gioco proprio quelle forme intellettive su cui l ’Analitica fonda l’oggettività del conoscere che ora Hegel dice « finito ». La prospettiva quindi si rovescia: la hege­liana forza nientificante della ragione è per esplicarsi sul terreno del- l ’Analitica; nel contempo si annuncia campo d’estrinsecazione della sua vis ricostruttiva il metafisico ambito della Dialettica, ed è pur sempre la « conoscenza dell’assoluto » ciò che in tale ambito fa questione. Sotto questa capovolta prospettiva, armato della metodo­logia dianzi tratteggiata e forte del progetto di quel systema, Hegel in Fede e sapere affronta per la prima volta di petto la filosofia kantiana.

3. Il tentativo, nella Differenza ancora velato, di sollevare la filosofia critica al di sopra del suo intellettualistico principio, entra con Fede e sapere nel suo pieno svolgimento. Campo d’indagine sono qui l ’Analitica trascendentale, poi la Critica del Giudizio-, ri­mane per contro in sottordine la Dialettica trascendentale, che vice­versa la Scienza della logica metterà in primo piano. Subito ci tro­viamo portati nel cuore dell’Analitica. Hegel fa merito a Kant di avere riconosciuto l ’astrattezza sia del concetto sia dell’intuizione, se considerati separatamente l’uno daU’altro, e di avere mostrato la loro identità « nella coscienza », quella loro identità « che si chiama esperienza »: un’identità peraltro « finita », che correttamente Kant fa valere nell’ambito del conoscere finito (cioè nell’Analitica) e non confonde con la conoscenza razionale. Sotto questo aspetto, nono­stante la finitezza di tale identità, la posizione kantiana mostra se­condo Hegel i requisiti della « vera filosofia », essendone adem­piuto il compito di « risolvere le opposizioni » 14. E più avanti si dichiara che essa detiene anzi il « merito immortale » — « che ha segnato l ’inizio di una filosofia in generale » — di circoscrivere al

14 FS, p. 326. Per il significato del compito di risolvere {lösen) le oppo­sizioni si veda più avanti, al termine del paragrafo seguente.

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fenomeno i concetti intellettivi e pertanto di chiarire che « le cose nelle quali queste forme si oggettivano, e così pure una conoscenza di questi oggetti, sono in sé assolutamente nulla » (FS , p. 350). Ne deriva (e per Hegel in Fede e sapere è « il risultato più importante di Kant ») che « le relazioni del finito [...] non sono nulla in sé », e in generale ne risulta il « nulla della finitezza ». È una sconfes­sione, reperita in Kant, della indipendenza del finito e in genere della Erscheinung. Nel presente contesto Hegel la contrappone alla jacobiana assolutezza delle « cose finite », ravvisa anzi nell’Anali- tica trascendentale non una celebrazione, bensì una « Annihilation », dell’intelletto e del conoscere finito e mostra di giudicare l’Anali- tica stessa in linea con gli uffici della logica in quanto systema reflexionis. Anzi, nell’ottica di Fede e sapere il riconoscimento kan­tiano della finitezza delle forme intellettive e poi del nulla della finitezza ha pure l’essenziale contraccolpo di innalzare 1’« in-sé e la ragione » al di sopra delle forme finite e di mantenerli « puri da ogni contatto con esse » (ib.). Sotto questo ulteriore aspetto Kant non solo dà corso a una nientificazione dell’intelletto e del conoscere finito, ma addirittura fa spazio alla ragione nella sua hegeliana va­lenza positiva e all’inerente conoscere infinito o speculativo. In luogo di chiudere l ’accesso alla metafisica (alla metafisica « come scienza ») Kant per questo verso la spalanca.

È in atto un ribaltamento della lettera di Kant, perseguito sulla falsariga del systema reflexionis et rationis sopra accennato. Nella parte centrale della sua discussione Hegel continua su questa strada e provvede alle necessarie spiegazioni. Di nuovo è in causa il rap­porto kantiano fra concetto e intuizione. Ora egli si riferisce ai giu­dizi sintetici a priori e vi trova espressa l 'identità di quell’« etero­geneo » che fuori dal loro rapporto sono il concetto e l’intuizione, l’uno universale e l ’altra individuale. Ed egli interpreta che, a mo­tivo della sua apriorità, l ’identità è qui originaria ed assoluta e che nella sua originarietà essa non è se non la kantiana unità originaria­mente sintetica dell’appercezione trascendentale 15. Già la Differenza

15 FS, pp. 326-28. In proposito cfr. I . G ö r l a n d , op. cit., pp. 16 ss., e spec. le osservazioni critiche di K . D ü s in g , op. cit., pp. 113 ss.

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poneva nell’identità di soggetto e oggetto quella loro assoluta iden­tità razionale che « li toglie entrambi nella loro contrapposizione e li comprende dentro di sé (in sich) » (Diff, p. 18): il loro intero, ove essi si dispongono a momenti. In sintonia con queste premesse Hegel interpreta l ’unità trascendentale dell’appercezione come « ori­ginaria identità di opposti », nella quale si compie la loro Aufhe­bung. Contro la lettera della Critica della ragion pura, l ’unità kan­tiana dell’appercezione gli si palesa quindi d’origine razionale piut­tosto che intellettiva, essendo a suo vedere prerogativa della Ver­nunft il ‘ togliere ’ le opposizioni. Ma è lo Schematismo trascen­dentale, più che la deduzione delle categorie, il luogo kantiano dove la ragione manifesta, a suo avviso, questa efficienza. Il problema dei giudizi sintetici a priori tocca qui il suo epicentro, dovendosi conciliare l’universalità del concetto e l’individualità dell’intuzione. Kant, si sa, porta in scena l’immaginazione produttiva, a titolo di nascosta e cieca sorgente di schemi trascendentali in cui concetto e intuizione arrivano a fondersi nell’unità del giudizio. Hegel argo­menta che la loro opposizione si risolve allora in identità, che l’im­maginazione produttiva non è se non l’unità originariamente sinte­tica dell’appercezione, esplicantesi come « identità del soggettivo e dell’oggettivo nella coscienza », e che essa è la ragione stessa, « quale apparisce nella sfera della coscienza empirica » (FS, p. 329). Fra le righe del testo kantiano diviene quindi trasparente Vagire della ragione in questa sua ancora imperfetta manifestazione. La struttura originariamente sintetica dell’appercezione trascendentale risulta cioè indice di una sua costitutiva « bilateralità », in virtù della quale essa « pone a priori assolutamente da sé il giudizio », lo Ur-teil, la ‘ partizione originaria ’, ed a priori si scinde nel « soggetto pen­sante » (l’io à ù ì ’Ich denke) e nel « molteplice, come corpo e mon­do », ovvero nel « soggetto in generale » e nell’« oggetto », essendo tuttavia, originariamente, e l ’uno e l ’altro16. Questa — Hegel com­

16 FS, p. 328. In questa sua argomentazione Hegel distingue nettamente l’unità sintetica originaria dell’appercezione daU’Icè denke (che Kant pro­spetta, come è ben noto, all’inizio del § 16 della Critica e di cui egli fa poi « l ’unico te sto » della psicologia razionale). Nei suoi termini più rigorosi la

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menta — è « una verace idea speculativa ». L ’opposizione è infatti veduta sorgere dall’identità; i membri del rapporto oppositivo sono concepiti a partire dall’intero e come suoi momenti. Peraltro si tratta di un’idea speculativa colta sul terreno dell’Analitica kantiana, nel­l ’ambito del conoscere finito.

La prospettiva quindi si rovescia o meglio, direbbe Hegel, si raddrizza. In luogo di muovere dalle opposizioni verso l ’identità dei termini contrapposti, assistiamo allo scindersi dell’identità stessa e al disporsi dei medesimi termini (nel nostro caso: del soggetto e dell’oggetto, o del concetto e dell’intuizione, o ancora del soggetto e del predicato) a momenti o membri di quel loro intero che è la loro stessa identità. Ed è a partire dall’intero che già prende inizio il movimento pensante. Anziché nella sfera della logica (concepita quale systema reflexionis) e sul nientificante cammino che ha da approdare nel conoscere infinito, tramite Kant ci troviamo immessi nella immanente dimensione razionale dello speculativo e introdotti nella metafisica in quanto filosofia propriamente speculativa. Ci im­battiamo persino in una costruzione kantiana di quello che Hegel chiama il principio di ogni filosofia (l’identità soggetto-oggetto) e in un avvio del conoscere infinito in quanto systema rationis. Diremo che YAufhebung della dottrina kantiana — la sua peculiare ‘ confu­tazione ’ — è ormai in una fase avanzata, il pensiero di Kant es­sendo già largamente sollevato al di sopra del suo ‘ letterale ’ prin­cipio intellettualistico. La Annihilation dell’intelletto si è spinta in

loro distinzione è così formulata: « D i tutta la deduzione trascendentale, sia delle forme dell’intuizione sia delle categorie in generale, nulla si può com­prendere senza distinguere dall’io, attività rappresentativa e soggetto (welches das V erstellende und Subjekt ist), chiamato da Kant il semplice accompagna­tore di tutte le rappresentazioni, ciò che Kant denomina il potere dell’unità sintetica originaria dell’appercezione e senza riconoscere nell’immaginazione [...] ciò che è il primo e l ’originario e da cui derivano, separandosi, tanto l ’io soggettivo quanto il mondo oggettivo [...] Questa immaginazione in quanto bilaterale identità originaria, che da un lato diventa soggetto in generale ma dall’altro oggetto, e che originariamente è entrambi, non è altro che la ragione stessa solo, essa è la ragione quale apparisce nella sfera della coscienza empirica » (FS, p. 329).

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profondità, e Hegel può ben fare onore a Kant per avere introdotto proprio nell’intelletto « l’inizio dell’idea della ragione » (FS, p. 334). Ma oltre che nell’Analitica trascendentale Fede e sapere scava an­cora nella Critica del Giudizio. Qui Hegel trova ulteriormente esplo­rata quella « regione intermedia » fra concetto e intuizione che me­diante lo schematismo l ’immaginazione produttiva è giunta ad oc­cupare: « la regione dell’identità di ciò che è soggetto e predicato nel giudizio assoluto », nella partizione assolutamente originaria (ib., p. 339). Riferendosi al Giudizio teleologico egli fa leva sull’idea kantiana di un intelletto intuitivo e la piega ad illuminare proprio tale regione. Cita i passi di Kant ove si dice che per un intelletto siffatto « possibilità ed effettualità sono tutt’uno », intuizioni sensi­bili e concetti « scompaiono entrambi », « la possibilità delle parti, secondo la loro costituzione ed il loro legame, dipende dall’intero » 17. Poi scrive: « l ’idea di questo intelletto intuitivo, archetipo, non è in fondo assolutamente altro che la medesima idea dell’immagina- zione trascendentale sopra considerata; difatti questa è attività in­tuitiva, ed insieme la sua interna unità non è altro che l ’unità del­l ’intelletto stesso, la categoria immersa nell’estensione, la quale [ca­tegoria] diventa intelletto e categoria solo in quanto si separa dal­l ’estensione » (FS, p. 341). La recisa conclusione di Hegel ( « l ’im­maginazione trascendentale è dunque lei stessa intelletto intuitivo ») addita nell’idea di un intelletto archetipo il coronamento kantiano della tematica dell’immaginazione trascendentale, in ordine al pro­blema dell’unità di concetto e intuizione, soggetto e oggetto, e in generale dell’identità fra gli opposti e cioè dell’intero. E come Hegel ribadisce che solo tale identità è « la vera ed unica ragione » (ib., p. 339), così in quella idea di Kant noi veniamo guidati a reperire un’inconsaputa ma pertinente formulazione del concetto hegeliano della ragione stessa. La costruzione dello speculativo principio della filosofia sembra debitamente avviata, e sembra ormai predisposta l ’istituzione di un appropriato sistema della ragione.

17 FS, p. 340. Per i passi kantiani citati cfr. Kritik der Urteilskraft, Ak. Ausg., Bd. V, § 76, ρρ. 401-3, e § 77, p. 407.

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4. Là dove assegna alla metafisica la costruzione del principio di ogni filosofia, nel brano citato del suo insegnamento Hegel le pre­scrive di costruirlo « compiutamente », quasi a dire che la sua ela­borazione, benché già intrapresa, rimane tuttora difettosa. La tacita Aufhebung della dottrina kantiana (come poi della filosofia di Fichte) rispecchia in Fede e sapere questa veduta. L ’intelletto archetipo, come si sa, è in Kant soltanto un’idea, necessaria e tuttavia problematica c comunque estranea ai nostri poteri conoscitivi. Hegel osserva che, concependone l’idea, Kant ha fatto una doppia « esperienza del pensare », l ’una attinente all’intelletto discorsivo tematizzato nel- l’Analitica trascendentale, l ’altra all’intelletto intuitivo. Nel primo di essi Hegel indica però la Erscheinung dell’altro; e rimarcando come in Kant quell’idea resti ineffettuale, gli imputa di essersi atte­nuto al fenomeno e di avere concepito la ragione sulla sua falsa­riga. E soggiunge che in tal maniera Kant ha solamente operato una « scelta » teoretica, non sorretta da un’oggettiva necessità (Fs, p. 341). Le conseguenze sono fondamentali. Di questa scelta rice­vono il contraccolpo innanzitutto l’appercezione trascendentale e l’immaginazione produttiva, anzi l 'identità (di concetto e intuizione, di soggettivo e oggettivo) che ne è apportata. Questa — Hegel scri­veva — è la loro identità « nella coscienza », un’identità « finita », ove la ragione si dà a vedere « quale apparisce nella sfera della co­scienza empirica »: « ragione immersa nella differenza ». Quindi Hegel, come esalta Kant per avere posto nell’intelletto il comin- ciamento dell’idea della ragione, parimenti gli rimprovera di avere occultato questa idea, erigendo l’appercezione trascendentale a prin­cipio costitutivo dell’oggettività, nella sfera però della coscienza e cioè in dimensione pur sempre soggettiva. L ’identità soggetto-og­getto, da Kant stabilita entro tale sfera, lascia quindi fuori un’inde­cifrabile oggettività, l’inconoscibile cosa in sé: il miraggio, 'presso di lui, della ragion pura. Ma proprio per questi motivi è l ’intelletto a tenere la signoria di quella sfera; e nonostante la riconosciuta finitezza delle sue forme categoriali, esso risulta elevato a « qual­cosa di positivo e di assoluto » [ib., p. 350). La ragione ne esce soverchiata, mentre l ’identità razionale di soggetto e oggetto viene colta dal solo lato soggettivo. La conclusione di Hegel è dura: la

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filosofia kantiana « ricade nell’assoluta finitezza e soggettività », e il suo « intero compito », nonché estendersi alla « conoscenza del­l ’assoluto », resta « la conoscenza di questa soggettività ossia una critica della facoltà conoscitiva » {ib., p. 326).

Vedremo che la Fenomenologia dello spirito entrerà nel merito, già all’inizio, di questo stesso compito. Fede e sapere svolge piutto­sto talune salienti implicazioni della posizione teoretica di Kant così ricostruita. Al proposito va rilevato come, in dipendenza da quella scelta, la filosofia critica non possa che limitarsi a determinare l ’uni­verso per una ragione finita. Il sapere vi si restringe al conoscere finito (al fenomeno) e rimane estromesso dal conoscere infinito. Una metafisica come sistema speculativo della ragione, che pur sembrava in germe, ne è escluso. Ne va, per Hegel, della ragione in quanto tale e della misura secondo cui 1’« annichilimento » kantiano del­l’intelletto e delle inerenti forme finite sia valso a scioglierla dalla finitezza. VAufbebung della dottrina kantiana dovrà proseguire: il passaggio di Kant alla fede razionale pratica definisce l’ambito del suo esercizio conclusivo nel quadro di Fede e sapere. E qui vediamo Hegel discutere la specifica strutturazione kantiana della ragion pura e controbattere proprio quella scelta.

Il riconoscere finite (limitate ai fenomeni) le forme concettuali dell’intelletto ha nella Critica della ragion pura, per Hegel, il già notato effetto di svincolare l ’in-sé e la ragione dalla finitezza. Tut­tavia egli fa osservare che nella Dialettica trascendentale la ragione, così purificata, si riduce al « puro concetto dell’infinitezza in contrap­posizione al finito » ed è soltanto un’« attività priva di dimensioni » (FS, p. 336). A suo vedere la Critica del Giudizio porta tutto ciò alle estreme conseguenze. Leggiamo che la kantiana inconoscibilità delPin-sé dipende dalla « perenne opposizione del sovrasensibile e del sensibile, messa una volta per tutte a fondamento », e che « il razionale viene mantenuto in questa irremovibile contrapposizione come qualcosa di sovrasensibile e di assolutamente negativo rispetto sia all’intuire sia al conoscere razionale » {ib., p. 340). Quindi Hegel argomenta che, essendo l ’opposizione tenuta ferma come tale al li­vello del sapere, i membri contrapposti (sensibile e sovrasensibile, finito ed infinito) debbono valere, per il sapere stesso, ciascuno

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« come un assoluto », privo di mediazioni con l’altro; loro medio diventa invece « un assoluto al di là », di esclusiva competenza della fede, nel quale soltanto avrebbe luogo « la nientificazione (das Vernichtetwerden) di entrambi e della [loro] finitezza » {ib., p. 344). Il commento suona: in tal modo ci si limita ad ammettere che il finito debba esser tolto, ma non è posta « l ’effettiva e verace nienti­ficazione ». Ciò significa che la Annihilation dell’intelletto e in ge­nere della finitezza rimane presso Kant incompiuta e che proprio la sua incompiutezza fa in lui da supporto all’avvento della fede.

All’inizio della discussione sul pensiero kantiano in Fede e sa­pere Hegel enigmaticamente preavvertiva che la filosofia critica « in­dugia nell’opposizione e fa dell 'identità dell’opposizione la fine as­soluta della filosofia » (ib., p. 315). Quanto sopra chiarisce di che si tratti. Il passaggio di Kant alla fede razionale pratica viene ricon­dotto alla mancata Vernichtung filosofica dell’opposizione tra finito ed infinito; la loro « identità », dislocata di là dal sapere, nella meta­filosofica dimensione della religione, segna quindi la fine della filo­sofia. Questa era del resto la posizione esposta da Hegel stesso nel c.d. Frammento di sistema dell’anno 1800, il suo penultimo scritto prejenense. Qui si decretava appunto la fine della filosofia e il suo necessario tramonto nella religione, a motivo della sua costitutiva incapacità di venire a capo delle opposizioni18. È l ’esito che Fede e sapere reperisce in Kant, e per gli stessi motivi. Ma nel Frammento di sistema la filosofia trapassava in altro perché strutturata secondo la riflessione, in una fase in cui Hegel già conduceva la propria battaglia contro l’intelletto ed i suoi strumenti riflessivi, senza tutta­via possedere ancora il concetto della ragione come attività meta­riflessiva. A Jena proprio questo concetto fa ben presto la sua comparsa nell’orizzonte filosofico hegeliano. In luogo di dover tra­montare in altro, la filosofia radicandosi nella ragione così intesa diviene idonea, per principio, a dirimere lei stessa le opposizioni e le antinomie, sì che diventa sua « fine » {o meglio suo compimento)

18 Cfr. Systemfragment von 1800, in Hegels theologische Schriften, hrsg. v. H . Nohl, Tübingen, Mohr, 1907, p. 348: « La filosofia deve terminare con la religione, poiché essa è un pensare, dunque ha l ’opposizione da una parte del non-pensato, dall'altra del pensante e del pensato ».

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precisamente la loro risoluzione. Questo nuovo stile di pensiero detta in Fede e sapere la replica agli sbocchi metafilosofici di Kant. Il testo dice: « Compito della vera filosofia » è di « risolvere nella sua fine le opposizioni che si presentano [...] »; « la sua unica idea, che ha per lei realtà e vera oggettività, è l ’assoluto esser-tolto dell’opposi­zione »; 1’« assoluta identità » dei termini contrapposti è « l’unica vera realtà », e la sua conoscenza non è una fede, cioè un al di là per il sapere [un nulla per il conoscere], bensì il suo unico sapere » (FS, p. 325). Di rincalzo le conclusioni in merito a Kant dicono: « Se alla fede pratica della filosofia kantiana [...] togliamo l’abito non filosofico e non popolare di cui è rivestita, non vi troviamo espresso altro che la seguente idea: la ragione [diremmo: il kantiano intel­letto archetipo] ha insieme assoluta realtà, in quest’idea è tolta l ’op­posizione di libertà e necessità, l ’infinito pensare è insieme assoluta realtà ovvero è assoluta identità del pensare e dell’essere » (ib., p. 344-45).

La loro assoluta identità — Hegel commenta — è « il lato ve­ramente speculativo della filosofia di Kant », il solo che interessi perseguire (ib., p. 343). Il suo reperimento costituisce l’esito emi­nente della ‘ confutazione ’ del criticismo intrapresa in Fede e sa­pere. Invero la dottrina kantiana ne è innalzata sopra il proprio ‘ letterale ’ principio, attraverso l’enucleazione di un suo metaintel­lettualistico sottofondo. La resa di conti (la Auseinandersetzung) hegeliana sembra dunque conclusa. Nondimeno, in questo stadio del pensiero di Hegel l ’idea suddetta non ancora ha conseguito un’ef­fettiva legittimazione ed appare essa stessa problematica; definisce, a sua volta, una scelta teoretica, come tale inadeguata a scalzare la scelta kantiana. In questo senso i conti con Kant restano aperti.

II - La « Aufhebung » fenomenologica della filosofia critica

5. Con la Fenomenologia dello spirito si entra nella seconda e risolutiva fase del rapporto teoretico di Hegel con il criticismo. È nota la severa requisitoria della Fenomenologia contro la moralità kantiana e la Weltanschauung che vi si esprime. Ma nella sua

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più incisiva pregnanza la discussione è tenuta su un diverso piano e verte non tanto su questo o quell’aspetto della d o t t r i n a di Kant, quanto sulla matrice che tutti li sottende. Viene cioè in que­stione l’idea stessa di una critica della ragion pura, e ne troviamo investita la « scelta » teoretica di Kant, la sua opzione per un in­telletto discorsivo anziché intuitivo, per un conoscere insuperabil­mente finito. Sarà del resto a partire da posizioni gnoseologiche di tipo kantiano, e attraverso la loro ‘ confutazione ’ dialettica, che la Fenomenologia arriverà a fondare 1’« idea » enunciata nelle conclu­sioni di Fede e sapere, l ’idea di un’assoluta identità del pensare e dell’essere, al cui livello trovi luogo l’assoluto esser-tolto delle oppo­sizioni.

Lo stile della Fenomenologia è già indicativo. Hegel per la prima volta si muove con andatura pienamente dialettica, proce­dendo di opposizione in opposizione e mostrando l ’immanente dirom­persi delle loro specifiche contraddizioni, fino all’assoluto esser-tolto dell’opposizione posta inizialmente a base. Questa, come si sa, nella Fenomenologia è l ’opposizione — entro la coscienza — fra soggetto e oggetto, sì che la vicenda fenomenologica si presenta quale iti­nerario della coscienza, trascinata dalla sua struttura dialettica a « togliere » lei stessa proprio questo rapporto oppositivo. In tal modo è anche e precipuamente l ’identità « finita » di soggetto e oggetto, la loro identità « nella coscienza », quella che viene coin­volta nel movimento dialettico e spinta fino al punto dell’assoluto esser-tolto della loro opposizione: fino all’ultimativo livello del sa­pere assoluto. Il conoscere finito ne è quindi investito e di grado in grado nientificato, in quanto tipo di conoscenza correlativo alle forme finite non solo dell’intelletto (le forme categoriali kantiane), ma della coscienza come tale e cioè alle figure da lei via via assunte. Hegel del resto ci avvisa che l ’itinerario della coscienza è al tempo stesso cammino del sapere, a partire dalla sua Erscheinung e sino alla forma « vera » del sapere assoluto, vale a dire del conoscere infi­nito o speculativo 19. Certezza sensibile, percezione e intelletto scandi­

19 A questo proposito si tenga presente la Einleitung della Fenomenologia, in particolare l ’enunciazione tematica formulata alla fine del quarto capoverso:

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scono, nella sfera della coscienza non ancora assurta ad autocoscienza,1 primi ritmi di questo bilaterale movimento e a loro modo riper­corrono dialetticamente l'iter kantiano dell’Estetica e dell’Analitica. Tuttavia lo ripercorrono secondo un’ottica non più criticistica, alla quale Hegel accede muovendo da una preventiva discussione sul merito dell’impianto criticistico del filosofare. L ’itinerario kantiano allora cambia senso e diventa premessa onde avanzare fino al sapere assoluto e fino all’assoluto esser-tolto delle opposizioni inerenti alla coscienza.

La discussione cui alludiamo si svolge nelle battute d ’avvio della Fenomenologia. L ’introduzione dell’opera si apre infatti con le se­guenti enunciazioni: « È una rappresentazione naturale che prima di abbordare in filosofia la Cosa stessa, vale a dire la reale cono­scenza di ciò che è in verità, occorra preliminarmente intendersi sul conoscere, il quale viene considerato come lo strumento mediante cui ci si impadronisca dell’assoluto o come il mezzo per il cui tra­mite si possa scorgerlo » **. Ancora una volta sta in primo piano la questione di accedere filosoficamente all’assoluto; diremo, dal punto di vista di Hegel: di accedervi partendo dalla epocale sepa­razione di ciò che ne è fenomeno. Ma a tale questione ora viene commisurato il programma di un’indagine sul conoscere diretta a stabilirne preliminarmente la struttura e le possibilità. Hegel si richiama alle due posizioni giudicate eminenti, a quella criticistica (il conoscere come « strumento ») ed a quella di stile schellinghiano (il conoscere come « mezzo »), e prende così a giocare la partita decisiva con la filosofia del proprio tempo: di un tempo contrasse-

« .[ . .· ] si deve qui intraprendere l ’esposizione del sapere che apparisce (die Darstellung des erscheinenden Wissens) »: Phänomenologie des Geistes, hrsg. v. J . Hoffmeister, Leipzig, F. Meiner, 19526, p. 66; trad. it. di E . De Negri,2 voll., Firenze, L a Nuova Italia, I9602, vol. I , p. 69. Quanto al rapporto fra tale « esposizione » e il cammino dialettico della coscienza ci si potrà riferire al mio voi. cit. Hegel ecc., pp. 126 ss.

20 Phän. d. Geistes, ed. cit., p. 63; trad. it. cit., I, p. 65 (d ’ora innanzi citerò con la sigla Fen, indicando le pagine dell’edizione tedesca e il volume e le pagine della traduzione italiana). Sulle posizioni di Hegel rispetto a Kant nella Fenomenologia si veda I . G ö r l a n d , op. cit., pp. 62 ss.

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gnato dalla Entzweiung. In questa cornice l ’idea di una critica della ragione, concepita quale preventivo esame dello strumento conosci­tivo, viene sottoposta lei stessa ad esame. Ne va del concetto e dell’impianto della filosofia.

La resa di conti ultimativa è per cominciare. Hegel la intrapren­de riconducendo quel generale programma e questa specifica idea ad un’inconsapevole « paura della verità » e alla latente premessa che la motiva. L ’uno e l ’altra presuppongono cioè che « tra il cono­scere e l ’assoluto cada una precisa linea divisoria » e che « l’asso­luto se ne stia da una parte e il conoscere dall’altra, per sé e separato dall’assoluto, pur essendo qualcosa di reale » 21. Il più di­scusso risultato della Critica della ragion pura — l ’incolmabile solco teoretico fra l’ambito conoscitivo e l ’in-sé — viene dunque ribaltato in presupposto dell’idea stessa di una critica della ragione. Il ribal­tamento è oltremodo significativo. Conduce a vedere nella Ent­zweiung non solo un approdo (o un elemento dottrinario) del pensare kantiano, ma innanzitutto la dimensione di pensiero entro la quale Kant originariamente si muove e dalla quale prende origine anche e in primo luogo l ’idea di una critica della ragione pura. Gli aspetti intellettualistici della filosofia kantiana lumeggiati in Fede e sapere svelano le loro profonde motivazioni e la loro portata: attestano quella originativa collocazione del filosofare di Kant e ne docu­mentano l’originaria e costitutiva delimitazione. La « scelta » teo­retica sopra rimarcata si dimostra a sua volta corollario della mede­sima collocazione. Per contro gli elementi speculativi che Hegel in

21 Fen, pp. 63 e risp. 65 (I 65 e 67). La critica di principio all’idea kantiana di un preliminare esame dello « strumento » conoscitivo ritorna sia nelle edizioni 1827 e 1830 dell’Enciclopedia (§ 10, Antn.), sia nelle Vorlesun­gen über die Geschichte der Philosophie (cfr., nei Sämtliche Werke hegeliani, Jubiläumsausgabe, hrsg. v. H . Glöckner, Bd. 19, Stuttgart, Frommann, 1959, pp. 555-56; trad. it. di E . Codignola e G . Sanna, Firenze, La Nuova Italia, 1944, vol. I I I , 2, pp. 288-89). D i particolare interesse è l ’obiezione dell 'Enci­clopedia·. « l ’indagine del conoscere non può avvenire altrimenti che cono­scendo; indagare questo c.d. strumento non significa altro che conoscerlo ». Il che ci rimanda all’impostazione del problema nella seconda parte della Ein­leitung della Fenomenologia (pp. 70 ss.; I 73 ss.).

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Kant ritrova denotano un inconscio compartecipare di Kant stesso a tutt’altra dimensione di pensiero, definita da un riunificato rap­porto del fenomeno con l ’assoluto, del finito con l ’infinito, e dal- 1’« esser nell’assoluto » della ragione. Il problema, allora, è di guadagnare quest’altra dimensione; e si tratta pur sempre di pas­sare dal conoscere finito tramite la sua nientificazione, al conoscere infinito. Lungi dal controbattere la scelta kantiana mediante una differente opzione filosofica, Hegel nella Fenomenologia si colloca lui stesso nella dimensione mentale della Entzweiung e vi si adden­tra. Fa quindi vedere che, nonostante la sua creduta invalicabilità, essa contiene il principio del proprio trascendimento e in definitiva del proprio tramonto in quelPaltro orizzonte del pensiero, che essa cioè include il germe della propria nientificazione. Lo stile critici- stico del pensare ne è coinvolto ed esso pure nientificato; ma la Vernichtung non ne segna il rifiuto o l ’abbandono, bensì, alla lunga, il trapasso nel pensare speculativo. A questo più radicale livello riprende, nella Fenomenologia, la ‘ confutazione’ della filosofia kan­tiana che Fede e sapere aveva già largamente sviluppato.

6. La coscienza — così dice l’introduzione della Fenomenolo­gia — « distingue da sé qualcosa, cui insieme si riferisce; [...] e il lato determinato di questo riferire o dell’esser qualcosa per una coscienza è il sapere. Ma da questo esser per un altro noi distinguia­mo l ’esser-in-sé; [...] il lato di questo in-sé si chiama verità » (Fen, p. 70; I 73). Con ciò è definito il rapporto soggetto-oggetto, a partire dalla coscienza e conforme alle sue vedute. Certezza sensibile, per­cezione e intelletto lo configurano dal punto di vista gnoseologico, secondo uno sviluppo dialettico che alla fine segna l ’avvento di una metagnoseologica relazione della coscienza a se stessa. La coscienza di altro trapassa nella coscienza di sé; a quel punto, nel corso della Fenomenologia, si schiude il mondo delle relazioni interindividuali e prende inizio la tormentata dialettica del riconoscimento: nella forma, dapprima, dei rapporti fra signoria e servitù. Poi l ’autoco­scienza evolve a ragione; e qui incontriamo la « categoria » e la pro­blematica inerente. È nota la definizione della Vernunft a questo livello fenomenologico: essa è « la certezza della coscienza di essere

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ogni realtà » {ib., pp. 176 e 178; I 194 e 197). Ne sorge la que­stione della « verità » di tale certezza, della sua verità per la co­scienza, e ne scaturisce il grandioso movimento dialettico che immette nella Cosa stessa e quindi nello spirito. Ma l ’avvento della Cosa stessa porta anche alle sue conclusioni fenomenologiche il problema della categoria. In questo arco della Fenomenologia dello spirito, attraverso la riconsiderazione della problematica ca­tegoriale, si effettua VAufhebung del criticismo in quanto stile di pensiero; poi la Scienza della logica ne svolgerà le implicazioni, sul piano strettamente speculativo.

Sotto il titolo di categoria ritroviamo qui il tema di fondo già incontrato in Fede e sapere·, 1’« assoluta identità del pensare e dell’essere » 22. Nell’« idea » di questa identità Fede e sapere addi­tava la più rilevante acquisizione speculativa di Kant, peraltro infirmata proprio dagli sviluppi della deduzione delle categorie. La categoria — leggiamo ancora nel testo del 1802 — in Kant rimane un’« identità formale », cui sta assolutamente di contro una molte­plicità (una « assoluta non-identità », secondo l’espressione della Differenza); perciò il « sapere trascendentale » si riduce ad un sapere esso stesso formale, limitato alla struttura apriorica dell’esperienza e inidoneo a penetrare l’in-sé del fenomeno (FS, pp. 343-44). Sono vedute che Hegel giudica in disaccordo con l ’unità sintetica origina­ria dell’appercezione, la quale d ’altronde costituisce a suo parere il non intellettualistico principio della deduzione delle categorie.Il capitolo della Fenomenologia sulla Vernunft ha invece dietro di sé la replica a tali vedute, condotta muovendo dai risultati espli­citi dell’Analitica trascendentale. Nel concludere la trattazione di quella figura gnoseologica della coscienza che con tacito richiamo a Kant chiama Verstand, Hegel infatti scrive: « Noi vediamo che nell’interno del fenomeno l ’intelletto non è in verità nient’altro che

22 Cfr. sopra, verso il termine del § 4. Sulla « categoria » nel presente contesto si veda I. G ö r l a n d , op. cit., pp. 95-97, e, in generale, H . M a r c u s e ,

Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit, Frankfurt a. Main, Klostermann, 1932; trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 50-52.

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il fenomeno stesso », e che « in effetti esso esperisce soltanto se medesimo »; « dietro la cosiddetta cortina che dovrebbe occultare l ’interno non c’è niente da vedere », e la coscienza, « in immediato colloquio con sé », gode soltanto se stessa » e « si occupa solamente di sé » (Yen, pp. 128-29 e 127; I 139 e 137). La coscienza di altro si eleva a coscienza di sé. Ma tutto ciò può dirsi altrettanto dell’A- nalitica trascendentale, dove i poteri costitutivi dell’intelletto nel­l’ambito fenomenico conducono a reperire nell’« interno » del fenomeno non altro che l ’intelletto stesso e la sua armatura catego­riale. Nondimeno, in sede kantiana resta fuori la cosa in sé, irridu­cibile a quell’apriorico interno; ma i precedenti sviluppi fenomeno- logici hanno già riconosciuto nel kantiano mondo noumenico « l’im­mediato innalzamento del mondo percettivo nell’elemento univer­sale » e non altro che una sua « controcopia » o una sua duplica­zione23. Quindi l’interno del fenomeno — la struttura categoriale che secondo l ’Analitica l’intelletto gli impone — ηε esaurisce l’es­senza; e nel medesimo interno la coscienza, ritrovando se stessa, a vedere di Hegel coglie anche l’in-sé. Proprio la riduzione dell’in-sé all’interno del fenomeno e di quest’ultimo all’intelletto e in definitiva alla categoria in senso kantiano fonda la ripresa della tematica cate­goriale nel capitolo della Fenomenologia dedicato alla ragione. Ed è subito chiaro che la sua ripresa avviene in un quadro caratteriz­zato non dall’opposizione, bensì dall’identità, fra la categoria e l’in-sé, il pensare e l’essere, soggetto e oggetto.

Le risultanze della dialettica dell’intelletto or ora accennate hanno già trasposto, virtualmente, il pensare kantiano dalla dimen­sione della Entzweiung in quella dell’unità delle opposizioni. Ne è segno l’identità, che vi è stabilita, della coscienza e dell’in-sé. Hegel fa però notare che, al momento della loro acquisizione in sede feno­menologica, quei risultati emergono per noi (per il filosofo, il quale procede alla considerazione fenomenologica), ma non ancora per la

23 Cfr. Feti, spec. p. 121 (I 131). Su questa complessa tematica è da ve­dere l ’illuminante saggio di H . G . G adamer, Hegel - Oie verkehrte Welt, nel vol. Hegels Dialektik. Fünf hermeneutische Studien, Tübingen, Mohr (Paul Siebeck), 1971; trad. it., Torino, Marietti, 1973, pp. 46-70.

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coscienza, e nemmeno per Kant, che pur li predispone. Il capitolo della Fenomenologia sull’autocoscienza traccia il contorto processo attraverso cui la coscienza giunge ad esperire la propria identità con l’in-sé. Abbiamo veduto che Fede e sapere, nel dichiarare raggiunta da Kant l ’identità del soggetto e dell’oggetto, sottolineava come presso di lui si trattasse di loro identità « nella coscienza », « fini­ta », di quella loro identità « che si chiama esperienza ». Fenome­nologicamente la coscienza stessa dovrà giungere ad esperirla anche come identità « assoluta »: quando ciò avvenga, essa avrà scaval­cato lei stessa, tramite la propria esperienza, la cortina del feno­meno kantiano e si sarà introdotta, esperendo, nella dimensione del razionale.

« La ragione è la certezza della coscienza di essere ogni realtà »; « la certezza di essere ogni realtà è innanzitutto la pura categoria » (Fen, 178 e 189; I 197 e 200). Il tema della categoria è così formu­lato, al livello non più dell'intelletto bensì della ragione; si tratta però di livelli fenomenologici, non ancora logico-speculativi, ed in questione rimane l 'esperienza che la coscienza fa. Hegel non manca di rammentare l ’originario, aristotelico significato ontologico di « essenzialità dell’ente in generale » (dell’ov fj ov) inerente alla ca­tegoria; ma subito rimarca come al presente stadio fenomenologico essa significhi che « autocoscienza ed essere sono la medesima cosa » e come essa esprima la loro unità « non nella comparazione ma in sé e per sé » {ib., p. 178; I 179). D ’un colpo, la posizione ontolo­gica di Aristotele e quella trascendentale di Kant sono ambedue sopravanzate. Ma sotto questa luce la posizione kantiana mostra, in più, le sue carenze rispetto al problema che le fa da guida. Hegel è sferzante: dice « unilaterale e cattivo » l’idealismo che le si con­nette, e qualifica « un insulto alla scienza » la pretesa di ricavare la molteplicità delle categorie dalla tavola dei giudizi {ib., pp. 178- 79; I 197-98). Ma poi entra nel merito delle vedute kantiane ed associando Kant e Fichte in una critica globale denuncia 1’« imme­diata contraddizione » che in rapporto alla categoria le infirma. Os­serva che l ’idealismo kantiano e fichtiano ripone l ’essenza nella coscienza (nell’« unità dell’appercezione ») e che su questa base la coscienza può ben dire ‘ tutto è mio ’ ed affermarsi come la

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certezza di essere ogni realtà, come ragione. Tuttavia il riempimento del « vuoto mio » (la kantiana Erfüllung dei concetti) è poi attinto a fonti estranee (sensazioni e percezioni o, fichtianamente, un urto esterno): per questo verso l ’essenza è posta non più nella coscienza, bensì in altro, nella « cosa ». Ne proviene — Hegel dice — il « con- tradittorio doppiosenso » di concepire l ’essenza come « alcunché di duplice e di puramente e semplicemente contrapposto », una volta come unità dell’appercezione, un’altra come un antistante in-sé {ib., pp. 180-81; I 200-201). L ’unità della categoria ne è contraddetta. Soprattutto ne è smentito l ’effettuale comportamento della coscien­za elevatasi alla ragione; la quale — come mostrerà il seguito della Fenomenologia — viene a riempire lei stessa il « vuoto mio », non per mezzo di estrinseci elementi gnoseologici ma attraverso un mo­vimento dialettico che di grado in grado la conduce a fare la espe­rienza dell’unità della categoria.

7. Questa cruciale esperienza è preparata dagli sbocchi della « ragione osservativa » e si compie con l ’avvento della Cosa stessa. In gergo hegeliano la ragione osservativa è quella che nei riguardi dei contenuti fattuali non si limita al semplice constatare ed invece « dispone lei stessa le osservazioni e l ’esperienza », interroga la natura e metodicamente la sollecita a rispondere (cfr. Fen, p. 183;I 203): è la ragione dispiegantesi specialmente nelle scienze naturali moderne, da Kant indagata sotto il titolo di intelletto nell’Analitica trascendentale. Hegel ne descrive il contegno: « come coscienza osservativa essa si volge alle cose opinando di prenderle in verità come cose sensibili opposte all’io; solo, il suo effettuale fare con­traddice a questa opinione, poiché essa conosce le cose, trasforma il loro carattere sensibile in concetti, cioè in un essere che insieme è io, quindi [trasforma] il pensare in un pensare che è (in ein seiendes Danken), o l ’essere in un essere pensato (in ein gedachtes Sein), e nel fatto afferma che le cose hanno verità soltanto come concetti» (ib., pp. 184-85; I 204). È un contegno che nella sua bilateralità rispecchia il doppiosenso poc’anzi segnalato; ma il suo secondo e veritiero aspetto contraddice il doppiosenso, smentisce

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la divaricazione della categoria in due opposte essenze e virtualmen­te mette in crisi la fondazione trascendentale delPoggettività scien­tifica. Hegel però va oltre. Attraverso i comportamenti specifici della ragione osservativa (dalla osservazione della natura a quella dell’organico e infine dell’autocoscienza) vede modificarsi la portata della certezza dell’autocoscienza razionale di essere ogni realtà. Al culmine del ciclo si manifesta oggetto di questa figura dell’autoco­scienza un’altra, indipendente autocoscienza. Il testo dice che ora l’autocoscienza razionale « ha la certezza che questo indipendente oggetto non è per lei alcunché di estraneo » e che essa « sa di esserne riconosciuta in sé »·. « essa è lo spirito, il quale nella dupli­cazione della sua autocoscienza e nell’indipendenza di entrambe le autocoscienze ha la certezza di avere la sua unità con se stesso » {ib., p. 254; I 292). Si entra nella interindividuale dimensione del Geist. Ed è il Geist — e non tanto la kantiana unità originaria­mente sintetica dell’appercezione, come risultava in Tede e sapere — quello che viene a duplicarsi in soggetto e oggetto e che si du­plica in un soggetto e in un oggetto costituenti, ciascuno per l ’altro, due indipendenti autocoscienze, due diversi soggetti per sé essenti. Lo spirito, allora, si rivela lui stesso categoria.

Quest’ultimo punto viene in luce verso il termine del capitolo sulla Vernunft, là dove fa la sua comparsa la « Cosa stessa », la verità della cosa-oggetto cui la coscienza gnoseologica ed egual­mente l ’Analitica trascendentale si attengono. Qui die Sache selbst viene a nominare « l’essenza che è essenza di tutte le essenze », la categoria in senso pieno. Hegel la identifica con 1’« essenza spiri­tuale » e spiega che essa è « un’essenza il cui essere è il fare del singolo individuo e di tutti gli individui » e che essa « è Cosa solo come fare di tutti e di ciascuno »: è « la sostanza permeata dall’in­dividualità » e divenuta soggetto, la ‘ verità ’ della substantia spino- ziana. Quindi egli si richiama esplicitamente alla categoria — al- 1’« essere che è io, o io che è essere » — e le equipara la pura Cosa stessa. E più avanti soggiunge che attraverso l’esperienza della Cosa stessa la categoria « viene determinata per la coscienza, quale essa [categoria] è nella sua universale verità, come essènza essente in sé

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e per sé », « essenza spirituale » 24. È il momento in cui la proble­matica categoriale giunge al suo culmine fenomenologico; insieme è il punto ove il doppiosenso della categoria kantiana si converte nel­l’univocità della categoria hegeliana, in quanto originativa ed unifi­cante essenza delle autocoscienze. La dimensione dell’esser-tolto delle opposizioni è con ciò guadagnata. Lo stile oppositivo del pensare (l’intelletto) trapassa in uno stile che pensa le opposizioni a partire dalla identità dei termini intellettualisticamente contrapposti e cioè a partire dall’intero e che, in luogo di vanificarli, li dimostra mo­menti dell’intero. Diviene quindi effettuale il principio già incontrato nella Critica del Giudizio: « la possibilità delle parti, secondo la loro costituzione ed il loro legame, dipende dall’intero » 25. Ma ora tale principio va oltre la problematicità di un intelletto archetipo e di­viene costitutivo del concreto esserci dell’autocosdenza razionale, A fronte di quella kantiana, la « scelta » teoretica di Hegel ne esce avallata.

La possibilità della metafisica come pura filosofia speculativa, di un systema rationis in forma di conoscere infinito, è ormai schiu­sa. Il sapere assoluto, a coronamento della Fenomenologia, ripren­dendo e mettendo a fuoco in dimensione ‘ spirituale ’ tutti questi temi ed ogni altro, porrà le ultime basi per la sua istituzione. Al tempo stesso darà l ’ultima puntualizzazione fenomenologica in me­rito all’impianto kantiano del filosofare. Il sapere assoluto — leg­giamo nel capitolo finale dell’opera — « è il puro esser-per-sé dell’autocoscienza »: l ’io « ha un contenuto, che esso distingue da sé; esso è infatti la pura negatività o lo scindersi-, esso è coscienza. Nella sua stessa distinzione questo contenuto è l’io, poiché è il mo­vimento del togliere se stesso, ovvero è la medesima pura negatività

24 Sulla Cosa stessa (che traduco con la maiuscola per distinguere Sache da Ding, « cosa ») si veda, nella Fenomenologia, la sezione c (« L ’individua­lità che è a se stessa reale in sé e per se stessa ») del capitolo sulla Vernunft, spec. pp. 300-301, I 347-48 (su « la natura della Cosa stessa »). Si veda inol­tre, all’inizio del capitolo sul Geist (pp. 313-14; I I 1-2), la concisa ma per­spicua collocazione della « categoria » nello sviluppo dell’autocoscienza razio­nale, fino alla conclusiva esperienza della Cosa stessa.

25 Cfr. sopra, in corrispondenza con la nota 17.

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che è io. L ’io, in lui [nel contenuto] come distinto [dall’io stesso], è riflesso in sé; il contenuto è concepito solo perché l’io nel suo esser-altro è presso di sé » (Fen, 556-57; II 296). L ’esser l ’io presso di sé nel suo esser-altro riesprime anche la kantiana identità di soggetto e oggetto nella coscienza, entro la sfera di quella che Kant dice « esperienza possibile ». Conforme all’interpretazione dell’ap­percezione trascendentale prospettata in Feie e sapere, Hegel riaf­ferma, a titolo strettamente personale, l’originario « scindersi » dell’io (e cioè dell’autocoscienza) nei due poli del soggettivo e del- l ’oggettivo; viene così a fondare speculativamente la possibilità del­l ’esperienza, mediante una ripresa del kantiano principio trascen­dentale. Nondimeno il decorso della Fenomenologia ha sempre più slargato l ’orizzonte delPesperire. Alla fine risulta esperienza possi­bile l ’omnicomprensivo universo della realtà spirituale, nel cui am­bito ricadono tutte le opposizioni via via incontrate e perfino quella kantianamente irriducibile fra l’io e l ’in-sé. Perciò Hegel ci avverte che contenuto dell’io « non è altro che il movimento sopra espo­sto », « lo spirito che percorre se stesso [...] ». In questa universale dimensione l ’identità di soggetto e oggetto (Tesser l ’io presso di sé nel suo esser-altro) si fa assoluta, grazie ad un’assoluta dilatazione dell’esperienza possibile o meglio dell’esperienza che la coscienza fa e che essa dialetticamente fa su di sé. L ’appercezione trascenden­tale ne ottiene un corrispondente ampliamento; nonché restringersi, sotto forma di immaginazione produttiva, alla gnoseologica sfera dell’Analitica kantiana (in termini hegeliani: all’ambito del cono­scere finito), a sua volta si dilata fino ad agire nell 'intero dell’espe­rienza fenomenologicamente intesa. Diventa principio della Ver­nunft: di una Vernunft da un lato operante nell’esperire dell’auto­coscienza razionale, dall’altro in procinto di esplicarsi come pura ragione e di volgersi alla edificazione del suo proprio « sistema ».

Ormai alla filosofia non competerà di determinare l ’universo per una ragione che pensi soltanto il finito26. La nientificazione della

26 Tale, abbiamo veduto (all'inizio del § 2), è il compito cui si limitano, secondo Hegel in Fede e sapere, le filosofie della riflessione della soggettività.

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Reflexionsphilosophie è avvenuta ed ha coinvolto lo scambio della ragione con l ’intelletto, la sua finitizzazione. L ’universo sarà quindi da rideterminare coi mezzi della ragione fenomenologicamente pu­rificata, forte dei requisiti di un intelletto archetipo di stampo kan­tiano. Di lì a pochi anni la Scienza della logica e successivamente la Logica dell’Enciclopedia risponderanno a questi nuovi uffici. Il rapporto di Hegel con Kant muterà in corrispondenza e diverrà esso stesso speculativo.

I l i - Logica trascendentale e logica speculativa

8. Le posizioni verso Kant nei grandi testi ora citati sono pre­disposte e anticipatamente chiarite dal processo di gestazione della Scienza della logica durante gli anni dell’insegnamento ginnasiale di Hegel a Norimberga. Scrivendo a Niethammer nel 1808 egli dichiarava di avere posto a Jena non più che « il fondamento » della logica « quale comincia ora a diventare » 27. Si tratta della nuova fisionomia che la logica assume dopo la Fenomenologia dello spirito, allorché depone le sue precedenti funzioni nientificanti e introduttive e, configurandosi lei stessa come filosofia speculativa, viene programmaticamente a coincidere con la metafisicaa . Alla

27 La lettera, scritta da Bamberga, è del 20 maggio 1808 e fa seguito ad un’altra dell’8 luglio 1807, nella quale Hegel informava Niethammer di es­sere impegnato a comporre una « logica generale » e di non prevederne una rapida conclusione. Cfr. Briefe von und an Hegel, hrsg. v. J . Hoffmeister, Bd. I (1785-1812), Hamburg, F. Meiner, 1952, pp. 230 e risp. 176.

28 Questa trasformazione della logica risulta non solo dagli esiti espliciti della Fenomenologia al livello del sapere assoluto, ma è anche documentata dai programmi accademici di Hegel per gli ultimi semestri del suo insegna­mento a Jena. Cfr., in particolare, i programmi del semestre estivo 1806 (Hegel insegnerà « Philosopbiam speculativam s. logicam ex libro suo: System der Wissenschaft proxime prodituro »), del semestre invernale 1806-7 (« Logi­cam et Metaphysicam s. philosopbiam speculativam praemissa Phaenomenologia mentis [ . . . ] » ) e del semestre estivo 1807 (« Logicam et Metaphysicam, prae­missa Phaenomenologia mentis ex libro suo: System der Wissenschaft, erster

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base di questa trasformazione sta la « liberazione » dall’opposizione della coscienza fra certezza e verità, soggettivo e oggettivo, pensare ed essere29 : il fondamento posto a Jena consiste nella loro fusione ed è il precipuo apporto della figura fenomenologica dell’autoco­scienza razionale e infine del sapere assoluto. Hegel a Norimberga imposta il proprio insegnamento su questo capitale risultato e, co­gliendo l’occasione per elaborare la propria dottrina, chiama in causa la logica trascendentale kantiana, la interpreta e utilizza alla luce di quel fondamento e ne fa un ponte in direzione della logica speculativa.

Attraverso i testi pervenutici dell’insegnamento hegeliano, at­tualmente raccolti sotto il titolo di Propedeutica filosofica, e con l ’ausilio degli annuali rendiconti, è dato cogliere una pregnante incidenza di Kant nella più diretta formazione del definitivo pen­siero logico di H egel30. Ora noi vediamo entrare in gioco non

Theil [...] »). E ssi stanno in Dokumente zu Hegels Jenaer Dozententätigkeit, cit., pp. 55-56; cfr. anche pp. 83-84 e 87.

29 Che la logica speculativa presupponga la liberazione da queste oppo­sizioni Hegel dirà esplicitamente nella Scienza della logica, rimandando alla Fenomenologia per il processo liberatorio. Cfr. Wissenschaft der Logik, Erster Band (Die objektive Logik), 1812/1813, nel Bd. 11 dei Gesammelte Werke di Hegel, hrsg. v. F. Hogemann u. W. Jaeschke, Hamburg, F. Meiner, 1978, p. 21. Il medesimo rilievo, del resto, ricompare nella I I edizione (1831) della Dottrina dell’essere: Wiss. d. Log., hrsg. v. G . Lasson, cit., Bd. I , p. 30; trad. it. cit., p. 31.

30 Come è noto, i testi della Propedeutica filosofica di Norimberga sono stati pubblicati da J . Hoffmeister nella prima parte delle hegeliane Nürnberger Schriften (Leipzig, F. Meiner, 1938). Per alcuni testi si tratta di manoscritti di Hegel, per altri di rielaborazioni per mano di Rosenkranz, come tali meno attendibili. Nella raccolta di Hoffmeister essi sono preceduti dagli annuali rendiconti (Berichte) di Hegel sul proprio insegnamento nelle diverse classi del Ginnasio. Notizie su nuovi manoscritti inediti del periodo di Norimberga sono date da E . Z i e s c h e a pp. 438 ss. del suo studio citato sopra, nella nota 12. Della Propedeutica filosofica esiste una traduzione italiana, peraltro incompleta, di G . Radetti (Firenze, Sansoni, 1951). Nel seguito citerò con la sigla N S, seguita dalle pagine dell’edizione Hoffmeister e, ove si dia, della traduzione italiana. Sulla logica nella Propedeutica occorre vedere, innanzitutto, O . P ö g g e l e r , Fragment aus einer Hegelschen Logik. Mit einem Nachwort zur

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soltanto l ’Analitica ma anche, esplicitamente, la Dialettica trascen­dentale, secondo criteri che geneticamente illuminano l’assetto della logica trascendentale nel corpus della logica speculativa. Il primo testo risale all’anno scolastico 1808-9 ed è già indicativo. Hegel dà conto nei termini seguenti dell’insegnamento impartito: « Si è co­minciato con la dottrina della coscienza e delle sue specie; su questa base si è proceduto alle categorie e poi alle antinomie ad esse rela­tive e alla loro dialettica, da cui si è passati ancora alla logica vera e propria » 31. Nel testo corrispondente (un manoscritto di Hegel) la dottrina della coscienza ricalca le prime tre sezioni della Fenome­nologia (coscienza, autocoscienza e ragione) ed immette, giunta alla Vernunft, direttamente nella logica. Hegel scrive: « Nella conoscen­za razionale cade via la precedente distinzione della coscienza e dell’oggetto »; in essa « è contenuta tanto la certezza di me stesso quanto l ’oggettività » ; « le determinazioni della ragione sono tanto [suoi] propri pensieri, quanto determinazioni dell’essenza delle cose », quindi sono « di doppia specie » essendo da un lato «ascritte all’ente » e, dall’altro, « al pensare come tale » 32. Ritroviamo qui

Entwicklungsgeschichte von Hegels Logik, « Hegel-Studien » , Beiheft 2, 1963, pp. 11-70, in particolare 56 ss., ed anche Zur Deutung der Phänomenologie des Geistes, «H egel-Stud ien », Bd. 1, 1961, pp. 256-94, in particolare 274-76 (ora in Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, Freiburg-München, Alber, 1973, pp. 170-230).

31 N S, pp. 3-4: è il Bericht relativo all’insegnamento dell’anno 1808-1809 nella classe media. Il rendiconto riunisce sotto il titolo Logik sia la « dottrina della coscienza » sia la successiva trattazione dei temi di carattere propria mente logico. Ciò costituisce una chiara ripresa del progetto del 1806-7 (cfr. sopra, nota 28) di un « sistema della scienza » comprendente come sua prima parte la fenomenologia dello spirito e come seconda parte la logica e meta­fisica in quanto filosofia speculativa.

32 Bewusstseinslehre und Logik für die Mittelklasse 1808-9, §§ 33-34 (N S, p. 27). È il titolo proposto da Hoffmeister, mentre Rosenkranz propo­neva Phänomenologie des Geistes und Logik (cfr. le riserve di Pöggeler su entrambi i titoli: Zur Deutung ecc., cit., pp. 274-75). Più convincente è in­vece il titolo globale Logik preposto al Bericht (cfr. nota prec.). Sarebbe in­vece improprio scindere il testo in due parti, l ’una costituita dalla dottrina della coscienza e l ’altra dalla logica in senso stretto, come avviene nel vol. IV

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le posizioni esposte nel capitolo della Fenomenologia sulla Vernunft, là dove la ragione veniva a costituire la certezza della coscienza di essere ogni realtà e dove si affacciava la « categoria », come bila­terale identità dell’autocoscienza o del pensare e dell’essere. Di tali posizioni il testo del 1808-9 svolge i corollari attinenti alla logica, innanzitutto ripartendola in logica « oggettiva » e « soggettiva », secondo che riguardi il primo o il secondo aspetto delle determina­zioni razionali, poi diffondendosi sulla logica oggettiva e riservando, infine, brevi sviluppi a quella soggettiva33. Diversamente dalla sua futura suddivisione in Dottrina dell’essere e Dottrina dell’essenza, qui la logica oggettiva procede in tre tempi. Ricalcando la triparti­zione kantiana della logica trascendentale in Analitica dei concetti, Analitica dei principi e Dialettica, Hegel articola la propria tratta­zione nei gradi dell’intelletto, dell’attività giudicativa e della ra­gione. I primi due gradi considerano, da un punto di vista voluta- mente astratto, « le determinazioni logiche in quanto enunciate dell’ente », cioè le « categorie » nel loro originario significato on­tologico, e rispettivamente i principi logici, intesi come « rapporti dell’essere » o « giudizi ontologici » 34. Il terzo grado fa poi interve­nire la ragione; ma in luogo di riservarle, come Kant nella Dialettica trascendentale, una peculiare serie di concetti (in Kant: le idee trascendentali), prospetta il « movimento dialettico » per cui le de­terminazioni precedentemente considerate si rivelano antinomiche

(Nürnberger und Heidelberger Schriften, 1807-1817) dei Werke hegeliani editi da E . Moldenhauer e K .M . Michel per la Theoriewerkausgabe dell’editore Suhrkamp, Frankfurt a. Main 1970 (cfr. ib., pp. 609-12).

33 La partizione della logica in oggettiva e soggettiva è tracciata nella versione originaria del § 35. Una versione posteriore divide invece in « logica dell’oggettivo, del soggettivo e dell’idea » (cfr. N S, p. 28, η. 1).

34 Sulle categorie cfr. l ’enunciazione del § 36, poi le loro articolazioni nei §§ 37-51. Sui rapporti dell’essere o giudizi ontologici cfr. § 52, poi i SS 53-57 per le loro articolazioni. O. P ö g g e l e r (Fragment ecc., cit., p. 63) ha validamente rilevato che nei suoi primi due gradi la Logica del 1808-9 con­sidera in modo astrattamente intellettualistico le categorie ed i principi logici, mentre il terzo grado riconsidera la stessa materia dal punto di vista dialettico: è un tentativo, egli osserva, non più ripetuto.

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e trapassano ciascuna nel suo opposto. Con gergo kantiano Hegel chiama « antinomie della ragione » l’esposizione di questa loro dia­lettica; e identificando con tale movimento il manifestarsi, dappri­ma negativo, della ragione stessa, in tacita polemica con Kant esclu­de che le antinomie significhino incapacità della ragione di « cono­scere l ’essenza dell’ente », o un suo subiettivo contraddirsi, e per contro afferma che la contraddizione « cade nelle determinazioni, quali sono fissate dall’intelletto » 35. L ’aggancio con la Dialettica trascendentale è palese; ma non meno evidente è la diversa piega che Hegel, nell’utilizzarla, sta conferendo alPantinomica della ra­gion pura.

Non meno che nei testi jenensi addietro esaminati, per Hegel si tratta in primo luogo di spingere le irrigidite determinazioni dell'intelletto fino all’antinomia: è il momento negativamente dia­lettico ricorrente anche nelle antinomie cosmologiche kantiane. Già in Fede e sapere, riferendosi in particolare alle antinomie matema­tiche, egli peraltro lamentava come nella Dialettica trascendentale l ’antinomica della ragion pura venisse a porre « la contraddizione nella sua assoluta insuperabilità » e, disconoscendo « il positivo di queste antinomie, il loro medio », lasciasse comparire la ragione nel suo solo aspetto negativo o nientificante e non anche « nella sua peculiare figura » (FS., p. 337). Il testo del 1808-9 sottintende una consimile valutazione e ci fa inoltre assistere al risolversi delle antinomie kantiane non in base alla distinzione tra fenomeni e cose in sé, bensì in forza del medio costituente il loro positivo. Tuttavia l ’analisi hegeliana parte da uno spostamento di piano: anziché sul terreno della Dialettiva trascendentale, si muove su quello dell’A- nalitica; non si riferisce a idee nel senso di Kant, ma alle categorie, seguendo la loro tripartizione (delineata nella prima parte del testo) in categorie dell’essere, dell’essenza e della relazione indipendente. Questo spostamento è particolarmente significativo, essendone an­che denotata una ripresa della tematica categoriale emersa nel capi­

35 §§ 58-62 (N S, pp. 31-32). Sulle caratteristiche della dialettica nel testo di logica del 1808-9 cfr. J . H . T r e d e , Hegels frühe Logik, cit., ρ. 159, η. 25.

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tolo della Fenomenologia sulla Vernunft. Assunta la categoria come la medesimezza dell’autocoscienza e dell’essere, sorgeva allora la questione della molteplicità delle categorie. Mentre respinge il pro­cedimento kantiano di ricavarla dalla tavola dei giudizi, Hegel im­posta il problema radicando le categorie nella « pura » categoria in quanto loro unitaria essenza e concependole quali sue differenze {Unterschiede). Alla luce di questa prospettiva, nel testo del 1807 solamente ventilata, prende tuttavia risalto il contrasto fra la mol­teplicità delle categorie e l ’unità della categoria. Hegel ne desume il quesito di fondo della tematica categoriale: la pura unità della categoria « deve in sé togliere {aufheben) la molteplicità [delle categorie] » e pertanto costituirsi « come unità negativa delle diffe­renze » {Fen, 178-79; I 197-99). È il quesito che nell’ottica hege­liana si affaccia quando, come è il caso di Aristotele e ancora di Kant, si presupponga la loro molteplicità, comunque configurata. Nell’unità negativa delle differenti categorie è d ’altronde visibile l’intervento dialettico della ragione entro la sfera categoriale pro­spettato nel testo di logica del 1808-9. L ’utilizzazione dell’antino- mica kantiana è in vista, qui, di tale quesito.

Basti accennare alla trattazione della prima antinomia cosmolo­gica Essa rientra nel primo dei tre gruppi di categorie sopra elen­cati e segna il passaggio dalla categoria della quantità a quella dell’infinità. Osservando che la quantità (o meglio il quanto) è come tale un che di finito, cui si contrappone l’infinitezza, Hegel si avvale dell’antinomia della « finitezza ed infinitezza del mondo nello spazio e nel tempo » per mostrare la non verità della consueta opposizione tra finito ed infinito. E dopo una rapida discussione delle specifiche argomentazioni di Kant egli enuncia, quale « verità » della mede­sima opposizione, l ’intrinseca finitezza dell’infinito ovvero l ’intrinseca

36 La trattazione della prima antinomia kantiana sta nei SS 68-74 (N5, pp. 34-37). Per la seconda antinomia cfr. SS 78-81, per la terza i SS 85-88. Nel testo ora considerato non compare invece la quarta antinomia. La Logik für die Mittelklasse 1810/11 (un manoscritto di Hegel, tramandatoci anche da Rosenkranz) raggrupperà le quattro antinomie in un’appendice situata al termine della logica oggettiva (SS 77-89: N S, pp. 86-91; trad. it., 105-14).

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infinitezza del finito, « cioè la libera autodeterminazione, la quale si distingue dentro di sé [e] con ciò pone lei stessa i suoi confini (lato della finitezza) ma altrettanto [li] toglie e così ritorna in sé (lato dell’infinitezza) ». Qui Hegel fa giocare il concetto della fini­tezza e della infinitezza da lui maturato a Jena37, e sulla sua scorta risolve la prima antinomia kantiana lumeggiando la bilaterale identità dei termini dalla cui contrapposizione essa sorge. In questa loro identità consiste il « positivo » o il « medio » dell’antinomia: il suo reperimento ubbidisce alla procedura esposta in Vede e sapere e là riservata alla « vera filosofia »; ed è il procedimento che l ’antir nomica kantiana avvia, ma non conclude, e la cui mancata conclu­sione porta Kant al ricordato esito metafilosofico di una fede razio­nale pratica.

Nel testo del 1808-9 l ’accennata soluzione della prima antino­mia ha pure l’ufficio di immettere nella dottrina dell’essenza e nella dialettica delle inerenti categorie38; più ancora, costituisce un caso particolare nel quadro di un generale processo dialettico che, scandito nei suoi due momenti antinomico o negativo e risolutivo o positivo, investe tutta la serie delle categorie prospettate. Ogni volta tro­viamo applicata l ’antinomica e poi scoperta l ’identità dei membri contrapposti. Così lo specifico motivo kantiano dell’antinomia si estende all’intero ambito categoriale dell’Analitica e riceve, entro questo stesso ambito, la sua specifica integrazione hegeliana. Attra­

37 Basti richiamare il seguente enunciato della Differenza (p. 13): « L ’in­finito, in quanto viene contrapposto al finito, è un che di razionale posto dal­l ’intelletto. Per sé, come razionale, esprime soltanto il negare il finito (das Negiren des Endlichen) ». Questo enunciato trova poi svolgimento in Fede e sapere, sia nel quadro della discussione con Jacobi sul concetto spinoziano di infinitum actu (FS, pp. 353-59), sia nelle conclusioni dello scritto (p. 413), dove l ’infinitezza viene concepita come l ’interna sorgente dell’« eterno movi­m en to» per cui il finito «eternam ente si nientifica»: temi che ricevono il loro sviluppo sistematico nella Logica del 1804-5. Su questa problematica, tanto in Fede e sapere e nella Logica del 1804-5 quanto nella Propedeutica filosofica, si veda V . V e r r à , Hegel critico della filosofia moderna: matematica e filosofia, « D e Homine », n. 38-40, 1971, pp. 105-30, in particolare 116 ss.

38 Cfr. Bewussts. ecc., §§ 75 ss. (N S, pp. 37-44).

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verso Kant, trasponendo sul terreno delle categorie i procedimenti della dialettica cosmologica kantiana, e riservando non meno di Kant il movimento dialettico alla ragione, nel testo qui considerato Hegel per la prima volta intesse la trama della logica oggettiva.

In una lettera del 14 dicembre 1808 Hegel comunica a Nietham­mer di aver inserito nel proprio insegnamento per la classe superiore del Ginnasio « anche la logica trascendentale e quella soggettiva » 39. Di rincalzo, il rendiconto sull’insegnamento tenuto nella medesima classe durante l ’anno 1808-9 ci informa che vi si trattò diffusa- mente della logica, « compresa la c.d. ontologia o anche logica tra­scendentale ». Il rendiconto, poi, dell’insegnamento dell’anno suc­cessivo nella stessa classe fa menzione della « logica oggettiva o trascendentale » 40. Dunque la logica trascendentale viene esplicita­mente riportata alla logica oggettiva, concepita secondo la curvatura ontologica sopra rilevata; ne danno motivo la sua preminente strut­tura kantiana di dottrina delle categorie e il risolversi, nel testo he­geliano poc’anzi esaminato e altrettanto nei successivi, delle catego­rie in determinazioni logiche con significato ontologico. Tutto ciò è poi messo a fuoco nel Frivatgutachten, nel parere riservato sul proprio insegnamento, che Hegel invia a Niethammer il 23 ottobre 1812, otto mesi dopo la stesura della Prefazione alla Scienza della logica41. Qui noi leggiamo: «Secondo la mia concezione della lo­gica, la metafisica cade senz’altro e interamente dentro di essa. In proposito posso citare Kant come precursore e autorità. La sua cri­tica riduce la metafisica precedente a una considerazione dell’intel- letto e della ragione. La logica può dunque, in senso kantiano, esser presa in modo che, oltre al comune contenuto della c.d. logica ge­nerale [concetti, giudizi e sillogismi], venga unita e premessa la logica da lui chiamata trascendentale, cioè, secondo il contenuto, la dottrina delle categorie, i concetti di riflessione, e poi i concetti razionali — Analitica e Dialettica ». Quindi il testo precisa che

39 Briefe, cit., Bd. I, p. 272.40 N S, pp. 3 e risp. 4.41 N S, p. 438; trad. it. cit., p. 252.

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« queste forme oggettive del pensare sono un contenuto indipen­dente, la parte de categoriis dell’Organon aristotelico, — vale a dire l’ontologia di una volta ». Attraverso queste indicazioni prendono luce taluni spunti della Scienza della logica: « invero la filosofia cri­tica aveva trasformato la metafisica nella logica »; « la logica ogget­tiva corrisponderebbe in parte, secondo il suo contenuto, a ciò che in Kant è la logica trascendentale » 42. Soprattutto, risalta la spe­cifica collocazione della logica trascendentale kantiana nel quadro della logica speculativa di Hegel, il suo rifluire, « secondo il conte­nuto », in quella parte ‘ ontologica ’ di essa che vuol essere la logica oggettiva. È tuttavia l ’integrazione dei contenuti categoriali dell’A- nalitica mediante l’antinomica della ragion pura la chiave di questo recupero della logica trascendentale.

9. L ’inglobamento della logica trascendentale nella logica ogget­tiva e la centralità dell’antinomica della ragion pura sottendono le discussioni della Scienza della logica in merito al pensiero kantiano. Della logica trascendentale Hegel si occupa espressamente nell’in­troduzione generale dell’opera, subito dopo avere distinto la logica in oggettiva e soggettiva. Qui egli accenna alla parziale corrispon­denza fra logica oggettiva e logica trascendentale, poi di quest’ulti- ma dice: Kant la distingue dalla logica generale (cioè dalla logica formale), « in modo che essa a) consideri i concetti che si riferiscono a priori ad oggetti e così non astragga da ogni contenuto della cono­scenza oggettiva, ossia in modo che contenga le regole del pensiero puro di un oggetto e b) insieme risalga all’origine della nostra cono­scenza, in quanto non possa venire attribuita agli oggetti » 43. È una

42 Wiss. d. Log., Introd., ed. 1812, pp. 22 e risp. 31 nel cit. voi. 11 dei Gesammelte Werke-, ed. 1831, pp. 32 e 44-45 nel vol. I dell’ediz. Lasson (trad. it. cit., pp. 32 e 45).

43 Wiss. d. Log., ed. Lasson cit., I , p. 45 (trad. it., p. 45). Nel seguito citerò la Scienza della logica con le sigle Log/1812 per la I ediz. della Dot­trina dell’essere, Log/1831 per la sua I I ediz., W L per la Dottrina del con­cetto. Le citazioni dalla Dottrina dell’essere 1812 si riferiranno al cit. voi. 11 dei Gesammelte Werke hegeliani. Quelle dalla Dottrina dell’essere 1831 e dalla Dottrina del concetto faranno riferimento all’ediz. Lasson (voll. I e

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caratterizzazione attinta direttamente alla Critica della ragion pura44 ; nondimeno nel dettato kantiano Hegel discerne due eterogenei compiti, da una parte la considerazione dei puri concetti, in quanto tali, dall’altra quella della loro origine a priori. La loro distinzione dà adito ad un rilievo apparentemente decisivo: nella Critica della ragion pura, e in particolare nell’Analitica trascendentale, Kant attende al secondo compito, ma tralascia completamente il primo. Suo proposito fondamentale — Hegel osserva — è cioè di « rivendi­care le categorie all’autocoscienza, [intesa] come l’io soggettivo »; esula invece dalle sue cure l’indagare ciò che le categorie e in genere le Denkbestimmungen, le determinazioni di pensiero, siano « in loro stesse, senza l’astratta e per tutte eguale relazione all’io », l ’esaminare « la loro determinatezza l ’una rispetto all’altra e la loro reciproca relazione ». Interessata unicamente al « trascendentale delle determinazioni di pensiero », la filosofia critica « le lascia sus­sistere per il soggetto quali valevano per l’oggetto », senza consi­derarle « secondo il loro particolare contenuto » e senza « dedurle in se stesse » 45. Per Hegel il contraccolpo è gravoso: attestata sul­l ’opposizione fra l ’a priori e l ’a posteriori, la logica kantiana cade « dentro la coscienza e la sua opposizione »; a motivo della unilate­rale curvatura del suo impianto trascendentale, essa rimane quindi avvinta ad uno status ancora fenomenologico e non diventa né po­trebbe diventare speculativa.

risp. II ) e saranno accompagnate dall’indicazione delle pagine della trad. it. cit. Il passo sopra riportato, più netto nella I I edizione che nella I, appartiene al testo del 1831. Fra gli studi dedicati al rapporto Hegel-Kant nella Scienza della logica cfr., oltre che la vasta letteratura generale sulla logica di Hegel, spec. E . F l e i s c h m a n n , Hegels Umgestaltung der Kantischen Logik, « Hegel- Studien », Bd. 3, 1965, pp. 181-207; V . V i t i e l l o , L a ‘ posizione’ di Kant nella logica hegeliana, « I l Pensiero», 1973 (X V III), η. 1, pp. 18-53.

44 Cfr. Kritik der reinen Vernunft, Akad. Ausg., Bd. I I I , pp. 77-78; trad. it. di G . Gentile e G . Lombardo-Radice riv. da V. Mathieu, « Universale Laterza », Bari 1966, vol. I , p. 97.

45 Log/1812, p. 31, e corrisp. Log/1831, pp. 45-46 (trad. it., 45-47), doveil testo del 1812 è peraltro integrato da un’importante aggiunta. Si veda an­che, per una chiara riformulazione della suddetta critica alla logica trascenden­tale, il § 41 dell’Enciclopedia 1830.

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Il giudizio è fortemente limitativo e poco si accorda coi risultati della Propedeutica filosofica sopra veduti. Kant viene accusato di non avere adempiuto, nell’Analitica dei concetti, a compiti da lui stesso posti. Dal canto suo Hegel avoca alla propria logica oggettiva il rango di « vera critica » delle determinazioni di pensiero e in particolare delle categorie, considerate per se stesse e secondo il loro contenuto; assume dunque su di sé il primo e prioritario ufficio di cui Kant investirebbe la logica trascendentale. La Dottrina del­l’essere e quella dell’essenza lo assolvono lumeggiando l’intrinseca antinomicità dei concetti via via insorgenti e il loro trapassare in altri concetti, secondo il ritmo dialettico dell’Aufheben. Ogni volta il momento cruciale risiede nell’emergere di antinomie inerenti ai concetti esaminati e nel ribaltarsi di questi in concetti opposti. Ma la Scienza della logica, ancora nella sua parte introduttiva, nonostantei rilievi critici or ora segnalati, dà atto a Kant di avere colto « il necessario contrasto delle determinazioni dell’intelletto con se stesse » e di avere pertanto elevato la ragione « nel più alto spirito della filosofia moderna » 46. È un apprezzamento che, mentre sem­bra urtare contro le obiezioni riferite, in realtà ci sposta dall’Ana- litica alla Dialettica trascendentale: non meno che nella Propedeu­tica filosofica, è Pantinomica della ragion pura quella che, benché estranea ai procedimenti dell'Analitica, ora viene in primo piano.

Nei riguardi dell’antinomica kantiana Hegel avanza forti riserve sia nella Scienza della logica sia nell 'Enciclopedia. Ne contesta la delimitazione alle quattro antinomie cosmologiche, mentre a suo vedere è antinomico ogni concetto. A Kant, inoltre, rimprovera di non avere colto le antinomie nei concetti come tali, ma solamente nella loro applicazione all’incondizionato e mescolati con elementi rappresentativi. Soprattutto, respinge la riduzione kantiana delle antinomie ad un soggettivo dissidio della ragione con se stessa e per contro sostiene la loro oggettiva inerenza alle cose47. Ciò nono­

46 L o g / n n , p. 17; L o g /1831, p. 26 (trad. it., p. 27).47 Per queste critiche alFantinomica kantiana si veda spec. Log/1812,

pp. 114-15 e corrisp. Log/1831, pp. 183-85 (trad. it., 202-4); Enc. 1817, § 32

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stante, egli fa onore a Kant per avere « riconosciuto nuovamente la dialettica come necessaria alla ragione », dopo la sua post-plato­nica, millenaria riduzione ad arte confutatoria e il suo generale de­prezzamento nella « metafisica dei moderni » 4S. In particolare, delle antinomie cosmologiche la Scienza della logica dice che proprio esse « hanno contribuito a suscitare la convinzione della nullità delle ca­tegorie della finitezza dal lato del contenuto » e che, avendo con ciò provocato il tracollo della metafisica precedente, « possono con­siderarsi come un passaggio capitale alla nuova filosofia » 49. Di rin­calzo ΓEnciclopedia indica nell’antinomica kantiana « uno dei più importanti e profondi progressi » della filosofia moderna, essendone stato messo in discussione, « almeno secondo alcune determinazio-

Anm., e spec. Ette. 1830, § 46 Anm.\ § 48 Anm. (I I parte) e Zus.; § 60 Zus. Quanto alla riduzione kantiana delle antinomie ad un subiettivo dis­sidio della ragione con se stessa, è interessante notare che Hegel la imputa ad una « tenerezza » per le cose del mondo, alla quale egli oppone la dura og­gettività del negativo (cfr. L o g /1812, p. 150; Log/1831, p. 236, trad. it., p. 260; e spec. Eric. 1830, § 48 Anm.-, Vorles. ü. die Gesch. d. Philos., voi. cit., p. 583; trad. it. cit., pp. 312-13). L a discussione specifica delle singole antinomie kantiane sta nei seguenti luoghi: L o g /1812, pp. 115-20, e corrisp. L o g /1831, pp. 185-93, trad. it., 204-13 ( I I antinomia)·, L o g /1812, pp. 147-50, e corrisp. Log/1831, pp. 231-36, trad. it., 256-60 (I antinomia)·, W L, pp. 387- 89, trad. it., 837-39 ( I I I antinomia). La IV antinomia non è invece trattata. Sull’antinomica kantiana dal punto di vista di Hegel cfr. F. Bosio , Le anti­nomie kantiane della totalità cosmologica e la loro critica in Hegel, « I l Pen­siero », 1964 (XI), n. 1-3, pp. 39-104; G . M a l u s c h k e , Kritik u. absolue Me­thode ecc., cit., pp. 126 ss.; si veda inoltre il saggio, alquanto polemico verso Hegel, di M. G u e r o u l t su Le jugemente de Hegel sur Γantithétique de la raison pure, «R ev u e de Métaphysique et de M orale», 1931 (X XXV III), pp. 413-39, poi in AA.VV., Etudes sur Hegel, Paris 1931, pp. 137-63.

48 Per questo apprezzamento di Kant cfr. in particolare Log/1812, pp. 26- 27, e corrisp. Log/1831, p. 38 (trad. it., 38-39); WL, pp. 491-93, trad. it., 943-45 (dove compare anche il cenno alla « metafisica dei moderni »); Enc. 1817, § 32 Anm. ( I I parte); Enc. 1830, § 48 Anm. (I parte).

49 Log/1812, p. 114, e corrisp. Log/1831, p. 183 (trad. it., p. 202). Cfr. anche W L, p. 493 (trad. it., 945): Kant ha dato « l a spinta alla restaurazione della logica e della dialettica nel senso della considerazione delle determina­zioni di pensiero in sé e per sé ».

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ni », « il contenuto delle categorie »: « è il contenuto — leggiamo nel testo — sono le categorie per se stesse, ciò che [presso Kant] ingenera la contraddizione » w. L ’importanza attribuita a Kant già in Fede e sapere per avere lumeggiato la finitezza dei concetti intel­lettivi è così ribadita; ma ora essa viene riaffermata non tanto a motivo della fenomenicità del loro campo di applicazione, quanto in forza delle contraddizioni che Kant stesso, entro la sfera della Dialettica trascendentale, mostra insite nel loro contenuto. Al livello della ragion pura, considerata nel suo specifico significato kantiano di facoltà metafisica, ad avviso di Hegel si dissolve l ’intellettuali­stico isolamento dei concetti categoriali e germinano le loro dialet­tiche connessioni.

La kantiana impossibilità della metafisica come scienza diviene allora premessa per identificare l ’ambito di attività della ragione col dominio categoriale dell’intelletto. Nella metafisica che Kant respin­ge, d ’altronde, Hegel scorge una deteriore espressione moderna del pensare metafisico, inficiata da una mescolanza delle pure forme di pensiero con « sostrati » (anima, mondo e Dio) attinti alla rap­presentazione 51 : è l’espressione codificatane da Wolff, in ciò erede

50 Ette. 1830, § 46 Anm., e risp. § 48 Antn. Questi riferimenti alle cate­gorie, piuttosto che alle idee trascendentali (e segnatamente all’idea cosmoio gica), discutendo delle antinomie kantiane ci rimandano, in generale, alle premesse sulle quali Kant Im posta la sua critica della cosmologia razionale. « È soltanto l’intelletto — egli avverte — ciò da cui possono scaturire con­cetti puri e trascendentali » ; la ragione, invece, « propriamente non produce nessun concetto, ma in ogni caso libera solamente il concetto dell’intelletto dalle inevitabili limitazioni di una possibile esperienza e dunque cerca di estenderlo oltre i limiti deU’empirico [...] » (Krit. d. r. Vern., ed. cit., p. 283; cfr. anche p. 253; trad. it. cit., I I , pp. 324 e risp. 307). In particolare, tali riferimenti sono motivati dai contenuti delle kantiane antinomie cosmologiche. Basti accennare alla seconda antinomia. Hegel la considera nel quadro cate­goriale della quantità e la fa risalire ad un’irrisolta opposizione fra i concetti di continuità e di discrezione: a suo vedere, l ’antinomia investe precisamente la loro opposizione e si risolve traducendo entrambi i concetti in complemen­tari momenti di quel loro intero che è la quantità (cfr. L o g /1812, pp. 115 e spec. 119, e corrisp. Log/1831, pp. 185 e 191, trad. it., 204 e 210-11).

51 Cfr. L o g /1812, p. 32; Log/1831, pp. 46-47 (trad. it„ 47-48). N ell’edi-

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della sistemazione cartesiana della filosofia secondo lo schema uomo- Dio-mondo. La Dialettica trascendentale ha buon gioco nel far vedere che la ragion pura non sopporta se non illusivamente mesco­lanze di tal fatta. Ma dalla recente metafisica wolffiana Hegel distin­gue « la più antica metafisica », platonico-aristotelica, come quella che a proprio fondamento poneva la coincidenza fra le determina­zioni categoriali e l ’essenza delle cose (il fondamento stesso della logica speculativa) e che pertanto accentrava i compiti filosofici in un’analisi dei concetti carica di significato ontologico52. Nei con­fronti della classica ontologia greca la Dialettica trascendentale sem­bra avere minor presa; anzi essa, scavando un solco fra i concetti

zione 1831 questi rilievi critici sono diretti, specificamente, contro Γ « ultima forma » della metafisica, cioè contro la sua configurazione wolffiana. Nei Pre­liminari della Logica dell’Enciclopedia 1830 (ed anche, benché in modo velato, déll’Enciclopedia 1817) ricompaiono le specifiche obiezioni formulate nei passi citati della Scienza della logica. In merito allo schema qui sotto accennato è da ricordare il noto libro di K . L o w i t h su Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, trad. it., Napoli, Morano, 1966.

52 Cfr. Log/1812, p. 17, e corrisp. L o g /1831, p. 25 (trad. it., 26). L ’In- troduzione generale della Scienza della logica anticipa, sia pure con minore nettezza, la linea di sviluppo della filosofia occidentale che sarà tracciata nei Preliminari della Logica delYEnciclopedia, specialmente nelle edizioni del 1827 e 1830. Esaminando le « posizioni del pensiero rispetto all’oggettività », come è noto, qui Hegel si riferisce dapprima alla metafisica, poi aU’empirismo moderno e alla filosofia critica, infine allo jacobiano sapere immediato. A fon­damento del pensiero metafisico egli trova 1’« ingenua credenza » in un indi­viso coincidere delle determinazioni di pensiero con le determinazioni essen­ziali delle cose e commenta che, per questa ragione, la metafisica può tanto costituire un « autentico filosofare speculativo » (e per lui è il caso di lar­ghe parti del pensiero di Platone e ancor più di Aristotele), quanto « in­dugiare in determinazioni di pensiero finite, cioè nell’opposizione ancora ir­risolta » ; essa, comunque, « stava più in alto della posteriore filosofia cri­tica », i cui risultati ne sono « il contrario » (§§ 27-28, e Zus. del § 28; cfr. §§ 5, 7 e 21). La kantiana rinuncia della ragione a se stessa prende luce da questa prospettiva, entro la quale la filosofia critica risulta peraltro un necessario passaggio verso la restaurazione dialettica di quel fondamento, a partire dall’opposizione fra le determinazioni logiche e le determinazioni delle cose.

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e l’in-sé, non solo vanifica la portata ontologica dell’indagine cate­goriale, ma addirittura comporta — dice il testo hegeliano — una « rinuncia della ragione a se stessa » e il dilagare dell’intelletto. He­gel, tuttavia, proprio in questa « perdita e regresso » vede annidata la matrice dell’innalzamento della ragione alla più alta spiritualità moderna. Invero la Dialettica trascendentale, mostrando che è nella natura della ragione di impigliarsi in antinomie e contraddizioni quando si volge ad un in-sé disgiunto dai concetti, già indirizza la filosofia « verso il movimento dialettico del pensare » e comincia ad emanciparla dagli irretimenti dell’intelletto53. Quindi la kantiana rinuncia della ragione a se medesima si capovolge in un’apertura al pensare speculativo e ad una considerazione delle cose imperniata sul significato « vero e positivo » delle antinomie e della dialettica, cioè sul riconoscimento che « ogni realtà effettuale (alles Wirkli­ches) contiene in sé determinazioni opposte » e non consiste se non nella loro « concreta unità ». L ’innalzamento della filosofia alla ori­ginaria ed originativa identità delle opposizioni, da Hegel recla­mato a Jena in polemica anche con gli esiti metafilosofici di Kant, ora trova nella logica trascendentale kantiana un preludio, epocal­mente necessario.

1 0 . Già Fede e sapere, del resto, scopriva nell’Analitica trascen­dentale un preludio di tal natura, allorché interpretava l ’unità origi­nariamente sintetica delPap'percezione come l’aprioristico scindersi (lo Ur-teil) dell’« identità » dell’autocoscienza in io e mondo, soggetto e oggetto. Nella Scienza della logica questo cruciale tema ricompare. Alla radice della kantiana sintesi a priori e dei giudizi sintetici a priori vi si reperisce il « superiore principio » speculativo della « dualità nell’unità », il concetto di « un identico che è in se stesso un’indivisa distinzione»54; e sul finire dell’opera, nel trattare del­

53 L o g /1812, p. 17, e corrisp. L o g /1831, p. 26 (trad. it., 27). Cfr. Enc. 1830, § 48 Zus.

54 Log/1831, p. 204; trad. it., p. 225 (questo riferimento a Kant manca nell’edizione 1812). Cfr. inoltre ib., pp. 83-84, trad. it., 88 (manca nella I edizione).

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l ’idea del conoscere, si dà atto a Kant di avere colto proprio in tale « identico » la prima sorgente della conoscenza 5S. Ma dell’apperce­zione trascendentale Hegel ora discute espressamente in una luce diversa, là dove — in apertura della Dottrina del concetto — prov­vede ad impostare la tematica della logica soggettiva. Ed è qui che il « principio trascendentale » della deduzione kantiana delle catego­rie, valutato già nella Differenza secondo un’ottica speculativa, ri­vela dal punto di vista hegeliano la sua intera pregnanza.

È noto che nello Hegel maturo il concetto (il tema della logica soggettiva) emerge quale « verità » dell’essere e dell’essenza e in generale come il fondamento ove i contenuti della logica oggettiva rifluiscono, dialetticamente negati ed insieme conservati. Hegel dice che perciò la logica oggettiva costituisce 1’« esposizione genetica » del concetto, in quanto tale, ovvero ne presenta il divenire » 66. Essa ne espone la genesi dialettica mostrando, complessivamente, il risolversi dei molteplici concetti via via insorgenti nel concetto ed esibendo quest’ultimo come la loro unità negativa. Ha luogo, così, quel togliersi della molteplicità delle categorie nella pura unità della categoria che la Fenomenologia dello spirito preannunciava e che la Propedeutica filosofica, come abbiamo notato, già poneva a tema. Secondo questa angolatura, definita dalle speciali relazioni fra logica oggettiva e logica soggettiva, Hegel nella Scienza della logica riesamina, dopo Fede e sapere, l’appercezione trascendentale e vi ri­conosce il più vicino preannuncio del concetto, qual è da lui teo­rizzato.

Nell’appercezione trascendentale, riconsiderata secondo tale an­golatura, noi siamo condotti a vedere lo sbocco di un processo re­gressivo che, investendo le categorie, le riporta dialetticamente al

55 WL, p. 445; trad. it., 895-96. Hegel però soggiunge che, limitandosi a mutuare dalla logica formale i concetti categoriali e ad assumerli « come dati », Kant ha eluso la loro autentica deduzione, cioè « l ’esposizione del passaggio di quella semplice unità dell’autocoscienza in queste sue determinazioni e di­stinzioni » e si è così risparmiato 1’« avanzare veramente sintetico del con­cetto che produce se stesso ».

56 Cfr. WL, pp. 213-14 (trad. it., 651-52).

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loro principio: è YAufhebung delle categorie kantiane nella pura unità trascendentale della categoria. La disamina dell’appercezione nelle pagine introduttive della Dottrina del concetto muove da que­sto implicito risultato della logica oggettiva e finisce con l’allineare l ’appercezione stessa con il concetto nel senso di Hegel. Ricompare infatti la distinzione, tracciata in Fede e sapere, fra l ’io dell’/cA denke (« attività rappresentativa e soggetto », lo qualificava lo scritto del 1802) e l ’unità originariamente sintetica dell’appercezio­ne. Ma ora l ’asse interpretativo si sposta dallo Schematismo trascen- tale, con tanta energia valorizzato in Fede e sapere, all’Analitica dei concetti e precisamente alla deduzione trascendentale delle catego­rie. Hegel innanzitutto rileva come Kant abbia qui superato l ’estrin­seca relazione psicologistica (nel senso della psicologia delle ‘facol­tà ’) dei concetti all’io, modellata sul rapporto delle proprietà di una cosa alla cosa, e sia giunto a identificare l ’unità costitutiva dell’« es­senza » del concetto con l’unità dell’appercezione trascendentale. Il concetto — egli dichiara — è tale unità, l ’unità dell’autocoscien­za, esso è l ’io in quanto pura coscienza di sé; ovvero, secondo un’altra indicazione, l’io non ha concetti ed invece è « il puro con­cetto stesso, che è arrivato come concetto all’esserci » 57. In base a queste premesse, dirette a svincolare l’appercezione da ogni inter­ferenza psicologica ed anche fenomenologica58, Hegel dà poi conto

57 WL, p. 220 (trad. it., 658). Con la distinzione, sopra richiamata, fra l ’io delYlch denke e l ’unità sintetica originaria dell’appercezione si connette anche il rifiuto hegeliano di identificare con l ’io il « cominciamento » della scienza (cfr. L o g ! 1812, pp. 38-40, e corrisp. Log/1831, pp. 60-63, trad. it., 62-65). In proposito si veda B. D e G io v a n n i, Hegel e il tempo storico della società borghese, Bari, D e Donato, 1970, pp. 65 ss.

58 Con questo inciso riassumo una delle principali critiche che Hegel ri­volge a Kant nelle pagine introduttive della Dottrina del concetto. Si tratta nuovamente dei rapporti fra concetto e intuizione, dopo che Fede e sapere — considerandoli alla luce dello Schematismo trascendentale e scorgendovi al­l ’opera, sotto le vesti deH’immaginazione produttiva, l ’unità originariamente sintetica dell’appercezione — vi aveva recepito l ’identità razionale di termini eterogenei e il superamento della loro opposizione (cfr. sopra, § 3). Ora i medesimi rapporti vengono riconsiderati a partire dall’Estetica trascendentale,

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della peculiare efficienza che a suo avviso le inerisce. Si richiama, in particolare, al seguente passo del § 17 dell’Analitica: « Oggetto è ciò nel cui concetto il molteplice di una data intuizione è unificato. Ma ogni unificazione delle rappresentazioni esige l ’unità della co­scienza nella sintesi di esse. Conseguentemente è l’unità della co­scienza ciò che, solo, costituisce il rapporto delle rappresentazioni a un oggetto e quindi la loro valità oggettiva, ciò per cui esse di­ventano conoscenze e su cui dunque riposa perfino la possibilità del­l’intelletto » 59. Hegel riporta quasi letteralmente questo brano, poi interpreta: « è l ’unità del concetto ciò per cui qualcosa non è sem­plice determinazione sensibile, intuizione o anche semplice rappre­sentazione, ma oggetto », e « tale oggettiva unità è l ’unità dell’io con se stesso »; pertanto l’oggetto ha la sua oggettività nel concetto, « e questo è l ’unità dell’autocoscienza, in cui esso [ l ’oggetto] è stato accolto » M. E più avanti egli nota che « qui è dunque pronunciata

e ciò che fa questione è la kantiana vuotezza dei concetti come tali. Hegel la spiega col fatto che, anteponendo al concetto i « gradi » della sensibilità e dell’intuizione, Kant ricorre ad elementi fenomenologici ed anche psicologici (nel senso hegeliano della psicologia), esulanti dalla logica, e ne fa condizioni permanenti del concetto. L ’obiezione suona: anziché esser condizionato da quei gradi, il concetto « sorge dalla loro dialettica e nullità come loro fonda­mento » ed in lui « la loro realtà si toglie », e così pure si toglie « la par­venza che essi avevano di [essere] il reale condizionante ». Poiché muove da presupposizioni fenomenologiche o psicologiche, e d ’altronde non coglie que­sto peculiare sorgere, Kant non giunge a considerare il concetto per se stesso, come tale, ma soltanto come « atto dell’intelletto autocosciente », dell’« intel­letto soggettivo », cioè quale attività subiettiva benché a priori dell’autoco­scienza. L o status fenomenologico della logica trascendentale gli impedisce di elevare l ’appercezione pura ad autocoscienza pienamente razionale. Cfr. WL, pp. 223-24, 226; trad. it., 661-62, 664.

59 Krit. d. r. Vern., ed. cit., p. I l i ; trad. it. cit., I, pp. 135-36.60 W L, pp. 221-22; trad. it., 659-60. Sul diverso significato che l ’apper­

cezione trascendentale assume nella Scienza della logica rispetto a Fede e sapere cfr. K . D ü s in g , Das Problem ecc., cit., pp. 233 ss., dove l’interpreta­zione di Hegel è anche vagliata alla luce della distinzione kantiana fra unità sintetica e unità analitica dell’appercezione stessa (cfr. Krit. d. r. Vern., § 16). Per questa basilare distinzione si consenta di rinviare anche al mio volume La logica trascendentale kantiana, Milano-Messina, Principato, 1950, pp. 183 ss.

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determinatamente Yoggettività del pensare, un’identità del concetto e della cosa [...] » 61. Attraverso questa lettura del testo kantiano, accentrata sull’appercezione trascendentale, ci ritroviamo nel fonda­mento della logica speculativa, l’identità appunto del concetto e della cosa, delle determinazioni logiche e di quelle ontologiche; appare anzi ristabilito il fondamento della « più antica » metafisica.

Nel medesimo contesto della Scienza della logica il passo di Kant sopra riferito è peraltro accompagnato da una parafrasi di stretta marca hegeliana. Hegel spiega che il concepire (Begreifen) un oggetto consiste dunque nell’attività per cui noi lo penetriamo col pensiero e, trasponendolo nella forma del concetto, ce ne ap­propriamo. Cioè il pensare ‘ toglie ’ l’immediatezza con cui l ’oggetto ci viene innanzi nell’intuizione e nella rappresentazione e trasforma in un « esser posto » quell’« esser in sé e per sé » che dapprima esso mostra di avere nell’intuire e rappresentare. L ’oggettività del­l’oggetto — che Kant radica nell’appercezione trascendentale e in cui ripone la validità oggettiva della conoscenza — nella parafrasi di Hegel diventa l’esser-in-sé-e-per-sé dell 'oggetto, inteso a sua volta come il suo esser-posto dal concetto. La problematica del concetto quindi esce dalla sfera gnoseologico-trascendentale; ed ora vengono in questione non più le condizioni a priori concettuali di possibilità della conoscenza ed i loro limiti, bensì i modi secondo cui il con­cetto pone l’oggetto. In termini hegeliani si tratterà di vedere come esso « mediante la dialettica fondata in lui stesso passa alla realtà, così da generarla a partire da sé » 62 : è il problema della sua « rea­lizzazione ». Nel corso della logica soggettiva questa incontra il suo punto di svolta là dove, al termine della dialettica concetto-giudizio- sillogismo, compare 1’« oggettività ». Dell’oggettività Hegel discerne però due significati: quello dello « star di contro al concetto per sé stante » e quello di « ciò che è in sé e per sé » 63 L ’oggettività conse­guita in questo punto della logica detiene il secondo significato e

« W L, p. 228; trad. it., 667.62 WL, pp. 229-30; trad. it., 667-68.63 WL, p. 258; trad. it., 806.

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consiste nell’esser-in-sé-e-per-sé del concetto, che allora comincia a fungere in dimensione oggettiva e si rivela il costituente primario del « mondo » oggettivo. Il primo significato caratterizza invece la kantiana cosa in sé, nella misura in cui essa sia alcunché di contrap­posto al concetto ed al conoscere. Tuttavia quest’ultimo è un signifi­cato non solo reso problematico e invalidato dalla Fenomenologia, ma addirittura in contrasto con la funzione oggettivante dell’apper­cezione trascendentale, interpretata secondo l’ottica della Scienza della logica. Hegel ha quindi buon gioco nel dichiarare incompatibile con l’appercezione stessa la cosa in sé e la concomitante limitazione kantiana dell’« unità dell’oggetto e del concetto » al fenomeno. Posta, come Kant vuole, la verità nella congruenza del conoscere col suo oggetto, non solo il fenomeno ma altrettanto il concetto e l ’appercezione pura risultano paradossalmente non veriM. Il requi­sito dell’Analitica trascendentale di essere, come Kant esige, la logica della verità ne esce a sua volta compromesso.

Questa paradossale implicazione è certamente legata alla coesi­stenza in Kant di entrambi quei significati, benché il radicarsi del­l’oggetto nelle funzioni categoriali dell’appercezione comporti l’ab­bandono di un’oggettività per sé stante di contro al conoscere ed al concetto. Nondimeno il brano dell’Analitica dianzi riportato contie­ne anche una diversa risonanza. Compreso secondo la lettura di Hegel, esso indica nell’attività oggettivante dell’appercezione non altro che la realizzazione del concetto, a partire da sé ed in forza di sé, conforme alla « spontaneità » kantianamente costitutiva del­l ’appercezione stessa. Hegel direbbe che in sede kantiana la realiz­zazione del concetto rimane peraltro difettosa, in mancanza di un’in­terna dialettica che ne alimenti la spontaneità. Ma quando gli spunti di un movimento dialettico insiti nella Dialettica trascendentale siano ripresi e fatti valere sul terreno dell’Analitica, allora la logica

64 Cfr. Krit. d. r. Vern., ed. cit., p. 79 (trad. it. cit., I , p. 98), dove Kant dichiara di porre a base la definizione nominale della verità come « la con­cordanza della conoscenza col suo oggetto ». Lo spunto critico di Hegel sta in W L, pp. 232-33 (trad. it., 670-71); ma per il concetto hegeliano di verità si veda spec. Enc. 1830, § 24 Zus.

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trascendentale, nonostante le carenze che Hegel ne denuncia, viene a collocarsi sulla via che immette nella logica speculativa. È una via che porta anche a colmare lo stacco tra fenomeni e cose in sé e tra i due corrispondenti significati dell’oggettività (e del « mon­do » oggettivo, tanto naturale quanto spirituale). Nel concludere la discussione su Kant all’inizio della logica soggettiva Hegel, del resto, rimanda proprio a questo che è un cruciale risultato della logica oggettiva. Leggiamo che « mediante il concetto l’oggetto è ricondotto nella sua non accidentale essenzialità » e che questa «entra nell’apparimento (Erscheinung), [e] appunto perciò 1 'Er­scheinung non è semplicemente un che privo di essenza ed è invece manifestazione (Manifestation) dell’essenza » 65. Il divario tra il fenomeno e l’in-sé si colma. Hegel soggiunge che « la manifesta­zione [dell’essenza] divenuta completamente libera è però il con­cetto », nel quale pertanto il fenomeno e l’in-sé, così unificati, ri­fluiscono. La spontaneità del pensare allora cessa di scontrarsi con la kantiana vuotezza dei concetti e diviene titolo di un’originario esplicarsi della pura appercezione.

65 WL, p. 229; trad. it., 667.

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Valerio Verrà

IMMAGINAZIONE TRASCENDENTALE E INTELLETTO INTUITIVO

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L ’interpretazione hegeliana di K ant1 si sviluppa tra due grandi parametri che si possono sostanzialmente identificare nella ragione illuministica da un lato e nella ragione speculativa dall’altro. Più esattamente — e come del resto è ovvio all’interno di una con­cezione della storia della filosofia come quella hegeliana — tale interpretazione scorge in Kant l ’elaborazione sistematica e « meto­dica » della ragione illuministica, ma al tempo stesso vi ravvisa già fermenti e motivi del suo superamento in direzione della ragione speculativa. Nell’ambito di tale sviluppo ci sembra poi occupi un posto del tutto particolare un’immagine del pensiero kantiano non riducibile alla prospettiva della ragione illuministica né ancora coincidente con lo sviluppo pieno, consapevole ed esplicito della ragione speculativa. È quell’immagine che si staglia soprattutto in Fede e sapere2 e che attraverso l ’identificazione dell’immaginazione

1 Cfr. in merito: S. V anni R ovighi, Hegel critico di Kant, in « Rivista di filosofia neoscolastica », 1950, pp. 289-312; J . H y p p o lite , La critique hé- gélienne de la réflexion kantienne, in « Kant-Studien », XLV, 1953-54, ora in: J . H y p p o lite , Figures de la pensée philosophique, 2 voli., Paris, Presses Uni- versitaires de France, 1971, vol. I, pp. 175-95; I. G o erlan d , Die Kantkritik des jungen Hegel, Frankfurt a. M., V . Klostermann, 1966; J . E . Sm ith , Hegel’s Critique of Kant, in « Review of Metaphysics », XXVI, 1973, pp. 438-60 e poi in Hegel and The History of Philosophy, a cura di J . J . O ’Malley- K . W. A lgozin -F . G . Weiss, The Hague, M. Nijhoff, 1974, pp. 109-128; inol­tre: Hegel. Bibliography - Bibliographie, a cura di K . Steinhauer, con indice analitico a cura di G . Hausen, München-New York-London-Paris, K . G . Saur, 1981, pp. 848-49.

2 L ’importanza particolare di questo scritto per l ’interpretazione di Kant, rispetto alle più tarde Lezioni sulla storia della filosofia è stata sottolineata da Jean Hyppolite che osserva: « È per esempio nell’articolo Fede e sapere che Hegel ci dà il suo punto di vista più profondo sul sistema kantiano, inteso come filosofia della riflessione, e non nelle ultime lezioni sulla storia della fi­losofia. In queste il suo pensiero si è un po’ sclerotizzato ed Hegel riassume troppo Kant in rapporto a se stesso e staccandolo dal contesto storico », art. cit., p. 176.

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trascendentale con l ’intelletto intuitivo (e viceversa) porta a sco­prire e evidenziare gli aspetti intrisecamente « organici » della razio­nalità e in base ad essi a rovesciare il senso o, meglio, l’andamento della deduzione trascendentale, sottoponendo a una critica radicale la forma in cui si presenta nel testo kantiano.

Per meglio individuare il profilo di tale immagine è essenziale ricordare anzitutto, sia pur per sommi capi, l ’interpretazione di Kant come esponente o, perfino, come culmine della ragione illu­ministica, interpretazione sviluppata soprattutto in Fede e sapere3 e nelle Lezioni sulla storia della filosofia, anche se non manca di operare e ripresentarsi nell’intero giudizio hegeliano su Kant. In Fede e sapere com’è noto, tanto Kant quanto Jacobi e Fichte, nono­stante che il loro pensiero non solo non si sia qualificato come tale, ma anzi si sia rivolto contro molti degli aspetti delPilluminismo, vengono riportati oggettivamente e speculativamente all’interno del­l’illuminismo, in base all’identificazione di illuminismo ed eudemo­nismo e viceversa. Una volta ammesso che l’illuminismo costituisce la conclusione di quella traiettoria che nell’età moderna porta la « bella soggettività » del protestantesimo a cercare la conciliazione nella realtà, e, ormai, nella realtà empirica, e quindi a trasformare la poesia del suo dolore nella prosa della soddisfazione per la finitezza e per la buona coscienza, diventa palese l ’identità tra illuminismo, eudemonismo e criticismo. Caposaldo del criticismo infatti è la riduzione della realtà conoscibile al fenomeno, per cui diventa impossibile superare la finitezza e l ’opposizione tra finito e infinito, mentre come unica autentica « oggettività » rimane la ragion pratica con il suo imperativo, il suo dover essere. Una ragion

3 Citeremo le opere hegeliane con le sigle G W o JA , seguite sempre dal numero romano per il volume e il numero arabo per la pagina, a seconda che si tratti dei Gesammelte Werke, edizione critica a cura della Rheinisch-West­fälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner, 1968 e seg., op­pure della Jubiläumsausgabe, Sämmtliche Werke a cura di H . Glöckner, 20 voll. Stuttgart, Frommann, 1927 e seg. Fede e sapere pertanto si trova in GW , IV , 315-414, ed è stato tradotto in italiano da R. Bodei nel volume·. G .W .F . H e­g e l , Primi scritti critici, Mursia, Milano 1971, insieme alla Differenza fra il sistema di Fichte e quello di Schelling del 1801.

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pratica, dunque, che, se rappresenta il lato « oggettivo » della sfera dell’eudemonismo e deU’illuminismo, non ne esce affatto perché si limita a contrapporre al finito il concetto puro come assoluta idealità e non sa trovare un’effettiva conciliazione tra di essi.

Questo schema sostanzialmente delineato in Fede e sapere pre­senta una maggiore ricchezza e ampiezza di respiro storico nelle Lezioni sulla storia della filosofia, dove torna l’inquadramento di Kant nell’età illuministica — ed anzi Kant viene presentato come il filosofo che ha dato l ’elaborazione più alta delPilluminismo sul piano teoretico — ma con espliciti riferimenti al pensiero di Rous­seau e alla situazione storica francese. Già in apertura della sezione concernente « la filosofia tedesca più recente » 4 si riscontra quello che diventerà poi un topos storiografico complessivo che attraverso la sinistra hegeliana e il marxismo avrà notevole fortuna e diffusione fino ai nostri giorni. Si tratta della ben nota tesi per cui in Francia l’affermazione della concretezza della ragione si sarebbe sviluppata sul terreno della realtà, sul piano dell’azione, mentre in Germania si sarebbe espressa sul piano del pensiero. Va però ricordato che in Hegel questa diagnosi non ha quei caratteri negativi che verrà poi ad assumere quando la rivoluzione e la prassi diventeranno criterio primario di valutazione e la teoreticità sarà intesa come un momento astratto, una sorta di corrispettivo della « miseria » poli­tica tedesca e della rivoluzione mancata. Per Hegel infatti l’illumi­nismo tedesco e la succesiva filosofia idealistica tedesca hanno assunto quella connotazione specificamente teoretica perché in Ger­mania la rivoluzione è stata anticipata dalla Riforma protestante o, meglio, la Riforma ha soddisfatto in anticipo gran parte di quelle esigenze di conciliazione tra spirito e realtà, tra religione e diritto, che in Francia sono state poi alla base della rivoluzione5.

4 JA , XIX, 551-610; le Lezioni sulla storia della filosofia sono state tra­dotte in italiano da E . Codignola e G . Sanna, in 3 voli., Firenze, La Nuova Italia, 1930-44.

5 Cfr. in merito anche quanto Hegel dice nelle Lezioni sulla filosofia della storia (G .W .F . H e g e l , Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, a cura di G . Lasson, Leipzig, Meiner, 19232, vol. IV , pp. 923-925, trad. it. a

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Per tornare comunque alle Lezioni sulla storia della filosofia Hegel riporta la filosofia di Kant, Fichte e Schelling a quella « gran­de epoca » della storia universale a cui hanno preso parte soltanto due popoli, quello tedesco e quello francese in quanto opposti o, anzi, proprio perché opposti, con la differenza che in Germania il principio della libertà si è affermato nel pensiero, nello spirito, nel concetto, mentre in Francia « ha infuriato nella realtà ». In questo quadro generale la posizione di Kant corrisponde, quale elaborazio­ne teoretica, all’affermazione di Rousseau per cui l ’assoluto va posto nella libertà, ed anche l ’elemento più speculativo dell’intero pensiero kantiano, cioè la nozione di sintesi a priori, non fa che esprimere questo principio: il pensiero è concreto6, è intrinseca­mente concreto, fondato in se stesso e perciò non richiede né con­

cura di G . Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1963, vol. IV , pp. 200-205).

6 Può essere interessante ricordare più ampiamente il senso specifico di questa nozione nella trattazione hegeliana della ragion pratica kantiana dove è detto: « La ragion pratica è subito intesa come concreta. L a punta estrema della ragion teoretica è l ’identità astratta, che può dare soltanto un canone, una regola per ordinamenti astratti. Soltanto la ragion pratica è legislatrice, concreta; la legge che la ragion pratica dà è la legge e tica» (JA , XIX, 591). Più avanti si ha un ulteriore chiarimento del significato di « concreto » all’in­terno della ragion pratica: « il primo momento della ragion pratica è il vo­lere libero per sé, che si determina; questo concreto è astratto. Il secondo eil terzo momento sono forme che rammentano il fatto che il volere è con­creto in un senso superiore. Io sono anche volontà particolare, come individuo particolare; il concreto consiste dunque nel fatto che la mia volontà partico­lare e la volontà generale sono identiche, ossia che sono un uomo morale. Il terzo momento è il sommo concreto, il concetto di libertà, tutti gli uomini come uomini liberi; la natura, il mondo deve essere in armonia con il con­cetto di libertà » (JA , XIX, 593). Il che, ovviamente, non significa affatto che Hegel limiti la presenza del « concreto » all’interno della sfera pratica in Kant; al contrario ne aveva già individuata e sottolineata la presenza determi­nante in sede teoretica alPinterno della nozione di sintesi a priori (JA , XIX, 558), e poco più avanti, esaminando la tematica della Critica del Giudizio, lo ritroverà come idea di unità degli opposti non concepita più come ulteriorità e dover essere, ma come presente nella bellezza e nella natura organica (JA , XIX, 596-97).

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sente legittimazione dal di fuori, è principio della propria libertà e della propria affermazione.

Venendo ora alle implicanze più specificamente filosofiche e metodologiche di questa connessione tra Kant e l ’illuminismo, va anzitutto sottolineato come per Hegel questo porti Kant a una trat­tazione rapsodica, psicologizzante, puramente « storica » 7 nel senso deteriore del termine, dei concetti filosofici e in particolare di quelle « facoltà » del soggetto a cui Kant riduce l ’intera razionalità. Una volta ammesso infatti che il finito costituisce il limite invalicabile del sapere e che la realtà conoscibile è semplicemente « fenomeno », criterio ultimo del sapere e dell’agire non può che essere l ’uomo nella sua finitezza e, al limite, nella sua articolazione psicologica in facoltà, impulsi e tendenze, per cui l’impianto critico non va molto oltre le prospettive empiristiche di un Locke o di uno Hume con conseguenze estremamente negative per i risultati stessi della critica. Basti ricordarne alcuni, come la pretesa di ricavare le cate­gorie da una tavola presupposta di giudizi, a sua volta assunta semplicemente dalla tradizione, o la riduzione delle antinomie a quattro coppie soltanto, mentre in effetti dovunque opera l’idea c’è antinomia. O basti pensare ancora al controsenso di voler commi­surare il problema del rapporto tra essere e pensiero, rispetto al­l’oggetto della teologia, ai limiti propri delle cose finite, come dimo­stra il ben noto esempio dei « cento talleri » nell’argomentazione kantiana volta a confutare la prova ontologica dell’esistenza di Dio.

Se tanto il metodo quanto la sostanza della critica kantiana ap­paiono dunque gravemente inficiati o, almeno, inceppati dalla con­cezione illuministica della ragione, di cui peraltro la critica è una sorta di radicalizzazione, non per questo però secondo Hegel, si possono sottovalutare gli spunti speculativi che affiorano nel pen­siero kantiano e per i quali, nonostante tutto, ha rappresentato una

7 Non solo nelle Lezioni sulla storia della filosofia (JA , XIX, 561, 574, 611), ma anche nell 'Enciclopedia viene indicato come difetto della filosofia kantiana il fatto di aver dato soltanto una « descrizione storica del pensiero e una semplice enumerazione dei momenti della coscienza », invece di coglierne l ’interna necessità (JA , V i l i , 161).

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vigorosa scossa rispetto alla « fiacchezza » dell’illuminismo tedesco precedente. Così merito di Kant è stato quello di cogliere la tripli­cità come forma interna e costitutiva del pensiero indicando nella terza categoria di ciascuna classe la sintesi delle due precedenti e mostrando quindi chiaramente la direzione in cui lo stesso pensiero critico andava puntando nel superamento di una logica puramente formale8. Altrettanto densa di significato speculativo la svolta im­pressa da Kant alla concezione della dialettica. Dopo secoli in cui era stata ridotta a un tipo di argomentazione più o meno efficace o corretto, a uno strumento più o meno duttile o limitato, Kant ne riscopre invece il legame intimo e necessario con la ragione e la sua funzione imprescindibile nel passaggio dal piano intellettivo a quello speculativo.

Ma dove per Hegel Kant si è più avvicinato allo speculativo è nella nozione di sintesi a priori come nucleo centrale del pensiero e del suo accordo intrinseco, profondo con la realtà e viceversa. È questo un tema che compare già negli scritti di Jena e che, com’è noto, trova ampio sviluppo nella grande Logica dove, introducendo alla logica del concetto9, Hegel afferma che appartiene alle pro­spettive più giuste della Critica della ragion pura l’aver riconosciuto che l’unità che costituisce l ’essenza del concetto è l ’unità sintetica originaria dell’appercezione come unità dell’io penso o dell’autoco- scienza. In questa nozione di sintesi a priori si ha uno dei principi più profondi per lo sviluppo speculativo, c’è l ’inizio per una vera comprensione della natura del concetto e si ha una nozione di pen­siero completamente opposta alla vuota identità o all’universalità astratta. Il che però non impedisce ad Hegel di sottolineare, anche qui, che in Kant questo nucleo speculativo non ha trovato adeguata formulazione e sviluppo poiché la sintesi appare piuttosto come l ’unificazione di termini presupposti che non un’autentica unità ori­ginaria, e quindi l’intero idealismo kantiano non esce dal piano pu­ramente psicologizzante e formale.

8 JA , XIX, 567.9 G W , X II, 22-27.

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Tra il piano puramente psicologizzante e formale e quello au­tenticamente dialettico e speculativo Hegel ha evidenziato però, soprattutto in Fede e sapere, un aspetto del pensiero kantiano il cui esito porterebbe a riconoscere il carattere intrinsecamente organico della razionalità nelle sue articolazioni o, se si preferisce, a cogliere la sintesi come principio di articolazione della razionalità in due momenti, sensibilità e intelletto non più presupposti come separati né contrapposti come ricettività e spontaneità; due momenti invece di cui si spiega la genesi e la funzione soltanto alPinterno di un processo che porta la razionalità attraverso il giudizio a realizzarsi come sillogismo. Ma questo implica un radicale rovesciamento della deduzione trascendentale che la riporti dal suo impianto ‘ meccani­co ’ al suo vero carattere ‘ organico ’ e, anzi, spieghi i motivi per cui la deduzione trascendentale ha potuto prendere l ’aspetto di una analisi di facoltà e di condizioni estrinseche del giudizio, invece di mostrarne la genesi dall’unità originaria della ragione. È quanto Hegel afferma piuttosto drasticamente dicendo che non si compren­de nulla affatto della deduzione trascendentale se non si impara a distinguere l ’attività sintetica a priori dalla nozione di un « Io penso » che si limiterebbe ad « accompagnare » 10 l’attività del pensiero nel giudizio e non si impara a riconoscere che l’immaginazione produt­tiva non è affatto un termine medio inserito tra un soggetto asso­luto esistente e un mondo assoluto esistente; al contrario l’immagi­nazione, come identità originaria « bilaterale » che da un lato di­venta soggetto in generale e dall’altro oggetto, non è altro che la ragione stessa, ma la ragione come si manifesta nella sfera della coscienza empirica 11.

Sciogliere l ’immaginazione produttiva da una prospettiva pura­mente psicologica di facoltà e riconoscerne il carattere autentica­mente originario implica però che si vada al di là della « superficia­lità » della deduzione trascendentale kantiana dove l ’identità ra­zionale originaria rispetto allo spazio e al tempo traluce « non là

10 È un ’espressione che Hegel qualifica come « barbara » nelle Lezioni sulla storia della filosofia (JA , XIX, 565).

» GW , IV , 329.

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dove dovrebbe essere, nella spiegazione trascendentale di queste forme, ma invece nel prosieguo, dove l ’unità sintetica originaria dell’appercezione compare per la prima volta nella deduzione delle categorie, e viene riconosciuta anche come principio della sintesi speciosa o delle forme delPintuizione, e spazio e tempo stessi ven­gono concepiti come unità sintetiche, e l ’immaginazione produttiva, spontaneità e attività sintetica assoluta, viene concepita come prin­cipio della sensibilità, che prima era stata caratterizzata soltanto come ricettività » 12. Detto in altri termini — e si sa che le critiche all’impianto esterno di un’argomentazione in questi casi comporta­no la revisione del suo stesso significato — la portata speculativa della sintesi va considerata già in sede di estetica trascendentale e non soltanto affrontata in sede di analitica trascendentale. Proprio perché la sintesi a priori è identità originaria di soggetto e predi­cato 13, l’uno come il particolare, l ’altro come l’universale, l’uno

12 GW , IV , 327.13 Questo è uno dei motivi dell’interpretazione di Kant in Fede e sapere

più discussi anche nella critica più recente. Così, pur concordando sostanzial­mente nel rilevare che l ’interpretazione hegeliana su questo punto va di gran lunga al di là dei termini effettivi del pensiero kantiano, ne danno una diversa valutazione storica Ingtraud Görland e Klaus Diising. Osserva infatti la Görland: « La distinzione tra la concezione kantiana del procedimento cono­scitivo e l ’interpretazione hegeliana si trova nella diversa definizione della sintesi — come funzione, come operazione delFintelletto rispetto al molteplice, e come sintesi dell’io e del molteplice, che si presenta come unità statica di specie diversa, come identità originaria di opposti, come identità indifferen­ziata dell’intuizione e come relativa identità dell’intelletto. Quest’interpreta­zione è condizionata dalla trasformazione fichtiana dell’appercezione trascen­dentale in conformità all’io assoluto come fonte delle opposizioni tra lo e Non-Io, nella cui relazione reciproca e unificazione consiste la conoscenza; questa trasformazione viene assunta come principio di interpretazione perché in essa si ritrova la struttura delPunità della vita, unità che così non è più limitata al campo della religione, ma deve rendere possibile un ampliamento del campo della filosofia stessa » ; in breve « quest’interpretazione di Kant presuppone una struttura di contrapposizione pura tra Io e molteplice che, come tale, in Kant non c ’è e che risale a Fichte » (I. G o e r l a n d , Die Kant- kritik des jungen Hegel, Frankfurt a. M., V. Klostermann, 1966, pp. 26-27). Anche per Klaus Düsing non ci sono dubbi che in Fede e sapere Hegel im-

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nella forma dell’essere, l’altro nella forma del pensiero, e proprio perché la ragione non è altro che l’identità di questo « eterogeneo »,

prime una forte trasformazione alla problematica kantiana e, precisamente, in rapporto al problema di come sono possibili i giudizi sintetici a priori, a un punto tale che la problematica kantiana vi diventa « irriconoscibile ». Al posto del problema della possibilità della metafìsica come scienza, subentra quello del rapporto tra identità relativa e assoluta, ma questo non certo per influssi fichtiani o per un’adesione all’impostazione fichtiana, bensì come con­seguenza della « nuova concezione della conoscenza speculativa dell’assoluta identità » in cui Hegel viene sviluppando quella concezione hölderliniana del giudizio (Urteil) come Ur-teilung che aveva già accolto nei frammenti del pe­riodo di Francoforte. « In Vede e sapere per Hegel l ’appercezione pura è prin­cipio dei giudizi, perché essa stessa soltanto e per prima rende possibile il giudizio, la scissione e l ’antinomia, attraverso la sua identità assoluta. La sfera del giudizio però è la riflessione o la coscienza finita, non in quanto campo autonomo di conoscenze, ma come manifestazione dell’assoluto. L e determina­zioni opposte della riflessione e della logica sono considerate metafisicamente, in tal modo, nell’assoluto stesso che le contiene ‘ sinteticamente ’ unite in sé » ; e con esplicito riferimento aH’interpretazione della Görland circa il significato « fichtiano » di questa posizione hegeliana il D üsing osserva: « certamente Hegel considera Fichte come lo sviluppo più coerente della filosofia critica kantiana; ma la struttura dell’identità assoluta, da cui soltanto vengono fuori gli opposti e che sta alla base della contraddizione dei termini finiti, non è idea di Fichte, ma di Hegel. Diversi momenti di questa nozione di identità si trovano già nei frammenti hegeliani di Francoforte ». Sempre secondo il Düsing è difficile ammettere un’influenza essenziale di Fichte sull’interpreta­zione hegeliana di Kant di questo periodo, da un lato perché il giovane Hegel prima del 1800 si è occupato dapprima di Kant e soltanto più tardi si è con­frontato con Fichte, e dall’altro — « e questo è l ’argomento decisivo » — perché nella sua critica di Kant Hegel muove da premesse « estranee a Fichte » ; più esattamente nel periodo di Francoforte muove dal presupposto dell’essere puro preriflessivo e nel periodo di Jena dalla sua propria conce­zione della speculazione come conoscenza dell’identità assoluta (K. D ü s in g ,

Das Problem der Subjektivität in Hegels Logik, in « Hegel-Studien », Beiheft n. 15, Bonn, Bouvier, 1976, pp. 110-17). — Quanto alla portata speculativa della questione — e cioè dell’identità originaria di soggetto e predicato del giudi­zio nella sintesi pura come razionalità — per l ’intero sviluppo del pensiero hegeliano, e in particolare per l’impostazione della logica, Leo Lugarini os­serva che « la possibilità dei giudizi sintetici a priori ne risulta avallata, ma in un senso profondamente innovatore. Il giudizio viene a fondarsi sulla ra­gione piuttosto che sull'intelletto; al tempo stesso subisce in Hegel un ridi­

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la ragione come tale unità va considerata in un certo senso già a monte della stessa sensibilità o, meglio, della distinzione tra sensi­bilità e intelletto, tra intuizione e giudizio, tra ricettività e spon­taneità in modo da comprendere le stesse forme della sensibilità come manifestazioni di un’unica attività sintetica. Hegel stesso in­fatti prosegue affermando: « Questa unità sintetica originaria, cioè un’unità che non deve essere concepita come prodotto di opposti, ma come identità di opposti veramente necessaria, assoluta, origi­naria, è tanto principio dell’immaginazione produttiva, dell’unità cieca, cioè immersa nella differenza, e che non se ne divide, quanto dell’unità che pone come identica la differenza, ma si distingue dai differenti, come intelletto; donde risulta che le forme kantiane dell’intuizione e le forme del pensiero non si trovano discoste l ’una dall’altra come facoltà particolari isolate, quali usualmente le si rappresenta. Una sola e medesima identità sintetica è il principio dell’intuire e dell’intelletto » 14.

Procedono dunque di pari passo in Hegel la polemica contro la concezione psicologistica della ragione come insieme di facoltà

mensionamento definitivo. Non il giudizio, ma il sillogismo si conferma, anzi si dimostra, la forma logica della ragione » ; una volta chiarito che dar fonda­mento al giudizio comporta il passaggio al sillogismo, Hegel si trova ormai di fronte al problema di « determinare in modo conforme le relazioni tra giudizio e sillogism o», problema di cui cercherà la soluzione nella Scienza della logica ( L . L u g a r in i , Hegel. Dal mondo storico d ia filosofia, Roma, Ar­mando, 1973, pp. 210-212).

14 È Hegel stesso a confermarci il senso di questa sua lettura quando più avanti, nella critica a Jacobi e alla sua concezione di « facoltà » che ripo­sano l ’una sull’altra, contrappone invece il « modo eccellente » in cui Kant pone l ’apriori della sensibilità nell’identità originaria di unità e molteplicità e precisamente in quella « potenza » dove l ’unità è immersa nella moltepli­cità come immaginazione trascendentale e pone poi l ’intelletto nel fatto che l ’unità sintetica della sensibilità è innalzata all’universalità ed entra quindi in un’opposizione relativa alla sensibilità (GW , IV , 367). Che poi questa sia più la conclusione della lettura speculativa di Kant da parte di Hegel che non la lettera del testo kantiano, è quanto lascia intendere Hegel stesso poco dopo osservando che a questa « costruzione autenticamente razionale » è ri­masto «so ltan to il cattivo nome di faco ltà» (ibid.).

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separate e, al tempo stesso, la definizione delle funzioni specifiche di immaginazione produttiva ed intelletto all’interno dell’unità or­ganica della ragione. Comprendere speculativamente l’immagina­zione produttiva significa infatti considerarla come l’unità bilate­rale in quanto necessariamente si scinde in soggetto e oggetto, in fenomeno e prodotto, per manifestarsi nella coscienza empirica o, se si preferisce, cogliere nelPimmaginazione produttiva nient’altro che il manifestarsi della ragione nella sfera della coscienza empirica15. Ma una volta compreso che P« in sé » della coscienza

15 In questa linea va tenuta presente anche la critica rivolta da Hegel alla concezione fichtiana dell’immaginazione nello scritto del 1801: Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (GW , IV , 1-92). Discu­tendo la concezione fichtiana della « sintesi » Hegel osserva che se i suoi fat­tori opposti fossero veramente « ideali » e non dotati di una propria assolu­tezza anteriore alla sintesi, l ’immaginazione produttiva sarebbe l ’assoluta iden­tità stessa, come attività che soltanto in quanto pone il prodotto, il limite, pone al tempo stesso gli opposti come limitanti. Unicamente dal punto di vista della riflessione che muove dagli opposti e concepisce l ’intuizione sol­tanto come una loro unificazione l ’immaginazione produttiva potrebbe esset considerata come una facoltà sintetica condizionata da opposti. Tuttavia in Fichte « l ’imperfezione » della sintesi o, meglio, del mondo in cui viene espressa l ’unità di Io e Non-Io, desta il sospetto che le attività opposte non debbano valere soltanto come identità relative, come fattori ideali, e analogamente l'im ­maginazione produttiva risulta come appartenente all’io soltanto in quanto « facoltà teoretica » che non può innalzarsi al di sopra dell’opposizione, es­sendo tale risultato riservato soltanto alla « facoltà pratica ». Si spiega così che in Fichte l ’immaginazione produttiva sia un « librarsi » tra termini as­solutamente opposti, che può sintetizzare soltanto nel limite, ma di cui non può unificare gli estremi opposti (G W , IV , 39-42). Un tentativo di controbat­tere queste accuse hegeliane o comunque di limitarne la validità è stato com­piuto da Fernando Inciarte in uno studio sull’immaginazione trascenden­tale in Fichte, facendo leva sul rapporto tra la concezione deU’immaginazione e la concezione del tempo o, meglio, della genesi del tempo (F. I n c ia r t e , Transzendentale Einbildungskraft. Zu Fichtes Frühphilosophie im Zusammen­hang des transzendentalen Idealismus, Bonn, Bouvier, 1970, pp. 85-86). Per quanto riguarda poi l’influenza della concezione fichtiana dell'immaginazione produttiva sul romanticismo, tra gli studi più recenti ricordiamo: S . S u m m e -

r e r , Wirkliche Sittlichkeit und ästhetische Illusion. Die Fichterezeption in den Fragmenten und Aufzeichnungen F. Schlegels und Hardenbergs, Bonn,

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empirica è la ragione non si potranno più considerare come due diverse facoltà separate dalla ragione l’immaginazione produttive che intuisce e l ’immaginazione produttiva che esperisce; si dovrà invece riconoscere che l’immaginazione produttiva prende il nome di intelletto soltanto in quanto le categorie, come forme determina­te dell’immaginazione che esperisce, vengono « fissate » come con­cetti che, nella loro sfera, costituiscono un sistema completo. Si tratta cioè di respingere qualsiasi concezione dell’immaginazione come un’attività isolata, sregolata, arbitraria, fonte di pure finzioni e soprattutto la « rappresentazione » di una molteplicità qualitativa di facoltà e capacità dello spirito.

Infine va ricordato come, nel quadro di quest’interpretazione organica ed unitaria di sensibilità ed intelletto, per Hegel diventi possibile dare anche una spiegazione genetica delle forme a priori della sensibilità, e cioè di spazio e tempo. Riferendosi alla ben nota osservazione kantiana secondo la quale l’intuizione è vuota senza concetto, Hegel afferma che è del tutto esatta, perché nell’in­tuizione, l ’identità, come in un magnete, è completamente identica alla differenza. Nell’intuizione cioè non si ha l’opposizione relativa e neppure quindi l ’identità relativa tra unità e differenza che costi­tuisce la condizione del « vedere » e della « coscienza ». Tuttavia, prosegue Hegel, nell’intuizione sensibile, che per questo si distin­gue dall'intuizione intellettuale, l ’opposizione non è superata, ma deve venir fuori e quindi sussiste precisamente nella forma in cui l ’unità è ‘ immersa ’ nella differenza; perciò gli opposti si scindono come due forme dell’intuire, e, precisamente, come l ’identità del pensiero e come l’identità dell’essere, come intuizione del tempo e dello spazio 16.

Ma la revisione della deduzione trascendentale non avviene però,

Bouvier, 1974, con ampia bibliografia, mentre per il rapporto in generale tra immaginazione trascendentale, idealismo e romanticismo rinviamo a: B. K u e -

s t e r , Transzendentale Einbildungskraft und ästhetische Phantasie. Zum Ver­hältnis von philosophischem Idealismus und Romantik, Königstein/Ts, Forum Academicum, 1979.

16 GW , IV , 327-28.

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per così dire, a senso unico, come se Hegel si limitasse a mostrare la presenza operante e produttiva dell’immaginazione già a livello di sensibilità, quale momento di quella stessa attività sintetica che trova poi espressione nell’intelletto, ma senza mettere in questione la concezione kantiana dell’intelletto quale risulta dalPanalitica tra­scendentale. Al contrario l ’unità originaria di immaginazione pro­duttiva ed intelletto, come comporta che l’immaginazione non sia relegata sul piano di una facoltà separata dell’animo umano, così comporta che l ’intelletto non si riduca affatto all’immagine di in­telletto discorsivo e finito che Kant ha delineato come l ’unica per­tinente per l’uomo e non puramente ipotetica. Sempre in Fede e sapere Hegel osserva che l ’idealismo formale kantiano, in quanto si limita ad assolutizzare 1’« egoità », non è altro che un amplia­mento del lockianismo, che pone nel soggetto soltanto il percepire in generale. In quanto però l’idealismo determina ulteriormente il percepire come forma immanente, la vuotezza del percepire o della spontaneità viene « riempita » a priori mediante un contenuto, es­sendo la determinatezza della forma nient’altro che l’identità degli opposti. Lo stesso intelletto a priori diventa così, almeno in gene­rale, a posteriori, poiché l’aposteriorità non è altro che la contrap­posizione, e si raggiunge così il concetto formale di ragione, del suo essere a priori e a posteriori, identica e non identica in un’unità assoluta. Che poi quest’identità in Kant rimanga un dover essere dipende dalla sua concezione soggettivistica dell’a priori, ma l ’im­portante è che all’interno dell’intelletto si scorge questo « dover essere un’idea speculativa », in quanto l ’opposizione del giudizio deve essere a priori, universale e necessaria, assolutamente identica.

Tale risultato speculativo può essere colto anche nella conce­zione del rapporto tra l ’intelletto e i fenomeni, o, meglio nel le­game tra l ’apriorità dell’intelletto e l’aposteriorità dei fenomeni. Questo rapporto infatti può indicare l ’assolutezza del finito e del fenomeno, ma può invece indicare anche, correttamente, il fatto che l’intelletto esprime il principio dell’opposizione e il carattere astratto della finitezza. In questo senso, dunque, Kant, come ha posto nella forma dell’immaginazione trascendentale l’idea della vera apriorità, ha posto anche nell’intelletto l ’inizio dell’idea di ra-

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gione, in quanto ha concepito il pensiero e la forma non come qualcosa di puramente soggettivo, non come vuota appercezione, ma come vera forma in quanto triplicità. Soltanto in questa tripli­cità, si trova il germe dello speculativo, perché nella triplicità si ha, al tempo stesso, il giudizio come dualità, e quindi la possibilità della aposteriorità che in tal modo, cessa di essere assolutamente opposta all’a priori, proprio come l ’a priori cessa di essere identità formale.

Dall’approfondimento della nozione stessa di intelletto e del suo rapporto al fenomeno, o, meglio, dalla nozione stessa di intel­letto come forma del giudizio, si è giunti così al superamento della concezione puramente formale dell’intelletto e all’idea di un intel­letto che sia al tempo stesso a posteriori, ossia di un intelletto in­tuitivo. È quell’idea a cui Kant è stato spinto dalle esigenze stesse della critica, come dimostra la Critica del Giudizio e di cui, secondo Hegel, è ormai possibile scorgere definitivamente l’identità con l’immaginazione trascendentale. « L ’idea di questo intelletto intui­tivo, archetipo, in fondo non è nient’altro che la stessa idea del­l ’immaginazione trascendentale, che abbiamo considerato poc’anzi; essa infatti è attività intuitiva, e, al tempo stesso, la sua unità in­terna non è altro che l ’unità dell’intelletto stesso, la categoria im­mersa nell’estensione, che diventa intelletto e categoria soltanto quando e in quanto si separa dall’estensione. L ’immaginazione trascendentale quindi è essa stessa intelletto intuitivo » 17.

Naturalmente sarebbe del tutto inesatto intendere questa affer­mazione hegeliana soltanto in chiave trascendentale o, se si preferi­sce, di revisione del trascendentale, dimenticandone le implicanze per l ’intera concezione della realtà nella sua totalità e assolutezza. È chiaro infatti che per Hegel affermare l ’identità di immagina­zione trascendentale e intelletto intuitivo significa calare profonda­mente l ’intelletto intuitivo nella realtà, sciogliendolo da quell’iso-

* lamento in una regione puramente ipotetica e regolativa in cui l ’aveva confinato Kant. Ed è anche molto interessante — e signifi-

17 G IF , IV , 340-41.

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cativo dell’atmosfera culturale in cui matura questo discorso hege­liano — che dei vari punti di riferimento della Critica del Giudizio, e precisamente della discussione critica del concetto di finalità, venga scelto proprio Spinoza o, meglio, la nozione spinoziana di unità. È proprio questa nozione, osserva Hegel infatti, che Kant ha fraintesa o, comunque, non ha intesa adeguatamente, perché l’ha considerata in chiave della sua concezione puramente intellettiva di unità, codificata nella distinzione tra ragion teoretica e ragion pra­tica, e non invece in chiave della nozione di intelletto intuitivo che l’avrebbe portato a cogliere l’unità profonda di possibilità e realtà, di meccanismo e di finalità. Approfondire però questi problemi ci porterebbe a deviare dal filo del nostro discorso per il quale inte­ressa invece tornare alle conseguenze, questa volta, per così dire, negative, dell’incomprensione kantiana dell’unità tra possibilità e realtà, tra meccanismo e finalità, dell’organicità della ragione e della realtà per la concezione stessa del pensiero e per l’impianto della deduzione trascendentale.

Osserva infatti Hegel che Kant ha avuto davanti a sé tanto l ’idea di una ragione in cui possibilità e realtà sono assolutamente identiche, quanto la sua manifestazione come facoltà conoscitiva, in cui sono separate. Kant trova, nell’esperienza del suo pensiero, en­trambe le nozioni, ma, nello scegliere tra di esse, la sua natura lo ha portato a disprezzare la necessità di pensare il razionale, una spontaneità intuente, e si è deciso perciò assolutamente a favore della manifestazione. Come diretta conseguenza di questa scelta Kant non si è limitato a confondere il razionale, ma con piena con­sapevolezza ha « corrotto » l’idea suprema e ha innalzato al di sopra di essa la riflessione e il conoscere finito. Per questo non solo il sapere trascendentale si è trasformato in un sapere formale, ma anche la deduzione delle categorie dall’idea « organica » dell’im­maginazione produttiva si è smarrita nel « rapporto meccanico » di un’unità dell’autocoscienza che è in opposizione alla molteplicità empirica nel determinarla e nel riflettervi su. Rispetto all’unità dell’autocoscienza come identità formale Kant è dunque costretto ad ammettere un « più » empirico, come qualcosa di estraneo ed

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inspiegabile 18. In effetti Kant aveva riconosciuto razionalmente in questo « più » l ’immaginazione produttiva, ma in quanto quest’im­maginazione produttiva viene intesa come proprietà soltanto del soggetto, dell’uomo e del suo intelletto, perde la sua collocazione intermedia mediante la quale soltanto è quello che è e diventa qualcosa di soggettivo 19. Prevale cosi un tipo di sapere legato al rapporto di identità o di causalità e va perduta quell’unità profonda di cui Hegel rivendica l ’importanza ancora poco più avanti, quando, nel controbattere le critiche rivolte da Jacobi a Kant in base a una concezione astratta dello spazio, del tempo e dell’immaginazione, afferma: « l ’immaginazione trascendentale e la conoscenza razio­nale non analizzano la natura né riducono a brandelli il dato nel­l ’unità e molteplicità analitica, ma, essendo organiche e viventi, ed essendo totalità, creano l’idea della totalità e costruiscono, come identità assoluta originaria di universale e particolare; identità che Kant ha chiamato sintetica, non come se le si trovasse di fronte un molteplice, ma perché essa stessa è in sé differenziata, bilate­rale, in modo che l ’unità e la molteplicità in essa non si aggiungono l’una all’altra, ma in essa si separano e, come dice Platone, ‘ vengo­no trattenute a forza insieme dal mezzo ’ »

Per quanto riguarda l ’ulteriore sviluppo di questo aspetto spe­cifico dell’interpretazione hegeliana di Kant ci sembra che negli

18 GW , IV , 343. Fortemente critico su questa conclusione hegeliana è Nicolao Merker che vi ravvisa la conferma di uno sforzo di interpretare « spe­culativamente » Kant che, in effetti, elude la complessità della problematica kantiana della non coincidenza delle condizioni della conoscenza (possibilità logica) con le condizioni dell’esistenza (possibilità reale), procedendo senz’al­tro alla loro identificazione. Questo, secondo il Merker, impedisce a Hegel di cogliere « l ’altra istanza kantiana, intimamente connessavi, della base (o so­strato) reale-materiale del giudizio », e quindi lo porta a liquidare « in modo sbrigativo » la questione in Fede e sapere, riducendo l ’esperienza a un « più » che si aggiungerebbe in modo inspiegabile all’autocoscienza (N. M e r k e r , Le origini della logica hegeliana, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 248-49 e in gene­rale l ’intero capitolo su Hegel e Kant, pp. 218-65).

» GW , IV , 343.20 GW , IV , 372. Il riferimento è a P l a t o n e , Timeo, 35 a.

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scritti successivi a Fede e sapere la sua portata speculativa vada restringendosi. Così nel paragrafo 55 dell’Enciclopedia, discutendo la Critica del Giudizio, e in particolare la nozione di intelletto in­tuitivo e di finalità interna dove l’universale viene pensato concre­tamente, Hegel osserva che « soltanto in queste rappresentazioni la filosofia kantiana si mostra speculativa ».

Nelle Lezioni sulla storia della filosofia poi la nozione di intel­letto intuitivo viene ancora ricollegata all’immaginazione trascen­dentale, ma questa volta in stretto riferimento alla dottrina dello schematismo. Hegel afferma infatti: « Nell’animo, nell’autocoscien­za ci sono concetti puri; la loro relazione reciproca è lo schematismo dell’intelletto ptiro, Pimmaginazione trascendentale che determina l ’intuizione pura in conformità alla categoria, al concetto puro del­l’intelletto e così compie il passaggio all’esperienza. Questo colle­gamento è di nuovo una delle parti più belle della filosofia kan­tiana, mediante la quale vengono unificati sensibilità pura e intel­letto puro, che prima erano stati dichiarati come termini diversi assolutamente opposti. Si tratta di un intelletto intuitivo o di una intuizione intellettiva »; ma subito vengono le riserve: « ma Kant non li prende né li intende in tal modo, non mette insieme queste nozioni, non comprende di aver posto questi due elementi della conoscenza in un sol termine — nel loro in sé. Il pensiero, l’intel­letto, rimane qualcosa di particolare e così pure rimane qualcosa di particolare la sensibilità, particolari che vengono collegati in modo estrinseco, superficiale, come legando un pezzo di legno a una gamba con una corda » 21.

Per quanto riguarda poi la sensibilità Hegel riconosce senz’altro il carattere a priori delle forme della sensibilità in Kant, ma, in un giudizio complessivo sulla « spiegazione trascendentale » di spazio e tempo, lamenta piuttosto aspramente che a Kant neppure sia venuto in mente di domandarsi in che modo l ’animo sia giunto ad avere queste forme e quale sia la natura dello spazio e del tempo22.

21 JA , X I, 569-70.22 JA , XIX, 564.

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Infine, in sede di esame della Critica del Giudizio H egel non manca di riconoscere l’importanza della nozione di intelletto intui­tivo, ma, anche qui, obietta che Kant non è giunto a comprendere che questo intelletto archetipo è la vera idea di intelletto ed ha Considerato il nostro intelletto unicamente come una facoltà che va dall’universale analitico al particolare ed è specificamente diversa e del tutto indipendente dalla sensibilità. Sempre su questa linea Hegel rileva l ’importanza della nozione di organismo come unità di meccanismo della natura e di fine (anima, universale); in tal modo infatti la natura è considerata come se nel sensibile abitasse un concetto che pone il particolare in conformità a sé, e cioè è conside­rata al modo di un « intelletto intuitivo ». Questo, sottolinea Hegel, è grandioso, questo esprime l’idea che è il veramente concreto, la realtà determinata dal concetto ad essa immanente, è 1’« idea ade­guata » di Spinoza. Una volta ancora però, secondo Hegel, tutto questo in Kant è inteso soltanto come qualcosa di soggettivo, come un modo di osservare le cose e non come determinazione oggettiva delle cose stesse23.

Diverso e assai complesso discorso, che tra l ’altro andrebbe mol­to al di là dell’interpretazione hegeliana di Kant, sarebbe quello inteso a vedere in che misura e in che modo l ’identificazione di immaginazione produttiva e di intelletto intuitivo, compiuta so­prattutto in Fede e sapere, abbia ulteriormente operato nello svi­luppo della concezione hegeliana dell’immaginazione·, tanto, per così dire, nella sua dimensione conoscitiva attraverso le articolazioni della rappresentazione e della memoria a cui Hegel dedica già tanta attenzione nel periodo di Jen a24, quanto nella sua funzione poetico- artistica.

In questa sede però vorremmo limitarci a un’ultima osservazione

23 JA , XIX, 596-60.24 Cfr. in merito lo studio di J . D e r r id a , Le puits et la Pyram ide. In-

troduction à la sémiologie de Hegel, nel volume Hegel et la pensée m oderne, a cura di J . D ’Hondt, Paris, Presses Universitaires de France, 1970, p p . 26- 83 e M. C l a r k , Logic and System. Study of The Transition from « V o r s te llu n g » to Thought in The Philosophy of Hegel, The Hague, M. Nijhoff, 1971.

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sull’identificazione di immaginazione produttiva e intelletto intui­tivo e sulla connessa rivendicazione del carattere organico della ra­zionalità, ma non per riprendere la questione, ancor oggi ampia­mente dibattuta e a cui già abbiamo accennato25, del suo nesso con il pensiero di Fichte o di Schelling quanto piuttosto per esami­narne la portata o connotazione più vastamente storico-culturale nel­l ’epoca. Mentre infatti è esplicito in Hegel l ’inquadramento della ra­zionalità kantiana nell’illuminismo, almeno entro certi limiti, è più complessa la questione se l’immagine di Kant emersa attraverso l ’identificazione di immaginazione produttiva ed intelletto intuitivo risenta della, o corrisponda alla interpretazione di Kant in chiave na­turalistica ed estetica che andava affermandosi tra fine Settecento e inizio dell’Ottocento con la rinascita dello spinozismo, il classi­cismo di Weimar, con protagonisti come uno Herder e un Goethe, e l ’incipiente romanticismo26. Che in parte questo riferimento sia legittimo risulta da quanto dice Hegel stesso nel paragrafo 55, so­pracitato, déH’Enciclopedia dove connette specificamente la lettura schilleriana di Kant al momento speculativo della Critica del Giu­dizio o, ancora nelle Lezioni di estetica, dove in Sahiller e in Goethe viene individuata la realizzazione di quella conciliazione sul piano della moralità e della natura che Kant certo non aveva sa­puto perseguire e compiere, ma di cui aveva presagito la direzione proprio con la nozione di intelletto intuitivo27.

Tuttavia ci sembra essenziale sottolineare che se il riferimento a un’area e a un momento culturale di questo tipo, insomma a una certa lettura di Kant e di Spinoza nell’« età di Goethe », può

25 Cfr. nota 13.26 Ci limitiamo qui a ricordare alcuni lavori tra i più recenti, corredati

di ampia bibliografia, come quelli di H . F r e i e r , Die Rückkehr der Götter. Von der ästhetischen Ueberschreitung der Wissensgrenze zur Mythologie der Moderne, Stuttgart, Metzler, 1976 e H . G o c k e l , Mythos und Poesie. Zum Mythosbegriff in Aufklärung und Frühromantik, Frankfurt a. M., V. Kloster­mann, 1981; tra le opere precedenti rimane tuttora un classico H .A . K o r f f , Geist der Goethezeit, 4 voll., Leipzig, Köhler & Amelang, 1955, 2a ediz.

27 JA , X II, 90-100.

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essere non solo legittimo, ma addirittura utile se non altro come termine di confronto e come richiamo a una lettura non troppo astratta della problematica hegeliana, non deve però in alcun modo andare a scapito della piena consapevolezza della peculiarità della posizione hegeliana: l ’interpretazione hegeliana di Kant, anche là dove maggiore è l ’importanza speculativa attribuita all’immagina­zione trascendentale e all’intelletto intuitivo, si colloca e si svi­luppa in una linea molto diversa da quella che Goethe ha espresso così efficacemente quando ha detto che era stata proprio la nozione kantiana di intelletto intuitivo a liberarlo da ogni remora e a spin­gerlo ad affrontare coraggiosamente 1’« avventura della ragione », come l ’aveva chiamata « lo stesso Vecchio di Königsberg » 28. Irj altri termini, l ’identificazione hegeliana di immaginazione trascen­dentale ed intelletto intuitivo è comunque qualcosa di molto di­verso e che va molto al di là di qualsiasi ricerca di un « organo » che consenta alla filosofia di sollevarsi con l’intuizione e l’immagi­nazione là dove invece l ’intelletto freddo e mortificante le impe­disce di giungere; qualcosa insomma che va molto al di là di una qualsiasi proposta o ricerca di un modello alternativo di compren­

28 Riportiamo il casso in cui Goethe commenta la nozione kantiana di in­telletto intuitivo quale emerge dalla Critica del Giudizio: « in verità l ’autore sembra accennare qui a un intelletto divino, ma se noi già in campo morale, mediante la fede in Dio, nella virtù e nell’immortalità ci dobbiamo innal­zare in una regione superiore e avvicinare all’ente primo, potrebbe ben essere lecito che avvenisse lo stesso in campo intellettuale, nel senso che attraverso l ’intuizione di una natura sempre creatrice, ci rendessimo degni di partecipare spiritualmente alle sue produzioni. Se in un primo tempo mi ero spinto in modo soltanto inconsapevole e per un impulso interno instancabilmente verso quell’archetipo, verso quel modello, ed avevo perfino avuto la fortuna di co­struire un’esposizione conforme alla natura, ora nulla poteva più trattenermi ulteriormente dall’affrontare coraggiosamente l ’avventura della ragione, come la chiama lo stesso Vecchio di Königsberg » (J. W. G o e t h e , Gedenksausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, 24 voll, a cura di E . Behler, Zürich, Artemis Verlag, 1950, vol. XV I, pp. 878-79. Cfr. in merito: F. W e in h a n d l , Die Meta­physik Goethes, Berlin, Athenäum Verlag, 1932, rist. Darm stadt, W issenschaft­liche Buchgesellschaft, 1965; W. D a n c k e r t , Goethe. Der mythische Urgrund seiner Weltschau, Berlin, De Gruyter, 1951).

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sione della realtà e dell’assoluto rispetto a quello puramente intellet­tivo, discorsivo e analitico.

Come nel caso dell’illuminismo, anche classicismo e romanti­cismo, ammesso che si possano considerare veramente presenti e operanti nell’interpretazione hegeliana di Kant, vi si trovano però fortemente trasfigurati in un quadro schiettamente speculativo. Non dunque per sminuire la compattezza o la linearità di tale quadro, ma al contrario per indicarne semmai l’interna ricchezza di compo­nenti e di articolazioni, ci è sembrato opportuno richiamare l ’at­tenzione su un aspetto della lettura hegeliana di Kant che, se non è certamente quello dominante o conclusivo, non sembra però tut­tora privo di suggestione.

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Vittorio Mathieu

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1. L ’applicazione del metodo dialettico alla filosofia della natura in Hegel non è mai stata accolta con particolare favore, e ciò non meraviglia. In logica, anche se l’insistere sulla necessità della con­traddizione poteva scandalizzare, nessuno dubitava, quanto meno, che la dialettica avesse sempre avuto un suo posto. Nella filosofia dello spirito la contraddizione trovava esemplificazioni concrete perché, grazie alla libertà del suo spirito, l ’uomo è l ’animale che si contraddice. (Così il rovesciarsi delle parti nel rapporto servo- padrone — una delle più antiche e più felici applicazioni hegeliane della dialettica — è un fatto, che chiunque abbia dovuto impiegare, anche per breve tempo, una domestica, è in grado di apprezzare). Quando, poi, si impadronirono della dialettica Engels e Marx, l’uso che vi privilegiarono riguardò appunto la storia e la critica sociale, dove i contrasti sono di casa, anche se è dubbio che siano contrasti dialettici. E i loro seguaci giungono a nobilitare col nome di ‘ dia­lettica ’ scontri di piazza o vertenze sindacali che, per poter meri­tare hegelianamente quel nome, richiederebbero, quanto meno, una lunga ‘ deduzione ’. Ma la parola ‘ dialettica ’ serve a mostrarne la necessità e, insieme, a farne intravedere il termine obbligato, una possibile conciliazione: e questo rassicura. Rassicura, in particolare, i seguaci di Marx, perché, per quante lotte il comuniSmo generi per via, la sua meta finale rimane sempre l ’annunzio che a Varsavia regna la quiete.

Al contrario, l’uso di strumenti dialettici nel campo della na­tura sembra una sforzata applicazione di categorie logiche a oggetti per i quali non sono tagliate. Non è dunque strano che un Goethe — che, pure, di una filosofia hegeliana della natura condivideva certi tratti — si sentisse a disagio di fronte ad affermazioni come quella che il fiore è la negazione della gemma, o il frutto la risoluzione della loro antitesi. Tentativi di deduzione di formazioni naturali come i tre continenti; la sfida della mentalità postcoperni­cana insita nel fare, del « morto organismo della terra », « la tota-

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lità in sé della vita » e « il soggetto del processo metereologico che vien fecondato per divenire vitalità ». (Enciclopedia, § 341), e via di questo passo, non sembrano fatti per incoraggiare uno studio serio della dialettica nella natura. E, infatti, se percorriamo l ’enorme letteratura intorno alla dialettica hegeliana, troviamo in essa ben poco che riguardi la filosofia della natura.

Non credo, però, che codesto atteggiamento sia del tutto giu­stificato. Dato — ma non concesso, come si vedrà — che il metodo dialettico sia irrilevante per la filosofia della natura, questo non significa, perlomeno, che la filosofia della natura sia stata o sia irrilevante per il metodo dialettico. E la presente ricerca si sfor­zerà, anzitutto, di indicare i motivi di ciò, prima di passare alla dimostrazione del primo punto, più impegnativo.

2. Quei motivi sono, in primo luogo, di ordine storico; o, secondo un’endiadi spesso usata da Hegel, storico-psicologico. Infatti:

a) Il primo esempio di una dottrina in cui la contraddizione non fosse più considerata come un incidente da eliminare al più presto, bensì come « appartenente alle determinazioni del pensiero » e, quindi, non dipendente da errori soggettivi, fu trovato da Hegel nelle antinomie kantiane. Ora queste riguardano, non 1’« apparenza trascendentale » in genere, bensì l ’apparenza trascendentale nella sua forma specificamente cosmologica. È vero che il cosmo è, in senso kantiano, un’ ‘ idea ’, non una realtà naturale: però è preci­samente l ’idea del tutto delle realtà naturali. Ci si può dunque domandare come mai l’idea del Tutto dia luogo ad antinomie quando è applicata al cosmo, e non quando è applicata ad altri tipi di con­cetti trascendentali, come l ’unità del soggetto pensante, o la totalità delle condizioni di ogni oggetto del pensiero in generale cioè Dio. Hegel, senza dubbio, osserva che Kant, per trovare l ’antinomia allo stato puro, non avrebbe dovuto prendere le « determinazioni del pensiero » in una loro applicazione, « miste con le rappresen­tazioni del mondo »: però, di fatto, l’antinomia si era costituita così, a proposito del mondo.

b) Una delle motivazioni soggettive fondamentali per l’ado­zione del metodo dialettico fu il desiderio di cacciar via quel cat­

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tivo infinito che è il progresso morale all’infinito: in altri termini, il desiderio di confutare la filosofia kantiano-fichtiana. Nell’agire del soggetto, il progresso va all’infinito perché ciò che è non è mai adeguato a ciò che dev’essere, e cerca continuamente di adeguarvisi. Ebbene, la natura è esattamente l ’opposto: è sempre precisamente come dev’essere.

Per far valere, però, la natura contro il falso mito della mora­lità, occorreva mostrare che anche nella natura il finito non è mero finito; e a ciò provvede, appunto, la dialettica.

L ’uso della filosofia della natura in funzione antikantiana e an- tifichtiana è esplicitamente invocato da uno scritto del « Kritisches Journal », Sul rapporto della filosofia della natura con la filosofia in genere, che fu ripubblicato erroneamente tra le opere di Hegel (Berlino 1832 segg., vol. XVI, 299-315) benché sia opera di Schelling. In esso si bolla il tentativo di fare, dell’assoluto nell’io, un ente di ragione prodotto dall’io medesimo in funzione pratica-, e si respinge, simmetricamente, la dottrina che l ’assoluto in sé, « per essere reale, debba essere indipendente dall’io e fuori di lui »; fal­sità che « esprime, in modo solare, l’intero presupposto del dogma­tismo » *. « In una filosofia del genere — dice lo Schelling — non può costituirsi, né una natura in genere, né una filosofia della natura »: non perché la filosofia della natura comporti un realismo empirico, ma, al contrario, perché « essa annienta il realismo empi­rico, e va all’in sé e all’intelligibile della natura, affermando un’iden­tità assoluta della natura e dell’io, in cui entrambi sono calati...: in una parola, perché essa [scil.: la filosofia della natura] è asso­luto idealismo » 2.

3. Qual era la posizione di Hegel rispetto a codesto scritto, falsamente attribuitogli? A Hegel andava benissimo usare Schelling, e quindi la filosofia della natura, contro Fichte, ma a un patto: di poter usare, al tempo stesso, la dialettica contro Schelling. Di

1 Ed. Lasson; vol. I , p. 412. Le citazioni si riferiranno anche in seguito al volume ed alle pagine dell’edizione Lasson.

2 I , p. 413.

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qui l ’inevitabile convergere in Hegel di filosofia della natura e dia­lettica.

La sua polemica contro la « filosofia dell’identità » non ha bi­sogno di essere richiamata, e, contro la concezione schellinghiana della natura, Hegel afferma che « la filosofia della natura non può consistere in fantasticherie arbitrarie ». In particolare contro i Weltalter appare diretto il commento al § 249 dell’Enciclopedia, in cui si afferma: « È stata una impropria rappresentazione dell’antica, e anche della moderna, filosofia della natura considerare il passag­gio di una forma e sfera naturale ad una più alta come una produ­zione esteriormente reale ». Si concede, bensì, che « alla natura è propria, appunto, l ’esteriorità, per cui essa lascia che le differenze si stacchino e appaiano come esistenze indifferenti »; ma si aggiun­ge che « il concetto dialettico, che guida i gradi nel loro progresso, è il loro interno » (corsivo mio).

L ’istanza da far valere contro il cattivo infinito del kant-fichtismo è, dunque, la natura, ma la natura dialettica: perché « il progresso all’infinito, in cui quello che dev’essere è, e, in pari tempo, non è », è in generale, l ’espressione della contraddizione3. Contro questa cattiva espressione della contraddizione va rivendicata la buona-, e a ciò può servire la natura perché, nella natura, il rinvio a un esterno non c’è. « La pietra, il metallo non sono oltre il loro limite, perché questo non è un limite per loro » 4. Ma la natura può avere questa funzione polemica a patto di essere dialettica essa stessa: « La pietra stessa, in quanto è, è qualcosa che si distingue da un lato nella sua determinazione o essere in sé, dall’altro nella sua esistenza, e, in questo senso, va anch’essa al di là del suo limite ». Ciò significa, precisamente, riconoscervi la contraddizione: « Quel concetto che la pietra è in sé contiene l ’identità col suo altro ».

4. Ma a questo punto, come si vede, i motivi per puntare sulla dialetticità della natura cessano di essere storico-psicologici soltanto e diventano sostanziali. La contraddizione non appartiene a un solo

3 Wiss. d. Logik, ed. cit. I I , p. 96.4 Ibid ., I, p. 122.

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oggetto: « Non solo nei quattro oggetti della cosmologia si trova l ’antinomia, ma, piuttosto, in tutti gli oggetti, di tutti i generi, in tutte le rappresentazioni, i concetti, le idee » 5. Codesta proprietà costituisce precisamente « il momento dialettico della logica ».

Detto ciò, bisogna riconoscere che, al contrario che nella natura, nello spirito la contraddizione è sviluppata e risolta. Ciò non signi­fica, beninteso, che non ci sia più, ma significa che lo spirito « la sopporta », come dice la Scienza della logica: riceve, cioè, da essa un « movimento quieto in se stesso », che non ci obbliga, per pen­sarlo, ad uscire dalla mente e dalle nostre abitudini mentali. « È lo spirito quello che è tanto forte da poter sopportare la contraddizio­ne; ma lo spirito è anche quello che la sa sciogliere. Il cosiddetto mondo, al contrario, non manca certo mai della contraddizione, ma non riesce a sopportarla, e per questo è soggetto al nascere e al perire » 6.

La contraddizione nella natura, perciò, è lo scandalo che ci co­stringe a filosofare su di essa. Essa ci fa uscire dalla natura, perché in certo senso, fa uscire la natura da sé medesima, nella morte. Ma è, al tempo stesso, la condizione perché una natura ci sia, e il suo in sé si ponga.

Anziché esser pensata, la contraddizione nella natura è vissuta. Vissuta fino alla morte, e questo esclude che si tratti di una nostra escogitazione. Non meraviglia, perciò, che la prima delle tesi prepo­ste alla dissertazione hegeliana di dottorato, De orbitis planetarum, discussa con Schelling a Jena nel 1801 — dunque preposte a una trattazione di filosofia della natura, e di una natura generalmente considerata come ‘ inanimata ’ — sia la celebre regola: « Contra- dictio est regula veri, non contradictio falsi » 7. Essa costituisce, forse, la più antica esplicita enunciazione hegeliana della nuova logica. Tutta quelle tesi, antinewtoniane e antikantiane, hanno, tra l ’altro, carattere volutamente ‘ scandaloso ’, come si può rile­vare da qualche esempio: « Moralitas omnibus numeris absoluta

5 Encicl., § 48, nota.6 Log., ed. cit., I , p. 234.7 I , p. 404.

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virtuti repugnat » (XII); oppure: « Status naturae non est iniu- stum, et ob eam causam ex ilio exeundum » (IX).

Ciò che Hegel reputa di dover combattere, in Newton, è il ten­tativo di eludere, con strumenti propri del mero intelletto (Hegel parla a questo proposito di « experimentalis philosophia »), la con­traddizione insita in una realtà organica e concreta quale il sistema solare.

Che il moto circolare fosse libero, perché uniforme e perenne- mente ritornante su se stesso, era cosa che, per gli antichi, andava da sé. Quando però, nel tardo Medio Evo e poi con Galilei, si formulò il concetto di un moto ‘ inerziale ’, rettilineo e uniforme, la libertà del moto dei pianeti fu messa in crisi. Peggio quando si scoprì che le loro orbite non sono, in realtà, circolari: scoperta che lo stesso Galileo, come è noto, rifiutò di accettare. A questo punto la soluzione newtoniana appariva brillante. Essa faceva del moto curvo la ‘ risultante ’ di due momenti (analogamente a quello che avviene nella regola del parallelogramma), nessuno dei quali di per sé, appunto perché rettilineo, solleva le difficoltà di un moto curvo.

Hegel si sforza di dimostrare che non è così per niente. La sua tattica consiste nel riconoscere la correttezza matematica delle formule newtoniane (a cui non sarebbe stato in grado, del resto, di obiettare nulla); ma nel negare al tempo stesso, che una tratta­zione matematica di quei movimenti abbia titolo per costituire una meccanica celeste dei moti reali. Già Kant aveva dichiarato, e poi ripetuto fino alla nausea nei suoi appunti postumi, che non si danno « principi matematici della scienza della natura » — secondo il celebre titolo di Newton — ma solo principi filosofici. Per parte sua Hegel osserva: « I rapporti quantitativi, che la natura esibisce, per ciò stesso che sono ragioni [ rationes, rapporti], ineriscono alla natura. Ma dalla ragione stessa vanno del tutto separate [seiugen- dae] quelle sue analisi e spiegazioni che restano impari alla perfe­zione della natura ».

Infatti « la geometria considera solo lo spazio, l’aritmetica soloil tempo; e nemmeno quella geometria superiore che si vale dell’ana­lisi riesce a congiungerli altrimenti che in modo estrinseco, attra­

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verso l ’infinito ». Neppur essa, quindi, « offre una vera sintesi di entrambi » 8. Per cercare di esprimere numericamente il rapporto della periferia al raggio, la geometria deve « rifugiarsi nell’ipotesi di un poligono regolare di infiniti lati: in guisa, però, da togliere [tollat] al tempo stesso, con la nozione dell'infinito e della ragione ultima [cioè con l ’infinitesimo] il poligono stesso e la linea retta » 9.

5. L ’intelletto, o philosophia experimentalis, dunque, si illude di formare la concretezza congiungendo estrinsecamente due astrazioni. Questa affermazione acquisterà rilievo più tardi, nella Logica, quando prenderà di petto il rapporto differenziale, ad esempio la velocità come derivata dello spazio rispetto al tempo. L ’impropo- nibilità di una siffatta sintesi meramente intellettuale sarà, allora, sviluppata ampiamente. Per ora, Hegel insiste soprattutto sull’ille­gittimità di far risultare il moto pianeta da due forze in cui si ipostatizzino, ciascuno per conto suo, i momenti del moto medesi­mo. Secondo quello che sarebbe stato descritto, più tardi, come il tipico procedere dell’intelletto astratto, ai due momenti si assegna un’esistenza indipendente, come di due cose l ’una fuori dell’altra; e, tra queste, si stabilisce una relazione estrinseca, che lascia le due cose ‘ indifferenti ’. È ovvio che, così facendosi, il pianeta risulterà passivo, « tirato qua e là da forze », anziché andare « libero per il cielo, come gli dèi ». Dove ‘ libero ’ non significa, naturalmente, capriccioso, bensì sviluppante dentro di sé la propria necessità.

« La necessità geometrica della tangente — osserva Hegel — non costituisce punto la necessità di una forza fisica tangenziale » 10. Né quella « filosofia sperimentale che Newton, o meglio l’Inghilter­ra intera, in ogni tempo, ha reputata ottima, anzi unica e sola », è in grado di darci « una costruzione [più tardi si dirà ‘ deduzione ’ ] filosofica della forza centrifuga. Essa può solo assumerne l’ipotesi dall’esperienza ». « Si deve bensì pensare che le stia innanzi, senza che lei lo sappia, l ’opposizione delle forze attrattiva e repulsiva, da

« I , pp. 350-52.9 I , p . 358.«> Ibid.

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impiegare in quella teoria del moto. Ma la filosofia [scil. specula­tiva] attribuisce alla materia tale differenza di forze, facendo della gravità, ossia dell’identità stessa, la loro condizione » u. L ’empiri­smo, per contro, esclude dal moto rettilineo per la tangente « qual­siasi riferimento al corpo centrale », perché ne fa il semplice moto inerziale del pianeta; e non indica « alcun principio della loro con­giunzione, né del perché delle forze, che, pure, hanno il carattere di opposti contraddittori, ' si oppongano, non in linea retta, bensì sotto un angolo, che dirime in due la linea retta dell’opposizione » 12.

6. In realtà, l ’empirismo non coglié il vero procedimento della geometria, la quale « non tenta affatto di costruire, da linee che si taglino ad angolo retto o sotto un altro angolo qualsiasi, l ’effettivo circolo, o una diversa curva, bensì la suppone data, e mostra come ricavare, da codesto dato, i rapporti determinati delle altre linee. La fisica doveva imitare esattamente questo vero metodo, consisten­te nel porre il tutto e dedurne i rapporti delle parti, e non già comporre il tutto a partire da forze opposte, cioè dalle parti » u. Così, « quando la geometria fa dell’ipotenuta la radice quadrata della somma dei quadrati dei cateti, non compone tra loro linee indipendenti, ma solo linee corriferite al tutto del triangolo rettan­golo ». Quando, per contro, si pretende di costruire un moto con i rapporti quantitativi di forze indipendenti, diviene indifferente partire da questa o da quella, e le forze divengono puri nomi « di cui sarebbe meglio fare a m eno» [ quibus rectius carebatnus~\.

La contraddizione è evidente quando si pretende di spiegare l’effetto in senso radiale con la forza centripeta, e quello in senso tangenziale con la forza centrifuga, mentre, al tempo stesso, codeste due forze si dicono eguali: « Né questa contraddizione si può to­gliere rifugiandosi nel rapporto [differenziale] tra grandezze na­scenti e evanescenti, poiché, in tal modo, l ’eguaglianza si ha solo quando le quantità da eguagliare si annullano » (ivi).

11 I, p. 360.12 I , p. 362.13 I, pp. 362-64.

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A questo punto si ha l ’impressione che la critica di Hegel perda colpi. Egli osserva, tra l ’altro, che per un verso « le due forze dovrebbero trovarsi in equilibrio, e quindi crescere o diminuire nello stesso rapporto; ma, d’altro canto, si suole spiegare la diversa velocità del pianeta tra il perielio e l’afelio con il turbato equilibrio delle forze » (essendo all’afelio minore la gravità). Ancora la nota al § B, c. 3 della H I sez., del libro della Logica, che torna sull’ar­gomento, ripete: « Se, come si pretende, la forza centripeta ha da crescere mentre il corpo si avvicina al perielio, e la centrifuga ha da diminuire di altrettanto, quest’ultima non sarebbe più in grado di strappare il corpo alla prima e di tornare ad allontanarlo » 14.

Hegel qui trascura il carattere vettoriale delle due forze, e le tratta come grandezze semplicemente scalari: allora è naturale che riesca a opporre alla spiegazione intellettuale del fenomeno « una considerazione semplicissima »: ma tale considerazione, in verità, è troppo ovvia per essere vera.

La critica di Hegel, per contro, appare efficace fin dal 1801, non solo nel denunciare nelle forze « puri nomi » — cosa riconosciuta anche dalla fisica attuale che, infatti, le sostituisce con altri puri nomi, come « interazioni » — ma anche nel rilevare che « la legge della forza centripeta include e contiene, al tempo stesso, la dire­zione tangenziale che si attribuisce alla forza centrifuga, poiché il moto curvo non risulta dalla sola tendenza verso il centro, ma è composto dalla direzione centrale e dalla tangenziale insieme. Se, dunque, si attribuisce alla forza centripeta tutta la quantità di moto, è chiaro che essa non si oppone alla forza centrifuga, ma che per mezzo suo si esprime tutto il fenomeno » 15.

Ciò corrisponde alla consueta conversione dialettica, per cui cia­scuno dei due lati contrapposti è anche, per un altro verso, l ’intero. Lo si vede dal fatto, prosegue Hegel, che « la quantità totale delle forze opposte non va misurata solo da ciò che una fa effettivamente, bensì da ciò che farebbe se l ’altra non lo impedisse: sicché, nella misura di ciascuna, va aggiunto ciò che fa l’altra. La quantità vera

14 Vol. I , p. 394.15 I , p. 366.

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della forza centripeta dev’essere esibita, non solo per mezzo del coseno, ma anche della tangente, cioè col loro prodotto, la diago­nale » ; e viceversa. Ne viene che, si attribuisca il fenomeno all’una0 all’altra forza, la soluzione non cambia 16.

7. Nella dissertazione del 1801 si trovano, dunque, non solo tutti gli elementi della dialettica, ma, ciò che più conta, il loro rapporto. Vi compare, insomma, la contraddizione. La contraddi­zione compare, dapprima, solo nella forma di una opposizione tra due forze, centrifuga e centripeta, di senso opposto. Se non che, dall’eguaglianza di due opposti siffatti, non deriverebbe che una stasi. Il moto si ha perché le due forze — ed è questo ciò che l ’in­telletto non riesce a spiegare — non rimangono opposte nella stessa direzione, ma assumono due direzioni perpendicolari, o, al­meno, formanti un angolo non piatto. Esse divengono, cioè, i due ‘ lati ’ di un triangolo. Ciò si esprimerà nella dialettica matura come una opposizione di qualità: opposizione che precede, non segue, le determinazioni quantitative. Ora, codesta opposizione ad angolo, da cui dipende la dinamicità del rapporto, è una funzione del Tutto: così come si è visto che il valore dell’ipotenusa è funzione del triangolo, e non di seguenti staccati. Di conseguenza non ha senso far risultare il tutto da un rapporto estrinseco tra i due lati staccati:1 due lati si possono relativamente isolare solo a partire dal tutto.

In questa rappresentazione è già presente lo schema della con­traddizione dialettica. Questa conserverà sempre la metafora dei ‘ lati ’, ciascuno dei quali, astrattamente preso, si rovescia nell’altro, mentre nella concretezza del rapporto è anche l’altro, al tempo stesso non essendolo. La loro opposizione è condizionata, quindi, dalla loro originaria unità e identità (nel caso delle forze attrattiva e repulsiva, la gravità), che l’intelletto manca di cogliere. Lo schema dell’angolo permette, appunto, di evitare che tale identità sia intesa come astratta, e che, quindi, anche l’opposizione rimanga astratta. Ma lo schema fa ciò a patto, evidentemente, che non si faccia risul­

14 I , pp. 366-68.

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tare l ’angolo a partire dai lati, ma che, al contrario, i lati risultino da una scomposizione della curva concreta.

Tale scomposizione, già nella dissertazione del 1801, è desi­gnata col termine che resterà canonico di Diremtion, nella forma latina del verbo dirimere 17 : (« Sub angulo qui lineam oppositionis rectam in duas dirimit »). Cioè: l ’opposizione di per sé è rettilinea, a una dimensione; vi è, però, un principium che la sviluppa ad angolo, in due dimensioni. Codesto principium è il Tutto concreto, che, non essendo ancora il concreto assoluto, deve pur sempre porsi dialetticamente nell’astratto. Nel far ciò, si dirime.

Nella logica intellettualistica, come osserva lo Hegel, i concetti contrari e i contraddittori « sono considerati come due specie par­ticolari, ciascuno indifferente all’altro...: come se ciò che è contrario non dovesse essere determinato anche come contraddittorio ». Il vero rapporto tra l ’universale e il particolare, però, è diverso: l ’univer­sale, « in questa opposizione, è altresì identico con i particolari, ed è il vero fondamento per cui essi son tolti » 18. Questo ben noto passo della Logica (III , I, 1, B2 nota) si illumina a partire dallo schema del 1801, dove la semplice opposizione di segno a una dimensione diviene contraddizione, bidimensionale, grazie al princi­pium concreto che dirime « sub angulo lineam oppositionis ». Di qui si forma quel triangulum, che la terza tesi del 1801 chiama « lex mentis ». E il triangolo è lo schema di questo sillogismus che la tesi seconda dice essere « principium idealismi ».

8. « La differenza è già la contraddizione in sé », dice la Logica (II, I, 2 C), perché implica unità e separazione a un tempo; e, come si dice a proposito del rapporto di sostanzialità, « si anima fino all’opposizione » I9. Ma, quando uno dei due termini sia preso comc positivo, e l ’altro come negativo (esempio: luce-tenebra), « si ha

« I , p. 362.18 Ed. cit., I I , p. 257.19 «B egeistet sich zur Entgegensetzung»: Wiss. d. Log., I I , I I I , I I I A:

vol. I I , p. 186.

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la contraddizione posta ». Allora « il risultato della contraddizione non è soltanto lo zero », perché « il negativo è, insieme, anche il positivo; ossia, quel che si contraddice non si risolve nello zero, ma solo nella negazione del suo contenuto particolare » x . Questo è « l ’unico accesso per raggiungere il procedimento scientifico ».

Ora, che cosa fa sì che l ’opposizione non resti rettilinea, ma si sviluppi ad angolo? Non è facile dirlo, in base ai testi hegeliani, perché la loro stessa pretesa di formulare i concetti dal punto di vista dell’Assoluto li porta a trascurare lo schematismo, proprio di una mente finita. Certo, Hegel usa costantemente la metafora dei lati, e dice che questi cominciano a distnguersi in virtù della qualità. È la qualità, infatti, quella che fa sì che la negazione sia negazione di un « contenuto particolare ». Ciò non di meno le modalità della negazione sono tratte, piuttosto, dal modello dell’« enunciazione ne­gativa sostantivata », come mostra la puntuale ed acuta analisi dello Henrich21, che dallo schema dell’angolo. La nota a B 3 della sez. I c. 2 del libro secondo della Logica mostra come dal « + a — a = 0», in cui a è la loro relazione identica, gli opposti passino ad un rap­porto in cui entrambi sono altresì « due indifferenti », che, come tali, non si annullano più, sicché « + y — y = 2 y ». « Così, ad esempio, un miglio di cammino verso levante e poi uno verso po­nente è doppia fatica ».

Infine gli opposti giungono ad avere il negativo e il positivo dentro di sé. Ad esempio: in « 8 — (— 3) » il meno fuori della parentesi indica solo un’opposizione rispetto al senso, preso per convenzione come positivo, dell’8; ma l ’altro meno determina qua­litativamente il — 3 come tale. Di ciò Hegel si vale per chiarire la regola della moltiplicazione « meno per meno dà più ». Ora, questo fa al caso nostro, perché con la formula « — a. — a = a2 » noi passiamo dalla prima alla seconda potenza: cioè aggiungiamo quella dimensione che mancava all’opposizione lineare. E questo

20 Introd., vol. I , p. 38.21 D . H e n r ic h , Formen der Negation in Hegels Logik, in Seminar: D ia­

lektik in der Philosophie Hegels, Frankfurt, Suhrkamp, 1978, pp. 213-229.

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avviene precisamente grazie a quella « doppia negazione riferita a sé » 22 in cui lo Henrich coglie la radice della contraddizione.

In ogni caso la « contraddizione posta » implica una unità non immediata della diversità. E diviene « contraddizione assoluta » quando costituisce « l ’unità originaria [corsivo mio] di una diver­sità sostanziale ». Codesto passaggio è decisivo: ci fa passare dalla mera « azione reciproca » al concetto, dove, finalmente, la contrad­dizione è sviluppata.

9. Poiché, dunque, la « contraddizione posta » è una unità non immediata della diversità, domandiamoci: qual’è il termine medio necessario a porre la contraddizione, e, quindi, a renderla (secondolo schema) bidimensionale, distinguendola da una opposizione im­mediata, in cui i due termini (ad esempio: essere e non essere) si rovesciano immediatamente l ’uno nell’altro, senza divenire i due lati della totalità?

Il termine medio è, senza dubbio, la riflessione. Essa sola fa sì che il negativo agisca come « immane potenza del negativo », anzi­ché essere l ’immediato ribaltarsi del positivo. In virtù della rifles­sione, l ’immediato « va in sé » (in sich); e, andando in sé, si pone come un « per sé » (für sich), di contro all’universale an sich da un lato, e di fronte a ogni altro « per sé » dall’altro. I due lati della contraddizione sono, quindi, l ’universale e il particolare, allorché quest’ultimo è « tenuto fisso » dall’intelletto, come un che di indi- pendente. In queste condizioni, i due lati appaiono all’intelletto come « indifferenti » l ’uno all’altro, anche se tali, in realtà, non sono. L ’apparenza che lo siano, tuttavia, come è ben noto, se da un lato dà luogo a accidentalità, dall’altro, in se stéssa, non è punto casuale, bensì essenziale, come prodotto inevitabile della riflessione, e per questo la contraddizione che ne risulta non è un mero inci­dente logico, ma inerisce alla natura della .realtà. La realtà, di con­seguenza, non potrà essere colta se non dialetticamente.

La riflessione comincia fin dalla categoria hegeliana dell’essere :

22 « Selbstbezügliche doppelte negation » : loc. cit., p. 225.

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qui, tuttavia, non si svilùppa ancora dall’interno, perché l’essere è « privo di determinazioni di contro all’essenza » 23. L ’essere, inde­terminato, acquista una prima qualità solo per opposizione, solo « in contrapposto all’essere determinato, ossia al qualitativo », che fa, per opposizione, una ‘ qualità ’ della sua stessa indeterminatezza. Solo per questo si dialettizza col nulla, che è anch’esso « assenza di determinazione » in quanto « semplice simiglianza con sé ». In generale, però, in tutto lo sviluppo fino all’« essere per sé » l ’essere si determina solo in riferimento all’essenza, e non da se stesso, dal proprio interno. Cioè, acquista la dimensione qualitativa, e diviene ‘ lato ’ di una contraddizione, solo in virtù di una riflessione, che non sviluppa da sé. Di per sé è — direbbe il Gentile — ‘ un pen­sato ’, e il suo continuo opporsi a se stesso nella differenza quali­tativa non si fonda all'interno dell’essere medesimo.

Così, ad esempio, la qualità e la quantità sono, bensì, i due lati della misura, tra loro qualitativamente diversi; ma la loro differenza e unità si trova ancora « nell’immediatezza dell’essere » (come os­serva il § c della sez. I l i , c. I ) 24; e, da questo punto di vista, rimane indifferente quale dei due lati prendere come qualità, cioè appunto come quella differenza qualitativa che ‘ dirime ’ i lati.

Di codesta indifferenza la sezione citata della Logica porta un esempio che è, ancora, il medesimo del De orbitis planetarum: spa­zio e tempo come lati del movimento. « Se ciascuno di codesti due termini non fosse altro che una certa particolare qualità in generale, non vi sarebbe in essi alcuna differenza capace di indicare quale dei due, riguardo alla sua determinazione di grandezza, venga preso come il termine solo estrinsecamente quantitativo, e quale, invece, come il termine che varia in specificazione qualitativa » 25. Lo stesso non può dirsi se spazio e tempo sono visti in concreto, cioè muo- mendo dalla considerazione del moto. Premesso che il moto può essere di tre specie: meccanico, condizionatamente libero (nella

23 Ed. cit., I , p . 67.» I, p. 355.25 I , pp. 413-14.

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caduta), o assolutamente libero (dei corpi celesti), si ha che « tali rapporti fondamentali riposano sulla natura delle qualità che stanno nel rapporto, vale a dire sulla natura dello spazio e del tempo e sulla relazione in cui stanno [ ...] . Queste specie di moto, come pure le loro leggi, sono basate sullo sviluppo del concetto dei mo­menti del moto stesso, vale a dire dello spazio e del tempo, in quan­to queste qualità come tali, in sé, ossia nel concetto, si dimostrano inseparabili [corsivo mio] e il loro rapporto quantitativo è l ’essere per sé della misura, cioè un’unica determinazione di misura »

Nell’unità del concreto i due opposti, non più astratti, diven­gono ‘ lati ’ quando l ’uno si qualifica come momento dell’unità e l’altro della estraneità, inseparabili nella loro differenza qualitativa: « Lo spazio, come nella gravità specifica il peso, è, in generale, un tutto estrinseco reale, e pertanto il ‘ numero di volte ’ [numerato­re]; mentre il tempo è il contrario, come il volume: è l ’ideale, il ne­gativo, il lato dell’u n ità »27 [il denominatore]. In questa opposi­zione la differenza è necessaria dentro l ’unità, e si sviluppa da questa. A questo punto, l’opposizione si configura sul piano logico come contraddizione sviluppata.

10. Ciò detto, riesce spontaneo domandarsi: come mai il lato dell’unità è rappresentato dal negativo, e come si costituisce questo negativo in sé, diverso dal negativo che è tale solo in riferimento ad altro? Su questo punto le indagini di Dieter Henrich vanno ricordate come fondamentali. Esse hanno colto la connessione ne­cessaria tra il momento negativo della riflessione (secondo momento logico) e la dialettica dello stesso essere immediato (primo mo­mento) mettendo in luce uno ‘ spostamento di significato ’ del termine ‘ immediatezza dal senso primo di immediato tout court a un senso riflesso, di immediato come negazione della negazione. Questo passaggio ha luogo nella sezione sulla riflessione della Lo­gica dell’essenza: la quale, dunque, permette di capire anche la

26 I , pp. 415-16.27 I , p. 415.

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logica dell’essere. Solo muovendo all’indietro, dall’essenza, l ’imme­diato è visto come il ‘ presupposto della riflessione ossia come ciò da cui la riflessione torna in sé (oppure, se la riflessione è estrin­seca, come ciò su cui si riflette); ma anche, al tempo stesso, come posto dalla riflessione medesima, senza di che esso resterebbe un immediato empirico.

« La riflessione è, dapprima, movimento dal nulla al nulla, semplice eguaglianza con sé, immediatezza. Ma codesto coincidere non è un passare dalla negazione nell’eguaglianza con sé, quasi nel suo esser altro: anzi è un togliersi del passare, in quanto immediato coincidere del negativo con sé... Il riferimento del negativo a se stesso è, dunque, il suo ritorno in sé ». Questa immediatezza, che esiste solo come ritorno in sé del negativo, è quella che costituisce la determinazione della parvenza, da cui sembrava cominciare il movimento riflessivo. Essa è «u n porre [...] e, in pari tempo, un presupporre. Toglie il suo porre; e il suo porre, in quanto è il togliere, è un presupporre ».

La riflessione trova, dunque, prima di sé un immediato che essa oltrepassa, e dal quale costituisce il ritorno. « Ma questo ritorno è solo il presupporre ciò che è stato trovato [ ...] . In questo, poi, la riflessione ha una presupposizione, e comincia dall’immediato come dal suo altro: essa è riflessione esterna ».

« La riflessione viene presa comunemente in senso soggettivo », osserva la L o g i c a e appunto per ciò, appare esterna all’oggetto. In questo senso, non solo è « una parola straniera » al tedesco, ma è altresì una metafora: un’immagine tratta dal riflettersi di un raggio o di un’onda su un ostacolo. Nel linguaggio hegeliano, però, codesta metafora soggettiva torna a riferirsi all’oggetto, e forma, a partire dal senso soggettivo, una metafora di secondo grado. Ciò si giustifica perché, al di sotto della stessa riflessione soggettiva, « vi è il concetto della riflessione assoluta. Infatti l ’universale o princi­pio o legge a cui la riflessione mette capo nel suo determinare vale come essenza di quell’immediato da cui si comincia; e così questo

28 II , p. 18 (L . I I , sez. I, c. 1 e 2, nota).

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è come un nulla, e solo il ritorno da esso, il determinare della riflessione, equivale a porre Yimmediato secondo il suo vero essere » 29.

‘Soggettivo ’, dunque, non vuol dire psicologico, come non voleva dirlo nel linguaggio classico. La riflessione costituisce la realtà come ‘ soggetto ’, ma non ci si deve ridurre a intendere il soggetto, né come soggetto logico (della proposizione) né come soggetto psicologico. Il termine significa, semplicemente, che in virtù della riflessione (determinante) la realtà si costituisce come un ‘ soggetto ’, e non più come un immediato irriflesso. « Nella sfera dell’essere, l ’esserci era l’essere che aveva in sé la negazione, e l’essere era il terreno immediato e l’elemento di tale negazione: che, quindi, era essa stessa negazione immediata ». A questo essere determinato fa riscontro, nella sfera dell’essenza, l’esser posto dalla ‘ riflessione ponente ’. Un esser posto che è ‘ superiore ’ all’imme­diato, perché in esso 1’« esserci è come quello che esso è in sé ».

L ’essere posto — osserva ancora Hegel — non è ancora una determinazione riflessiva [ ...] ; ma il porre è, ora, in unità con la riflessione esterna, che in tale unità è assoluto presupporre: cioè il respingersi della riflessione da se stessa, ovvero il porre la deter­minazione come determinazione di lei stessa ». Tale determinazione non è più la semplice ‘ qualità ’ della sfera dell’essere, che era ‘ la negazione come esistente ’ : « La determinazione riflessiva ha per fondamento Tesser riflessa in se stessa » 30. Di conseguenza, nella determinazione riflessiva vi sono due lati; in primo luogo essa è Tesser posto, la negazione come tale; in secondo luogo è la riflessio­ne in sé ». « La determinazione riflessiva è la relazione al suo essere altro in se stessa » 31. Insomma: la determinazione riflessiva ha, finalmente, tutte le dimensioni della contraddizione: i due lati, e « l ’unità con l ’altro in se stessa »; è, insieme, « in lei stessa il lato determinato e la relazione di esso in quanto tale alla propria nega­

29 I I , p. 19, corsivo mio.μ I I , p. 20.« I I , p. 21.

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zione ». Sicché « non è come una determinazione essente, quieta [scil.: dall’essere], che venga riferita ad altro » (com’era la qualità, in cui solo in riferimento ad altro « comincia il mutamento »). La determinazione riflessiva, al contrario, ha ripreso in sé il proprio esser altro: è « esser posto, negazione che però ricurva [zurück­beugt] in sé la relazione ad altro ». Questo è precisamente la con­traddizione·. la determinazione che « ricurva in sé la relazione ad altro ».

11. Attraverso la suesposta analisi della riflessione abbiamo trovato perché il moto assolutamente libero dei pianeti è un moto curvo, senza che occorra presupporre una forza esterna, che incurviil moto inerziale. Tornando al De orbitis planetarum, vi troviamo bensì il termine reflectio, ma lo troviamo solo riferito all’intelletto, in veste di « riflessione esterna » 32. Eppure anche quella che nella Logica sarà chiamata « riflessione determinante » vi ha una parte decisiva. Qual è, infatti, la ragione della curvatura delle orbite? È precisamente una « forma subjectivitatis ». E codesta forma non va intesa, è chiaro, come soggettività semplicemente psicologica, bensì come quella « riflessione immanente nell’immediatezza stessa » di cui parlerà più tardi la Logica (I, I, I, c. 2). « Per intendere la nozione reale e fìsica della materia, questa va posta anche [scil.: oltre che come « spazio riempito » ] sotto la forma della soggetti­vità ». E nel De orbitis planetarum ciò avviene negando lo spazio come tale, cioè negando la forma stessa dell’esteriorità. Ora, qual’è la negazione spaziale dello spazio? È il punto. Perciò il De orbitis planetarum afferma: « Per intendere la materia reale occorre ag­giungere, alla nozione astratta dello spazio, la forma contraria della soggettività, che, in miglior latino, va detta piuttosto mente, e che, quando sia riferita allo spazio, chiameremo punto. In tal modo il punto — nella forma a lui propria della differenza, il tempo — , e lo spazio costituiscono gli elementi della materia: che non è com­posta [ conflatal da essi, bensì è il loro principio. Da questa iden­

32 All’inizio del quinto capoverso della I I parte: I , p. 390.

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tità e differenza, interna e primitiva, di potenze opposte delPOriente e dell’Occidente — poiché i poli riposano — è dato intendere la necessità del mutamento e del moto ».

Come si vede, nella materia identità e differenza sono « inter­ne » come nella contraddizione; e perciò interno e libero è il principio del moto. Di un moto ellittico, più precisamente, che il riferimento intrinseco al « punto » — ossia al baricentro del corpo centrale — incurva.

Lo spazio di codesto moto non è più un essere immediato, uno spazio astratto: esso è posto dalla negazione di quella sua negazione che è il punto. È dunque, un essere posto da una riflessione che lo pone, e insieme lo presuppone, dal momento che si tratta dello spazio « in cui » avviene quel movimento ben determinato, e non di uno spazio indeterminato, quale sarebbe lo spazio del movimento inerziale. Ora, da che cosa è mediata tale determinazione dello spazio? È mediata dalla riflessione nel suo contrario, che è il tempo; e il tempo è soggettività come mens, rappresentata, nello schema spaziale, dal punto.

La negazione dello spazio, infatti, torna necessariamente a ne­gare la propria puntualità: il tempo si sviluppa, — o intuitivamen­te, « scorre » — dando luogo ad una linea. Una delle due potenze, la mente [più tardi Hegel dirà « la riflessione assoluta » ] — la quale producendo se stessa, quando si astragga dallo spazio, è il tempo — in quanto riferisca allo spazio siffatta produzione di sé co­stituisce la linea. La linea è la stessa mente che si produce in una forma soggettiva [corsivo mio], chiusa in se stessa. Ma (con ciò) essa assume in sé la forma naturale e perfetta nel contrario, passan­do nello spazio, e costituendo il piano·, il quale, non avendo noi posto altra differenza che quella della mente stessa e dell’estensione, manca di ogni altra differenza, ed è il quadrato ».

La mente, o tempo, che si nega nel quadrato allude alla terza legge di Keplero, secondo cui i quadrati dei tempi di rivoluzione sono proporzionali ai cubi dei semiassi maggiori delle orbite. Ma più in generale si tenga presente che, per la terza delle tesi annesse al De orbitis pianetarum, « il quadrato è la legge della natura », così come per la seconda, « il triangolo è la legge della mente ».

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Traduciamo tutto ciò in termini dialettici. La negazione della nega­zione riflessa, ossia della « mente », fonda la bidimensionalità (il « quadrato ») della contraddizione immanente nella natura come « esser posto » dalla riflessione medesima: questa funge, perciò, da termine medio dei due lati del triangolo, « legge della mente ».

Qui la riflessione non ha, evidentemente, nulla di psicologico; sebbene, senza dubbio, l ’introspezione agostiniana l ’abbia indiret­tamente suggerita, mostrando che il tempo non esiste se non ab­braccia la propria negazione. Il tempo come presente sarebbe pun­tuale, e il passato e il futuro sono il suo non-essere: ma il tempo non è senza essere anche questo suo non-essere e, quindi, senza ne­garsi e spazializzarsi.

In altra direzione, l ’analisi del De orbitis anticipa, sorprenden­temente, l ’interpretazione di S. Alexander del « tempo come mente dello spazio » (con la precisazione, secondo l ’Alexander, che « la mente va intesa come una forma di tempo, non il tempo come una sorta di mente » B; e perfino la deduzione, che l ’Alexander tenta, a partire di qui, delle tre dimensioni dello spazio. Ma l ’anticipazione più interessante del De orbitis è quella che ha luogo rispetto alla stessa logica hegeliana: e, più precisamente, alla dottrina secondo cui la « riflessione ponente » dell’essenza determina un immediato come « identità e differenza interna e primitiva di potenze opposte », cioè come contraddizione.

12. Con ciò abbiamo potuto constatare in un caso privilegiato, perché aurorale, l ’importanza della filosofia della natura per la dia­lettica. Le orbite dei pianeti forniscono alla dialettica, non solo un esempio di comportamento non spiegabile se non dialetticamente, ma anche uno schema per pensarla. Uno schema a cui lo Hegel non sembra particolarmente interessato, dato il carattere non trascen­dentale della sua logica; ma che, ciò non di meno, egli userà di continuo. È lo schema della Diremtion, dei « lati », ciascuno dei quali è l’unità di entrambi.

33 S. A l e x a n d e r , Space, Time, Deity, Londra, 1920, vol. I I , p p . 38 e 43.

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Infine, cosa che appare ancor più rilevante dopo le indagini dello Henrich, a proposito dei pianeti emerge un concetto dialettico fon­damentale: il concetto di un « essere immediato di secondo grado »; cioè di un essere determinato, all’indietro, come presupposto, dalla negazione della negazione riflessiva.

Ma, se è così, si deve riconoscere anche l ’inverso: non solo la filosofia della natura è importante per la dialettica, ma la dialettica è importante per la filosofia della natura, anzi per il concetto di na­tura in generale.

Nell’esempio che abbiamo analizzato, noi troviamo una realtà naturale che è tale, cioè immediata, perché in essa è immanente una riflessione, sia pure una riflessione tolta; e perché vi è presente una contraddizione, sia pure una contraddizione non sviluppata, o che si sviluppa solo di fronte al tentativo dell’intelletto di interpre­tare le orbite come il risultato di due forze indipendenti che tirano qua e là i pianeti. Che nella natura vi sia una riflessione tolta, è cosa che si accorda perfettamente con la collocazione, che la natura ha nel sistema hegeliano, in posizione di antitesi. Apparentemente, però, questa antitesi ha un fondamento tutto particolare, e perfino opposto a quello che le antitesi hanno, di regola, nel sistema hege­liano. L ’antitesi è il momento del per sé, cioè della momentanea ipostatizzazione delle determinazioni in una indifferenza reciproca. Ma, di regola, tale ipostatizzazione è dovuta all’« immane potenza del negativo », che si manifesta in virtù della riflessione. In tutte le antitesi, perciò, le determinazioni « vanno in sé », ossia si interio­rizzano, attraverso una doppia negazione che, come osserva lo Hen­rich, serve a definire ciò che all’origine era chiamato Insichsein, più tardi Fürsichsein e infine Subiektivität34. L ’abitudine italiana di usare « in sé » per an sich, anziché per in sich, maschera codesto interiorizzarsi del für sich che all 'an sich si contrappone. In realtà1 'an sich, cioè 1’« a sé », non è affatto « in sé » nel senso di interio­rizzato. Senza dubbio le determinazioni dell’essere in astratto sono « indifferenti »: ma estrinsecamente. La loro indipendenza intrin­

34 Seminar, cit., p. 223.

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seca für sich sarà posta, come un presupposto, solo secondariamente, in virtù della riflessione.

Ne viene che le sezioni seconde delle opere hegeliane sono tutte sezioni di un in sich, o di una Subjektivität, quanto meno potenziale. Così pure i capitoli secondi o le sottosezioni seconde: insomma tutto ciò che si trova nella posizione dell’antitesi. Per esempio, scorrendo nell’Enciclopedia, il fenomeno, l’individualità particolare, la fenomenologia dello spirito, la moralità, sono tutte caratterizzate da « un andare in sé ». E quando troviamo come titolo, al punto B della sezione del concetto, « L ’oggetto », non dobbiamo credere a un’eccezione, perché subito leggiamo, al § 194, che la definizione « l ’assoluto è l’oggetto è contenuta nel modo più determinato nella monade leibniziana » [corsivo mio], cioè, appunto, nell’interiorità pura (Sia pure così pura da rovesciarsi in assoluta esteriorità: « L ’oggetto è l’assoluta contraddizione della indipendenza completa del molteplice e della dipendenza, anch’essa completa, della me­desima »).

Di fronte a ciò, solo la natura nel suo complesso sembra costi­tuire un’eccezione: perché la natura è esternità, « idea nel suo alienarsi da sé » , traduce il Croce (§ 18): (sebbene il testo sia un po’ diverso: nel suo Anderssein, nella sua differenza). In ogni caso nella natura trovano effettivamente posto l ’esteriorità astratta dello spazio, che è Auseinander sein, e l ’«esteriorità isolata » della materia (§ 253). Esteriorità reale, non solo esteriorità di un pensato ri­spetto all’altro. Dobbiamo allora concludere che questo è il solo caso di un’antitesi che non va in sich? La conclusione, credo, de­v’essere un po’ diversa.

13. Per un verso è vero: la natura è un originario; ha i caratte­ri dell’essere, piuttosto che dell’essenza, e costituisce quindi una tesi, piuttosto che un’antitesi. La natura non è certamente l’inte­riorizzarsi del Logos: non perché manchi di riflessione — se è vero quel che si sostiene qui — , bensì perché il Logos non si interiorizza se non in sé. Non si interiorizza in altro perché è già dialettica“ mente saturo, e non va a cercare fuori di sé la propria antitesi. Il Logos è tutto, e la filosofia del logos, o logica, corrisponde all’intera

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Realphilosophie, non ne costituisce il primo momento. È vero che, nell’infinito, la parte può essere immagine del Tutto, e che Hegel definisce il proprio sistema come un « circolo di circoli »: ma il Logos è il circolo totale (sia pure come « mero » pensiero): non è uno dei circoli. Né la formula « Dio prima della creazione del mondo » cambia le cose: Dio prima della creazione del mondo è un’astrazione, non un momento della filosofia hegeliana che si dia­lettizzi con un’antitesi.

Hegel, tuttavia, maschera questa situazione sotto una struttura triadica del sistema: e, questo, per ragioni comprensibili. Se egli continuasse a distinguere diadicamente una « logica » da una « me­tafisica », come nell’« Abbozzo di sistema », o da una Realphiloso- phie, ammetterebbe che la « considerazione pensante del mondo » sia una considerazione sul mondo: dunque, non condotta dal punto di vista dell’Assoluto. Solo in tal caso, infatti, la legge del pensiero si distinguerebbe dal pensiero del mondo.

Noi, però, non è necessario che si condivida questo timore. « Per noi » (se mi è lecito ritorcere contro Hegel una tale espres­sione) la pretesa di filosofare dal punto di vista dell’Assoluto (e non, cioè, di interpretare semplicemente l ’Assoluto) è arbitraria. Nulla di male, quindi, se vediamo la posizione della natura nel sistema con altri occhi.

Del resto, anche hegelianamente, la natura non manifesta affatto quel tipo di scissione dall’universale che caratterizza le antitesi. Essa è scissa in sé stessa, è vero, perché l’universale vi è immanente in modo immediato; ma scissione e morte sono piuttosto un suo de­stino che un suo carattere. In sé essa è armonia (precaria) e vita. E altro è avere in sé la ragione necessaria della scissione, altro presentarla. Certo, dir ciò è romantico, perché appunto nelle sue origini romantiche la natura va collocata al primo momento. Natura è 1’« anima bella » prima della virtù, natura è la classicità prima della coscienza infelice, e così via. È natura, insomma, 1 'an sich, appunto perché aperto, anteriore all’insearsi e al problematizzarsi della riflessione.

Solo quando l’intelletto, in questa situazione aurorale, fa sentire gli effetti devastanti della sua negatività, il reale si interiorizza:

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abbandona le pianure dell’essere, per rifugiarsi nei monasteri forti­ficati dell’essenza. In essi porta tutto ciò che gli serve per vivere: i cibi, gli attrezzi, i manoscritti. E vi porta anche le immagini degli dèi, grazie alle quali riguadagnerà l’aperto, conquistandolo, mentre prima si limitava a trovarcisi dentro. Tuttavia le immagini degli dèi non sono Dio: l ’interiorità è scissa da Dio.

In altri termini: l ’interiorità sente l ’assoluto universale come esterno, come alieno e fuori di sé; e sente sé come un mero parti­colare. È forse questo la natura? Evidentemente no. Dunque la natura non è un’antitesi, e la filosofia della natura non ha la posi­zione dell’antitesi.

Solo in un diverso ciclo si potrebbe collocare la natura al secon­do posto: nel ciclo gnostico, in cui la natura sorge dal sonno di Adamo, ultima progenie divina, nonché dal suo « nominare » le cose. Qui la natura effettivamente è antitesi; ma antitesi apparente, (docetismo), così come è apparente l’incarnazione. La riconciliazione (Versöhnung) che fa tutt’uno con la conoscenza (gnosi) ci fa risve­gliare dal sonno, e riconoscere immediatamente come figli (Söhne) di Dio. Codesto ciclo, anche se influisce su Hegel, non è propria­mente hegeliano. Semmai minaccia lo Schelling, da cui, pure, Hegel si vuole liberare facendo della natura una realtà non aurorale (non romanticamente aurorale). Come uscire da questa difficoltà?

15. La difficoltà si risolve tenendo conto di quello che si è detto dianzi, sulla scia dello Henrich. La natura è un presupposto che tuttavia è posto·, un immediato che, tuttavia, risulta da una ri­flessione tolta, dalla « negazione della negazione », nel senso della seconda formula di Henrich: N—N dà I(mmediato). Allora s’inten­derà come la natura non sia affatto il secondo momento ma il primo, presupposto di tutto il processo dialettico; e, tuttavia, un primo posto che è posto da questo stesso processo, nel suo passaggio attra­verso il momento della riflessione o dell’essenza (determinante).

Per questo la natura è dialettica e, grazie al fatto di essere dia­lettica, esistente e vivente-, pur non essendo ancora dialettica svilup­pata e pensante. Ed è, come natura, il vero primo momento della dialettica, non potendosi considerare il Logos (o « Dio prima della

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creazione del mondo ») come un « momento » della dialettica, bensì come tutta la dialettica sotto un aspetto particolare.

A questo primo momento della Realphilosophie, se vogliamo ricostituire il sistema, dobbiamo farne seguire altri due. E l ’im­presa non è difficile, sebbene sia irrispettosa verso Hegel: A) filo­sofia della natura; B) filosofia della psiche; C) filosofia dello spirito. La filosofia della psiche corrisponde, néil’Enciclopedia, alla sezione « Antropologia: l’anima ». Solo la psiche, infatti, (non la natura) è riflessione in sé, ritiro nelPinteriorità, coscienza da cui, nella sot­tosezione B intitolata « Fenomenologia dello Spirito », si ritorna, infine, alla coincidenza del per sé col per noi. Ciascuno di questi momenti del sistema è l’intero sotto un certo aspetto, e ciascuno è dialettico, nel senso che contiene tutta la contraddizione, in una forma a volta a volta diversa: implicita nella natura, soggettivata nella psiche, sviluppata e risolta nello spirito; ma sempre come contraddizione intera (e quindi vera), non solo a titolo di momento astratto di una dialettica ulteriore. Possiamo ben dire che la natura è dialettica nella forma dell’essere, la psiche nella forma dell’essen­za, lo spirito nella forma del concetto: ma sempre come totalità della contraddizione, non come tesi o come antitesi di un’unica sintesi spirituale.

E solo perché contiene in sé la contraddizione, vera e concreta— sia pure senza « sopportarla », al punto di morire, se essa diviene esplicita, laddove lo Spirito vive della contraddizione sviluppata — , la natura è reale e non semplicemente « ideale ». Così reale che, nonostante che la dialettica abbia in lei la forma dell’essere, per pensarla io ho bisogno delle dimensioni del concetto.

Le astrazioni di cui la natura è composta — qualità quantità, rapporto; o, sul piano reale, spazio, tempo, materia, fenomeni — sono bensì, di per sé, pensabili nella logica dell’essere o in quella dell’essenza: ma non la natura concreta. Questa è pensabile solo con categorie concettuali della terza sezione, in cui la contraddizione è sviluppata. È vero che la natura « non risponde al suo concetto » (Enciclopedia, § 248): « È la contraddizione insoluta ». Ma essa non risponde al suo concetto perché ha le dimensioni del concetto; ed è contraddizione insoluta perché è contraddizione. Essa è la to­

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talità dell’idea, anche se nella forma più falsa possibile: nella forma dell’esteriorità, in cui al posto della libertà c’è lo spezzarsi in acci­dentalità individuale e necessità universale. È l ’idea come sussistente « in sé » o, meglio a sé, an sich (e per nulla affatto in sich o füt sich), mentre la Logica, lungi dall’essere P« idea a sé », è l’idea in tutti e tre i suoi momenti (sebbene in forma di pensiero espresso concettualmente). La Logica, al contrario della natura, non è posta come un presupposto.

« La natura — dice il § 251 à<t\VEnciclopedia — è in sé un tutto vivente: il movimento attraverso la sua serie di gradi consiste, più precisamente, nel porsi dell’idea come ciò che essa è in sé,o, che è il medesimo, l ’idea, dalla sua immediatezza ed esteriorità che è la morte, torna in sé per esser da prima il vivente, e poi su­pera anche questa determinatezza, nella quale è soltanto vita, e si produce nell’esistenza dello spirito ». Come contraddizione, dunque, la natura presuppone la riflessione che la pone: ma che la pone come un suo presupposto; sicché la natura è la contraddizione origi­naria, che l ’odissea della coscienza e dello spirito avrà, poi, il com­pito di sviluppare.

16. Questa conclusione è di somma importanza, non solo per la filosofia hegeliana, ma per qualsiasi filosofia della natura. Una filosofia che tralasci di cogliere, nella natura, la contraddizione, non è filosofia, ma vuota astrazione.

La contraddizione compare già al livello della meccanica, non appena questa cessi di essere « razionale », per divenire descrizione di fenomeni. Il rapporto tra derivata prima e derivata seconda dello spazio, il passaggio da una velocità relativa e ideale a un’accelera­zione intrinseca e assoluta, son già sufficienti a sfidare qualsiasi ten­tativo di appropriazione da parte dell’intelletto astratto. Ma, poi, l’impossibilità di adottare un qualsiasi modello continuo, o discon­tinuo, o continuo e discontinuo insieme, dei fenomeni fisici; la necessità e impossibilità insieme di una scala assoluta delle gran­dezze, con conseguente introduzione di modelli non euclidei sotto­stanti al modello intuitivo euclideo; il necessario ricorso a costanti universali, assolutamente indeducibili, e le limitazioni di principio

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che esse impongono, congiunte all’inevitabilità di oltrepassarle col pensiero, ecc., sono tutte sfide che solo la filosofia speculativa può raccogliere, non l’intelletto astratto in senso hegeliano.

Lo scienziato, senza dubbio, può difendersene, e molte voltelo fa, all’interno di aree di ricerca protette da presupposti oppor­tunamente scelti. Allora egli rifiuta di scendere sul terreno spe­culativo, e ne ha il diritto. Ma, in tal caso, la sua riflessione, comunque egli la chiami, non ha che fare con una « filosofia », né della natura, né della scienza. Quando, per contro, la filosofia rifac­cia sentire il suo richiamo, lo scienziato stesso non è più in grado di esorcizzare la contraddizione.

Questo, anche al di sotto del livello della vita, che, come « idea immediata », è contraddizione vivente, esteriorità « andata in sé e tolta nella soggettività ». « Nella vita — si dice un po’ più in là in questo stesso passo della Logica35, c’è la contraddizione assolu­ta ». La contraddizione vivente, peraltro, retroagisce sulla stessa natura inorganica, che ne è il presupposto; e abbiamo ormai impa­rato a conoscere questo schema, del « presupposto, posto attraverso la negazione della propria negatività » Dice la Logica36 : « Il deter­minarsi del vivente è il suo giudizio, ossia il suo rendersi finito, per cui esso si riferisce all’esterno come ad una oggettività presupposta, ed è con quella in azione reciproca ». E il corrispondente § 219 dell’Enciclopedia: « La relazione negativa del vivente verso di sé forma, come individualità immediata, il presupposto di una natura inorganica che sta a lui di fronte ». In sostanza la stessa materia, come materia fisica, non è punto (cartesianamente) un’astratta estensione ma è (leibnizianamente) corporeità organica, in cui, sem- picemente, l ’individuazione si è tolta (o, hegelianamente, si è negata la negatività della riflessione). Ciò fa dell’inorganico un assoluto presupposto che, tuttavia, è posto: posto attraverso la contraddizio­ne, tanto che, quando la riflessione si esercita poi intorno ad esso, toma a farne scaturire la contraddizione dall’interno.

35 I I , p. 415.36 I I , p. 421.

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17. La natura è la contraddizione realizzata; e per questo non tollera la quiete. Sussiste, eracliteamente, scorrendo; e, cambiando di continuo tempo e luogo, manifesta l’impossibilità di essere in un tempo e in un luogo. La sua necessità eterna, che pure c’è, c’è in ge­nerale: i particolari, i soli che esistono naturalmente, hanno il ca­rattere deH’accidente. La loro naturalità si manifesta, appunto, nel nascere, cioè nel cadere in una trama di leggi generali, a cui essi, nella misura in cui « sono », non appartengono; perché quelle leggi determinano tutto, di loro, salvo il loro essere. Perciò gli esseri na­turali sono «accidentali», zu-fällig; e lo Zufall del loro nascere è un « cadere alla » sfera dell’esistenza, non un semplice derivare da incontri di realtà, preesistenti nella sfera stessa.

Questo è evidente nel caso dei viventi: ma, come s ’è visto, nella natura il vivente è logicamente anteriore a quella assenza di individuazione che è propria dell’inorganico.

Per questa sua inquietudine, la natura è strettamente legata alla storia: o, più esattamente, è il fondamento dello scorrere della storia. Questa si sviluppa nel tempo unicamente perché le sue indi­vidualità cadono nella natura, e, quindi, non possono essere tutte insieme (come sarebbero in paradiso).

Anche lo spirito, osserva lo Hegel, ha una natura. Ma perché? Perché il suo manifestarsi, pur essendo manifestarsi dell’eterno, è condizionato dal « cadere a » una trama di accidentalità legalmente regolate che, come natura, è la trama stessa della storia. Se non che la storicità e naturalità delle manifestazioni dello spirito è, appunto, « accidentale », nonostante che nel considerarne il valore se ne prescinda.

Vi è tuttavia uno sviluppo dello hegelismo (ammesso che lo sia), il crocianesimo, che tralascia del tutto questo aspetto dell’idea, di­mentica il « cadere a », che caratterizza la natura e la storia, e in­tende come « storici » tutti i fatti naturali, e viceversa, abolendo la distinzione tra fatti « significanti » e insignificanti », e chiamando tutto questo « spirito ». È una conseguenza, si può ben dire, del rifiuto di cogliere la dialettica nella natura. L ’importante è non farne una conseguenza di Hegel. In Hegel la distinzione tra « sto­rico » e « non storico », tra significante e insignificante, tra rivela-

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tivo e fattuale, tra spirito e natura, rimane: e rimane appunto grazie al fatto che la natura è dialettica. Così la dialetticità della storia, condizionata dalla dialetticità della natura, o contraddizio­ne non sopportata, impedisce alla storia di essere un « movimento quieto in sé stesso », e la costringe ad essere un movimento quieto in altro: cioè, appunto, storia.

18. Grazie alle precisazioni dello Henrich, abbiamo potuto spiegare come la natura sia il presupposto della riflessione, e, tutta­via, sia posta dalla riflessione, attraverso una negazione della propria negatività. Sicché la natura è dialettica, perché è l ’immediato, ma l’immediato di una contraddizione. Questo il fondamento della filo­sofia hegeliana della natura in generale. Ma sul suo configurarsi specifico ciò produce una conseguenza di cui Hegel stesso era ben conscio, e che spiega buona parte dei difetti dei singoli filosofemi hegeliani sulla natura. Una filosofia della natura, pur non poten­dosi istituire sul fondamento della semplice riflessione esterna, presuppone codesta riflessione sviluppata: cioè presuppone una scienza, o almeno una pseudoscienza della natura, e non può trovare, se non su questa base, il proprio contenuto.

Se la natura — che, pure, è l’immediato — si costituisce in forza della contraddizione, e, quindi, della riflessione, la filosofia della natura, per quanto voglia essere « speculativa » (anzi, appunto per esserlo), deve sciogliere quest’immediato: non assumerlo come un immediato e basta; perché, in tal caso, sarebbe impossibile farne emergere contraddizioni specifiche. Ebbene il modo specifico di sciogliere l’immediato non può essere indicato che dalla riflessio­ne, dalla immane potenza negativa dell’intelletto; e, per esser va­lido, da una riflessione scientifica sulla natura stessa. Altro, infatti, è sapere che ogni realtà naturale è «d ialettica», altro trovare le esatte contraddizioni in cui si individua.

La scienza, di per sé, può anche non accorgersi delle contrad­dizioni: può negarle quando si presentano, e praticare sistematica- mente ì'ignoratio elenchi, credendo che siano commisurate al reale solo le categorie dell’intelletto astratto. Ma ciò non cambia nulla: sempre solo attraverso gli occhi della scienza la filosofia della na­

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tura scorge ciò che la scienza non vede. Questo non vuol dire quel che, più recentemente, s’è concluso: dover la filosofia della natura sparire, a beneficio della filosofia della scienza. La filosofia della na­tura può restare, come diversa da una filosofia della scienza: ma essa stessa deve guardare alla natura attraverso gli occhi della scienza. Hegel lo sapeva, e fece miracoli per sfruttare la scienza del suo tempo (non tanto nella sezione sulla natura dell’Enciclopedia, quando nelle note e discussioni della Logica). Ma pensiamo a quel che potrebbe rilevare nella natura uno Hegel che disponesse della scienza d’oggi: della Relatività e dei quanta, della meccanica ondulatoria, della tabella periodica degli elementi vista alla luce della radioattività; nonché della genetica e biologia molecolare, della teoria dell’infor­mazione, ecc. Nessuna scienza del tempo offriva a Hegel tali e tante occasioni di dialettica.

Questo è il paradosso: ogni filosofia della natura è stretta- mente legata alla sua epoca, mentre non lo è affatto una filosofia della storia. Tucidide o Machiavelli dispongono degli stessi stru­menti di Ranke o di Toynbee, e il materiale su cui lavorano si lascia sfruttare allo stesso modo. Ma chi dispone di Newton senza Einstein, di Esculapio senza Spallanzani, o di tutti costoro senza qualcosa che è ancora di là da venire, non compete a parità di condizioni. Così, mentre le accidentalità storiche delle manifesta­zioni dello spirito non ne condizionano per nulla il significato (esat­tamente al contrario di quel che pensa una, oggi diffusissima, critica paramarxista), la storia della scienza condiziona interamente il si­gnificato della natura che, pure, di per sé è sottratta al divenire storico. « Di per sé », cioè come immediato. Ma il primo atto di una filosofia della natura, in quanto diversa da una riflessione astratta, o da quella che il De orbitis planetarum chiama « filosofia sperimentale », è appunto di accorgersi che c’è qualcosa di non immediato, sotto l’immediatezza della natura; che questa immedia­tezza è reale, bensì, ma di una realtà posta.

La sua verità è pur sempre, per dirla hegelianamente, la verità di un risultato.

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Giuliano Marini

LA LIBERTÀ NEL SUO CONCETTO E NELLA SUA REALIZZAZIONE:

SU ALCUNI LUOGHI DELLA ‘ FILOSOFIA DEL DIRITTO ’HEGELIANA

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1. Concetto-realizzazione-idea, come descrizione della razionalità del reale; il mondo del diritto come seconda natura. Il mondo dello spirito oggettivo è frutto dell’azione dell’idea in un momento del suo sviluppo; il diritto nel suo senso più lato, cioè come mondo delle relazioni intersoggettive, qual è trattato nell’opera sistematica berlinese, è pur sempre idea nel suo articolato svilupparsi come diritto *. In questo senso l ’opera può aprirsi con l’enunciazione del § 1: « L a scienza filosofica del diritto ha per oggetto Videa del diritto, il concetto del diritto e la sua realizzazione » 2. L ’idea nel mondo del diritto è insieme razionale e reale, è insieme concetto e realizzazione. Se tale non fosse, noi avremmo a che fare con

1 Sul movimento dialettico, come metodo specifico che segue l ’idea nel suo articolato svolgersi, nonché sulla conseguente valutazione della Filosofia del diritto come fenomenologia della libertà, mi richiamo agli scritti di M . R i e ­d e l , N atur und Freiheit in Hegels « Rechtsphilosophie » , in « Hegel-Studien », Beiheft X I, Bonn, Bouvier, 1974, pp. 365-381, e di K . H . I l t i n g , Zur Dialektik in der « Rechtsphilosophie » , in « Hegel-Jahrbuch », 1975, pp. 38-44. Per una più approfondita illustrazione di vari punti di carattere generale da me presupposti nel testo, oltreché per più ampie indicazioni bibliografiche, rinvio a: G . M a r in i , Aspetti sistematici nella società civile hegeliana, in « Filosofia », XXVII-1976, pp. 19-40; Id., Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella « F ilo ­sofia del d iritto » hegeliana, Napoli, Bibliopolis, 1978; Id., Struttura e signi­ficati della società civile hegeliana, in 11 pensiero politico di Hegel - Guida storica e critica a cura di C. Cesa, Bari, Laterza, 1979, pp. 57-82, 232-236.

2 G . W. F. H e g e l , Grundlinien der Philosophie des Rechts, ora in Vor­lesungen über Rechtsphilosophie 1818-1831, 6 voll., hrsg. Κ. H . Ilting, Stutt­gart, Frommann, 1973 e seg., Bd. 2, § 1, p. 80 (4-5). Le citazioni da tale opera hegeliana si intendono fatte con riferimento a questa edizione e a que­sto volume (in seguito: Rph.). Esse rinviano al testo del paragrafo quando è indicato il solo numero; all’annotazione (Anmerkung) hegeliana quando al numero segue la lettera A.

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quelli che si sogliono chiamare « meri concetti », unilaterali, non­veri, « astratta determinazione dell’intelletto » 3, come sono quelli della « filosofia della riflessione », che ha avuto in Kant la sua forma più compiuta./ Già così vediamo la razionalità hegeliana contrapposta alla ra-

, zionalità kantiana; il vero concetto, speculativo, contrapposto al1 mero concetto, proprio dell’intelletto. Il primo è concetto integrato

con la realtà, il secondo è concetto incKpendente dalla realtà. Il concetto speculativo, del quale parla Hegel, essendo tutt’uno con la sua realizzazione, può anche esser detto idea; e infatti la Prefa­zione alla Filosofia del diritto aveva insegnato che il razionale « è sinonimo di idea », allo stesso modo che aveva insegnato che « nulla è reale se non l ’idea » 4. Questi rapporti — tra concetto, realizza­zione, idea — , già adombrati nelle celebri proposizioni della Prefa­zione come rapporti fra razionale, reale, idea, sono ulteriormente illustrati nell’annotazione al § 1, in una successione ben ordinata di definizioni, implicite o esplicite, fornite per via positiva o per via di esclusione5. 1) Abbiamo dapprima i meri concetti, i quali sono detti unilaterali, falsi, astratta determinazione dell'intelletto: non colgono l’intero, non attingono quindi la verità che è propria di esso, sono frutto dèll’intelletto che produce astrazioni. 2) Il con­cetto in senso _proprio, il concetto speculativo, si distingue da quelli perché coglie l ’interezza, è vero, è concreta determinazione della ragione. È vero, e quindi è reale, ha in sé la realtà, da cui non può essere distinto se non per artificio del nostro intelletto che scompone ciò che è unito; ma esso è propriamente come una realtà in sé trattenuta, in potenza. 3) La realtà in senso proprio è ciò che risulta dalla espansione della ragione, è ciò che è posto da essa stessa. 4) Infine, con la realtà non deve essere confuso ciò che è mero essere determinato o esserci (Dasein) transitorio, acciden­talità esteriore, opinione, apparenza priva di essenza, non-verità,

3 Rpb. $ 1 A ., p. 80 (8, 11).4 Rpb., Vorrede, p. 71 (8, 11).5 Rpb. § 1 A., p. 80 (6-19): su cui le pagine che seguono nel presente

testo.

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illusione: è la zona oscura dell’accidentalità, per la quale la Prefa­zione aveva usato la metafora della scorza variegata che riveste il nucleo reale e razionale6. Al centro della serie così quadripartita, v’è un nucleo centrale, che consta dei momenti 2) e 3), che è insieme concetto e realizzazione, razionale e reale, ovvero, detto in una sola parola, è idea. Al di qua dell’idea sono i meri concetti (1), ai quali giunge la filosofia della riflessione (Kant); al di là del­l ’idea è l ’accidentalità (4), alla quale si attiene il pensiero non edu-ì cato, che non distingue la realtà dalla mera empiria (Hugo, la scuola! storica del diritto, Haller). Ma tra i momenti 1) e 4) v ’è corrispon­denza, perché il pensiero astratto, essendo unilaterale, si ferma a ciò che non ha significato, scambia il transitorio per l ’eterno, e cade nell’opinione, nella falsità, nell’illusione; almeno un attributo, la « non-verità », è adoprato da Hegel sia per i meri concetti sia per l ’accidentalità; ma altri attributi, come unilaterale e illusorio, si addicono certamente sia ai meri concetti sia all’accidentalità. L ’in­telletto astratto ha quindi rispondenza nell’accidentalità, rimane impigliato in essa, non sa giungere al nucleo e al « polso interno » 7, cioè all’jdea.

L ’idea, peraltro, dev’esser sempre vista nella sua duplice consi­stenza interna, sopra descritta ai nn. 2) e 3): ovvero come concetto e come realizzazione. Essa ha una duplice « forma » o « configura­zione » (Form, Gestaltung)·, i distinti momenti essenziali al suo interno sono appunto l’esser idea nella forma di concetto e l’esser idea nella forma di realizzazione; Tesser razionalità e Tesser realtà. Soltanto in questa immanente duplicità può esser compresa „l’idea. La stessa distinzione, non più dal punto di vista della forma ma dal punto di vista del contenuto, si trova esposta nel § 213 del- l ’Enciclopedia, ove è detto che l’idea, « unità assoluta del concetto e dell’oggettività », ha un « contenuto ideale » e un « contenuto reale »: il primo è « il concetto nelle sue determinazioni », il se­condo è « l’esposizione, che il concetto si dà nella forma di esistenza

6 Rph., Vorrede, p. 71 (14).7 Rph., Vorrede, p. 71 (16).

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esterna » 8. L ’idea, l ’assoluto che vive e si incarna nel mondo in sempre nuove determinazioni, deve esser vista in questa sua genesi interna, qual è d ’altronde esposta nella sede propria, ovvero nella Logica. Ma concetto e realizzazione, ovvero concetto e oggettività, ovvero ancora razionale e reale, sono termini interdipendenti, e vanno tenuti insieme nella concretezza dell’idea; la quale, nell’espo­sizione scientifica giunge da ultimo (e nella Logica è trattata pei tale), ma nella realtà è il primo, al cui interno soltanto possono esser compresi, quali momenti reciprocamente integrantisi, gli altri due. Scindere concetto e realizzazione non è consentito, giacché in tal modo si cadrebbe nell’astrattezza dell’intelletto (i meri con­cetti) o nell’accidentalità empirica delPesserci transitorio.

Si rimane così nella compresenza di razionalità e realtà nell’uni­ca vivente idea. Una simile visione dell’oggetto della filosofia, qui della filosofia del diritto, si contrappone necessariamente alla visio­ne kantiana. Se assumiamo il punto di vista hegeliano, Kant risulta essere il filosofo dei meri concetti, che sono unilaterali, vuoti, jnon- veri in quanto non-reali. Hegel è invece il filosofo dell’idea, ovvero del concetto speculativo che è anche reale. Filosofia della riflessioneo dell’intelletto, filosofia della ragione; -filosofia del dover essere 'e fi- losofia dell’essere: in tal modo, come è ben noto e ripetuto, si con­trappongono filosofia kantiana e filosofia hegeliana. E il diritto, coe­rentemente, non è imposizione di limiti, secondo una legge universale della libertà, a un mondo di arbitri scomposti; esso è già questa libertà, insieme razionale e reale, è l’idea della libertà: onde il sistema del diritto può esser detto « il regno della libertà realizza­ta », e il mondo dello spirito « u n a seconda natura » 9. Così il § 4, che definisce lo spirito oggettivo — il diritto nel suo senso più lato -— come argomento dell’intera opera. Questa « seconda na­tura » è « regno della libertà ».^mentre--la prima natura è'regno della necessità come forza di gravità; ma questa « seconda natura »

8 G . W. F. H e g e l , Enzyklopädie (in Sämtliche Werke, hrsg. H . G . Glöck­ner, 20 voll., Stuttgart, Frommann, 1927 e seg. [in seguito: SW ], B. de 8-10), § 213 (trad. it. B. Croce, Bari, Laterza, 19634).

9 Rph., § 4, p. 110 (10-11).

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è anche, a. differenza di quel che pensava Kant, il regno di una libertà già reale nel mondo dei costumi, e non di una libertà che deve imporsi ai costumi. La libertà è per Hegel concetto , reale, per Kant mero concetto contrapposto al reale.

Questa contrapposizione a Kant, già implicita nei luoghi ora visti, diviene esplicita nehj 29 e nella sua annotazione. Il paragrafo offre la definizione hegeliana del. diritto. jmunda.-Dositivamente.--che cosa è il diritto. « Questo, .cbe. un_.easerci in generale è esserci della volontà libera. è il diritto. Esso è quindi in generale la libertà, m quando idea » 10. Se il diritto è regno della libertà realizzata^ ne consegue che il diritto è ,quel .mondo nel quale ogni esserci, ogni esser determinato (Dasein), è tale; rispetto; alla volontà libera. Nel mondo moderno, lo spirito è arrivato a questa conformazione, che.in esso ogni essere...è-.un.essere...libero:., non..era cosi nel..mondoorientale e nel mondo , -antico;» ma il mondo cristiano-germanico è quello nel quale ogni uomo è libero. Che ciascuno sia libero e una realtà, e non un’esigenza della ragione. Pertanto il diritto può esser detto « la libertà, in quanto idea », cioè non in quanto mero concetto dell’intelletto, ma in quanto concetto filosofico e sua rea- lizzazione, come ha enuncia.to„Ìl-5. .1· Come altre volte, anche quil’annotazione al paragrafo sviluppa la polemica contro un’altra vi­sione del problema; qui, ancora contro la visione kantiana del di­ritto n. £ subito citata, seppure in modo non esatto, la definizione kantiana del diritto, quale si trova nella Metafisica dei costumi12. L ’inesattezza letterale nulla toglie alla fedeltà nello spirito; e ce ne

10 Rph., § 29, p. 164 (14-15).11 Rph., § 29 A., pp. 170 (l-20)-171 (1-6): su cui le pagine che seguono

nel presente testo.12 Rph., § 29 A., p. 170 (1-6): « D ie Kantische (Kants Rechtslehre Einl.)

und auch allgemeiner angenommene Bestimmung, worin « die Beschränkung meiner Freiheit oder Willkür, dass sie mit jedermanns W illkür nach einem allgemeinen Gesetze zusammen bestehen k ön n e» das Hauptmoment ist ( . .. ) » ; e cfr. I . K a n t , Metaphysik der Sitten, in Werke, Akademie-Ausgabe, Bd. V I, p. 230: « D as Recht ist also der Inbegrifl der Bedingungen, unter denen die Willkür des einen mit der Willkür des ändern nach einem allgemeinen Gesetze der Freiheit zusammen vereinigt werden kann ».

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accorgiamo dall’analisi critica che Hegel svolge subito dopo. La defi; nizione kantiana è vuota, come si conviene ai meri concetti della filosofia della riflessione, a) Essa è infatti negativa, giacché il suo perno è nella nozione di limitazione (Beschränkung). ■ b) dove è positiva, cioè dove essa menziona la concordanza (Übereinstimmung) degU aAitri, è parimenti vuota, giacché si basa; αα) sulla identità formale, bb) sul principio di._conteaddyjz^ne. La definizione kan­tiana, come Hegel ripete più volte, e proprio in quanto filosofia del­l ’intelletto, non è in grado di dire quale contenuto dell’azione sia

' giuridico: se proprietà o non-proprietà^ e così via u. La radice di tutto sta nel punto di vista dell’intelletto, che è punto di vista della particolarità, e non può innalzarsi alla compisn&ane. .e... voli­zione dell intero; da Rousseau a Kant, è questa l’imperfezione filoso­fica: credere che la volontà sia volontà degli, esseri singoli nella loro particolarità, e non sapersi innalzare alla volontà come,„.«.volontà essente in sé e per sé, razionale », cioè al « vero spirito », il quale è totalità che sa e agisce,dell’intelligenza e dell’arbitrio. Se si muove da tali principi, non si può giungere a comprendere la razionalità dell’intero, cioè non si può giungere alla ragione. Si rimane impigliati nella intellettività, nella razionalità intellettualistica, razionalità povera come è quella dell’intelletto, che non può andar oltre il punto di vista delle parti­colarità, nel senso che è soltanto ordinamento limitante, esterno, formale, di quelle particolarità. Un simile razionale, un simile uni­versale (Vernünftiges, Allgemeines) sarà insieme: a) limitante, b) esterno, c) formale. È importante notare che da una simile conce­zione della volontà e dello spirito come particolari deriva quella proiezione politica della conoscenza intellettuale e riflettente che è la società civile, «rapporto di riflessione»14; la quale è definita, con paraUelismo completo: a) stato della necessità (cioèlimitante),

13 G . W, F. H e g e l , Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, SW ., Bd. 19, pp. 592-593 (trad. it. E . Codignola e G . Sanna, Firenze, N uova Italia, 1943, vol. I I I , 2, pp . 322-323).

14 Rph., § 181, p. 628 (19).

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b) stato esterno, c) stato dell’intelletto (cioè formale)15. Si sa che Hegel pensa che questa forma di statOj alla quale è rimasto feriTio Kant, debba essere superata nello stato politico, il quale: 0) è statg della libertà, b) vive nell’autocoscienza dei cittadini, c) è stato della ragione e della sostanzialità concreta.· Rimaner fermi alla conce-; zione dello stato come società civile Vuol dire consegnarsi in preda alle conseguenze politiche dell’incontro delle particolarità e degli ; arbitri: conseguenze orribili di un pensiero fatuo: la orribilità \ ( Fürchterlichkeit) del Terrore, corrispondente alla ialmìkA Seichtig­keit) del pensiero che deriva da Rousseau e da Kant, e di ogni pensiero che sorge dalla particolarità e dalla riflessione. La demo­crazia, come forma dì stato che si basa sui molti (die Vielen, oi πολλοί: § 3 0 1 )16, corrisponde a quelle visioni filosofiche e ne porta con sé tutte le conseguenze; e a quella forma di stato Hegel contrappone il suo stato della ragione e della totalità, fondato sulla rappresentanza delle formazioni organiche che già sorgono dal Seno della società civile.

2. Concetto-realizzazione-idea, come proiezione contenutistica della triade della logica e come descrizione dei distinti momenti di sviluppo della libertà. La filosofia del diritto ha quindi ad oggetto il « regnojdella libertà realizzata », ovvero l’idea del diritto, L ’idea è l’intero razionale e reale, e qui nello spirito oggettivo assume la configurazione della libertà intersoggettiva. In questo senso si è detto fin qui che la libertà è concetto più realizzazione, ovvero idea. La distinzione di razionalità e realtà si pone, in tal senso, all’interno dell’unica vivente idea, come distinzione tra due mo­menti logicamente compresenti e distinguibili solo per astrazione. Tuttavia l ’idea, l’assoluto, l’intero, non è qualcosa di· statico, fe so- stanza ed è soggetto, come già insegnava la Fenomenologia17. È un intero in sviluppo; ed è così che il regno della libertà, qual è de-

15 Rph., § 183, p. 633 (18).16 Rph., $ 301 A., p. 767 (13).17 G . W. F. H e g e l , Phänomenologie des Geistes (SW , Bd. 2), pp. 22-24

(trad. it. E . De Negri, Firenze, La N uova Italia, I9602, vol. 1, pp. 13-16).

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scritto nella Filosofia del diritto, si presenta ai nostri occhi come una fenomenologia della libertà, un ideale divenire e farsi progres­sivo di forme intersoggettive diversificate e avviate a una crescente pienezza. Come il § 213 dell 'Enciclopedia mostra la genesi dell’idea dal concetto e dall’oggettività, così vari luoghi della Filosofia del diritto mostrano la genesi della libertà, compiutamente e concreta­mente realizzata nello stato come culmine dell’eticità, ma divenuta tale in una genesi che muove dalle forme più povere del diritto astratto, della moralità, e, all’interno dell’eticità, dalle forme più povere della famiglia e della società civile. Dal diritto astratto allo stato, è tutto un cammino della libertà, di questa « seconda natura », e Hegel lo descrive come un procedere dal concetto alla realizza- zione all’idea. Lo spirito oggettivo nella sua i n t e r e z z a è idea, cioè razionale e reale; ma esso è anche idea in divenire, e anche in esso, visto come totalità e pienezza di libertà, possono essere distinti vari livelli. V’è dapprima una libertà ancora semplice, una mera giuri­dicità astratta, una concettualità della libertà, ovvero una libertà nel suo concetto. V ’è poi una libertà che si dipana in molteplici figure, che sono come la realizzazione rispetto a quel concetto e a quella mera potenzialità; c’è infine la libertà giunta ad essere idea, compiuta e concreta libertà, all’interno della qualejvivpnq, compre­senti, quella concettualità della libertà e ,que,lk._tsa!izzaziqne della libertà. Secondo il metodo speculativo, si muove da un concetto e lo si segue nel suo sviluppo, nella sua realizzazione o oggettiva­zione, finché si giunge alla pienezza dell’idea, la quale in tal modo ci appare come resultato, ma nella realtà è momento onnipresente, mediatore, fondamento a quanto precedeva nell’esposizione, e quindi primo. Lo stato, in questa circolarità, è il momento finale e il mo-

j mento iniziale; la libertà piena, realizzata in sé e per sé, resulta come ; il momento finale di una libertà che è sorta e si è progressivamenteI riempita, ma è in pari tempo la medesimezza di uno spirito inter- | soggettivo libero, dalla quale soltanto può sorgere e svilupparsi ila libertà nelle sue forme meno concrete. Una libertà in sé o nel suo concetto progressivamente diviene, si determina come libertà più articolata; e quella umversahta astratta, entrando nell’esserci, si riempie di particolarita e diviene concreta. Sorgono così le varie

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configurazioni parziali della libertà, tutte sviluppatesi dal seno del concetto, per una sua dilatazione ed espansione progressiva: dopo l ’articolazione interna al diritto astratto (proprietà, contratto), viene la moralità, e poi, nell’eticità, la famiglia e la società civile, questa di nuovo con le sue significative configurazioni intersoggettive (si­stema dei bisogni, amministrazione della giustizia, polizia-ammini­strazione, corporazione); e tutto ciò prefigura lo stato, che è quindi la verità e il fondamento di tutto ciò che precede. La moralità de­riva in tal modo da uno sviluppo del diritto astratto, ed è un rea­lizzarsi del concetto. I paragrafi di passaggio da una ad altra sfera, oltre a quelli della « Introduzione » alla Filosofia del diritto 18, mo­strano questo continuo divenire e realizzarsi del concetto in nuove figure. Il § 104 mostra in tali termini il passaggio del diritto astrat­to in moralità; e il § 141, analogamente, il passaggio della moralità in eticità. Il motivo del divenire dall’ambito del concetto ritorna con frequenza, ed è spesso corredato di un rinvio alla logica, ove è illustrato, come in sede propria, il procedimento scientifico o speculativo.

In questo processo, dalla libertà in sé, o nel suo concetto, si passa ad una continua e progressiva realizzazione della libertà, fino alla suprema espressione dello stato. È come una proiezione conte­nutistica, nel campo dello spirito oggettivo, di quel medesimo pro­cesso per cui, nella logica, si passa dal concetto all’oggettività al­l ’idea; meglio, è sempre la stessa idea che sotto diverse sembianze, prima nella logica, poi nello spirito oggettivo, attraversa il consueto viaggio dialettico, come ragione sempre reale che muove dalla con­cettualità alla realizzazione alla pienezza dell’idea. Il § 208 ci mostra nel massimo ambito questo cammino della libertà: astratta o in sé nel diritto astratto, formale o per sé nella società civile, compiuta- mente sostanziale o in sé e per sé nello stato. Altrove incontriamo descrizioni più dettagliate o riferite ad ambiti più ristretti, ed alcuni casi si sono già visti. Al momento del passaggio dalla famiglia

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18 Della « Introduzione » in questo senso: §§ 2, 10 e A., 13 A., 31 e A.,32 e A.

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alla società civile, e poi dalla società civile allo stato, il § 181 e l ’annotazione al § 256 ci mostrano il divenire dialettico dell’eticità, che è anch’essa libertà e anzi libertà concreta: essa è prima in sé o nel suo concetto come famiglia, e ha un carattere sentimentale e naturale; poi è per sé o nella sua realizzazione nella società civile, e ha un carattere intellettualistico, formale, artificiale, dominato dalla riflessione che tutto separa e particolarizza; infine sarà in sé e per sé nello stato, ovvero nell’idea (perché lo stato, come scrive il § 257, è la « realtà dell’idea etica » 19). Il medesimo processo ben articolato è descritto nelle annotazioni al § 190 e al § 279, ma in questi due luoghi con riguardo non alle sfere dello spirito oggettivo ma ai protagonisti delle medesime. Vediamo lì descritta la succes­sione, che è progressivo riempimento, della persona che opera nel diritto astratto, del soggetto nella moralità, del membro del/a fa­miglia, del cittadino come bourgeois nella società civile, del citta­dino come citoyen nello stato; né cambia alcunché, dal nostro attuale punto di vista, che tale parola di suono rivoluzionario non sia qui utilizzata, e che invece del citoyen noi troviamo, come soggettività etica concretissima, il monarca; il compiuto cittadino sarà chi si sente tutt’uno con la comunità etica, sia essa la polis repubblicana degli anni giovanili o la polis rinnovata sotto forme cristiano-germa- niche della maturità; il cambiamento intervenuto nelle idealità poli­tiche non inficia la matura architettura sistematica.

Se noi guardiamo all’ambito dello spirito oggettivo nella sua totalità, lo vediamo come un cerchio di cerchi, secondo l ’immagine della Logica, nel quale il cominciamento ritorce la fine20. Il primo cerchio è costituito dal diritto astratto, l ’ultimo cerchio dallo stato. Siamo sempre nel mondo del diritto nel senso lato dell’espressione, ovvero nel « regno della libertà realizzata »; ma il primo cerchio è diritto o libertà realizzata nella sua forma più astratta, povera e immediata, mentre l ’ultimo cerchio, ovvero lo stato, è diritto o libertà realizzata nella sua forma più concreta, ricca, e mediata dal

19 Rph., § 257, p. 692 (4).20 G . W. F. H e g e l , Wissenschaft der Logik, SW , Bd. 5, p. 351 (trad. it.

A. Moni - C. Cesa, Bari, 1974, p. 955).

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pensiero. Tra il primo e l ’ultimo cerchio stanno, inseriti nella ben costruita successione delle triadi, i cerchi intermedi della moralità, della famiglia, del sistema dei bisogni e della civiltà, della giustizia amministrata in base alle leggi. Tutti questi cerchi intermedi sono altrettanti momenti della realizzazione della libertà: prima di essi, all’inizio del processo, sta il diritto astratto; dopo di essi, al culmi­ne, lo stato. Quésto, come ultimo cerchio, è intrecciato al primo; perché è soltanto l ’ultimo, come più concreto, che sta a fondamento del primo, astratto; e perché in genere, come insegna l ’annotazione al § 256, e più ampiamente la Logica, l’ultimo momento o idea è il fondamento dei due momenti precedenti — il concetto e la lunga articolata sua realizzazione — , quei momenti precedenti che sono soltanto « ideali » 2‘ . In questa eterna generazione del com­plesso dal semplice, in questo eterno circolo, noi contempliamo la genesi della vita associata e ne ripercorriamo i vari momenti, che hanno tutti un significato inobliabile nella nostra vita di uomini viventi nei tempi della pienezza dello spirito. Nella costruzione sistematica si raccolgono diverse esperienze dello spirito: la grecità e la polis, la romanità e il diritto, il cristianesimo e l’interiorità, il cammino verso la moderna organizzazione del lavoro e verso la ci­viltà descritto dai moderni economisti, lo stato di diritto illumini- stico-kantiano. Senza tutte queste esperienze storiche, che sono altrettanti cerchi del sistema'dello spirito oggettivo, la libertà non sarebbe concreta, dofe non. sàreEEe in una condizione corrispon­dente alla moderna condizione dello spirito. Nella quale la libertà,o diritto nel senso forte hegeliano, non può esser concepita come mera possibilità o ideale della ragione o dover essere, cioè come mero concetto, al modo kantiano; ma dev’essere invece concepita —- a voler esser filosofi — nella sua compiuta realizzazione, avve­nuta in modo conforme alla potenzialità racchiusa nel concetto in senso filosofico; la libertà deve quindi esser concepita come idea, ovvero come concetto e come sua realizzazione.

21 Rph., § 256 A., p. 691 (5). Più in generale, sulla finità-idealità, Wis­senschaft der Logik, SW , Bd. 4, pp. 148, 181 (trad. it. cit., pp. 129, 159).

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Il § 1 ci mostrava concetto e realizzazione nella loro compre­senza sincronica nell’idea, e sviluppava in tal modo la tesi, enun­ciata nella Prefazione, della razionalità del reale e della realtà del razionale. Gli altri luoghi esaminati in seguito, mostrando la proie­zione contenutistica della triade concetto-realizzazione-idea, hanno mostrato insieme il riempimento progressivo dell’astratto concetto del diritto-libertà, in una serie di momenti che ne costituiscono la realizzazione. Soltanto allo stato, al termine del processo, spetta la qualifica di idea; ed esso è propriamente, insieme, concetto e realiz­zazione, compresenza, nella vita concreta dello spirito oggettivo e dei soggetti in esso viventi, delle modalità più astratte del diritto e delle modalità della vita associata presenti nella lunga realizza­zione. Concettualità della libertà, realizzazione progressiva della libertà nei vari momenti del suo sviluppo articolato, idea della libertà risultante da entrambi. La tesi della razionalità-realtà, enun­ciata nella Prefazione, deve essere ora compresa cjme descrizione filosofica della ricchezza sviluppata della libertà, la quale non sa­rebbe né razionale né reale se non avesse dietro di sé e entro di sé tutta la storia dello spirito occidentale. Ad avviso di Hegel, con­cepire la libertà come mera prescrizione e ideale della ragione, al modo kantiano, vorrebbe dire privare fa ragione di tutta la sua sto­ria, che l ’ha fatta divenire la piena e concreta libertà dei moderni qual egli l ’ha intesa. La triade vista più volte — concetto, realizza­zione, idea — ha quindi due distinti significati, visti da noi in due successivi momenti. 1) L ’idea è insieme concetto e realizzazione, due aspetti inscindibili se non per astrazione dell’unico intero: è la tesi politica della Prefazione, che afferma la razionalità del reale in ogni suo momento. 2) Questa idea che è il diritto-libertà è insieme diritto-libertà nel suo concetto e diritto-libertà nella sua realizza­zione; ovvero lo stato è compresenza delle determinazioni fonda- mentali ma povere del diritto astratto e delle determinazioni par­ticolari ma sempre più ricche dei vari anelli intermedi che lo rea­lizzano. In questo senso, come si è detto, il cerchio di cerchi che èlo spirito oggettivo può esser visto come una proiezione contenu­tistica della triade logica: è l ’assunto da un punto di vista di filo­sofia della storia, geschichtsphilosophisch, di tutta la Filosofia del

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diritto, secondo la quale la libertà dei moderni non è la libertà povera e astratta della filosofia illuministico-kantiana (questa « mezza filo­so fia » )22, ma la libertà ricca e concreta della moderna civiltà cri- stiano-germanica, carica di tutti i suoi contenuti storici. I due signifi­cati della triade (qui esaminati distintamente ai nn. 1 e 2) possono forse in tal modo esser ricondotti, se non a una radice unitaria, quanto, meno a una compatibilità di proposizioni.

3. Dalla libertà dello spirito oggettivo alla libertà dello spirito assoluto, attraverso la storia universale. Nell’ambito dello spirito oggettivo, lo stato è la compiuta realtà dell’idea: cerchio supremo dell’eticità e quindi fondamento di essa, è anche, di conseguenza, cerchiò supremo dello spirito oggettivo, che si congiunge al primo e più povero cerchio di esso, il diritto astratto. Il diritto percorre, dall’inizio astratto, il lungo cammino che si è considerato, e giunge ad essere diritto concreto, realizzato, pensato: lo stato è la concre­tezza della libertà, polis moderna che comprende e conserva in sé la lunga serie delle acquisizioni storiche dello spirito, e che non potrebbe diversamente, poiché anche il mondo della convivenza oggettiva è un tratto del cammino dell’idea.

Ma l’idea deve procedere oltre nel suo cammino, e svilupparsi ulteriormente per contrasto da una ad altra posizione. Deve lasciare la contingenza dei rapporti giuridici, dell’intersoggettività, e giun­gere a un cielo più adeguato alla ricchezza del pensiero. È il pas­saggio dallo spirito oggettivo allo spirito assoluto. Tale passaggio avviene grazie a un anello intermedio, la storia universale, nel qualelo stato è esposto allo sgretolamento della sua compattezza etica, e diviene, esso che era la raggiunta perfezione dell’idea, una entità tra­volta dal turbine del movimentato cammino dello spirito universale. Questo cerchio supremo si vede ora travolto, in previsione e in pre­parazione di un nuovo cerchio di cerchi. Si può dire, usando la ter­minologia hegeliana, che lo stato, da idea thè era divenuto, ritorna concetto, e si dispone quindi a una nuova realizzazione, che progres­sivamente sviluppandosi giungerà alla pienezza dello spirito asso­

22 Rph., Vorrede, p. 73 (28).

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luto, quella sì idea nella massima concretezza presente nel mondo. Lo stato diviene ora momento finito, la cui sorte è di trapassare in un nuovo e più alto momento infinito. L ’argomentazione hegeliana riprende qui espressioni e movimenti di pensiero già usati per descri­vere i rapporti fra momenti finiti o ideali e momento infinito o idea nell’ambito dell’eticità. Come l’annotazione al § 256, poi ripresa nel § 262, descriveva il rapporto della famiglia e della società civile con lo stato, così ora il § 340 descrive il rapporto dello stato con10 spirito del mondo, con il Weltgeist.

Nel rapporto degli stati l’uno verso l’altro, poiché essi in ciò sono come particolari, rientra il gioco supremamente mosso della particolarità interna delle passioni, interessi, fini, dei talenti e virtù, della violenza, dell’illecito e dei vizi come dell’accidentalità esterna, nelle più grandi dimensioni del fenomeno — un gioco, nel quale l’intero etico stessi, l’indipendenza dello stato, viene esposto all’accidentalità. I principi degli spiriti dei popoli a cagione della loro particolarità, nella quale essi in quanto individui esistenti hanno la loro realtà oggettiva e la loro auto- coscienza, sono d’altronde limitati, e i loro destini e atti nel loro rap­porto dell’uno all’altro sono la dialettica fenomenica della finità di questi spiriti, dalla quale lo spirito universale, lo spirito del mondo, in tanto si produce come illimitato, in quanto è esso, che esercita il suo diritto — e11 suo diritto è il più alto di tutti — su di essi nella storia del mondo, in quanto tribunale del mondo2i.

Si assiste in questa descrizione a una sorta di nuova e più alta « tragedia nell’etico ». L ’intero etico, fin qui celebrato come idea etica, compiuta realtà della ragione, momento divino nella vita asso­ciata, è ora particolare fra particolari, ed è assoggettato a una du­plice accidentalità, interna ed esterna: i moventi particolari degli uomini che operano nello stato; i contrasti fra gli stati e le guerre.Il Volksgeist era stato celebrato nell’annotazione al § 257, all’inizio della trattazione dello stato, come la divinità che presiede alla vita etica compiutamente sviluppata, come l ’Atena di Atene, in un ricordo

23 Rph., § 340, pp. 803 (22-25)-804 (1-14): su cui le pagine che seguono nel presente testo.

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poeticamente denso e contratto della vita della polis74. Ora, esso diviene Volksgeist accanto ad altri, spirito del popolo tra spiriti dei popoli, ed è visto vivere, esistere, realizzarsi nell’oggettività e acqui­stare per tal via la sua autocoscienza: vediamo ora uno spettacolo di molteplici Volksgeister, i quali divengono coscienti di sé come interi: è proprio la loro particolarizzazione che consente ad essi di sapere se stessi nel rapporto e nella lotta con i loro simili; è una nuova lotta per il riconoscimento che si dispiega per quegli individui trascinati in un più alto gioco dello spirito. Come dalla famiglia si giungeva alla società civile, e un intero etico semplice si disper­deva nel rapporto con altre particolarità; così ora dallo stato si giunge alla storia del mondo, e l ’intero etico concreto e pensato si disperde nel rapporto con altre particolarità. La triade dell’eticità assume il movimento di una tetrade, con un parallelismo tra due coppie: famiglia — società civile; stato — storia del mondo. A due momenti compatti seguono due momenti di scissione, a due mo­menti di armonia seguono due momenti di dissonanza.

Ma così si prepara un più alto destino della libertà. La libertà in sé compiuta dello stato, una libertà raccolta in sé o nel suo con­cetto, ha bisogno di essere non soltanto sostanza ma anche soggetto, ha bisogno di sviluppo e realizzazione, di essere per sé, per acqui­stare in tal modo compiuta consapevolezza di sé. La libertà rac­chiusa nello stato, conoscendo la propria finitezza fra altre entità finite, si avvia a divenire una più alta libertà, la libertà del Weltgeist. Qui si rivela il parallelismo con la stessa dialettica di finito e infinito, parvenza e mediazione, resultato e fondamento, che già è stata da Hegel illustrata nell’annotazione al § 256 per i rapporti della fami­glia e della società civile con lo stato. La famiglia e la società civile sono momenti finiti (o ideali) in rapporto alla infinità dello stato. Così, ora, gli stati particolari sono momenti limitati e finiti in rap­porto alla infinità dello spirito universale o spirito del mondo. La famiglia e la società civile, se restiamo nell’ambito della parvenza,

24 Rph., § 257 A., p. 692 (13-14). Per l ’immagine dell’« Atena di Atene », vedi Über die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts (SW , Bd. 1, pp. 435-537), p. 501, a conclusione del brano sulla « Tragödie im Sittlichen ».

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sono ciò che vien prima e che dà luogo allo stato come resultato di uno sviluppo dell’idea; ma la filosofia ci insegna che occorre superare quella parvenza, andare al di là di essa, e scoprire, più nel profondo, la mediazione reale operata dallo stato, dall’infinito che tutto muove come vero fondamento. Così, ora, gli stati particolari, se restiamo nell’ambito della parvenza, sono ciò che vien prima e che dà luogo al Weltgeist come resultato di uno sviluppo dell’idea: « i loro destini e atti nel loro rapporto dell’uno all’altro sono la dialet­tica fenomenica (erscheinende, apparente) della finità di questi spiriti, dalla quale lo spirito universale, lo spirito del mondo (...) si produce come illimitato ». Il nuovo momento illimitato e infinito, lo spirito del mondo, se guardiamo alla dialettica fenomenica o apparente si produce da quella limitatezza e finità dei particolari spiriti i popoli, dai Volksgeister limitati e finiti. Ma anche qui la filosofia ci insegna che occorre superare quella parvenza, quella dialettica feno­menica, per andare al di là di essa, e scoprire, più nel profondo, la mediazione reale operata dallo spirito del mondo, dall’infinito che tutto muove come vero fondamento. Infatti è vero, sì, che il Weltgeist si produce dalla finità dei Volksgeister, ma esso « in tanto » fa ciò, « in quanto è esso, che esercita il suo diritto (...) su di essi ». Il Weltgeist <i sr..;;.prodöce » (sich hervorbringt) dai Volksgeister come infintec ela finito, e 4n tal modo converte la parvenza nella reale mediazione del fondamìbnto; così come lo stato « vien fuori » (hervorgébt: § 256 A ) 25 dalfamiglia e società civile, infinito da finito, e inlWl modo converte/la parvenza nella reale ̂ mediazione del fondamenti}», Lo spirito d^m ondo fonda gli spiriti degli stati singoli e particolari, li _ rnsma, li pone in rapporto, dà senso ad essi facendoli nascere dal suo seno e facendoli rifluire in esso. I /O spirito universale o spirito del mondo è davvero l a m a s -

sima realtà, in quel dramma reale, o in quel supremo e unico giu­dizio che sT ^ o Ig ^ lié I ir^ o m ~ ^ e r in 0 n 3 S T la ^ u d e è il tribunale dgl mondo, secondo i versi schilleriani del 1784 26.

25 Rpb., § 256 A., p. 691 (6-7).26 F . S c h i l l e r , Resignation, verso 85: « D ie Weltgeschichte ist das Welt­

gericht», in Werke, Berlin, Bong, 1. Teil, Gedichte, pp. 50-52 (52).

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Dallo stato, come verità e libertà dilatata nel regno organico dell 'ethos, si giunge così, in grazia della realizzazione e particolariz- zazione di esso medesimo nella storia universale, allo spirito del mondo, come verità e libertà dilatata nel regno dello spirito asso­luto. Quella stessa verità — e libertà, perché siamo nel regno dello spirito, che ha la libertà per sua verità — che è reale nello stato, è presente parimenti nel mondo della religione, che Lutero ha saputo ricondurre alla Gesinnung dell’uomo. La croce nella rosa, quale si trova nello stemma di Lutero, è adeguata acTesprimere Ta verità- libertà dello stato come la veiM-W$ät‘fä"'"dd''''iiöiiäö'' religioso; che vive nei suoi riti e nelle sue forme rappresentative . Quello stesso

~»<ΙΙΙ·ΙΙΜ·<ίΙΙ·ιΓ|·|Γ ·Τ Γ|Γ|||·ΙΜ Μ |·ΙΙίι-Γ- - - -TI-- - - - - - - - - - r -- .J u V 'I f . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I « I . ■ · · * « ‘ 1 · · - g

vero, quello stesso Dio, vive nello stato e vive nella religione. Ma già la religione è un mondo più alto del mondo etico e dello stato, perché la sua razionalità, che è anche realtà, si è staccata dai far­delli dell’accidentalità, propri dei rapporti intersoggettivi. Il Weltgeist, divenendo spirito assoluto, riduce a momenti finiti quegli stati che visti nel loro interno sono forniti di tanta gloria. La gloria più vera è quella dello spirito che contempla se stesso e diviene regno degli spiriti. Superata perfino la finitezza degli stati, questo regno degli spiriti si rivela a poco a poco nella sua realtà dispiegata, e dopo la religione giunge al pensiero, ed ha « nella scienza la libera conoscenza concettuale » 28 di quella stessa verità, presente nello stato, rappresentata nella religione. Nella successione di questi mo­menti, celebrata conclusivamente nelPultirno paràgrafo HèlFopera, ve<fiaS^*m ^steS i^ fI!à '^™ fifesrtS7^ !T fH!SerrirTTrikr’̂ lat&, dispie­gata nella superiore ricchezza della religióne e infine nella suprema ricchezza della scienza speffllatiyaj Ta filö^ i S ^ davvero il culmine insuperabile della verità e della libertà.

Il E og5*^m aalF^eI"“"T*TiQ, mostrando la caduta dello stato dalla sua gloria e il suo divenir soggetto a un più alto infinito, insegna che la libertà, realizzata nel diritto, nell’eticità, nello stato,

27,Su questo intreccio di problemi mi r i c h i a m o . - ^ nasine t ì f ic h e .. .d i K · L ö w i t h ^ j ^ ^ JùmVerlag, 1941, pp. 28-46.

2* Rph., § 360, p T T ló (10).

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è pur sempre un grado della libertà, inferiore alla libertà più piena e più vera che è attinta nelle forme supreme dello spirito assoluto. L 'itinerarium mentis in Deum passa sì per Hegel anche attraverso10 stato, che è anch’esso regno della ragione, ma lo supera in forme più alte. Questa dissoluzione dello stato, descritta nel § 340, apparve allo spirito liberale di Croce « implicita confutazione che lo Hegel fece del suo ‘ stato etico ossia della sua ‘ eticità come stato ’ » 29. E certamente fu una confutazione, ma forse non è giusto dirla con­futazione « implicita », e meno ancora « inconsapevole », giacché fu una confutazione corrispondente alla dialetticità propria del sistema. Il momento della moralità, che stava a cuore a Croce nella sua superiorità alla politica, restava sì invece, in Hegel, sottoposto all’eticità obbiettiva dello stato; in una concezione « la cui prima origine si può anche giustificare relativamente, cioè in relazione alla polemica a cui si sentì spinto lo Hegel contro le velleità e la vaporosità e la prosuntuosità romantiche delle anime belle e sensi­bili (onde gli parve opportuno lodare sull’uomo geniale e sull’eroe11 buon cittadino), e, se non giustificare, si può spiegare nel rimanente con la personale disposizione conservatrice dello H e g e l»30. Al di là di quella prima origine, e di quella parziale giustificazione e spiegazione, la moralità soggettiva fu da Hegel sottoposta alla mora­lità obbiettivatasi nell 'ethos e ^ρβΰο,.ϊ^οΤ'ΊΙχ^ dottrina morale di Kant fu posposta alla sapienza degli antichi, eh® avevano insegnato consistere la virtù « nel viver^<QnformementaJai costumi del pro­prio popolo » 3I. Ma è anche peso indubbio che si deve riconoscere alla sottomissione sistematica della moralità al­l’eticità. — j à e le ragioni dello spirito libero nonluiivano per Hegel nella adesione allo stato, pur esso dominato da una molteplice accidentalità interna e3 esterna, ma si innalzavano all’assolutézza della contèiSrpIazIone 3Γ~Ρίο. Onde la coI!ociaöinF'sisIemäHS“dälä moralità va proprio relativamente giustificata nel suo intento'di

29 B. C r o c e , Etica e politica, Bari, Laterza, 19432, p. 215.30 Ibid ., p. 188.M G . W. F. H e g e l , Phänomenologie des Geistes, cit., p. 275 (trad. it. cit.,

vol. 1, p. 296).

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polemica contro le «velleità (...) romantiche» e contro la presun- zione~1ndivi35aIe dell intelletto, ed è relativamente riscattata dalla collocazióne sistematica superiore é suprema’ dèlTà^rè^gìoné è della fiTosoffiìr■‘»•«•'•»»«Μη, > ̂

4. Idea come presente o idea come compito. Qualunque cosa si possa pensare oggi, dopo tante indagini accurate, della « perso­nale disposizione conservatrice dello Hegel », il problema filosofico rimane sempre quello racchiuso nelle pagine celebri della Prefa­zione alla Filosofia del diritto sulla identità di razionale e reale nella concretezza dell’idea. L ’infinità concreta di Hegel è tutta rac­chiusa in quel circolo: dalla razionalità alla realtà all’idea, con le molteplici, più o meno ampie proiezioni e riproduzioni nelle varie parti del sistema. Come si è visto in precedenza (η. 1), di ogni momento del sistema può essere predicato quel carattere: che esso è idea, ovvero concetto e realizzazione; forma più tecnica per dire che esso è idea, ovvero razionale e reale. Il § 1 con la sua anno­tazione ce lo ha mostrato per la filosofia dello spirito oggettivo; la proposizione può esser ripetuta per ogni altro momento. Come purèx si è visto in precedenza (n. 2), quella stessa proposizione è ripe- tuta da Hegel in altro senso: e cioè nel senso che ogni momento/'' del sistema è sviluppo e processualità, da una forma immediata, semplice e raccolta (il concetto), a una forma differenziata, parti- %. colarizzata, dispersa, intellettualistica (la realizzazione), a una forma / concreta, raccolta, ma ora m e ^ t a “M ''o ^ i e t o ' ìll’idea). I signi- f ficati 1) e 2) non combaciano, anche se hanno rispondenze profonde \ nella visione costante cfiuna idea canaeaa-j^articolata.

Quella articolazione può esser vista come il carattere stesso costitutivo dell’idea in ogni momento. Ed è articolazione e sviluppo dell’unico vivente intero, il quale può essere colto nella sua mas­sima concretezza se guardiamo alla filosofia, ovvero all’idea com­piutamente sviluppata che pensapropria articolazione, be guardiamo a tale cerchio supremocTer si- stema, cne e la filosofia, lo vediamo ricongiungersi al primo cerchio, che è l ’essere, dal quale l ’idea si è sviluppata come da una concet- tualità immediata, semplice e raccolta, attraverso una serie prò-

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gressiva e articolata di realizzazioni. In questo massimo ambito noi vediamo insieme la razionalità del reale e la processualità del reale; vediamo l’idea come un presente che è frutto dell’artico]a- zione dell’intero. La dialettica, come la descrive PannotaziöäCal § JÌS j è soltanto la contemplazione di quell'immanente lavoro (felWitle^ ed è cosa diversa da quella dialettica che consiste in « una appros­simazione alla verità, una mezza misura moderna »: quella fiacchezza del pensiero che agli occhi di Hegel è rappresentata da Kant; che è già stata denunciata nella Prefazione; che vede come « suo ultimo resultato » 32 una approssimazione a un irraggiungibile ideale. È quella « cosiddetta filosofia (...) la quale assicura che lo spirito non possa conoscere la verità né sapere che cos’è la cosa in sé » 33. La dialettica di Hegel, come filosofia di una ragione che ha in sé la potenza di svilupparsi a compiutezza reale, è comprensione della vera infinità, è comprensione senza residui di un « eterno che è presente » 34; è idea ed è contemplazione dell’idea, cioè di una realtà razionale. Sta qui la differenza non componibile tra il modo di pen­siero che vede l ’idea come presente e il modo di pensiero che vede l’idea come regola del presente. Nella Critica della ragion pura, Kant aveva definito idea e ideale: « Come l’idea dà la regola, così l ’ideale (...) serve di modello (...). Questi ideali, sebbene non si possa loro attribuire realtà oggettiva (esistenza), non sono perciò da considerare per chimere, anzi offrono un indispensabile criterio alla ragione, che ha bisogno del concetto di quel che nel suo genere è perfetto, per apprezzare e misurare alla sua stregua il grado e i » difetti dell’imperfetto » 35. Idea, ideale, come regola e come modello; come concetto della perfezióne’, ~e di una perfezione che non può ' gütigere alla rèaliST oggettiva, ovvero a realizzarsi compiutamente. Di contro a Kant, sta la visione jiegeliana dell’idea come concetto

or ÌUVÙ A iÀ itL32 Rph., $ 31 A , p. 174 (27).33 Rph., § 44 A ., p. 214 (14, 17-19).34 Rph., Vorrede, p. 71 (10).35 I . K a n t , Kritik der reinen Vernunft, in "Werke, Akademie-Ausgabe,

Bd. I I I , p. 384 (trad. it. G . Gentile e G . Lombardo R ad ice-V . Mathieu, Bari, Laterza, 1959, p. 466).

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che è anche realtà oggettiva; e sta la ricorrente polemica hege­liana contro la filosofia del vuoto e formale dover essere.

Per difendere la sua filosofia dall’accusa di giustificare ogni espres­sione della storia, Hegel è ricorso alla distinzione della realtà dal­l ’accidentalità. Ma il problema è interno alla stessa definizione della realtà come razionalità e come idea presente e attuale. L ’idea hegeliana ha il carattere di intero articolato, in sviluppo, di sostanza che è soggetto. Ma questo soggetto è l ’idea universale, che è in ogni momento razionale e reale. L ’idea può esser vista sincronicamente, e mostrarsi nella sua interna processione ininterrotta. Può mo­strarsi diacronicamente: sistema dello spirito che è giunto alla com­piuta espressione di sé nella condizione dei tempi moderni. Lo spirito lavora sotterraneamente e instancabilmente, ci dice la conclusione della Storia della filosofia36 ; ma diffida di un pensiero che non sia unito a g uella realta complessiva : un pensiero che Hegel chiama astratto, vuoto e superficiale. La ragione non T la le "*se non è unita

l^Sero ,lT !T lT!ir,3 iv ?n S r e a 3 l^ ^ in to r T lT e tS ?S Ppiroce3le?? "uno ad" altro momento del sistema; ed è altresì l ’eterno arricchirsi sto­rico dello spirito. Ma è un divenire dello spirito come totalità, di­venire di una ragione universale tradottasi nella realtà. Una ragione diversa, una libertà diversa, non può essere la ragione e la libertà di cui parla la filosofia; può essere soltanto denunciata come mero concetto, conaé arbitrio, cioè come quelle vuote e formali determi­nazioni dell’intetìettcr'iihe sono per Hegel il prodotto della filosofia kantiana, di una « cosiddetta filosofia ». La ragione e la libertà di cui parla Hegel sono ìà~fagione~ìTIa Ubertàaa 3 f f totatfta WeTs?sl£ma h e g S ^ o T ^ ^ S ^ G ^ f f l o n T S G S E w ^ S io d i lib ^ tàn ella società civile, e v ’è il fondamentale riconoscimento sistematico dello spirito assoluto come esperienza somma dell’uomo; ma che il, nella totalità storicamente vivente la sua ragione e i a sua libertà, è una realta constatata dalia niosona, non un compito della niosona.

36 G. W. F. H e g e l , Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, SW , Bd. 19, pp. 684-692 (trad. it. cit., vol. I I I , 2, pp. 410-418).

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Claudio Cesa

TRA MORALITÄT E SITTLICH KEIT Sul confronto di Hegel con la filosofia pratica di Kant

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I. Il tema dell’atteggiamento di Hegel nei confronti dell’etica kantiana è uno di quelli ai quali è sembrato difficile applicare la formula, suggerita dallo stesso Hegel con molte riserve e sfuma­ture, e poi svolta assai più pesantemente dagli storici della filosofia di tendenza o ispirazione hegeliana — a partire da K.L. Michelet nel secolo scorso per giungere sino a R. Kroner e oltre nel nostro — di un passaggio, anzi, di una continuità tra i due pensatori. Se sul terreno della legica e metafisica Hegel aveva potuto appellarsi a Kant « come precursore e autorità » 1 sul terreno della filosofia morale questo richiamo gli sarebbe sembrato impossibile; del resto, ogni volta che venne a parlare del « dover-essere » (Sollen) si sentì costretto a criticarlo in toni ora sarcastici ora violenti2. Soprattutto negli scritti del periodo di Jena la contrapposizione aveva assunto toni particolarmente duri, ma anche quando, nella fase del defini­tivo consolidamento del sistema, da Norimberga a Berlino, il con­fronto con Kant ha preso toni più pacati, restano le riserve di fondo. E proprio sull’argomento della contrapposizione, sul terreno morale, tra Hegel e Kant, si sono sempre sentiti particolarmente sicuri, del resto, gli avversari e i critici di Hegel, sia che interpre­tassero gli attacchi hegeliani al Sollen come un adattarsi a qualsiasi realtà 'data, sia che condannassero l’identificazione tra libertà e ne-

\

1 « Secondo la mia concezione della logica, l ’elemento metafisico cade senz’altro completamente dentro di essa. Posso citare a questo proposito Kant come precursore e autorità » (Nürnberger und Heidelberger Schriften, Theorie Werkausgabe IV , Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1979, p. 406; cito dalla trad. it. di G . Radetti, Propedeutica filosofica, Firenze, Sansoni, 1951, ρ. 252).

2 Su questo argomento è da segnalare, anche per la bibliografia relativa, l ’ampio studio di B. B i t s c h , Sollensbegriff und M oralitätskritik bei G. W. F. Hegel, Bonn, Bouvier, 1977, che ha il merito di analÌ2zare attentamente (an­che se in modo un po’ scolastico) soprattutto i luoghi della Wissenschaft der Logik nei quali si toccano questi temi; molto più sommario è il confronto con le altre opere hegeliane.

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cessità, che dovrebbe aversi nell’agire etico, come un imbroglio filosofico, utile solo a camuffare la negazione dell’autonomia mo­rale, l ’abbandonarsi dell’individuo al corso della ‘ storia ’. Sono obiezioni antihegeliane correnti fin dal secolo scorso, e non soltanto in Germania; in Francia, e anche in Italia, dopo il 1870, Hegel venne presentato come l ’espressione filosofica della Germania dispo­tica e militaresca, contro la quale occorreva rimettere in onore quel grande filosofo della libertà, o addirittura del liberalismo, che era stato Kant. Ed anche nel nostro secolo, dopo la prima e anche dopo la seconda guerra mondiale, si è auspicato un ritorno a Kant, spesso in contrapposizione a Hegel, come ritorno ai valori della civiltà ‘ europea ’, liberale, tollerante, critica. E di recente, quando ha preso forma la tendenza alla ‘ riabilitazione ’ di Hegel, sono risuonate vivaci le proteste contro gli ‘ apologisti di Hegel ’ — basta ricordare negli Stati Uniti S. Hook, e in Germania E. Topitsch.

E la ‘ riabilitazione ’ di Hegel, negli ultimi decenni, ha fatto davvero molti progressi. Mettendo tra parentesi le diversità tra studioso e studioso, si potrebbe così sommariamente descrivere la situazione: al liberalismo garantistico e contrattualistico di Kant si è contrapposta la consapevolezza sociale di Hegel — il quale sarebbe così, molto più di Kant, il filosofo politico del mondo mo­derno. È una tesi sostenuta da E. Weil, in un fortunato libretto di 30 anni fa, e che è stata poi ripresa, su base filologica molto più ampia e attendibile, da studiosi quali S. Avineri, K.H. Ilting, C. Taylor. Ma, per rendere definitiva la vittoria di questa tesi, occor­reva smorzare o attenuare il più possibile il contrasto con Kant: e qui bisogna ricordare, oltre un articolo di O. Marquardt3, uno studio di J . Ritter4 che, se ha avuto minor risonanza di quello, dello stesso Ritter, su Hegel und die französische Revolution, è altrettanto importante ai fini di un discorso su Hegel ‘ morale ’. Mi sia consentito di ricordarne sommariamente le tesi principali:

3 Hegel und das Sollen, « Philosophisches Jahrbuch » 1963-64, pp. 103-119.4 Moralität und Sittlichkeit. Zu Hegels Auseinandersetzung mit der kan-

tischen Ethik (1966) in Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1969, pp. 281-309.

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a) la tanto famigerata eticità (Sittlichkeit), cui è stata spesso rivolta l’accusa di minare la libertà e la responsabilità individuale, è una eredità della tradizione aristotelica, mantenutasi, nelle università, sino ai tempi di C. Wolff; ben lungi dal proporsi una sorta di machiavellismo, « Hegel ha inserito la moralità e l ’eticità nel con­testo del sistema di ciò che è giusto, intendendo quest’ultimo come principio e condizione dell’eticità »; b) non è corretto ripetere sem­pre che nella eticità la moralità è tolta, senza ricordare che Aufhe­ben significa anche Aufbewahren, cioè conservare; c) la posizione, operata da Kant, di legalità e amoralità costituisce l ’inizio ed il punto di partenza della filosofia hegeliana del diritto. Hegel, insom­ma, secondo l ’interpretazione del Ritter, ha sussunto l ’essenziale della filosofia morale di Kant, e la ha inserita nel contesto della ‘ politica ’ aristotelica, restituendo così all’agire secondo libertà, alla prassi, la sua « sittliche Wirklichkeit ». Il punto di forza del Ritter (a prescindere dai sapienti tagli operati su alcune citazioni) è nel ricalcare lo schema espositivo hegeliano, per il quale la moralità non è espunta dal sistema, ma ne fa parte, al suo luogo e con il suo ruolo. E se si tiene presente lo schema hegeliano, nella sua duplice proiezione, storica e sistematica, Sarà agevole constatare che Hegel ha più volte riconosciuto la funzione^ della soggettività5, parlando del ruolo sia di Socrate che del cristianesimo, ribadendo più volte il diritto dell’uomo di fare solo ciò di cui è intimamente convinto, ponendo la libertà del soggetto come un carattere tipico del mondo moderno; che Hegel, inoltre, ha subordinato lo spirito oggettivo a quello assoluto — per cui, nel sistema, l’eticità, e per essa lo stato, non è l ’istanza suprema; lo stato è sì « divino e terreno », ma non è divino e basta; lo sarebbe soltanto se, per dirla con Aristotele, « το Χρίστον των, έν τω κόσμω άνθρωπος έστίν » 6— se Hegel, cioè, avesse davvero divinizzato l ’uomo. Ora, una

5 Sul tema del rapporto moralità-soggettività utili spunti in R. P. Horst- mann, Subjektiver Geist und Moralität nel volume collettivo Hegels philoso­phische Psychologie hrsg. von D . Henrich (« Hegel-Studien », Beiheft 19), pp. 191-199, Bonn 1979.

6 Eth. Nie., V I, 1141, a, 22-23.

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volta che le singole figure vengano guardate nel quadro generale del sistema, ciò che ha luogo è non contrapposizione, ma solo distin­zione, o, più esattamente, superamento-inveramento. E le situazioni ‘ tragiche ’ nelle quali, in presenza di una eticità in disfacimento, il singolo si arrocca dentro di sé, e risponde soltanto al proprio tribunale interiore; o, al contrario, il fondatore o il restauratore di uno stato va oltre i limiti della legge scritta, ed esercita la vio­lenza, quale ‘ supremo dovere contro i fautori dell’anarchia, non possono essere addotte come argomenti per sostenere o l ’impotenza della moralità, o un immoralismo hegeliano: si tratta di casi estre­mi, per i quali il Ritter ha parlato di « virtù della situazione ecce­zionale » 7; ad esse i comuni criteri di valutazione non possono essere applicati. Tanto più che l ’intento della matura sistemazione hegeliana è stato quello di mostrare come, in seguito alla elabora­zione teorica ed ai movimenti politici degli ultimi tre secoli, ci fossero almeno le condizioni in grazia delle quali, almeno in una determinata area geografica, le esigenze dell’individuo e quelle della collettività potessero trovare una composizione.

C ’è, beninteso, anche un’altra possibilità, che gli interpreti di Hegel non hanno mancato di utilizzare: quella, cioè, di insistere più sugli elementi di scissione e di dilacerazione che su quelli di conciliazione — e basterà citare Tanche troppo noto libro di A. Kojève. Si potrebbe dire che questa prospettiva si distingue da quella che si è ora delineata essenzialmente perché tiene poco conto della connessione sistematica delle singole figure, e ne mette in luce altre possibili combinazioni. È un procedimento assai discu­tibile dal punto di vista della filologia — ma si può riconoscergliil merito di aver contribuito a sondare fino a qual punto le categorie hegeliane fossero ancora in grado di dire qualche cosa agli uomini ' di una « età di crisi »; lo storico può ricavarne qualche utile spunto, quello, almeno, di vedere le ipotetiche possibilità che Hegel aveva di fronte prima di risolversi alle scelte che, di fatto, ha preferito — togliendo quindi a queste ultime il carattere di aproblematica ov­vietà.

7 J . R i t t e r , op. cit., p. 308.

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È possibile che il modo di far compiere qualche ulteriore pro­gresso alla nostra conoscenza del pensiero di Hegel sia quello di tener conto di entrambe queste istanze metodiche: non dimenticareil sistema, anzi, tenerlo ben presente, ma, insieme, sforzarsi di stabilire come sono stati foggiati, e in quali circostanze, i singoli pezzi di esso. È in questa prospettiva che si tenterà di esaminareil confronto di Hegel con la filosofia pratica di Kant.

II. È stato molto discusso quando, e quanto approfonditamen­te, lo Hegel giovane abbia studiato gli Scritti morali di K ant8. È comunque certo che, assai per tempo, egli manifestò la sua per­plessità nei confronti di una separazione della « pura moralità » dalla « sensibilità » 9, per passare poi ad una critica esplicita controil dover-essere, espressione del « dominio del concetto », che irri­gidiva ed aggravava tale separazione. Ma è da dire, in via prelimi­nare, che l ’angolo visuale dal quale il giovane pensatore guarda alla vita etica è essenzialmente diverso da quello di Kant: ciò che gli interessa è una pedagogia nazionale o popolare, che si pro­ponga di inserire gli uomini nella loro comunità, in modo che siano insieme virtuosi e felici. La cornice è costituita dalla « reli­gione », senza che peraltro ci si ponga né il problema di un criterio per valutare la « razionalità » di essa 10, né quello di una esperienza personale del divino 11 ; più che di un rapporto verticale uomo-Dio

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8 Della vasta letteratura sia qui almeno ricordato, per il periodo di Tu- binga, il sempre importante libro di C. L a c o r te , I l p r im o H e g e l , Firenze, Sansoni, 1959; per tutto il periodo «g io v an ile » , punto di riferimento obbli­gato è A .P e p e rz a k , L e jeu n e H e g e l e t la v istoti m ora le · d u m o n d e . La Haye, M. N ijh o l, 1960, al quale si rimanda per la letteratura precedente.

9 T h e o lo g isc h e Ju g e n d sc h r ifte n (Nohl), Tübingen J . C . B ., Mohr, 1907, p. 4 (la paginazione Nohl è riprodotta nella trad. it. di N . Vaccaro e E . Mirri, S c r it t i te o lo g ic i g io v a n ili , Napoli, Guida, 1972).

10 « La domanda sulla razionalità o non-razionalità è una domanda inte­ramente oziosa » (T h e o l. Ju g e n d sc h r ifte n cit., p. 235).

11 In questa sede sono irrilevanti le differenze tra religione privata e re­ligione pubblica. Per il prevalere del « politico » su una autentica esperienza religiosa cfr. Peperzak , op . c it ., pp. 101 sgg.; a p. I l i si parla di «a te ism o » di Hegel, e la questione viene riproposta poche pagine dopo, ove si legge:

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Hegel si interessa di un rapporto orizzontale, tra i seguaci di una religione, del modo con cui ne ricevono e praticano le prescrizioni. La ricerca di un « esser-uno » attraverso l’amore induce a vedere l’autocostrizione (Selbstzwang) kantiana come più alta, sì, di quel comando esterno che si riceve servilmente da un altro, ma, anche, come tutt’altro che pervenuta ad una vera autonomia; l ’interioriz­zazione del comando non toglie il comando. Ed a questa prima critica se ne aggiunge subito un’altra: che la Gesinnung (che si può rendere ora con « intenzione », ora con « coscienza morale », ora con « coscienziosità ») di cui parla Kant non implica « l ’attività, la virtù attiva » 12 : situata tra la legge e l ’azione, non è ancora l’azione. Non sarebbe eccessivo indicare in queste righe una prima formulazione della critica alla « impotenza » del dover-essere, cui è del resto già contrapposto « l’essere », « modificazione della vita » 13 — si tratta comunque di un tema già largamente studiato, sul quale sarebbe ripetitivo soffermarsi. Val la pena, piuttosto, di dedicare qualche attenzione ad un altro punto, che è stato finora, a quanto so, meno considerato, ma che mi pare di eguale impor­tanza per lo svolgimento dell’etica hegeliana.

È ben noto il più tardo passo, della Prefazione alla Filosofia del diritto, nel quale Hegel spiega che sarebbe vano voler esprimere una nuova verità su ciò che sia « diritto, eticità, stato », e che si trattava soltanto di dare forma razionale ad un contenuto già di per sé razionale 14. Kant, nella Prefazione alla Critica della ragion pratica, non aveva detto cose molto diverse 15 ; il suo proposito di

« Le sacré et le religieux n’existent plus chez Hegel » ; ma v. soprattutto le pp. 181-200.

12 « ... die tugendhafte Gesinnung — der Ausdruck Gesinnung hat die Unbequemlichkeit, dass er nicht die Tätigkeit, die handelnde Tugend zugleich m itanzeigt» (Theol. Jugendschriften cit., p. 293 n.).

13 Op. cit., p. 266. Su questo gruppo di pagine cfr. le osservazioni di K. L o w it h , D as Individuum in der Rolle des Mitmenschen (1928), Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1969, pp. 163 sgg,

14 Grundlinien der Philosophie des Rechts (Jubiläumsausgabe, vol. VII) p. 22 (d ’ora in avanti citati con la sigla Rph. e il numero del paragrafo; si tiene presente, modificandola quando occorre, la traduzione Messineo).

15 « Ma chi pretenderebbe introdurre anche un nuovo principio di tutta

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liberare la moralità da ogni commistione con « l ’antropologia » sembrava voler fondare sulla moralità l ’adempimento di doveri cui la legalità, da sola, sarebbe stata una troppo precaria motivazione. Secondo l ’interpretazione di Hegel, la Gesinnung sarebbe allora « sostegno » e « complemento » della legge 16. La scelta di queste parole non è probabilmente casuale, in quanto è destinata a per­mettere la contrapposizione della morale di Gesù a quella di Kant. Anche Gesù aveva dichiarato di non essere venuto a sopprimere la) legge (Hegel intende: « la legge civile »), ma a compierla (Hegel dice « ergänzen » che è anche « integrare » ) 17 ; — la differenza essenziale è che lo « spirito » cui Gesù si richiama « non ha coscien­za di diritti e di doveri », non è, si potrebbe dire con lieve anacro­nismo « riflessione ». Da una parte, insomma, c’è l ’universalità formale kantiana che ha bisogno della legalità, la rispetta e le dà una ulteriore sanzione; dall’altra c’è lo spirito dell’insegnamento di Gesù, che si adegua alla legge, ma interiormente disprezzandola, e, al limite, ignorandola — lo spirito che dissolve il concetto e l’intelletto.

Questi luoghi hegeliani presentano un gioco di termini che ri­tornerà, con opportune modificazioni, negli scritti del periodo di Jena 18. Proprio per questo è necessario tentare di definire la situa­zione teorica. Hegel, a differenza di Kant, non dispone ancora di una ontologia sulla quale fondare le proprie considerazioni sull’agire umano. Non ha un principio sistematico, anche solo regolativo, col quale additare il superamento « del grande abisso che divide il so­

la moralità, e di essere stato il primo ad inventarla? Come se prima di luiil mondo avesse ignorato in che consista il dovere, o a questo riguardo fosse stato tutto in errore » (Gesammelte Schriften, Akad. A., V , p. 8 n.; si cita dalla trad. it. di F. Capra, Bari, Laterza, 1947, ρ. 7 η.).

16 Tbeol. Jugendschriften, cit., p. 268.17 Op. cit., p. 271.18 Nei quali però, come è noto, avvengono alcuni significativi sposta­

menti: non il cristianesimo evangelico, ma l ’antichità classica, non Gesù, ma Platone (ed Aristotele); ma le categorie in gioco sono le stesse: negli anni di Francoforte più alto della legalità-moralità è l ’amore, in quelli di Jena più alta della moralità-legalità è l ’eticità.

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vrasensibile dai fenomeni », che divide « il concetto della libertà » da quello della « natura » 19. Tutto ciò di cui egli dispone è una potente, ma lacunosa, filosofia, della storia, nella quale certe cate­gorie portanti — l ’eteronomia e il legalismo, la moralità e l’amore,il dominio e la libertà — sono illustrate nei popoli storici, ma in un divenire che serve più a metterne in evidenza i difetti e le insufficienze che ad indicare la direzione lungo la quale si sarebbe realizzata la redenzione del genere umano.

Ancora: quale criterio per giudicare la legge Kant (ma anche Fichte) aveva il principio razionale del diritto naturale; era sulla base di esso che si potevano valutare gli insiemi giuridici del pas­sato, e costruire quello del presente, nel quale i doveri, sia quelli stabiliti dalla pattuizione originaria che quelli derivati, avevano un loro senso, potevano costituire un sistema. Ma Hegel aveva, sin dall’inizio, fissato la sua attenzione su modelli nei quali l ’elemento coesivo era la religione, e sapeva bene che in cose di « fede » non si davano contratti. Una religione dell’amore, poi, fondata com’è su un sentimento totalizzante che dissolve la distinzione tra privato e pubblico, obbligatorio e facoltativo, faceva cadere, anche, la di­stinzione tra legalità e moralità; distinzione che in Kant, ma anche nel primo Fichte, non aveva di per sé alcun connotato negativo: c’era un agire secondo il diritto ed un agire secondo la morale — ciò che andava evitato era soltanto la confusione tra le due sfere.

Ma se era necessario ricordare il differente punto di partenza di Hegel (e non importa qui discutere se esso era suo proprio, o derivato da altri filoni culturali) rispetto a Kant, e a Fichte, occorre subito aggiungere che anche le critiche al Sollen, alla Gesinnung, al Selbstzwang formulate dallo Hegel francofortese sarebbero diffi­cilmente spiegabili senza l ’interpretazione radicale che egli dette della dottrina kantiana del primato della ragione pratica 20: se non

19 I . K a n t , Ges. Schriften, V, p. 195. Trad. it. La critica del G iudizio , a cura di A. Gargiulo e V. Verrà, Bari, Laterza, 1963, pp. 37-38.

20 Manca ancora, che io sappia, una analisi approfondita di questo tema, della rilevanza del quale c ’è peraltro consapevolezza, come si ricava da vari accenni nella letteratura secondaria. Non saprei dire se Hegel lo abbia ripreso

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si ammette questo non si spiegherebbe, tra l’altro, l’accusa di incoe­renza, o di scarsa consequenzialità, che viene di frequente rivolta a Kant.

Kant, per la verità, era molto meno dualista, e dispregiatore del sensibile, di quanto tutta una tradizione abbia voluto far rite­nere. Per quanto riguarda, per es., il grosso tema della felicità, egli non respingeva affatto la tradizione illustre (che aveva per capostipite Aristotele) che riconosceva conforme alla natura umana porsi come obiettivo la felicità — la quale ultima anzi, egli dichia­rava, « ha un valore interiore necessario » 21 ; e nella struttura siste­matica, o, come egli diceva, nella « dottrina », la facoltà di deside­rare era collegata con la ragione pratica. È solo perché i desideri umani sono tanto vari, e potenzialmente contraddittori, che è ne­cessario assegnare loro, come criterio, una « regola generale » del nostro intelletto22, onde costruire un modello di comportamento « coerente con l ’universale, cioè con la natura » 23. « La moralità— scriveva Kant in un’altra delle sue « riflessioni » — ha in sé questo carattere, di sottrarre la felicità al destino e al caso, di farne una regola della nostra propria ragione, e di rendere noi gli artefici di essa » 24. La morale di Kant, inoltre, era tanto poco individua­listica e « privata » che la regola doveva valere per tutti gli uomini, onde rendere impossibile (in nome del già citato principio di coe­renza) quei conflitti di regole di azione individuali che equivale­vano, sul piano inter-individuale, alla potenziale contraddittorietà dei desideri nel singolo uomo. Era per questa ragione che il punto

direttamente da Kant, ο se dai primi scritti di Schelling. Mi pare abbastanza sicuro che esso è ancora centrale negli abbozzi sistematici di Jena (penso pei es. ai luoghi nei quali si tratta del passaggio dal teoretico al pratico, ma non solo ad essi), mentre perde di importanza negli scritti della tarda maturità. Anche se non ne tratta direttamente, offre molti spunti di riflessione (limita­tamente al periodo di Jena) l ’opera di L . Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, Freiburg-München, Alber, 1979.

I. K a n t , Ges. Schriften, XIX, p . 186 (Refi. 6867).» I . K a n t , Ges. Schriften, XIX, p . 114 (Refi. 6621).« I. K a n t , Ges. Schriften, XIX, p. 272 (Refi. 7199).24 I . K a n t , Ges. Schriften, XV, pp. 524-25 (Refi. 1187).

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di approdo fu il famigerato formalismo25 sul quale si appuntarono ben presto le critiche di chi, leggendo sommariamente le opere a stampa, perdeva di vista quella ricchezza di motivi che a noi è se­gnalata dagli scritti postumi.

Possiamo ora tornare al problema dal quale siamo partiti, quello della Gesinnung, che è, secondo Hegel, un mero complemento della legge positiva — per cui, per dirla con la terminologia della Crìtica della ragion pratica, le « leggi semplicemente formali » sa­rebbero un complemento delle « regole pratiche materiali » x . Non è forse azzardato vedere, in questa notazione critica, la constata­zione, da parte di Hegel, del fallimento del primato della ragione pratica nella forma con cui Kant lo aveva presentato; Kant aveva affermato che il primato della ragione pratica consisteva nella fa­coltà (Vermögen) della ragione di « determinare la volontà in vista dell’ultimo e compiuto fine » 27 — il che, chiosava Hegel, era pale­semente impossibile se essa, nel definire le singole massime di atti­vità, si trovava affidata alla contingenza delle leggi empiriche, o alla casuistica morale28. Ora, questa critica non è evidentemente la stessa di quella che rimproverava a Kant di umiliare e deprimere la « vita », di essere stato (secondo l’immagine di Schiller) « il Bra­cone del suo tempo, perché quest’ultimo non gli era sembrato degno di un Solone » 29. Se anche Hegel non lasciò cadere, per alcuni anni

25 II quale è la diretta conseguenza di un rapporto non mediato tra uni­versale (Kant dice « Intero » ) e un particolare; « das All bestimmt den Wert absolute » si legge alla Refi. 6712; e più sotto si ripete che la libertà può essere « ristretta », può ricevere cioè la connotazione che la qualifica come buona, solo dall’universale. Kant non intende evidentemente negare che ci siano doveri particolari; quello che gli interessa è la loro legittimazione a va­lidità universale.

26 Ges. Schriften, V , p. 22 (trad. it. cit., p. 25).27 Ges. Schriften, V , p. 120 (trad. it. cit., p. 144).28 Gesammelte Werke, IV (hrsg. von H . Büchner und O. Pöggeler),

pp. 59-60; (trad. it. Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Milano, Mursia, 1971, pp. 72-73).

29 F. S c h i l l e r , Sämtliche Werke, V , München, Hanser, 1975, ρ. 466; la frase si trova nello scritto Ueber Anmut und Würde.

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ancora, la prima osservazione, poco a poco finì con l ’attribuire maggiore importanza alla seconda, e vedremo che è proprio nel ten­tativo di dare un contenuto non empirico alla ragione onde renderla davvero attiva che egli si impegnò nella sua successiva ricerca; ma una importante anticipazione in questo senso si trova già, come si è visto, negli Scritti giovanili.

Hegel ha più volte mostrato di ritenere che la debolezza di Kant su questo punto sia poi sostanzialmente passata non solo a Fichte, ma anche a Schelling30. A rigore, questo non è del tutto esatto, perché i due pensatori che si sono ora citati tentarono al­meno, magari cautamente, una riforma dell’impianto kantiano, e proprio là dove si appuntava la critica di Hegel. Già Schelling, nella sua Nuova deduzione del diritto naturale (1795) aveva, sia pure in maniera assai confusa — di istanza, piuttosto che di arti­colata argomentazione — sostenuto che, invece di sottomettere la volontà particolare a quella universale, si doveva fare delle due volontà « concetti reciproci » 31. Fichte, per parte sua, aveva tenta­to, nel Sistema della dottrina morale (1798) di dare una argomen­tazione più rigorosa (« deduttiva ») della imperatività kantiana32, ma, già l’anno successivo, aveva riconosciuto pubblicamente che l ’attribuzione di un contenuto materiale al comando etico formale costituiva « una difficoltà del sistema, notata soltanto da alcuni profondi conoscitori della filosofia » 33. Ora, non credo che Hegel, nell’ignorare questi precedenti, si sia lasciato accecare dalla sua consolidata antipatia per Fichte, o dal senso della sua superiorità, in temi di «filosofia dello spirito», rispetto a Schelling. La que­stione è lievemente più complicata, proprio perché la sua critica

30 Per quanto riguarda Fichte, basterà ricordare che H egel parla spesso di « kant-fichtische Philosophie » ; per quanto riguarda Schelling, nelle lezioni di storia della filosofia si legge: « Oie geistige Seite [cioè la filosofia morale, e della storia] hat Schelling im Transzendentalen Idealismus dar gestellt; es bleibt bei kantischen Gedanken » (Jubiläumsausgabe, XIX, p. 682).

31 F . W. J . S c h e l l i n g , S.W ., I, p. 254.32 J . G . F i c h t e , S.W ., IV , p. 54sgg .33 J . G . F i c h t e , S.W ., V , p. 209.

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della « coscienza morale » ha una portata più ampia di quella re­lativa alla costituzione dell’imperatività.

Anche nella sua forma più nobile (quella di Gesù) il comanda­mento dell’amore si era rivelato impotente a modificare il destino del popolo cui era rivolto34; e non tanto da esso, quanto dalle parole della Cena era sorta la comunità cristiana. Formule quali « il vino è sangue, e il sangue è spirito » « sottraggono ciò che l ’intel­letto ritiene suo », distruggono « die Materie, das Seelenlose » 35, fanno sparire la « cosa ». È un « gesto mistico » (mystische Hand­lung) che, contro una cattiva oggettività, fa sorgere una oggettività vera, che è anche « soggettiva »; non basta, allora, la coscienza mo­rale, non basta il comando dell’amore, non bastano, insomma, le rivendicazioni « teoriche » 36 : occorre un gesto che le renda effet­tuali. Di qui si può tornare a guardare a Kant (il quale aveva varie volte messo in guardia contro quella Vollkommenheit37 che è pro­prio ciò cui invece Hegel aspira), a Kant che, dopo aver posto « lo in sé e la ragione » sopra « le forme della finitezza » 38 aveva poi (e non credo sia troppo azzardato inserire qui una frase che Hegel usa contro gli scettici) « rovesciato la ragione in qualcosa di asso­lutamente soggettivo, il quale, se è posto come intero, non lascia più niente a ciò che dev’essere compreso » 39. Col « mistico » della Cena, invece, con la dichiarazione che la ragione è meramente soggettiva se non ha un oggetto che le sia adeguato, è già espressa quell’esigenza ontologico-speculativa che troverà la sua classica espressione nei primi scritti jenensi di Hegel, e ad articolare la quale egli lavorerà nel secondo trentennio della sua vita. Il primo

34 Theol. Jugendschriften, cit., p. 261.35 Op. cit., p. 299.36 « in der T h eorie» (op. cit., ρ. 225).37 Sia nella Critica della ragion pratica che negli altri scritti di argomento

morale Kant si preoccupava che l ’idea di perfezione, inevitabilmente collegata a D io, recasse danni alla formalità del dovere.

38 Gesammelte Werke, cit., IV , p. 350 (Primi scritti critici, cit., p. 169).39 Gesammelte Werke, cit., p. 212 (trad. it.: Rapporto dello scetticismo

con la filosofia, a cura di N . Merker, Bari, Laterza, 1970, p. 87).

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concretizzarsi di questa esigenza è il rovesciamento dell’impianto ancora antropocentrico degli Scritti giovanili. Un celebre passo della lettera di Schelling a Hegel del 6 genn. 1795 suona: «K an t ha dato i risultati; le premesse mancano ancora » 40. Hegel, forse, allora era d’accordo; ma non molto dopo scrisse in tutte lettere che da Kant si potevano ricavare spunti, o premesse, non certo risultati, perché, ecco una spiegazione, « l ’elemento speculativo [della filoso­fia kant-fìchtiana, cioè l’unità di pensare e di volere] è stato da Kant rifuso nella forma umana » 41, il che ha significato una rica­duta dello speculativo dell’empirico, nello « psicologico ». Dato che per un certo periodo è stato di moda leggere lo Hegel di Jena in chiave antropologica, non sarà inutile ricordare che la sua critica nei confronti delle filosofie del suo tempo ha il punto di forza nella protesta contro « das perennierende Angedenken an dem Men­schen » 42.

Anche a questo proposito, non sarebbe difficile addurre, dagli scritti di Fichte e da quelli di Schelling, tutta una serie di passi affini. Fichte, per es., aveva escluso che potesse esserci moralità senza « religione » 43, e Schelling, a chi gli rimproverava di non aver attribuito, nel suo sistema, un posto alla morale, rispondeva polemicamente che solo alla moderna « Aufklärerei » era potuto venire in mente di parlare di « Sittlichkeit des Menschen » 44. Co­mune a tutta la filosofia classica tedesca, in questi anni, è l ’aspira­zione a superare la « casualità » sia nel mondo fisico che in quello morale; ma mentre Fichte e Schelling (sia pure per strade molto diverse, e conducendo l’uno contro l ’altro una polemica feroce) cercavano di dare una base alla morale nella « religione », Hegel

40 Doveva trattarsi, peraltro, di un giudizio abbastanza diffuso; per es. anche Fichte, nella recensione (1796) al Zum ewigen Frieden, aveva scritto: « . . .d a s s diese Schrift, wenn auch nicht durchgängig die Gründe, doch zum wenigsten die Resultate (...) en th ält» (S.W ., V II I , p. 428).

41 Gesammelte Werke, cit., IV , p. 345 (Primi scritti critici, cit., p. 162).42 Gesammelte Werke, cit., IV , p. 362 (Primi scritti critici, cit., p. 185).43 J . G . F i c h t e , S.W ., V , p. 209, e anche p. 230.44 F. W. J . S c h e l l in g , S.W ., V I, p. 557.

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adesso lavorava a costruire un « sistema dell’eticità » fondato su un impianto speculativo in cui la « religione » era sì inserita, ma di cui non costituiva più l ’esclusivo elemento portante.

III. Quasi a compensare il relativo ritardo con il quale si occu­pava approfonditamente dell’idealismo trascendentale, Hegel ne svolge, nei primi anni di Jena, un bilancio del quale sarebbe uni­laterale cogliere soltanto l’aspetto polemico. Accanto alle ripetute proteste contro la filosofìa della riflessione, e contro l ’errore di Kant che aveva preso l ’intelletto per « l’assoluto dello spirito uma­no », si trova adesso riconosciuto che nell'intelletto si può trovare « l ’inizio dell’idea della ragione » 45 — anche se, beninteso, Kant non ha voluto collegare l’intelletto all'immaginazione trascenden­tale, lasciandosi così sfuggire la possibilità di avere un intelletto in­tuitivo immediatamente connesso al contenuto. Si può magari ritenere che è la violenza stessa della polemica ad indurre Hegel ad appropriarsi di formule della filosofia che combatte, ma il fatto va pur rilevato; per es. a Fichte (ma il discorso vale anche per Kant) viene rimproverato di rendere impossibile « un autentico ideale, nel quale scompaia la finitezza della realtà empirica, e la Affektion diventi natura » Sembrebbe di poter ricavare, da una frase come questa, che un ideale autentico potrebbe aver un posto nel mondo etico hegeliano47. Ma come essere sicuri che anch’esso non meriti le accuse rivolte contro quello kant-fichtiano? La risposta si può forse trovare nello sforzo di Hegel di attribuire egual dignità sia alle determinatezze che costituiscono un intero, sia all’intero stesso, nella cornice di una « assoluta presenzialità » che dissolve le diffe­renze tra possibile e reale. Si veda un passo come questo: « In que­

45 Gesammelte Werke, cit., IV , p. 334 (Primi scritti critici, cit., p. 149).46 Gesammelte Werke, cit., IV , p. 393 (Primi scritti critici, cit., p. 225).47 D i « ideale » si parla anche altrove, per es. Ges. Werke, cit., IV ,

p. 408 (Primi scritti critici, cit., p. 244). Si potrebbe dire dell’ideale ciò che O. Marquardt (op. cit., p. I l i ) dice a proposito del dover-essere, anche se io ritengo sia un problema mal posto, e ormai scientificamente inservibile, quello se Hegel abbia o no accettato « das Gegebene ».

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sta forza dell’intuizione e della presenzialità risiede la forza della eticità in generale, e ciò naturalmente avviene anche nell’eticità particolare, quella di cui vuol anzitutto occuparsi quella tal ragione legislatrice, e dalla quale invece deve esser tenuta lontana in ogni modo quella forma del concetto, dell’unità formale e della gene­ralità. Infatti, è proprio questa forma a far sì che l’essenza dell’eti­cità sia immediatamente soppressa (aufgehoben), in quanto riduce a contingente ciò che è eticamente necessario, presentandolo in opposizione ad altro: ma essendo il contingente identico con l ’em- piricamente necessario, ciò che nell’eticità è contingente è immo­rale (unsittlich) » 48. Il procedere di Kant è qui esposto in forma più elaborata che non in altri passi hegeliani: non si dice che le massime kantiane (si ricordi il famigerato esempio del deposito) siano di per sé un contingente: esse sono state prima rese tali da Kant, che ha collocato ciascuna di esse fuori di ogni connessione sistematica, e che ha poi voluto restituire ai disiecta membra del sistema morale una assolutezza riposante soltanto sul principio di identità; come se quella forma di elevazione all’universale potesse mai trasformare un contingente (perché isolato) in un necessario49.

Ma proprio nei valichi di passaggio dalla parte critica a quella costruttiva ci si accorge di come Hegel non sia troppo sicuro; ciò si coglie sia attraverso la terminologia (pratico, etico, ma anche moralisch e sittlich sono usati ora come sinonimi, ora come distinti) che attraverso i vari tentativi di strutturazione50. Nel saggio sul

48 Gesammelte Werke, cit., IV , p. 440; si è data qui, con alcuni ritocchi, la trad. it., di A. Negri, di H e g e l , Scrìtti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1962, p. 46.

49 La polemica hegeliana contro la motivazione della restituzione del de­posito, e contro la proprietà, ha fatto talvolta affermare che Hegel sia stato un critico del concetto (naturalmente « borghese ») di proprietà. Ora, è vero che lo Hegel di Jena assegna la proprietà ad una sfera inferiore — quella che non interessa né ai saggi né ai guerrieri. Ma, nel suo proprio posto, la pro­prietà vige, ed Hegel non ha mai pensato ad una comunione dei beni. Ciò contro cui egli si scaglia è la motivazione kantiana, che rende vacillante pro­prio ciò che pretenderebbe di fondare.

50 Per una esemplificazione di questo, su un tema specifico, cfr. L . S i e p ,

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diritto naturale Sittlichkeit in generale viene distinta in legalità (o sfera del diritto) e moralità (o sfera del dovere) — e la seconda, pur con i suoi difetti, è superiore alla prima, che esprime invece la reciproca separatezza degli individui; e c’è poi una « reale abso­lute Sittlichkeit », detta anche « eticità dell’individuo », della quale esistono due scienze, la morale e il « diritto naturale »: qui Natur- recht è già inteso come nel sottotitolo della Filosofia del diritto, e la gerarchia tra morale e diritto è rovesciata, perché il Naturrecht, come scienza, è più alto della morale. È inutile dire che non si tratta di una contraddizione banale: una cosa è il diritto come legalità, cioè come insieme di prescrizioni esterne, ed un’altra il diritto come sistema, fondato sulla « natura » etica; come una cosa è la moralità interiore, potenziale unità di soggetto e di concetto, e un’altra cosa la «morale della m oralità» il cui compito sarebbe di dare una « esposizione della virtù », una « descrizione naturale delle virtù ». Descrizione, peraltro, che qui Hegel non è in grado di dare: le virtù etiche, nel loro profilarsi che le specifica appunto come virtù, sono «u n lato dell’idea dell’intero»; per cui, per ri­costruire l’intero, non resta che riproporre la nota formula aristo­telica, per la quale la migliore educazione è l’osservanza delle leggi di un popolo ben ordinato. Una Tugendlehre, insomma, è sì dichia­rata possibile — ma solo se ripete il proprio concreto contenuto da un sistema di leggi « politiche »: è infatti il contesto di queste, e la relativa, arcaicizzante strutturazione per ceti, a fissare le norme di comportamento di ogni uomo, ed anche il valore della sua azione « morale ».

Non ci sono dubbi che a Hegel quel tipo di subordinazione mo­rale per il quale l ’uomo sente « agire in sé l’eterna natura », si sente « uno con l’universo », sembrava molto più importante di una specifica, e tradizionale, dottrina delle virtù. L ’agire davvero etico, cioè come « sittliche Natur », ha una effettualità nella quale « ciò che è eticamente infinito, cioè il concetto, e ciò che è etica-

Zum Freiheitsbegriff der praktischen Philosophie Hegels in Jena, nel volume collettivo Hegel in Jena, hrsg. von D . Henrich und K. Düsing (« Hegel- Studien », Beiheft 20) Bonn 1980, pp. 217-228.

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mente finito, ossia l’individualità, sono simpliciter identici » 51. Tale adeguazione è fondamentalmente inconscia — per cui Hegel, che negli scritti giovanili aveva posto la coscienza morale come com­plemento della legge, ora può definire l’elemento morale come un « supplemento di coscienza » che si aggiunge al comportamento vir­tuoso; con quell’esito che è il farisaismo, il « sapere della propria virtù » 52 sul quale Hegel si intratterrà ancora nella Fenomenologia.

In quest’ultima opera, almeno a prima vista, la valutazione ne­gativa del moralismo non è cambiata; ma in realtà sta succedendo qualche cosa di molto importante, testimoniato proprio dall’ano­malo — rispetto ai più tipici modelli hegeliani — ordine di succes­sione delle categorie 53. In luogo della serie: diritto, moralità, eticità (e prima si era detto: legalità, morale, diritto naturale) nella Feno­menologia si trova: 1) lo spirito vero come eticità, che contiene in sé anche la situazione giuridica; 2) lo spirito che si è reso estra­neo a sé, la cultura; 3) lo spirito certo di se stesso, la moralità. A tutto il capitolo sullo spirito segue poi la religione, perché, come spiegherà Hegel poco dopo nella Propedeutica (1810) « l a volontà morale in relazione alla intenzione (Gesinnung) è imperfetta. Essa è una volontà che ha il fine della perfezione » ma che non ha in sé « la perfezione della potenza di raggiungere gli scopi santi » 54 — facoltà che è invece della religione. Ora, la successione che vede prima l’eticità, e poi la moralità, viene giustificata con il di più che

51 Gesammelte Werke, cit., IV , p. 408 (Primi scritti critici, cit., p. 244).52 Gesammelte Werke, cit., IV , p. 410 (Primi scritti critici, cit., p. 246). Tra i molti altri passi hegeliani che si potrebbero citare, vai la pena di

ricordare almeno quello dello scritto sul diritto naturale, nel quale si legge che il soggetto, separato dalla propria necessità etica « sich bloss in seiner Zufällig­keit und Besonderheit erkennt, welche Erkenntnis die Empfindsamkeit und die Unsittlichkeit der Ohnmacht ist » (ivi, p. 440).

53 Su questo punto si è già più volte soffermata l ’attenzione degli stu­diosi; una rapida delineazione dello status quaestionis nelle prime pagine del­l ’eccellente saggio di M. D ’A b b ie r o , Moralità ed eticità nella RealphilosophieII , « Giornale critico della filosofia italiana », 1975, pp. 222-262.

54 Nürnberger und Heidelberger Sehr., cit., p. 231 (trad. it. cit., p. 32).

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la « coscienza » o anche « il sé della coscienziosità » 55 ha rispetto ad un comportamento semplicemente etico; a questo di più « manca la forza dell’alienazione, la forza di farsi cosa e di sopportare l ’es­sere » 56. Ci troviamo di fronte ad una ripetizione di ciò che Hegel aveva già detto in Fede e sapere, quando aveva definito la « mora­lità » « Tugend mit Bewusstsein», aggiungendo subito: « L ’auten­tica eticità viene dunque contaminata dall’addizione (Zusatz) di questa specie di coscienza della sua conformità al dovere, e, se pos­sibile, resa scostumata da questa moralità » 57.

Qui è opportuna una breve considerazione. Coloro che si sono occupati dell’etica di Hegel sanno che, nella Filosofia del diritto, la moralità non sembra poter avere un proprio contenuto — èssa non può diventare, insomma, una autonoma Pflichtenlehre. Quali sianoi « doveri » che un uomo deve assolvere, egli li trova nelle succes­sive forme o figure dello spirito oggettivo, e si tratta dei doveri di membro di quelle comunità etiche che sono la famiglia, la corpo- razione, lo stato. Con un linguaggio diverso, nei passi che si sono citati, Hegel ha già detto la stessa cosa: è nelPeticità che l ’uomo si trova dati i doveri, ed è per questo che la coscienza è una « ad­dizione ». Il primo risultato di questa aggiunta sembra catastrofico: dalla coscienziosità l ’uomo viene non rafforzato, ma indebolito — diventa incapace di sopportare la « necessità esteriore » che lo lega,lo limita, lo determina. La sua infinità soggettiva gli fa credere che spetti a lui dar leggi al mondo, ma ogni sua azione esige che egli si spogli della sua infinità, e giunga ad un confronto con l ’esistere. Come stupirsi che la prima reazione sia di rifiuto, e che il soggetto, « per timore (Angst) di insudiciarsi » cerchi rifugio nell’inattività, o in princìpi universali altrettanto vuoti della sua soggettività?

55 Gesammelte Werke, cit., IX , p. 349 (in trad. it.: Fenomenologia dello spirito, a cura di E . De Negri, Firenze, La Nuova Italia, I9602, I I , p. 176).

56 Gesammelte Werke, cit., IX , p. 354 (trad. it. cit. I I , p. 183). È vero che qui Hegel parla del genialismo morale (nel contesto si può cogliere un ironico riferimento a Schleiermacher), ma sì tratta della continuazione di una critica che aveva avuto Kant come principale obiettivo.

57 Gesammelte Werke, cit., IV , p. 410 (Primi scritti critici, cit., p. 247).

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Ma la coscienza morale non può essere soltanto « Angst, Eitel­keit, Eigensucht » 58 — se no non si spiegherebbe che essa, anche nella Fenomenologia, sia un gradino più alta dell’eticità. Credo, piuttosto, che questa « Angst » sia ciò che fonda l ’autentica sogget­tività, quella moderna. Nel mondo antico (qui si parla naturalmente secondo le tipologie hegeliane) le « collisioni » erano ben possi­bili, ma la scelta dell'individuo tra le due leggi non era in realtà una scelta: era l’adeguarsi ad una legge cui egli non poteva sottrarsi, fosse quella degli Dei luminosi o quella delle potenze sotterranee. Nulla di tutto questo per l ’uomo moderno, che viene dopo Socrate, « lo scopritore della morale » 59, dopo il cristianesimo, dopo il trionfo della « cultura »; egli si è sempre più allontanato dall’intero etico, la sua libertà è anzitutto solitudine, ma poi lo sforzo di uscire da essa, accettando, e facendo proprio, ciò che era dapprima apparso come destino. Per dirla con le parole di Hegel: « L ’uomo, di fronte alle circostanze esterne, del destino e di tutto ciò che egli immedia­tamente è, deve comportarsi in modo da fare proprio ciò, da toglier­gli la forma di un esserci esterno... Bisogna assumere la necessità esterna con libertà, e con la stessa libertà sostenerla e portarla al suo fine » 60.

Con quest’ultima frase, che si è scelta quasi a caso, perché si tratta di un concetto che Hegel ripete, quasi con le stesse parole, svariate volte, siamo arrivati al punto di svolta. Aver proclamato così solennemente il ruolo della libertà (e di una libertà che non è pensabile senza coscienza morale) induce Hegel a rendere defini­tiva la successione delle categorie. All’ordine storico (eticità nel mondo antico, moralità in quello moderno) si sostituisce l ’ordine sistematico: prima la moralità, come luogo della libertà personale, poi l’eticità, come luogo nel quale il soggetto « rielabora » il mate­

58 Le ultime due parole si trovano, tra l ’altro, nella Propedeutica (Nürn­berger Sehr., cit., p. 263, trad. it. cit., p. 66).

59 Vorlesungen über die Philosophie der 'Weltgeschichte (Lasson), Leipzig, Meiner, 1944, p. 644.

60 Nürnberger Sehr., cit., p. 262, trad. it. cit. p. 65.

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riale a lui dato, onde esso non mantenga in sé « nulla di estraneo, di rozzo, di ostile ».

Non si può, per ragioni di spazio, seguire i diversi tentativi di elaborazione del sistema che sono contenuti nei testi della Propedeu­tica filosofica. Basterà ricordare che, nella Propedeutica, compare già la tripartizione definitiva in Rechtliches, Moralisches, Politisches, e che la morale oscilla tra il restare una « addizione », questa volta al diritto (die Moral... setzt zum Recht die Gesinnung hinzu) e l ’avere propri specifici contenuti (« La morale stessa richiede che in primo luogo venga osservato il diritto, e dove esso cessa suben­trano determinazioni morali » ) 61 che restano, peraltro, del tutto imprecisate. C ’è da aggiungere, anche, che nella Propedeutica l ’in­fluenza di Kant è particolarmente forte; non saprei dire con sicu­rezza se ciò sia dovuto ad un più positivo atteggiamento di Hegel,o alla necessità, da parte sua, di adeguarsi almeno in parte alle istruzioni del « Schulnormativ » del suo amico Niethammer. È un tema, questo, che aspetta ancora di essere studiato in modo ap­profondito 62.

IV. Solo se si tiene presente la lunga riflessione di Hegel sulla morale di Kant, e dei contemporanei, di cui ho tentato di indicare alcuni dei punti più importanti, si potrà valutare adeguatamente la sezione « Moralität » della Filosofia del diritto63. Anzitutto, la

61 Nürnberger Sehr., cit., pp. 228-29, trad. it. cit. p. 29.62 Sull’argomento sono apparsi di recente due ampi studi, rispettivamente

di G . P a p u l i , L a morale kantiana e la Propedeutica filosofica dello Hegel, « Bollettino di storia della filosofia delPUniversità degli studi di Lecce », 1976,IV , pp. 191-247 e di F. S c h n e id e r , Hegels Propädeutik und Kants Sittenlehre, nel volume Die ontologische Option, hrsg. von K l. Hartmann, Berlin, D e Gruy­ter, 1976, pp. 31-115. H o l ’impressione però che manchi ancora un confronto puntuale tra i testi di Kant e quelli di Hegel, che permetterebbe di stabilire quanto questa esperienza « didattica » ha influito sulla elaborazione della tarda « morale » hegeliana.

63 Oltre alla sezione relativa nelle opere generali, sia qui citato almeno l ’articolo di F. V a l e n t i n i , Hegel e la moralità, « Giornale critico della filoso­fia italiana », 1971, pp. 468-489.

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moralità è ora un momento essenziale del cammino dello spirito verso la libertà, non è più un « additivo », ma « un più elevato terreno per la libertà »: « Il valore dell’uomo è valutato secondo la sua azione interiore, e quindi il punto di vista morale è la libertà che è per sé » 64. Non vengono meno, certo, le riserve di Hegel contro la non identità tra « concetto » e « volere », il che condanna il soggetto a non andar oltre il dover-essere, l’esigenza; ma non ci si limita a constatare tutto questo, ci si sforza di darne una spie­gazione. Il soggetto non è una sostanza, è piuttosto « la serie delle sue azioni » 65, la identità di esserci e determinatezza66; l ’autode­terminazione interiore, proprio perché si articola (gliedert) in una infinità di azioni, non esce dalla contingenza, dalla « nur relative Beziehung » 67. Nell’azione l ’interno si trasforma in esterno, è rela­tivo ad altri uomini: viene costruito, così, un mondo di relazioni interumane nel quale l ’azione non ha più, o non ha più necessaria­mente, il significato che le aveva attribuito il soggetto attivo; ma poiché essa resta sua opera, egli ne reca la responsabilità, la « colpa » {Schuld), e ciò anche quando quest’ultima non gli può essere, stret­tamente parlando, imputata68. È questa cerchia di effetti, conse­guenza della sua serie di azioni, a proporre al soggetto il problema della sua identità etica, che ha l ’espressione più immediata ed ele­mentare (ma anche permanente) nel diritto da lui avanzato di « trovarsi soddisfatto » m·. Questa esigenza del soddisfacimento sem­bra portare Hegel, un’altra volta, agli antipodi di K ant70. Ma Hegel,

64 Rph. § 106 e Zusatz.65 Rph. § 124.66 Rph. § 109.67 Enzyklopädie 1817 (Jubiläumsausgabe, V I) § 417.68 Rph. § 115 Zusatz.69 Rph. § 124 Anm.70 Non bisogna, beninteso, involgarire la questione, come se si trattasse

di un diritto al piacere contrapposto alla sottomissione al dovere. Il « soddi­sfacimento » che l ’uomo cerca deriva dal suo istinto o tendenza (Trieb) di realizzare se stesso (cfr. per es. Wissenschaft der Logik, ed. Lasson, Leipzig, Meiner, 1948, I I , p. 447); ed escludere a priori tale diritto significherebbe negare che l ’uomo possa mai realizzare la propria natura.

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su altra base, arriva alle stesse conseguenze di questi riconoscendo che, in un ambito di casualità quale quello descritto, l’uomo non può contare in alcun modo sul risultato auspicato; e, come per Kant, si pone il problema di un controllo, da effettuare prendendo come pietra di paragone un universale — che non è però quello kantiano: « Il diritto di nulla riconoscere che l’io non ritenga come razionale è il diritto supremo del soggetto, ma è in pari tempo formale per la sua determinazione soggettiva; e quindi il diritto del razionale, in quanto oggettivo nel soggetto, re?ta fermo ». « A causa della sua determinazione formale l ’intellezione (Einsicht) è altrettanto atta ad esser vera, quanto ad essere mera opinione ed errore » 71. Kant si è reso conto di questo, ha cercato di correggere « la corrotta massima del buon cuore » 72, e di introdurre « la cono­scenza (Erkenntnis) della volontà » il pensiero « dell’infinita auto­nomia della volontà » 73.

Non sono da perdere di vista questi riconoscimenti, che correg­gono in parte le antiche critiche a Kant, di aver contrabbandato nella morale una cattiva empiricità. Un cenno in questo senso resta, ma la critica si appunta adesso essenzialmente contro « il vuoto formalismo », « il parlar continuamente del dovere per il dovere ». Il punto debole della filosofia morale kantiana è « l ’attenersi alla mera prospettiva morale, che non trapassa nel concetto di eticità ». E la stessa critica ritorna un paio di paragrafi dopo, quando Hegel discuteil significato di termini come « Gewissen » e « Gesinnung »; e pro­prio da questo confronto Γambivalenza dell’argomentazione hege­liana viene alla luce in modo molto caratteristico. La coscienza « pri­va di contenuto oggettivo », che, come è detto esplicitamente, non si trova « sulla piattaforma dell’eticità » è soltanto « la certezza di questo soggetto ». Essa esprime, si potrebbe aggiungere, la solitu­dine dell’uomo moderno, che si è sciolto dall’eticità naturale, o sostan­ziale, senza però aver ancora ritrovato un universale autentico, cioè

71 Rph. $ 132.12 Rph. § 126.73 Rph. § 135.

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non formale. Quest’ultimo è possibile, come si è visto, solo a livello di eticità. Ma come si spiega, allora, la solenne, e celebre, procla­mazione di Hegel, che si trova nello stesso paragrafo: « La coscien­za, in quanto tale unità della volontà soggettiva e di ciò che è in sé e per sé, un sacrario che sarebbe sacrilegio toccare » 74? Il parlare di « sacrario » (Heiligtum) implicherebbe che, per Hegel, la coscienza è qualche cosa che non può assolutamente risolversi nel « pubblico » dello stato; ma d ’altra parte Hegel — e questa è una sua posizione fissa — non può accettare una moralità del tutto indipendente dalla eticità; la frase ora citata infatti continua: « Ma se la coscienza di un determinato individuo è conforme a quest’idea della coscien­za (...) ciò si riconosce unicamente dal contenuto di questa cosa che dovrebbe essere buona. Che cosa sia diritto e dovere (...) è essen­zialmente nella forma delle determinazioni universali, pensate, cioè nella forma delle leggi e dei princìpi ». La cosa più corretta, a questo punto, è riconoscere che il contenuto va cercato fuori della moralità, nella sfera dell’etico; e, sulla base dell’andamento siste­matico, si deve concludere che, nell’eticità, la moralità perde la sua unilateralità, e si inserisce in un contesto di doveri oggettivi.

Si sarebbe così arrivati, anche se per una strada parzialmente diversa, allo stesso risultato del Ritter, che è poi quello della tradi­zione hegeliana « liberale ». In questa esposizione, così attenta alla differenza tra eticità antica ed eticità in senso hegeliano, non si trova però quasi traccia di ciò che pure costituisce la fondazione del sog­getto « morale ». E qui si impone il passaggio dalla sfera etica a quella « religiosa ». Come l ’ethos pubblico della città antica fu messo in crisi da Socrate, il quale « ricondusse la coscienza in se stessa », così, dal punto di vista religioso, il punto di svolta fu costituito dal pensiero neoplatonico75, con la sua concezione specu-

74 Rph. § 137.75 « ... il mondo sensibile s ’è dileguato, il tutto è stato elevato allo spi­

rito, e questo tutto è stato chiamato D io e vita di D io nello spirito. Stiamo qui di fronte ad un grande rivolgimento, e con esso è concluso il primo pe­riodo, quello della filosofia greca » (Jubiläumsausgabe, XIX, p. 94; trad. it. in

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lativa della religione, anche se al suo sostanzialismo mancava ancora quella posizione della soggettività che si ebbe con il cristianesimo. Sono cose troppo note perché vi si insista. Val la pena di ricordare, piuttosto, che per definire il contenuto speculativo del pensiero cri­stiano Hegel parla non solo della trinità e dell’incarnazione, ma anche del « cosiddetto peccato originale »; e in questo contesto si legge: « Ma l’uomo può distinguere il bene dal male solo per il fatto che pensa; soltanto nel pensiero, dunque, sta la sorgente del bene e del male, ma anche la guarigione del male, prodotta dal pensiero » 76. Ebbene, se nella Fenomenologia alla moralità seguiva la « Religione », nella Filosofia del diritto la sezione della moralità si conclude con una analisi dedicata all’origine del male, « che sta nel mistero, cioè nello Speculativo della libertà, nella sua necessità di uscire dalla naturalità del volere e di essere interiore di fronte ad essa » 11. Ma la « necessità » della libertà è anche la necessità del male, ed è qui, tra l’altro, che si definisce la differenza tra « l ’uomo e l ’animale privo di ragione ». È su questo punto, credo, che occorre fermarsi per cogliere la peculiarità del punto di vista morale. Ciò che Hegel vuol dire — ed è possibile che egli abbia ricevuto qualche cosa anche dallo scritto di Schelling sulla libertà — è che la scelta tra due o più possibilità fa sì che il punto fermo sia non l ’oggetto, che è solo un possibile, ma il soggetto per sé, nella sua particolarità; la soggettività può quindi non solo porre, ma anche mantenere se stessa; anzi, lo deve fare, perché essa « sa » 7S, perché

Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di E . Codignola e G . Sanria, I I I , 1, Firenze, La Nuova Italia, 1934, p. 87).

76 Jubiläumsausgabe X IX , p. 105; trad. it. cit. pp. 99-100. M olti spunti sul rapporto male-teoria della soggettività si possono ricavare da J . R in g l e b e n , Hegels Theorie der Sünde, Berlin, De Gruyter, 1977, dal quale però non si riesce a ricavare una risposta esauriente su un punto fondamentale: il « male » della volontà consiste nella « exklusive Formalität » della libertà finita, rifiu- tantesi all’intero, o è la scelta di un contenuto « particolare » cattivo? Mal­grado ciò, l ’opera va segnalata come un buon avviamento a questo difficile problema.

77 Rph. § 139; sul significato speculativo di « mistero » v. anche Ju b i­läumsausgabe XIX, p. 72.

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la coscienza non riceve fini dalla natura, ma è lei stessa a stabi­lirli 79. Non è che venga negato un ordine della natura; ma l ’uomo non è obbligato ad adeguarsi alle cose, perché ciò sarebbe una nega­zione della sua essenza; non è dalla natura, ma dallo spirito che egli deve attingere i princìpi e le direttive del suo agire. Qui, credo, si può cogliere sia un recupero che una trasformazione del concetto kantiano di libertà; non c’è continuità tra le forze naturali dell’uomo e la sua libertà: la libertà non è una disposizione (Anlage) naturale, essa appartiene al mondo dell'intelligibile, del razionale. Hegel ha riconosciuto più volte il significato speculativo del racconto biblico sul peccato originale, del sapere il bene e il male; egli non ha mai detto che l ’uomo è Dio, né che può diventarlo— ma ha detto che il fine più alto dell’uomo è la conoscenza razionale di Dio, dello spirito, il che non sarebbe possibile se l ’uomo non avesse coscienza ed esperienza della propria natura razionale. Ora, la moralità, socra­tica e kantiana, è il luogo teorico nel quale l ’uomo prende consa­pevolezza dell’infinità del proprio volere80, e questa è una acquisi­zione che non può andare perduta senza compromettere anche l’infi­

78 « Il diritto morale (das moralische Recht) è Tesserci della libera vo­lontà in quanto soggettiva. Questo diritto è assoluto per quel lato per il quale la volontà è essenzialmente il sapere sé come infinito, pur nella propria pe­culiare individualità » (Nachschrift Homeyer, pubblicata da K. H . Ilting, Vor­lesungen über Rechtsphilosophie, Stuttgart, Frommann, 1973-74, I , p. 280. V. anche la Notiz al § 113: «M oralität Wollen als etwas, das ich weiss; es steht vorher in mir, als vor mich gestellt, vor Aeusserung- theoretisch ».

19 « Gewissen. Zwecke wissende, bestimmende, denkende Besonderheit - nicht empfangenes » (Notiz al § 128).

80 Si tratta di una posizione del problema già presente nel System di Schelling, di cui però Hegel, si potrebbe dire, rovescia l ’ordine di presenta­zione, mettendo in evidenza uno solo dei termini. Schelling aveva detto: « Das Ich ist nur dadurch, dass es sich erscheint, sein Wissen ist ein Seyn. Der Satz Ich = Ich sagt nichts anders als: Ich, der ich weiss, bin derselbe, der ich bin, mein Wissen und mein Sein erschöpfen sich wechselseitig, das Subjekt dei Bewusstseyns und das der Thätigkeit sind E in e s» (S.W ., I I I , p. 570). Mentre Schelling ricerca una confluenza, Hegel mette in evidenza il ruolo del sapere; egli, forse, avrebbe scritto: « Sein Sein ist ein Wissen » oppure « ein sich Wissen ».

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nità della ragione — e come stupirsi allora che il soggetto sia por­tato a guardare « ironicamente » l’oggettività? Leggiamo una delle Notizen che Hegel ha inserito nel suo proprio esemplare della Filo­sofia del diritto·. « Il bene riceve le sue determinazioni mediante il momento della soggettività. Questa è autentica nell’unità con l ’uni­versale. La soggettività determina in quanto universalmente buona, in quanto oggettiva, cioè essente, in sé, ma è ironica su questo — e si ritira, ritira cioè l’universale, lo in -sé»81. Nella Notiz l’atteggia­mento di Hegel nei confronti della « ironia » è più dialettico, di quanto non apparisse nel testo a stampa. E ciò è una ulteriore prova della sua consapevolezza che se non rimane una tensione tra soggettività ed universalità — tensione fondata sul fatto che il sog­getto, pensante e volente, è « liberato dalla cosa », allora scompare proprio ciò che è più tipico dell’uomo « moderno »: i greci avevano « Sitte » ma non avevano « Gewissen »; ad essi mancava quella riflessione che è non solo separante e distinguente, ma che assicura anche la superiorità del soggetto sull’oggetto; non avevano libertà in senso pieno, possibile, questa, solo attraverso il superamento della propria colpa, del proprio male; « Il soggetto singolo — scrive Hegel — ha la colpa del proprio male » 82, ma nella coscienza della colpa ha anche la possibilità del bene; « il venerdì santo specula­tivo » è la condizione della Resurrezione.

V. Per una conclusione provvisoria: Hegel ribadisce più volte due punti: a) che per determinare il valore di una azione è neces­sario il contenuto; b) che, se ci si ferma al punto di vista morale, non si ha alcun contenuto determinato. La situazione è anche frequen­temente espressa in questo modo: nell’atteggiamento morale il sog­getto coglie e tiene ferma la propria infinità, e, per lui, l ’oggettivo è « un Altro »: queste due « totalità relative » giungono ad « inte­grazione » 83 nell’eticità.

81 Rph. § 141.82 Rph. § 139.83 Rph. § 141.

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È lo stesso Hegel ad avvertire che la spiegazione di questo pas­saggio è da ricercarsi in sede di logica; egli si riferiva probabilmente al capitoletto sulla Idea del bene del III libro della Scienza della logica, che del resto è immediatamente preceduto dal rimando ad altri passi della stessa opera, in uno dei quali ricorre l’appello alla prova ontologica, spesso usata da Hegel per indicare la necessità del passaggio dal concetto all’essere. Ciò che conta, insomma, è « l’opera », il « risultato », in grazia dei quali la coscienza morale si estrinseca, esce dal mero « Erkennen », che equivale a pensare se stessa (il limite della posizione di Cartesio, e di Fichte); in grazia dei quali, altresì, si può controllare se l ’azione sia buona, sulla base della sua adeguazione « alla regola di un comportamento (Handlungsweise) razionale, universale e valido in sé e per sé » M. Questa universalità non ha un immediato significato « cosmopoli­tico », perché è ovviamente legata allo spirito di un popolo; per non riaprire una discussione che qui porterebbe fuori tema, lascia­mo da parte certi passi hegeliani nei quali è detto in tutte lettere che uno stato, finché può esercitare autorità, ha in sé « l’idea »; e accettiamo la soluzione più pacifica, quella, cioè, che l’universalità si definisce sulla base del progresso dello spirito verso la libertà, nel quadro dello stato moderno, nel quale i legittimi diritti dell’uomo hanno trovato il loro riconoscimento. Resta, comunque, che leggi e princìpi ricavano il loro contenuto dalle forme dello spirito ogget­tivo (famiglia, società, stato), non soltanto nel senso che l’inseri­mento in ciascuna di queste forme implica, a seconda della posi­zione del soggetto in ciascuna di esse, doveri specifici, e differen­ziati, ma anche nel senso, più generale ma non meno importante, che non solo i doveri espressamente enunciati, ma anche gli altri, più particolari, sono deducibili (e sono stati, del resto, nella realtà, più volte dedotti) dal « concetto » di tali istituzioni etiche. È questa la « immanente Pflichtenlehre » di cui Hegel deplorava la mancanza in K ant85.

84 Rph. § 137 Anm.85 Rph. § 135 Anm. N on si dimentichi che era stato Kant, nella Critica

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All’etica hegeliana sembra così assicurata quella deduzione del contenuto (e così quella identità di forma e contenuto, di soggetto e di oggetto) che il filosofo era venuto ricercando nel corso di tutta la sua meditazione. E qui ci si imbatte di nuovo nel problema che, come è noto, ha sollevato tante discussioni in sede di filosofia della religione, e di filosofia della storia, e che non è evitabile neanche in sede etica: quel «com pim ento», quella «conciliazione»86 che egli aveva annunziato in sede speculativa (e che egli riteneva del resto essere il risultato della svolgimento della storia) come va inter­pretato quando si parla di moralità?

Si ricorderà che, tra le conseguenze apparentemente più ovvie derivate dal sistema hegeliano, c’era sia quella della risoluzione della religione nella filosofia che l’altra, parallela, della risoluzione degli interessi particolari nell’universalità dello stato; il che avrebbe do­vuto implicare, a seconda dei gusti delle varie scuole, per un aspettoo un nuovo cesaropapismo o il dissolversi della « chiesa », per l’altro aspetto una sorta di totalitarismo ante litteram o un radicale « repubblicanesimo », nel quale le strutture di autorità sarebbero continuate a sussistere solo per far fronte a quella « contingenza » della quale il filosofo non era mai riuscito a venire a capo.

In realtà Hegel non ha mai detto che tutti gli uomini del mondo moderno erano buoni cittadini, né che tutti erano cultori di una religione filosofica; né ha mai detto che tutti gli uomini — anche solo quelli dell’area culturale cristiano-germanica — erano diventati giusti (o giustificati). Si deve parlare, allora, di una contraddizione tra l’illusione speculativa e la realistica osservazione della fattualità? E rimproverare, magari, a Hegel di essere indietreggiato di fronte alla trasposizione, nella ‘ prassi ’, di ciò che era considerato acquisito a livello di ‘ teoria ’?

La sommaria analisi che si è svolta nelle pagine precedenti può forse offrire un avviamento a una meno controversistica imposta-

iiella ragion pratica, a sostenere un uso « immanente » della ragione, distinto da quello empiricamente condizionato.

86 La Filosofia del diritto, si ricordi, si chiude con l ’affermazione: « Die wahrhafte Versöhnung ist objektiv geworden » (§ 360).

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TRA MORALITÄT E SITTLICHKEIT 177

zione del problema. Come, in sede religiosa, la « conciliazione » non ha tolto la possibilità del peccato del singolo — possibilità che non è una ipotesi oziosa, perché poter volere il bene e il male è la caratteristica di chiunque « abbia in sé » la possibilità « della propria svoltam, così, anche nella eticità, resta presente la moralità, o, più esattamente, la coscienza morale soggettiva. Coscienza etica (ethische Gesinnung) potrebbe esser definita l’abito morale che ha per proprio contenuto le leggi, e lo spirito delle leggi. Ma, e questo è l ’essenziale, lo ha per propria scelta, non perché sia necessitata ad averlo. « A questa identità io ho portato me stesso mediante l ’estrema punta (Spitze) della mia riflessione », si legge nella Nach­schrift di von Griesheim; e il testo continua: « Tale armonia è quindi diversa dall’armonia della consuetudine e della fiducia, del­l’unità prodotta dall’educazione » 88. Si noti che qui non solo la consuetudine, ma anche l ’educazione, sono considerate forme inade­guate alla libertà; il comportamento « spontaneo » che esse indur­rebbero è infatti incompatibile con il sentimento di sé in quanto distinto dall’oggetto — elemento essenziale della coscienza moder­na; coscienza che, proprio per questo, è e resta « ambigua » 89.

Ora, questo carattere della coscienza individuale giustifica lo stato come istituzione, come tutore dell’ordine sostanziale contro la potenzialità di male degli individui; ma è insieme quello che rende impossibile il totale assorbimento della moralità nell’eticità: e il gioco dialettico delle due categorie è tale che talvolta il loro rap­porto torna a rovesciarsi, e l ’eticità si presenta come la « base » della moralità, la quale svolge nelle sue determinazioni la forma infinita della prima90. Si potrebbe spiegare il passo con il noto prin-

87 « Aber Erkennen (und Wollen) (oder Bewusstsein) ist eben sowohl Wollen des Bösen als des Guten (...). Aber Wille-Erkennen (...) diss was den Wendepunkt seiner in sich selbst hat » (Religionsphilosophie, hrsg. von K. H . Ilting, I, Napoli, Bibliopolis, 1978, p. 585).

88 Vorlesungen über Rechtsphilosophie, ed. Ilting cit., IV , pp. 147-148.89 Rph. § 137.90 « . . . Oie Sittlichkeit ist diese substantielle Grudlage des Geistes und

das Bewusstseyn die Moralität - das freye Selbstbewusstseyn welches jene Grundlage als (unendliche) Form in seinen Bestimmungen entwickelt, und

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dpio della diversità tra ordine espositivo ed ordine ontologico: la categoria superiore è sempre la base di quella inferiore. Ma questo principio metodico non ci aiuta molto nel caso particolare: qui sembra piuttosto che l ’articolata connessione di diritti e di doveri costituente il tessuto etico, e che sarebbe del tutto sufficiente ad assicurarne il funzionamento, presenti, ai singoli soggetti, il contesto nel quale essi sono necessitati a vivere, con le varie possibilità che questo comporta per ciascuno. Alla pressione legale e sociale dell’in­tero il singolo reagisce in un modo che è imprevedibile — in quanto la scelta tra il tributare reverenza al fato, o il rifiutarvisi, resta di sua competenza. Il sapere di sé può essere portato a coincidere con il sapere dell’oggettività, e si ha allora il bene; ma può anche non coincidervi, e si ha allora il male. Ma non è la possibilità del male che rende, per il soggetto, bene il bene?

È abbastanza intuitivo che non c’è molto da rallegrarsi di questa fondazione della libertà soggettiva, e della moralità; Hegel, del resto, ne è tanto consapevole che non perde occasione di mettere in guardia rispetto al gloriarsi proprio di ciò che è « ambiguo » — sarebbe superfluo citare qui certi notissimi luoghi della Fenome­nologia come della Filosofia del diritto. Eppure questa condizione di soggettività è data all’uomo come gli è data l’oggettività; la liber­tà è un « compito », come sono un compito il conoscere e il sapere; e la formula del « tolto-conservato », se usata troppo disinvolta­mente, rischia di occultare proprio quelle tensioni delle quali — sen­za affatto compiacersene — Hegel ha voluto dare una illustrazione teorica. La conciliazione, interiore, del soggetto con l’intero resta un compito che è affidato a lui, e dal quale non viene liberato né dalla storia, né dalle istituzioni.

in dieser seiner Natur nun selbst seine Freiheit hat » (Religionsphilosophie, cit., p. 151; il testo è praticamente identico a Begriff der Religion, hrsg. vonG . Lasson, Leipzig, Meiner, 1925, p. 151).

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Remo Bodei

« TENEREZZA PER LE COSE DEL MONDO »: SUBLIME, SPROPORZIONE E CONTRADDIZIONE

IN KANT E IN H EGEL

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I. Materiali e modelli per impostare un problema

1. Si direbbe che le due celebri « cose » che per Kant « riempiono l’animo di ammirazione e di venerazione sempre nuova e crescente quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me » non solo non suscitino in Hegel pathos alcuno, ma vengano anzi respinte con evidente fastidio.

Sul cielo stellato alcuni passi confermano alla lettera l ’altrettanto noto racconto di Heine, che potrebbe altrimenti apparire carica­turale: « In una bella sera stellata ce ne stavamo entrambi vicino alla finestra, ed io, giovanotto di ventidue anni, avevo mangiato bene e bevuto il caffè e parlai con entusiasmo delle stelle, chiaman­dole soggiorno dei beati. Ma il Maestro [Hegel] borbottò fra sé:‘ Le stelle, hum!, hum!, le stelle sono soltanto un’eruzione cutanea luminosa nel cielo’ » 2. Nelle Aggiunte all’Enciclopedia troviamo infatti: « Si é sparsa la voce in città che avrei paragonato le stelle ad un’eruzione cutanea nel corpo organico, dove la pelle si copre di un’infinità di punti rossi o ad un formicaio, in cui vi è anche intelletto e necessità. Effettivamente m’importa più di un concreto che di un astratto, di un’animalità che offra anche solo gelatina che delPesercito delle stelle » 3. Di fronte ad esso — è detto subito

( * ) Questo saggio anticipa una ricerca più ampia: ciò spiega in parte l ’uso di modelli discontinui e distanti e la densità delle tematiche trattate.

1 K a n t , Kritik der praktischen Vernunft, in Gesammelte Schriften, Akade­mie-Ausgabe, Berlin-Leipzig, Reimer, poi Berlin, De Gruyter, 1900 ss. ( = K G S), Bd. V ., p. 162, trad. it. Critica della ragion pratica, Bari, Laterza, 1947, p. 193.

2 H e in e , Geständnisse, in Sämtliche Werke, hrsg. v. O . Walzel, Leipzig, Insel-Verlag, 1910 ss., Bd. X, p. 171.

3 H e g e l , Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, in Werke in zwanzig Bänden, Auf der Grundlage der Werke von 1832-1845 neu edierte Ausgabe. Redaktion E . Moldenhauer und K . M. Michel, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1970 ( = WZB), Bd. 9, § 341 Z, p. 365. In attesa che vengano

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dopo — una sola goccia d’acqua marina, che è un « globo terre­stre » di piccoli infusori4, si presenta più degna di attenzione. In un altro paragrafo della stessa opera Hegel è ancora più esplicito: « Questa eruzione cutanea è altrettanto poco meritevole di meravi­glia di quella che ha luogo nell’uomo o di uno sciame di mosche. Il silenzio di queste stelle interessa l ’animo più da vicino, le pas­sioni si placano nel contemplare questa pace e semplicità. Tale mondo non ha tuttavia, dal punto di vista filosofico, l’interesse che ha per la sensazione. Che esso appaia come molteplicità negli spazi immensi non dice nulla alla ragione; ciò è esteriorità, vuoto, infi­nità negativa. La ragione sa innalzarvisi al di sopra; si tratta di un’ammirazione puramente negativa, di un innalzarsi che rimane nella sua limitatezza » 5. Un’ulteriore conferma di tale atteggiamento la troviamo ancora in Marx: « Spesso gli [a Marx] ho sentito ripetere il detto di Hegel, il maestro di filosofia della sua gioventù:‘ Persino il pensiero criminale di un malfattore è più grandioso e sublime delle meraviglie del cielo ’ » 6.

Una sorte non certo migliore tocca in Hegel alla « legge morale in me ». Essa è considerata una tautologia, un vuoto formalismo, una retorica del dovere per il dovere. A Jena si cerca di confutare tale « inutile forma » attraverso un’argomentazione serrata, che di­mostri come essa vanifichi la determinatezza del contenuto o la lasci semplicemente sussistere, permettendo con ciò l’arbitrio e la casistica, non diversamente da quanto fanno i G esuiti7.

completati i Gesammelte Werke di Hegel nella nuova edizione critica (G .W .F . H e g e l , Gesammelte Werke, in Verbindung mit der Deutschen Forschungsge­meinschaft herausgegeben von der Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wis­senschaften, Hamburg, Meiner, 1968 ss. = GW ) è necessario servirsi di di­verse edizioni, scegliendo di volta in volta, per le varie opere, i testi che danno più affidamento.

* Ibid.5 Ibid ., § 268 Z, p. 81.6 P. L a f a r g u e , D as Recht auf Faulheit und persönliche Erinnerungen an

Karl M arx, hrsg. v. I. Fetscher, Frankfurt-Wien, Europäische Verlagsanstalt,1966, p. 62.

7 Cfr. H e g e l , Ueber die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Natur-

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« TENEREZZA PER LE COSE DEL MONDO » 183

Così: « La pura identità dell’intelletto, espressa nella filosofia teo­retica come principio di contraddizione, rimane appunto la stessa, anche trasferita nella forma pratica. Se la domanda, che cos’è la verità?, fatta alla logica e a cui quest’ultima ha risposto, a Kant ‘ dà così ridicolo spettacolo, che uno munge il caprone e l ’altro tiene sotto uno staccio ’ 8, così è, nello stesso caso, della domanda: che cos’è il diritto e il dovere?, fatta a quella ragion pura pratica ed alla quale quest’ultima ha risposto » 9. Nei Lineamenti ài filosofia del diritto il maggior merito di Kant in campo morale consiste nell’aver posto in rilievo la pura autodeterminazione incondizionata della volontà, nell’averne chiarito la natura. Ma egli non è giunto al concetto di eticità ed ha abbassato « questa conquista a vuoto formalismo, e la scienza morale a rettorica del dovere per il do­vere » 10. Tutto dipende dall’aver situato, a fondamento dell’agire etico, la soggettività « astratta, cioè diversa dal concetto » u.

2. La pura esteriorità, l’estensione spaziale del cielo stellato, e la pura interiorità intensiva della legge morale in noi non hanno per Hegel niente di sublime. Sono due abissi vuoti, di fronte ai

rechts, in Schriften zur Politik und Rechtsphilosophie, hrsg. v. G . Lasson, Leip­zig, Meiner, 1923, pp. 350-354, trad. it. Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale, Bari, Laterza, 19712, pp. 64-70. Le premesse di tale critica si trovano in un perduto testo del 1798, di cui possediamo alcuni estratti, relativo alla Metafisica .dei costumi (cfr. K . R o se n k r a n z , Hegels Leben, Berlin 1844, trad. it. Vita di Hegel, Milano, Mondadori, 19742, pp. 107-108) e in H e g e l , Glauben und Wissen, in Jenaer kritische Schriften, hrsg. v. H . Büchner und O . Pöggeler, in GW , Bd. 4, pp. 344 ss., trad. it. Primi scritti critici, Mi­lano, M ursia, 1971, pp. 163 ss.

8 Cfr. K a n t , Kritik der reinen Vernunft, A 58 = B 82, in K G S, Bd. IV , p. 52 = Bd. I I I , p. 79, trad. it. Critica della ragion pura, Bari, Laterza, 1966, vol. I , p. 98 (ho modificato la traduzione).

9 H e g e l , Ueber die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts, cit., p. 350 (trad. it., cit., p . 65).

10 H e g e l , Grundlinien der Philosophie des Rechts, hrsg. v. J . Hoffmeister, Hamburg, Meiner, 19554, § 135 A , p. 120, trad. it. Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 19653, p. 124.

11 Ibid ., § 106 A, p. 102 (trad. it., cit., p . 104).

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quali non è lecito provare stupore e meraviglia, perché non sono degni della ragione. L ’ordine che vi si rivela (la legge di gravita­zione universale di Newton o Yanalogon che Kant ha inteso descri­vere nell’universo morale) è, al massimo, l ’ordine dell’intelletto, quello stesso di cui neppure i formicai sono privi12. Ma è incom­mensurabile rispetto alla ragione. Siamo qui soltanto dinanzi ad uno Hegel prosaico, sanguigno, fautore delle Differenzen diurne con­tro ogni inno alla notte o all’oscurità insondabile della coscienza? Allo Hegel « vampiro dialettico dell’uomo interiore », come venne definito da Jean P au l13, nemico di ogni soggettività vuota, tautolo­gica, non mediatasi con le contraddizioni del mondo? Al giovane precettore che, ad una vista sublime quanto quella del cielo stel­lato, al cospetto delle maestose Alpi bernesi, non sa dire altro se non « così è » 14 ?

Eppure, in due occasioni, forse anche per condiscendenza verso coloro ai quali si era rivolto, Hegel mostra di avvertire la poesia del cielo e di averlo ritenuto degno di considerazione pensante. Così in Eieusi, dell’agosto 1796, dedicata a Hölderlin:

« I l m io sguardo si innalza verso la vo lta d e ll’eterno cielo, verso d i te, b rillan te astro della notte, e d i tu tti i desideri, d i tu tte le speranze, cala l ’ob lio su d i n oi d a lla tua eternità.L o sp irito si perd e in qu esta contem plazione,

12 Cfr. H e g e l , Phänomenologie des Geistes, hrsg. v. W. Bonsiepen und R. Heede, in GW , Bd. 9, pp. 90 ss., trad. it. Fenomenologia dello spirito, F i­renze, La Nuova Italia, 1963, vol. I, pp. 121 ss.

13 Jean Paul an seinen Sohn Max, den 20. Februar 1821, in J . P a u l , Sämtliche Werke, hrsg. v. E . Berend, Berlin, Akademie-Verlag, 1952 ss., Bd. V III , p. 96.

14 Cfr. K . R o s e n k r a n z , Hegels Leben, trad. it., cit., p. 64 e H e g e l , Aus­züge aus dem Tagebuch der Reise in die Berner Oberalpen (25. Ju li bis August 1796), in WZB, Bd. 1, pp. 614-618. Sulla poetica del sublime in rapporto alle Alpi, diffusa negli ultimi decenni del Settecento da A. von Haller, H . B. de Saussure e Ch. Meiners, cfr., fra l ’altro, G . T o n e l l i , Poesia e pensiero in Albrecht von Haller, Torino, Edizioni di « Filosofia », 19652, pp. 1-40.

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quel che chiamavo ‘ mio ’ si dissolve,io mi abbondono all'incommensurabile,10 sono in lui, sono tutto, non sono che lui.11 pensiero ritornato in sé trema dinnanzi all’infinito, e, pieno di stupore, non cogliela profondità di questa contemplazione.L’immaginazione mette l’eterno alla portata dello spirito,lo avvolge di forme [...] » 15.

E nella Dissertatio de orbìtis pianetarutn, del 1801, presentata alla Philosophische Fakultät dell’università di Jena, per il conseguimento della libera docenza: « [ ...] animali illi, quod systema solis appel- lamus, non alia est sublimior puriorque rationis expressio, neque quae phìlosophica contemplatione dignior sit. Et laus illa, quae a Cicerone Socrati tribuitur, quod philosophiam de coelo detraxerit, et in vitam domosque hominum introduxerit, vel parva habenda, vel ita interpretanda erit, ut philosophiam de vita et domibus hominum bene mereri non posse dicamus, nisi a coelo descendat, omnemque 'operam in eo ponendam esse, ut in coelum evehatur » 16. Ma in Ci­cerone, e precisamente nel De natura deorum — studiato a Tubinga per il corso di Flatt nel semestre estivo del 1789 17 — Hegel aveva avuto modo di trovare un brano di Aristotele, del De philosophia, che contiene l’esaltazione del magnifico spettacolo del cielo ed invita a considerarlo. Immaginiamo, afferma Aristotele, che un popolo che abita sotto terra possa uscire alla superficie. Da quale meraviglia i suoi componenti non saranno afferrati, « cum repente terram et maria caelumque vidissent, nubium magnitudinem ventorumque vim cognovissent aspexissentque solem eiusque cum magnitudinem pul- chritudinemque tum etiam efficientiam cognovissent quod is diem efficeret toto caelo luce diffusa, cum autem terras nox opacasset tum caelum totum cernerent astris distinctum et ornatum lunaeque

15 H e g e l , Eleusis, in K. R o s e n k r a n z , Hegels Leben, trad. it., cit., p. 98.16 H e g e l , D e orbitis planetarum, in Sämtliche Werke, hrsg. v. H . Glöckner,

Dritte Auflage, Stuttgart, Fromann, 1958, Bd. 1, p. 3.17 Cfr. K . R o s e n k r a n z , Hegels Leben, trad. it., cit., p. 47.

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luminum varietatem tum crescentis tum senescentis eorumque omnium ortus et occasus atque in omni aeternitate ratos immutabilesque cursus » 18 ?

3. Ma probabilmente non vi è contrasto fra questi diversi at­teggiamenti hegeliani, perché il rivolgersi o meno al cielo dipende dai bisogni dello spirito e dalle diferenti situazioni storiche. Contro coloro che vogliono sostituire l’estasi al concetto, il « turgido entu­siasmo » alla fredda necessità della cosa, si dice nella Fenomenologia'. « A questa esigenza corrisponde un certo affannoso e molto zelante lavorio per sollevare il genere umano dall’abbrutimento nel sensi­bile, nel volgare e nel singolo, per indirizzarne lo sguardo alle stelle; quasi che gli uomini, del tutto obliosi del divino, siano sul punto di appagarsi, come i vermi, di polvere e d’acqua. Un tempo essi avevano un cielo fatto di vasti tesori19 di pensieri e di immagini. Il significato di tutto ciò che è, stava nel filo di luce che tutto al cielo teneva attaccato: una volta rifugiatosi in cielo lo sguardo, anziché soffermarsi sulla presenzialità di questo mondo, vi scivolava su verso l’essenza divina, verso, se così si può dire, una presenza fuori dal mondo. L ’occhio dello spirito dovette a forza venir rivolto al terreno, e qui venir trattenuto; e c’è voluto tempo assai prima di introdurre, nell’ottusità e nello smarrimento in cui si trovava il senso dell’al di qua, quella chiarezza che solo il sovrasensibile possedeva, prima di riconsacrare all’interessamento umano quel­l’attenzione a ciò che è presente, la quale vien detta esperienza. Ora sembra che ci sia bisogno del contrario; sembra che il senso sia talmente abbarbicato ai valori terreni, da rendersi necessaria

18 A r i s t o t e l e s , apud C ic e r o n e m , De natura deorum , I I , 37, 95-96, in Aristotelis fragmenta selecta, recognovit brevique adnotatione instruxit W .D . Ross, Oxford, Clarendon Press, 19582, p. 81.

19 Cfr. anche H e g e l , Die Positivität der christlichen Religion, in WZB, Bd. 1, p. 209, trad. it. L a positività della religione cristiana, in Scritti teologici giovanili, Napoli, Guida, 1972, p. 317. Sull'immagine scientifica e religiosa del cielo e dei ‘ tesori ’ che gli uomini vi hanno posto, cfr. la ricerca di G . M a u - r a c h , Coelutn empireum. Versuch einer Begriffsgeschichte, W iesbaden, Stei­ner, 1968.

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altrettanta violenza per sollevarlo. Lo spirito si mostra così povero, che sembra impetrare, per un po’ di ristoro, il magro sentimento del divino, simile al viandante che nel deserto brama una sola goccia d’acqua. Dalla facilità con cui lo spirito si contenta, si può misurare la grandezza di ciò che ha perso » 20. Lo staccarsi però dai limiti delPesperienza, dal legame con il suolo, non si può ottenere attraverso l ’esaltazione del Bello, del Sacro, della Religione o del- l ’Amore21. È necessaria una fatica più grande e una disperazione più radicale. La Rochefoucauld ha sostenuto che « né il sole né la morte si possono guardar fisso » n. Hegel, al contrario, caratterizza la filo­sofia, la vita dello spirito, proprio come un fissare, un guardare in faccia, un « soffermarsi » sulla visione della morte: « Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distru­zione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del nega­tivo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui » 23. Il guardare in faccia la morte, la deva­stazione, il negativo, non il cielo stellato sopra di noi e la legge morale in noi, costituisce per Hegel l’adeguato compito dello spirito. Kant è indietreggiato di fronte a questa impresa, si è perduto nel doppio abisso dell’esteriorità e dell’interiorità vuota, ha mostrato come non ci si possa strappare dai limiti dell’esperienza senza nau­fragare nell’incommensurabilità del sublime. Per non aver com­preso che proprio il fissare il negativo, il sole nero dello spirito, è

20 H e g e l , Phänomenologie des Geistes, cit., ρ . 13 (trad. it., cit., v o l. I, pp. 6-7).

21 Cfr. ibid., ρ . 13 (trad. it., cit., v o l. I , p. 6).22 L a R o c h e f o u c a u l d , Maximes, XXVI, trad. it. in Massime. Memorie,

Torino, Utet, 1969, ρ. 34.23 H e g e l , Phänomenologie des G eistes, cit., p. 27 (trad. it., cit., vol. I,

p. 26).

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un modo di mitridatizzarsi ad esso, egli ha visto nella ragione solo contraddizioni insolubili ed ha esibito nel sublime lo scacco della ragione dinanzi all’infinito spaziale e la sua rivincita solo nella tau­tologia della legge morale, anch’essa un oggetto che tiene l’uomo a rispettosa distanza nella sua inavvicinabile maestà. Per questo la « fatica del concetto », che vale ed è utilizzata sul terreno del­l’esperienza, fallisce con le « idee » della ragione e deve essere sur­rogata dall’« inutile forma » della tautologia, dalla retorica o dal­l’empiria irrelata.

4. Solo una deviazione dal percorso rettilineo che da Kant con­duce a Hegel può permetterci di comprendere bene questo pro­blema e di articolare e sfumare un’opposizione che appare altrimenti rigida e polemicamente prevenuta. E conviene, seppure per sommi capi, prendere quali punti di riferimento modelli classici di rap­porto fra ragione o pensiero umano e estensione del cielo stellatoo dell’universo. È opportuno precisare che non si ha qui di mira una ricostruzione storica, ma unicamente il richiamo a posizioni esemplari che diano profondità di campo alla questione e ne rive­lino aspetti invisibili a distanza ravvicinata, a posizioni fortemente discontinue il cui senso sarà giustificato solo a ricerca conclusa.

Il primo modello è offerto da Aristotele. In lui la meraviglia che nasce dalla contemplazione degli astri, delle realtà « ingenerate e incorruttibili » che esistono per la totalità del tempo al di sopra del mondo sublunare, è diversa da quella prodotta dal nostro mondo che partecipa della generazione e della corruzione. Dalla visione delle sostanze nobili e divine dell’ άνω κόσμος, di cui abbiamo mi­nori conoscenze, giacché pochissimi sono i fatti accertati dall’osser­vazione sensibile, ci deriva « più gioia che da tutto ciò che è intorno a noi, cosi come una visione pur fuggitiva e parziale della persona amata ci è più dolce che un’esatta conoscenza di molte altre cose per quanto importanti esse siano » 24. Ma anche ciò che, per essere nel nostro stesso ambiente, abbiamo più agio di conoscere in esten­sione e profondità, ci dà piacere. Persino le piante e gli animali più

24 A r i s t . , De pari, anim., I , 5, 644 b 31-35.

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ripugnanti: « Non si deve dunque nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v ’è qualcosa di meraviglioso [...] Non infatti il caso, ma la finalità è presente nelle opere della natura, e massimamente: e il fine in vista del quale esse sono state costituite o si sono formate, occupa la regione del bello. Se poi qualcuno ritenesse indegna l ’osservazione degli altri animali, nello stesso modo dovrebbe giudicare anche quella di se stesso; non è infatti senza grande disgusto che si vede di che cosa sia costituito il genere umano: sangue, carni, ossa, vene, e simili parti » 25. Nelle sfere celesti l ’ordine è assoluto, il movi­mento è perfetto, in quanto raggiunge il suo fine, il ritorno su se stesso. Dio, il motore immobile, è l’ubi consistam di un universo perfettamente conchiuso. Nel mondo sublunare, invece, la natura non raggiunge sempre il suo scopo, siamo nell’ambito del « per lo più » (ώς επι το πολύ), dove la regolarità e il fine non dominano completamente, ma abbastanza perché il caso sia distinguibile dal­l ’ordine prevalente. Il filosofo è colui che nella contemplazione co­nosce la felicità di sentirsi a casa propria nell’ οικείος τόπος dell’uni­verso, nell’ordine assoluto degli astri, come in quello relativo del nostro ambiente; che, sollevandosi con il λόγος per periodi inter­mittenti al di sopra della mortalità « numerica » 26, si sente parte di una realtà immortale e, attraverso la conoscenza, rende il cosmo familiare a se stesso: nel conoscerne le cause si immerge in esso ed è a casa propria. Si può intanto notare come anche Hegel non

25 Ibid ., I, 5, 645 a 15-17, 23-30. Cfr. S p in o z a , Epistolae, L IV (Amplis­simo, Prudentissimoque Viro Hugoni Boxell), in Opera, hrsg. v. C. Gebhardt, Heidelberg, Winter, 1924, Bd. IV , ρ. 252, trad. it. B. Spinoza all’eccellentis­simo e sapientissimo signor U. Boxel, in Epistolario, Torino, Einaudi, 1951, p. 234: « La bellezza, egregio signore, non è tanto una qualità dell’oggetto che si contempla, quanto un effetto prodotto nel contemplante. Se la nostra vita fosse più lunga o più corta, o se il nostro temperamento fosse diverso, ciò che ora ci appare bello ci sembrerebbe brutto, e ciò che è brutto, bello. Una bellissima mano, vista al microscopio, appare orribile ». Sulla bellezza come « effetto prodotto nel contemplante », si veda oltre, in un differente con­testo.

26 Cfr. A r i s t ., De gen. et corrupt., 338 b.

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disprezzi la materia vivente più umile del mondo in cui abitiamo, come finisca anzi per considerare più ‘ nobile ’ la « gelatina » della vita o una goccia d ’acqua di mare piena di infusori del cielo stel­lato. Nei Pensieri sulla morte e l ’immortalità del 1830, Feuerbach esaspera le concezioni del suo maestro sino a considerare gli astri una luminara di ceri funebri: « In cielo la natura celebra la festa dei santi; le luci che tu vedi là in alto non sono niente di più e nient’altro che ceri sulle tombe del passato. Le stelle non sono che annali, documenti del passato della Terra » 27.

5. Il secondo modello ci è dato da Lucrezio. Esso dipinge il saggio che contempla l ’universo quale spettatore che assiste ad un naufragio, ad una guerra o all’afiannarsi dell’umanità inquieta alla ricerca di potere, ricchezza e prestigio, senza prender parte alle vi­cende che ha dinanzi. II suo piacere nasce non dalle tribolazioni altrui (a cui guarda anzi con commossa pietà), ma dall’esserne fuori, in una posizione sicura e scevra di pericoli, nei tempia serena dei sapienti, simile agli imperturbabili dèi degli intermundia, sulla terra ferma della solida filosofia di Epicuro, che ha sconfitto ogni paura ed ha insegnato a guardare in faccia con coraggio il disordinato vorticare degli atomi infiniti, l ’incessante gioco delle combinazioni e delle dissoluzioni, che produce le forme e dà origine alla vita e alla morte:

« Suave, mari magno turbantibus aequora ventis, e terra magnum alterius spedare laborem; non quia vexari quemquamst iucunda voluptas, sed quìbus ipse malis careas qui cernere suave est.Suave etiam belli certamina magna tueri per campos instructa tua sine parte perieli.Sed nil dulcius est bene quam munita tenere edita doctrina sapientum tempia serena,

27 F e u e r b a c h , Gedanken über Tod und Unsterblichkeit, Nürnberg 1830 (uscito anonimo, si cita dalla prima edizione, perché poi fu rielaborato dall’au­tore), pp. 68-69. E cfr. C . C e s a , I l giovane Feuerbach, Bari, Laterza, 1963, p. 169.

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despicere unde queas alios passimque videre errare, atque viam palantis quaerere vitae, certare ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes rerumque potiri » n.

Il saggio sulla riva, di fronte al pelagus materiae, al mobile e infido elemento del disordine, vede le forme della natura come rottami di grandi naufragi29, e capisce che non c’è altro ordine se non quello con cui essi arrivano all’osservatore, che la guerra degli elementi, essendo inesauribile la riserva degli atomi, è eterna. Cade così la ( distinzione aristotelica fra un cosmo superiore perfettamente or- } dinato e un mondo sublunare in cui l ’ordine e la finalità prevalgono, soltanto sul disordine e il caso. Nell’universo di Lucrezio la felicità ) della contemplazione non può dunque più consistere nel sentirsi a ) proprio agio nel cosmo, nel sentirsi partecipi della sua vita, ma nell’estranearsi da esso, nel trarsene fuori con una punta di piacere egoistico e nell’osservare dall’alto il tormento degli elementi e degli uomini. La superiorità del saggio non sta tanto nel pensiero, nella ragione, ma nella sua imperturbabilità dinanzi allo spettacolo di

28 L u c r e t . , De rerum natura, I I , 1-13. Cfr. L u c r e z i o , Della natura, trad. it. di E . Cetrangolo, Firenze, Sansoni, 1969, p. 73:

« Bello, quando sul mare si scontrano i venti e la cupa vastità delle acque si turba, guardare da terra il naufragio lontano: non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, ma la distanza da una simile sorte.Anche la corsa della battaglia sul campo è bella se da vicino non ti tocca il pericolo.Ma niente è più bello dei templi sereni edificati dai saggi, delle altezze ben munite dalla sapienza, e dominarle: di là puoi vedere gli uomini erranti cercare la via della povera vita e per un poco d ’ingegno gareggiare, contendersi il nome, la stirpe, e dì e notte affaticarsi, uccidersi per emergere alle somme ricchezze e al dominio ».

29 Cfr. ibid., I I , 552 ss. (trad. it., cit., p. 103).

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morte e di distruzione, di naufragio e di guerra. Del resto anche ciascuno di noi è un naufrago, che, nascendo viene gettato, deietto, sulle spiagge della luce, e il vagito della vita si mescola al pianto funebre:

« N ec superare queun t m otus itaqu e exitia les perpetuo , n eque in aeternum sepelire salutem , nec porro rerum gen ita les auctificique m otus perpetu o possu n t servare creata.S ic aequo geritu r certam ine principiorum ex infinito contractum tem pore bellum .N unc hic, nunc illic superan t v italia rerum , et su peran tu r item . M iscetu r funere vagor quem pu eri to llun t v isentes lum in is oras; nec nox u lla dient, neque noctem aurora secutast, quae non au d ierit m ixtos vag itib u s aegris p loratu s m ortis com ites et fu n eris atri » M.

6. Il terzo modello è offerto da Pascal. In esso non è più con­sentito stare al di fuori, guardare dalla riva. Vous et es emharqué31, si deve accettare il rischio, la scommessa di questo mondo, il gioco

30 Ibid., I I , 569-580. Cfr. trad. it., cit., pp. 103-105:« N é possono i moti funesti vincere per semprené seppellire in eterno la vita,né, d ’altra parte, i moti vitaliposson sempre salvare da mortele cose create. Con pari fortuna e con forzeeguali per tutti gli spazi continua cosìuna guerra iniziata da tempo infinito.E vince la vita ora qui ora là, ed è vinta.Si mescola al gemito dell’uomo che muore il vagito che manda nascendo l ’infante alla luce; né giorno segue alla notte né notte all’aurora che a tristi vagiti non senta mischiate nenie e grida di pianto dietro la morte ».

Per un tema analogo cfr. anche ibid., V, 222 ss.31 P a s c a l , Pensées, in Oeuvres complètes, texte établi, présenté et an-

noté par J . Chevalier, Paris, Gallimard, 1954, n. 451 ( = 233 Rrunschvicg),

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! del caso e della fede. N o n v i è p iù p o s to s ic u ro in un u n iv e rso che

l h a p e rd u to il su o c e n tro , in un pianeta che è un granello nell’uni­verso, una « prigione » periferica e buia. L ’uomo è « sproporzione », dismisura per dismisura, e sse re n on n e u tra le schiacciato tra due infiniti, e non microcosmo che racchiude armonicamente, propor­zionatamente, in piccolo, il macrocosmo, a sua volta macrantropo32. Lo sguardo sulPinfinitamente grande e sull’infinitamente piccolo sgo­menta, impaurisce ed umilia, oltre che generar meraviglia: « L ’uomo contempli, dunque, la natura tutt'intera nella sua alta e piena maestà, allontanando lo sguardo dagli oggetti meschini che lo cir­condano. Miri quella luce sfolgorante, collocata come una lampada eterna a illuminare l ’universo; la terra gli apparisca come un punto in confronto dell’immenso giro che quell’astro descrive, e lo riem­pia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un tratto minutissimo in confronto di quello descritto dagli astri roteanti nel firmamento. E se, a questo punto, la nostra vista si arresterà, l ’immaginazione vada oltre: si stancherà di concepire prima che la natura di offrirle materia. Tutto questo mondo visibile è solo un punto impercettibile nell’ampio seno della natura [...] L ’uomo, ri-

p. 1213, cfr. trad. it. Pensieri, Torino, Einaudi, 1967, p. 68 e n. Su questo passo e le metafore nautiche, in riferimento anche a Lucrezio, cfr. H . B l u m e n - b e r g , Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1979, p. 21. Sull’incertezza, il rischio, la scommessa (che non riguarda solo la nostra anima), la mancanza di fondamenti del sapere e della vita, cfr. P a s c a l , Pensèes, cit., n. 84 ( = 72 Bruschvicg) p. 1109 (trad. it., cit., pp. 102-103): « N o i voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’al­tro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edifi­carci una torre che s ’inalzi aU’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi ».

32 Per accenni a questi temi, da una differente prospettiva, cfr., da ultimo, P. M a gn a rd , Nature et histoire dans Vapologétique de Pascal, Paris, Société Les Beiles Lettres, 19802, pp. 98 ss. e passim; Id., L'infini pascalien, in « Revue de l ’enseignement philosophique », XXXI (1980), pp. 2-16.

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tornato a sé, consideri quel che è in confronto a quel che esiste. Si vedrà come sperduto in questo remoto angolo della natura; e da questa angusta prigione dove si trova, intendo dire l ’universo, impari a stimare al giusto valore la terra, i reami, le città e se stesso. Che cos’è un uomo nell'infinito? — Ma per presentargli un altro pro­digio altrettanto meraviglioso, cerchi, tra quel che conosce, le cose più minute. Un àcaro gli ofira, nella piccolezza del suo corpo, parti incomparabilmente più piccole: zampe con giunture, vene in queste zampe, sangue in queste vene, umori in queste zampe, gocce in questi umori, vapori in queste gocce; e, suddividendo ancora que­ste ultime cose, esaurisca le sue forze in tali concezioni, sicché l’ultimo oggetto cui possa pervenire sia ora quello del nostro ra­gionamento. Egli crederà forse che sia questa l ’estrema minuzia della natura. Voglio mostrargli là dentro un nuovo abisso. Voglio raffigurargli non solo l ’universo visibile, ma l ’immensità naturale che si può concepire nell’ambito di quello scorcio di atomo. Ci scorga un’infinità di universi, ciascuno dei quali avente il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visi­bile; e, in quella terra, animali e, infine, altri àcari, nei quali ritro­verà quel che ha scoperto nei primi » B. Così l ’uomo, minuscolo in confronto all’universo, è un colosso rispetto al mondo invisibile, « un tutto rispetto al nulla », qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla, un essere teso tra due abissi, « egualmente incapace di inten­dere il nulla donde è tratto e l ’infinito che lo inghiotte » M. Lo sgo­mento e l ’umiliazione di tale stato si può superare in Pascal attra­verso il pensiero, non attraverso l ’imperturbabilità. Il pensiero è

l ’arma della rivincita dell’uomo contro i due abissi dello spazio,

33 P a s c a l , Pensées, cit., n. 84 ( = 72 Brunschvicg), pp. 1105-1106 (trad. it., cit., pp. 97-99). È interessante vedere come ancora in Pascal, e in Leibniz, sia presente il modello dell’« inscatolamento » del piccolo nel grande, all’in­finito, e come prevalga ancora, del resto sino al nostro secolo, l ’idea che il mondo microscopico sia strutturato allo stesso modo del mondo macroscopico (l’ultimo grande esempio è quello della dottrina dell’atomo come piccolo si­stema solare). Oggi sappiamo che le cose sono più complesse.

34 Ibid ., p. 1107 (trad. it., cit., p. 100).

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l ’insegna della sua grandezza e della sua dignità. La « canna che pensa », la cosa più fragile e vulnerabile della natura, sapendo di dover morire, dimostra la propria superiorità sull’universo. Ciò che è piccolo spazialmente comprende, ossia intende ed abbraccia in­sieme, ciò che è smisuratamente grande: « per spazio, l’univèrso mi comprende e m’inghiotte come un punto; con il pensiero lo com­prendo » 35. Questo è il paradosso del pensiero: di essere più grande, più sublime dell’universo fisico, di racchiudere quel che ci racchiude. Nell’universo eccentrico e buio, spaventoso e sinistro, il barlume del pensiero illumina l ’uomo sproporzionato, introduce un’altra incom­mensurabilità, si mostra più esteso della res extensa. Il paradosso del piccolo che contiene il grande (e che è espresso nella tradizione anche in forma diversa)36, troverà poi in Schiller la sua formula­zione più incisiva:

« Stre tto è il m ondo, e largo lo sp irito ,i pen sieri s i sfiorano leggerm ente,m a le cose s i urtano duram ente nello spazio.D ove uno occupa un posto , l ’a ltro deve indietreggiare,

35 Ibid ., n. 265 ( = 348 Brunschvicg), p. 1157 (trad. it., cit., p. 162).36 Sono paradossi che anche Hölderlin e Hegel ben conoscevano. Cfr., per

Hölderlin, il motto latino posto come esergo all’Hyperion ed esemplato su versi dell’epitafEo di S. Ignazio di Loyola: Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est. Il passo dell’epitaffio letterario, lungo 95 righe, suona in questo punto: « Cuius animus / vastissimo coerceri non potuit unius orbis ambitu, / eius corpus / humili hoc angustoque tumulo continetur. / Qui magnum aut Pompeium aut Caesarem aut Mexandrum cogitas, / aperi oculos veritati: maiorem bis omnibus leges / lgnatium. / Non coerceri maximo, contineri tamen a minimo divinum est » ([Anon.], Imago primi saeculi Socie- tatis Jesu a Provincia Flandro-Belgica eiusdem Societatis repraesentata, Antwer- piae ex Officina Plantiniana Balthasaris Moreti anno saeculari Societatis 1640, p. 280. Per Hegel cfr. il canto religioso citato nel 1800: « Quel che il più vasto ciel non circonscrisse / or riposa nel seno di Maria » (cfr. H e g e l , System­fragment von 1800, in WZB, Bd. 1, p. 424, trad. it. I l così detto « frammento sistematico » , in H e g e l , I princìpi, a cura di E . de Negri, Firenze, Là Nuova Italia, 1974, p. 33).

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chi non vuol essere scacciato deve scacciare; q u i regna la lo tta e solo la forza vince » 37.

Ma in Pascal la certezza della superiorità del pensiero non è assoluta, è talvolta incrinata dal dubbio e dalla disperazione. Così, accanto alle parole: « Tutta la dignità dell’uomo sta nel pensiero », viene.aggiunto in margine: « Ma che cos’è questo pensiero? Com’è sciocco! » 38. Nel passaggio dal mondo chiuso all’universo infinito, nell’opposizione fra il perdersi nell’abisso degli spazi immensi, la revanche del pensiero sulla natura ed il dubbio sulle capacità del pen­sare di essere in grado di sollevarsi all’infinito, di comprendere la

\ sproporzione fra il tutto e il nulla, sono poste le basi sia della poetica del sublime, sia del rapporto ragione/ immaginazione/ natura.Il pensiero naufraga nell’alterno sentimento di una vittoria possibile e di una sconfitta temuta, oscilla tra l ’esaltazione e depressione, in un conflitto insolubile. Malgrado gli sforzi dell’immaginazione, che si estende ben al di là del visibile e che è la facoltà più estesa nel­l ’ambito del sensibile, la ragione non riesce a sintetizzare, a com­prendere e ad abbracciare l’infinito: la stanchezza e lo scoramento la afferrano, sinché non ritrova in sé motivi di autostima, coraggio e forza di ricominciare, di riprendere la battaglia.

II. Kant: sicurezza e rischi della ragione ,

1. La legge morale in me e la « rivoluzione copernicana », che nel soggetto ritrova un centro, un ubi consistam, all’universo spa­ziale eccentrico, costituiscono in Kant la rivalsa sull’immensità del cielo stellato. Nel newtoniane simo del mondo morale un ordine so-

37 S c h i l l e r , Wallensteins Tod, I I , 2, 787-792, in Werke, Nationalausgabe, Weimar, H . Böhlhaus Nachfolger, Bd. V i l i , hrsg. v. H . Schneider und L . Blumenthal, 1949, p. 207 (cfr. la versione italiana in prosa, che non seguo, La morte di Wallenstein, in S c h i l l e r , Teatro, Torino, Einaudi, 1969, p. 606).

38 P a s c a l , Pensées, cit., n. 263 ( = 365 Brunschvicg), p. 1156 (trad. it., cit., p. 162).

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vrasensibile di libertà si contrappone al carattere necessitante e feno­menico delle leggi del mondo fisico·. « Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza, come di una creatura animale, che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell’universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista un breve tempo (non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio va­lore, come di una intelligenza, mediante la mia personalità, in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può in­ferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge, la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito » 39.

Di nuovo, come in Lucrezio, si può guardare alle alterne vicende delle nascite e delle morti poggiando sul solido fondamento di un punto stabile, di una fede, prima, negli scritti precritici, e di una ragion pura pratica in seguito. Così nella Storia generale della natura e teorìa del cielo lo spettacolo della fecondità della natura, pur nelle sue catastrofi, è sotto la garanzia deU’onnipotenza divina: « Innumerevoli animali e piante vengono distrutti ogni giorno e sono vittime della caducità; ma la natura, con inesauribile potenza generativa, ne produce in altri luoghi un numero non mi­nore e riempie così il vuoto. Considerevoli zone di terra ferma da noi abitate sono di nuovo sepolte dal mare da cui erano emerse per un favorevole periodo; ma in altri luoghi la natura ha integrato tale perdita e ha fatto emergere altre terre, che erano nascoste in fondo al mare, per diffondervi nuove ricchezze della sua fecondità. Allo stesso modo trapassano mondi e ordini di mondi e vengono inghiottiti dalPabisso delPeternità; per contro la creazione è sem­pre all’opera per produrre nuove formazioni in altre regioni del cielo e integrare con profitto ciò che scompare [...] Ma non dob­biamo compiangere il tramonto della struttura di un mondo come vera perdita della natura [...] Quanti fiori ed insetti distrugge una

39 K a n t , Kritik der praktischen Vernunft, c it ., p. 162 (trad. it., c it., pp. 193-194).

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sola giornata di freddo! Ma quanto poco ne sentiamo la mancanza, sebbene siano splendide opere d ’arte della natura e prove dell’on­nipotenza divina! Questa perdita viene altrove risarcita in abbon­danza » 40.

Ma Kant — lettore di Pope e di Addison, conoscitore della poetica inglese del sublime41, più che di Pascal — non solo sa che negli abissi dell’universo « ogni potere degli umani concetti ro­vina » 42, bensì anche che il sublime della natura esercita un’attra­zione negativa, tiene a distanza, impedisce che ci si accosti troppo, suscita timore e, nello stesso tempo, desiderio di sprofondare nel­l’ignoto 4}. La legge morale non genera tuttavia il medesimo senti­mento, il « rispetto », Achtung, che non si riferisce a cose, ma alla sua « santità » e « solenne maestà », all’umanità e alla ragione che è in noi? E il rispetto non è sottomissione a qualcosa di superiore ma che ci somiglia, di cui facciamo parte? E non siamo noi stessi, in quanto esseri morali razionali, ì giurati veri del « tribunale della ragione »? Perché allora la ragione e la legge morale hanno bisogno di circondarsi di questa aura di sublime solennità, di attrarre e di respingere insieme ciascuno di noi? Hanno anch’esse profondità abis­sali in cui l ’individuo può perdersi? E poi: si naufraga veramente

40 K a n t , Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, in K G S, Bd. I , pp. 317, 318.

41 Cfr. K . S e i d l , Zur Geschichte des Erhabenheitsbegriffs, Berlin, 1899;H . G . H o f f m a n n , Oie Lehre vom Erhabenen bei Kant und seinen Vorgän­gern, D iss., Halle 1913; S . H . M o n k , The Sublim. A Study of Criticai Theories in XV III-Century England , New York, Mod. Language Ass. of America, 1935 (ristampa: University of Michigan Press, 1962). S u l sublime da vedere, oltre a K a n t , Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen (1764), in K G S, Bd. I I , pp. 205-256 (trad. it. Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, in Scritti precritici, Bari, Laterza, 1953, pp. 303-363), anche le Bemerkungen di K a n t in margine a quest’ultimo ' scritto, cfr. K a n t , Bemer­kungen..., in K G S, Bd. XX, pp. 1-192.

42 K a n t , Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, cit., p . 256.

43 Cfr. K a n t , Kritik der Urtheilskraft, in K G S, Bd. V , p. 245 (§ 23), trad. it. Critica del Giudizio, Bari, Laterza, 1970, p. 92.

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nell’infinità dello spazio o ci si confronta con il « sublime dinamico » della natura?

In realtà, anche nel sublime naturale, non abbiamo a che fare con la natura se non come specchio. Si tratta di una illusione, frutto di un inconsapevole scambio fra lo spettatore e lo spettacolo. Il sublime, « ciò che è grande al di là di ogni comparazione » 44, l’in­commensurabile, non è la natura sensibile, ma qualcosa che sta nell’animo di colui che giudica, e testimonia una facoltà « superiore ad ogni misura dei sensi ». Grandezza e piccolezza sono misure rela­tive e, come in Pascal, un àcaro può contenere un universo che a sua volta contiene àcari, e il pensiero può « comprendere » l ’im­mensità dell’estensione. Ma le profondità dello spazio e la violenza delle forze scatenate dalla natura non turbano più Kant, che si pone al livello del soprasensibile: « E qui si vede facilmente che non può esser dato niente in natura, per quanto grande sia giudicato da noi, che non possa esser ridotto, considerato sotto un altro rapporto, al- l ’infinitamente piccolo; e viceversa, niente di così piccolo che non si possa ingrandire con la nostra immaginazione, mediante il con­fronto con misure ancora più piccole, fino a diventare un mondo.I telescopi e i microscopi ci hanno fornito rispettivamente una ricca materia per la prima e la seconda osservazione. Sicché niente che può essere oggetto del senso, può dirsi sublime, quando sia consi­derato in questo modo. Ma appunto perché nella nostra immagina­zione vi è una spinta a proseguire all'infinito, e vi è invece nella nostra ragione una pretesa all’assoluta totalità, come ad un’idea reale, proprio quella sproporzione, rispetto a quest’idea, che ha la nostra facoltà di valutare le cose del mondo sensibile, desta in noi il sentimento di una facoltà soprasensibile » 45.

2. Il vero contenuto del sublime sono dunque le idee, quei con­cetti necessari della ragione, ai quali non è dato trovare un oggetto

44 lbid.., p. 248 (§ 25) (tiad. it., cit., p . 96).45 Ibid ., p. 250 (§ 25) (trad. it., cit., pp. 98-99). Cfr., su questo punto,

L. F e r r y , Sublime et système chez Kant. E ssai d ’interpretation du sublime mathématìque, in « Les études philosophiques », n. 3, 1975, pp. 313-326.

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adeguato nei sen si*. La ragione, come facoltà delle idee, è il luogo abissale della « sproporzione » fra la pretesa alla totalità e l ’impossi­bilità di conseguirla. Le idee non si lasciano esibire sensibilmente, sono irrappresentabili anche dalla più potente facoltà del sensibile.Il sublime è dato dalla attrazione e repulsione che le idee producono, dalla tendenza della ragione alla totalità e alla soluzione delle con­traddizioni e dallo scacco che in questo tentativo si subisce. Il limite, che sempre si cerca di superare ma che continuamente si riproduce, fra sensibile e soprasensibile allude senza posa all’impotenza del­l ’idea a comprendere se stessa, ad abbracciarsi, a racchiudersi. Il « piacere negativo » 47 procurato dal venire alternativamente attratti e respinti dalle idee della ragione richiama il duplice atteggiamento di Kant nei confronti della dialettica trascendentale e dell’esperienza. Unicamente l ’intelletto è terra ferma sicura, luogo lucreziano di osservazione per comprendere il reale. Eppure ci si sente attratti dal tempestoso mare dell’apparenza, dal sublime della totalità, dalla possibilità di naufragio stesso nelle ribollenti acque dei paralogismi e delle antinomie della ragion pura. Rileggiamo per esteso, da questa prospettiva, un testo famoso: « Noi abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma l ’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso asse­gnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questa terra è un isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettatore!), circondata da un vasto oceano tempestoso, im­pero proprio delle apparenze, dove nebbie grosse e ghiacci, pros­simi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante erra­bondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a

48capo » .

46 Cfr. K a n t , Kritik der Vrtheìlskraft, cit., p. 245 (§ 23) (trad. it., cit., P. 93).

47 Ibid ., p. 245 (§ 23) (trad. it., cit., p. 92).48 K a n t , Kritik der reinen Vernunft, A 235-236 = B 294-295, in K G S,

Bd. IV , p. 155 e Bd. I I I , p. 202 (trad. it., cit., vol. I, p. 243).

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La dialettica della ragione è così il luogo pascaliano della « spro­porzione », delle avventure e del desiderio di nuove scoperte a cui la ragione non è capace di opporsi, ma che non può condurre a compimento. L ’apparenza trascendentale deriva da uno scambio illu­sorio fra soggetto e oggetto simile a quello che si produce nel su­blime. Come, infatti, la causa dell’illusione dialettica è « che nella nostra ragione (considerata soggettivamente, come facoltà conosci­tiva umana) ci sono regole fondamentali e massime del suo uso, che han tutto l ’aspetto di princìpi oggettivi, per cui accade che la necessità soggettiva di una certa connessione dei nostri concetti in favore dell’intelletto venga considerata come necessità oggettiva della determinazione delle cose in sé » 49, allo stesso modo anche il sublime è l ’effetto di una sostituzione, di un equivoco·. « Il senti­mento dell’insufficienza del nostro potere a raggiungere un’idea, che per noi è legge, è la stima. Ora, l ’idea della comprensione di ogni fenomeno, che può esserci dato, nell’intuizione di un tutto, è tale che ci è imposta da una legge della ragione, la quale non rico­nosce come misura, valida per ognuno e immutabile, se non il tutto assoluto. Ma la nostra immaginazione, anche nel suo massimo sforzo, mostra i suoi limiti e la sua insufficienza riguardo a quella comprensione, che ad essa si richiede, di un oggetto dato in un tutto dell’intuizione (e quindi riguardo all’esibizione dell’idea della ra­gione); e mostra, nel tempo stesso, come una legge, la Sua destina­zione ad adeguarsi a quell’idea. Sicché il sentimento del sublime della natura è un sentimento di stima per la nostra propria destina­zione, che, con una specie di sostituzione (scambiando in stima per l ’oggetto quella per l ’idea dell’umanità nel nostro soggetto), attri­buiamo ad un oggetto della natura, il quale ci rende quasi intuibile la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltà cono­scitive, anche Sul massimo potere della sensibilità » 50. L ’ammira­zione per il « cielo stellato sopra di me » è perciò stima e rispetto per

« Ibid ., A 297 = B 353, in K G S, Bd. IV , p. 190 e Bd. I l i , p. 236 (trad. it., cit., vol. I I , p. 288).

50 K a n t , Kritik der Urtheilskraft, c it ., ρ . 257 (§ 27) ( tra d . it ., c it., pp. 106-107).

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la legge morale che è in me, stima per l’idea di umanità che il sog­getto racchiude. L ’illusione oggettivistica, con il suo ‘ feticismo ’, fa vedere nella natura le determinazioni della ragione. In tal modo le antinomie, le contraddizioni, non sono nelle cose, ma nella ra­gione stessa, abisso che attrae e respinge, maestà a cui non ci si può accostare troppo perché provoca vertigine. Il soggetto non ha dunque un fondamento certo nella ragione a cui partecipa, nelle idee di totalità, libertà o finalità a cui essa riesce solo ad alludere. L ’estensione abissale, il sublime matematico e quello dinamico, sono nel soggetto stesso, sono la proiezione all’esterno, mediante sostitu­zione, della legge morale che è in noi. Di fronte alla ragione siamo sudditi e sovrani insieme, servi e padroni (o, come dirà il giovane Hegel per la morale, Kant ha sostituito un padrone esterno con un padrone interno), capaci di idee ma incapaci di realizzarle. Per questo l ’intelletto è un’isola chiusa dalla natura in « confini immu­tabili » — sebbene la natura fisica modifichi invece localmente la distribuzione fra terre emerse o sommerse dal mare — , terra ferma dell’esperienza e della conoscenza solida, dell’analitica che rifiuta le seduzioni della dialettica, dell’apparenza e delle contraddizioni. Anche in quest’« isola » siamo al sicuro, come quando contem­pliamo il sublime dinamico: « Le rocce che sporgono in alto audaci e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo fra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza di­struttrice, e gli uragani che si lascian dietro la devastazione, l ’im­menso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta d’un gran fiume, etc., riducono a una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al di sopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con l ’apparente onni­potenza della natura » 51.

51 Ibid ., ρ. 261 (§ 28) (trad. it., cit., p. 112).

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' 3. Per giustificare l ’impossibilità di abbandonare la sicurezza della terra ferma dell’intelletto e dell’esperienza in genere e insiemeil desiderio di imbarcarsi per l ’oceano dell’apparenza necessaria, il contrasto fra sicurezza e rischio (fra fundamentum inconcussum car­tesiano e scommessa pascaliana, guardando agli atteggiamenti) viene assolutizzato, il viaggio vietato alla conoscenza e la ragione consi­derata come luogo di pretese gnoseologicamente inappagabili, in cui la promessa di « nuove scoperte » si rivela necessariamente fal­lace. L ’intelletto, proclamandosi terra ferma, scarica le sue difficoltà sulla ragione e questa, a sua volta, si assume la responsabilità delle contraddizioni che appaiono inizialmente inerenti alla realtà esterna. L ’oscillazione pendolare delle insolubili antinomie o il contrasto alterno fra ragione e immaginazione nel sublime è il massimo di apertura alla contraddizione che si può pretendere.

Se in tal modo viene tuttavia salvata la finitudine della ragione umana, negata l ’intuizione intellettuale, richiamata bruscamente la conoscenza ai suoi limiti, all’uomo come essere morale vengono per contro assegnati compiti di perfezione, di razionalità etica che lo esimono da ogni chiusura. In morale, veramente, nessun uomo è un’isola. La semplice e severa voce del dovere si rivolge a tutti gli esseri razionali dell’universo, al di là, eventualmente, della specie umana medesima. L ’esigenza morale razionale si manifesta nel rifiuto delle motivazioni sentimentali o edonistiche dell’agire e persino degli eccessi, delle virtù supererogatorie: non la legge del cuore, non la ricerca della felicità, non gli atti eccezionali devono dominare, ma il sobrio richiamo dell’universale, che si fonda sul sacrificio degli impulsi sensibili, delle passioni e degli interessi, della vanità sogget­tiva o dei beni esteriori. Solo la volontà è buona, non ciò che la determina dall’esterno. Le passioni e gli interessi egoistici, il male morale, rifiutato al livello dell’agire individuale, vengono però sin­tomaticamente riutilizzati da Kant a livello di filosofia della storia come concime che spinge le piante umane, nella concordia discors della società, a svettare più in alto: « Senza la condizione, in sé certo non desiderabile, della insocievolezza, da cui sorge la resi­stenza che ognuno nelle sue pretese egoistiche deve necessariamnte incontrare, tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro

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germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia, frugalità, amore reciproco: gli uomini, buoni come le pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico; essi non colme­rebbero il vuoto della creazione rispetto al loro fine di esseri razio­nali » 52. Kant non ha nessuna tenerezza per l’uomo come essere naturale, per la sua soddisfazione sensibile e la sua felicità. Per questo, contro Herder che considerava la felicità un valore da per­seguire, egli si chiede, riprendendo un paragone animale: « Ben pensa l’autore che se i felici abitatori di Tahiti, mai visitati da nazioni più civili, nella loro tranquilla indolenza fossero destinati a vivere anche per migliaia di secoli, si potrebbe dare una risposta soddisfacente a questa domanda: perché essi esistono? Non sarebbe stato altrettanto bene che quest’isola fosse stata occupata con pecore e buoi felici anziché con uomini felici nel semplice godi­mento? » 53. Contro l ’idea di un ritorno alla natura o dello stato di natura come modello positivo di riferimento, Kant è un deciso difensore della civiltà, della cultura·, ha significato solo ciò è pas­sato attraverso il vaglio della ragione, dello sforzo morale, dell’ab­bandono della naturalità. I l conflitto con la natura, l ’uscita dall’Ar­cadia, la sofferenza sono il presupposto, insieme al prodotto, della ragione, della legge morale e della civiltà. La ragione non è solo, come in Aristotele, condizione di felicità di ευδαιμονία, ma anche

52 K a n t , Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, Vierter Satz, in K G S, Bd. V II I , p. 21, trad. it. Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in K a n t , Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, Utet, 19652, p. 128.

53 K a n t , Recension von Herders Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, Theil 2, in K G S, Bd. V II I , p. 65, trad. it. Recensione di: J. G . Herder, « Idee sulla filosofia della storia dell’umanità », parte I e II , Riga e Lipsia, 1784-1785, Recensione della parte I I , in Scritti politici e di fi­losofia della storia e del diritto, cit., pp. 173-174. Su questo testo, cfr. ancheV . V e r r à , J . G. Herder e la filosofia della storia, Introduzione a J . G . H e r d e r ,

Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Bologna, Zanichelli, 1971, pp. 42 ss. e S. L a n d u c c i, I filosofi e i selvaggi 1580-1780, Bari, Laterza, 1972, pp. 386-387.

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rischio54. Nel campo morale Kant sembra così accettare quel combat­timento, quel pericolo, quel viaggio avventuroso che si era negato nella teoria della conoscenza.

III. Hegel: il « giorno diverso » della civiltà

1. Quali sono — separando i problemi — i differenziali della posizione di Hegel rispetto a Kant, i punti di inattesa convergenza che conducono poi ad alternative ancora più radicali?

Hegel, intanto, non ha avuto timore ad imbarcarsi nell’oceano dell’apparenza, nella dialettica: era solito chiamare la Fenomeno­logìa i suoi « viaggi di scoperta » 55 ; ha inserito il cammino dell’ap­parenza, fenomenologico, all’interno della verità; ha considerato la contraddizione e la scienza della contraddizione, la dialettica, non quale errare della ragione, ma come metodo della verità. Egli, inol­tre, accomunato a Kant nel disprezzo dell’immediatezza naturale, nel patriottismo della civiltà, condivide con lui la mancanza di tenerezza per l ’uomo come essere pre-culturale in senso forte, lontano dagli scontri della storia56, anche se proprio nell’etica è contrario alla

54 Cfr. K a n t , Recension von Moscatis Schrift: Von dem körperlichen we­sentlichen Unterschiede zwischen der Struktur der Thiere und Menschen, in K G S, Bd. I I , pp. 423-425.

55 Cfr. K . R o s e n k r a n z , Hegels Leben, trad. it. cit., p. 220. Sul motivo del­l ’esperienza, Erfahrung, come viaggio, Fahrt, cfr. E . B l o c h , Nochmals das Faustmotiv in der Phänomenologie des Geistes, in Tübinger Einleitung in die Philosophie 1, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1965, pp. 84-114, trad. it. I l mo­tivo faustiano nella Fenomenologia dello spirito, in E . B l o c h , Dialettica e spe­ranza, Firenze, Vallecchi, 1967, pp. 65-86.

56 La civiltà umana rompe per Hegel quell’equilibrio fra forze distruttive e forze costruttive d ie domina in natura, in cui le une non riescono a sottomet­tere durevolmente le altre. Tale modello di tipo omeostatico, che abbiamo vi­sto precedentemente in Lucrezio, torna in G o e t h e , Faust I , Studienzimmer, 1356-1384, trad. it. di F. Fortini, Faust, Milano, Mondadori, 1970, pp. 102-107. Ma si ritrova in Hölderlin (derivante dalla tradizione panteistico-spinoziana) e persino, in misura minore, nel secondo capitolo, sul V erbrechen, il crimine, del System der Sittlichkeit, del 1802-1803, di Hegel. Successivamente però la

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violenza della legge morale e si pone nell’alveo della tradizione antica deìVethos, del costume come legame vivente e modificabile fra istituzioni politiche e comportamento individuale, che elimini sia l ’ossequio passivo a una legislazione ormai priva di intimo consenso da parte di un « popolo », sia il rifugiarsi nel tribunale interiore della coscienza, la quale, nelle epoche di crisi, si contrappone orgo­gliosamente al mondo. Etico è fare ciascuno « cittadino di uno Stato dalle buone leggi » 57. Ma ciò che Hegel respinge ancor più fron-, talmente in Kant è la «. tenerezza per le cose del mondo » M, l ’atteg- giamento per cui non l ’essenza del mondo, ma quella della ragione è deturpata dalla « macchia » della contraddizione.

Distinguiamo questi diversi aspetti. Hegel aveva consapevol­mente (ma incoscientemente?) abbandonato la sicurezza lucreziana e kantiana della terra ferma, dell’intelletto-isola (ecco perché l ’in­telletto, potenza ammirevole che non può essere « regalata » 59, sommamente apprezzato contro l ’intuizionismo e la « pappa del cuore », viene poi subordinato alla ragione, dimodoché anche la dialettica diventa superiore all’analitica, alla logica dell’intelletto

civiltà, il Geist, appaiono a Hegel forze che spezzano a favore della Bildung, della cultura-costruzione, che si accumula con generazioni di sforzi, l ’antico pareggio. I l progresso, così, non è altro che una escrescenza degli aspetti di costruzione, della seconda natura, sulla prima, qualcosa che cataclismi, guerra e distruzione non riescono ad annullare. In questo senso, per Hegel anche l ’espressione più semplice della civiltà, la vita di un pastore, di un conta­dino, hanno « valore infinito » rispetto alla naturalità, cfr. H e g e l , Philosophie der Weltgeschichte, hrsg. v. G . Lasson, Leipzig, Meiner, 1919-1920, p. 88, ttad. it. Lezioni sulla ßosofia della storia, Firenze, L a Nuova Italia, 1966-1967, vol. I , p. 102.

57 H e g e l , Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., § 153 A, p. 148 (trad. it., cit., p. 149).

58 H e g e l , Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, cit., § 48 A, p. 126, trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Bari, La- terza, 19513, p. 52 [da ricordare che le « note » (A = Anmerkungen) sono tra­dotte nell’edizione Croce, che si fonda su quella hegeliana del 1830, mentre mancano in essa le «a g g iu n te » (Z = Zusätze)]. Per la teoria della dialettica e la contraddizione sono interessanti qui gli Zusätze ai §§ 41 e 48.

59 H e g e l , Aphorismen aus Hegels Wastebook (1803-1806), in WZB, Bd. 2, p. 551.

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« astratto »). L ’unica sicurezza è ormai nell’insicurezza, nel flusso, nel rischiare la ragione mediante il « coraggio del conoscere » 60: vous étes embarqué. Lo spettatore è solidale con il naufragio, conil movimento del tutto nel suo avanzare di distruzione e di costru­zione della realtà. Questa è la nuova normalità da accettare. Se — dice Hegel, alludendo a Lucrezio61 — si può guardare allo « spettacolo » della storia come « ammasso di macerie », stando­sene sulla « riva tranquilla » dell’egoismo, se la storia appare come tragedia, « banco da macellaio » o « mattatoio » 62, di questo spet­tacolo però siamo tutti autori ed attori e nel suo copione, com’è noto, le pagine di felicità sono « pagine bianche » 63. In tale fluire non vi è più nulla di stabile e di immutabile su cui posare, lo spet­tacolo scorre con lo spettatore, né vi è una mèta finale da raggiungere una volta per tutte. Non vi è appoggio né sul fondamento invisibile della « cosa in sé », né sulla sostanza della vecchia metafisica del- l ’Essere, né in qualsiasi centro tolemaico dell’universo o in mitiche tartarughe che sorreggono il mondoM. Esistono solo relazioni e nodi di relazioni, anch’essi in movimento nel « telaio » goethiano non solo dei pensieri ®, ma del reale stesso. È assente in Hegel — per così dire — una fondazione verticale della filosofia, sul modello analogico dell’edificio che si innnalza cartesianamente su un funda-

60 H e g e l , Die Heidelberger Niederschrift der Einleitung, 28-X-1816, in Einleitung in die Geschichte der Philosophie, hrsg. v. J . Hoffmeister, Hamburg, Meiner, 19593, p. 6, trad. it. Introduzione alla storia della filosofia, Bari, La- terza, 19674, p. 30.

61 L ’allusione è stata colta da H . B l u m e n b e r g , Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, cit., pp. 52-53.

62 H e g e l , Die Vernunft in der Geschichte, hrsg. v. J . Hoffmeister, Ham ­burg, Meiner, 19555, p. 80. Sull’incertezza dell’epoca, cfr. H e g e l , lieber das Wesen der philosophischen Kritik überhaupt, und ihr Verh'dtniss zum gegen­wärtigen Zustand der Philosophie insbesondere (1802), in Jenaer kritische Schriften, cit., p. 126.

63 Cfr. H e g e l , D ie Vernunft in der Geschichte, cit., p. 92.64 Cfr. H e g e l , Glauben und Wissen, cit., p. 367 (trad. it., cit., p. 191)

e D. H e n r i c h , Die « wahrhafte Schildkröte ». Zu einer Metapher in Hegels Schrift « Glauben und Wissen » , in « Hegel-Studien », Bd. 2 (1963), pp. 281-291.

65 G o e t h e , Paust I, Studienzimmer, 1922-1929 (trad. it., cit., p. 147).

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mentum inconcussum, su evidenze immediate, che poi, attraversoil ragionamento metodico, le regulae ad directionem ingenti, o più tardi more geometrico, si trasferiscono dalla base al culmine della costruzione. Vi è semmai una impossibile « fondazione orizzontale »0 meglio una mancanza di fondamenti, in quanto la filosofia si fonda solo su se stessa, sulla sua coerenza interna, sulle evidenze mediate del sistema. Niente di per sé è immediatamente evidente: solo la tenuta dell’insieme in movimento garantisce il discorso scientifico. Questo è il significato di temi famosi, come quello del « comincia- mento », per cui l ’inizio è insieme il risultato, o dell’espressione « il vero è il tutto ». In questo senso — anche a costo kantiana­mente di avanzare pretese spropositate alla ragione umana, che è finita — il sistema hegeliano non può intrisecamente rinunciare alla realtà delle idee di totalità o di infinito (del « vero infinito », a cui1 matematici, Carnot e Lagrange sono pur giunti vicino con il cal­colo infinitesimale moderno66, e non della « cattiva infinità » del supplizio di Tantalo a cui la ragione kantiana e fichtiana o lo Streben « romantico » sono condannati). E se c’è totalità, deve esserci anche contraddizione, perché la contraddizione, a differenza della Realre- pugnanz kantiana 67, presuppone un quadro totale, un’articolazione nella totalità. In questa prospettiva anche l ’universo infinito spaziale e gli abissi della ragione kantiana si curvano su se stessi nell’invo­lucro del sistema, nel pensiero che comprende, abbraccia ed inghiotte lo spazio fisico e il mondo e lo rende simile a sé, perché si riconosce onto-logicamente indissolubile da esso e derivante da esso. Il pen­siero razionale non ha a che fare con fenomeni, ma con la realtà stessa, che include l ’apparenza, ma senza separarla da una presunta base noumenica inconoscibile di cui sarebbe la manifestazione. Dal­

66 Rinvio per brevità su questo problema al mio Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino, 1975, pp. 227-251.

67 Sul rapporto contraddizione logica e Realrepugnanz — un problema assai complesso e non facilmente schematizzabile o risolvibile con l ’elimina­zione della « contraddizione reale » — cfr., anche da ultimo, L . C o l l e t t i , Con­traddizione dialettica e non-contraddizione, in Tramonto dell’ideologia, Bari, Laterza, 1980, pp. 89-161.

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l’universo infinito e buio, che sgomentava Pascal e che Kant aveva ritrovato nella ragione umana, si ritorna con il sistema al mondo racchiuso dal pensiero (che non è « ridicolo » per Hegel), centrato sull’uomo non spazialmente ma culturalmente, come animale che costruisce la sua seconda natura. La « rivoluzione copernicana » al quadrato di Hegel consiste nel restituire alla « còsa stessa » il suo primato, ma nel conservare all’uomo — come Geist, come storia collettiva, civiltà che avanza, non soggetto singolo — la sua cen­tralità, la sua dignità nei confronti degli abissi spaziali. E non è senza significato, in tale contesto, che Hegel abbia ridotto la natura a esteriorità reciproca delle parti, Auseinandersein, res extensa,« strettezza » schilleriana in cui le cose si scontrano e dove si pone l ’una, l ’altra non può stare; che abbia rifiutato la tradizione pantei­stica, confluita poi anche nel movimento romantico e nella sua Naturphilosophie, la quale considerava la natura stessa soprattutto quale essere vivente. In Hegel, al contrario, solo lo spirito è vita ed il pensiero è la vita più alta e più « larga ».

2. Giunti a questo punto si capisce meglio perché Hegel sia contro il « cielo stellato sopra di me » e la « legge morale in me »: ) perché essi sono linee di fuga, dentro il soggetto, dalla realtà effet- \ tuale, simboli di una ragione immersa nella cattiva infinità. Hegel è . per la convergenza della ragione su questo mondo, che è pieno, non ( un guscio vuoto di fenomeni. È per il patriottismo della Terra, della y civiltà umana, contro il perdersi negli spazi stellari e nelle oscure profondità della coscienza individuale. È per la mediazione inces­sante fra coscienza e mondo, è sì « vampiro dialettico dell’uomo interiore », ma anche della pura esteriorità. È un campanilista della civiltà, ancora così esasperatamente etnocentrico da considerare l ’Europa come cuore della Terra e la Germania come cuore del­l’Europa (il che dà materia di riflessione). Ma questo vuol anche dire che egli è contro il mito europeo del « buon selvaggio », le lontane Isole Fortunate e la presunta felicità dei suoi abitanti. Al buon selvaggio egli contrappone il pur tormentato uomo della Bildung con tutte le sue « scissioni »; alle foreste vergini o al Grande Pan della natura Cerere, la divinità dei campi coltivati, del grano

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e dei cereali la cui etimologia è verosimilmente legata alla stessa radice di creare, crescere, e Vingens sylva della « società civile », la jungla degli interessi in conflitto che, molto kantianamente, pro­muovono la civiltà; alla felicità delle pecore e dei buoi, di quel « giardino zoologico » che era il Paradiso Terrestreω, il « duro lavoro » della mediazione e della vita civile, la necessità di man­giare prima il frutto dell’albero del bene e del male per poter poi, eventualmentente, gustare il sapore del frutto dell’albero della vita. Non la felicità l ’uomo deve cercare, lui, « l ’animale malato », tarato dal pensiero e dalla civiltà, ma la Befriedigung, l’appagamento che la vita storica, associata, spirituale possono offrirgli. Appaga­mento tragico, che nasce dal sopportare il negativo e le contraddi­zioni in cui siamo immersi, il prezzo dello sviluppo che così si paga. La civiltà si sconta infatti con lo stesso dolore dell’allonta- namento dall’Eden, con la produttiva maledizione del lavoro, conlo sforzo per trasformare e mediare tutto, perché niente può esserci più dato immediatamente e gratuitamente, né, se lo fosse, avrebbe per noi valore. Il negativo, le contraddizioni, sono ineliminabili dalla Befriedigung, non si possono espungere, separare dalla vita, perché con ciò si distruggerebbe anche la vita, che esiste in virtù di questa opposizione. In tale senso la « scienza dell’esperienza della co­scienza », la Fenomenologia, non è una gaia scienza, bensì un sapere che non ha paura del buio, del fissare la devastazione e la morte, l’oceano tempestoso dell’apparenza e i grandi naufragi della natura e della storia in cui noi stessi siamo. Ma il suo rischio è ancora più elevato. La via regia della filosofia non è solo quella che si percorre con la « fatica del concetto », ma anche il cammino della « disperazione » {Verztveifelung), che è assai più del dubbio {Zweifel). Tale cammino è discesa agli inferi della naturalità e della ragione, pericolo e non semplice anamnesi, come nel Menane pla­tonico, in cui anche lo schiavo può essere guidato intellettualmente

68 Cfr. i testi hegeliani in K . R o s e n k r a n z , Hegels Leben, trad. it., cit., pp. 98, 104.

69 H e g e l , Philosophie der Weltgeschichte, cit., ρ. 728 (trad. it., cit., vol. I l i , ρ. 241).

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verso il sapere. Qui il percorso è disperante, infernale; è, come nella Scienza della logica, catabasi verso lo Schattenreich, lo spet­trale regno delle ombre delle categorie, in cui il mondo reale appare spogliato della sua corposità e costituito solo di fantasmi, di appa­renze essenziali, la cui conoscenza permette di comprendere l’effet­tuale della natura e dello spirito. In questo viaggio il rispetto reve­renziale per i sublimi abissi della ragione cede il posto alla volontà di esplorarli, al rischio di Orfeo, alla ricerca di un sapere da cui si esce rafforzati, se si possiede alla fine la determinazione di non « voltarsi » indietro, di non farsi risucchiare dal regno delle ombre.

3. Per intendere meglio questo aspetto, occorre inserirlo nella cultura filosofica e letteraria di un periodo in cui si riscopre il fascino della totalità, dei viaggi avventurosi dello spirito, dei ritorni (i νόστοι), dello sprofondare nel negativo e nell’oscurità della ragione umana e della natura. Brevemente e schematicamente ecco alcune esperienze esemplari, che erano state ben presenti a Hegel. In Goethe e nel primo Schelling (come nella tradizione « panteistica » tedesca, di origine spinoziana, al tempo del Pantheismus streit fra Lessing e Jacobi), l’uomo non realizza se stesso separandosi dalla natura, ma ricongiungendosi, più o meno perfettamente, ad essa. In Goethe tale mèta è un’aspirazione, un tendere, che solo eccezionalmente può venir soddisfatto, per l ’intervento di potenze mitiche. Faust ha cer­cato di carpire i segreti della natura ed è invecchiato di questo. Fra poco arriverà la morte, e lui del « dorato albero della vita » non ha ancora assaporato il frutto, ha vissuto nel pallido mondo dei pensieri che non lo hanno reso più saggio. È stato beffato. Mentre indagava gli anni sono trascorsi e, all’improvviso, si è trovato vec­chio. La coscienza ha subito uno scacco, vuole abbandonare la sua strada precedente. Il patto di Faust con Mefistofele non consiste tanto nel desiderio di ritornar giovane, ma nella prospettiva di poter ripercorrere altrimenti l ’esperienza, affidandosi questa volta alle forze oscure di quello spirito « che nega » che è Mefistofele. Uno spirito, per altro, che Hegel, in un colloquio con Goethe, aveva cercato di assimilare alla sua dialettica, definita « lo spirito di con­traddizione regolato e metodicamente coltivato, insito in ogni

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uomo » 70. La negazione è la forza che può spingere in avanti la ragione umana, anche se può perderla e se Faust viene salvato dagli angeli perché molto nel suo Streben si è affaticato71. Nel viaggio verso il basso, neH’esperienza, Er-fahrung, del crimine e della perdi­zione, egli ha provato anche a sprofondarsi nella natura, a penetrare nelle sue « midolla », a evocare lo « spirito della terra », ritirandosi nel ‘ sublime dinamico ’ della natura agitata. A questo spirito così Faust si rivolge:

« G u id i davan ti a m e la schiera dei v iventi e a riconoscere m ’insegni i m iei fratelli fra p iante m ute, in aria e in acqua.E quando la b urrasca scroscia nel bosco e stride, se rovinando enorm e schianta il p in o i ram i prossim i e i tronchi p ro ssim i precip ita e al crollo tuon a in eco opaca il colle, a una d ife sa caverna m i gu id i allora, m i m ostri allora a m e m edesim o e nel m io proprio essere s ’aprono arcan i stu p en d i e p rofon di » 72.

Ma Mefistofele giunge a turbare l ’esaltazione di Faust, ad irri­dere il suo passare la notte sui monti, alla guazza, abbracciando rapito cielo e terra e gonfiandosi sino a credersi una divinità. Nella visione sarcastica di Mefistofele il pensiero che si gonfia per diventare più grande della natura è veramente grottesco, ridicolo:

« Che hai d a startene lì, fra caverne e crepacci, appollaiato com e un gu fo ?T ra m uschi frad ic i e sassi che colano, che hai, com e un rospo, da succh iare? » 73.

70 Cfr. J . P. E c k e k m a n n , Gespräche mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens 1823-1832, Leipzig 1836, trad. it. Colloqui con Goethe, Firenze, Sansoni, 1947, p. 598.

71 Cfr. G o e t h e , Faust I I , Bergschluchten, 11936-11937, trad. it. in Faust, cit., p. 1045.

72 G o e t h e , Faust I, Wald und Höhle, 3225-3234, trad. it., cit., p. 289.73 Ibid., 3272-3275, trad. it., cit., p. 293.

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« TENEREZZA PER LE COSE DEL MONDO 2 13

Anche se non ci fosse in questo passo nessun accenno ai « romantici » o al titanismo fichtiano, alla smisurata pretesa dell’io di inglobare il mondo, del soggetto di gonfiarsi proprio come un rospo (atteggiamento contro cui Hegel stesso ebbe modo di pole­mizzare in gioventù)74, la scelta di Goethe è per l ’Uno-Tutto della natura, per l ’idea spinoziana che — non potendo essere l’uomo « un impero in un impero » — la coscienza non deve trasformarsi da parte della natura in totalità.

Schelling stesso aveva negli anni di Jena questa concezione, ma aveva corretto il modello panteistico nel senso che la coscienza umana e l’uomo in generale sono bensì entità di natura, con base matema­ticamente identica a quella degli altri esseri, ma con esponente o « potenza » diversi e più alti. L ’autocoscienza è dunque la vetta della natura, il punto di possibile inversione, in cui essa, giunta a se stessa, si rispecchia. L ’Assoluto consiste appunto in questo periodo nell’Indifferenz di soggetto e oggetto, nel ritorno della coscienza nell’inconscio della natura, da cui esce nuovamente esaltata, nella totalità priva di differenze a cui si giunge mediante un « salto mor­tale ». L ’« Odissea » dello spirito si conclude nell ’ltaca dell 'Indif­ferenz, nella pienezza della natura che si ritrova, nell’agnizione reci­proca di soggetto e oggetto.

4. In Hegel non Pan è l’immobile punto d’arrivo, l ’indifferen- Jziato, ma, di nuovo, Cerere, con la sua sempre ripetuta fatica, le

I sue ‘ differenze ’ che conducono all’articolazione della totalità in / movimento, del sistema dialettico. Nel viaggio agli inferi anche ( Hegel ha tentato di rafforzarsi attraverso il contemplare la contrad­

dizione e il negativo, immunizzandosi ad essi con una sorta di me­dicina omeopatica e assumendoli come ingredienti per la crescita e l ’approfondimento della conoscenza. Non è solo una teodicea, quella hegeliana, una giustificazione del male o un affermare che Dio ha bisogno del diavolo, oltre che degli uomini, ma è una strategia per

74 Cfr. H e g e l , Systemfragment von 1800, cit., p. 427 (trad. it., cit., pp. 38-39).

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2 1 4 REMO BODEI

spingere il pensiero oltre i vecchi confini dell’analitica, per avere un’anabasi dopo la catabasi, per mostrare che anche dagli abissi della contraddizione e dai paradossi dell’infinito si può risalire, che la ragione deve rischiare di perdersi per ritrovarsi (riecheggia qui l’evangelico « chi perde la sua vita la ritroverà »?). Si può prender forza dal contatto con il negativo. Che Kant abbia mostrato « tene­rezza per le cose del mondo » significa che in questo caso è stata ; proprio la sua ragion pura a presentarsi come ragione « pigra », ‘ perché ha accettato il conflitto a livello della storia e della società, ; ma non della teoria. In fondo Hegel condivide un atteggiamento j diffuso in età post-kantiana ed espresso incisivamente da Hölderlin:« [ ...] dove è il pericolo / cresce anche ciò che ti salva » 75. Toccatoil punto più basso, si risale; bevuto completamente l’amaro calice, si può risorgere. Ma prima bisogna arrivarci, rischiare, affrontare il dolore, guardare la morte in faccia. Solo così si ritorna dalla sostanza J al soggetto, ad un soggetto nuovo, non tautologicamente vuoto, ma ! pieno delle contraddizioni e delle soluzioni accumulate nel cammino j e delle loro tensioni. L ’andare indietro, distruggendo l ’immediatezza delle premesse naturali, è andare avanti, è progredire. Lo spirito esce dalla natura separandosene e distanziandosene, cercando di dimenti­carla: « La natura è per l ’uomo solo il punto di partenza, che egli deve rimodellare \_umbilden\ [ ...] L ’uscita dell’uomo dal suo essere naturale è la differenziazione di esso come essere autocosciente da un mondo esterno [...] L ’uomo in quanto spirito non è un essere naturale » 7é. Lo ‘ spiritualismo ’ o l’ ‘ idealismo ’ di Hegel sono, sotto questo profilo, una difesa della civiltà contro le tentazioni a regre­dire nella natura e la dialettica è anche lotta incessante contro l’immediatezza e la mancanza di contraddizioni evidenti della natu­ralità. Il lavoro, la civiltà, stanno nel doppio rifiuto di perdersi di

75 H ö l d e r l i n , Patm os, in Sämtliche Werke, Grosse Stuttgarter Hölder­linausgabe, Stuttgart, Cottasche Buchhandlung Nachfolger, 1943 ss., Bd. I I , 1, vv. 3-4, ρ. 165.

76 H e g e l , Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, cit., § 24 Z, p. 90.

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« TENEREZZA PER LE COSE DEL MONDO » 2 1 5

nuovo nel seno della natura e di gonfiarsi come coscienza soggettiva astratta sino a volerla abbracciare tutta nel vuoto della legge mo­rale o dell’intelletto astratto.

5. Hegel non crede, diversamente dal Fichte de La missione dell'uomo, che sia possibile venire a patti con la natura, placarne la distruttività, stabilire una nuova alleanza. Fichte aveva avan­zato l ’ipotesi che — essendo fissa la quota di energia a disposi­zione della natura in forma di violenza catastrofica — ad un certo momento la sua potenza selvaggia si sarebbe esaurita e calmata. Allora l ’uomo avrebbe potuto finalmente diventare a pieno un principio attivo ed amico della natura e di se stesso, di conservazione e di incremento di capacità comuni: « Terre coltivate devono vivificare e mitigare l ’atmosfera inerte e ostile delle selve eterne, dei deserti, delle paludi; una coltivazione ordinata e varia deve diffondere attorno a sé nell’aria nuovo impulso di vita e di fecondità, e il sole deve inondare dei suoi raggi più vivificatori quell’atmosfera nella quale vive un popolo sano, laborioso e industre » 77. In questo caso, la natura, diventata sempre più trasparente all’intelligenza umana, avrebbe potuto essere dominata pacificamente, con ‘ tenerezza « A poco a poco non ci deve più esser bisogno di nessun dispendio di lavoro meccanico più grande di quello di cui il corpo umano ha bisogno per il suo sviluppo, la sua educazione, la sua salute e que­sto lavoro deve cessare d ’essere un peso; poiché l ’essere razionale non è destinato a fare il facchino » 7S.

In Hegel la mancanza di « tenerezza per le cose del mondo » si presenta anche come vendetta contro la natura, accompagnata semmai da un anelito alla conciliazione che non si riesce a soddi­sfare. Così « lo spirito fa valere il suo diritto e la sua dignità solo nell’interdire e maltrattare la natura, a cui restituisce quella neces­

77 F i c h t e , Bestimmung des Menschen, in Werke, hrsg. v . I. H . Fichte, Berlin, 1834-1846, Bd. I I , p . 268, trad. it. La missione dell’uomo, Bari, La- terza, 1970 2, pp. 126-127.

78 Ibid ., pp. 268-269 (trad. it., cit., p. 127).

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sita e violenza che ha subito da essa » 79. Nessun accordo è ancora possibile fra uomo e natura: solo una relazione di signoria e ser­vitù che rovesci la situazione precedente. Dopo essere stata padrona, la natura deve provare la durezza della servitù, a cui essa può sempre però ribellarsi, perché le sue energie distruttrici non si sono esaurite (ciò che, per altro, rende impossibile la fiducia, l ’uscita dal nesso di signoria e servitù). Del resto anche nell’uomo la civiltà comincia con uno sfregio alla natura, con ciò che sembra barbarie, ma che è invero un modo di piegare la « riottosa estraneità » di ciò che non è spirituale, un bisogno di trasformare le cose, di lasciarvi la propria impronta, come quando un fanciullo « lancia delle pietre nel fiume ed ammira i cerchi che si disegnano nell’acqua come opera in cui acquista l’intuizione di ciò che è suo » 80. Tale « im­pronta » può essere ben violenta: « Questa è la causa di tutte le acconciature e gli ornamenti, siano essi pur così barbari, privi di gusto, completamente deformanti o addirittura perniciosi, come i piedi infasciati delle donne della Cina o gli spacchi nelle orecchie e nelle labbra » 81. In ogni campo l’uomo già civile è un uomo naturale mutilato. Scissione, contraddizione, negatività, sviluppo, se­parazione dalla naturalità: questi gli imperativi categorici della ci­viltà. L ’uomo civile trasforma tutto ciò con cui viene a contatto, lo consuma o non lo lascia sussistere così com’è. Anche nella servitù iniziale rispetto all’oggetto della natura e nel riscatto da questa egli si è umanizzato. Ogni attività umana deve portare il marchio dello spirito, dai gradini più bassi sino all’Assoluto, all’arte, alla reli­gione, alla filosofia, nella quale si raggiunge il massimo di dena­turazione.

Nell’arte l ’uomo trasforma, stravolge la naturalità, l ’esteriorità, sino a renderla conforme a se stesso, ai suoi bisogni, a produrre l’intuizione dell’Assoluto nel sensibile (per questo il bello naturale è

79 H e g e l , Vorlesungen über dìe Aestbetik, in WZB, Bd. 13, p. 81 (trad. it. Estetica, Torino, Einaudi, 1967, p. 65).

80 Ibid ., p. 51 (trad. it., cit., p. 40).si Ibid.

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in Hegel inferiore al bello artistico e il sublime appare nell 'Estetica quale « tentativo di esprimere l ’infinito senza trovare nel regno dei fenomeni un oggetto che si mostri adeguato a questa rappresenta­zione », tentativo che si ritrova nell’« arte panteistica » dell’india, nella poesia ebraica e maomettana, nella mistica cristiana, e cioè nel regno del simbolico, dell’inadeguatezza all’ideale)82. In quanto « trionfo sulla caducità », l’arte è padronanza sui fenomeni, modi­ficazione in cui il sostanziale viene « defraudato della sua potenza sull’accidentale e sul transeunte », così che è possibile fermare in pittura i tratti momentanei e mutevoli dell’esistenza, « cogliere il lampeggiare del metallo, lo scintillio di un grappolo su cui piove la luce, il raggio fuggevole del sole, della luna, un sorriso, l’espres­sione di una rapida emozione, quel che è più fuggevole e cangiante, e renderlo duraturo per l ’intuizione nella sua vitalità più piena » 83. Oppure produrre il colore, come negli Olandesi, proprio per la sua debolezza o rarità relativa nel paesaggio naturale: « Per quanto ri­guarda gli Olandesi [ ...] , essi, nell’orizzonte sempre brumoso, ave­vano dinanzi la rappresentazione costante di uno sfondo grigio e da questo grigiore erano a maggior ragione spinti a studiare e a mettere in rilievo ancor più il colore in tutti i suoi effetti e varietà di illuminazione, riflessi, giochi di luce, ecc., e a trovare proprio in ciò un compito fondamentale della loro arte » 84. Anch’essi desi­deravano un’altra luce, diversa da quella naturale, come quella delle chiese con i ceri e le vetrate, luce spirituale: « Queste vetrate in parte raffigurano storie sacre, in parte sono solo colorate, per dif­fondere una luce crepuscolare e far rilucere lo splendore dei ceri. A dar luce qui è infatti un giorno diverso da quello della natura esterna » 85. Il giorno diverso dello spirito non è tuttavia il post tenebras lux, una luce bianca e radiosa, composta — come nel­l ’ottica di Newton — da tutti i colori dell’iride. È, proprio come

82 Cfr. ibid., pp. 40 ss. (trad. it., cit., pp. 30 ss.); pp. 466 ss. (trad. it., cit., pp. 409 ss.).

83 Ibid., Bd. 14, ρ. 227 (trad. it., cit., ρ. 670).84 Ibid., Bd. 15, pp. 69-70 (trad. it., cit., p. 936).35 Ibid ., Bd. 14, p. 338 (trad. it., cit., p. 772).

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nella Farbenlehre di Goethe “ , una luminosità che deriva dal rapporto di chiaro e di scuro, di luce e d’ombra: cum tenebris lux. Questa è anche sintomaticamente la natura problematica della ra­gione e della dialettica hegeliana.

2 1 8 REMO BODEI

86 Interessante, a questo proposito, è la polemica che il fratello di Johann Wilhelm Andreas Pfaff, amico e corrispondente di Hegel, aveva intrattenuto con Goethe sulla teoria dei colori, in difesa di Newton, cfr. C. H . P f a f f ,

Ueber Newton’s Farbentheorie, Herrn von Goethe’s Farbenlehre und den che­mischen Gegensatz der Farben. Ein Versuch in der experimentalen Optik, Leipzig, bei Fr. Chr. Wilh. Vogel, 1813. È noto l ’interesse di Hegel per l’ot­tica e per le opere — oltre che di Goethe — anche di Malus.

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Livio Sichirollo

FEDE E SAPERE. GIOBBE E G LI AMICI Riflessioni in tema di filosofia, religione e fiilosofia della religione

in Kant e in Hegel

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Certo, la dottrina kantiana della religione è ancora silenziosa; solo col tempó essa verrà in piena luce.

Hegel a Schelling, Natale 1794

L a religione è qualcosa che si fonda sulla ragione e non sulla sofisticheria... M a lasciarsi guidare nella religione dalla semplice conoscenza specu­lativa, è sofisticheria.

K a n t 1

La sublime facoltà dell’autonomia della legisla­zione della ragione pura pratica consiste in verità nella produzióne di tautologie.

H e g e l 2

Dei limiti, delle ragioni e del filo conduttore della ricerca. — Il ca­pitolo relativo al rapporto Hegel-Marx, almeno per quanto riguarda la storia della filosofia (non certo la storia delle idee), può considerarsi

1 « Die Religion ist etwas welches sich auf die Vernunft, nicht aber auf die Vernünfteley gründet... D ie Leitung aber der Erkenntniss durch blosse Speculation in der Religion ist die Vernünfteley »: Moralphilosophie Collins, X X V II, p. 313 (tr. it. Lezioni di etica, Bari, Laterza, 1971, p. 102). Citerò sempre Kant secondo l ’edizione dell’Accademia delle scienze di Berlino (nu­mero romano progressivo del volume e pagina, ma ove possibile indicherò la titolazione interna dell’opera) e farò seguire l ’indicazione delle traduzioni ita­liane, Ove esistono (il che non significa che tali traduzioni siano letteralmente riportate).

2 « Und in der Production von Tautologien besteht nach der Wahrheit das erhabene Vermögen der Autonomie der Gesetzgebung der reinen praktischen Vernunft » : Behandlungsarten des Naturrechts, Gesammelte Werke, hrsgg. im Auftrag der dt. Forschungsgemeinschaft, Hamburg, Meiner, 1968 e seg. Bd. 4, p. 435 (tr. it. Scritti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1962, p. 38). D i Hegel sarà citata di volta in volta la migliore edizione disponibile; quanto alle tradu­zioni italiane, v. sopra nota 1.

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chiuso. Alcuni elementi del rapporto e alcuni risultati delle ricerche sono da più parti condivisi. La discussione continua su particolari — non sempre, a dire il vero, insignificanti — e pur sempre esposta al pericolo di slittar via dal piano strettamente filosofico. Non così il rapporto Kant- Hegel. Lungi dall’aver affrontato e risolto in modo definitivo importanti problemi particolari, siamo ancora a discutere in che senso e fino a che punto Kant sia un o il presupposto, quale sia la dimensione quantitativa e qualitativa del kantismo di Hegel, addirittura se e come possa porsi il problema stesso del rapporto. Non potremo qui prender parte a tale dibattito (che potrebbe essere particolarmente vivace proprio se si guarda alla filosofia della religione o, diciamo meglio, alla teoria filosofica della religione nei due autori). Questo è il primo limite della ricerca.

Dobbiamo dire, però, in che modo procediamo all’interno di questo limite. Kant presenta (va detto e ripetuto) un sistema concettuale nuovo nel linguaggio, vecchio, della sua epoca: « il solo a disposizione del no­vatore (che tuttavia lo trasforma), il solo soprattutto mediante il quale possa farsi capire dai suoi contemporanei, a rischio, quasi certo, di non essere compreso se non con uno sforzo considerevole dai posteri, che, essi, si sono avvalsi del suo apporto per sviluppare un nuovo linguaggio (un nuovo sistema concettuale) » 3. Quando Hegel, attaccando duramente Kant, dichiara — più o meno apertamente — che la filosofia comincia con Kant, mostra di avere una certa consapevolezza di quel fatto. Ma nello stesso tempo egli non perde occasione di dichiararsi fuori del kantismo, di interpretarsi come avversario di Kant e non come suo successore, anche se alcuni testi e l’impostazione di certi problemi son lì a dimostrare quanto gli debba4. Che politica e storia siano ora problemi filosofici, che

3 E. W e i l , Problèmes kantiens, Paris, Vrin, 19702, p. 19, nota, e cfr. poi pp. 140-141 e nota 71, p. 167 (tr. it. Urbino, ed. « quattro venti » , 1980, pp. 55, 136-137 e 147, 170). È il fenomeno della ‘ ripresa ’ : fondamentale nella storia del pensiero e della storia in genere — al centro, com’è noto, della Logique de la philosophie di E . Weil (Paris, Vrin, 1950), della quale si vedrà in particolare pp. 79-82 (poi passim)·, la filosofia del senso, che la Logique pro­pone, può esser letta ( ‘ compresa ’) come un ripensamento del rapporto Kant- Hegel, meglio come una «fondazione della filosofia (morale, cioè kantiana) dopo Hegel. Ci sia consentito rinviare all'introduzione che abbiamo premesso alla tr. it. di Masse e individui storici, Milano, Feltrinelli, 1980.

4 Che secondo Hegel la filosofia (moderna) cominci con Kant, è un pas­saggio obbligato. Si veda almeno Enz. SS 48 e 60 e note, Fil. dir. S 135 nota, il capitolo kantiano delle Lezioni sulla storia della filosofia, e quanto

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FEDE E SAPERE. GIOBBE E GLI AMICI 2 2 3

agiscono dentro e sulla totalità del pensiero, della metafisica, non sempli­cemente accanto ad essi, mere appendici; che il cammino della storia sia orientato, sensato, e solo così comprensibile; soprattutto, e infine, che la filosofia o è sistema o non è filosofia — sono esempi eminenti dell’accordo di fondo tra i due pensatori. Ma Hegel non volle o non arrivò a riconoscerlo oppure si adoperò per non farci capire che aveva capito.

Hegel avversario consapevole di Kant e in un certo senso (ma solo in un certo senso) suo successore malgré lui, è ciò che vedremo discu­tendo di filosofia della religione. Ma il titolo della ricerca dice chiaro come e quanto il quadro sia stato ridotto, addirittura semplificato, radi­calmente. Forse arbitrariamente. Riteniamo tuttavia di avere le nostre buone ragioni. Almeno due vanno dichiarate. Una ragione di fatto. Kant ha esposto la sua teoria filosofica della religione in testi espressamente dedicati a questo argomento, da lui stesso pubblicati e ripubblicati, e ad­dirittura commentati5. Non così Hegel: se si eccettuano i capitoli di Fede e sapere, della Fenomenologia, i pochi paragrafi dell 'Enciclopedia (e i relativi testi sulla morale) e alcuni scritti di Berlino (ma se si bada strettamente al tema si tratta poi solo della Prefazione alla Religionsphi­losophie di Hinrichs), la sua filosofia della religione è affidata per noi

egli dice di Kant, pur fra critiche durissime, nella prolusione berlinese del 1818 (per cui v. avanti nota 50). In genere tale riconoscimento si accompagna alla critica (talora banale) che Kant pensa ciò che dichiara di non poter pen­sare (ne esamineremo alcuni punti). Su questo argomento principe, quant’altri mai filosofico, della storia della filosofia, manca ancora una lavoro esauriente. Si veda il vecchio G . W y n e k e n , Hegels Kritik Kants, D iss. Greifswald 1898 (elementare ma precisa esposizione del rapporto nei suoi testi fondamentali); poi S. V a n n i R o v ig h i , Hegel critico di Kant, in « Riv. Filos. Neoscol. », 42, 1950, pp. 289-312; E . J . F l e i s c h m a n n , Hegels Umgestaltung der Kantischen Logik, in « Hegel-Studien », 3, 1965, pp. 181-208; I. G ö r l a n d , Die Kantkritik des jungen H ., Frankfurt a. M., Klostermann, 1966; J . E . S m i t h , Hegel’s cri- tique of K ., in « Review of Metaphysics », 26, 1973, pp. 438-460 (molto de­bole); infine, H . K ü n g , Incarnazione..., cit. Bibliografia, discute vari momenti del rapporto Hegel-Kant: a mia conoscenza è da considerarsi il migliore re­cente contributo.

5 Mi limito a ricordare la Prefazione alla I I ed. della Critica, allo stesso rifacimento della Critica secondo le analisi di Eric Weil, le aggiunte alla I I ed. della Religione, la Prefazione del Conflitto delle facoltà. In generale su questo atteggiamento kantiano v. G . L e h m a n n , Kants Lebenskrise (1954), tr. it. in « Studi Urbinati », n.s. B , 32, 1958, pp. 5-15.

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alle ben note V orlesungen redatte (piuttosto arbitrariamente) dagli scola­ri e, ora, alla pubblicazione del manoscritto delle lezioni del 1821 6. Ci atterremo a un principio che a noi sembra corretto: se si ha di mira la comprensione filosofica di un autore (e non la sua biografia intellettuale), si terrà conto delle lezioni non autografe e del manoscritto solo in quanto confermano o illustrano il pensiero consegnato nei testi a stampa. Per altro non è pensabile in questa sede una ricerca ‘ filologica al più, quando tale filologia esiste (come nel caso di Kant), può essere data per presupposta.

U na ragione d i d iritto . Kant e Hegel sono d’accordo in questo (lo abbiamo già rapidamente notato), che la filosofia o è sistema o non è. Inutili le citazioni: si pensi solo alla Prefazion e alla Fen om en ologia da una parte e, dall’altra, alle prefazioni alla C ritica della ragione pu ra e alla spiegazione pubblica (E rk läru n g) di Kant in relazione alla D ottrin a d ella scienza di Fichte. Non possiamo discutere qui questo fatto 7 né ciò che esso comporta8. Ma il semplice dichiararlo significa che non possiamo non tenerne conto. Tuttavia ci abbandoniamo così all’arbitrio dell 'in ter­pretazione. Infatti: o esporremo una parte del sistema (la religione come teoria filosofica) o esporremo il sistema in quella sua parte lasciando ca­dere il resto come inessenziale, quel resto essendo però l’intero all’in­

6 Religionsphilosophie, Bd. I : Die Vorlesungen von 1821, hrsgg. K.-H. II- ting, Napoli, Bibliopolis, 1978.

7 Che è il motore della ricerca su Kant e Fichte di A r t u r o M a s s o l o ,

Introduzione all'analitica kantiana e Fichte e la filosofia, Firenze, Sansoni, 1946 e 1948 — mi fa piacere ricordarlo qui — e dei suoi studi su Hegèl (ora in La storia della filosofia come problema, Firenze, Vallecchi, 1967, poi Tascabili Vallecchi, 1973, entrambi con bibliografia dell’autore).

8 Cfr. sopra nota 3. L a Logique de la philosophie vuole comprendere tale fatto: « ... tout système est vrai et toujours vrai, parce qu’une cohérence a été atteinte en lui, — toujours vrai au point que, à n’importe quel moment de l ’histoire qui suit l ’élaboration de ce système, l ’individu peut se contenter de cette cohérence, peut s ’y établir et peut reprendre sous cette catégorie tout ce qu ’il rencontre dans son monde qui, en fait (c’est-à-dire du point de vue de la logique de la philosophie, et déjà de celui de la simple attitude de l’in- terprétation), est formé par une catégorie ou par des catégories postérieures à celle que cet homme a choisi. E t il est toujours dépassé, parce que sa catégorie, une fois révélée, apparait (peut apparaìtre et est apparue dans l ’histoire) cornine une condition, comme un autre de l ’homme qui se révolte contre ce qui lui est présenté comme valable une fois pour toutes » (84).

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terno del quale solo quella parte ha un senso. L ’operazione è per altro inevitabile (non fosse che per ragioni di spazio, e di divisione del lavoro secondo la presente raccolta di studi). La sua arbitrarietà può risultare attenuata o comunque essere ‘ compresa ’ per ciò che essa è dichiarata, e ne siamo consapevoli.

Consapevoli a tal punto che — dopo i limiti — son da vedere ora le motivazioni che agiscono dal fondo come filo conduttore della ricerca. Una nuova lettura, parziale, di Kant e di Hegel non è certo qualcosa che possa essere semplicemente ricondotta alla loro fortuna nei nostri giorni, ad una sorta di bibliografia ragionata. Kant e Hegel continuano ad essere immediatamente alle nostre spalle come quei filosofi che si la­sciarono investire dall’intera realtà del loro tempo — che è ancora il nostro. Kant in particolare sembra oggi imporsi alla nostra riflessione 9. Quindi, « il dire che Hegel è ancora vivente [ma nel contesto è da com­prendere anche Kant] non è un’affermazione che possa venire tranquilla­mente posta accanto alle altre. Non è soltanto questione di responsabilità, non è mai un fatto isolato, ma qualcosa che impegna anche poli­ticamente » 10.

Chi allora vuol comprendere o cerca di comprendere il discórso sulla religione kantiano ed hegeliano, sa di non intraprendere una ricerca neu­tra. Per entrambi — anche se in senso diverso e per ragioni diverse — quel discorso fa parte della filosofia, è la filosofia: in esso, dunque, il sistema si dispiega o può spiegarsi a partire dal suo fondamento (i più alti interessi della ragione, cioè la morale: Kant) o all’interno del suo fondamento stesso (il sapere, lo spirito assoluto: Hegel). Questo discorso ha, quindi, per entrambi come presupposto — e, per noi che vogliamo comprendere, come fine ultimo, cioè come suo senso — la ragionevolezza dell’uomo e la ragionevolezza del mondo: di un mondo nel quale la vio­lenza sarebbe scomparsa, e i problemi della morale da una parte e le lotte di religione dall’altra non troverebbero più posto per ciò che l’uomo, che ha avuto ragione della violenza, sarebbe signore della propria tran­

9 M i limito a dare due indicazioni a mio avviso significative: l ’ampio di­battito sollevato soprattutto nel mondo anglosassone dal libro di J . R a w l s , A theory of justice, Harvard U .P. 1971 (v. almeno due saggi di Rawls e studi vari in Le ragioni della giustizia, in «B iblioteca della lib ertà», 14, 1977, nn. 65/66) e A . G u e r r a , Introduzione a Kant, Bari, Laterza, 1980, con la pre­sentazione che ne ha fatto E . Garroni, in « Paese sera », 21 aprile 1980.

10 A. M a s s o l o , « Entäusserung »-« Entfremdung » nella Fenomenologia d. spir. (1965), ora in La storia della filosofia..., cit., p. 202.

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quilla moralità. Una situazione limite per Kant, si sa; una situazione almeno in parte reale per Hegel. Per noi, per noi che ripensiamo quella comprensione nella nostra situazione, sembra trattarsi di un limite che si è talmente spostato (se questa espressione significa qualcosa) da aver messo in crisi la convinzione hegeliana.

Detto altrimenti: la storia o è la ragione dell’uomo o risulta di fatto incomprensibile — un risultato hegeliano che è un acquisto per sempre; ma la ragione dell’uomo o coincide con il suo essere morale, cioè con la ragionevolezza delle sue scelte di ente finito nel mondo, oppure è qualcosa che non gli appartiene, è solo ipotizzabile come dote di un ente assolutamente altro: anche questo tema, che percorre l’intera evoluzione kantiana, è un acquisto per sempre, e resta valido e diviene tanto più intellegibile e operante dopo il risultato hegeliano. Qui si aggirano, rite­niamo, gli interessi filosofici del nostro tempo (se e dove il nostro tempo manifesta tali interessi). Come possano configurarsi attraverso il dibattito sulla filosofia della religione in Kant e in Hegel, è ciò che cercheremo di mostrare limitandoci ad analizzarne un momento nei due seguenti punti:1. La fede della ragione (Kant): la sincerità dell’intenzione di Giobbe;2. La religione come sapere (Hegel): gli amici di Giobbe.

Notizia bibliografica. — Rinuncio a presentare il consueto ap­parato bibliografico. La letteratura generale e speciale su Kant e Hegel è di tale ampiezza (talora di fastidiosa sovrabbondanza) che anche una pic­cola scelta non può essere ragionevolmente compiuta. Ho citato ai vari luoghi solo quei testi che hanno direttamente motivato questo lavoro, olo giustificano in punti particolari. Il lettore, che non sia uno specialista, può orientarsi sulle seguenti bibliografie speciali: G. Cacciatore, H. in Italia e in italiano, in Incidenza di H., Napoli, Morano, 1970; i Bibliogra­phische Hinweise (aggiornati) in appendice alla ristampa 1974 dell’ed. Lasson della Vorles. über d. Philos. d.Rel. (cfr. nota 80); F. B ia su tti, Note sulle interpretazioni della filos. d. rei. in H., in « Verifiche », 5, 1976, pp. 232-259; la Nota bibliografica alla tr. it. delle Lezioni (cfr. nota 80), alla tr. it. della Prefazione alla filos. d. relig. di Hinrichs a cura di S. Sorren­tino, Napoli, Morano, 1975, e soprattutto quella in appendice a H. Küng, Incarnazione di Dio. Introd. al pensiero teologico di H. (1970), Brescia, Queriniana, 1972 (un testo di grande interesse filosofico, ben più ampio del suo titolo). Ancora: W. Kern, Hegel-Bücher 1961-1971. Ein Auswahl­bericht (X), in « Theologie u. Philos. », 51, 1976, pp. 559-570 (con l’in­dice delle accurate recensioni dell’autore) e la raccolta di saggi Hegel and

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thè philosophy of religion. The Wofford Symposium, The Hague, M. Nijhoff, 1970. Aggiornamenti bibliografici in « Hegel-Studien » e (più limitatamente) in « Kant-Studien ». Su Kant: I. M an cini, K. e la teolo­gia, Assisi, Cittadella, 1975, pp. 241-250 (cfr. nota 33); qualche aggiunta in A. G u e r r a , Introduzione a Kant, Bari, Laterza, 1980 (di cui si racco­manda il cap. VI sulla religione) e ancora in H. K üng, cit., per cui si veda nota 4.

Tra le più recenti pubblicazioni ho consultato: F r . L ö t sc h , Vernunft und Religion im Denken Kants, Köln-Wien, Böhlau, 1976, partic. parte II, § 3: Theodizee und Menschenwürde; A. W in t e r , Theol. Hintergründe der Philos. Kants, in « Theologie u. Philos. », 51, 1976, pp. 1-51, che in taluni punti approfondisce il noto testo di J. Bohatec; X. T il l ie t t e , Foi et savoir dans le conflit des autorités, in « Etudes philos. », n. 2, 1977, pp. 157-167.

Sul libro di Giobbe ho dato qualche indicazione alle note 33 e 86.

1. La fede della ragione in Kant e la sincerità dell’intenzione di Giobbe.

E r wird ja mein H eil sein; denn es kommt kein Heuchler vor ihn

G io b b e , 13,16-17

Oie Unredlichkeit der Menschen als das radicale Böse.

K a n t 11

1.1. - La kantiana fede della ragione. — La revisione della Critica della ragione pura reca al suo centro l ’affermazione: « Ho dovuto abolire il sapere al fine di trovare un posto per la fede » n,

11 G iobbe: « Anzi, egli sarà per me di salvezza, perché dinnanzi a lui nessun adulatore (ipocrita) si può presentare ». H o riportato il tedesco di Lu­tero secondo il testo del Dt. Evangel. Kirchenausschuss, Stuttgart 1941. Kant: « L ’insincerità degli uomini come male rad icale»: è la Reflexion 8103 della tarda età kantiana (XIX, p. 646).

12 « Ich musste also das Wissen aufheben, um zum Glauben Platz zu be­kom m en»: Prefazione alla I I ed., B XXX; I I I , p. 19, corsivo di K . (tr. it. Torino, Einaudi, 1957, ρ. 33).

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un’affermazione alla quale non è stata forse data l ’importanza che merita. Essa cade, non dimentichiamolo, nella pagina in cui Kant dice esser suo compito non già quello di distruggere ogni meta­fisica, ma di fondare « una metafisica sistematica secondo la critica della ragione pura », che deve restare « ai posteri come un lasci­to » 13. Evidentemente Kant parla qui non dal punto di vista del- Vintroduzione a, cioè dell’inizio, ma del risultato, cioè a partire dal sistema compiuto. Quel suo inizio, come intenzione, non può che spiegarsi, esser compreso, a partire dalla conclusione. E la conclu­sione, per quanto ci riguarda, è da leggere in quel passo (che do­vrebbe essere altrettanto celebre) che appartiene al Canone della ragione pura, il quale a sua volta è un capitolo della Dottrina trascendentale del metodo·, lungi dall’essere una semplice appendice dell’opera, tale dottrina è appunto « la determinazione delle condi­zioni formali di un sistema completo della ragione pura » 14. Il ce­lebre passo ricordato suona: « Ogni interesse della mia ragione (tanto quello speculativo quanto quello pratico) si concentra nelle tre seguenti domande: 1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa devo fare? 3. Che cosa mi è permesso sperare? » 15.

Seguiamo le dilucidazioni di Kant. La prima domanda, dice, è meramente speculativa, la seconda meramente pratica, la terza pra­tica e teoretica insieme. Ma c’è qualcosa di più nella pagina kantia­na che sembra trascendere lo stesso testo. Se abbiamo esaurito tutte le risposte possibili alla prima domanda, resta il fatto che per quanto riguarda il sapere « è almeno sicuro ed assodato che rispetto

13 « Wenn es also mit einer nach Massgabe der Kritik der reinen Vernunft abgefassten systematischen Metaphysik eben nicht schwer sein kann, der Nach­kommenschaft ein Vermächtniss zu hinterlassen, so ist dies kein für gering zu achtendes Geschenk » : ibid.

14 « Ich verstehe also unter der transscendentalen Methodenlehre die Be­stimmung der formalen Bedingungen eines vollständigen Systems der reinen Vernunft » : B 735-736; I I I , p. 465 (tr. it., p. 710).

15 « Alles Interesse meiner Vernunft (das speculative sowohl, als das prak­tische) vereinigt sich in folgenden drei Fragen: 1. Was kann ich wissen? - 2. Was soll ich thun? - 3. Was darf ich hoffen? » : B 832-833; I I I , p. 522, corsivo di K. (tr. it., p. 785).

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a quei due problemi esso non potrà mai toccarci in sorte » 16. La sfera del fare e dello sperare, che « può {kann) certo appartenere alla ragione pura » {ibid.), non è però trascendentale, bensì morale: ogni sperare, continua Kant, ha di mira la felicità, ed esso può con­cludere che qualcosa come fine e poiché qualche cosa deve {soli) accadere così come il sapere e la legge naturale hanno determinato che qualcosa è poiché qualche cosa accade. Felicità è allora l’appa- gamento di tutte le nostre tendenze, e la legge dei costumi, morale, quella che ha per sola motivazione la dignità, Tesser degni {die Würdigkeit) di essere felici.

Sperare non è, dunque, qui del cuore o del sentimento, ma della ragione — questo è fondamentale — e stabilito su fondamenti in­crollabili solo dalla libertà della scelta ragionevole. L ’uomo può sperare, e secondo la morale deve sperare, e così egli sa che i risul­tati dei suoi atti, l ’effetto delle sue decisioni sul corso del mondo non saranno nulli; e il corso del mondo o è morale o non è: l ’uo­mo ne conosce lo scopo ultimo ma ne ignora la strada. Sia chiaro ancora: lo sperare della ragione non è e non può diventare un fondamento, ma è invece fondato, è continuamente fondato sulla moralità delle massime che ispirano atti concreti. Questo sperare della ragione, che non è dunque un sapere, è un credere, è quella fede della ragione {der Vernunftglaube) della quale Kant fa questio­ne nel capitolo successivo dedicato appunto a Dell’opinare, del sapere e del credere (B 848-59; II I 531-8; tr.it. 797-805, partic. B 857; 537; 804).

Abbiamo così individuato il problema dell 'interesse della ragio­ne. Kant comincia a trattarlo nel cuore della Dialettica trascen­dentale, in un capitolo che ci limitiamo a ricordare: Dell’interesse della ragione in questo suo conflitto·, qui c’è l ’analisi dell’interesse che di fatto il buon senso {jeder Wohlgesinnte) e la ragione com­piuta manifestano per questa dialettica17. Alla fine, invece, si tratta

16 « Wenn es also um Wissen zu thun ist, so ist wenigstens so viel sicher und ausgemacht, dass uns dieses in Ansehung jener zwei Aufgaben niemals zu Theil werden könne » : B 833; I I I , p. 523 (tr. it., pp. 785-6).

17 B 490-504; I I I , pp. 322-330 (tr. it., pp. 520-530). Per la citazione v. B 494; I I I , p. 324 (tr. it., p. 523).

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della comprensione di questo interesse come comprensione dell’uo­mo tutto intero, e l’esposizione completa del concetto avviene, non a caso (e lo si è visto), nel Canone (Sez. I : Dello scopo ultimo dell’uso puro della nostra ragione)·, l’interesse speculativo della ragione per le tre grandi questioni della metafisica (cioè la libertà dell’uomo, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio) è minimo (nur sehr gering), e ne sappiamo il perché dalla Dialettica; ma questi tre problemi « hanno di mira un altro scopo, più remoto, che è quello di imparare che cosa ci sia da fare se la volontà è libera, se c’è un Dio e un mondo futuro... L ’intenzione ultima della natura nella saggia cura che essa si prende di noi nell’organizzazione della nostra ragione si riferisce al fondo soltanto al morale » 18. Perché questo? Per vivere in pace con se stessa, cioè per vivere: « Quale uso possiamo noi fare del nostro intelletto, anche per ciò che con­cerne l’esperienza, se non ci proponiamo dei fini? Ma i fini più elevati sono quelli della moralità, che solo la ragione pura può farci conoscere » 19.

Se si ha l’occhio a quella teoria filosofica della religione che di fatto conclude, non solo temporalmente, il pensiero kantiano,

18 « Diese selber aber haben wiederum ihre entferntere Absicht, nämlich was zu thun sei, wenn der Wille frei, wenn ein G ott und eine künftige Welt ist... so ist die letzte Absicht der weislich uns versorgenden N atur bei der Einrichtung unserer Vernunft eigentlich nur aufs Moralische gestellt » : B 828-9; I I I , p. 520 (tr. it., p. 782). Salvo indicazione contraria, i corsivi sono di K .

19 « Was können wir für ein Gebrauch von unserem Verstände machen selbst in Ansehung der Erfahrung, wenn wir uns nicht Zwecke vorsetzen? Die höchste Zwecke aber sind die der Moralität, und diese kann uns nur reine Vernunft zu erkennen geben » : B 844; I I I , p. 529 (tr. it., p. 794) — e la citazione cade di nuovo nel capitolo, sempre del Canone, Sull’ideale del sommo bene come fondamento determinante del fine ultimo della ragione pura, dal quale avevamo iniziato. Importante M. G u é r o u l t , Canon de la raison pure et Critique de la Raisons pr., in « Rev. Intern. Philos. », 8, 1954, n. 30, pp. 331- 357, che però oppone il Canone alla Critica rag. pratica. Seguiamo, invece, G . K r ü g e r , Philos. u. Moral i.d. Kant. Kritik, Tübingen, Mohr, 1931, Cap. I l i (che è il « precedente » di Weil: cfr. recensione in appendice tr. it. cit. di Problèmes kantiens).

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questi passi appaiono fra i più « nuovi » (e meno studiati, forse) dell’intera storia della filosofia. Cerchiamo di renderli più espliciti, e procediamo, a) La fede: è l ’adesione data dalla ragione pratica, la ragione dell’essere ragionevole e finito70, a ciò che la ragione speculativa ha dimostrato essere capace di pensare senza contraddi­zione interna, un’adesione dunque che la ragione dà con cognizione di causa, b) La morale, il più alto scopo: la vita non avrebbe dignità, non avrebbe senso e valore, non sarebbe umana senza una regola morale assoluta, senza la possibilità di pensare un mondo nel quale non sia insensato obbedire alla legge morale e tendere verso questo scopo, lo scopo. La sua necessità è soggettiva, ma non ha nulla di « soggettivistico » a differenza di quanto volle credere Hegel attaccando Kant per il suo finitismo e soggettivismo (ma di ciò più avanti): è lo stesso problema dell’uso legittimo e necessario delle categorie pure, ma configurato alla fine, là dove il sistema si compie e perviene al suo intero e fondamento21. c) L ’unità dell’« in­teresse » puramente e universalmente umano: l ’oggetto, lo scopo e il senso della Critica ripensata da Kant nella Prefazione 1787 — una filosofia che si libera dal « monopolio delle scuole » (lo specu­lativo) e dalle loro « arroganti pretese » per porre a suo tema « l ’interesse degli uòmini », le convinzioni del « pubblico », « della gran massa degli uomini per noi degnissima di considerazione » : quella « faccenda universalmente umana » che è la morale e la vita morale22, d) Infine, La « Critica » come (o per una) teologia morale:

20 Va continuamente sottolineata questa immagine dell’uomo; « ragione vole e finito » (corsivo nostro) è una definizione: Critica d. r. pratica, parte I. cap. I , § 3, scolio 2: V 25 (tr. it., Bari, Laterza, 19476, p. 29).

21 « Diese Nothwendigkeit ist subjectiv, ... sie ist schlechthin und fin jedermann zureichend, wenn ich gewiss weiss, dass niemand andere Bedingun­gen kennen könne, die auf den Vorgesetzten Zweck führen » : B 851-2; III . pp. 533-4 (tr. it., p. 800).

22 « D as Monopol der Schulen », « die arroganten Ansprüche der Schulen ». « das Publicum », « das Interesse der Menschen », « die allgemeine menschliche Angelegenheit », « die grosse (für uns achtungswürdigste) Menge » : B XXXII· X X X III; I I I , pp. 19-20 (tr. it., pp. 34-35). Cfr. E . W e i l , Problèmes kantiens, cit., pp. 23, 34-35 e nota 15 (tr. it., pp. 27-28, 36-38, 58): è la stessa posizione

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« Questa teologia morale ha ora il vantaggio peculiare sulla teolo­gia speculativa che essa conduce inevitabilmente al concetto di un essere originario unico, massimamente perfetto e ragionevole » 23 : schematizzando al massimo, e rovesciando il ragionamento kantia­no, possiamo dire: perché vi sia un Dio, bisogna che esso sia inco­noscibile e che io sia libero, responsabile.

1.2. - L ’antropologia filosofica come unità (possibile), fonda­mento, di morale e religione. — « Risulta così che il fondamento ultimo della filosofia kantiana deve essere ricercato nella sua teoria dell’uomo, nell’antropologia filosofica... Ma Kant non fa di questo fondamento del suo pensiero l’oggetto della sua riflessione, non lo tematizza. Le linee essenziali ne sono tuttavia visibili: finitezza e universalità (più esattamente: universabilità, perché l ’universalità è una potenza, in potenza, in ogni uomo...), desiderio di felicità e volontà di una felicità proporzionata ai meriti dell’essere ragione­vole nell’essere animale — ecco ciò che costituisce l’uomo nella sua umanità: Dio è bisogno ultimo e primo di un tale essere che non potrebbe vivere senza credere in un senso — non già vederlo— della propria esistenza e sapersi giustificato nel crederlo, un senso che solo un essere che ha tutti gli attributi tradizionali della divini­tà può promettergli (o può consentirgli di promettersi). Solo la di­mostrazione morale dell’esistenza di Dio è valida, essa sola può esserlo; infatti, essa sola è fondata sul fondamento stesso dell’uma- nità dell’uomo » 24.

della dichiarazione contro Fichte del 1799, e Weil la proietta, intera, nella sua lettura della Critica del giudizio: op. cit., cap. I I .

23 « Diese M oraltheologie hat nun den eigenthümlichen Vorzug vor der speculativen, dass sie unausbleiblich auf den Begriff eines einigen, allervoll­kommensten und vernünftigen Urwesens führt... » : B 842; I I I , p. 528 (tr. it., p. 793); segue un’importante, ulteriore determinazione: questa unità sistema­tica dei fini (secondo leggi morali) conduce anche all’unità finalistica di tutte le cose che formano questo gran tutto (secondo le leggi della natura) — per cui v. la nota precedente. Sulla centralità della problematica analizzata fin qui nella kantiana filosofia della religione ha insistito anche J.-L. B r u c h , La philosophie religieuse de Κ ., Paris, Aubier, 1968, per es. p. 80.

24 E . W e i l , Problèmes kantiens, cit., p. 33 (tr. it., p. 36). Quanto a

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Fino a che punto si può sostenere che Kant non pone come tema della sua riflessione quel fondamento antropologico? L ’affer­mazione lascia perplessi. Il testo della Critica che abbiamo discusso intorno all’interesse della ragione concentrato sulle tre ben note questioni ha un passo parallelo in altra opera, di mano non kantia­na, ma da Kant autorizzata, che presenta una variante estremamente significativa: « La filosofia è la scienza del rapporto di ogni cono­scenza e di ogni uso della ragione allo scopo finale della ragione umana, al quale tutti gli altri scopi sono subordinati come al più alto e nel quale si debbono unificare. Il campo della filosofia in que­sta significazione cosmopolita [cioè mondana: che ha a che fare col mondo e non con le scuole] si può ridurre alle seguenti questioni:1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è lecito sperare? 4. Che cosa è l ’uomo? — Alla prima questione risponde la metafisica, alla seconda la morale, alla terza la religione e alla quarta l’antropologia. Tutto questo, in fondo, si potrebbe ricondurre all’antropologia, poiché le prime tre questioni si riferi­scono alla quarta » 25. In parentesi abbiamo cercato di rendere

« universabilità » si ricordi l ’uomo come « animai rationabile » àeìYAntropo­logia prammatica, parte I I , E : Il carattere della specie: V II , p. 321 (tr. it. Torino, Paravia, 1921, p. 253); quanto a « universalità come potenza » l ’autore rinvia al Frammento di un catechismo morale, in Metafisica dei costumi, parte I I , § 52. M a v. (fondamentale per il presente paragrafo: critica, morale, antropologia) G . K r ü g e r , Philos. u. M ord, cit. nota 19, partic. 37-43.

25 « Denn Philosophie in der letztem Bedeutung ist ja die Wissenschaft der Beziehung alles Erkenntnisses und Vernunftgebrauchs auf den Endzweck der menschlichen Vernunft, dem, als dem obersten, alle ändern Zwecke subor­d in i« sind und sich in ihm zur Einheit vereinigen müssen. Das Feld der Philosophie in dieser weltbürgerlichen Bedeutung lässt sich auf folgende Fragen bringen: 1) Was kann ich wissen? - 2) Was soll ich thun? - 3) Was darf ich hoffen? - 4) Was ist der Mensch? - Die erste Frage beantwortet die Metaphysik, die zweite die Moral, die dritte die Religion und die vierte die Anthropologie. Im Grunde könnte man aber alles dieses zur Anthropologie rechnen, weil sich die drei ersten Fragen auf die letzte beziehen » : Logik (Jäsche), IX , p. 24-25 (tr. it. in Che cosa significa orientarsi nel pensare, Lan­ciano, Carabba, 19752, p. 128). Che il piano di lavoro contenuto nel testo della Logik debba ritenersi autentico, lo dimostra la lettera a Stäudlin (di ac-

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weltbürgerlich, che ha in Kant un significato netto (come risulta anche dal noto saggio dell” 84). Kant riprende qui, e a nostro avviso amplia, lo stesso contesto che abbiamo illustrato chiudendo il paragrafo precedente. Infatti, nel passo che precede immedia­tamente la nostra citazione, Kant distingue il concetto scolastico di filosofia (der Schulbegriff) che bada all’abilità (die Geschicklich­keit), come il filodosso (der Philodox) di cui parla Socrate, che aspira ad un sapere meramente speculativo {...strebt bloss nach spe- culativem Wissen) — da quello (kantiano) che si occupa dell’uomo- nel-mondo, der Weltbegriff {in sensu cosmico), che bada anche all’utilità {die Nützlichkeit), una scienza così delle più alte massime dell’uso della nostra ragione in quanto sotto tali massime si com­prende il principio interiore della scelta tra differenti scopi

C’è allora qui una differenza fondamentale fra le prime tre que­stioni e l’ultima: « Le prime, infatti, sono espresse e poste dram­maticamente in questione da me, poste, cioè, in funzione del mio destino individuale; la quarta, invece, è formulata oggettivamente »: le prime tre domande possono considerarsi affermazioni di me, inevitabili, per chi ha voluto porsi il problema del senso e del proprio senso e, dunque, ha scelto in favore della libertà e di una vita autentica. L ’ultima domanda, invece, che non presuppone scelta da parte del soggetto, « ricerca anche, con il risultato delle questio­ni precedenti, la struttura indifferenziata (e perciò oggettiva) del­l’uomo » 27. Almeno su tale piano (anche se limitatamente ad esso)

compagnamento di un esemplare della Religione) del 4 maggio 1793 (XI, p. 414), che lo riporta di fatto integralmente. E vedilo anche nella cosiddetta Metaphysik Pölitz, ora in X X V III 2, 1: pp. 533-534.

L a traduzione da noi riportata è di A. Massolo: si legge nella N ota in­troduttiva alla sua traduzione di Sull’insuccesso di ogni tentativo di teodicea, in « S tu d i U rb inati», n.s. B , 29, 1955, η. 1, pp. 5-6. Citeremo ancora questa breve, importante, nota e la traduzione del saggio kantiano.

26 Riporto nell’originale solo le ultime righe del passo che ho parafrasato: « ... eine Wissenschaft von der höchsten Maxime des Gebrauchs unserer Ver­nunft... sofern man unter Maxime das innere Princip der Wahl unter verschie­denen Zwecken versteht » : Logik, IX , p. 24.

27 A. M a s s o l o , Nota, cit., p. 6.

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Kant ha riflettuto sul fondamento antropologico del suo filosofare: certo, non ha rifondato a partire di qui il proprio sistema, una volta messa definitivamente in crisi la e ogni filosofia dell’essere28.

1.3 - Giobbe: coscienza religiosa e coscienza morale. — Senza sollecitare ulteriormente questa interpretazione della filosofia kan­tiana cerchiamo di rendere più esplicito il nostro filo conduttore: esso ci ha fatto da guida nella rilettura degli scritti kantiani della tarda maturità dedicati alla filosofia della religione, non a caso immediatamente posteriori alla terza Critica·, il saggio sulla teodicea (1791), quello sul male radicale (1792), che diventa la prima parte della Religione (1793): ripubblicata con aggiunte l ’anno successivo, l ’opera viene ripresa in un diverso contesto sia nel saggio La fine di tutte le cose (1794) sia in quel Conflitto delle facoltà (1798) che doveva di fatto chiudere l’attività pubblica del pensatore. In fondo, si attende ancora chi voglia ripensare la filosofia kantiana a partire da questo gigantesco complesso di scritti e di risu ltatiP renderem o in considerazione il saggio sulla teodicea come un fuoco o se si vuole un punto di fuga rispetto agli altri lavori citati, e lasciamo sullo sfondo il problema della filosofia e della filosofia della religio­ne kantiane come antropologia filosofica.

C’è un’osservazione preliminare. Può sembrare una formula, ma la si accolga ugualmente come tale. Nel saggio in questione Dio non è al centro: « al centro è l ’uomo che discute di Dio. Si tenga, anche, presente la critica e la denuncia del mito del buon selvaggio, e si cerchi di collegare questa denuncia con la grande tesi che è alla radice nell’intero filosofare kantiano, dell’uomo come ente esposto al nulla dell’illusione [trascendentale]... Si tratta della distinzio­ne tra coscienza morale e coscienza naturale, distinzione, si badi,

28 E . W e i l , Problèmes kantiens, cit., p. 105 (tr. it., pp. 106-107): Kant presenta di fatto una filosofia del senso senza parlarne il linguaggio.

29 II solo tentativo recente (a nostra conoscenza), di estremo interesse (come cerchiamo qui di mostrare, facendolo nostro), è quello dei Problèmes kantiens di Weil, partic. cap. IV : Il male radicale, la religione e la morale (pubblicato solo nella I I ed., 1970).

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che non sempre hanno presente gli stessi lettori della Critica » 30. Si può, allora, avanzare l ’ipotesi che il saggio sulla teodicea sta alla Religione nei limiti della semplice ragione31 come la Critica della ragione pura sta all’intero sistema. Nella Critica (in parte lo abbia­mo visto) la ragione discute la propria pensabilità, e scopre che, dal punto di vista conoscitivo, questa pensabilità è un nulla. Ma scopre anche, in questo nulla, il proprio interesse morale fondamentale, quel sapere non determinato e non determinante di Dio, dell’anima e dell’immortalità: è il primato della ragione pratica come è esposto nel capitolo della seconda Critica che reca questo titolo.

Nel saggio sulla teodicea c’è l ’uomo che discute di Dio — e Giobbe che discute, che vuol discutere con Dio: questo avviene tematicamente solo che si rifletta sull’attacco del saggio: « Per teo­dicea si intende la difesa della somma saggezza del creatore dell’uni­verso, contro le accuse che le vengono mosse dalla ragione sull’as­surdo corso del mondo. Questo si chiama sostenere la causa di Dio... » 32. E Giobbe: « Io dirò a Dio: Non mi condannare! Fammi sapere perché contendi meco »; « Ma io vorrei parlare con l ’Onni- potente, avrei caro di ragionar con Dio » (10,2 e 1 3 ,3 )33. Per Kant è di nuovo la ragione che « disconosce presuntuosamente i suoi limiti »: essa deve poter riconoscere che « per noi è raggiungibile

30 A. M a s s o l o , ibid.31 Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft·. Kant fu in

dubbio fra « innerhalb » e « aus » : cfr. tr. it. Universale Laterza 1980 (revi­sione tr. A. Poggi), l ’introduzione di M. M. Olivetti, che riferisce la questione e riporta un’interessante pagina kantiana del Nachlass (X X III, p . 93), ρ. XXI.

32 « Unter einer Theodicee versteht man die Vertheidigung der höchsten Weisheit des Welturhebers gegen die Anklage, welche die Vernunft aus dem Zweckwidrigen in der W elt gegen jene erhebt. Man nennt dieses, die Sache Gottes verfechten » : V II I , p. 255 (tr. it., cit. nota 25 in fondo, p. 6).

33 Seguo la versione di G . Luzzi, a cura delle Società Bibliche Riunite, 1943, e la confronto con il testo di Lutero, cit. nota 11. La Bibbia usata da Kant (tr. Lutero, Basilea 1751) è stata ritrovata: annotazioni e sottolineature sono state pubblicate (XIX, pp. 651-654), e tradotte in I. M a n c in i , K. e la teologia, cit. in Bibliografia, pp. 232-237: non ci sono riferimenti al libro di G iobbe. D i qualche utilità D. K a i s e r , Kants Anweisung zur Auslegung der Bibel, in Glaube G eist Geschichte (Festschrift E . Benz), Leiden, Brill, 1976.

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una saggezza negativa e propriamente l ’intendimento dell’insupera­bile limite di ogni nostra pretesa su ciò che è per noi troppo in alto » 34. E Giobbe: « . . . sono cose per me troppo maravigliose edio non le conosco... Il mio orecchio aveva sentito parlare di te » (42, 3 e 5).

Tanto in alto, in questo caso, che Kant ritiene di dover esem­plificare l ’interpretazione autentica della volontà di un legislatore (qui il legislatore supremo) illustrando appunto il libro di Giobbe, la sua volontà di discutere con l’Onnipotente, direttamente, e indi­rettamente attraverso il dialogo con i suoi amici, che sostengono in sostanza la tesi della retribuzione terrena: « ... ma tu, se ricorri a Dio e implori grazia dalPOnnipotente, se proprio sei puro e inte­gro, certo egli sorgerà in tuo favore, e restaurerà la dimora della tua giustizia » (8, 5-6).

Giobbe è il giusto: « ...parla come pensa, come sente e come sentirebbe al suo posto ogni uomo; i suoi amici, invece, parlano come se essi in segreto fossero ascoltati dall’Onnipotente ». E in questo giusto, che « si dichiara per il sistema àél'incondizionatezza del decreto divino » (« Volete difendere Dio?... Innanzi a lui nes­sun ipocrita si può presentare»: 13, 7 e 16; «E g li è unico e fa quello che vuole »: 23, 13) 35, Kant vede anche, e vuol farci vedere, la coscienza religiosa nella sua genesi e nella sua struttura morale: « Dio onora Giobbe con il porgli dinanzi agli occhi la saggezza della sua creazione, soprattutto negli aspetti più impenetrabili ». Con tono alto, solenne quasi, Kant commenta i due interventi di Dio

34 « ... Die Sache unserer anmassenden, hiebei aber ihre Schranken ver­kennenden Vernunft... D ass also wenigstens eine negative Weisheit, nämlich die Einsicht der nothwendigen Beschränkung unserer Anmassungen in Ansehung dessen, was uns zu hoch ist, für uns erreichbar sei... »: V III , p. 255 e p. 263 (tr. it., p. 6 e p. 14).

35 « H iob spricht wie er denkt, und wie ihm zu Muthe ist, auch wohl jedem Menschen in seiner Lage zu Muthe sein würde; seine Freunde sprechen dagegen, wie wenn sie ingeheim von dem Mächtigem... behorcht w ürden »; « H iob dagegen... erklärt sich für das System des unbedingten göttlichen Rathschlusses. ‘ Er ist einig — sagt er — er machts, wie er will ’ » : V III , p. 265 (tr. it., p. 16). Anche l ’altra citazione biblica è nel testo, p. 266 (17).

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secondo il testo biblico. Essi pongono in luce la saggezza e la bontà del creatore, ma altresì la sua terrificante potenza, che può apparire discordante con la sua saggia bontà: « . . . prove evidenti dell’organiz- zazione e della conservazione dell’universo, prove che rivelano un creatore saggio, benché nello stesso tempo le sue vie, a noi già impe­netrabili persino nell’ordine fisico delle cose, debbano a ragione esser celate nel loro rapporto con l ’ordine morale (che è ancor più impenetrabile alla nostra ragione) » 36. Dice, infatti, dal turbine il Dio di Giobbe: « Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?... Vuoi tu proprio annullare il mio giudizio? Con­dannare me per giustificare se stesso? » (38,2 e 40,8).

Alla fine Kant conclude osservando che la fede nata a Giobbe « da un così straordinario scioglimento dei suoi dubbi, cioè sempli­cemente dalla convinzione della sua ignoranza » è la prova « che non la sua moralità si fondava sulla fede, ma la fede sulla mora­lità » — quella sola fede che, per debole che essa sia, « fonda una religione non dell’interesse, ma della buona condotta » 37. Nel lin­guaggio della religione e de La religione (« la conoscenza di tutti i nostri doveri come comandi divini»): « ...è la stessa cosa se iö prendo inizio da una tale fede in quanto fede della ragione o dal principio della buona condotta ». Infatti, « La coscienza morale è una consapevolezza (conoscenza) che di per se stessa è un dovere » 38.

36 « Denn G ott würdigt H iob, ihm die Weisheit seiner Schöpfung vor­nehmlich von Seiten ihrer Unerforschlichkeit vor Augen zu stellen » ; « ... wo­bei er aber doch die den weisen Welturheber verkündigende Anordnung und Erhaltung des Ganzen beweiset, obzwar zugleich seine für uns unerforschliche Wege selbst schon in der physischen Ordnung der Dinge, wie vielmehr denn in der Verknüpfung derselben mit der moralischen (die unserer Vernunft noch undurchdringlicher ist) verborgen sein müssen » : V II I , p. 266 (tr. it., p . 17).

37 « Der Glauben aber, der ihm durch eine so befremdliche Auflösung seiner Zweifel, nämlich bloss die Überführung von seiner Unwissenheit, entsprang... » ; « Denn mit dieser Gesinnung bewies er, dass er nicht seine Moralität auf den Glauben, sondern den Glauben auf die Moralität gründete... welche eine Religion nicht der Gunstbewerbung, sondern des guten Lebens­wandels grün det»: V III , p. 267 (tr. it., p. 18).

38 « Religion ist... das Erkenntniss aller unserer Pflichten als göttlicher G e b o te » : Die Religion..., V I, p. 153, inizio parte IV (tr. it. cit. nota 31,

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Ma c’è ancora una più esplicita Conclusione kantiana del saggio sulla teodicea: la necessaria connessione di fede e lealtà, sincerità (die Aufrichtigkeit), « in contrasto con la tendenza alla falsità e insince­rità, che è vizio principale della natura umana » 39, della stessa ra­gione dell’uomo « per natura infingarda nel lavoro morale »: ad essa « non basta una riforma graduale finché rimane impuro il fonda­mento delle massime, ma è necessaria una rivoluzione nell’inten­zione... un passaggio alla massima della santità dell’intenzione » Giobbe: « Chi può trarre una cosa pura da una impura?... mi sono tenuto sulla sua via senza deviare... » (14,4 e 23,11).

Sono questi, schematicamente delineati, i temi sui quali Kant costruisce la contemporanea Religione nei limiti della semplice ra­gione·. il male radicale e la sua « per noi impenetrabile origine razionale » 41 ; il principio buono e la rivoluzione dell’intenzione; la

p. 168); « ... und also einerlei, ob ich von ihm, als rationalem Glauben, oder vom Princip des guten Lebenswandels anfange » : V I, p. 119, parte I I I , sez. I,7 (tr. it., p . 130); « D as Gewissen ist ein Bewusstsein, das für sich selbst Pflicht ist » : V I, p. 185, ultimo paragrafo dell’opera (tr. it., p. 206).

39 « ... Im Widerstreite mit dem Hange zur Falschheit und Unlauterkeit, als dem Hauptgebrechen in der menschlichen Natur » : V II I , p. 267 (tr. it., p. 18).

40 « ... die zur moralischen Bearbeitung von N atur verdrossene Vernunft »; « . . . das kann nicht durch allmählige Reform, so lange die Grundlage der Maxi­men unlauter bleibt, sondern muss durch eine Revolution in der Gesinnung im Menschen (einen Übergang zur Maxime der Heiligkeit derselben) bewirkt w erden »: V I, p. 51 e p. 47, parte I , Annotazione generale (tr. it., p. 55 e p. 51). «R iv o lu z ion e» morale, dell’intenzione o nell’intenzione: l ’uso di queste espressioni è frequente in quest’opera e non a caso, come nota Weil, Problèmes kantiens, cit., p. 170 nota 32 (tr. it., p. 173 e p. 181), che raccoglie una serie di passi. « Intenzione » per Gesinnung·, è comune ma non è proprio: meglio, secondo il contesto, convinzione, attitudine (fondamentale), totalità delle con­vinzioni (vissute); « intenzione prima in quanto principio soggettivo delle m assim e»; V I, p. 37 (tr. it., p. 38), nella parte I, 3, poi cfr. Weil, passim.

41 « D er Vernunftursprung aber dieser Verstimmung unserer W illkür in Ansehung der Art, subordinirte Triebfedern zu oberst in ihre Maximen auf­zunehmen, d.i. dieses Hanges zum Bösen bleibt uns unerforschlich... » : V I, p. 43, parte I , 4 (tr. it., p . 45).

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fede ecclesiastica e il suo superamento nella fede della ragione; i misteri della ragione, che ne confermano qui i limiti, ma ne pro­muovono altresì un eccezionale ampliamento nell’uso pratico42; in­fine, l ’idea di una repubblica morale stabilita in rapporto con la religione cristiana come religione naturale: la sua « maniera di pen­sare liberale » 43 lascia presumere che « la sincerità delle credenze [anche] nell’opinione pubblica sarà raggiunta in tempi più lontani, fino a divenire eventualmente, in un regime di libertà di pensiero, un principio generale di educazione e di insegnamento » 44. L 'epoca attuale sembra essere un buon presupposto45.

Kant coglie in Giobbe la mediazione di questo generale inten­dimento: 1’« uomo nuovo » che « sa morire al vecchio uomo », per la « sua semplice dirittura e schiettezza nel modo di pensare », il « coraggio di stare sui propri piedi » 46, la sua capacità di resistere nella sincerità della sua intenzione; essa sola rende possibile muta­menti e trasformazioni interni ed esterni — e la comunità e la storia sono morali, cioè sono, nel linguaggio di Kant, politica e storia senza aggettivi, dotate di senso per noi (Kant sviluppa altrove questo tema, ma anche la Religione ne è percorsa, com’è ben noto). Questa figura biblica, non citata, è presente più che mai nella

42 Cfr. in particolare l ’Annotazione generale alla parte I I I .43 « D ie liberale Denkungsart », in D as Ende aller Dinge·. V III , ρ . 338.44 « Während indess - diese öffentliche Läuterung der Denkungsart wahr­

scheinlicher Weise auf entfernte Zeiten ausgesetzt bleibt, bis sie vielleicht einmal unter dem Schutze der Denkfreiheit ein allgemeines Erziehungs- und Lehrprincip werden wird... » : V II I , p. 269 (tr. it., p. 20).

45 Tema fondamentale in Kant (Aufklärung come accrescimento dei lumi), anche nella Religione: V I, p. 131, nella parte I I I , sez. I I (tr. it., p. 145).

46 «U om o n u ov o »: v. le citazioni di K. dal N .T ., V I, p. 74 e nota (chiara allusione a Giobbe, non citato) (tr. it., pp. 79-80). Poi: « da doch die Ehrlichkeit, eine blosse Einfalt und Geradheit der Denkungsart (vornehmlich wenn man ihr die Offenherzigkeit erlässt)... » : V III , pp. 269-70 (tr. it., p . 20); « Dieser Muth, auf eigenen Füssen zu stehen... » : V I, p. 183 nella parte IV , sez. I I , 3 alla fine (tr. it., p. 204, ma la traduzione è pallida). L a figura del G iobbe kantiano in questo contesto è studiata solo (a mia conoscenza) da F r . L ö t s c h , Vernunft und Religion..., cit. Bibliografia, pp. 115-116, 205.

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Religione. Kant chiude il testo con la citazione di S. Marco: « Cre­do, Signore, aiuta la mia incredulità » (IX 24), e nella II ed. ag­giunge in nota l ’apoteosi della sincerità come forza morale; egli riprende e ripete (se non forziamo troppo i testi) la risposta di Giobbe all’Eterno: « Io mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non riprenderò la parola, due volte... ma non conti­nuerò » (40, 4-5). Certo, è almeno qui racchiuso ciò che intende Kant per continuità fra l ’Antico e il Nuovo testamento.

Il silenzio di Giobbe, i limiti della ragione, i fini « incrollabil­mente stabiliti » della fede morale, cioè ragionevole47.

« A questo punto il rapporto Dio-uomo si rovescia. L ’uomo è creatura, completamente dipendente quanto a tutte le sue determi­nazioni e se, benché creatura, è libero in quanto ragione-volontà, egli è solo immagine. Ora, è proprio questo che permette all’uomo di parlare di Dio invece di proiettarlo in un sapere vuoto, un non­sapere dotto... imago dei... a partire dall’idea di Dio si è formata per riduzione e diminuzione l’idea dell’uomo. Dio non è antropo­m orfo— niente sembrava a Kant più scandaloso dell’antropomor­fismo teologico: l ’uomo è teomorfo; cioè: egli si comprende sol­tanto come creatura e copia, come ragione ectipa, non archetipa, si comprende a partire dal suo originale, dalla sua origine ». Infatti, solo così la ragione può comprendersi come ectipa (e quindi cono­scere) — in quanto può pensare, pensa se stessa come archetipa48.

Questo significa: « orientarsi nel pensare »: « Una pura fede della ragione è, dunque, la guida o la bussola grazie alla quale il

47 « D er Zweck ist hier unumgänglich festgestellt... » : Crìtica 1787 (Ca­none·. sez. I I I , D ell’opinare...): B 856; I I I , p. 536 (tr. it., p. 803).

48 E . W e i l , Problèmes kantiens, cit., pp. 47, 43, 30 (e cfr. 101 per la Critica del Giudizio) (tr. it., pp. 47, 44, 33-34, cfr. 102-103). Su questa tesi v. P . F r u c h o n , « Problèmes kant. ». Pour une théologie naturelle, in « Ar- chives d. philos. », 34, 1971, 177-206. Ectipo e archetipo sono definizioni per l ’intelletto: v. Critica del giudizio, § 77, e già la lettera a Herz, 21 febbraio 1772 (X, p. 130, I I ed.). Ma vedi la « gesetzgebende Vernunft (intellectus archetypus) » , inscindibilmente connessa con l ’idea di « unità sistematica... unità conforme a un fin e» : Critica 1787: B 722-3; I I I , pp. 456-7 (tr. it., p. 698).

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pensatore speculativo può orientarsi durante le escursioni della sua ragione nel campo degli oggetti soprasensibili, e anche l’uomo co­mune, purché dotato di una ragione (moralmente) sana, può trac­ciare così il suo cammino, tanto nel divisamento teoretico quanto in quello pratico, in modo del tutto adeguato all’intero scopo della sua destina2ione [del suo fine]. E questa fede della ragione è anche ciò che deve esser posto a fondamento di ogni altra fede, e altresì di ogni rivelazione » 49.

2. La religione come sapere in Hegel: gli amici di Giobbe.

Ist das aber alles, wird man sagen, was reine Vernunft ausrichtet, indem sie über die Grenzen der Erfahrung hinaus Aussichten eröffnet? nichts mehr als zwei Glaubensartikel?

K ant

und zuletzt hat die sogenannte kritische Philo­sophie diesem Nichtwissen des Ewigen und Gött­lichen ein gutes Gewissen gemacht.

H e g e l 50

2.1. - Fede e sapere: Hegel su Kant. — La filosofia della reli­gione e la teoria filosofica della religione hegeliane hanno dato luogo, fin dagli immediati scolari — vivente Hegel — e dai contem­

49 « Ein reiner Vemunftglaube ist also der Wegweiser oder Compass, wodurch der speculative Denker sich auf seinen Vernunftstreifereien im Felde übersinnlicher Gegenstände orientiren, der Mensch von gemeiner, doch (mo­ralisch) gesunder Vernunft aber seinen W eg sowohl in theoretischer als prak­tischer Absicht dem ganzen Zwecke seiner Bestimmung völlig angemessen vor­zeichnen kann; und dieser Vernunftglaube ist es auch, der jedem anderen Glauben, ja jeder Offenbarung zum Grunde gelegt werden muss » : Was heisst: Sich im Denken orientiren?: V III , p. 142 (cfr. tr. it. cit. nota 25, pp. 101-102).

50 « Ma è tutto qui, si dirà, il risultato della ragione pura, mentre essa apre nuove prospettive al di là dei limiti dell'esperienza? N ient’altro che due articoli di fede? » : Critica 1787, alla fine del Canone: B 858; I I I , p. 537 (tr. it., ρ. 805); Kant continua dicendo che il miglior risultato della più alta filosofia è quello cui porta la guida che la natura ha concesso persino all’in-

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poranei, ad una letteratura filosofica, teologica e storica (e non da ultimo filologica: si pensi alle vicende delle Vorlesungen dal Lasson a Ilting) talmente vasta, e per qualche aspetto sovrabbondante, che chi si accinge a stendere un breve studio su questo argomento ha una ragione in più — rispetto a quanto abbiamo detto nella nota introduttiva — per imporsi limiti strettissimi (e per ciò stesso arbitrari). Inoltre, a differenza di quanto è avvenuto con Kant, la filosofia hegeliana nel suo intero è stata largamente coinvolta in di­spute teologiche (politico-teologiche, che poi, oggettivamente, è la stessa cosa), e più e più volte interpretata come un pensiero reli­gioso o addirittura teologico — e lo stesso Hegel ne porta non poche responsabilità: in un tardo scritto, proprio in relazione al concetto di Dio, definisce la propria dottrina « teistica » 51. È evi­dente, non possiamo intraprendere questo cammino.

D ’altra parte in relazione a Kant e alla sua età non si può non notare uno spostamento di interessi, di dimensioni e di piani della ricerca magistralmente illustrati dal Banfi: « la religione sta din­nanzi al suo pensiero non come un’esperienza personale da inverare, né come una serie di problemi da risolvere, ma come una effettiva realtà spirituale, ricca di forme e di direzioni che nella sua evolu­zione storica si connette con le altre forme della cultura. Sotto questo aspetto egli inizia veramente una nuova attitudine del pen­siero verso la religione, né mai prima di lui alcuno ebbe ugual senso

teUetto comune. Traduco la citazione hegeliana in un più ampio contesto: « In altri tempi la disperazione della ragione era accompagnata da dolore e tristezza, ma si vide presto l ’indifferenza morale e religiosa, e poi un sapere superficiale e volgare, che si chiamava Aufklärung, riconoscere francamente l ’impotenza della ragione e mettere il suo orgoglio nell’oblio totale degli inte­ressi più elevati; ai giorni nostri la cosiddetta filosofia critica è venuta a dare una buona coscienza a questo non-sapere dell’eterno e del divino, ed essa assi­cura di aver dimostrato che dell’eterno e del divino non possiamo sapere nulla » — e conclude che mai in Germania si era visto un tale abbandono della conoscenza razionale e tanta arroganza filosofica: Prolusione berlinese,22 ottobre 1818, in Berliner Schriften, hrsgg. J . Hoffmeister, Hamburg 1956, ρ. 7.

51 Ree. di C h r . E. K o l l m a n n , Über die hegelsche Lehre..., in Berliner Schriften, cit., p . 362.

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della complessa struttura della vita religiosa... » 52. Non possiamo che rinviare a questo ordine di studi chi desideri far luce nel fitto reticolo di questa problematica hegeliana, della sua storia come storia delle idee.

Resta il rapporto, meglio: il confronto, di Hegel con Kant. Un terreno, addirittura un territorio ricchissimo che non ha mancato di produrre una letteratura non inferiore a quella generale sui due autori (cfr. sopra Bibliografia e nota 4). Ritaglieremo quel settore che consente di mettere semplicemente a fuoco il rapporto-confronto relativamente ai temi che abbiamo illustrato in Kant (ripetendo qui la riserva che ci limiteremo ai testi pubblicati da Hegel, con l ’ecce­zione del Vorlesungsmanuskript 1821 — cfr. nota 6 — Conside­rato che su questo tema non abbiamo ampie trattazioni sistema­tiche autografe). Tuttavia, nonostante quest’ultima, estrema, limi­tazione la ricerca rimane irta di difficoltà, un percorso difficil­mente praticabile.

È certo, non si tratta mai di un dialogo diretto di Hegel con Kant (se non, forse, nella giovanile Vita di Gesù·, con queste pa­gine però sembrano spegnersi gli entusiasmi kantiani di Hegel)53. Ma per l’appunto di un confronto, e di un confronto per interposta persona — un pensatore di tutto rispetto: Jacobi. « La ragione storica sembra essere che la sua conoscenza degli scritti kantiani era limitata, che ha letto Kant attraverso Fichte e, in modo del tutto particolare, attraverso Jacobi, e così si è ingannato sul pensiero kan­tiano al punto da non attaccare l ’avversario, secondo una sua regola, nei punti forti (è vero che, se li avesse visti, probabilmente non

52 A. B a n f i , L a filosofia della religione in H . (1931), ora in Incontro con Hegel, Urbino, Argalia, 1965, p. 185.

53 Così A. M a s s o l o , Prime ricerche di H . (1959), ora in La storia della filosofia..., cit., pp. 61-62, 70, 73. Hegel legge e riflette proprio sulla Religione, e ne scrive a Schelling nella sua prima lettera all’amico, 24 dicembre 1794. L ’opera kantiana sarà poi solo citata (una volta) nelle Lezioni sulla storia della filosofia: Werke (a cura degli scolari), I ed., XV (1836), p. 588 (tr. it. Fi­renze, La nuova Italia, 19733, I I I 2, p. 318). Ora v. H . K ü n g , Incarnazione..., cit., pp. 102-120, acuto ed esauriente.

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avrebbe voluto attaccare) » 54. È un’indicazione che si è rivelata utile. Per tutta la sua vita (pubblica) Hegel non cessa di prendere, e con durezza, le distanze da Kant — salvo poi a passare, oggettivamente (nella storiografia filosofica, che è problema, in sé e per noi), o per suo successore o per un traditore della buona causa.

L ’argomento, come si vede, tende a spostare i limiti che ci siamo imposti. Anche così determinato, è degno di un capitolo fra i più affascinanti della storia della filosofia e della cultura. Prendiamo le mosse dalla citazione che riteniamo fondamentale. Enciclopedia, § 554: Hegel definisce la religione, e aggiunge: « così questa sfera altissima [lo spirito assoluto] può essere designata in generale »; poi annota: « Che la fede né qui né mai sia opposta al sapere, ma che la fede anzi sia un sapere, e solo una forma speciale di questo, è stato osservato di sopra » 55 — e rinvia al § 63. Il paragrafo, com’è noto, cade sotto il titolo II sapere immediato (la terza delle tre posizioni del pensiero rispetto all’oggettività), cioè la filosofia di Jacobi. Questa la posizione jacobiana secondo Hegel: la ragione sola fa che l ’uomo sia uomo, e pertanto è il sapere di Dio: « Ma, poiché il sapere mediato deve essere ristretto solo al contenuto finito, la ragione è dunque sapere immediato, fede ». Nell’annota­zione viene sottolineata l ’arbitrarietà dell’uso di questi termini (sa­pere, pensiero, intuizione, fede) e la confusione alla quale vengono abbandonati: « Così, molto di frequente, si trova opposto il sapere

54 E. W e i l , Problèmes kantiens, cit., p. 141 nota 71 (tr. it., p. 147) e

cfr. sopra il nostro testo introduttivo, e nota 3. In tema, V . V e r r à , F. H. Ja ­cobi. Dall’Illuminismo all’idealismo, Torino, ed. « Filosofia » , 1963, cap. V III . In generale, G . K i r s c h e r , H. et la philos. de in « Hegel-Studien », Beiheft 4, 1969. Come sia complesso l’intreccio di testi, autori, problemi in quegli anni, dimostra la bella e curiosa nota di D . Henrich, D ie « wahrhafte Schild­kröte ». Zu einer Metapher in H .s Schrift « Glauben u. Wissen », in « Hegel- Studien », 2, 1963, pp. 281-291.

55 « D ass hier nicht und dass überhaupt G laube dem Wissen nicht entge­gengesetzt, sondern Glauben vielmehr ein Wissen ist und jenes nur eine be­sondere Form von diesem, ist oben § 63 Anm. bemerkt worden » (seguo En­zyklopädie... 1830 hrsgg. Nicolin-Pöggeler, Hamburg 1959; nel testo riporto la trad. Croce).

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alla fede, mentre, nel tempo stesso, la fede è determinata come sapere immediato, e quindi riconosciuta anche come un sapere » * .

Come non leggere subito, in filigrana, la problematica kantiana della Critica che abbiamo sopra illustrata? Attraverso Jacobi egli parla di Kant; diciamo parla di Kant e di Jacobi ad un tempo (resta il fatto che a nostra conoscenza Hegel non ha dedicato esplicite riflessioni a quella Dottrina trascendentale del metodo sulla quale abbiamo creduto di doverci soffermare: ad apertura di testi è facile riscontrare che l’interesse di Hegel — anche quando coglie l’intero, il sistema, senza per altro farne espressamente, consapevolmente que­stione — va 2$ Analitica e alle prove dell’esistenza di Dio della Dialettica, in particolare quella ontologica: ma questo non può che essere oggetto di un’altra ricerca). Si legga la conclusione dell’Anno- tazione al § 51 (tra quelli dedicati alla Filosofia critica)·. « ...la tri­viale osservazione della Critica, che il pensiero e l ’essere sono cose diverse, può tutt’al più turbare l ’uomo, ma non arrestarlo nel pro­cedere del suo spirito, che va dal pensiero di Dio alla certezza che egli è. Questo trapasso, l ’assoluta inseparabilità del pensiero di Dio dal suo essere, è anche ciò che fu restituito nel suo diritto dalla dottrina del sapere immediato o della fede: di che, più oltre » 57.

Hegel coglie qui, non sembra dubbio, ciò che abbiamo chia-56 « Weil aber das vermittelte Wissen nur auf endlichen Inhalt ein­

geschränkt sein soll, so ist die Vernunft unmittelbares Wissen, G lau b e» ; Anm.·. « So findet man das Wissen sehr gewöhnlich dem Glauben entgegengesetzt, während zugleich Glauben als unmittelbares wissen bestimmt, hiemit sogleich auch für ein Wissen anerkannt wird » : Enz., § 63.

57 « Übrigens vermag die triviale Bemerkung der Kritik: dass der G e­danke und das Sein verschieden seien, dem Menschen etwa den G ang seines Geistes vom Gedanken Gottes aus zu der Gewissheit, dass er ist, höchstens zu stören, aber nicht zu benehmen. Dieser Übergang, die absolute Unzertrenn- lichkeit des Gedankens Gottes von seinem Sein ist es auch, was in der Ansicht des unmittelbaren Wissens oder Glaubens in sein Recht wieder her­gestellt worden ist, wovon nachher»: Enz., § 51 Anm., alla fine (l’analisi hegeliana delle prove dell’esistenza di D io, soprattutto di quella ontologica, vanta un’ampia letteratura, teologica e no; mi limito a citare D . H e n r ic h ,

Oer ontologische Gottesbeweis. Sein Problem u. seine Geschichte i.d. Neuzeit, Tübingen, Mohr, 1970).

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mato Yintero della problematica kantiana; Dio, terzo oggetto della ragione, limite per l ’intelletto, diventa un semplice astratto: un ideale della ragione, che riconosce l’alterità di concetto ed essere, l ’impossibilità dell’unificazione (§ 49); ma la schematizzazione che ne risulta (§ 51, citato), dopo l ’analisi delle prove, ha veramente qualcosa di brutale, e denuncia che Hegel vede il problema kan­tiano, ma non attacca e lo aggira. Lo dimostra il « più oltre », che fa da spia. È chiaro, infatti, il rinvio al § 63, che va ora riletto, riflettendo sulla chiusa dell’Annotazione: « La fede stessa, in quel preteso senso filosofico [jacobiano], è nient’altro che l’arido astratto del sapere immediato, una determinazione del tutto formale, che non è da scambiare con la pienezza spirituale della fede cristiana »: essa ha in sé l ’autorità della chiesa, un contenuto oggettivo, un sistema dottrinale e conoscitivo: « Perfettamente lo stesso di ciò che qui si chiama fede e sapere immediato è, del resto, quel che viene in altri casi chiamato ispirazione, rivelazione del cuore, con­tenuto impresso dalla natura negli uomini: in particolar modo an­che, sano intelletto umano, senso comune. Queste forme prendono tutte allo stesso modo a lor principio l ’immediatezza con la quale un contenuto si trova nella coscienza ed è in questa un fatto » 5S.

La pagina si costruisce lungo scansioni che individuano situa­zioni culturali e filosofiche differenti: Jacobi: rispetto al suo sa­pere immediato la fede religiosa cristiana è altro, e non può con­fondersi con le ispirazioni e le rivelazioni del cuore (leggi: Schleier­macher); poi le correnti illuministiche della religione naturale (senso comune, immediatezza del contenuto), la conclusione (« queste for­

58 « Der Glaube selbst in jenem philosophisch-seinsollenden Sinne ist nichts als das trockne Abstraktum des unmittelbaren Wissens, eine ganz formelle Bestimmung, die nicht mit der geistigen Fülle des christlichen Glaubens... zu verwechseln... ist. M it dem, was hier Glauben und unmittelbares Wissen heisst, ist übrigens ganz dasselbe, was sonst Eingebung, Offenbarung des Herzens, ein von N atur in den Menschen eingepflanzter Inhalt, ferner insbesondere auch gesunder Menschenverstand, common sense, Gemeinsinn, genannt worden ist. Alle diese Formen machen auf die gleiche Weise die Unmittelbarkeit, wie sich ein Inhalt im Bewusstsein findet, eine Tatsache in diesem ist, zum Prin­zip » : Enz., § 63 Anm. (alla fine, corsivo nostro).

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me... tutte ») coinvolge Kant. Ma Kant avrebbe detto: c’è un sa­pere (la fede della ragione) che nella coscienza è un fatto: non dedu­cibile, come sappiamo, ma comprensibile a partire da altro.

* * *

Abbiamo scelto questo testo déll’Enciclopedia del ’30 per la sua autorità: esso racchiude l’intero sistema, pubblicato, ripubbli­cato e presentato come tale dall’autore. Ma è bene rapidamente ricordare che questo dibattito con Kant attraverso Jacobi (che qui intendiamo configurare solo nell’essenziale, nel suo fondamento) ha una storia nell’evoluzione hegeliana. Hegel si presenta al pubblico nel suo saggio sulla Differenz (1801) con una problematica che ci dice tutta la fatica del suo volersi liberare da Kant. Il tema: filosofia della riflessione (o critica o kantiana, e quindi dell’alterità dell’idea e dell’essere) e filosofia che si costruisce come sistema della ragione assoluta (schellinghiano-hegeliana, e quindi dell’identità di essere e pensiero o meglio: dell’identità dell’identità e della non-identità)59 è appunto determinato — fiino all’inquietudine — dalla presenza di Kant e dei kantiani. Hegel dice nella parte introduttiva, nel paragrafo Rapporto della speculazione con il buon senso: « Questa relazione o rapporto della limitatezza con l’assoluto, in cui solo l’opposizione è presente nella coscienza, mentre c’è una totale man­canza di coscienza dell’identità, si chiama fede » — e così sembra fare il passo decisivo per intendere la fede della ragione.

59 « D as Absolute selbst aber ist darum die Identität der Identität und der Nichtidentität; Entgegensetzten und Einsseyn ist zugleich in ihm »·. Diffe­renz—, in G S ., cit. nota 2, p. 64 (tr. it. Primi scritti critici, Milano, Mursia, 1971, ρ. 79). A questa espressione Hegel rimase fedele, e non mutò pensiero verso la filosofia della riflessione: dice nella Logica, a proposito del comin- ciamento come unità dell’essere e del non-essere: « — oder in reflektierterer Form, der Einheit des Unterschiedene und des Nichtunterschiedenseins, — oder der Identität der Identität und N ichtidentität»: W.d.L., hrsgg. Lasson, Hamburg 1948, I , p. 59, nel cap. introduttivo: Come debba incominciare la scienza (corsivi nostri).

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Ma subito, proprio nel paragrafo Postulati della ragione, Hegel ci fa sapere la sua interpretazione autentica: « L ’essenza della ragione assume però sotto questo punto di vista una posizione falsa, poiché essa appare qui come un qualcosa che non basta a se stesso, ma che è anzi nell’indigenza » 60 — dove la posizione kantiana, meraviglio­samente colta, viene rovesciata: il « bisogno », soggettivo e ogget­tivo, della ragione kantiana (teorico e pratico, condizionato e incon­dizionato), che alla fine coincide con i più alti (morali) « interessi » della ragione stessa61, quel fatto che sorregge e manda a compi­mento l’analisi kantiana, è presentato da Hegel come un limite e

60 « Diess Verhältniss oder Beziehung der Beschränktheit auf das Absolute, in welcher Beziehung nur die Entgegensetzung im Bewusstseyn, hingegen über die Identität eine völlige Bewusstlosigkeit vorhanden ist, heisst Glauben »; « D as Wesen der Vernunft erhält aber in dieser Ansicht eine schiefe Stellung, denn sie erscheint hier als ein nicht sich selbst genügendes, sondern als ein bedürftiges » : Differenz, in G .S., cit., pp. 21 e 29 (tr. it., pp. 23 e 34). È ap­pena il caso di ricordare il tema del bisogno (Bedürfniss) della filosofia in Hegel, al quale viene dedicato uno dei capitoli introduttivi della Differenz.

61 Quanto alle citazioni si ha solo l ’imbarazzo della scelta: « ... alle idee di D io e dell’immortalità mediante il concetto della libertà son procurati la realtà oggettiva e il diritto, anzi la necessità soggettiva (bisogno della ragion pura) di ammetterle (ja subjective Nothwendigkeit - Bedürfnis der reinen Vernunft - sie [d ie Ideen von Gott und Unsterblichkeit] anzunehmen), senza che perciò tuttavia la ragione sia estesa nella sua conoscenza teoretica » : Critica d. rag. pr., V 4 (tr. it. cit. nota 20, p. 3); « Ungeachtet dieses dringenden Be­dürfnisses der Vernunft, etwas vorauszusetzen, was dem Verstände zu der durch­gängigen Bestimmung seiner Begriffe vollständig zum Grunde liegen könne... » (Nonostante questo urgente bisogno della ragione, di presupporre qualcosa, su cui possa totalmente fondarsi l ’intelletto per la determinazione completa dei suoi concetti...): Critica 1787, B 611; I I I , p. 392 (tr. it., p. 612), all’inizio della sez. I l i de L ’ideale della ragione pura (cfr. B 365; I I I 243; tr. it., p. 371; altrove troviamo die Forderung der Vernunft·. B 362 e 389; I I I , pp. 241 e 257; tr. it., pp. 369 e 389). Com’è noto il testo che sviluppa tale concetto è Che cosa significa orientarsi nel pensare: partic. V II I , p. 139 (tr. it. cit. nota 25, p. 97), poi passim. Si veda poi qui la connessione, fondamentale, di bisogno-interessi-fede della ragione: nella stessa pagina una nota dice: « La ragione non sente — essa vede ciò che le m anca» (..., sie sieht ihren Mangel ein). Cfr. avanti testo e nota 71.

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un presupposto che non agisce, destinato a consumarsi in se stesso: di fatto viene rifiutato.

Il risultato della riflessione hegeliana nel saggio del 1802, Fede e sapere, nel primo capitolo dedicato a Kant, conferma questo inten­dimento. Qui si attacca direttamente e soltanto la fede pratica kan­tiana come fede in Dio (perché il resto non viene ritenuto suscet­tibile di attenzione filosofica — einer philosophischen Beachtung fähig): « Secondo lo stesso Kant i postulati e la fede in essi sono invero qualcosa di soggettivo. Il problema è solo come intendere questo soggettivo ». Hegel è cauto. Hegel sa bene, evidentemente, che non può definire senz’altro come soggettiva l ’identità del pen­sare e dell’essere, della ragione e della sua realtà, di questa identità e della fede, e attribuirla così a Kant. Perciò pone a se stesso la questione in forma interrogativa62, e analizza sottilmente la posi­zione kantiana in questa prospettiva (il postulare, il dover-essere, la fede), fino a dichiarare: « tutto ciò costituisce la peculiarità di questa filosofia, per cui essa presenta la sua assoluta soggettività in forma oggettiva, cioè come concetto e legge (la soggettività è in grado di passare nel suo opposto, nell’oggettività, solo grazie alla sua pu­rezza), per cui delle due parti della riflessione [il presupposto kan­tiano], il finito e l’infinito, essa innalza l’infinito al di sopra del finito e almeno qui fa valere il lato formale [oggettivo] della ra­gione » 63.

La conclusione, tuttavia, ripete quella del saggio precedente:

62 « ... nach Kant selbst sind nemlich die Postulate und ihr Glauben etwas subjectives; es ist nur die Frage, wie diess subjective genommen w ird; ist nemlich die Identität des unendlichen Denkens, und des Seyns, der Vernunft und ihrer Realität etwas subjectives? oder nur das Postuliren, und Glauben derselben? » : Glauben u. Wissen, in G .S., cit., p. 345 (tr. it., p . 162).

63 « ... ist ihr [der Kantischen Philos.] eingenthümlich, dass sie ihre abso­lute Subjectivität in objectiver Form, nemlich als Begriff und Gesetz aufstellt, und die Subjectivität ist allein durch ihre Reinheit fähig, in ihr entgegen­gesetztes, die Objectivität überzugehen, also von beyden Theilen der Reflexion, dem Endlichen und Unendlichen, das Unendliche über das Endliche erhebt, und hierin das Formelle der Vernunft wenigstens geltend macht » : op. cit., p. 346 (p. 163).

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l ’oggettività dell’infinito concetto dell’intelletto si rivela falsa per­ché è qui posta nella dimensione delle categorie (« doch hier mit Dimensionen der Kategorien », cioè afletta da finitezza, « von En­dlichkeit afficirten », e pertanto rimane soggettiva come la sua ori­gine) e l ’oggettività della legge nella parte pratica non può liberarsi, cioè farsi reale, effettiva, per il suo essere affetta da « infinitezza pura » (« von einer reinen Unendlichkeit »): « ...la vera, effettiva idea rimane una massima assolutamente soggettiva [astratta, non reale, incapace di «unificazione», di « id e n tità » ], in parte per la riflessione, in parte per la fede; solo per il centro del conoscere e della ragione, essa non è » 64: in linguaggio kantiano essa è il niente della illusione. Il passo è difficile, meglio: oscuro (almeno nel senso in cui è talora oscuro lo Hegel di Jena). Difficoltà? Imbarazzo nel sollecitare un’analisi che è pur scesa al fondo del problema? Questo a noi risulta. Qualche pagina prima, alla fine dell’esame della Dia­lettica della Critica, ci sembra di leggere una chiarificazione: « Dopo questo completo annientamento della ragione e il relativo giubilo dell’intelletto e della finitezza, che hanno decretato la propria asso­lutezza, la finitezza si presenta anche nella sua forma positiva, come la suprema astrazione della soggettività, e in tal forma si chiama ragione pratica »

Un sapere che non è una fede, dunque, e una fede che non è un sapere: proprio quello che Kant voleva mostrare, ma in positivo, cioè con un altro intendimento, con altro linguaggio concettuale: l’incondizionato, il soggettivo della ragione (o, se si vuole, la ricerca del suo senso) è quel « punto unico » 66 a partire dal quale la ra­

64 « ... und die wahrhafte Idee bleibt eine absolut subjective Maxime, theils für das Reflectiren, theils für das Glauben, nur ist sie nicht für die Mitte des Erkennens und der V ernunft»: ibid. (fine del capitolo kantiano).

65 « Nach dieser völligen Zertretung der Vernunft, und dem gehörigen Jubel des Verstandes, und der Endlichkeit sich als das Absolute decretirt zu haben, stellt sich die Endlichkeit als allerhöchste Abstraction der Subjectivität, oder der bewussten Endlichkeit alsdenn auch in ihrer positiven Form auf, und in dieser heisst sie praktische V ern u n ft»: op. cit., p. 338 (p. 154).

66 « ... una ricapitolazione sommaria delle soluzioni in proposito, riunendo i vari aspetti di queste in un punto solo, può rafforzare la nostra convinzione »:

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gione si comprende e come fede razionale e come conoscenza: come quel fatto che la ragione è, se è ragione dell’uomo e nell’uomo: finita, povera, bisognosa, nell’impotenza delle sue illusioni. Kant: filosofia della riflessione, e il suo dualismo (pensare e conoscere, senso e fatto, morale e natura). Hegel ne coglie il presupposto, ma non vede, non vuol vedere la coerenza del risultato o, almeno, non c’è dubbio, la ricerca di questa coerenza: l ’unità della ragione nei suoi più alti interessi, unità che è poi il senso dei suoi bisogni — l’unità del mondo e dell’uomo, l’incondizionato, la vita morale.

2.2. - Di un possibile malinteso intorno a fede: fede storica (ecclesiastica) e fede della ragione (per la religione). — Il saggio su Fede e sapere ci offre ulteriori dilucidazioni e ci consente di am­pliare il dibattito. Riflettiamo sulle parole di apertura: « La cultura ha talmente innalzato il nostro tempo al di sopra dell’antico contra­sto di ragione e fede, di filosofia e di religione positiva, che questa opposizione di fede e sapere ha acquistato un senso del tutto di­verso e si trova ora trasferita all’interno della filosofia stessa ». Se­condo il commento che segue nel testo la dichiarazione significa che ora « la filosofia ha definitivamente affermato la propria assoluta autonomia », e la ragione ha potuto talmente farsi valere nella reli­gione positiva (nella pagina seguente si richiama il « principio del nord » e, in religione, il protestantesimo, cioè la « soggettività ») che Kant « con il suo tentativo di rivitalizzare la forma positiva della religione attribuendole un significato derivante dalla sua filo­sofia, non ha avuto successo » 67. Dovrebbe, tuttavia, essere altret-

« ... so kann doch ein summarischer Überschlag ihrer [dell’Analitica] Auflösun­gen die Überzeugung dadurch verstärken, dass er die Momente derselben in einem Punkt verein igt»: Critica 1787: B 295; I I I , p. 203 (tr. it., p. 311), fine àz\[’Analitica, cap. I l i : Sul fondamento della distinzione di tutti gli og­getti in generale in phaenomena e noumena — uno dei punti più espliciti in cui è possibile leggere quell’unità della Critica che abbiamo tenuto presente nella prima parte di questo lavoro.

67 « Ueber den alten Gegensatz der Vernunft und des Glaubens, von Philosophie und positiver Religion hat die Cultur die letzte Zeit so erhoben, dass diese Entgegensetzung von Glauben und Wissen einen ganz ändern Sinn

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tanto evidente che la proposizione iniziale o è da intendersi come una professione di kantismo (consapevole o inconsapevole che essa sia) oppure risulta difficilmente intelligibile: comunque è Kant colui che la rende possibile.

Vent’anni dopo, già a Berlino, Hegel inizia così la sua Prefa­zione alla Religionsphilosophie di Hinrichs: « L ’opposizione di fede e ragione, intorno alla quale secoli si sono affaticati, e ha suscitato l ’interesse non solo della scuola, ma anche del mondo, può aver perso importanza nel nostro tempo, anzi sembra essere scomparsa »È chiaro, non c’è qui più nulla di non voluto o di inespresso — nessun imbarazzo. La conciliazione è avvenuta: il sapere assoluto,lo spirito assoluto: « Per quanto concerne i bisogni del tempo, ri­sulta che il comune bisogno della religione e della filosofia va ad un sostanziale, oggettivo contenuto della verità... le due sfere della reli­gione e della filosofia coincidono... ». La fede: essa fa ora parte di quel bisogno religioso nel quale è « penetrato l ’elemento dei prin- cipii » (ragione come spirito-pensiero-individualità), e allora « la reli­gione richiede per quest’aspetto una scienza della religione, una teo­logia » : come scienza essa è più della comune conoscenza religiosa, è filosofia. La religione cristiana, infine, è « la rivelazione di ciò che Dio è, e la comunità cristiana non deve {soli) essere altro che la

gewonnen hat und nun innerhalb der Philosophie selbst verlegt worden ist. D ass die Vernunft eine M agd des Glaubens sey, wie man sich in altern Zeiten ausdrückte, und wogegen die Philosophie unüberwindlich ihre abso­lute Avtonomie behauptete, diese Vorstellungen oder Ausdrücke sind versch­wunden, und die Vernunft... hat sich in der positiven Religion so geltend gemacht, dass selbst ein Streit der Philosophie gegen positives, Wunder... für etwas abgethanes und obscures gehalten wird, und dass Kant mit seinem Versuche, die positive Form der Religion mit einer Bedeutung aus seiner Phi­losophie zu beleben, ... kein Glück machte » : Glauben ». Wissen, in G S ., cit., p. 315 (tr. it., p. 123).

68 « Der Gegensatz von Glauben und Vernunft, der das Interesse von Jahrhunderten beschäftigt hat, und nicht bloss das Interesse der Schule, son­dern der Welt, kann in unserer Zeit von seiner Wichtigkeit verloren zu haben, ja beinahe verschwunden zu sein scheinen » : Berliner Schriften, cit. nota 50, p. 59 (tr. it. di S. Sorrentino, citata nella Bibliografia, ρ. 23).

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comunità alla quale lo spirito di Dio è stato inviato e nella quale tale spirito guida i membri nella conoscenza (Erkenntnis) di Dio » 69. Perché sia ancora più chiaro la filosofia kantiana è proiettata sullo sfondo delPHluminismo « come qualcosa di antiquato » 70 (in Fede e sapere « antiquato » era il « positivo » del Cristianesimo che Kant voleva « rivitalizzare »). L ’interesse polemico di questa Prefazione investe quasi interamente i romantici e la teologia del sentimento di un Jacobi visto da Schleiermacher. Anzi, si può arrivare a soste­nere che nei temi ora discussi la filosofia critica non trova neppure una collocazione autonoma tra le posizioni del pensiero.

La posizione di Hegel è paradigmatica, in sé e rispetto a Kant. Altrettanto paradigmatica è la posizione di Kant. Una messa a punto (culturale) su fede è utile per portar luce, indirettamente, sul contesto. C’è per noi un malinteso praticamente inevitabile. Per noi è quasi impossibile l’idea di una fede che non sia determinata da un credo. Per Kant, invece, ogni credo storico è inammissibile: può essere filosoficamente compreso, e la filosofia, che non cono­sce né dogmi né autorità, lo comprende, ma spogliandolo di ciò che contiene di puramente storico e quindi di non filosofico. Per Kant come il suo Hume, fede è il belief, l ’adesione data ad un giu­dizio di esistenza inconfutabile, ma incapace di prova — non è faith, quindi71. Che cosa pensasse Kant della fede del cuore, del senti­

69 « Was aber das Bedürfnis der Zeit betrifft, so ergibt sich, dass das gemeinschaftliche Bedürfnis der Religion und der Philosophie auf einen sub­stantiellen, objektiven Inhalt der Wahrheit geht... An einem Teile des Geschäfts, dies Bedürfnis zu befriedigen, treffen aber die beiden Sphären der Religion und der Philosophie zusammen » ; « ... und die Religion erfordert nach dieser Seite eine Wissenschaft der Religion, — eine Theologie » ; « ... als diese [christ­liche] Religion nichts ist und sein will, als die Offenbarung dessen, was Gott ist, und die christliche Gemeinde nichts sein soll als die Gemeinde, in die der Geist Gottes gesandt und in welcher derselbe... die Mitglieder in die Erkenntnis Gottes le ite t» : op. cit., pp. 77-79, 81 (tr. it., pp. 46-47, 51). Poi vedi avanti testo e nota 74.

70 « Die kritische oder Kantische Philosophie ist zwar so gut wie die Aufklärung etwas dem Namen nach Antiquiertes » : op. cit., p. 67 (tr. it., P. 35).

71 E . W e i l , Problèmes kantiens, cit., pp. 20-21 e note (tr. it., pp. 25-26).

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mento o dell’entusiasmo non ha bisogno di citazioni: è lì, ad aper­tura di pagina (ma si consenta di ricordare il saggio Di un tono di distinzione di recente assunto in filosofia: 1796!): era il solo argo­mento, forse, che riusciva a fargli perdere la pazienza. C ’è una sola ragione, e si realizza positivamente: la ragione pratica. A ciò che essa pensa teoricamente come pura possibilità logica, « problema­tica » (come semplice non contraddizione), essa dà la sua adesione nella fede.

Kant può così costruire una religione fondata sulla filosofia, ma dalla filosofia autonoma. Proprio questa filosofia non gli impedisce di recuperare la maggior parte dei dogmi cristiani, come quei mi­steri che non allargano e non sorreggono affatto la conoscenza, de­stinati a divenire inessenziali, a scomparire (forse), in una religione, non più ecclesiastica, della buona condotta, che la fede fonda. In un quadro culturale, che ha tuttavia forti aderenze filosofiche, si può arrivare a sostenere che questo Kant, il solo dei grandi della filoso­fia classica tedesca che non abbia ricevuto un’educazione teologica specifica (si passi questo dato meramente biografico), aperto quant’al- tri mai alle convinzioni e alle opinioni altrui (il suo lessico ignora la parola « tolleranza » ) 72, questo filosofo che innalza un monu­mento al Cristianesimo quando ne celebra con tutta semplicità la amabilità e la maniera di pensare liberale (« il rispetto è la prima cosa », dice, « è impossibile amare senza rispettare »: cfr. sopra nota 43) — egli segna altresì la fine del Cristianesimo stesso, cioè del Cristianesimo storico. Questa affermazione, ce ne rendiamo per­fettamente conto, deve poter essere argomentata in un contesto più ampio.

Ma resta il fatto che la Religione contiene la teoria filosofica di un progetto che risaliva indietro nel tempo, anteriore alle Cri­tiche, un progetto che nasceva anche da una disposizione: « Sapete a chi vi rivolgete? Ad un uomo che non conosce mezzi che pos­sano resistere quando giunge l ’ultima ora della vita se non la più

72 Toleranz, che è ovviamente parola tecnica dell’epoca, ricorre solo 2 volte secondo il Wortindex zu K.s G .S ., bearb. v. Krallmann-Martin, Berlin, De Gruyter, 1967, s.v. (2 voll., per ora dedicati ai Werke).

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pura sincerità delle intenzioni (Gesinnungen) più nascoste del cuore e che, come Giobbe, considera un delitto ingraziarsi Dio... Io di­stinguo Yinsegnamento di Cristo dal racconto che abbiamo dell’inse­gnamento di Cristo e tento anzitutto di estrarre l ’insegnamento mo­rale separandolo da tutti i principi (Satzungen) del Nuovo Testa­mento. L ’insegnamento fondamentale del Vangelo è certamente que­sto, mentre il resto non può essere altro che insegnamento ausi­liario, perché quest’ultimo dice solo ciò che Dio ha fatto per venire in aiuto alla nostra fragilità in vista della nostra giustificazione, mentre il primo espone ciò che noi dobbiamo fare per essere degni di tutto questo... Io cerco nel Vangelo non il fondamento della mia fede, ma la sua conferma » 73.

Possiamo ritenere che il malinteso intorno a fede abbia inizio con Hegel. Non si tratta qui di discutere le sue personali convin­zioni religiose, e le sue crisi (si veda A. C h a p e l l e , Hegel et la re­li gion, Paris, Ed. Universitaires, 1963, vol. I, p. 8 nota 34). Ma, non sembra dubbio, l ’educazione teologica e il clima della Santa Alleanza nel quale lavora hanno lasciato visibili tracce. Per tutta la vita, coerentemente del resto, egli si affatica intorno a questa configurazione: il contenuto della vera religione (rivelata, il Cristia­nesimo) è identico con il contenuto della vera filosofia (la filosofia hegeliana che rende possibile, e si regge su, tale identità). La fedeo è il sapere immediato (lo abbiamo visto), quindi non è il sapere, oppure è quel bisogno religioso nel quale è penetrato l’elemento del pensiero74, e allora è un momento della religione come sfera

73 Dalla lettera a Lavater del 28 aprile 1775: X, pp. 175-180, qui pp. 176 e 179. « E sse r degni di tutto qu esto »: il motivo della « d ig n ità » dell’uomo ha qualcosa di solenne in Kant e fa tutt’uno con la sua « morale » ; ricor­diamo solo che essa ha « sempre un significato puramente negativo (di non indegni) » (immer nur negative Bedeutung - nicht-unwürdig)'. Religione, V I, p. 146 nota (tr. it., p. 162).

74 « Wenn aber in das religiöse Bedürfnis das Element der Grundsätze eingedrungen ist, so ist jenes Bedürfnis nun ungetrennt von dem Bedürfnisse und der Tätigkeit des Gedankens... » : ree. di Hinrichs, cit., p. 79 (cfr. sopra nota o9).

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in generale dello spirito assoluto (Enz., § 554: cfr. sopra testo e nota 55). La sua determinazione più precisa si trova all’interno del movimento della filosofia stessa: Enz., $ 573: Hegel riassume in poche righe assai dense i precedenti paragrafi sull’arte e sulla reli­gione come un momento della determinazione della filosofia, da vedersi insieme all’altro, « dapprima, del profondarsi in sé, del soggettivo, poi del movimento soggettivo e della identificazione della fede con l ’oggetto presupposto », cioè quella « totalità ogget­tiva... presupposto implicito per l’immediatezza finita del soggetto singolo » 75.

Alterità di fede e sapere, alterità di fede e religione, dunque. Di qui, dalla distinzione di fede e religione, si potrebbe ripetere l’intera filosofia hegeliana. In particolare la Fenomenologia·, la co­scienza nel suo divenire, nel farsi spirito (mondo e coscienza del mondo) e sapere, si trova, si manifesta e si costruisce (si interpreta come coscienza di sé) più volte (storicamente) come fede e reli­gione. Impossibile (e, dato il nostro tema, superfluo) ripercorrere qui un itinerario complesso. C ’è una pagina « riassuntiva » sullo sviluppo della religione rivelata (geoffenbarte) o manifesta (offen­bare) o assoluta-, essa contiene un rinvio alla coscienza credente: il contenuto spirituale viene considerato come l ’essenza di un mondo privo di soggettività, quindi come un contenuto essenzialmente oggettivo della rappresentazione, una rappresentazione che rifiuta la realtà effettuale e rimane così senza la certezza della coscienza di sé: è il mondo della pura intellezione e del razionalismo illumi­nistico, che vede la religione farsi semplicemente fede — un pen­siero del tutto estraneato di « una coscienza che possiede soltantoi suoi pensieri, ma non li pensa ancora ». Nella coscienza della comunità, invece, che deve manifestarsi come religione, quel conte­

75 « ... andererseits zuerst des subjektiven Insichgehens, dann der subjekti­ven Hinbewegung und des Identifizierens des Glaubens mit der Voraussetzung » (§ 573); «D ie se objektive Totalität ist die an sich seiende Voraussetzung für die endliche Unmittelbarkeit des einzelnen Subjekts... » (§ 570, ed. e trad. cit. nota 55). Fede in questi §§ è analizzata puntualmente da A. L é o n a r d , La fot chez H ., Paris, Desclée, 1970, pp. 332-363.

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nuto spirituale è sostanza e ad un tempo è anche la certezza che essa ha del proprio essere spirituale76. Se ripetiamo il passaggio nel linguaggio deìl’Enciclopedia (dianzi citata) vediamo qui i momenti per cui lo spirito (assoluto) è religione e filosofia ad un tempo: il presupposto oggettivo e l’interno movimento (a mezzo anche della fede) dello spirito come conoscere (manca qui la coscienza della comunità: ma siamo nella sfera dello « spirito assoluto », e allora tale coscienza è data per presupposta: nel « culto », § 565 — v. qui avanti — e già nel « principio », § 552 Anm. partic. alla fine; e ovviamente Fil. dir. § 270).

La nostra parafrasi non ha di proposito tenuto conto del conte­sto della Fenomenologia: anche su questo tema essa andrebbe ben altrimenti esplorata. Ciò che ha per noi importanza nel passo pre­sentato è la ripetizione, da una parte (rispetto a Fede e sapere), e l ’anticipazione (rispetto all 'Enciclopedia) dall’altra, delle varie figure che abbiamo analizzato: il sapere immediato e la ragione (spirito/o filosofia)·, la religione come religione rivelata e come comunità, ma anche come la sfera che è comune alla filosofia, al sapere (spirito assoluto); la fede come il momento interno (negativo) a mezzo del quale religione e filosofia acquistano realtà in quel mondo effet­tuale che lo spirito è come storia e sapere (« ...il lavoro che lo spirito compie come storia effettuale » 77; « la filosofia alla fine guarda indietro soltanto al suo proprio sapere » 78 ) — e non da ultimo la

76 H o parafrasato in parte il celebre passo di Phänom. d .G ., hrsgg. J . Hoffmeister, Hamburg 1952, 533, all’inizio di Entwicklung des Begriffs der absoluten Religion; il rinvio hegeliano è a Oer Glaube und die reine Einsicht (cap.: Der Geist), all’inizio, 376, da me riportato: « Indem aber das Denken zunächst das Element dieser Welt ist, hat das Bewusstsein nur diese Gedanken, aber es denkt sie noch nicht oder weiss nicht, dass es Gedanken sind... » (tr. it. Firenze, L a Nuova Italia, I9602, I I , pp. 267-8, 77-78). Léonard, sopra cit., dedica la parte I (e un’appendice) all’intero testo della Fenomenologia.

77 « D ie Bewegung, die Form seines Wissens von sich hervorzutreiben, ist die Arbeit, die er als wirkliche Geschichte vollbringt»: Phänom. d .G ., cit., p. 559 (nel cap. D as absolute Wissen) (tr. it. I I , p. 299).

78 « Diese Bewegung, welche die Philosophie ist, findet sich schon voll­bracht, indem sie am Schluss ihren eigenen Begriff erfasst, d.i. nur auf ihr Wissen zurücksieht » : Enz., § 573.

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fede kantiana della ragione (anche qui vista nel prolungamento del­l'illuminismo), in una interpretazione che Kant non avrebbe mai potuto ammettere: per Kant la ragione, la fede della ragione, ha i suoi pensieri, e li pensa (diversamente non sarebbe ragione o alme­no non sarebbe la ragione dell’uomo), e li realizza nella vita morale, e così pensa la loro non conoscibilità.

2.3. - Il male è un finito e un nulla. Ancora della religione come sapere. Gli amici di Giobbe. — Abbiamo soltanto fatto cenno, nel corso di queste pagine, al problema dell’unità-dualità di filosofia e religione. L ’intendimento del problema ha dato luogo ad un dibattito e ad una polemica ampi ed aspri, che non riprenderemo. Dai nostri testi sappiamo che la religione vive e muore di questa unità-dualità, così come vive e muore, nel senso che è continuamente tolta, « nella fede nell’unico spirito e nella devozione del culto » 79. I lettori sanno bene quale posto occupa il culto nella fenomenologia e nella storia e fenomenologia delle religioni che Hegel delinea sia nelle opere a stampa sia nelle Vorlesungen berlinesi. La religione è spirito del popolo, è la verità e la sostanza della sua eticità, quindi ha un suo aspetto esterno — il culto — che ha una sua realtà e verità.

Ma non allontaniamoci dalla problematica che abbiamo preso in considerazione. Riflettiamo su un passo che viene da Hegel esposto e discusso più volte nelle Vorlesungen (esso corrisponde a quanto abbiamo letto nei testi a stampa): « Il male, che è uno dei lati, è stato definito astrattamente come l’altro, il finito, il negativo... ma quel negativo contiene in sé anche l ’affermazione e deve giun­gere alla coscienza... che in lui si trova il principio dell’identità con l ’altro »; « Fichte e Kant dicono che l ’uomo può solo seminare, può fare il bene solo sul presupposto di un ordine morale del mondo; egli non sa se il seme prospererà »; « ...nell’astrazione della fini­tezza e della infinità, il finito ha in genere il significato del male,

79 « . . . andererseits wird solche Form endlicher Vorstellungsweise in dem Glauben an den Einen G eist und in der Andacht des Kultus auch aufgeho­ben » : Enz., § 565.

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la divisione originaria dell’uomo deve essere superata... il culto deve ora annientare il male » 80.

Questo è il tema dominante che sorregge ora l ’interpretazione della problematica kantiana (dominante in relazione agli oggetti della nostra ricerca: ve ne sono altri, naturalmente — in primis la discus­sione delle prove dell’esistenza di Dio). Hegel procede con grande libertà, ma non si può affermare che ci sia uno spostamento radi­cale della sua prospettiva: la limitatezza, l ’angustia della sfera morale ne risulta esaltata, ma nella sostanza egli rimane coerente. È banale osservare che « la moralità » à é l ’Enciclopedia è costruita sulla filo­sofia kantiana, di fatto su alcuni suoi principi espliciti; essa è, quindi, un momento dialettico della vita dello spirito, propriamente quello negativo — che rende appunto possibile il passaggio ad altro (nel quale e per il quale solo esso acquista un senso): la vita della comunità [Veticità). Meno banale, forse, è dedicare qualche atten­zione alle due motivazioni di questo momento: Vintenzione è azio­ne, l’azione deve avere un suo contenuto particolare, non esterno al

80 Cito Vorles. über d. Philos. d. Religion, hrsgg. Lasson, Hamburg, Mei­ner, rist. 1966, in due voli., che contengono 4 parti con numerazione separata (tr. it. Bologna, Zanichelli, 1973-74, in 2 voli.):

« Das Böse, die eine Seite, ist abstrakt bestimmt worden als nur das Andere, Endliche, Negative... Aber jenes Negative, Andere enthält in sich selbst auch die Affirmation, und das muss zum Bewusstsein kommen, dass... in diesem das Prinzip der Identität mit der ändern Seite liegt » (I I , parte I I , 140; tr. it. I I 346); « Fichte und Kant sagen, der Mensch kann nur säen, G utes nur tun in der Voraussetzung einer moralischen Weltordnung; er weiss nicht, ob es gedeihen, gelingen werde » (I I , parte I I , p. 136; tr. it., I I , p. 342); «...an dererseits aber gilt in der Abstraktion der Endlichkeit und Unendlichkeit, in diesem allgemeinen Gegensätze das Endliche überhaupt als böse. D ie Trennung, die ursprünglich im Menschen liege, soll aufgehoben werden... Durch den Kultus nun soll das Böse aufgehoben werde » (I, parte I, p. 275; tr. it., I, p. 306). Rinuncio ad indicare (come ho fatto di solito nelle note) la collocazione dei testi nella partizione dell’opera: non risulta essere di mano hegeliana: non mi è riuscito di trovare la lettera di questi testi nell’ed. Ilting del M S 1821 (cfr. nota 6). Nel M S la storia di Giobbe cade nella Religion der Erhabenheit. Che dietro tale figura ci sia Kant è opinione anche di Y . Y o v e l , Hegels Begriff der Religion und die Religion der Erhaben­heit, in « Theologie u. Philos. », 51, 1976, pp. 512-537, partic. 524 ss.

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soggetto: « il diritto del benessere » (Enz., S 505); il dover essere è la « pura certezza di se stesso », che « spingendosi al suo estremo, appare nelle due forme, che passano immediatamente l ’una nell’al­tra, della coscienza e del male », per ciò che abbiamo qui a che fare con una « singolarità », un non oggettivo, un’astrazione, che si dà, nella decisione, « di fronte al bene, il contenuto di un inte­resse soggettivo» — il male (Enz., § 511). Di qui il passaggio ad altro.

Rileggiamo, e facciamo agire questi ultimi testi l’uno sull’altro. Metaforicamente (e ancora una volta usiamo una formula o un’im­magine che non va sopravvalutata) Hegel sembra « parteggiare » per gli amici di Giobbe. Hegel non mostra particolare interesse per questa figura (ma almeno compare anche nel testo manoscritto). Egli sottolinea il suo esser fuori dal popolo ebraico, lontano dal suolo di questo, « fuori del popolo di Dio che è il fine essenziale » 81. Dio, non Giobbe, è al centro della citazione hegeliana — anzi, « la con­cezione della potenza astratta » (« Diese Darstellung der Macht Gottes ») (ibid): « l ’oggetto immenso » 82.

Quanto alla purezza delle intenzióni di Giobbe, « questo essere finito non deve pretendere tale [quella che Dio gli concede] felicità come un diritto dinnanzi alla potenza di Dio »: « la certezza è fondata sulla potenza, solo sulla pura potenza »; ma nel senso che « La rettitudine deH’individuo deve essere fine per Dio, questo fine deve realizzarsi attraverso la potenza e l’uomo deve divenire felice » 83. Infatti, approfondendo tale motivo, « la gloria di Dio »,

81 « H iobs Geschichte, Begegnis, Zustand, Inhalt steht ausser dem Volke Gottes, welches der wesentliche Zweck i s t » : op. cit. I I , parte I , p. 74: cfr.il manoscritto 1821, sopra citato, ρ. 289 (tr. it. I I , p . 67). Secondo la reda­zione degli scolari Hegel dice che si tratta dell’unico libro del quale non si conosce esattamente la relazione con il popolo ebraico (ibid.).

82 « D as ungeheure Objekt » : op. cit., I , parte I , p. 287 (tr. it. I , p. 316).83 « Doch soll der Endliche dies Glück nicht als ein Recht gegen die

Macht G ottes beanspruchen»: op. cit., I I , parte I, p . 75: solo nella reda­zione degli scolari (tr. it. I I , ρ. 69); « Die Zuversicht wird gegründet auf Macht, blos reine Macht » : ibid.·. la frase è nel manoscritto 1821, cit., p. 289;

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in una pagina riportata dagli scolari, Hegel insiste sul conflitto in Giobbe tra la sua innocenza e il suo destino, tra la coscienza della giustizia, assoluta, e il suo destino non conforme ad essa: « Qui non si tratta più di sottomissione al destino; si sa che il fine di Dio è di far vivere bene il buono... che le cose vadano bene al giusto ». La scontentezza di Giobbe deve cedere il posto alla fiducia in Dio, e la fiducia è qui « la coscienza di questa armonia della potenza con la verità e la giustizia di Dio... e le benedizioni di Dio ne sono la conse­guenza » M. Questa armonia (necessaria), che produce il benessere conformemente alla volontà interiore, è una caratteristica del popolo ebraico in relazione alla « necessità cieca » della situazione greca: « Nel popolo ebraico questa connessione, questa coscienza [che è un sapere] è un lato fondamentale della fede e della fiducia e ne forma veramente un lato ammirevole » — è una necessità concreta, « che detta la legge, che vuole ciò che è giusto, e ha per conse­guenza... un’esistenza che è benessere e prosperità»85.

« Die Gerechtigkeit des Individuums soll für G ott der Zweck sein; dieser Zweck soll durch die Macht realisiert und der Mensch soll glücklich wer­d e n » : op. cit., p. 74 (tr. it., p. 68): così nella redazione degli scolari, ma lo stesso testo, più duro, è nel M S, stessa pagina: si tratta dei generali fini di Dio, della sua relazione con l ’individuo: « ... nemlich die Gerechtigkeit — als Harmonie, Identität des Glücks mit seinem [das einzelne Individuum ] Verhalten, Tugend, Frömmigkeit » (ed. Ilting, cit., p. 289).

84 « E s ist hier nicht mehr Unterwerfung unter das Schicksal; es ist als Zweck Gottes gewusst, dass er es dem Guten gut gehen lasst... dass es dem Gerechten wohlgehe » ; « D iese Zuversicht zu G ott, diese Einheit und das Bewusstsein dieser Harmonie der Macht und zugleich der Wahrheit und G e­rechtigkeit Gottes... ist das Erste, und die Segnungen Gottes sind die Folge davon » : op. cit., pp. 79-80 (tr. it., pp. 72-73).

85 « H ier dagegen [rispetto al vincolo cieco — blind — della religione greca] ist die Notwendigkeit konkret; das an und für sich Seiende ist es, was die Gesetze gibt, das Rechte, das Gesetz will, und das hat zur Folge... eine Existenz, die ein Wohlsein, Wohlergehen ist... dies Bewusstsein ist jener G laube, jene Zuversicht, die im jüdischen Volk eine Grundseite, und zwar eine bewundernswürdige Seite ausm acht»: ibid. In altri pochissimi casi (tre, se non erro) la figura di G iobbe viene citata senza particolari intenzioni: nella Religion der Zweckmässigkeit viene ricordata insieme a Socrate, il quale rap-

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Non mi sembra un caso che questo « lato ammirevole » della fiducia come coscienza e come sapere sia messo in rilievo da Hegel con la sua citazione biblica (che compare nel testo del manoscritto): « In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande ilell’uomo. Perché contendi con lui?... Ecco, tutto questo Dio lo fa due, tre volte, all'uomo... per distogliere l ’uomo dal suo modo d ’agire e tener lungi da lui la superbia » (33, 12-13, 29, 17). E non posso attribuire al caso che la citazione sia tratta dal discorso di Elihu: si ritiene per solito, a) tale sezione è forse un’aggiunta seriore; b)il personaggio sembra essere il solo ebreo presente nel libro; c) egli sembra appartenere a quel gruppo di astanti che partecipava al dialogo fra Giobbe e gli amici dall’esterno (per es. cfr. 18, 2: ci sono nel testo dei plurali che non si spiegano diversamente)86 —- no­tazione, quest’ultima, che dimostra quanto Hegel fosse acuto nelle citazioni, quanto curasse il particolare al fine di mettere in luce il momento della conciliazione, diciamo pure della sintesi, della solu­zione delle opposizioni nel conflitto.

Rispetto a Kant l ’interpretazione, la prospettiva, la stessa pro­blematica appaiono del tutto rovesciate — anche per quanto attiene l’intendimento dell’Antico Testamento e della sua continuità nel Nuovo. In Kant al centro sta Giobbe, colui che si dichiara per l ’incondizionatezza del decreto divino e dice semplicemente: « Egli è unico e fa quello che vuole ». Il benessere, la felicità, non conse­guono da necessità alcuna, non sono un diritto, e possono non coinci­dere con il merito. L ’uomo vuole essere felice, ma questo dipende da lui; felicità e benessere sono peraltro già nell'esercizio del suo do­vere: la fiducia dell’uomo, liberato dalla schiavitù della legge ebraica,

presenterebbe meglio tale religione: op. cit., vol. I I , parte I, p. 205 (tr. it.I I , p. 185), M S ed. Ilting, cit., p. 415.

86 Per es. v. L a Bibbia concordata, Milano, Mondadori, 19734, p. 996 nota; A. W e i s e r , Giobbe (1951, 19746), Brescia, Paideia, 1975, pp. 327-328.

Un quadro dei numerosi, complessi problemi che tale libro solleva in « Enciclopedia delle religioni » , I I I (Firenze, Vallecchi, 1971), pp. 212-222 (con bibliografia) (cfr. qui, p. 214, le considerazioni sulla figura di Elihu). An­cora: S. T e r r ie n , Job, Genève, Delachaux-Niestlé, 1963 e H.-P. M ü l l e r , Das Hiobproblem, Darmstadt, Wissenschaftl. Buchgesell., 1978. M a ora si deve ve-

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può e deve contare sulla grazia divina, ma questa gli sarà data in sovrappiù, e supplirà così — non si sa e non si sa quando e come — all’insufficienza e all’indigenza dell’umana natura, capace del male 87. Ancora una volta Hegel e Kant non possono essere più lontani. Hegel non può ammettere « la rappresentazione di un combattimento pe­renne come nella filosofia kantiana dove lo sforzo è infinito, la solu­zione riportata all’infinito, e si rimane fermi al dover essere » 8S. I testi che abbiamo presentato e discusso sono soltanto l’abbozzo di un quadro che sarà esauriente solo ricostruendo l ’intero della teoria filosofica della religione e della filosofia della religione dei due autori— o meglio, ripetiamo, l’intero della loro filosofia in questa pro­spettiva, in questo risultato (il sistema, se è sistema, come nel nostro caso, può essere ripetuto, ricostruito, a partire da un punto qua­lunque).

* * *

Schematizzando, queste le linee di fondo, a nostro avviso indi­scutibili: il rifiuto hegeliano di quella morale e di quella antropo­logia (che ne è apparsa il fondamento) kantiane nelle quali il bene è fondato sul male, la purezza inattingibile, la pace interiore irrag­giungibile, il finito eternamente incapace dell’infinito — cioè, nel linguaggio della religione, o della filosofia della religione, Dio non si è rivelato, non è disceso sulla terra, e l ’uomo non si divinizza,

dere, soprattutto per le implicazioni filosofiche (ne ho notizia da « T L S » , 26 X II 1980), p. 1457), The Book of Job. A new Translation with Commentary... by M. Greenberg...: The Jew ish Pubi. Soc. of America, 1980.

87 Cfr. sopra testo e nota 47. Che cosa pensasse Kant dell’A .T. è noto.Il testo più esplicito è nella Religione, parte I I I , sez. I I : Rappresentazione storica della graduale fondazione del buon principio sulla terra. Su Dio-grazia v. H . B l u m e n b e r g , Kant u. d. Frage nach dem « Gnädigen Gott » , in « Stu­dium Generale », 7, 1954, pp. 554-570.

88 « E s ist also hier nicht die Vorstellung eines perennierenden Kam pfes wie in der Kantischen Philosophie, wo das Streben unendlich ist und die Auflösung ins Unendliche verlegt wird, wo man beim Sollen stehen b le ib t» : Vorles. Philos. Rel., cit., I I , parte I I , p. 206 (tr. it. I I , p. 404).

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non può divinizzarsi. Ancora: Γindividuo non si comprende nella sua universalità di uomo, e quindi in quanto esiste per se stesso e come specie (finito e ragionevole, ragionevole ma finito), ma nel­l’unità del tutto di cui fa parte, e in essa continuamente si realizza come individualità ma trascendendosi continuamente e passando oltre; oggetto, quindi, di un pensiero ontologico, di un pensiero che è essere, che costruisce e comprende se stesso a partire dalla sag­gezza (sapere, spirito assoluto), cioè theoria, immediata felice vi­sione dell’organizzazione del tutto (questa filosofia, ora compiuta ■— rileggiamo il passo — guarda [ora] indietro solo al suo sapere: cfr. sopra nota 78). Infine: la funzione del male è di fatto cancel­lata: ciò che Kant chiama male è qui la passione-, gli interessi più alti della ragione (per cui la ragione è ragione: la morale e il senso, cioè l ’azione) sono calati nella storia, e sono allora l ’interesse indi­viduale, quel motore (talora quella talpa) di cui si serve l’astuzia dello spirito 89.

In altri termini, e riassumendo i punti precedenti: alla storia come farsi della morale (quindi — e soprattutto — come rischia­ramento), come liberazione dalle religioni dispostiche e da ogni dispotismo che ne assume le funzioni — in vista di una politica (niente è meno astratto, meno moralistico della morale kantiana) che o è « la morale in marcia » 90 oppure è la lotta delle passioni e lo scatenarsi della violenza {de nobis fabula...) — Hegel oppone la storia come divenire e farsi della ragione, il suo realizzarsi in isti­tuzioni ragionevoli (che tali sono anche se imperfette, incompiute). E questo, lo abbiamo detto iniziando, è un acquisto per sempre della filosofia e alla filosofia. E in questo, che il cammino della storia sia orientato, sensato — se è dell’uomo e per l’uomo, e se l ’uomo

89 E . W e i l , Problèmes kantiens, cit., cfr. p. 167 (tr. it. d t ., p . 170), che ho in parte riportato, in parte parafrasato. Ma v. tutto questo capitolo sul male radicale. — Quanto a « pensiero ontologico » si ricordi almeno la let­tera di Hegel a Niethammer, 5 febbraio 1812.

90 E . W e i l , Philosophie morale, Paris, Vrin, 1961, p . 213 — ed è il tema della Philosophie politique, 1956, cfr. p . 22 e in particolare il cap. I : La morale (cfr. tr. it., Napoli, Guida, 1973).

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deve e può comprenderlo — Hegel è rimasto d ’accordo con Kant. Resta il fatto che la violenza, il kantiano male radicale, non è stata ancora annientata dalla ragione — la ragione non ne ha avuto ra­gione — e non sembra possibile in un tempo prevedibile. Per­ché l ’uomo è dotato di ragione, ma finito, stretto dall’indigenza; e al fondo l’uomo è interessato, pigro, insincero (la terminologia è kantiana, come abbiamo visto).

Nonostante tutti gli attacchi (o meglio: proprio grazie a tutti gli attacchi, e a quelli più violenti, incessanti, fino alla fine dei suoi giorni) Hegel dimostra di non essersi liberato mai da questa immagine dell’uomo, da quel Kant che « in polemica implacabile con l ’ottimismo illuministico, ha a suo ultimo fondamento una concezione sanamente pessimistica dell’uomo » 91. Lo si può consta­tare ad apertura di pagina, anche se sappiamo che Hegel non com­prese mai la polemica kantiana, o volle farci credere di non com­prenderla. Tra le molte citazioni ne scelgo una, per finire. È abba­stanza nota, ma va letta come una spia, e sembra tradire un pensiero recondito: « Kant mostra per le cose [cioè, secondo il contesto: il finito] eccessiva tenerezza » 92.

91 A. M a s s o l o , Introduzione d l ’analitica kantiana, Firenze, Sansoni, 1946, p. 48.

92 « D as ist zuviel Zärtlichkeit für die Dinge... » : Vorles. über die G e­schichte d. Philos., in Werke, XV (1836: I ed. degli scolari), ρ. 582 (tr. it. Firenze, La Nuova Italia, 19733, I I I 2, pp. 312-313).

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INDICE DEI NOMI

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INDICE DEI NOMI 2 6 9

Addison J . , 198.Agostino (S.), 112.Alexander S., 112.Aristotele, 41, 51, 54, 59, 151, 155,

157, 185, 186, 188, 189, 204. Avineri S., 150.

Banfi A., 243, 244.Bardili Chr. G ., 25.Baum M., 24.Biasutti F ., 226.Bitsch B., 149.Bloch E ., 205.Blumenberg H ., 193, 207, 264.Bodei R., 208.Bohatec J . , 227.Bosio F., 57.Bruch J . L ., 232.

Cacciatore G ., 226.Cantillo G ., 19.Carnot L ., 208.Cartesio R ., 59, 175.Cesa C., 190.Chapelle A., 256.Chiereghin F., 20.Cicerone M. T ., 185, 186.Clark M., 86.Colletti L ., 208.Copernico N ., 209.Croce B., 114, 120, 142, 206.

D ’Abbiero M ., 165.Danckert W., 88.De Giovanni B., 62.Derrida J . , 86.Dracone, 158.Düsing K ., 20, 21, 24, 27, 63, 76, 77. Einstein A., 122.

Engels Fr., 93.Epicuro, 190.Esculapio, 122.

Ferry L ., 199.Feuerbach L ., 190.Fichte J .G . , 15, 17, 19, 21, 31, 41,

70, 72, 76, 77, 79, 87, 95, 96, 156, 159, 161, 162, 175, 208, 213, 215, 224, 244, 259.

Flatt J . Fr., 185.Fleischmann E ., 55, 223.Freier H ., 87.Fruchon P., 241.

Gadamer H . G ., 40.Galilei G ., 98.Gentile G ., 106.Gesù, 155, 160.Gockel H ., 87.Goethe J .W ., 87, 88, 93, 205, 207,

211, 213, 218.Görland I., 21, 27, 36, 39, 69, 76,

77, 223.Griesheim K . C. J . , 177.Guéroult M., 57, 230.Guerra A., 225, 227.

Haller A., 184.Haller C. L ., 127.Heine H ., 181.Henrich D ., 104, 105, 107, 113, 116,

121, 207, 245, 246.Herder J . G ., 87, 204.Herz M., 241.Hinrichs H . Fr. W., 253, 256. Hoffmann H. G ., 198.Hoffmeister J . , 47, 48.Hölderlin Fr., 77, 184, 195, 205, 214.

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2 7 0 INDICE DEI NOMI

Hook S., 150.Horstmann R. P., 151.Hugo G ., 127.Hume D ., 73.Hyppolite J . , 21, 69.

Ignazio (S.) di Loyola, 195.Ilting K . H ., 125, 150, 243.Inciarte F., 79.

Jacobi Fr. H ., 19, 21, 27, 52, 70, 78, 84, 211, 244, 245, 246, 247, 248, 254.

Jean Paul Richter, 184.

Keplero J . , 111.Kaiser D ., 236.Kern W., 226.Kimmerle H ., 24.Kirscher C., 245.Kojève A., 152.Kollmann Chr. E ., 243.Korff H . A., 87.Kroner R ., 149.Krüger G ., 230, 233.Küng H ., 223, 226, 227, 244.Küster B ., 80.

Lacorte C., 153.Lafargue P., 182.Lagrange J . L ., 208.Landucci S., 204.Larochefoucauld Fr., 187.Lasson G ., 243.Lavater J . K ., 256.Lehmann G ., 223.Leibniz G . W., 194.Leonard A., 257.Lessing G . E ., 211.Locke J . , 73, 81.Lötsch Fr., 227, 240.Lowith K ., 59, 141, 154.Lucrezio, 190, 191, 192, 197, 200, 207. Lugarini L., 19, 20, 24, 63, 77, 78. Lutero M ., 141, 227, 236.

Machiavelli N ., 122.Magnard P., 193.Malus E . L ., 218.Maluschke G ., 21, 57.Mancini I., 227, 236.Marco (S.) evangelista, 241.Marcuse H ., 39.Marini G ., 125.Marquardt O ., 150, 162.M arx K ., 93, 182, 221.Massolo A., 224, 225, 234, 236, 244,

266.Maurach G ., 186.Meiners Chr., 184.Meist K ., 24.Merker N ., 21, 84.Michelet K . L ., 149.Monk S. H ., 198.Müller H . P., 263.

Newton I „ 97, 98, 99, 122, 184, 217. Niethammer Fr. I ., 46, 53.

Olivetti M. M., 236.

Papuli G ., 168.Pascal B., 192, 193, 194, 195, 196,

198, 199, 201, 209.Peperzak A., 153, 154.Pfaff Chr. H ., 218.Pfafl J . W. A., 218.Piovani P., 11.Platone, 59, 84, 155, 210.Pöggeler O ., 47, 48, 49.Pope A., 198.

Ranke L ., 122.Rawls J . , 225.Reinhold K . L ., 25.Riedel M., 125.Ringleben J . , 172.Ritter J . , 150, 151, 152, 171. Rosenkranz K ., 24, 47, 48, 51, 183,

184, 185, 205, 210.Rousseau J . J . , 71, 72, 130, 131.

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INDICE DEI NOMI 27 1

Saussure H . B. de, 184.Schelling Fr. W. J . , 15, 72, 87, 95, 96,

97, 116, 157, 159, 161, 162, 172, 173, 221, 244.

Schüler Fr., 87, 140, 158, 196, 209. Schleiermacher Fr. D., 166, 247, 254. Schneider Fr., 168.Seidl K ., 198.Siep L ., 157, 163.Smith J . E ., 69, 223.Socrate, 151, 167, 171, 234, 262. Solone, 158.Spallanzani L ., 122.Spinoza B „ 17, 18, 20, 22, 52, 83,

86, 87, 189, 213.Stäudlin G . Fr., 233.Summerer S., 79.

Taylor Ch., 150.Terrien S., 263.Tilliette X „ 227.

Tonelli G ., 184.Topitsch E ., 150.Toynbee A. J . , 122.Trede J . H ., 24, 50, 60.Tucidide, 122.

Valentini F., 168.Vanni Rovighi S., 16, 69, 223.Verrà V., 52, 204, 245.Vitiello V ., 55.

Weil E ., 150, 222, 223, 230, 231, 232, 233, 235, 239, 241, 245, 254, 265.

Weinhandl Fr., 88.Weiser A , 263.Winter A., 227.Wolff Chr. 58, 59, 151.Wyneken G ., 223.

Yovel Y ., 260.

Ziesche E ., 24, 47.

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NOTIZIE SUI COLLABORATORI

r e m o b o d e i , n ato a C ag liari nel 1938 , è p ro fessore straord in ario d i S toria della filosofia alla F aco ltà d i L ettere d e ll’U n iversità d i P isa e insegna S to ria e storiografia filosofica alla Scuola N orm ale Superiore d i P isa . F rai suoi scritti p iù recenti v i sono: Sistema ed epoca in Hegel, Bologna,I l M u lin o , 1975 ; Hegel e Weber. Egemonia e legittimazione, B ari, D e D on ato , 1977, in coll, con F . C assan o ; Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, N ap o li, B ib liop o lis , 19 7 9 ; Comprendere, modificarsi, in A A .V V ., Crisi della ragione, T orin o , E in au d i, 19 7 9 ; Hölderlin: La filo­sofia e il tragico, in H ö ld erlin , Sul tragico, a cura d i R . B ., M ilano , F e l­trinelli, 1980 . H a trad otto e curato opere d i R osenkranz, H egel, B loch, R osenzw eig.

C l a u d i o c e s a , nato a N o vara nel 1928, è p ro fessore ordinario d i F ilo ­sofia m orale presso la F aco ltà d i L ettere e F ilosofia d e ll ’U n iversità d i F i­renze. Scritti prin cipali: Il giovane Feuerbach, B ari, L aterza , 19 6 3 ; La filosofia politica di Schelling, B ari, Laterza , 1969 ; Studi sulla sinistra he­geliana, U rb in o , A rgalìa , 1972 ; Hegel filosofo politico, N ap o li, G u id a , 1976 ; Introduzione a Feuerbach, B ari L aterza , 1978.

LEO l u g a r i n i , n ato a P arm a nel 1920 , è pro fessore ord in ario d i F ilosofia n ella F aco ltà d i M agistero d e ll’U n iversità d i R om a. P rin cipali pu b b lica­zion i: La logica trascendentale kantiana, M ilano-M essina, P rin cipato , 1950 ; Aristotele e l’idea della filosofia, Firen ze, L a N u o v a I ta lia , 19 6 1 ; I I ediz., ib . 1 9 7 2 ; Filosofia e metafisica, U rb in o , A rgalìa , 19 6 4 ; Esperienza e verità, U rb in o , A rgalìa , 19 6 4 ; L’esperienza di sé, U rb in o , A rga lìa , 19 6 5 ; Criticismo e « fondazione soggettiva » , U rb ino , A rgalìa , 1967 ; Hegel dal mondo sto­rico alla filosofia, R om a, A rm an do, 1973.

g i u l i a n o m a r i n i , nato a P isa nel 1932, è p ro fessore ordinario d i F ilo ­sofia d ella po litica n e ll’U n iversità d i P isa . Scritti p r in cipa li: Dilthey e la comprensione del mondo umano, M ilano , G iu firè , 19 6 5 ; Savigny e il

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metodo della scienza giurìdica, Milano, Giuffrè, 1966; L’opera di Gustav Hugo nella crisi del giusnaturalismo tedesco, Milano, Giuffrè, 1969; Dilthey e il giovane Hegel (nel volume collettivo Incidenza di Hegel, Napoli, Morano, 1970, pp. 791-841); Jacob Grimm, Napoli, Guida, 1972; Dilthey filosofo della musica, Napoli, Guida, 1973; Stratificazione del­l’esperienza comune e spirito oggettivo (nel volume collettivo La filo­sofia dell’esperienza comune di Giuseppe Capograssi, Napoli, Morano, 1976, pp. 121-190); Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella «Filo­sofia del diritto » hegeliana, Napoli, Bibliopolis, 1978; Friedrich Cari von Savigny, Napoli, Guida, 1978.

Vi t t o r i o m a t h i e u , nato a Varazze nel 1923, è professore ordinario di Filosofia morale nell’Università di Torino. Scritti principali: Bergson, Torino, Ed. di « Filosofia » 1954, II ed. Napoli, Guida, 1972; La Filo­sofia trascendentale e l’Opus postumum di Kant, Torino, Ed. di « Filo­sofia », 1957; Leibniz e Des Bosses, Torino, Ed. della Facoltà di Lettere, 1960; Il problema dell’esperienza, Trieste, pubblicazioni della Fac. di Magistero, 1963; Storia della filosofia, Brescia, La Scuola, 1966; Dio nel « Libro d’ore » di R. M. Rilke, Firenze, Olschki, 1969; La speranza nella rivoluzione, Milano, Rizzoli, 1972; Dialettica della libertà, Napoli, Guida, 1974; Perché punire, Milano, Rusconi, 1977; Cancro in Occidente, Mi­lano, Editoriale nuova, 1980.

L i v i o s i c h i r o l l o , nato a Roma nel 1928, è professore ordinario di Fi­losofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università (sta­tale) di Milano. Lavori principali: Aristotelica. Dosso grafia e storiografia in Aristotele, Pubbl. Università di Urbino, Serie Lettere e Filos., IV,1957; &\,<xkiyz.aìSa,\,-Dialektik. Von Homer bis Aristoteles (mit einem Anhang über Hegel und die Antike), Hildesheim-New York, G. Olms, 1966; Per una storiografia filosofica, Pubbl. Università di Urbino, Serie Lettere e filos., XXVII, 1970 (due volumi); Una realtà separata? Poli­tica Urbanistica Partecipazione, Vallecchi, 1972; Dialettica, Milano, ISEDI, 1973, 19772. Ha curato la silloge di scritti: Filosofia e violenza. Introdu­zione a Eric Weil, Galatina, Congedo, 1978; Schiavitù antica e moderna. Problemi Storia e Istituzioni, Napoli, Guida, 1979.

Va l e r i o v e r r à , nato a Cuneo nel 1928, è professore ordinario di Storia della filosofia nell’Università di Roma. Scritti principali: Dopo Kant. Il

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criticismo nell’età preromantica, Torino, «Edizioni di Filosofia», 1957; F. H. Jacobi. Dall’illuminismo all’idealismo, Torino, « Edizioni di Filo­sofia », 1963; Dialettica e ßosofia in Plotino, Trieste, Pubblicazioni della Facoltà di Magistero, 1963; Mito, religione e ßosofia in J. G. Herder e nel suo tempo, Milano, Marzorati, 1966; Storia della filosofia, vol. I li , Bari, Laterza, 1973, 19798. Ha curato l’edizione di S. M a i m o n , Gesam­melte Werke, 7 volumi, Hildesheim, Olms, 1965-76, i volumi: La dia­lettica nel pensiero contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 1976, La filoso­fia dal ’45 ad oggi, Torino, Eri, 1976, 19772 e l’antologia: La filosofia di Hegel, Torino, Loescher, 1979.