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La città “nomadica”: esodo intersocietario e delterritorializzazione urbana nei romanzi di Mohsen Melliti di Vincenzo Binetti Per prima cosa voglio constatare che qui non mi trovo nella mia patria e che, nonostante i miei sforzi, non capisco una sola parola di quello che qui si dice. Franz Kafka Rifugio stregato. Lager. Fatiscente struttura. Vecchio casermone. Lembo extraterritoriale. Hotel immondezzaio per vu lavà. Inferno pericoloso. Casbah. Monumento al degrado. Porcile. Polveriera. Labirinto umano. Ospizio. Angolo del terzo mondo. Purgatorio degli immigrati. Calderone etnico. Zona franca. Porcaio. Bomba a orologeria. Fabbrica degli extracomunitari. Bomba etnica. Hotel disperati & diseredati. Mega accampamento. Kampo. Maxi-ghetto nero. Casa di Mohammed. Letamaio. Covo di terroristi. Antro apocalittico. Posto a rischio. Hotel della vergogna. 1 Così Renato Curcio mette insieme provocatoriamente nel suo saggio Shish Mahal una serie emblematica di attributi che, secondo il sistema linguistico mass-mediologico ed ufficiale dello stato/nazione, sarebbero dovuti servire a “nominare”, categoricizzare e forse poi obliterare attraverso la semplificazione semantica l'esperienza altrimenti controversa e complessa della Pantanella: un'enorme struttura abbandonata e semidistrutta nei pressi della Casilina a Roma che un gruppo di migranti decide di occupare nella primavera del 1990, ma che poi il governo italiano tramite gli strumenti della repressione poliziesca si impegnerà a sgomberare con la forza e la violenza dopo 6 mesi nel gennaio del 1991. Ma è proprio in opposizione problematica a questo tentativo di voler appunto sminuire sia dal punto di vista concettuale che politico le vicende sviluppatesi attorno all'ex-pastificio della Pantanella che Mohsen Melliti – scrittore tunisino residente in Italia - propone nel 1992 con il suo primo romanzo, Pantanella. Canto lungo la strada, una lettura altra di quella storia che cerchi anche attraverso il tramite narrativo della forma letteraria di dare visibilità a questo spazio urbano e quindi alle contraddizioni ed alle dinamiche comunitarie ed esso interne. L'intento di questo saggio è perciò quello di esplorare quelle che potrebbero essere sia a livello testuale che meta-testuale le strategie di fondo che definiscono l'esperienza scrittoria di Melliti per identificare eventualmente le potenzialità politiche di un processo di deterritorializzazione urbana messo in moto attraverso il definirsi di alcune situazioni momentanee di autonomia. All'interno della città di Roma - spazio urbano macroscopicamente rappresentativo delle mistificazioni di

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La città “nomadica”: esodo intersocietario e delterritorializzazione urbana nei romanzi di Mohsen Mellitidi Vincenzo Binetti

Per prima cosa voglio constatare che qui non mi trovo nella mia patria e che, nonostante i miei sforzi, non capisco una sola parola di quello che qui si dice.Franz Kafka

Rifugio stregato. Lager. Fatiscente struttura. Vecchio casermone. Lembo extraterritoriale. Hotel immondezzaio per vu lavà. Inferno pericoloso. Casbah. Monumento al degrado. Porcile. Polveriera. Labirinto umano. Ospizio. Angolo del terzo mondo. Purgatorio degli immigrati. Calderone etnico. Zona franca. Porcaio. Bomba a orologeria. Fabbrica degli extracomunitari. Bomba etnica. Hotel disperati & diseredati. Mega accampamento. Kampo. Maxi-ghetto nero. Casa di Mohammed. Letamaio. Covo di terroristi. Antro apocalittico. Posto a rischio. Hotel della vergogna.1

Così Renato Curcio mette insieme provocatoriamente nel suo saggio Shish Mahal una serie emblematica di attributi che, secondo il sistema linguistico mass-mediologico ed ufficiale dello stato/nazione, sarebbero dovuti servire a “nominare”, categoricizzare e forse poi obliterare attraverso la semplificazione semantica l'esperienza altrimenti controversa e complessa della Pantanella: un'enorme struttura abbandonata e semidistrutta nei pressi della Casilina a Roma che un gruppo di migranti decide di occupare nella primavera del 1990, ma che poi il governo italiano tramite gli strumenti della repressione poliziesca si impegnerà a sgomberare con la forza e la violenza dopo 6 mesi nel gennaio del 1991. Ma è proprio in opposizione problematica a questo tentativo di voler appunto sminuire sia dal punto di vista concettuale che politico le vicende sviluppatesi attorno all'ex-pastificio della Pantanella che Mohsen Melliti – scrittore tunisino residente in Italia - propone nel 1992 con il suo primo romanzo, Pantanella. Canto lungo la strada, una lettura altra di quella storia che cerchi anche attraverso il tramite narrativo della forma letteraria di dare visibilità a questo spazio urbano e quindi alle contraddizioni ed alle dinamiche comunitarie ed esso interne.

L'intento di questo saggio è perciò quello di esplorare quelle che potrebbero essere sia a livello testuale che meta-testuale le strategie di fondo che definiscono l'esperienza scrittoria di Melliti per identificare eventualmente le potenzialità politiche di un processo di deterritorializzazione urbana messo in moto attraverso il definirsi di alcune situazioni momentanee di autonomia. All'interno della città di Roma - spazio urbano macroscopicamente rappresentativo delle mistificazioni di un'identità italiana anacronisticamente ed utopisticamente ancora legata ad un concetto tradizionale e reazionario ormai improponibile di stato/nazione – si inserisce invece la vicenda di un soggetto narrante che, proprio in virtù della sua implicita differenza e marginalità, finisce col destabilizzare la rigidità di una planimetria urbana precodificata che vorrebbe relegare, nella dimensione periferica del non-luogo2, le “deformazioni” linguistico-culturali apportate dalla voce e dalla figura del migrante al corpo, altrimenti “sano”, della società italiana. Il romanzo di Melliti riesce invece a dare visibilità, proprio attraverso un processo di contaminazione sia a livello della canonicità letteraria che a quello ancor più rigido e categorico di specifiche simbologie urbane funzionali ad un utilizzo ideologico mistificato e nazionalistico della città, ad un soggetto sociale che in virtù della sua seppur transitoria esperienza transnazionale e nomadica riesce

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tuttavia ad asserire la sua sofferta, conflittuale ed allo stesso tempo necessaria presenza.

Ecco allora in quali termini già nell'incipit del romanzo, Melliti introduce quella che, in effetti, rappresenta la tensione di fondo ed il leitmotiv dell'intera vicenda narrata: il tentativo di superare attraverso l'atto della scrittura la dicotomia esistente tra il dentro e il fuori, tra una visione dello spazio della Pantanella mediata dall'ideologia mono-linguistica-culturale dello stato/nazione e quella invece altra e per questo spesso invisibile della comunità multi-etnica dei migranti:

Erano le due di notte nella “città”.

Il viavai era finito. C'erano solo alcuni sfaccendati pronti a riunirsi per rimanere svegli, probabilmente fino al mattino. Portarono fuori le sedie, le misero in cerchio e si sedettero. Al centro, a terra, c'erano bottiglie di vino e birra. La loro veglia cominciò allegramente poiché, durante la sera, molti avevano già bevuto vino in qualche osteria. La riunione cominciò quando Ali Shah prese bottiglia e sedia e si andò a sedere nello spiazzale dove cominciò a intonare alcune canzoni indiane con voce dolce e sottile, ma piena della profonda tristezza che gli opprimeva l'anima3.

Una comunità di migranti, dunque, capace di trasformare seppur in maniera transitoria e senza la pretesa di una finalità programmata, un luogo di alienazione e di degrado in uno spazio di autonomia momentanea all'interno del quale quasi tremila soggetti sociali “stranieri” possono riunirsi per dar voce alla loro identità culturale e linguistica decentrata; un tentativo insomma di “esodo intrasocietario” – direbbe Paolo Virno - che non è fuga utopica e romantica verso un “fuori” inesistente, ma diventa invece “presa di distanza e mobilità dentro un territorio e una forma definita di relazioni sociali…diserzione dai ruoli e sottrazione alle istituzioni”4.

Il “cerchio” di cui parla Melliti diventa perciò metafora politica e letteraria della potenzialità dirompente di un‘umanità che sebbene marginalizzata, pur nel pieno centro della capitale5, nel non-luogo rassicurante dell'invisibilità, riesce tuttavia a creare le condizioni necessarie perché il linguaggio multietnico della diversità diventi non caos babelico e semplicistica generalizzazione razzista, ma momento costituente di aggregazione e di comunicazione:

Il cerchio divenne più grande e uno dei nuovi arrivati andò a procurarsi qualcos'altro da bere. Dal cerchio si alzò una voce che cominciò a cantare mentre gli altri tacquero. Quella voce infondeva ebrezza e calore. La melodia del canto era dolce come un lamento funebre o qualcosa di simile. Poi iniziò una melodia maghrebina con lunghe maqamât, che si interruppe per lasciare il posto a un ritmo africano…Quel frammento di umanità era felice, ed esprimeva i propri sentimenti attraverso i sorrisi tracciati sui volti illuminati dalla luna…Nel frattempo arrivarono degli altri e il cerchio diventò ancora più grande. I colori e le nazionalità si mischiavano dando vita a una sola umanità e a un unico colore6.

Se dunque nella dimensione alienata della “città panico”, per usare l'accezione di Virilio, il processo di bunkerizzazione7 urbana vorrebbe

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impedire quella permeabilità necessaria tra gli spazi, isolando nel ghetto o relegando a “oggetto”8 la figura del migrante, questo soggetto in bilico decide invece di appropriarsi sia a livello testuale - tramite la scrittura del romanzo - che a livello spaziale - tramite l'occupazione dell'ex pastificio della Pantanella - di un linguaggio e di un territorio che non possono e non vogliono riconoscere invece la sua voce e la sua corporeità. Ecco allora che questo “nomade, accampato ai confini della polis, abbatte le mura e si riversa al centro della città e la occupa, imponendo nuove mentalità e nuovi consumi”9, obbligando in un certo senso anche il lettore a rendersi partecipe delle dinamiche narrative interne al romanzo e a diventare non solo spettatore passivo ma interlocutore e testimone attivo della vicenda narrata. Ed è proprio la possibilità di questo dialogo per certi versi transculturale e transnazionale che si stabilisce tra intenzione autoriale da un lato e destinatario del prodotto letterario dall'altro, che permette al soggetto migrante di raccontare le proprie storie, siano esse quelle rievocate nostalgicamente attraverso la memoria - o ghurba come ci ricorda lo stesso Melliti - della propria terra d'origine o quelle vissute problematicamente nella quotidianità del presente nella terra d'arrivo:

Sotto l'effetto di questi pensieri e di queste sensazioni, le immagini cominciarono a confondersi, ad andare a zig zag e poi di nuovo dritte, danzando sulle acque del Mediterraneo. Il rumore assordante delle onde altissime e il flusso della marea lo riportavano sull'altra sponda.10

Lo spazio del desiderio di questa comunità diventa allora quello transnazionale del “mediterraneo” e dell'”altra sponda”, un luogo deterritorializzato dove le contaminazioni reciproche tra lingue e culture diverse permettono quella condizione di “porosità”, di cui già parlava Walter Benjamin, che finisce con l'annullare qualsiasi pretesa di divisione assoluta tra dentro e fuori, tra il qui ed il là, tra centro e periferia e tenta invece di visualizzare ed immaginare un territorio autonomo sospeso sulla soglia di questa tensione dialettica, in una zona grigia insomma dove anche il sogno o il silenzio possano diventare in qualche modo metafora provocatoria della problematicità implicita nel desiderio appunto di esprimere attraverso una lingua altra e ancora da venire, il senso di displacement del proprio essere:

Quando Khaled chiese un'altra birra per Ahmad, Shirkhan intonò una canzone pakistana. Mustafa fumava una sigaretta dietro l'altra, senza sentire l'amaro in bocca. Continuavano a tacere. Ma il loro silenzio non era pesante, anzi gli consentiva la fuga verso altri mondi fantastici. Ognuno si creava un mondo particolare, con città meravigliose, strade larghissime, boschi, montagne, valli e donne splendide. Erano attimi di sogno.11

Questa “comunità viaggiante”, come la definisce lo stesso Melliti12 è dunque sospesa nell'”in-betweeness” del non-luogo proprio perché ad essa non è permesso sopravvivere né nello spazio interno, seppur alienato e degradante, della Pantanella - negato al migrante dalla logica e dalle leggi dello stato/nazione italiano13 - né nello spazio esterno della metropoli che per la sua impermeabilità ai bisogni e ai desideri del migrante rimane comunque inesorabilmente lontana ed inaccessibile. Ecco allora perché nel romanzo di Melliti, come suggerisce a giusto titolo Jennifer Burns “the desire to migrate itself, the concomitant desire to return home, and the

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desire to tell stories are linked by the common impulse to create a coherent and fully-formed other, or alternative, place.”14 E questo luogo altro è forse, ci ricorda Giorgio Agamben, una “comunità che viene”, una forma di aggregazione cioè ancora da definirsi ed all'interno della quale gli uomini possano riconoscersi non solo attraverso un'identità biografica e nazionale prestabilita, ma anche e soprattutto tramite il proprio essere e la propria esteriorità singolare. In questo ambito è infatti lo stesso Ahmad a riproporre in un momento emblematico di riflessione esistenziale, come la condizione dell'esilio costituisca un'esperienza profonda di displacement che va ben oltre i confini geografici del territorio nazionale15 e le contingenze storiche specifiche della propria vicenda personale:

Mentre lui si sentiva smarrito come una stella, gli sembrava di fuggire a zig zag verso nord, dove le nevi coprivano le cime dei monti e le città erano bianche… Continuò a vagare, attraversò tutte le orbite e le radiazioni luminose sprigionate delle stelle… Le domande gli rimbombavano in testa. “Perché sono venuto? Cosa farò?”.

Ecco l'esilio! Innanzitutto è l'esilio dell'anima e se la mente è presa da qualcosa, l'agitazione fa il suo lavoro e ti spezza dentro.

“Vivo una crisi o un problema?”. Così si chiedeva. Si sforzava di trovare una risposta affinché la realtà lo liberasse da questo oceano in cui si dimenava, che non conosceva ancora, e chissà se avrebbe mai potuto raggiungere l'altra sponda sano e salvo.16

L'impossibilità di raggiungere “l'altra sponda” non diventa perciò indugiare romantico nella dimensione per certi versi rassicurante del ripiegamento nostalgico e neanche progettualità lineare legata alla realizzazione di un obiettivo finale, ma costituisce invece un momento sovversivo di temporanea asserzione della propria condizione di esiliato e quindi di denuncia nei confronti di una società e di una cultura incapaci di riconoscere l'implicita familiarità e “proximity” con il migrante in quanto nostro simile e che invece la paura dell'altro obbliga a rimuovere nella dimensione mostruosa di una diversità estranea e per questo separata e lontana17.

Quello che insomma Melliti ci spinge a riconsiderare è che l'esilio è in fondo, come sottolinea giustamente Said, “a condition of terminal loss”18 e cioè una condizione ontologica che contraddistingue l'agire umano sia a livello storico-politico che filosofico-esistenziale:

Exile is predicated on the existence of, love for, and bond with, one's native place; what is true of all exile is not that home and love of home are lost, but that loss is inherent in the very existence of both…Exile is life led outside habitual order. It is nomadic, decentered, contrapuntual; but no sooner does one get accustomed to it than its unsettling force erupts anew.19

La deterritorializzazione dello spazio della Pantanella diventa allora possibile, seppur nella dimensione della temporaneità, proprio grazie a questa vivibilità diversa e rizomatica del non-luogo che permette non solo una contaminazione reciproca tra i confini della “città” del migrante e quelli dello spazio urbano della capitale, ma anche e soprattutto una “re-

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invenzione” continua di una comunità multietnica e multilinguistica capace di stabilire nella pratica transitoria e zigzagante del quotidiano un momento felice di aggregazione spontanea:

Nelle notti estive la birra scorreva a fiumi, mentre si intrecciavano racconti, poesie, preoccupazioni, pensieri, sogni e aspirazioni, litigi e discussioni semplici o filosofiche. Entravano a decine. I tavolini erano pieni dalla mattina alla sera. All'interno ce n'erano sei e fuori quattro, ma i clienti sedevano anche sul marciapiede. Il bar era pulito e bello, era diventato un circolo culturale mondiale. Si parlavano cinque o sei lingue, arabo, francese, inglese, urdu, panjabi, hindi e italiano. E anche se i baristi parlavano solo italiano non era un problema, c'era sempre chi traduceva.20

Questa potenzialità politica destabilizzante del contingente si ripropone anche in un altro momento del romanzo questa volta però nella dimensione più intima e raccolta della storia privata del migrante Ahmad prima con la turista belga Sandra e poi con la studentessa veneta Mary. Se da un lato, infatti, queste vicende amorose sanciscono ancora una volta l'impossibilità di una soluzione accomodante attraverso la fuga “romantica” dalla condizione di crisi che contraddistingue l'esperienza traumatica ed alienante del protagonista, dall'altro è proprio nell'incontro problematico e per certi versi inevitabilmente fallimentare tra i personaggi – tutti e tre “stranieri” anche se per ragioni completamente diverse nella metropoli romana - che l'autore sembra voler sottolineare però un possibile ripensamento ed una funzionalità diversa dello spazio urbano e delle dinamiche bio-politiche ad esso interne.

Dopo essersi sottratto volontariamente agli obblighi alienanti di una collaborazione lavorativa, Ahmad decide, infatti, di avventurarsi fuori della Pantanella e verso il centro di Roma, desideroso di immergersi anche lui nell'opulenza di uno spazio urbano pulsante di vita e di energia, ma inevitabilmente sintomatico di una dimensione esistenziale e socio-economica altra e per lui distante e irraggiungibile:

Ahmad smise di lavorare con Mustafa. Il giorno in cui si licenziò si fece la barba, la doccia e uscì… Poi prese l'autobus per il centro storico. Aveva in tasca i soldi che gli bastavano al massimo per due settimane. Scese a piazza Venezia e si incamminò per via del Corso. Di mattina, come al solito, c'era molto movimento: volti che sorridevano alla vita, studenti, belle ragazze. I negozi di abbigliamento esponevano tutti i tipi di vestiti. C'erano bar di lusso, belle macchine. Era proprio un'altra vita e un altro mondo.21

Ecco allora che l'incontro con Sandra permette invece una appropriazione momentanea ed autonoma di uno spazio interno alla logica aberrante della metropoli ed obbliga il lettore sia a livello testuale che meta-testuale a riconoscere e visualizzare quei corpi e ad accettarne la loro seppur scomoda presenza fisica ed emotiva. Nonostante infatti la condizione giuridica compromessa di Ahmed che senza regolare permesso di soggiorno non può permettersi di vagare romanticamente come un flaneur tra le strade di un'affascinante Roma notturna e nonostante il rifiuto categorico e fondamentalmente razzista di chi non vorrebbe conceder loro neanche una stanza d'albergo22, alla fine la turista e

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l'emigrante trovano comunque uno spazio di autonomia che possa dar voce, senza pretese di continuità, ai propri bisogni e desideri:

Una turista e un emigrante!

Alla fine della notte, all'inizio del mattino…La sua voce era soave, bella e dolce e riempiva la stanza, mentre il tempo li avvolgeva. La luce era di un giallo forte e lui si alzò per spegnerla. Si tolse le scarpe al buio.

In quella notte lasciarono Roma, si allontanarono correndo, fuggirono attraverso l'orizzonte, le strade, i palazzi e gli alti edifici, sopra le macchine e tra la gente. Lei amava il caldo del sud e lui desiderava con passione il freddo del nord.

“E sia amore fino alla fine del giorno…”, così aveva scritto in passato nel suo “registro del diavolo”.23

Anche il rapporto con la studentessa nasce, come nella storia con Sandra, da un legame basato inizialmente sulla condivisione precaria di una comune identità decentralizzata, ma quello che contraddistingue questa seconda esperienza di sconfinamento da parte di Ahmed nello spazio esterno della metropoli, è la diversa funzionalità ideologico-narrativa che il personaggio di Mary assume all'interno dell'evolversi narrativo. Facendo sì che Mary possa varcare la soglia dell'ex pastificio24, infatti, Melliti permette un provocatorio cambiamento di prospettiva che spinge il lettore a (ri)visitare lo spazio della Pantanella visualizzandone però questa volta la “realtà” ad esso interna in compagnia di una donna italiana che proprio grazie alla sua presenza complica e problematizza la mediazione autoriale del punto di vista di Ahmad:

Finalmente entrarono. Mary fu colpita dalla bandiera italiana che sventolava sul portone principale della Pantanella e dalle macchine della polizia, dei carabinieri e dell'ambulanza che sostavano all'ingresso. Gli chiese: - È una caserma militare o cosa? – Forse è una colonia del medioevo. La portò dentro, mentre la gente li seguiva con lo sguardo. La portò nelle cucine, poi al mercato. Gli amici di Ahmad le offrirono del tè e lei scambiò due chiacchiere con loro, ma si vedeva che aveva paura. – Stai tranquilla cara mia, non ti mangiano – disse Ahmad – anzi sono rimasti affascinati dalla tua bellezza… Come fate a vivere in queste condizioni? È assurdo! – Ma è la realtà lo hai visto con i tuoi occhi.25

La studentessa diventa in altre parole il tramite attraverso cui diventa possibile immaginare non solo un ulteriore processo di familiarizzazione del lettore con la realtà “altra” della Pantanella, ma anche e soprattutto occasione di un'auspicabile presa di coscienza politico-culturale di un altrove rimosso nella lontananza accomodante di una terra straniera e che invece la mediazione di Mary aiuta suo malgrado a far riemergere. Ahmad, infatti, proprio grazie alle insistenze della studentessa curiosa di voler conoscere il suo passato decide di rivelare, facendosene quindi testimone esemplare, le atrocità e le violenze perpetrate nella sua terra d'origine; l'invisibilità del soggetto migrante diventa così rappresentabile, tramite l'oralità di una storia narrata, grazie appunto alla rivisitazione memoriale del protagonista e quindi “tradotta” problematicamente sulla pagina scritta

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nella lingua “ufficiale” della terra d'arrivo:

- Allora vuoi conoscere la mia vita precedente? – Sì, è proprio questo che voglio. Raccontami della tua città, del tuo paese, della tua famiglia e dei tuoi amici… - E io ti racconto di quella ragazza che ho amato. Era bella, per me era molto bella. Eravamo felici. Era la mia amante e la mia compagna di lotta… e abbiamo deciso di cambiare il mondo insieme… Immaginati Suheyr in una cella dei sotterranei del carcere mentre le spengono le sigarette sul corpo, sui seni. La violentano come bestie feroci… Cercavano di farla confessare o firmare. Le spararono in una notte buia. Sui giornali scrissero che si era suicidata.26

Questo voler raccontare e quindi rivivere nel presente e nell'intimità del privato i percorsi e le vicissitudini politico-esistenziali della propria vicenda umana, stabilisce dunque ancora una volta, pur nella precarietà della dimensione transitoria dell'incontro fortuito e pur nell'insostenibile drammaticità che l'orrore di quell'esperienza rivela, le condizioni possibili per una condivisione di un linguaggio comune; dando voce al proprio silenzio anche attraverso la gestualità del pianto o dei loro stessi “respiri”27

questi personaggi sconfinano perciò oltre la cornice testuale della vicenda letteraria e diventano anche e soprattutto referenti meta-testuali emblematici di una collettività e di una pluralità di soggetti sociali alla ricerca disperata di una propria vivibilità e visibilità nella dimensione alienante dello spazio urbano.

Si rivela perciò sintomatico a questo proposito l'epilogo del romanzo che vede infatti nello sgombero della Pantanella da parte delle forze di polizia, il riconoscimento macroscopico del tentativo di annientamento compiuto da parte dello stato/nazione italiano sia delle potenzialità costituenti di autonomia interlinguistica e interculturale dell'esperienza della Pantanella che dei desideri di contaminazione che le storie nomadiche d'amore di Ahmad cercavano di esprimere. Ecco in quali termini infatti Melliti descrive, tramite un linguaggio asciutto ed essenziale, l'operazione di sgombero:

La “città” fu circondata da ogni parte e le auto della polizia sbarrarono le strade adiacenti. Arrivarono anche delle camionette e decine di guardie invasero la “città”. Avevano armi da fuoco, cani, manganelli. L'operazione ebbe inizio in modo frenetico. I poliziotti buttarono tutti giù dal letto, calpestando vestiti e masserizie. Fracassarono televisori e radio mentre i cani annusavano fra i materassi. Tutti gli edifici vennero circondati e fatti sgombrare, alcuni abitanti uscirono scalzi, altri in pigiama. Quelli che non avevano il permesso di soggiorno vennero fatti salire sulle camionette e portati al commissariato. I poliziotti spingevano gli abitanti, picchiavano sulle porte con i manganelli, rovesciavano i letti per vedere se ci fosse nascosto qualcosa di illecito mentre i cani continuavano ad annusare dappertutto.28

Ma nonostante il lieto fine negato, sancito tra l'altro improrogabilmente anche dal suicidio dello stesso protagonista29 con cui si chiude il romanzo, Melliti riesce comunque a dare a questa storia, all'interno della canonicità letteraria italiana, una provocatoria funzionalità politica, facendo cioè della propria lingua, secondo l'intuizione di Deleuze e Guattari, un uso ”30 e servendosi così “della sintassi per gridare, [per] dare al grido una

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sintassi.”31 Ecco allora che a Pantanella, così come ad Eufemia, la città invisibile di cui parlava Calvino “in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio”32, diventa possibile raccontarsi e ripensarsi come persone, per provare ad immaginare insieme, proprio grazie alla diversità culturale e linguistica che contraddistingue questa comunità potenziale di migranti, uno spazio altro all'interno del quale si possa in qualche modo, dopo l'obliterazione “necessaria” del non-luogo e del suo emblematico portavoce, (ri)ascoltare quel silenzio e (ri)abitare quel vuoto.

1 Renato Curcio, Shish Mahal. Roma: Sensibili alle foglie, 1991, p. 8. 2 Scrive Marc Augé: “I non luoghi sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni…quanto i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta.” Augé Marc, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera: Milano, 2002, p. 36.3 Mohsen Melliti, Pantanella. Canto lungo la strada. Roma: Edizioni Lavoro, 1992, p. 11.4 Augusto Illuminati, La città e il desiderio. Realtà e metafore della moderna cittadinanza, Roma: manifestolibri, 1992, p. 106.5 Come sottolinea a giusto titolo Curcio: “è proprio questo decreto d'inesistenza sociale, questa imposizione di un rapporto di messa a distanza, di sfuocamento, d'allontanamento, che sta all'origine del formarsi del ghetto.” Curcio, 59.6 Melliti, 13.7 Scrive Virilio: “la città è la forma politica maggiore della Storia…questo ritorno in emergenza della ‘città chiusa' e della BUNKERIZZAZIONE che colpisce poco a poco le città…OMNIPOLIS; città fantasma…METACITTÀ senza limiti e senza leggi…l'omnicentro di nessun luogo”. Paul Virilio, Città panico, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2004, pp. 66-67 e 74.8 Ecco infatti come Melliti rappresenta con leggero sarcasmo l'immagine distorta della Pantanella frutto della paura e dell'ignoranza: “Khaled si voltò verso un tizio che gli stava accanto: - Guarda, un'altra turista. Uno rispose: - Siamo diventati un museo archeologico, da visitare in occasioni speciali… – I giornalisti e i fotografi ci vedono come se fossimo oggetti.” Melliti, 17. 9 Massimo Ilardi (a cura di), La città senza luoghi. Individuo, conflitto, consumo nella metropoli, Genova: Costa & Nolan, 1990, p. 31.10 Melliti, 20-1.11 Melliti, 43.12 Scrive Melliti: “Nei primi giorni erano pochi, ma via via il numero aumentò. All'inizio solo l'edificio centrale era occupato, gli altri erano vuoti. In quell'edificio si insediarono le diverse comunità una sull'altra nonostante il caldo soffocante. Era estate e c'era gente dappertutto…Era come una comunità viaggiante, debole e stanca, che non sa nemmeno se partire di nuovo verso un altro paese lontano. E gli emigrati si ritrovavano in questo posto squallido, lontano, isolato, al di fuori della zona illuminata della città.” Melliti, 49.13 Esiste infatti una disparità incolmabile tra la necessità di impegno

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politico comune che caratterizza gli abitanti della Pantanella e la percezione falsata che di questi bisogni propone la cultura ufficiale dei mass-media: “ – Dobbiamo parlare agli abitanti della “città” e convincerli, far loro capire come stanno realmente le cose. Poi possiamo provare a creare una comunità capace di lottare. Dobbiamo costruire un legame fra gli abitanti della “città” - disse Ahmad….La stampa cominciò a muoversi con decine di giornalisti e fotografi. Dalla mattina alla sera esploravano, cercavano cose nascoste, ascoltavano lamentele, promettevano che avrebbero scritto dei loro problemi reali. Ma alcuni giornali pubblicavano dei grossi titoli accusando gli abitanti della “città” di spaccio di droga e di altri crimini.” Melliti, 59.14 Jennifer Burns, “Exile Within Italy: Interactions Between Past and Present ‘Homes' in Texts in Italian by Migrant Writers”, in Annali d'Italianistica, n. 20, 2002, p. 383.15 Anche la parola “straniero” acquista in questo ambito una valenza più complessa e problematica e quindi perde quella rigidità categorica con cui in genere viene utilizzata: “Mentre mi lavavo la faccia arrivarono dei bambini. Si allontanarono un po' e cominciarono a ridere. Un bambino si voltò verso di me e disse: - Straniero vaffanculo. Mi vergognai di me stesso, fu come se mi avessero dato una pugnalata…La proprietaria dell'alimentari era una donna sulla cinquantina, si chiamava Teresa. Come era gentile quella donna, era una madre per tutti noi…. – Anche io sono straniera qui, sono di Catania. Sono venuta negli anni Settanta. La nostra situazione era drammatica. Io non ho potuto continuare gli studi, mia madre era vecchia, mio padre era morto e avevo due sorelle piccole.” Melliti, 65.16 Melliti, 68.17 A tale proposito Curcio sottolinea in effetti che “deportazione” significa “letteralmente portar via enucleare, mettere a distanza, spostare lontano…Eppure per un effetto sociale che converrebbe non sottovalutare, più si rimuove e non s'affronta, più si mette a distanza un nostro simile, più esso si ripresenta vicino…respinto alle periferie non si sta forse rovesciando proprio al centro delle grandi metropoli nord-americane ed europee? Curcio, 76-77.18 Edward W. Said, Reflections on Exile and Other Essays, Cambridge: Harvard University Press, 2000, 173.19 Said, 185-86.20 Melliti, 71.21 Melliti, 94.22 Scrive infatti Melliti: “Decisero di andare in una pensione semplice, senza stelle. Nella prima a cui suonarono risposero che non c'era posto. Così alla seconda. Alla terza gli dissero che c'era posto per due. Salirono al terzo piano con l'ascensore. Lei si sentiva felice e lui la baciava. Andarono a destra dove c'era la porta della reception. Lui entrò dopo lei. C'era un uomo sui quarant'anni che li salutò in un inglese scorretto e chiese loro documenti. Mentre guardava il passaporto di Sandra, Ahmad mostrò il suo. L'uomo l'aprì e notò qualcosa di strano nel suo sguardo. Quando lo ebbe sfogliato tutto, glielo restituì e disse; - Non c'è posto. Ahmad replicò: - Ma noi due stiamo insieme. – Non c'è posto né per te né per lei – disse quasi ringhiando. In quel momento sentì una vertigine, un dolore, un sentimento

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di ingiustizia, un dolore indescrivibile nei suoi occhi e un'amarezza in gola...” Melliti, 101.23 Melliti, 102.24 Ahmed sottolinea infatti ironicamente l'estraneità di Mary alla condizione di vita “reale” della Pantanella: “Visiterai la nostra “città” che sembra uscita dalla mitologia greca, vedrai un teatro della vanità scritto da filosofi ambiziosi e anarchici. Vedrai campi da gioco, piscine, giardini e scuole, uomini senza donne e una letteratura che la tua antropologia non conosce, mia cara Mary.” Melliti, 136.25 Melliti, 136 e 138.26 Melliti, 142-6.27 Melliti, 147.28 Melliti, 167.29 Non è un caso che la storia si concluda proprio con un gesto la cui indicibilità si traduce invece metaforicamente nel “messaggio” lasciato da Melliti con la scrittura del romanzo: “Eccolo sul ponte, sospeso parecchi metri sul fiume. Prima di gettarsi Ahmad gridò o forse cantò, aveva scritto un messaggio, ma non sapeva se lo aveva scritto per se stesso o per un amico che non era ancora arrivato.” Melliti, 172.30 Scrivono infatti Deleuze e Guattari: “Una letteratura minore non è la letteratura d'una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore.” G. Deleuze – F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Macerata: Quodlibet, 1996, p. 29.31 Deleuze e Guattari, 47.32 Scrive Calvino: “Non solo a vendere e a comprare si viene a Eufemia, ma anche perché la notte accanto ai fuochi tutt'intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice - come “lupo”, “sorella”, nascosto”, “battaglia”, “scabbia”, “amanti” - gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio.” Italo Calvino, Le città invisibili, Milano: Mondadori, 1993, pp. 36-7.