a a a a 10 - mondoperaio – Rivista fondata da Pietro Nenni€¦ · De Rita, Mauro Del Bue, ......

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mondoperaio rivista mensile fondata da pietro nenni Poste Italiane S.p.a. Spedizione abbonamento postale DL 353/2003 (conv. in l. 27/02/04 N. 45 art. 1 comma 1) DBC ROMA eugenio colorni becherucci > valvano > d’andrea > rolando > dastoli > cerchiai > r. colorni articolodiciotto liso riforme e partiti pombeni > spada > iacovissi > monaco mastromartino > del corno > salvatore > baldacci romano > benzoni > capogrossi > ballistreri > damele ocone > di matteo > giuliani > covatta 10 ottobre 2014

Transcript of a a a a 10 - mondoperaio – Rivista fondata da Pietro Nenni€¦ · De Rita, Mauro Del Bue, ......

mondoperaiorivista mensile fondata da pietro nenni

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ISSN 0392-1115

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10ottobre 2014

sommario / / / / mondoperaio 10/2014

>>>> sommario

mondoperaiorivista mensile fondata da pietro nenni 10

ottobre 2014

­­Direttore­Luigi Covatta

Comitato­di­direzioneGennaro Acquaviva, Alberto Benzoni, Luigi Capogrossi, Simona Colarizi, AntonioFuniciello, Pio Marconi, Corrado Ocone,Luciano Pero, Cesare Pinelli, MarioRicciardi, Stefano Rolando.

Segretaria­di­redazione Giulia Giuliani

Collaborano­a­MondoperaioPaolo Allegrezza, Salvo Andò, Federigo Argentieri, Domenico Argondizzo,Antonio Badini, Valentino Baldacci,Maurizio Ballistreri, Antonio Banfi,Giovanni Bechelloni, Luciano Benadusi,Felice Besostri, Paolo Borioni, Enrico Buemi,Giampiero Buonomo, Dario A. Caprio,Giuliano Cazzola, Stefano Ceccanti, Luca Cefisi, Enzo Cheli, Zeffiro Ciuffoletti,Luigi Compagna, Carlo Correr, Piero Craveri,Bobo Craxi, Biagio de Giovanni, EdoardoCrisafulli, Gianni De Michelis, GiuseppeDe Rita, Mauro Del Bue, Danilo Di Matteo,Emmanuele Emanuele, Marcello Fedele, Aldo Forbice, Federico Fornaro, FrancescaFranco, Valerio Francola, Ernesto Gallidella Loggia, Vito Gamberale, TommasoGazzolo, Marco Gervasoni, GustavoGhidini, Ugo Intini, Massimo Lo Cicero,Emanuele Macaluso, Gianpiero Magnani,Bruno Manghi, Michele Marchi, PietroMerli Brandini, Matteo Lo Presti, Matteo Monaco, Enrico Morando, RiccardoNencini, Piero Pagnotta, Giuliano Parodi,Gianfranco Pasquino, Claudio Petruccioli,Giovanni Pieraccini, Carmine Pinto,Gianfranco Polillo, Paolo Pombeni, MarcoPreioni, Mario Raffaelli, Paolo Raffone,Giorgio Rebuffa, Giuseppe Roma,Gianfranco Sabattini, Giulio Sapelli,Giovanni Scirocco, Luigi ScoppolaIacopini, Carlo Sorrentino, Celestino Spada,Giuseppe Tamburrano, Giulia Velotti,Tommaso Visone, Bruno Zanardi, Nicola Zoller.

Le­immagini­di­questo­numero­sono­state­fornitedalla­Fondazione­Nitti.

Direzione,­redazione,­amministrazione,­diffusione­e­pubblicità00186 Roma - Via di Santa Caterina da Siena, 57tel. 06/68307666 - fax. 06/[email protected]

Impaginazione­e­stampaPonte Sisto - Via delle Zoccolette, 25 - 00186 Roma

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Presidente­del­Consiglio­di­AmministrazioneOreste Pastorelli

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Aut. Trib. Roma 279/95 del 31/05/95Questo numero è stato chiuso in tipografia il 9/10/2014 www.mondoperaio.net

editoriale 3Luigi Covatta Undicesima ora

articolodiciotto 5Franco Liso L’eterno ritorno del sempre uguale

riforme e partiti 21Paolo Pombeni Un sistema al capolinea

Celestino Spada Se si vola troppo alto

Vincenzo Iacovissi Le province in via di estinzione

Matteo Monaco Cronache di rottamati

saggi e dibattiti 39Fabrizio Mastromartino Il rigore e l’impegno

Nicola Del Corno Il socievole eremita

Antonio Salvatore Da Voltaire a Norimberga

Valentino Baldacci Le vestali della bellezza

aporie 58Antonio Romano Risse non negoziabili

eugenio colorni 59Andrea Becherucci Soprattutto socialista

Livio Valvano L’esilio di Melfi

Giampaolo D’Andrea L’antifascista moderno

Stefano Rolando Profilo di un visionario

Pier Virgilio Dastoli Il laboratorio di Ventotene

Geri Cerchiai Il filosofo militante

Renata Colorni Ricoscoprire un padre

biblioteca/recensioni 77Alberto Benzoni Diario di un migliorista

Luigi Capogrossi La continuità di uno Stato improvvisato

Maurizio Ballistreri La concertazione non è un pranzo di gala

Giovanni Damele La società della sfiducia

biblioteca/schede di lettura 92Corrado Ocone Le religioni dell’uomo-Dio

Danilo Di Matteo La Riforma e la democrazia

Il Vangelo secondo Matteo (quello vero) riporta una para-bola che a lungo ha tormentato gli esegeti: quella del

vignaiolo che, dopo avere ingaggiato un certo numero di ope-rai per l’intera giornata, ne chiama altri - alla terza, alla sestae perfino all’undicesima ora - e poi retribuisce tutti con lostesso salario. E’ il paradosso cristiano per cui gli ultimisaranno i primi e i primi saranno gli ultimi. Ma può insegnaremolto anche in un contesto mondano, come è per definizionequello in cui si svolge la vicenda politica di una nazione.Nella sinistra italiana, ora, sono scesi in campo gli operai del-l’undicesima ora. Quelli a cui nessuno pensava all’inizio dellagiornata. Quelli che per undici lunghe ore non hanno faticato.Quelli che vengono premiati con la stessa moneta che altri sisono dovuti sudare. Onestamente, è difficile da digerire. Spe-cialmente da parte di chi, nel corso della giornata, della vignaaveva imparato a conoscere tutti i segreti, e comunque erastato chiamato per primo in ragione della propria riconosciutaprofessionalità. Si può capire, dunque, lo sconcerto con cui hareagito all’avvento di Renzi quella che un giornalismo pigroe ripetitivo ha subito ribattezzato la “minoranzapiddì” (tuttoattaccato, come si addice alla comunicazione tweet): la rea-zione, cioè, di quanti per vent’anni si sono affannati fra tralcie filari, hanno sperimentato innesti e concimi, senza peraltroarrivare mai alla vendemmia. La vendemmia, infatti, è toccata proprio agli operai dell’un-dicesima ora. Ma non si tratta nè di un paradosso, né di uncapriccio del vignaiolo. Il paradosso, semmai, è quello per cuivent’anni fa i postcomunisti – prima di diventare, insieme conla Bindi e con Mucchetti, la “minoranzapiddì” - si trovaronoproiettati al centro del nuovo assetto di potere proprio nelpunto più basso della loro parabola politica, culturale ed elet-torale, e furono destinatari di un’offerta faustiana che nonpotevano rifiutare ma che non erano nemmeno in grado digestire in prima persona, come scrive nelle pagine cheseguono Alberto Benzoni recensendo l’onesto diario diUmberto Ranieri.Quanto al capriccio del vignaiolo, nulla di più razionale delpremio assegnato all’ultimo venuto. E non solo in ossequio

al teorema del TINA (there is no alternative ), che puresarebbe facilmente dimostrabile. Soprattutto perché gli ope-rai dell’undicesima ora mostrano di saper leggere lo scena-rio politico (a cominciare da quello che sta fuori dal recintodella vigna) con maggiore lucidità di tanti professionisti dilungo corso.Molti, per esempio, si sono stupiti per il gesto politico con cuiRenzi ha interrotto la litania di quelli che non volevano“morire socialisti” ed ha aderito al Pse. E qualcuno ha addi-rittura ritenuto di poter mettere in contraddizione quella sceltacon la deriva “centrista” del suo governo. C’è da chiedersi inche mondo vivano certi commentatori, se non in quello deisogni della loro gioventù. Non, comunque, in quello in cuiMarine Le Pen si appresta a fare un sol boccone della destra“repubblicana” francese, ed in cui Cameron e la Merkel sonoincalzati da movimenti antieuropeisti sempre più aggressivi.E’ in questa Europa reale che la posizione del Ppe, benchèancora lievemente maggioritaria nel Parlamento, diventa ognigiorno più insostenibile (e prima se ne convinceranno anche isocialisti del Nord meglio sarà per tutti). Ed è in questaEuropa reale che il Pse costituisce il principale argine a unaderiva di destra che altrimenti travolgerà anche i Tories e laCdu, dopo avere già travolto Berlusconi e Sarkozy.Anche per questo, del resto, Renzi può permettersi di sfidarei mandarini di Bruxelles: non perché, come dicono, assommal’incoscienza di un Giamburrasca all’irruenza di un CapitanFracassa; ma perché ha capito che è finito il ciclo politico nelquale gli eurocrati hanno fatto il bello e il cattivo tempo, e chetocca ai socialisti aprirne uno nuovo, per rappresentare quellamaggioranza di cittadini europei che crede ancora nell’U-nione, e che anzi ad essa si affida per tutelare il propriomodello sociale. Il quale non si fonda sull’articolodiciotto(anche questo tutto attaccato, come si addice a un feticcio cheormai vive di vita propria), ma sulla crescita economica.Se questa è la sfida, si fa fatica a comprendere non tanto ildiciannovismo di Landini, quanto la disponibilità della Cgil afarsi strumento di manovre correntizie in seno al Pd. Ancheperchè non è più il tempo in cui, al congresso del Pds del

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Undicesima ora>>>> Luigi Covatta

1997, Cofferati poteva costringere D’Alema a rimangiarsinella replica quel Jobs Act ante litteram che era stato il leit-motiv della sua relazione. Ora i ruoli sembrano rovesciati. Ese allora la pretesa di sostituirsi al partito comunque non fecebene al sindacato, si può immaginare quali vantaggi avrà ilsindacato oggi nel diventare “base di massa” di una correntedi notabili spodestati.Fu per questo, fra l’altro, che allora gli operai della prima orafallirono il disegno che avrebbe consentito un’evoluzione piùlineare della vicenda della sinistra italiana, attraverso la for-mazione di un grande partito socialdemocratico che silasciasse alle spalle sessant’anni di conflitti, da Livorno a SanValentino. Ed è per questo, forse, che oggi c’è ancora chievoca l’occupazione delle fabbriche e chi minaccia sfracellisull’articolodiciotto con la stessa orgogliosa sicurezza con cuili aveva minacciati su due punti di scala mobile.Che Renzi lo sappia o no, infatti (e che gli faccia o no pia-cere), quello che è andato in scena fra settembre ed ottobre èun copione già visto. Ed è un copione a lieto fine non solo perchi è uscito vincente dal confronto, ma anche per chi nell’im-mediato ne è uscito soccombente. Per il sindacato, almeno,che allora si vide restituito un potere di contrattazione sala-riale che ormai aveva appaltato all’Istat, ed ora può vedersirestituire un potere di contrattazione nell’organizzazioneaziendale ormai appaltato alla magistratura del lavoro. Epazienza se non lo capiscono i marxisti immaginari che nonsolo non hanno appreso la lezione del Diciotto Brumaio, mapreferiscono navigare nell’empireo dei “diritti” invece di lot-tare sul terreno della conquista dei poteri. Minore pazienza, invece, nel seguire i ragionamenti di chi (persecondarlo o per contrastarlo) sospetta che Renzi, dopo esser-sene impossessato in limine, voglia ora spiantare la vigna dellasinistra. Sempre che, s’intende, l’europeismo rappresentiancora per la sinistra un valore (come settant’anni fa auspicavaEugenio Colorni, la cui figura rievochiamo in questo numerodella rivista); e sempre che non si identifichi la sinistra con icimeli di un partito di opposizione del secolo scorso: con tantisaluti a una “vocazione maggioritaria” che non può ridursibanalmente alla voglia di vincere le elezioni, ma consiste nellacapacità di rappresentare gli interessi, i bisogni e le aspirazionidella maggioranza dei cittadini, senza preoccuparsi di diven-tare perciò il “partito della nazione” (aspirazione, peraltro, chedovrebbe stare nel Dna di ogni partito).I problemi, semmai, sono altri. San Matteo (quello vero) nonci ha raccontato quale fu l’esito della vendemmia portata atermine dagli operai dell’undicesima ora. Se cioè essi, abili a

vendemmiare, fossero stati altrettanto capaci nel vinificare.La procedura, come si sa, è complessa, e se non si conoscebene l’enologia il vino può andare in aceto: dopo di che nonc’è marketing che tenga per poterlo smerciare. Da questo punto di vista non guasterebbe qualche enologo inpiù, e non sarebbe inutile neanche una più attenta manuten-zione delle cantine. Se non altro per evitare che si crei il vuotofra il leader e quei cacicchi di periferia il cui ruolo – anche peril combinato disposto di sistemi elettorali vecchi e nuovi –rischia di essere ulteriormente potenziato. Se anzi il dibattitopubblico si concentrasse su questo, invece di ridursi alla dia-lettica dei “mi piace” e “non mi piace” sull’immagine diRenzi, avremmo già fatto un passo avanti. E un altro nefaremmo se ci dedicassimo alla manutenzione della nostrademocrazia con la stessa assiduità con la quale altri ne denun-ciano il crollo ogni mattina, ora per la fine del bicameralismoperfetto, ora per il superamento dell’articolodiciotto.

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Devo convenire con la redazione che quanto scritto

una decina di anni fa mantiene una sua attualità.

Nonostante l’articolo 18 rappresenti un elemento de-

cisamente marginale ai fini del problema della disoc-

cupazione, lo scontro intorno ad esso continua ad

avere un’alta valenza ideologica. La novità, questa

volta, è data dal fatto che esso si svolge in casa Pd, e

che, per chi lo ha attizzato, sembra funzionale ad una

modernizzazione della propria immagine sul mercato

politico.

In quanto ideologico, lo scontro non mi appassiona:

ma devo confessare che avverto tristezza per una sini-

stra che emotivamente si arrocca nella difesa di un

tabù, salvo poi accettare arretramenti strategici. Un

arretramento è stato già compiuto due anni fa con la

legge Fornero, che ha eliminato l’assurda situazione

della reintegrazione come sanzione unica per qualsiasi

forma di illegittimità del licenziamento. Arretramento

saggio, ma compiuto attraverso formule che hanno

vieppiù complicato il quadro normativo a beneficio

del ceto consulenziale e forense. Un altro arretramento

è ora disposta a compiere con l’accettazione della fi-

gura del contratto a tempo indeterminato a tutele cre-

scenti, che costituisce la risultante di una situazione

in cui si dà per scontato che il tabù è intoccabile. Ma

diciamo la verità: non rappresenta, questo, l’ammis-

sione che l’articolo 18 evidentemente costituisce un

fattore che spinge le imprese a favorire forme di lavoro

temporanee?

Peraltro, come si mette in evidenza nell’articolo, il pro-

blema non è rappresentato tanto dall’articolo 18, quanto

dal contesto in cui esso opera, e in particolare dalla di-

sciplina dei licenziamenti individuali e dal modo grezzo

in cui attraverso di essa si cerca di promuovere la

stabilità della condizione lavorativa, affidata all’iniziativa

del singolo ed alle variabili sorti della mediazione giudi-

ziaria. Sarebbe il tempo, per quella sinistra, di uscire

dalla difensiva: e non certo per chiamare il popolo del

Pd a dire un si o un no con un referendum, ma per misu-

rarsi fattivamente con l’esigenza di promuovere e tutelare

nel concreto la dignità dei lavoratori attraverso nuove

modalità più coerenti con l’attuale contesto.

L’aspro conflitto che si è svolto nel nostro paese sullaquestione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori -

originato dall’iniziativa assunta dal governo con il disegno dilegge A.S. n. 848 – ha offerto una rappresentazione enfaticadelle grandi tensioni alle quali il diritto del lavoro è sottopo-sto nel tempo presente, che sembrano implicare una messa indiscussione della sua capacità di continuare a fornire – comein passato – un’efficace difesa degli interessi dei lavoratori.Nello stesso momento, i modi in cui quel conflitto si è svoltoe si sta svolgendo offrono una prova di come nel nostrosistema politico l’attitudine allo scontro ideologico prevalgasulla riflessione.Non altrimenti può dirsi, a quest’ultimo riguardo, ove siconsideri che un tema sul quale già da tempo erano stateavanzate autorevoli proposte di innovazione1 si sia prestato

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L’eterno ritorno del sempre uguale>>>> Franco Liso

Avevamo chiesto a Franco Liso un commento sullo psicodramma che si sta rappresentando

a proposito dell’eventuale superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Ci ha mandato un suo saggio pubblicato negli “Studi in onore di Giorgio Ghezzi”

editi da Cedam nel 2005. Lo pubblichiamo così com’era, a testimonianza della ripetitività

di un dibattito che non approda mai a un risultato.

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ad essere oggetto di unoscontro condotto all’inse-gna di simboli il cui uti-lizzo mira a chiedere loschieramento facendoappello all’emozione. Edinfatti da un lato quelliche vorrebbero manomet-tere l’articolo 18 affer-mano che chi si opponevuole difendere il privile-gio dei padri a danno deifigli, condannati alla dis-occupazione o a rapportidi lavoro precari propriodall’esistenza di quel pri-

vilegio. Dall’altro lato quelli che si oppongono alla mano-missione affermano che è in gioco la dignità del lavoro e lasopravvivenza del sindacato in azienda. Condotto in questitermini, lo scontro sembra non lasciare vie d’uscita: o dauna parte o dall’altra. Che questa piega prendesse il confronto era forse inevita-bile, peraltro, nel momento in cui l’iniziativa assunta dalgoverno ha configurato un quadro nel complesso fortementedestabilizzatore (prevedendosi flessibilità portate a limitiestremi2, e nella sostanza una riduzione del ruolo dellamediazione collettiva), e nella materia che ci interessa si èsostanziata in una disposizione3 che - prevedendo in via spe-rimentale, per un certo periodo, la disattivazione della disci-

plina dell’articolo 18 in una determinata serie di situazioni –nella sostanza parte dall’assunto che quella disciplina debbaessere non opportunamente ricalibrata, bensì semplicementesoppressa4: in altri termini, la sperimentazione sarebbe fina-lizzata a comprovare l’influenza negativa dell’articolo 18sull’occupazione, e quindi a porre le premesse per una suadefinitiva cancellazione. Perché questo conflitto offre una rappresentazione enfatica dellegrandi tensioni alle quali il diritto del lavoro è sottoposto neltempo presente? E quali sono queste tensioni? Le profonde tra-sformazioni che si stanno producendo, per una serie di ragioni,nel sistema economico - tendenti a caratterizzarlo come espostoa turbolenze sempre più frequenti e ad una competitività semprepiù accentuata tra gli operatori economici - stanno esercitandola loro influenza sul diritto del lavoro. Quella competitività, seesprime effetti benefici – normalmente – per il consumatore,costituisce invece una minaccia per il sistema di garanzie acqui-sito nel corso del tempo dal lavoratore.

Il capitalista sembra meno interessato

al controllo disciplinare delle energie

lavorative e più interessato ai risultati

Da essa infatti scaturiscono potenti spinte alla flessibilità deimoduli organizzativi e quindi regolativi, che sembranoindurre una crisi di identità nel diritto del lavoro per comeesso è venuto configurandosi soprattutto nell’arco degli anni’60 e dei primi anni ’70. Essa si esprime in molteplici aspetti.In particolare, da un lato si può dire che la crisi si manifesti

1 Ricordo, in particolare, per la loro autorevolezza, una proposta del Cnel,dei primi anni ’80, relatore Mengoni, nella quale si prospettava l’oppor-tunità che il regime della reintegrazione venisse riservato ai casi di licen-ziamento per discriminazione; ma anche proposte, peraltro non formaliz-zate, di colui che non senza ragione viene ricordato come padre dello Sta-tuto dei lavoratori, Giugni.

2 In particolare nella materia degli appalti di manodopera e del trasferi-mento di azienda; ma anche del lavoro a tempo parziale, ove non inter-venga l’autonomia collettiva.

3 Art. 10 (Delega al Governo in materia di altre misure temporanee e spe-rimentali a sostegno della occupazione regolare, nonché incentivi alleassunzioni a tempo indeterminato)1. Ai fini di sostegno e incentivazione della occupazione regolare edelle assunzioni a tempo indeterminato, il Governo è delegato ademanare uno o più decreti legislativi per introdurre in via sperimen-tale, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore dellapresente legge, disposizioni relative alle conseguenze sanzionatorie acarico del datore di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato aisensi della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni,in deroga all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, preve-

dendo in alternativa il risarcimento alla reintegrazione, nel rispettodei seguenti princìpi e criteri direttivi:a) conferma dei divieti attualmente vigenti in materia di licenziamentodiscriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970,n. 300, e successive modificazioni, licenziamento della lavoratrice inconcomitanza con il suo matrimonio a norma degli articoli 1 e 2 dellalegge 9 gennaio 1963, n. 7, e licenziamento in caso di malattia o mater-nità a norma dell’articolo 2110 del codice civile;b) applicazione in via sperimentale della disciplina per la durata di quattroanni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi, fatta salva la possi-bilità di proroghe in relazione agli effetti registrati sul piano occupazionale;c) identificazione delle ragioni oggettive connesse a misure di riemer-sione, stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazionida tempo determinato a tempo indeterminato, politiche di incoraggia-mento della crescita dimensionale delle imprese minori, non computan-dosi nel numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte per ilprimo biennio, che giustifichino la deroga all’articolo 18 della legge 20maggio 1970, n. 300.

4 Salvo che per le situazioni di licenziamento discriminatorio (anche sequesta intenzione non risulta tecnicamente ben formulata).

con riferimento all’ampiezza dei territori occupati da queldiritto (l’area del lavoro subordinato – e quindi quella deldiritto del lavoro come noi lo conosciamo – è destinata aridursi? Il diritto del lavoro è destinato a perdere peso?);dall’altro lato, ma si tratta forse di un’altra faccia della stessamedaglia, si può dire che la crisi riguardi l’efficienza regola-tiva del diritto del lavoro, cioè la sua capacità di rispondereeffettivamente alle esigenze di promozione degli interessi deilavoratori: di quelli che un lavoro lo hanno, ma anche diquelli che il lavoro ambirebbero ad averlo. Cominciamo a considerare il primo aspetto. Prestandosi adassecondare il razionale calcolo economico del capitale, ilcontratto di lavoro aveva rappresentato alle origini lo stru-mento attraverso il quale si è espresso quel processo di ridu-zione del lavoro a merce che ha accompagnato la prima rivo-luzione industriale. Attraverso il contratto di lavoro, infatti, ilpossessore di capitali soddisfaceva l’esigenza di acquisiremere energie lavorative da dirigere e controllare, mediante unsistema gerarchico e disciplinare, al fine di realizzare in pro-prio la produzione di beni. Alla nascita della manifattura si èaccompagnata la riduzione dell’artigiano – lavoratore auto-nomo – alla condizione di lavoratore subordinato; con l’im-porsi del sistema della manifattura l’artigiano non ha potutopiù vendere i beni da lui prodotti, ha dovuto “vendere” sestesso. Il diritto del lavoro, per come noi lo conosciamo, si èsviluppato sull’antico tronco del diritto civile per attenuare econtrastare le negative conseguenze derivanti dalla disparitàdi condizioni economiche (e quindi di potere) che l’ideologiadel “libero contratto di lavoro” nascondeva dietro la mascheradella parità giuridica dei contraenti.Ora, dopo un lungo ciclo durante il quale il diritto ha operatosviluppandosi in termini decisi nella direzione della demerci-ficazione del lavoro, sembra essersi innescata una tendenza disegno contrario: dal lavoro subordinato al lavoro autonomo.Il capitalista, infatti, sembra meno interessato al controllodisciplinare delle energie lavorative e più interessato, invece,ai risultati. In un crescente numero di casi egli riesce ora asoddisfare le sue esigenze di produzione senza ricorrere allavoro altrui secondo la modalità tradizionale (che compor-tava la puntuale direzione, da parte sua, delle energie messe adisposizione dal lavoratore). Il calcolo economico lo spingead utilizzare altri strumenti: quelli del ricorso a forme dilavoro autonomo e quelli del decentramento. Ha meno biso-gno di obbedienza (quella da esigere nella sua veste di credi-tore della prestazione abilitato ad esercitare il potere diret-tivo); la sua attenzione si concentra sui risultati. La gran parte

della sua attività tipica, quella di organizzazione in vista dellarealizzazione della produzione, si concentra direttamente nel-l’uso del potere negoziale (cioè del potere che esercita nellasua veste di contraente). Il diritto civile e il diritto commer-ciale gli interessano più del diritto del lavoro. Questo avviene perché glielo consentono le caratteristichequalitative di un processo produttivo nel quale crescente pesooccupa la conoscenza; glielo consente la tecnologia informa-tica, che è in grado di dissolvere alcune delle caratteristichetipiche del lavoro subordinato (quelle del coordinamento spa-zio-temporale); glielo suggeriscono le esigenze di costantemiglioramento della qualità. Una potente spinta in questadirezione gliela fornisce, ovviamente, soprattutto l’esigenzadi contenere i costi per fronteggiare la crescente competizionesu mercati sempre più aperti

Questa spinta verso un minor utilizzo

dello schema del lavoro subordinato

può essere descritto in termini

di “fuga dal diritto del lavoro”

In altri termini, da qualche tempo stanno operando spinteche mettono seriamente in discussione la centralità dellafigura tradizionale di lavoratore intorno alla quale si èandato sviluppando il diritto del lavoro quale noi oggi cono-sciamo (il lavoratore assunto a tempo pieno, con rapporto adurata indeterminata e con diritto alla stabilità). Si tratta dispinte che si manifestano nelle varie forme di flessibilità chesi vanno diffondendo su molteplici piani. Si diffondonoall’interno dell’area della subordinazione: si pensi alla plu-ralizzazione delle forme contrattuali (alle quali in genere cisi riferisce significativamente chiamandole “atipiche”),oppure alle innovazioni realizzate dalla stessa contratta-zione collettiva (nella materia dei compiti lavorativi, delladistribuzione dell’orario di lavoro, dei trattamenti retribu-tivi). Forme di flessibilità si diffondono anche al di fuoridell’area della subordinazione, operando in senso riduttivodi quest’ultima: si pensi allo sviluppo delle forme di lavoroautonomo coordinate all’organizzazione produttiva, chespesso rappresentano ambigue riproposizioni del rapporto didipendenza economica, nonché alle varie forme di decentra-mento delle attività produttive.Questo fenomeno della spinta verso un minor utilizzo delloschema del lavoro subordinato può essere descritto in terminidi “fuga dal diritto del lavoro”. Questa è una definizione cer-tamente appropriata per tutte quelle situazioni – non poche –

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mondoperaio 10/2014 / / / / articolodiciotto

in cui la scelta è assunta non per soddisfare particolari esi-genze di carattere organizzativo (si consideri, peraltro, che loschema del lavoro subordinato possiede, sotto questo profilo,una elasticità notevolissima, se è vero che il medesimoschema contrattuale di base può essere utilizzato per acquisirela collaborazione sia del manovale, sia dell’amministratoredelegato), bensì essenzialmente in base al calcolo dei notevolidifferenziali di costo che esistono tra i due schemi giuridici;costo diretto (in particolare per la contribuzione previden-ziale) e indiretto (derivante cioè dall’applicazione dei tratta-menti normativi). L’ampiezza dei territori occupati dal diritto del lavoro sem-bra, quindi, sottoposta a spinte tendenti a ridurla5 e nellostesso momento la figura prevalente del lavoro dipendente vaacquisendo connotati alquanto diversi da quelli che hannocontraddistinto la figura di lavoratore che ha costituito ilpunto di riferimento principale per lo sviluppo del diritto dellavoro (il lavoratore della grande impresa, con rapporto dilavoro a tempo pieno ed indeterminato, dotato di stabilità).Consideriamo ora il secondo aspetto, in verità più contro-verso; quello relativo alla efficienza regolativa del diritto dellavoro, cioè alla sua capacità di promozione degli interessiche intende tutelare. Qui è sufficiente partire da una constata-zione: in un contesto di accresciuta turbolenza del sistemaeconomico alcune normative – caratterizzate da una notevolerigidità – hanno cominciato a rivelarsi come un argine troppodebole a protezione degli interessi dei lavoratori. Lo stessolegislatore – reso consapevole, sotto la spinta dei fatti, delcarattere controproducente di determinati assetti regolativi –ha dovuto porsi in termini espliciti il problema di compatibi-lizzare le esistenti regolazioni con le esigenze di competitivitàdel sistema e con le sue capacità di creare occupazione. Haquindi iniziato un processo di aggiustamento: un processolento e faticoso. Lento, perché lo si può far risalire allaseconda metà degli anni ’70; faticoso, perché realizzato attra-verso laboriose mediazioni con forze sociali che hanno

costantemente teso a difendere l’assetto preesistente (pur se –consapevoli esse stesse della necessità di innovare – hannofornito appoggi molto importanti, attraverso la pratica dellaconcertazione, per il suo graduale aggiustamento).

Il diritto del lavoro ha cominciato

a conoscere innovazioni che hanno mirato

a realizzare la tutela del lavoratore

in termini che si sono fatti esplicitamente

carico anche delle ragioni dell’impresa

Per comprovare quello che sto dicendo, si possono richiamarealcune vicende, tra le più emblematiche. Ad esempio quellache si ebbe nella seconda metà degli anni ’70 nella materiadel contratto a tempo determinato, la cui disciplina, dettataagli inizi degli anni ’60, drasticamente limitava le possibilitàper l’impresa di ricorrere a forme di lavoro temporaneo6. Nonsenza ragione quella disciplina sarà successivamente sottopo-sta a notevoli innovazioni, a più riprese, mirate ad allentarnela rigidità. Un’altra rappresentazione emblematica e più sofisticata èstata fornita dalle vicende della scala mobile; esse ponevanoil quesito se il reddito dei lavoratori fosse meglio tutelato daun meccanismo che assicurava un incremento nominale deisalari – attraverso un recupero automatico dell’inflazione – oda una politica di moderazione salariale e di contenimentodell’inflazione, quale poi si è affermata attraverso i patti diconcertazione tripartita che alla fine hanno condotto alla sop-pressione di quel meccanismo. Possiamo ancora richiamare levicende che verso la fine degli anni ’70 indussero a far appro-vare una legge che, per salvaguardare l’occupazione inaziende in situazione di crisi grave, cercava di incentivare illoro acquisto da parte di altro imprenditore, intenzionato arealizzare un risanamento, consentendo che su base diaccordo sindacale potesse essere realizzata una deroga all’ar-

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5 A dire il vero, il diritto del lavoro in tempi recenti ha conosciuto unafase espansiva: infatti, ha annesso il vasto territorio del pubblicoimpiego (1993). Ma ciò non è avvenuto all’insegna della sua voca-zione genetica, quella della tutela del contraente debole. Questarecente annessione, infatti, ha visto il diritto del lavoro utilizzato evalorizzato per conferire maggiori margini di elasticità al potere dellepubbliche amministrazioni esercitato sul versante delle prestazionilavorative, potere che si è giunti a configurare come potere di privatodatore di lavoro (sia sul versante della gestione dei rapporti di lavoro,sia su quello della gestione degli assetti organizzativi, nei loro ramibassi). In altri termini, in questo caso il diritto del lavoro non ha dila-tato i suoi confini, come avveniva in passato, per corrispondere ad esi-genze di protezione dei lavoratori, bensì per corrispondere ad un’esi-

genza di valorizzazione del potere datoriale; è stato utilizzato, quindi,nella sua logica di strumento organizzativo del potere datoriale (sitratta, invero, di una logica implicita al diritto del lavoro, rimasta quasisempre nascosta, come l’altra faccia della luna).

6 Mi riferisco alla vicenda di quei lavoratori che, assunti in gran numerocon contratto a termine per lavorazioni stagionali (si trattava della produ-zione di panettoni, che ha dei picchi produttivi in relazione al grande uti-lizzo che di quel prodotto viene fatto nei periodi di Pasqua e di Natale),ottennero dal giudice il riconoscimento dell’illegittimità della apposi-zione del termine e, quindi, la trasformazione a tempo indeterminato delloro rapporto di lavoro. Essi ebbero la soddisfazione di vincere la ver-tenza nella sede giudiziaria, ma l’azienda andò ben presto in liquidazione(è la ben nota vicenda Unidal).

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ticolo del codice civile che tutela i diritti dei lavoratori nelcaso di trasferimento di azienda.In altri termini, a partire da un certo momento – all’incirca dallaseconda metà degli anni settanta – il diritto del lavoro ha comin-ciato a conoscere innovazioni che hanno mirato a realizzare latutela del lavoratore in termini che, a differenza del passato, inuna certa misura si sono fatti esplicitamente carico anche delleragioni dell’impresa. Sulla spinta delle esigenze di governo deiproblemi occupazionali, dovuti alla presenza di un consistentefenomeno di disoccupazione giovanile, nonché indotti da ricor-

renti situazioni di crisi aziendali, ha cominciatoa svilupparsi una regolazione di tipo nuovo, chenella sostanza possiamo definire promozionale.Considerando esplicitamente l’impresa comesoggetto che svolge una funzione decisiva sulversante dell’occupazione, si è iniziato a fareuna politica di incentivazione delle assunzioniattraverso sconti normativi e riduzioni del costodel lavoro7, nonché una politica di incentiva-zione del mantenimento dei livelli occupazio-nali nelle aziende in crisi8. Non si può negare che in questo modo si èoggettivamente dato inizio ad una sorta digraduazione dei beni protetti. Quello dell’oc-cupazione è stato chiaramente anteposto,giustificando l’adozione di regimi che, pur sein varia guisa, realizzano sostanzialmenteuna funzione di deroga alla preesistentedisciplina vincolistica di determinate mate-rie. Nello stesso momento – e in verità pro-prio in connessione con questa graduazione –hanno cominciato ad evidenziarsi, non solosul piano della legge ma anche su quellodell’esercizio dell’autonomia collettiva,situazioni di apparente conflitto tra interessedei singoli e l’interesse collettivo all’occupa-zione. L’autonomia collettiva ha dovutomisurarsi direttamente con i problemi scatu-renti dalle difficoltà occupazionali. Alla sta-gione di una contrattazione permanente-mente acquisitiva di vantaggi per i singoli ècosì subentrata una stagione che ha comin-ciato a conoscere anche contrattazioni volte aripartire sacrifici. Assumendosi responsabi-lità di governo di quei problemi, i sindacati sisono trovati ad assumere decisioni che non

poche volte li hanno fatti apparire – ovviamente agli occhi dicoloro che concepivano il loro ruolo solo nella proiezione

7 Si pensi, in particolare, al contratto di formazione e lavoro, che – inparticolare nella sua versione della legge 863/1984 - ha rappresentatoun formidabile concentrato di incentivi: nominatività dell’assunzione,durata limitata del rapporto e quasi totale sgravio degli oneri contri-butivi.

8 In questa linea si colloca il rigoglioso sviluppo dei così detti ammor-tizzatori sociali (in particolare, la cassa integrazione guadagni straor-dinaria).

rivendicativa ed acquisitiva forgiata dalla tradizione – addirit-tura nella veste di chi dispone dei diritti dei singoli (si trattadi decisioni che comunque hanno cominciato a rappresentareun oggettivo elemento di sfida alla loro rappresentatività eforse di logoramento della stessa).

Si avverte l’esigenza di regolazioni di tipo

nuovo, coerenti con le caratteristiche

emergenti del mercato del lavoro, nel

quale per un crescente numero di

lavoratori i caratteri dell’incertezza e della

mobilità tendono a sostituirsi a quelli

della stabilità

Dunque, problemi di efficienza regolativi della normazione sisono già posti, ed il giurista del lavoro ha dovuto arricchireenormemente il suo bagaglio, essendosi alterati molti trattifisionomici che il diritto del lavoro aveva nella stagione delsuo massimo sviluppo. Può ritenersi sostanzialmente con-clusa l’opera di adeguamento del sistema giuridico? E’ diffi-cile sostenerlo, sia per il modo non organico e talvolta sottil-mente ipocrita9 in cui essa si è prodotta, sia perché essa si èsostanzialmente svolta solo in una logica derogatoria, mentresi avverte sempre di più l’esigenza di regolazioni anche ditipo nuovo, coerenti con le caratteristiche emergenti del mer-cato del lavoro, nel quale per un crescente numero di lavora-tori i caratteri dell’incertezza e della mobilità tendono a sosti-tuirsi a quelli della stabilità. Peraltro vi sono letture (fatte da una parte degli economisti eriprese da qualche giurista) che tendono a rappresentare leforme più marcate di tutela dei lavoratori occupati non piùcome espressione dell’emancipazione e dell’eguaglianza,bensì come espressione del privilegio, che si ritorcerebbe adanno di altri lavoratori, cioè di coloro che non troverebberolavoro proprio a causa dell’esistenza di queste protezioni. Miriferisco alle letture – che sembrano ispirare l’azione dell’at-tuale governo - basate sulla contrapposizione tra interessidegli insiders (i già occupati con rapporto stabile ed a tempopieno ed indeterminato) ed interessi degli outsiders (i disoc-cupati): la legislazione protettiva e l’azione del sindacato,

garantendo i primi dalla concorrenza da parte dei secondi,creerebbero condizioni sfavorevoli all’occupazione. Qualche riflesso di queste posizioni comincia ad aversi nelladottrina giuridica. Alcune letture esplicitamente prospettanouna valorizzazione in chiave lavoristica proprio del principioin dialettica con il quale il diritto del lavoro si è storicamenteformato, quello della libertà di iniziativa economica. In quelleletture c’è la seguente idea: poiché è l’iniziativa economicaprivata che può creare quel bene di cui c’è tanto bisogno (iposti di lavoro), consentire maggiori spazi a quell’iniziativaattraverso una riduzione del carattere rigido e vincolistico del

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9 Si può negare, ad esempio, che il contratto di formazione e lavoro hacostituito a suo tempo l’occasione per sperimentare una flessibilizza-zione della disciplina del termine e di quella del collocamento che ci siostinava a voler mantenere sostanzialmente immutate?

sistema va considerato come un modo per corrispondere,anche sul piano dell’interpretazione, alle esigenze di dareconcretezza al principio costituzionale del diritto al lavoro. Aben vedere, la finalità di evitare la concorrenza al ribasso daparte degli outsiders è stata sempre iscritta nel codice gene-tico del sindacato (non è proprio per questo suo codice chealle origini – in un contesto caratterizzato dall’ideologia dellibero contratto di lavoro – il fenomeno sindacale è statooggetto di repressione penale?). Sia quando posta dal sinda-cato, sia quando posta dal legislatore, la norma, nello svolgerel’azione di protezione, ha naturalmente anche un effettodepressivo e di controllo della concorrenza tra i lavoratori.Dunque, che ci sarebbe di nuovo?Probabilmente stanno mutando alcune importanti caratteristi-che del contesto nel quale si svolge l’azione regolativa daparte del legislatore, nonché attraverso l’azione del sindacato.Per lungo tempo il sistema produttivo è riuscito a metaboliz-zare crescenti vincoli al proprio operare. La posizione diregole – realizzata secondo una logica incrementale di dirittiper il lavoratore, e quindi di costi in capo alle singole imprese– evidentemente non contraddiceva le possibilità di riprodu-zione del tessuto economico, ed anzi si teorizzava che lerivendicazioni sindacali costituissero un eccitante fisiologicodelle potenzialità espansive di quel sistema e di migliora-mento dei suoi standard produttivi (stimolo all’innovazioneed alla ricerca di margini maggiori di profitto attraverso losviluppo). L’azione del sindacato, pur rivolta ad incrementareil dividendo per gli occupati, naturalmente finiva per favorirel’inclusione dei non occupati ed elevare la condizione di tutti,così sortendo esiti di carattere progressivo. Quel sistema produttivo, nel quale il diritto del lavoro haconosciuto la fase di più rigoglioso sviluppo, era un sistemanel quale l’impresa aveva ancora un certo grado di controllodel mercato dei suoi prodotti (un mercato prevalentementenazionale), ed il governo nazionale era comunque in grado digestire leve significative di politica economica ai fini delmantenimento del sistema in condizioni di equilibrio com-plessivo. In altri termini, c’erano le condizioni perché si rea-lizzasse un circuito in grado di mantenere un suo equilibrio.Evidentemente il contesto attuale – caratterizzato da una più

accentuata competizione e da crescenti possibilità di deloca-lizzazione delle attività – non assicura più che quel circuitovirtuoso si riproduca.Ora il rapporto tra l’impresa e il mercato è rovesciato. E’ ilmercato (sempre più esposto ai condizionamenti della globa-lizzazione, alimentata da politiche della comunità internazio-nale volte a liberalizzare lo scambio delle merci ed il movi-mento dei capitali e favorita dai processi indotti dalla tecno-logia, in particolare dell’informazione e delle telecomunica-zioni) ad incidere profondamente, con le sue turbolenze, sulmodo di essere e di operare del sistema produttivo, ponendoad esso – per via della accresciuta competitività – l’impera-tivo della costante innovazione e quindi della flessibilitàorganizzativa e del contenimento dei costi, che meno agevol-mente possono essere scaricati sul prezzo dei beni e dei ser-vizi prodotti. Nel contempo, e questo ha anche la sua impor-tanza, per effetto dei processi di internazionalizzazione edello sviluppo dell’Unione europea, si sono significativa-mente ridotte le leve di politica economica nelle mani delgoverno nazionale, in parallelo all’accentuarsi della interdi-pendenza dei sistemi economici su scala mondiale.In questo nuovo contesto, che per il sindacato costituisce unterreno pieno di insidie e provocatore di perfide contraddi-zioni per la sua azione, può quindi accadere che esso corra ilrischio di apparire non più nella tradizionale veste di agentedel progresso, bensì in quella di agente della conservazione edi ostacolo alla competitività del sistema nazionale: tutelandooltre misura gli occupati, corre il rischio di apparire come ilsoggetto che condanna gli altri all’emarginazione10.

La finalità protettiva del diritto del lavoro

sembra entrare in attrito con le spinte

dell’economia

Lasciamo agli economisti il compito di fornirci evidenzeriguardo all’interrogativo se sia vero che la protezione deglioccupati vada a scapito dei disoccupati. Sappiamo peraltroche le voci sono discordi al loro interno. Non v’è dubbio, tut-tavia, che una qualche plausibilità quella prospettazione sem-bra averla; se non con riferimento ai livelli occupazionali, suiquali certamente influiscono in maniera decisiva fattori benpiù strutturali del diritto del lavoro, quantomeno con riferi-mento alla “buona” occupazione (si può negare che l’au-mento dei contratti a termine e delle collaborazioni coordi-nate e continuative costituisca espressione anche dell’esi-stenza di una regolazione sbilanciata?).

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10 In verità, importanti accordi di concertazione stanno a testimoniare unaconsapevolezza del sindacato circa la necessità di favorire una maggiorecompetitività delle imprese. Inoltre, occorrerebbe procedere a distin-zioni, poiché se è vero quanto si è rilevato, è altresì vero che probabil-mente non su tutti i settori i fenomeni della globalizzazione sono ingrado di esprimere quegli effetti dei quali abbiamo parlato.

Quello che interessa rilevare è che le trasformazioni in corsostanno esponendo il diritto del lavoro a sfide con le quali,negli anni della sua maturità, esso sembrava non abituato afare esplicitamente i conti e fanno emergere un profilo diambivalenza che, in verità, quel diritto ha avuto sin dalle ori-gini. Nato e sviluppatosi per svolgere una funzione protettivadel contraente debole, nello stesso momento il diritto dellavoro rappresenta un costo per le imprese, e quindi uno deglielementi che incidono sulla concorrenza tra di esse. Ciascunaimpresa, se non può evitare quel costo, vuole quantomeno chesia sostenuto anche dalle concorrenti (di qui l’interesse delleloro associazioni rappresentative all’applicazione generaliz-zata delle norme e al contrasto del lavoro nero). Quindi ildiritto del lavoro, se svolge, come abbiamo visto prima, unafunzione di moderazione della concorrenza tra i lavoratori,tende a svolgerla anche tra le imprese.I processi di globalizzazione stanno riproponendo questedinamiche anche a livello internazionale (dove aveva giàavuto modo di esprimersi attraverso la costituzione – dopo ilprimo conflitto mondiale – dell’Organizzazione internazio-nale del lavoro). Si pensi al tentativo fatto da alcuni paesiindustrialmente avanzati (evidentemente non rassegnati a tol-lerare la “sleale” competizione fatta da paesi privi di tuteleper i lavoratori) di far passare l’idea che i rapporti commer-ciali non debbano essere intrattenuti con quei paesi che non siimpegnino ad applicare uno standard minimo di legislazioneprotettiva del lavoro (c.d. clausola sociale). Questo tentativodi contrastare il c.d. dumping sociale è rimasto finora fru-strato proprio dalla opposizione dei governi dei paesi in via disviluppo, che vedono in esso una minaccia alla propria cre-scita, fondata sulle esportazioni. La strategia seguita dall’Oilsu questo versante ha finito per affidarsi essenzialmente astrumenti promozionali, come la redazione periodica di rap-porti di monitoraggio della situazione di determinati dirittifondamentali nei vari paesi.Queste dinamiche si manifestano anche nell’attenzione cre-scente che i rappresentanti delle imprese italiane pongono allacomparazione con le normative applicate dagli altri paesi del-l’Ue. Essi non cessano di lamentare che sono tenuti a rispet-tare normative più rigide di quelle dei loro diretti competitori,e quindi richiedono una equiparazione con essi (anche in que-sta prospettiva la Confindustria ritiene di legittimare la richie-sta di una modifica dell’articolo 18). La stessa politica diarmonizzazione condotta dall’Unione europea sul versantedelle politiche sociali è figlia dell’esigenza non solo di affer-mare principi di protezione, ma anche di realizzare condizioni

di parificazione della concorrenza nel mercato dell’Unione.In conclusione, ci troviamo innegabilmente in tempi nei qualile interrelazioni dinamiche tra diritto ed economia, che sonosempre esistite, si stanno manifestando con maggiore enfasinel turbolento contesto attuale. La finalità protettiva deldiritto del lavoro, che è nel suo dna, sembra entrare in attritocon le spinte dell’economia.

Il problema non può essere risolto

affermando che il diritto deve farsi

da parte, ma neanche può affermarsi

che il diritto costituisca una variabile

indipendente

Questo pone problemi che non possono essere affrontatisostenendo che debbano farsi valere le ragioni dell’economia(rispetto alle quali le regole che si sono venute fin quicostruendo andrebbero eliminate, costituendo esse un dan-noso impedimento ai processi di produzione della ricchezzadai quali spontaneamente scaturirebbe il bene comune), nésostenendo, sul versante opposto, che i diritti esistenti deb-bano costituire una variabile indipendente, di fronte alla qualeoccorre costringere il sistema economico a sottomettersi.Queste posizioni alternative ed inconciliabili sono presenti, inbuona misura, nel conflitto che si è svolto sull’articolo 18,che non a caso ha assunto valenze altamente simboliche perle parti che si sono confrontate. L’alternativa, posta in terminicosì radicali, sembra avere una radice ideologica. Sappiamo bene che la funzione del diritto non è stata e nonè estranea al mercato; la stessa creazione del mercato a suotempo (agli inizi della rivoluzione industriale) è stata fruttodi interventi normativi finalizzati allo smantellamento diistituzioni che erano di ostacolo alla mobilità dei fattoridella produzione. Per poter funzionare, il mercato richiederegole (miranti soprattutto a garantire la parità di concor-renza) ed il loro rispetto. Sappiamo bene, anche, che inno-vazioni normative finalizzate ad imporre il rispetto di regolea protezione dei lavoratori sono sempre state ostacolate, inun lontano passato, adducendo argomenti catastrofistici. Maquelle regole si sono fatte e non hanno certo ostacolato ilprogresso, costituendo invece per molti aspetti elementofondante dello stesso. Il problema non può quindi essere risolto affermando che leregole vanno eliminate, che il diritto deve farsi da parte. Maneanche può affermarsi che il diritto costituisca una variabile

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indipendente. E’ semprepresente, infatti, il pro-blema della verifica diquale possibilità vi siache determinate regolevengano effettivamenterispettate e quale possibi-lità esse abbiano di con-formare effettivamente ilsistema economico. Ildiritto può pure porsi incontrasto forte con l’as-setto esistente (si pensi,per fare un esempio, allepolitiche per la parità uomo donna, addirittura realizzate conla tecnica delle quote). Però in questi casi ci si deve chiedere:abbiamo la forza per farle applicare effettivamente questeregole? E, quel che più importa, si creano per caso effettiindesiderati – contrastanti con le finalità perseguite – che riu-sciamo comunque a governare? Se la risposta ad entrambequeste domande è positiva, si può pure procedere. Se la rispo-sta non è positiva, procedere può essere velleitario.Nello stesso momento, peraltro, si deve tenere presente chemolti diritti in tanto possono essere affermati e rispettati, inquanto siano dotati di una forte base materiale sulla qualepoggiare. Per fare degli esempi di più immediata evidenza: ildiritto alla pensione in tanto può essere goduto in quanto ilsistema delle imprese riesca a sostenere l’onere delle contri-buzioni; il diritto alla stabilità del rapporto in tanto può esseregoduto in quanto comunque l’impresa sia in grado di soprav-

vivere. Si può dire, in ter-mini ancora più generali,che molti diritti sonooggettivamente dipen-denti dalla capacità delsistema di produrre ric-chezza. Essi realizzanouna sorta di redistribu-zione di quest’ultima, siain via diretta, in terminidi redditi (i salari, le pre-stazioni previdenziali),sia in via indiretta, attra-verso un aumento dei

costi di produzione che il loro rispetto comporta. Che di unasorta di redistribuzione si tratti non può essere revocato indubbio, anche ove si voglia considerare che quei diritti benpossono essere riguardati come a loro volta influenti sullacapacità del sistema di creare ricchezza (non bisogna dimen-ticare, peraltro, che la tecnica del riconoscimento dei diritti –concessi dal legislatore, dapprima in forma assai parziale epoi in forma sempre più estesa, o acquisiti per via di negozia-zione – ha sempre avuto una funzione di stabilizzazione delsistema, altrimenti minacciato nella sua tenuta da quella che,alle origini, era considerata come la “questione sociale”).Se questo è vero, se cioè una larga parte dei diritti relativi alfattore lavoro è inesorabilmente legato alla capacità delsistema economico di supportarli, se ne deve desumere cheessi – sia nel momento in cui vengono posti, sia nel momentoin cui vengono mantenuti – costituiscono frutto di un mecca-

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nismo di governo i cui attori (il legislatore, le parti sociali,anche attraverso l’esercizio dell’autonomia collettiva) nonpossono non farsi carico, seppure in forme dinamiche e con-flittuali, del problema della tenuta del sistema produttivo.Difficilmente può essere condivisa, quindi, la posizione di chinon ammette discussioni al riguardo e afferma solo che “idiritti non si toccano”.

Le ragioni dello scontro finiscono per fare

aggio sulla ricerca di un ragionevole punto

di equilibrio

Abbiamo detto che il modo in cui è stato impostato il con-fronto sull’articolo 18 sembra escludere posizioni intermedie.O da una parte o dall’altra. Le ragioni dello scontro finisconoper fare aggio sulla ricerca di un ragionevole punto di equili-brio. Eppure si potrebbe dire che, in quel modo rappresentatele posizioni delle parti, entrambe hanno ragione. Ha ragione,innanzitutto, il sindacato. Mettere in discussione l’articolo 18,imponendo la regola della monetizzazione in luogo della rein-tegrazione, significa – in particolare se la monetizzazionerimane irrisoria – restituire potere all’impresa ed esporsi alpericolo di un utilizzo del licenziamento in funzione di con-trollo disciplinare dei dipendenti, lesivo della loro dignità.Significa cioè tornare ad arcaici modelli di gestione del per-sonale che l’ordinamento ha voluto superare con lo statuto deilavoratori11. Sappiamo che tutto il diritto del lavoro ha cominciato amutare significato quando si è cominciato ad affermare che ildatore di lavoro non è più l’arbitro assoluto della vita del rap-porto. Basta peraltro dare un’occhiata ai repertori di giuri-sprudenza per vedere come, dopo il 1970 (cioè dopo l’entratain vigore dello statuto dei lavoratori), le vertenze non si sonopiù limitate, come avveniva in precedenza, ad aspetti relativi

al trattamento economico (si trattava di vertenze instauratedopo l’estinzione del rapporto e relative ad adeguamenti retri-butivi, ferie non pagate, lavoro straordinario non pagato, etc.),ma hanno cominciato a riguardare anche altri aspetti dellagestione del rapporto e ad essere attivate anche in costanza dirapporto12. Peraltro, è interessante rilevare come la stessaCorte costituzionale abbia dato rilevanza all’innovazione rap-presentata dalla reintegrazione, quando ha corretto la posi-zione assunta in materia di decorrenza della prescrizione deidiritti del lavoratore. In precedenza aveva affermato che per illavoratore la prescrizione del diritto alla retribuzione dovevadecorrere dal momento dell’ estinzione del rapporto di lavoro,trovandosi il lavoratore, in costanza di rapporto, in una situa-zione di timore che gli precludeva la possibilità di far valereliberamente i propri diritti. Dopo l’entrata in vigore dello sta-tuto dei lavoratori la Corte ha escluso che quella sua afferma-zione dovesse trovare applicazione per i lavoratori tutelaticon la reintegrazione. Ragioni non mancano anche sull’altro versante. Comeabbiamo avuto modo di dire prima, gli economisti sono traloro divisi circa la rilevanza che l’articolo 18 avrebbe neldeprimere i livelli occupazionali, ed in particolare circa laresponsabilità che esso avrebbe nel contribuire al nanismodelle imprese. Non entro quindi nel merito. Mi limito soload osservare che lo stesso legislatore è spesso partito dal-l’assunto che l’articolo 18 producesse effetti in quella dire-zione, se è vero che in diverse disposizioni – al fine diincentivare l’occupazione – ha previsto il non computonell’organico dei nuovi assunti (in particolare, gli apprendi-sti, i lavoratori con contratto di formazione e lavoro13 e concontratto di reinserimento). Inoltre, nel periodo successivoall’ approvazione dello statuto dei lavoratori, molti giuristihanno ragionato secondo lo schema della “fuga” da quellalegge, ritenendo che le imprese avessero cominciato aseguire strategie di dimensionamento mirate a sottrarsi allasua applicazione14 (parecchi sono stati gli studi sul decentra-mento produttivo).E’ credibile pertanto che l’articolo 18, se non produceeffetti depressivi dei livelli occupazionali, quantomenocontribuisca ad alimentare fenomeni di scarsa trasparenzasul mercato del lavoro. L’elevato ricorso alle forme dilavoro autonomo – nel nostro paese presenti in misuramolto più elevata che in altri – nonché alle forme di lavoroa termine, devono pur dire qualcosa. Ma perché il datore dilavoro è spaventato dall’articolo 18? Non si può negareche, in determinati casi, può risultare estremamente costoso

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11 Molto efficace lo slogan del manifesto pubblicato dalla Cgil (“tu si / tuno / art. 18 / non ci sto”) in occasione dello sciopero generale del 5 aprile2002 indetto per protestare contro l’iniziativa governativa. Quel “Tu si /tu no” con grande forza allude a modalità arbitrarie e discriminatorie diesercizio del potere datoriale.

12 Decisivo, in questa direzione, anche il contributo dell’articolo 28 dellostatuto dei lavoratori, che legittima il sindacato a ricorrere al giudice conprocedura di urgenza per reagire a comportamenti antisindacali diquest’ultimo.

13 Dal 1992 si è tornati a prevedere il computo di questi contratti.14 Nelle sue parti subordinate alla presenza di determinate soglie occupazio-

nali, relative non solo alla reintegrazione, bensì anche ai diritti sindacali.

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per la gestione. E’ quindi comprensibile che egli cerchi dievitare quel rischio – appena se ne presenti l’opportunità –attraverso il ricorso a quelle forme di lavoro che non locontemplano. Sono le forme di lavoro alle quali finisconoper essere condannati i “figli”.Se entrambe le parti hanno ragione, un punto di equilibriodeve pur esserci. Ma esse non hanno fatto alcuno sforzo perindividuarlo, perché sono rimaste ferme ai simboli. Ed anchequando, alla fine, un compromesso è stato raggiunto, è statoun compromesso che non rappresenta una vera mediazione,bensì soltanto una scelta tattica. Sia pure con una preoccu-pante frattura – di portata storica – del fronte sindacale, Cisle Uil hanno accettato l’intervento sperimentale sull’articolo18, ma ottenendo in cambio incisive modifiche15 al testo ini-ziale del governo16. Hanno accettato ritenendo che fossecomunque doveroso per il sindacato non perdere la possibilità

di sedersi al tavolo della concertazione per cercare di influirein una qualche misura sulle misure che il governo intendevaassumere nella materia del lavoro e che quindi non fosse dacondividere la politica della Cgil, che hanno ritenuto una poli-tica di contrapposizione pregiudiziale. L’accettazione hanascosto comunque la riserva mentale – esplicitata da qualcheleader sindacale – che alla fine della sperimentazione non sene farà nulla17, perché la sperimentazione non potrà non con-fermare che questo articolo è del tutto ininfluente sull’occu-pazione. In altri termini le organizzazioni sindacali che hannosottoscritto il patto non hanno lasciato trasparire nulla chepotesse essere interpretato come disponibilità a ragionareseriamente intorno all’articolo 18, in questo rimanendo sulleposizioni della Cgil, quindi prigioniere di slogan che sonocertamente utili a galvanizzare gli schieramenti, meno alladiscussione.

15 Allegato 2 all’accordo di concertazione raggiunto con il Governo e con idatori di lavoro, chiamato “Patto per l’Italia”: “ Art. …. (Delega al

Governo in materia di altre misure temporanee e sperimentali a sostegno

della occupazione regolare e della crescita dimensionale delle imprese)

1. Ai fini di sostegno della occupazione regolare e della crescita dimen-sionale delle imprese il Governo è delegato ad emanare in via sperimen-tale uno o più decreti legislativi, entro il termine di un anno dalla data dientrata in vigore della presente legge, nel rispetto dei seguenti princìpi ecriteri direttivi:a) ai fini della individuazione del campo di applicazione dell’articolo 18della Legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, noncomputo nel numero dei dipendenti occupati delle nuove assunzionimediante rapporti di lavoro a tempo indeterminato, anche part-time, ocon contratto di formazione e lavoro, instaurati nell’arco di tre anni dalladata di entrata in vigore dei decreti legislativi;b) inapplicabilità della misura di cui alla lettera a) ai datori di lavoro,imprenditori e non imprenditori, già rientranti, al momento dell’entrata invigore della presente legge, nel campo di applicazione dell’articolo 18della Legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, inquanto abbiano occupato mediamente nei dodici mesi precedenti, unnumero di dipendenti corrispondente alle soglie dimensionali indicatedallo stesso articolo 18;c) non riconducibilità al concetto di nuova assunzione delle ipotesi disubentro di un’impresa ad un’altra nella esecuzione di un appalto, là doveè presente una disposizione di legge o una clausola contrattuale a tuteladel passaggio del personale alle dipendenze dell’impresa subentrante;d) previsione di misure di monitoraggio coerenti con la natura sperimen-tale del provvedimento;e) previsione che decorsi ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore deidecreti legislativi di cui al presente articolo il Ministero del Lavoro e dellePolitiche Sociali procederà a una verifica, con le organizzazioni dei datori dilavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul pianonazionale, degli effetti sulle dimensioni delle imprese, sul mercato del lavoroe sui livelli di occupazione nel frattempo determinatisi, al fine di consentireal Governo di riferirne al Parlamento e valutare l’efficacia della misura.”

16 In buona sostanza: limitazione della sperimentazione alla sola ipotesi delsuperamento della soglia occupazionale; riduzione da 4 a 3 degli anni dellasperimentazione, eliminazione dell’art. 11 del ddl governativo nel quale si

prevedeva l’arbitrato di equità. Il nuovo testo non è esente, al pari del primo(anche se nella lettera c in una qualche misura tradisce la consapevolezzadel problema), da pericoli di comportamenti fraudolenti da parte dei datoridi lavoro, mirati a dilatare le aree di esenzione. Peraltro il nuovo testo sicu-ramente escluderebbe una modifica del sistema sanzionatorio della tutelaobbligatoria, per cui l’ammontare delle indennità da corrispondere al lavo-ratore in caso di licenziamento illegittimo, concepita per imprese di piccoladimensione, potrebbe risultare veramente esiguo per imprese che, riuscendoa superare di gran lunga la soglia occupazionale nel periodo della sperimen-tazione, siano di media o grande dimensione (il precedente testo dellanorma di delega sembrava lasciare spazi di intervento sul punto).

17 Deve essere stato frutto di un sottile compromesso la sparizione della frase,presente nella precedente formulazione, che esplicitamente faceva salvo ilprolungamento della sperimentazione “in relazione agli effetti registrati sulpiano occupazionale”. Nello stesso momento, tuttavia, si è introdotto un ele-mento destinato a rendere ancora più delicata la infelice situazione che siverrà a creare verso il termine della sperimentazione; nel nuovo testo ladurata della sperimentazione non è più prevista anche come durata delperiodo di disapplicazione dell’articolo 18. Orbene, se la legge delega nondovesse chiarire i problemi che potrebbero venire a porsi, la baraonda saràtotale. Già alcune polemiche ci sono state sui giornali relativamente alla sorteche subiranno lavoratori al termine della sperimentazione: nei loro confrontil’articolo 18 comincerà ad applicarsi al termine della sperimentazione?Oppure continueranno a rimanere nel regime della stabilità obbligatoria, tor-nando ad applicarsi la disciplina dell’articolo 18 solo in caso di ulteriorinuove assunzioni?. E’ chiaro che la prima lettura, per la quale si è dichiaratoun ministro, sarebbe quella in teoria più idonea a favorire una maggiore effi-cacia incentivante della misura e ad assicurare, inoltre, una gestione morbidadella fase transitoria (evitando che i datori di lavoro, nell’incertezza dellescelte che verranno assunte sulla base della sperimentazione, cerchino di tra-sformare i rapporti o comunque ridurre il personale). Ma è una lettura checertamente rafforzerebbe i dubbi sulla legittimità della disposizione avanzatisin dall’inizio (illegittimità per violazione del principio di eguaglianza, siasul versante dei lavoratori, sia, e soprattutto, sul versante delle imprese). Seil carattere sperimentale della disposizione potrebbe giustificarne la costitu-zionalità in considerazione della temporaneità della misura, il protrarsi deglieffetti anche nella fase successiva, per un periodo potenzialmente indetermi-nato, certamente ne farebbe dichiarare l’illegittimità.

Non può considerarsi provocatorio

porre il problema di una rivisitazione

della disciplina dei licenziamenti

Eppure spazi per ragionare ce ne dovrebbero essere. Laricerca di un ragionevole punto di equilibrio dovrebbe partiredalla considerazione che i difetti, prima ancora che nell’arti-colo 18, e quindi nella qualità della sanzione, vanno ricercatinell’inadeguatezza del quadro più complessivo nel qualequell’articolo si trova a operare. In altri termini quello chenon va non è tanto il fatto che il datore di lavoro venga espro-priato del potere di produrre l’effetto estintivo del rapporto –il che può anche essere coerente con una concezione piùmoderna del potere imprenditoriale – quanto il fatto che que-sta espropriazione, unitamente agli altri aspetti dell’apparatosanzionatorio, finisce non poche volte per apparire eccessiva. Cospira in questa direzione un insieme di fattori. In partico-lare: l’ incertezza obiettivamente esistente, in alcune aree diconfine, circa le situazioni che legittimano il licenziamento

(le formule, come è noto, sono molto generiche e quindi ren-dono spesso cruciale l’apprezzamento del giudice); i lunghis-simi tempi che il sistema giudiziario impiega nella soluzionedella controversia e quindi i notevoli costi aggiuntivi che pos-sono derivarne per l’impresa; l’uniformità del sistema sanzio-natorio, che mette sullo stesso piano qualsivoglia violazione,indipendentemente dalla sua gravità, perseguendo pregiudi-zialmente un obiettivo afflittivo oltre che ripristinatorio (miriferisco alla previsione del risarcimento che non può maiessere inferiore alle cinque mensilità, nonché alla previsioneche consente al lavoratore di rifiutare la reintegrazione e dipretendere, in alternativa, il pagamento di quindici mensilità).E’ forse opportuno fare qualche esempio per toccare megliocon mano le ragioni per cui è ragionevole ritenere opportunauna modifica del sistema. Vediamo il primo profilo. Ci sonooscillazioni nella stessa giurisprudenza della Corte di Cassa-zione in ordine alla situazione che si verifica nel caso in cui illavoratore viene licenziato e le mansioni della posizione dalui occupata sono distribuite tra gli altri lavoratori. Alcune

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decisioni hanno ritenuto non sussistente in questo caso ungiustificato motivo oggettivo di licenziamento. Altre sonostate di diverso avviso. Le incertezze possono apparire certamente superiori quandosi debba valutare la sussistenza di un giustificato motivo sog-gettivo o di una giusta causa. In questi casi tutto dipendedall’apprezzamento che il giudice farà della gravità dell’ina-dempimento o della situazione che può giustificare il venirmeno della cosiddetta fiducia. E quand’anche l’apprezza-mento della gravità sia stato fatto dai contratti collettivi, ilgiudice non ne è vincolato. Incertezze possono considerarsisussistenti anche quando il licenziamento venga visto nellaprospettiva dell’esercizio del potere disciplinare e venganoquindi in rilievo aspetti procedimentali (si pensi al caso dellicenziamento che venga invalidato perché il magistratoritenga non tempestiva la contestazione dell’addebito).Passiamo al secondo profilo: la lunga durata dei processi. Seè vero che per giungere a una decisione definitiva possonoanche essere necessari quattro o più gradi di giudizio, per ladurata di sette o otto anni, il datore di lavoro che abbia vintonei primi gradi e perda poi in Cassazione o nel giudizio di rin-vio deve pagare tutte le retribuzioni (e la connessa contribu-zione previdenziale, con le relative sanzioni per l’omissione)dal momento del licenziamento, salvo che riesca a provare(ma come?) che il lavoratore avrebbe potuto ridurre il dannoattivandosi per impiegarsi altrove. Le somme da sborsaresono talora veramente notevoli. Inoltre egli avvertirebbe un sapore di beffa nella richiesta, cheil lavoratore gli rivolga, del pagamento di ulteriori quindicimensilità in alternativa alla reintegrazione (e che di beffa sitratti lo si può ben dire nel caso in cui il licenziamento non siaavvenuto per ragioni di carattere soggettivo, e magari l’a-zienda sia di notevoli dimensioni, cosicché non si possanoritenere sussistenti difficoltà psicologiche al rientro e, ancora,il lavoratore abbia già trovato un nuovo impiego che abbiaconvenienza a mantenere). Si pensi, inoltre, che poiché la disciplina della reintegrazionetrova applicazione anche nel caso di licenziamenti collettivi,la somma potrebbe essere moltiplicata per il numero dei lavo-ratori coinvolti nel licenziamento. Mi viene da pensare alla situazione in cui si trova una grandeazienda pubblica di cui conosco il caso. In un quadro norma-tivo alquanto confuso, che sembrava abilitarla a una proce-dura semplificata di riduzione del personale, questa aziendaha operato un considerevole numero di licenziamenti di per-sone assai prossime alla pensione, concordando questo crite-

rio di scelta con le organizzazioni sindacali. Contrasti sonosorti in giurisprudenza sulle legittimità di questi licenziamentie si attende una decisione della Corte di Cassazione. Qualipotranno essere le conseguenze per l’azienda, dal punto divista finanziario, di una decisione sfavorevole? La “beffa”della quale parlavo prima (quella delle quindici mensilità) inquesto caso è ancora più evidente, perché legittimamentearrecata da persone che ormai hanno in tasca la pensione.E con questa considerazione si può ben passare al terzo pro-

filo: l’uniformità del sistema sanzionatorio, che mette sullostesso piano qualsivoglia violazione, indipendentemente dallasua gravità, così impedendo al giudice un apprezzamento dellediverse situazioni. E’ ragionevole – faccio volutamente ipotesilimite – che debba comunque costare almeno cinque mensilitàl’errore compiuto di ritardare di un giorno la comunicazione allavoratore dei motivi del suo licenziamento? O che debbaessere sanzionato con la reintegrazione di tutti i lavoratorilicenziati per riduzione di personale il fatto che la comunica-zione dei licenziamenti alla Direzione regionale dell’impiegonon sia avvenuta contestualmente al licenziamento? O chedebbano essere sanzionati nella stessa misura il licenziamentofatto al fine di discriminare e quello sbagliato per un aspettomeramente procedurale o formale? Il discorso potrebbe conti-nuare. Credo che quanto ora detto sia sufficiente per sostenereche non può considerarsi provocatorio porre il problema diuna rivisitazione della disciplina dei licenziamenti.

Su nessuno dei due versanti – né quello del

creditore, né quello del debitore – l’attuale

regolazione può considerarsi efficiente

In quale direzione dovrebbe muoversi una possibile rivisita-zione della disciplina dei licenziamenti? Un ragionamentodovrebbe essere condotto operando una scomposizione delleposizioni di interesse che sono attualmente presidiate dall’ar-ticolo 18. Si può sostenere che nella prospettiva di questanorma la protezione contro il licenziamento ingiustificato siafunzionale non solo alla tutela dell’interesse del lavoratorealla continuità occupazionale (questo è l’interesse normal-mente protetto da una disciplina che impone la giustifica-zione), bensì anche e soprattutto ad assicurare al lavoratore lapossibilità di far valere i propri diritti nell’ambito del rapporto(proiezione, quest’ultima, che come si è detto prima vennesubito colta dalla Corte costituzionale nella decisione con laquale – correggendo una sua precedente decisione - essa

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ammise la decorrenza della prescrizione in costanza di rap-porto per i lavoratori protetti dal regime dell’articolo 18). Sei due profili dei quali si è detto venissero tenuti distinti, sipotrebbero ipotizzare risposte più articolate.Prendiamo il primo profilo, quello che attiene all’interesse dellavoratore alla continuità dell’occupazione. Con riferimentoad esso si può sostenere che la disciplina dei licenziamentiindividuali costituisce, tutto sommato, un sistema alquantoprimitivo e indiretto di protezione dell’interesse al manteni-mento dell’occupazione. A ben vedere, l’interesse del lavora-tore alla stabilità riceve protezione non in positivo – comesarebbe auspicabile in un sistema più evoluto – ma solo comeriflesso dell’affermazione del principio della non arbitrarietàdella decisione imprenditoriale; quindi, in buona sostanzafinisce per ricevere protezione solo, per così dire, in via resi-duale. Non si tutela veramente l’occupazione, si voglionosolo evitare abusi. Peraltro neanche il datore di lavoro potrebbe dirsi soddisfatto.

Abbiamo visto come la protezione risulti tutta incentrata sullapossibilità di un apprezzamento degli interessi organizzatividell’impresa operato attraverso l’utilizzo di norme generali(giusta causa, giustificato motivo) che oggettivamentelasciano, come abbiamo visto, grandi margini di indetermina-tezza; il loro apprezzamento viene affidato esclusivamentealla mediazione giudiziaria ed è reso decisamente cruciale dalfatto di essere accompagnato da un meccanismo sanzionato-rio che espropria il datore di lavoro del potere di recedere daun rapporto che egli non abbia interesse a mantenere in vita(costituendo quindi obiettivamente una rigidità sul pianodella gestione), e nel contempo può comportare – come si èdetto prima - costi eccessivi e imprevedibili in ragione dellaeccessiva lunghezza dei processi. In altri termini l’imprendi-tore si trova sovente in una situazione di incertezza nellaquale lo “sbaglio” può costargli molto caro. Non v’è dubbioche questa è una miscela ad alto contenuto di inefficienza.In buona sostanza, su nessuno dei due versanti – né quello del

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creditore, né quello del debitore – l’attuale regolazione puòconsiderarsi efficiente. Per quel che riguarda il versante del cre-ditore (il lavoratore), bisognerebbe sostenere l’opportunità diuna disciplina che riconosca in maniera più completa e direttail suo interesse alla continuità occupazionale, attraverso mecca-nismi articolati di tipo dinamico. Quindi non solo – come èoggi – attraverso una semplice imposizione dell’onere di giu-stificazione all’esercizio del potere datoriale, ma anche attra-verso lo sviluppo e la formalizzazione – possibilmentemediante la contrattazione collettiva, opportunamente incenti-vata – dei contenuti di un vero e proprio debito di “stabilità” neiconfronti del singolo lavoratore, debito da configurare in coe-renza con una concezione moderna della gestione del personale(si pensi, ad esempio, al principio della formazione continua). In altri termini, anche se il datore di lavoro ritenesse di nonpoter soddisfare quel debito attraverso la sua organizzazione,dovrebbero comunque esservi modalità alternative di adempi-mento, incentrate su meccanismi volti a consentire al lavora-tore – nel corso di tutto il rapporto di lavoro e non nei solimomenti di crisi di quest’ultimo – di sfruttare le potenzialitàallocative del mercato del lavoro. La riforma del welfare equella dei servizi all’impiego devono costituire tasselli impor-tanti di questo nuovo disegno: seppure riguardano materieesterne alla disciplina del rapporto di lavoro, esse devono tro-vare corposi punti di sinergia con i contenuti di quest’ultimo.Per quel che riguarda il versante del debitore (il datore dilavoro), occorrerebbe creare le condizioni idonee a forniremaggiori certezze circa le condizioni d’uso del potere dilicenziamento. Esse andrebbero create da un lato attraversomeccanismi di predeterminazione più puntuale delle causaligiustificative (a questo fine dovrebbe essere particolarmentevalorizzata la contrattazione collettiva, che invece nell’attualesituazione è pur sempre destinata a misurarsi con le clausolegenerali previste dalla legge, con la conseguenza che il magi-strato può sempre far prevalere la propria personale valuta-zione rispetto a quella eventualmente fornita dal contrattocollettivo); e dall’altro lato attraverso una valorizzazionedella giustizia arbitrale che, per la sua maggiore vicinanza alcontesto nel quale si è originata la controversia dovrebbeessere in grado ridurre i margini di varianza delle decisionioltre che assicurare una tutela più tempestiva. Nelle contro-versie relative al licenziamento la tempestività della decisionecostituisce sicuramente un bene essenziale per entrambe leparti. Essa andrebbe garantita anche presso la magistraturaordinaria, magari attraverso la previsione di corsie preferen-ziali per la trattazione di queste controversie.

Nello stesso momento – anche sulla base delle esperienzestraniere – si potrebbe ritenere prospettabile l’eliminazionedell’attuale rigidità del sistema sanzionatorio, che finisce peressere squilibrato nel momento in cui, come si è visto, a qual-sivoglia violazione – indipendentemente dalla sua gravità –risponde sempre con la medesima reazione, per giunta abbel-lita di sfumature che in taluni casi possono risultare prive digiustificazione. Quel sistema potrebbe essere articolato: adesempio, riservandosi la sanzione della reintegrazione unica-mente ai casi di sicura gravità, in cui la decisione del datoredi lavoro possa considerarsi lesiva della dignità del lavoratore(alludo, in particolare, alla discriminazione, ma anche allagiustificazione palesemente pretestuosa) e prevedendo per glialtri casi un risarcimento consistente, adeguato alla gravitàdella violazione e alla situazione del mercato del lavorolocale. Si potrebbe pensare a quanto prevede il sistema tede-sco, in cui è lasciata al magistrato, su richiesta del datore dilavoro, la facoltà di disporre la sanzione del risarcimento inluogo della reintegrazione.Peraltro, se va perseguito, come è giusto che sia, l’obiettivo didare adeguato rilievo alla maggiore gravità del licenziamentodiscriminatorio, occorre pensare anche alle modalità piùopportune per consentire di porre rimedio alle difficoltà pro-batorie che su questo versante incontra la parte attrice.

Si tratta di prendere le distanze da quella

cultura di politica del diritto che vede la

funzione protettiva degli interessi del

lavoratore affidata più al ruolo della legge

che a quello dell’autonomia collettiva

Prendiamo in considerazione, ora, il secondo profilo, quellonel quale l’articolo 18 appare volto ad assicurare al lavora-tore la possibilità di far valere i propri diritti nell’ambito delrapporto. C’è qui l’idea che la garanzia di effettività deidiritti del lavoratore risieda nella limitazione, con efficaciareale, del potere dell’imprenditore in ordine alla disponibi-lità del bene “occupazione”. E’ un’idea tutt’altro che prete-stuosa. Ha forti radici nell’esperienza e non solo in quellastorica. Tuttavia bisogna avere il coraggio di ridimensio-narla, considerando da un lato che il metus del lavoratore sialimenta di ragioni che vanno ben oltre la mancanza di unregime di stabilità reale, e dall’altro che condizioni organiz-zative favorevoli alla legalità della vita aziendale possonoessere promosse in termini certamente più corposi per altre

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vie, in primo luogo quella di una valorizzazione del poterecollettivo dei lavoratori. Si tratta, in questo modo, di prendere le opportune distanze daquella cultura di politica del diritto che vede la funzione protet-tiva degli interessi del lavoratore affidata più al ruolo dellalegge che a quello dell’autonomia collettiva e concepisce l’ap-parato di tutela del lavoratore essenzialmente articolato nei ter-mini di diritti soggettivi a lui direttamente conferiti dalla legge,assolutamente indisponibili, e con riferimento ad essi talvoltafinisce per considerare la mediazione sindacale addiritturacome possibile pericoloso veicolo di una loro compromissione. È un paradigma la cui efficienza è stata fortemente posta indiscussione, come sappiamo, dalla turbolenza del contesto, difronte alla quale abbiamo visto il sistema saggiamente reagire,anche se con affanno, attraverso l’introduzione di massiccedosi di flessibilità ed una valorizzazione della mediazione col-lettiva. A ben vedere, si tratterebbe di tornare a riconsiderarel’impostazione iniziale che aveva il disegno di legge governa-tivo dello Statuto. In quel disegno la reintegrazione era vistasoprattutto come una misura posta a presidio dell’effettivitàdel principio di libertà sindacale nell’ambito aziendale. Fu ilParlamento a generalizzarne la portata, senza peraltro modifi-carne la collocazione sistematica, che è rimasta quella deltitolo secondo, relativo alla libertà sindacale. Quello che voglio dire, in altre parole, è che sarebbe opportunotornare a considerare che la via maestra per assicurare condi-zioni di legalità nell’esercizio del potere datoriale è soprattuttoquella della promozione di una presenza attiva della rappresen-tanza dei lavoratori, le cui modalità dovranno adattarsi ai diversicontesti organizzativi, che come sappiamo sono sempre piùraramente quelli della fabbrica fordista. In questa prospettiva c’èda chiedersi, ad esempio, se non sia giunto il momento di auspi-

care una promozione dell’attività sindacale che arricchisca leforme classiche attraverso cui essa si è espressa finora18. Adesempio, si potrebbe pensare di legittimare il sindacato ad uti-lizzare lo strumento dell’articolo 28 per reagire anche a prassi digestione dei rapporti di lavoro che siano lesive dei diritti deilavoratori. Per questa via – che in verità si è già cominciato atracciare nell’area delle discriminazioni19 - si dischiuderebbe lapossibilità di elevare drasticamente il grado di effettività delletutele, altrimenti destinate a rimanere sulla carta. In conclusione, per evitare che tutto si riduca – come staavvenendo – a un sì o a un no all’articolo 18 dello Statutodei lavoratori, è forse opportuno alimentare un dibattitointorno alla possibilità di introdurre modifiche alla disci-plina complessiva dei licenziamenti: modifiche che da unlato riducano il grado di incertezza in cui si trova a operarel’imprenditore, dall’altro esplicitino la misura in cuiquest’ultimo è tenuto a farsi carico dell’interesse del lavo-ratore alla continuità della propria situazione occupazio-nale, dall’altro ancora diano un assetto più equilibrato eintelligente al sistema sanzionatorio.

18 Le forme tradizionali sono state caratterizzate dalla finalità di promo-zione del ruolo del sindacato in una duplice direzione. Da un lato, essen-zialmente nella prospettiva del conflitto collettivo (si è mirato nellasostanza sia ad attivare il potere di controllo del sindacato dei lavoratorisulla gestione del potere datoriale, a cominciare dallo statuto dei lavora-tori, sia, successivamente, a sostenere il suo potere negoziale sul pianodei rapporti collettivi). Da un altro lato la valorizzazione dell’attivitàsindacale la si è avuta mediante il suo coinvolgimento sul piano dellaattività amministrativa intesa in senso lato (si pensi alle varie forme dicoinvolgimento delle organizzazioni sindacali nell’ambito di collegidella pubblica amministrazione, oppure, più di recente, alla varie formedi sostegno e promozione della bilateralità).

19 Cfr.: l’art. 44, co. 10, del decreto legislativo n. 286 del 1998; l’art. 4, co.7, della legge n. 125 del 1991, come sostituito dal decreto legislativo n.196 del 2000 (abilità i consiglieri di parità); l’art. 5 del decreto legisla-tivo n. 216 del 2003.

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>>>> riforme e partiti

Per certi versi sembra avverarsi il vecchio sogno di MoiseiOstrogorski, l’autore del famoso trattato su La Democra-

zia e i partiti politici (1902), che terminava augurandosi chein luogo delle “macchine politiche” (il cui modello per luierano i partiti americani) arrivassero le “leghe”, formazionitranseunti basate sull’aggregazione intorno ad obiettivi limi-tati, e che dunque si sarebbero sciolte una volta questi fosserostati raggiunti. Magari lo studioso russo si augurava che que-sti obiettivi transeunti fossero qualcosa di più serio che impal-linare un candidato a qualche carica o fare barricate per qual-che mantra ideologico, ma tant’è: come si sa, poi la declina-zione di principi annunciati come alti ideali non di rado fini-sce storicamente in farsa.Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi, ma forse inquest’ultimo anno, è il naufragio, almeno per il momento, delsistema dei partiti così come è stato ereditato da una lungastoria. Qualcuno obietterà che si tratta di una vicenda iniziatacon la crisi della cosiddetta prima Repubblica. E’ vero, masolo se consideriamo quanto avvenne allora appunto come uninizio che non necessariamente doveva finire nella dissolu-zione attuale.Se si esamina la composizione dell’attuale Parlamento e ledinamiche che lo regolano, è arduo ricondurre tutto al vecchiouniverso della “forma partito”. In sintesi, essa poggiava su trepiloni: l’esistenza di raggruppamenti, contemporaneamentesociali e politici, che avevano una loro stabilità nel tempo inquanto costruiti su “identità” comuni riconosciute; la dimen-sione “rappresentativa” di questi raggruppamenti, che erasostanzialmente continua, per cui essi perseguivano più omeno gli stessi obiettivi generali dovunque la esercitassero(governo e assemblee elettive nazionali e locali, società dirappresentanza, ecc.); il principio per cui senza una “disci-plina” nell’azione comune si sarebbero messi a rischio glialtri due pilastri, mentre un alto tasso di democrazia interna aivari raggruppamenti consentiva l’aggregarsi di molte sfuma-ture differenti senza necessità che esse si omologassero più ditanto, ma sempre mantenendo il riferimento al modello parla-

mentare per cui poi alla fine tutti devono adeguarsi alle sceltedella maggioranza.E’ facile ricomprendere in questo schema i partiti della primaRepubblica. Le loro identità erano spesso assolutamente tra-sparenti (cattolici, comunisti, socialisti, laici, neofascisti,ecc.); la loro azione nelle varie sfere dove si esercitava il prin-cipio della rappresentanza era tale da non mettere in discus-sione quel collante identitario; la democrazia interna si fer-mava davanti al pericolo di mettere in crisi la capacità aggre-gatrice dell’identità collettiva. Dc e Pci erano emblematici daquesto punto di vista: non si metteva in discussione che unolottasse per promuovere una società cristianamente ispirata eche l’altro lo facesse per l’avvento finale di un ordine nuovo“comunista”; c’era una costante ricerca per mostrare cheovunque, dal livello nazionale a quello locale, i due partitinon tradivano quegli obiettivi generali; il confronto internoche esisteva in ciascuno – nella Dc in forma esasperatamentedichiarata, nel Pci nel chiuso del gergo di una politica profes-sionale da “mandarini” – non poteva arrivare al punto, nondirò di fare delle scissioni, ma neppure di minacciarle.

Bisogna riflettere sul destino che stanno

avendo gli unici due partiti

che avrebbero dovuto rappresentare

il baluardo del vecchio schema

di organizzazione della politica

Si può ovviamente rilevare che dietro queste apparentemente“ferree leggi” c’erano poi prassi ed episodi in cui ci si disco-stava da esse, talora anche in maniera significativa: ma tuttoavveniva cercando di negare che si stesse facendo ciò che tutticonsideravano “immorale”, cioè qualcosa che contribuivaalla distruzione della capacità “di lotta” del partito.Nel Parlamento attuale trovare partiti che rispondano al requi-sito di poggiarsi su quei tre pilastri è cosa ardua. Magari inalcuni ne rimane uno, ma esso, privo degli altri due, è un pila-

Un sistema al capolinea>>>> Paolo Pombeni

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stro che regge il vuoto. Da questo punto di vista è emblematicoil Movimento 5 stelle, l’unico ad avere una mistica dell’unitàdi espressione nel voto e nel pensiero, ma che non ha né iden-tità collettiva (a partire dal nome che non significa nulla – ilche peraltro non è una loro esclusiva), né strategia di rappre-sentanza complessivamente dispiegata nelle diverse istanze incui è presente, magari anche con quote significative.Per il resto gli attuali partiti possono dividersi in due grandisottogruppi. Da un lato ci sono i “cespugli” di vario tipo, chesono in realtà delle istituzioni di mutuo soccorso fra spezzonidi professionisti della politica (o aspiranti tali) i quali, cono-scendo bene il meccanismo dei vantaggi del sistema vigentenelle varie assemblee legislative (rimborsi, contributi allespese, salari per sé e per i collaboratori, ecc.), lucrano dal loroautodefinirsi come “partiti” (o assimilati) una legittimazioneper questi privilegi. Sono naturalmente i più feroci oppositoridi qualsiasi regolamentazione della presenza nelle assembleesulla base della definizione di soglie per l’accesso al diritto dirappresentanza, in base al presupposto (insostenibile) che inun’assemblea tutte le “opinioni” abbiano diritto ad essere rap-presentate.Dal lato opposto troviamo quel che resta dei partiti che man-tengono il riferimento ad un insediamento social-politicosignificativo. Sono sostanzialmente tre: quel che resta del-l’aggregazione messa in piedi vent’anni fa da Berlusconi;quel che resta del riaggregarsi del “progressismo” italiano,cioè le varie trasformazioni per fusioni ed amalgami più omeno riuscite di ciò che altrimenti potrebbe definirsi la sini-stra che aspira ad essere di governo; quel che resta della pro-testa a sfondo localista e pseudo regionalista, cioè la Lega.Quest’ultima componente è per la verità sempre più attrattanel gorgo originato dal successo del movimento grillino, cioènella raccolta di umori e pregiudizi diffusi a cui non interessadare uno sbocco politico, ma che servono solo come stru-mento di raccolta di un consenso elettorale che consenta altempo stesso di mantenere vivi, magari estremizzandoli ulte-riormente, quegli umori e quei pregiudizi, e di fornire così unmezzo per professionalizzare a spese della collettività coloroche si assumono il compito di cui si è appena detto.A questo punto bisogna riflettere in maniera approfondita suldestino che stanno avendo gli unici due partiti che, per ragionistoriche e di sistema, avrebbero dovuto rappresentare ilbaluardo del vecchio schema di organizzazione della politica,cioè essenzialmente lo scontro atavico fra conservazione eprogresso. Consentiteci da lasciare da parte per il momentol’eterna obiezione per cui in realtà non di rado i conservatori

propongono dei cambiamenti ed i progressisti resistono aicambiamenti e vogliono conservare quanto si è precedente-mente conquistato. E’ verissimo, ma si tratta, per così dire, diaccidenti di percorso che quando diventano la regola dissol-vono l’identità dei due raggruppamenti.Dunque: da un lato stava Berlusconi col suo nuovo “partito diplastica”, perché nato apparentemente dal nulla ideologico-sociale, frutto dell’iniziativa di un imprenditore che entrava inpolitica per salvare l’impero economico che si era costruito.In realtà le cose erano un bel po’ più complicate. In sintesil’imprenditore Berlusconi da un lato, grazie al possesso diuna imponente strumentazione mediatica, convinceva chequel che lui stava rischiando, cioè la perdita di quanto accu-mulato negli anni della confusione decadente della primaRepubblica, toccava anche tutti gli altri che avevano trattoprofitti da quel contesto; dall’altro raccoglieva attorno a séuna quota di professionismo politico altrettanto interessato almantenimento di un ruolo che il venir meno delle circostanzepregresse metteva in questione. Aggiungiamoci pure che ilgrande successo arriso inizialmente e per un lungo tratto aquesta proposta elettorale aveva rafforzato la compagine delgruppo, che era anche tenuta assieme dal fatto che il suo pro-motore era in grado di sopportare in prima persona la maggiorparte dei costi dell’impresa.

Nella dissoluzione della prima Repubblica

il partito comunista

nella sua trasformazione berlingueriana

aveva aspirato ad essere

il porto naturale a cui doveva approdare

chiunque fosse per il progresso

Questo era il versante della “conservazione”, che non a casoaveva assunto a proprio marchio tutte le parole d’ordine chetradizionalmente erano state avversate dal fronte opposto:così si erano proclamati “liberali” (senza sapere di che parla-vano) perché nell’ideologia stracciona della sinistra il libera-lismo era il male assoluto; ovviamente anti-comunisti, perchél’avvento del comunismo era considerato l’obiettivo del pro-gressismo; e poi, in maniera meno esplicita, clericali, indu-strialisti, eccetera.Quel modello è però andato in frantumi nel momento in cui èdiventato evidente che conservare era un termine obsoleto inun mondo in trasformazione radicale. Certo: una crisi econo-mica impressionante ed imprevista, per di più cocciutamente

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negata nella sua fase iniziale, ha dato il colpo di grazia allapossibilità di raccogliere consenso sulla base del “così com’èin fondo va bene per tutti”; ma bisogna aggiungere che la per-cezione di un mondo in continua ebollizione anche su altripiani (dalle tecnologie alle relazioni internazionali) bruciavaanche le residue capacità di fascinazione del tradizionale slo-gan. Sommiamoci la crisi personale del vecchio leader, chenon ha saputo subito riadattare la recitazione della sua parteal nuovo scenario, nonché il fatto che proprio la crisi econo-mica aveva minato la sua capacità di farsi carico in prima per-sona dei costi del suo partito, ed avrete il quadro completodella situazione.Sul versante opposto si poneva il problema del “progressi-smo” italiano. Nella dissoluzione della prima Repubblica ilpartito comunista nella sua trasformazione berlingueriana –quella che ne aveva fatto “un partito radicale di massa” , pren-dendo a prestito una geniale definizione di Ermanno Gorrieri(ma qualcosa di simile aveva detto anche Luciano Cafagna) –aveva aspirato ad essere il porto naturale a cui doveva appro-dare chiunque fosse appunto per il progresso. In verità questaera una pretesa storica del comunismo occidentale: solo cheall’epoca d’oro ciò doveva avvenire perché ci si rendevaconto che la storia marciava inevitabilmente verso l’instaura-zione del socialismo marxista, mentre ora, distrutta dalla sto-ria stessa quell’illusione di terra promessa, si ripiegava piùbanalmente sull’idea che il Pci avesse la capacità, “per strut-tura ed organizzazione”, di dare al moralismo progressista laforza necessaria per instaurare finalmente in Italia l’egemoniadei politici per bene.Il prezzo per rendere credibile questa strategia è stato l’ab-bandono della dizione “comunista” nella denominazione deinuovi raggruppamenti, anche per l’implausibilità del terminedopo il crollo dell’Urss e la crisi di tutti i sistemi che si appel-lavano a quell’ideologia (il caso cinese è particolare, ma,come si dice, fa storia a sé). Tuttavia questo non ha compor-tato, almeno per lungo tempo (e in parte ancora oggi), unarevisione della cultura politica propria di quella tradizione. Insostanza ci si è trovati di fronte alla difficoltà di governare ilrapporto tra il partito e il governo che questo esprimeva, tantopiù che esso per necessità era sempre di coalizione. Di qui ilproblema di come accettare che un governo dovesse rispon-dere prima al paese ed alla comunità indifferenziata deglielettori che gli davano sostegno, e solo dopo alle pulsioni eagli interessi che il partito pretendeva di trasmettergli. Chepoi questo modo di fare abbia trovato disponibilità anche neimembri provenienti da altre frange ideologiche che il nuovo

partito aveva aggregato attorno alla vecchia struttura del Pcinon deve stupire: perché in fondo quel modo di fare era estre-mamente favorevole al ruolo e agli interessi dei gruppi diri-genti di volta in volta succedutisi, nei quali anche una partedei nuovi erano stati cooptati.Questo modello è però andato radicalmente in crisi con laconquista del vertice del Pd da parte di Matteo Renzi. Egliinfatti ha creato il corto circuito che ha fatto saltare il sistema:prima è riuscito a divenire segretario del partito a dispetto deisuoi gruppi dirigenti tradizionali e grazie all’appoggio mas-siccio non degli iscritti, ma degli elettori (indistinti); poi, inforza di quella posizione conquistata, non ha preteso di det-tare regole al governo attraverso il direttivo del partito, ma siè direttamente insediato al vertice dell’esecutivo.Con i due eventi che ho cercato di descrivere – cioè con lacrisi del ruolo di catalizzatore della “conservazione” (che danoi pudicamente viene chiamata “moderatismo”), e con ladissoluzione del partito “progressista” come cane da guardiariconosciuto di quella ortodossia per lasciare il ruolo di guidaverso il futuro ad un leader – si è di fatto dissolto quel sistemadi governo della rappresentanza e di manipolazione benigna,

nonché di canalizzazione, degli “interessi sociali” che nellanostra Carta Costituzionale era stato pensato come compitoprecipuo di un sistema di partiti.Per dire di più, si era nella pratica ritenuto che senza di essouna democrazia che non volesse essere “formale”, ma sostan-ziale, sarebbe stata impossibile. Di qui la necessità di ripen-sare oggi il quadro complessivo del nostro sistema politico,nel momento in cui da un lato i partiti esistenti godono e pre-tendono di godere di quel ruolo (e di quei privilegi) che laCostituzione riserva ai modelli che essa aveva non solo inmente, ma per tanti versi fra le mani; e dall’altro le loroincongruenze, unite alla trasformazione globale in corso, lihanno privati della legittimazione presso l’opinione pubblicaa ricoprire quei compiti.

Le leadership dei partiti sembrano

incapaci di gestire la disciplina

dei loro gruppi parlamentari

La percezione di questa situazione non mi sembra molto pre-sente nella nostra classe politica. Basti citare come episodioilluminante quanto è accaduto nella vicenda della designa-zione di due membri di nomina parlamentare per la CorteCostituzionale. Indubitabilmente affidare un compito tantodelicato di fatto proprio ai partiti e non semplicemente al“Parlamento” è tipico della nostra Costituzione repubblicana:infatti quando si fissa un quorum altissimo che presupponeuna larga intesa fra maggioranza ed opposizione evidente-mente si pensa ai partiti sia come destinatari della tutela con-tro colpi di mano di qualunque maggioranza, sia come tessi-tori di un accordo trasversale che renda possibile quella mag-gioranza qualificata. In più evidentemente ci si aspetta che ipartiti per raggiungere questa intesa puntino ad indicare per-sonalità di una qualificazione tale da superare ogni riferi-mento “di parte”.Ebbene, cosa è successo? I partiti non sono in grado dicostruire queste larghe intese, perché il sistema è divenuto adegemonia troppo frammentata, e – come si è detto – la pre-senza di una formazione atipica, ma di grande peso come ilM5s (che non è interessato alla preservazione del sistema inquanto non ne è stato parte “costituente” né si sente erede diquel passaggio) rende estremamente ardua la formazionedella maggioranza qualificata. In secondo luogo queste diffi-coltà consentono a tutte le tendenze interne ai partiti maggioridi sabotare le intese non in quanto considerate realmente ina-deguate, ma in quanto mezzo per la battaglia interna. In terzo

luogo nella scelta dei candidati non vi è alcuna traccia dellavolontà di individuare profili di candidati che siano percepiticome rappresentativi di un consenso trasversale.Le leadership dei partiti poi sembrano incapaci di gestire ladisciplina dei loro gruppi parlamentari, dal momento che nondispongono più degli strumenti impliciti del disciplinamento:non sono in grado di garantire le carriere elettorali (non si sache gruppo dirigente sarà al potere al momento della forma-zione delle prossime liste; non si sa con le modifiche in corso– abolizione del Senato, delle provincie, accorpamenti deicomuni, ecc. – quanti posti saranno disponibili; le chance disuccesso dipendono spesso più dal sostegno dei media che daquello delle segreterie, ecc.); non hanno più la forza di garan-tire sistemazioni “parallele”, perché, per fortuna, la presa deipartiti su molte istituzioni sta rallentando, complice la spen-ding review ma non solo; non determinano la quota di spaziopubblico occupabile dai singoli deputati, che anzi sanno chemostrarsi “dissenzienti” ne aumenta l’appeal per le varie cor-ride mediatiche.Tutto questo, come si è detto, è divenuto evidente nella fac-cenda dell’elezione dei due giudici della Corte Costituzio-nale, ma si ripete praticamente in continuazione, e l’unicaarma nelle mani del governo per governare questa emergenzasarebbe il ricorso ad elezioni anticipate. A questo propositovanno fatte due osservazioni. La prima riguarda più diretta-mente la vicenda delle elezioni dei membri della Consulta:qui è diventato evidente che c’è una parte almeno della classepolitica che è diventata indifferente non solo alla disciplinadel proprio gruppo, ma allo stesso dovere di adesione alsistema degli equilibri costituzionali (persino le reprimende,fondatissime, del presidente della Repubblica sono passateinascoltate). La seconda riguarda più in generale il ricorsoalle elezioni anticipate. In questo clima si tratta di un’arma“atomica” di ultima istanza che rischia di disintegrare defini-tivamente il sistema, per cui è disponibile più come minacciache come realtà. Peccato che di questo siano al corrente pra-ticamente tutti.Dunque stiamo affrontando una crisi ben più impattante cheun tradizionale scontro di correnti e personalità nel recintotradizionale dei partiti. Stiamo assistendo, piaccia o meno, aduna crisi del sistema costituzionale vigente, che è basato suipartiti e sul ruolo che essi assolvono nel garantirne il funzio-namento. Ciò non significa che esso sia finito: tutto è semprerecuperabile, basta volerlo e avere a disposizione l’intelli-genza per sapere come fare. Se queste due condizioni sussi-stano oggi lasciamo sia il lettore a giudicare.

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Il giorno successivo a quello in cui il Senato ha approvato inprima lettura il ddl 1429 che lo riforma, il quotidiano La

Stampa ha pubblicato una lettera al suo direttore della senatricea vita Elena Cattaneo, una gloria italiana nella ricerca biologicamondiale nominata l’anno scorso dal presidente della Repub-blica. La senatrice informava di essersi astenuta (un voto con-trario, al Senato) e dei motivi di questa decisione, espostinella sua dichiarazione di voto e resi in sintesi nel titolo del-l’articolo (“Occasione persa. Si poteva volare più alto”). Puòessere utile considerare i suoi argomenti non solo per il rilievodella persona, ma anche perché, fra “dichiarazioni” ai media ebattute postate su vari social network, non sono state molte leconsiderazioni sul testo finale rese pubbliche da senatori, mi-nistri ed esponenti politici nazionali e regionali. I motivi del dissenso di Cattaneo sono tre: di contesto, dimetodo e di merito. Quello sul “metodo utilizzato”, trattandosidi una ricercatrice, va considerato per primo: “Troppo condi-zionato da pressioni esterne e dalla disciplina di partito, concui si sono dettati contenuti, paletti e tempi, decisi fuori dal-l’aula”. In effetti una modifica della Costituzione proposta esostenuta nel confronto parlamentare con le modalità e l’urgenzaanche tattica di mantenere un impegno qualificante del pro-gramma di governo ha posto, in questa prima lettura, unvincolo di maggioranza e un’ipoteca sull’orizzonte mentale epolitico dei legislatori: un vincolo che contrasta alla radicecon la natura delle norme e con l’ambizione dichiarata di con-quistare il più ampio consenso di opinione e di popolo attornoa un cambiamento che riguarda la collettività nazionale. Nesono risultate offuscate, nel confronto pubblico, le informazionianche più sommarie o di sintesi circa il merito della proposta:il richiamo ai fatti e alle esperienze maturate negli ultimitrenta anni di vita istituzionale e politica, e le argomentazioniesposte in apertura del ddl agli atti del Senato. La stessa lettera della senatrice Cattaneo, peraltro, finisce perfornire una riprova di questo offuscamento: visto che, aleggerla e rileggerla, non c’è in essa la parola “Regioni”,manca anche il più piccolo riferimento ai livelli costituzionali

regionali e comunali di cui il nuovo Senato diverrebbe espres-sione, e sono considerati strumenti ad altri fini le ragioni e gliobiettivi dichiarati dal governo nel presentare alle Camere ilprogetto. Che è come dire – per restare a un’analogia suggeritanella lettera – esporre le proprie critiche ai primi risultati di unesperimento giunto appena al termine della prima metà dellaFase 1, senza neanche richiamare i dati di partenza e gliobiettivi indicati dal ricercatore che vi è impegnato.

Per chi mette a confronto il testo iniziale

del governo e quello finale votato dal

Senato i rilievi di merito imputati al governo

o non trovano riscontro o sono il risultato

dell’apporto della truppa composita che il

governo si è trovato di fronte in Senato

Per molti versi “il contesto generale in cui si sono svolti ilavori” – il primo fra i motivi del dissenso della senatrice – hacontribuito in modo determinante a distogliere l’attenzione daquesti aspetti non secondari della proposta di riforma. La sena-trice imputa al governo “scarso ascolto” e “linguaggio inadattoa un momento tanto importante”, conseguenza di “una strategiacomunicativa impegnata nella rincorsa al consenso elettorale efatta di pensieri mignon di 140 caratteri, strutturalmente estraneialla competenza, all’esperienza e ai saperi specialistici”. Sicché,essendo così espliciti e dominanti gli obiettivi immediati delgoverno (vedere approvato il ddl in tempi rapidi e scompaginareil fronte composito dei contrari – fra cui esponenti della mag-gioranza, risicata al Senato – prima che ne venisse una minacciaalla sua stessa esistenza), hanno finito per risultare “non con-vincenti le motivazioni a sostegno di un Senato non elettivo ele scelte delle funzioni assegnate a questa Camera”, e del tuttotrascurabili i motivi e gli obiettivi istituzionali e politici generaliindicati nel ddl: nient’altro che uno schermo per avere, allafine della giostra, “un Senato di cooptati dalle segreterie dipartito e una Camera di nominati”. Giudizio di merito, questo,

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Se si vola troppo alto>>>> Celestino Spada

che conclude il terzo ordine di motivi, basato sugli “interventiascoltati e i colloqui con i colleghi dell’emiciclo”, e ancoracosì sintetizzato: “Un progetto che non è in grado ora diindicare l’esito, l’equilibrio, la visione del nuovo assetto costi-tuzionale che stiamo costruendo”.Anche per chi ha seguito la vicenda attraverso i media l’av-vitamento partitico, in particolare interno al Pd, del confrontopubblico su questa riforma costituzionale è stato evidente;come pure le scelte comunicative del governo, che nonhanno contrastato ma alimentato questa deriva, contribuendonon poco a incrementare il materiale di un’offerta medialeda sempre centrata sui partiti e i politici, e su quanto da essi

emana; e venendo così ad oscurare anch’esso ragioni e obiet-tivi che attengono alla vita delle istituzioni, poco o nullaconsiderate di solito dai media. Invece, per chi ha ora mododi mettere a confronto il testo iniziale del governo e quellofinale votato dal Senato, i rilievi di merito imputati algoverno e alcune delle carenze del progetto segnalate dallasenatrice Cattaneo o non trovano riscontro o sono il risultatodell’apporto della truppa composita che il governo si ètrovato di fronte in Senato. I due testi sono molto diversi supunti essenziali, perché la spinta decisionista del premier èvalsa a imporre i tempi di approvazione ma non le lineeguida e le scelte concrete della sua proposta: se c’era un “di-segno”, è fallito. La proposta del governo era questa: “Il Senato delle Autono-mie è composto dai Presidenti delle Giunte regionali, daiPresidenti delle Province autonome di Trento e di Bolzano,dai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di Provinciaautonoma, nonché, per ciascuna Regione, da due membrieletti, con voto limitato, dal Consiglio regionale tra i propricomponenti e da due sindaci eletti, con voto limitato, da uncollegio elettorale costituito dai sindaci della Regione”. Insintesi: quarantadue membri di diritto, per il loro ruolo isti-tuzionale nelle regioni e nei comuni capoluogo, più quattroper ciascuna regione eletti dal Consiglio regionale (due) edai sindaci della regione (due) costituiti entrambi in collegioelettorale. Accanto ad essi “ventuno cittadini che hanno illu-strato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scien-tifico, artistico e letterario possono essere nominati senatoridal Presidente della Repubblica”.

Una procedura di designazione dei nuovi

senatori centrata sui (e gestita dai) partiti

Invece il Senato uscito dalla prima lettura “rappresenta le isti-tuzioni territoriali”, ma la sua composizione è tutt’altra daquella proposta nel ddl del governo. Nell’articolo 2 del testofinale la musica è questa: “Il Senato della Repubblica è com-posto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioniterritoriali e da cinque senatori che possono essere nominatidal Presidente della Repubblica. I Consigli regionali e iConsigli delle Province autonome di Trento e di Bolzanoeleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propricomponenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindacidei Comuni dei rispettivi territori”. Alla diversa composizione si accompagna un cambiamentoprimario nei criteri e nelle procedure di designazione dei rap-

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presentanti delle istituzioni territoriali. Quanto ai criteri, laproposta del governo escludeva l’elezione diretta a suffragiouniversale dei senatori non solo per “riservare in via esclusivaalla Camera dei deputati le scelte di indirizzo politico”, maperché “l’elezione, inevitabilmente, potrebbe trascinare consé il rischio che i senatori si facciano portatori di istanzelegate più alle forze politiche che alle istituzioni di apparte-nenza”. Nondimeno in ogni Regione, nella elezione dei dueeletti “dal Consiglio regionale convocato in collegio elettorale”e dei due eletti “dai sindaci della regione convocati in collegioelettorali”, avevano rilievo le persone. La prescrizione dei n.3 e 4 dell’art. 33 della proposta è la stessa: “Le candidaturesono individuali e ciascun elettore può votare per un unicocandidato. Il voto è personale, libero e segreto”. Nel testo finale, invece, questa prescrizione semplicementenon c’è più, e sempre l’art. 2 stabilisce che in ciascunaRegione “i seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi edella composizione di ciascun Consiglio”. Sicché (in italiano)i voti raccolti da ciascun partito sul mercato elettorale regionalevarranno a stabilire non solo la misura della sua rappresentanzanel relativo Consiglio, ma anche la sua quota dei seggi spettantialla Regione nel Senato della Repubblica. Ne consegue unaprocedura di designazione dei nuovi senatori centrata sui (egestita dai) partiti. Dopo una agitatissima, ma certamente me-ditata, riflessione, il Senato ha deciso che per ripartire la de-putazione senatoria regionale fra i partiti presenti nel Consiglio“ogni consigliere può votare per una sola lista di candidati,formata da consiglieri e da sindaci dei rispettivi territori”; che“i seggi sono assegnati a ciascuna lista di candidati in numeropari ai quozienti interi ottenuti, secondo l’ordine di presenta-zione nella lista dei candidati medesimi”; e che “in caso dicessazione di un senatore dalla carica di consigliere o disindaco, è proclamato eletto rispettivamente il consigliere osindaco primo tra i non eletti della stessa lista” (art. 38). Eli-minati i presidenti delle Regioni e delle Province autonome,eliminati i sindaci dei comuni capoluogo, eliminato il collegioelettorale dei sindaci, eliminata la quota paritaria di eletti daiConsigli delle Regioni e delle Province autonome e di elettidai comuni in ogni regione e provincia autonoma, saltano lecandidature individuali e il voto alle persone, e con le liste fracui si deve scegliere il tutto è saldamente nelle mani dei partitiche le presentano in Consiglio, compresi i nomi di coloro chesubentreranno in Senato in caso di cessazione di qualcuno giàeletto.Nella lettera della senatrice Cattaneo non c’è traccia del tra-vaglio, del confronto e dello scontro politico che deve aver

accompagnato questi cambiamenti non marginali del conte-nuto del ddl costituzionale presentato dal governo, chestrozzano nella condotta forzata delle liste dei partiti rap-presentati in Consiglio regionale “la rappresentanza di tuttala sfera delle autonomie, intese anzitutto come istituzionipiuttosto che come territori”, e vanificano la libertà di elet-torato attivo e passivo anche in questa sede istituzionale.Viene da chiedersi come sia stato possibile che di questamateria del contendere, di questi antagonismi così radicalisu criteri e scelte normative, non ci fosse neppure l’eco“negli interventi ascoltati e nei colloqui con i colleghi del-l’emiciclo”, non pochi dei quali contrari anch’essi alla pro-posta del governo; e perché fra i motivi della sua astensionefinale non sia fatto cenno a questi aspetti di merito deirisultati del lavoro lì compiuto.

E’ un bilancio del decentramento che porta

la Conferenza dei Presidenti delle Regioni,

nel 1984, ad avanzare alla Commissione

Bozzi la proposta di trasformare

uno dei due rami del Parlamento

in “Camera delle Regioni”

Come pure viene da chiedersi come mai, archiviata in questomodo la prima lettura, nessuno tra i fautori di questa riformaabbia finora ritenuto urgente, oltre che necessario, riproporread ogni buon conto all’opinione pubblica – e segnalare ai loropari – le ragioni e gli obiettivi finora disattesi della legge co-stituzionale in itinere: quasi che non abbiano altro ruolo chequello di ufficiali di picchetto, e ci sia una qualche difficoltà arichiamare la dimensione intellettuale, istituzionale e politicadi questa riforma, e cioè “la volontà di configurare l’organoquale sede deputata a svolgere in primo luogo la funzione isti-tuzionale di raccordo tra lo Stato e il complessivo sistemadelle autonomie, secondo una logica di leale e trasparente co-operazione tra livelli di governo intesa a ricomprendere, supe-randoli tuttavia, sia gli equilibri politico-partitici, sia quelli dirappresentazione di interessi di carattere meramente territoriale”,come ancora si può leggere nella presentazione del testo delddl di riforma al Parlamento. E se la senatrice Cattaneo avesseprovato a volare meno alto?Può capitare che un amico, facendo ordine in casa, disseppel-lisca un libro che viene da un altro mondo – il nostro, trent’annifa – e che ci parla di oggi: non genericamente, ma preciso econcreto, quasi nella dimensione della cronaca. È capitato a

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Renzo Rossi, per quindici anni sindaco di centrosinistra di unpiccolo comune di collina in Val di Cecina. Vi sono riprodottigli interventi svolti nelle più varie occasioni e iniziative daGianfranco Bartolini, presidente della Regione Toscana fra il1983 e il 1990. Un impegno comunicativo dispiegato in analisie valutazioni di esperienze e processi con i quali la sua azionedi governo si misurava, e accompagnate spesso dalla verificadei risultati e da rilievi critici o apprezzamenti sulle sceltecompiute dal “governo regionale” (questo il titolo). Si coglie, in questi discorsi, la dimensione e lo spessore di unapolitica nutrita e produttiva di conoscenze e perciò capace digestire l’esistente e di adottare in via ordinaria strumenti e so-luzioni nuove, come di concepire e prospettare innovazionitese a migliorare la performance politica e amministrativa ditutto il “sistema delle autonomie”. La dimensione e lo spessoredi una politica che si voleva all’altezza delle sfide, di unpensiero forte per capacità tecnica e volontà propositiva,pronto a cogliere l’insufficienza o l’inadeguatezza dell’azionee a vederne le cause nelle scelte, nelle prassi e nelle mentalitàdei soggetti attivi sulla scena istituzionale: il governo, ilTesoro, il Parlamento, la Pubblica Amministrazione, i Consigli,i partiti. Fino a consegnarci – prezioso per posteri vicini e piùche interessati, quali noi siamo – il bilancio di “quindici annidi Regioni”, proposto sul campo da un dirigente politico for-mato nel lavoro e cresciuto nell’orizzonte mentale dell’industriae di un’esperienza sindacale e di partito di prim’ordine: dalle“Officine Galileo” alla Camera del lavoro di Firenze, al sin-dacato nazionale, al Consiglio e alla Presidenza regionale. E’ infatti un bilancio del “decentramento politico, che tieneconto delle originali esperienze compiute da ciascuna Regionee delle esigenze che hanno spinto ad affermare un nuovoruolo delle Regioni in campo economico, sociale, culturale epolitico”, che porta la Conferenza dei Presidenti delle Regionie delle Province autonome, da Bartolini presieduta nel secondosemestre del 1984, ad avanzare alla Commissione Bozzi laproposta di trasformare uno dei due rami del Parlamento in“Camera delle Regioni” (p. 163-165). Letti ora, questi interventi colpiscono per quanto le riflessionie le proposte seminate in quei sette anni di governo regionalesono simili a quelle esposte nel disegno di legge costituzionaledi riforma del Senato presentato dal governo, che propone “latrasformazione del Senato della Repubblica nel Senato delleAutonomie, rappresentativo delle istituzioni territoriali”. Conuna differenza: che a questo passo il governo attuale è indotto“dopo un dibattito ormai più che trentennale e dopo numerositentativi di riforma naufragati o riusciti solo in parte, ma con

esiti che quasi tutti giudicano controversi”, e sotto la spinta,ormai altrimenti ingovernabile, di fattori esogeni rispetto allanazione e allo Stato italiani: “Lo spostamento del baricentroistituzionale per la forte accelerazione del processo di integra-zione europea e in particolare la recente evoluzione della go-

vernance economica europea […] Le sfide derivanti dall’in-ternazionalizzazione delle economie e dal mutato contestodella competizione globale”. Laddove per Bartolini il “puntocritico cui oggi (1983) sono giunti i rapporti fra centro e peri-feria, e che è tale da richiedere l’introduzione di significativicorrettivi” (p. 53) ha cause tutte endogene: nelle scelte dei go-verni nazionali in materia di bilancio dello Stato e di finanzapubblica, e nelle condizioni e impedimenti che ne sono venuti- e nei processi di adattamento che ne sono conseguiti - nellescelte di governo e di amministrazione in tutto il sistema delleAutonomie, con lo scadimento dei caratteri e degli obiettividell’azione di governo regionale.

“Non c’è per le Regioni la possibilità

di discutere leggi che direttamente

le riguardano”

Vale la pena di riproporre qui il quadro che lo stesso presidentedella Toscana traccia alla Convenzione programmatica delPci del giugno 1988, muovendo dagli “anni Settanta, chevidero l’avvio di una stagione di riforme, di grandi leggi pro-grammatiche a livello nazionale: la casa, l’agricoltura, i tra-sporti, la sanità, la riconversione industriale, con la nuova at-tribuzione di poteri e risorse alle Regioni e agli enti locali, il‘decreto Stammati’ con il rifinanziamento degli enti locali e laproposta di sistemazione a regime della finanza degli entilocali. È stato un periodo molto interessante: per le Regioni siè trattato di organizzare e coordinare sul territorio questasomma di politiche settoriali, stabilire delle priorità, dareforza anche a momenti di riorganizzazione per il sistema delleautonomie […] Fu l’avvio di una ricerca di programmazionea tutti i livelli. Ma quella stagione è stata tradita. Se, dopo lariforma tributaria, gli enti locali non hanno più potuto contaresu uno stabile assetto finanziario, nell’81 la finanza regionaleha cessato di avere una propria legge ed è affidata, anno peranno, alla legge finanziaria dello Stato […] Oggi (1988) nonsi può affrontare il problema delle Regioni in termini disemplici aggiustamenti nei rapporti con lo Stato o con gli entilocali. Occorre invece porsi l’obiettivo della riforma, quelladei poteri, delle risorse e del loro rapporto con la legislazionenazionale, con il Parlamento e con il governo […] Ma non c’è

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per le Regioni la possibilità di discutere leggi che direttamentele riguardano. Ecco perché abbiamo questo tipo di legislazioneche interviene quotidianamente nelle competenze e non con-sente neppure una autonoma razionale organizzazione del la-voro. Ci troviamo perfino a dover ricostituire gli enti disviluppo agricolo, anche se altre potrebbero essere le risposte;a ricostituire le aziende di turismo anche se altre potrebberoessere le soluzioni. Siamo cioè in presenza di un complesso didisposizioni che incidono immediatamente sulle facoltà ope-rative delle Regioni, senza alcuna possibilità di metterle indiscussione. Da qui è nata la proposta di una ‘Camera delleRegioni’, di una sede cioè in cui le Regioni possano dibatterele leggi che le riguardano” (p. 377-378).Vale la pena di leggere queste pagine soprattutto per duemotivi: la centralità che vi assume la programmazione, comehabitat vitale per il governo e per l’istituzione regionale,criterio di attuazione dell’indirizzo politico e “metodo ecapacità operativa di tutta la struttura”; e lo sguardo fermo diBartolini sui guasti e le distorsioni che, in un contesto cosìcompromesso, si venivano producendo nell’attività degli ufficie dello stesso Consiglio regionale, e dei partiti in esso. Per la programmazione, Bartolini richiama l’esperienza dellaToscana: “La nuova articolazione del programma regionale disviluppo e le possibilità di controllo che consente […] un mo-nitoraggio che trimestralmente ci dà lo stato di avanzamentodello sviluppo […] Siamo in presenza comunque di livelli frai più alti che esistano nel nostro paese. Un punto di riferimentoanche a livello internazionale” (p. 376): con un’attenzioneparticolare alle esperienze degli Stati Uniti e dell’Inghilterra,ai “tempi lì spesi in funzione di decisioni e obiettivi certi […]lontani dalla nostra realtà, da questa situazione di stasi, diattesa continua, di indecisione” (p. 377); ai “processi a scalaeuropea che mostrano (1989) come davanti alla globalità deimercati e agli stessi limiti degli ordinamenti nazionali, crescala spinta alla valorizzazione delle economie locali, di identità,di patrimoni storici, sociali e ambientali, che proiettano ilruolo delle realtà regionali in un quadro più ampio” (p. 456);in “un’Europa nella quale si è aperto (1990) un terreno dicompetitività anche sul piano dell’amministrazione pubblica”(p. 554). In questo orizzonte di razionalità rispetto ai fini politici e di vo-lontà di perseguire e conseguire obiettivi amministrando – “ab-biamo bisogno di tanti cervelli e di una reale articolazione nellavita della regione” (1988) – restano fermi per Bartolini i “trepunti centrali della riflessione” sui “quindici anni di Regioni”:“Rafforzare il ruolo legislativo e di governo delle Regioni; assi-

curare rapporti più efficienti e tutelati tra il livello centrale equello locale; assumere a livello costituzionale la programma-zione come metodo e strumento in grado di promuovere il co-ordinamento delle risorse pubbliche” (p. 164-165).

“Se il richiamo autonomistico nasce sotto

forma di liste, siano esse leghe lombarde

o di altra natura, forse è perché si è ridotto

anche il nostro impegno in difesa

di una vera autonomia”

È appena il caso di osservare che la scelta della programmazionesul terreno regionale, e questa istanza del suo rilancio a livellonazionale, seguono di qualche anno la liquidazione dell’espe-rienza impostata e avviata negli anni Sessanta dai primi governidi centrosinistra e fatta cadere, come “libro dei sogni” o “tec-nocratica”, anche dai settori che si volevano più modernizzantidella Dc, e senza particolari opposizioni del Pci nazionale. Un profilo storiografico, per noi posteri, cui si accompagnanoosservazioni precise, di grande attualità, circa un contesto incui “l’amministrazione centrale opera ormai sulle ‘emergenze’,con una legislazione e strumenti di natura straordinaria, e nonsi arresta perciò la tendenza all’accentramento dei poteri edelle risorse”; nonché esortazioni (“di fronte alle prospettive,

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i nostri obiettivi non possono rischiare uno scadimento”) chetuttavia non possono impedire degrado o comportamenti adat-tativi: “Tentativi di innovazione (1985) continuano a conviverecon prassi e processi decisionali che trovano a livello nazionalesedi e interlocutori svincolati da ogni logica di programma-zione” (p. 164); “Vediamo il declino delle amministrazioni lo-cali, una progressiva omogeneizzazione al livello più basso[…] Se oggi (1988) non c’è più una percepibile distinzionetra un’amministrazione di sinistra e un’altra, è perché si sonoridotti gli spazi per esprimere una politica autonoma. Se il ri-chiamo autonomistico nasce sotto forma di liste, siano esseleghe lombarde o di altra natura, forse è perché si è ridottoanche il nostro impegno in difesa di una vera autonomia” (p.379). Considerazioni che non trovano interlocutori nei partitinazionali (“La disattenzione e il vuoto perfino che si registranosu questi temi, anche da parte delle forze politiche, sono indi-cativi dei limiti dell’attuale dibattito, ma anche di una crisiche sembra perdere di vista gli obiettivi della governabilità”)e attiva e valorizza, nelle istituzioni e nei partiti stessi, com-portamenti e mentalità che a loro volta acuiscono la crisi dellapolitica: “Il decentramento, incompiuto, è regredito in unaprassi che nulla ha a che vedere con la Costituzione e moltoinvece con la burocratizzazione del sistema […] Siamo difronte a una prassi confusa e polverizzata di relazioni, di ne-goziazioni e di interventi chiusi all’interno di logiche settoriali,mutevoli negli indirizzi e nelle scelte”. Osservazioni ricorrentiche materializzano quasi la crisi della politica già in atto(1989): “Liberare l’assemblea regionale da competenze am-ministrative e superare quelle forme consociative insite nellagestione consiliare non significa solo snellimento dell’attivitàregionale, ma rafforzare la dialettica fra maggioranza e oppo-sizione, esaltando le funzioni del consiglio sulle grandi sceltee sull’indirizzo politico-legislativo, oltre che di controllo sul-l’azione di governo” (p. 456-460).Il quadro di scelte e di comportamenti che Bartolini aveva os-servato e su cui richiamava la pubblica attenzione un quartodi secolo dopo si presenta come un contesto nazionale di crisi“dal quale traggono linfa pulsioni antisistema volte a delegit-timare sia i partiti politici, sia, di riflesso, le stesse istituzionirappresentative, ai cui organi essi forniscono la provvista”,per usare le parole della relazione che accompagna la propostadi riforma del Senato. E la “Camera delle Regioni”, che giàallora per lui era necessaria e urgente per assicurare miglioricondizioni all’esercizio della funzione di indirizzo politico digoverno, oggi arriva col pronto soccorso della Misericordianella sala rianimazione della Repubblica, “poiché solo le isti-

tuzioni che sanno dimostrare di sapersi riformare possono ri-trovare la propria legittimazione e riannodare i fili del dialogocon i cittadini”. La proposta di riforma costituzionale del governo indica conchiarezza che il suo obiettivo è di cambiare e far funzionare leistituzioni a fini pubblici, collettivi: “La scelta di comprenderenel nuovo Senato delle Autonomie in misura paritaria i rap-presentanti delle regioni e quelli dei comuni, e di prevedere,attraverso il sistema del voto limitato, anche la rappresentanzadelle minoranze presenti nei Consigli regionali e nel collegioche elegge i sindaci di ciascuna regione, riflette la volontà diconfigurare l’organo quale sede deputata a svolgere in primoluogo la funzione istituzionale di raccordo tra lo Stato e ilcomplessivo sistema delle autonomie – di cui rappresenterebbeun’emanazione – secondo una logica di leale e trasparente co-operazione tra livelli di governo”. Non senza accennare, comegià detto, al rischio che, se eletti a suffragio universale, “i se-natori si facciano portatori di istanze legate più alle forze po-litiche che alle istituzioni di appartenenza, ovvero di esigenzeparticolari circoscritte esclusivamente al proprio territorio”.

Opportune e necessarie profilassi devono

essere adottate per evitare che,

riformando le istituzioni, si finisca di fatto

per offrire nuovi spazi di manovra

e di mercato ai partiti

Non si potrebbe essere più chiari: l’allarme rosso è acceso neiconfronti dei partiti come portatori di interessi particolari, taliper loro natura da compromettere lo svolgimento delle funzioniattribuite alle istituzioni della Repubblica. Siamo, in Italia, alpunto (eroico, per un governo parlamentare) che la presenza dirappresentanti del popolo in un organo costituzionale viene in-dicata – in un testo agli atti del Parlamento, non in un film diAntonio Albanese o in un comizio di Beppe Grillo – come unpericolo per il bene della collettività; e che opportune e necessarieprofilassi devono essere adottate per evitare che, riformando leistituzioni, si finisca di fatto per offrire nuovi ruoli di influenzae nuovi spazi di manovra e di mercato ai partiti. La cosa singolare è che questo allarme non è scattato nel mo-mento in cui in Parlamento qualcuno ha proposto di cambiaresu questo punto il testo presentato dal governo e si è trovatauna maggioranza che ha approvato in prima lettura a PalazzoMadama un testo molto diverso. Così, alleggerito il nuovoSenato delle valenze rappresentative del “sistema delle auto-

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nomie”, non resta che aspettare le prossime settimane e mesiper vedere se questo arrivo in forze dei partiti al volante dellariforma, e ai posti così assegnati ai mercati regionali della po-litica, diventerà un tema di scontro politico e di scelte dirimentiall’interno della maggioranza e fra quanti, in Parlamento,sono favorevoli o contrari a questi cambiamenti; oppure se gliimperativi dello “scadenzario” di leggi da approvare e della“tabella di marcia” al 2018 del governo finiranno per prevalere,dal momento che, come notava Machiavelli – citato daBartolini in uno dei suoi ultimi discorsi – “il riformatore haper nemici tutti coloro che prosperano sotto il vecchio ordine”. Nella proposta di riforma del Senato formulata dal governo alPresidente della Repubblica era attribuito il potere di nominarenel nuovo Senato “ventuno cittadini che hanno illustrato laPatria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico,artistico e letterario”, accanto ai rappresentanti delle istituzioniterritoriali. Nel testo finale, sui cento senatori infine previsti,quella presenza è ridotta a cinque.

E’ sembrato meglio togliere di mezzo

la prescrizione delle candidature individuali

e del voto alla persona per consegnare il

tutto al “pensiero unico” delle liste di partito

Il confronto dei due testi si presta ad alcune considerazioni. Sipuò dare per scontato che la scelta di quei cinque cittadini daparte del Presidente della Repubblica sarà motivata dandomodo a tutti, e soprattutto al popolo, di verificare in che modoegli ha usato dei suoi poteri. Per gli altri novantacinque iltesto della riforma approvato dal Senato in prima lettura hafatto cadere il principio e il metodo di elezione previsto nellaproposta del governo. Sicché il ruolo di senatore della Repub-blica, riservato ai consiglieri regionali (più un sindaco per re-gione e provincia autonoma), sarà assegnato dai partiti cui èdato il potere di fare e proporre “liste di candidati” neiConsigli. Di conseguenza le deputazioni regionali nel nuovoSenato, che nella proposta del governo potevano contare suipresidenti delle Regioni e sui sindaci dei comuni capoluogo,nonché sulla rappresentanza “paritaria” di due eletti dal Con-siglio regionale e di due eletti da tutti i sindaci della regionecostituiti in “Collegio elettorale”, vengono letteralmente smon-tate, per metterle nella disponibilità dei partiti rappresentatinei rispettivi Consigli. Per un Senato chiamato a verificare e a intervenire su leggi eprocedimenti di grande e immediato impatto sulle funzioni di

governo del sistema delle autonomie, l’eliminazione dei Pre-sidenti costituisce una perdita secca in termini di ruolo, com-petenze e responsabilità coinvolte, nonché di tempi di esamee di intervento. Quanto alla “rappresentanza paritaria”, quelladei comuni viene liquidata con il relativo collegio e postanelle grazie delle consorterie dei partiti regionali, mentre iConsigli sono alleggeriti del compito di individuare e scegliere,votando, le persone dei due senatori con cui integrare la depu-tazione regionale. Un esercizio della mente, una pratica dellapolitica ma anche del confronto pubblico e di opinione, consi-derati evidentemente dall’attuale maggioranza del Senato dellanostra Repubblica fuori della portata e della capacità dellaclasse politica delle Regioni e Province autonome. Sicché èsembrato meglio togliere di mezzo la prescrizione delle can-didature individuali e del voto alla persona per consegnare iltutto al “pensiero unico” delle liste di partito e al voto di lista:alle mentalità e alle prassi sperimentate in questi decenni conil “popolo sovrano” e oggi, evidentemente, nella piena dispo-nibilità dei partiti nei Consigli. È molto probabile che a queste ragioni di economia mentale, enon certo alla volontà di fare uno sgarbo al Presidente della Re-pubblica, si debba anche la riduzione a 5 dei senatori di sua no-mina. Anche qui, dev’essere sembrata fuori luogo per il nuovoSenato l’idea che a rappresentanti del popolo sempre alle presecon norme ed emendamenti, impegnati in interventi in Aula e incommissione, in incontri di partito o con gli elettori e in messe apunto e dichiarazioni diuturne sui media, potesse tornare utileascoltare ogni tanto in Aula il parere di qualcuno che vive epensa in dimensioni mentali diverse: l’intervento di un senatorescelto dal Presidente, il quale, lette le carte e ascoltati i discorsidegli altri, proponga un’altra chiave di lettura del problema. Inogni caso, 21 di queste presenze sono sembrate troppe.Un segno di disinteresse, possiamo pensare, se non anche diun’insofferenza per quelli che possono essere considerati degliinvestimenti, come invitava a considerarli a fine mandato loscrittore Alberto Arbasino, eletto nel 1983 deputato “indipen-dente” nelle liste del Partito repubblicano: “Un coerentemettere a disposizione della società civile, senza tanti birignao,quel tanto o quel poco di sapere accumulato ‘in prima persona’nel corso dei decenni, in esperienze culturali specifiche. Senzapuntare a cariche o posti o prebende. Senza nemmeno azzerarequell’eventuale contributo proprio in un coro di vecchie uni-formi canzoni. Semplicemente ‘aprendo una linea di creditoculturale’. E anche un semplice ‘fido’ culturale si può sfruttareoppure no, senza che alcuno vi perda alcunché” (la Repubblica,maggio 1987).

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Hanno avuto luogo le prime elezioni provinciali disecondo grado, ossia consultazioni in cui non partecipe-

ranno i cittadini nella scelta dei livelli di governo, ma solo gliamministratori comunali. Come è noto, l’abolizione dell’ele-zione diretta per gli organi delle province costituisce l’archi-trave della “riforma Delrio” (legge n. 56/2014 del 7 aprilescorso, poi parzialmente modificata nei mesi successivi).Le disposizioni di questa legge, nel dare attuazione allecittà metropolitane e nel prevedere maggiori forme diaggregazione tra Comuni, configurano un nuovo assettodegli enti provinciali dal punto di vista funzionale nei rap-porti con gli altri attori istituzionali, ma soprattutto nemutano profondamente il canale di legittimazione tramitel’elezione indiretta dei suoi organi di indirizzo politico-amministrativo. Tutto questo, è bene precisarlo sin da ora,in attesa della riforma costituzionale del Titolo V, e quindidel definitivo superamento di tali enti con la loro scom-parsa dall’ordinamento.Il nuovo assetto istituzionale delle province è regolato da uncomplesso di norme contenute tra il comma 51 e il comma 96dell’articolo unico di cui si compone la già citata legge.Vediamone i caratteri principali. Anzitutto scompare lagiunta, e quindi gli assessori provinciali. Gli organi dellanuova provincia divengono: il presidente, eletto dai sindaci edai consiglieri comunali nell’ambito dei soli sindaci in carica(il cui mandato non scada prima di diciotto mesi dalla datadelle elezioni provinciali), che dura in carica 4 anni e non èremovibile da parte del Consiglio, ma decade dalla carica incaso di cessazione del mandato da sindaco; il Consiglio pro-vinciale, composto da 10, 12 o 16 membri, a seconda dellapopolazione, eletto da sindaci e consiglieri comunali nel pro-prio seno per un mandato di due anni, con decadenza in casodi cessazione del rispettivo incarico comunale (salvo il casodi rielezione alla carica di sindaco o consigliere); l’assembleadei sindaci, presieduta dal presidente, con compiti propositivie consultivi rispetto agli altri organi, e con il potere di appro-vare ed emendare lo statuto provinciale.

Il meccanismo di elezione per presidente e Consiglio èdistinto, benché entrambi gli organi ricevano una legittima-zione di tipo indiretto con il “voto ponderato”, ossia didiverso peso a seconda della fascia demografica di apparte-nenza degli aventi diritto al voto. Ogni amministratore comu-nale esprime due voti in due schede – l’una per il presidente,l’altra per il Consiglio – potendo, nel secondo caso, optare perun voto di lista oppure per un voto di lista con una preferenzatra i candidati consigliere. È eletto presidente il candidato cheottenga il maggior numero di voti a seguito delle operazionidi ponderazione, e in caso di parità la carica è assegnata alcandidato più giovane per età.I seggi del Consiglio vengono invece ripartiti proporzional-mente tra le liste in competizione, sulla base della cifra pon-derata di ciascuna lista e la cifra ponderata individuale deisingoli candidati. Una norma transitoria riconosce infine l’e-lettorato passivo per le cariche di presidente e consigliereanche ai consiglieri provinciali uscenti, ma unicamente insede di prima applicazione del nuovo sistema di elezione.Infine la legge stabilisce la gratuità di tutti gli incarichi pro-vinciali.Alla luce del complesso delle disposizioni richiamateappare abbastanza nitida la radicale trasformazione che leprovince italiane stanno per subire dal punto di vista dellalegittimazione e della loro stessa natura di ente rappresen-tativo. Non volendo esprimere un giudizio affrettato o pre-giudiziale rispetto al nuovo assetto, non ci si può esimeredal formulare alcune considerazioni. Il meccanismo di ele-zione indiretta, oltre a ridurre la valenza politica dell’ente,può comportare la stipulazione di intese tra forze politichelocali spesso al di fuori dalle logiche competitive di unademocrazia matura. Inoltre la mancata previsione di stru-menti di controllo del Consiglio nei confronti del presi-dente, e viceversa, rischia di comportare un assetto di“governo diviso”, con presidente e Consiglio espressione diconnotazioni politiche differenti; oppure dar luogo a feno-meni di consociativismo più o meno intenso, con tutte le

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Le province in via di estinzione>>>> Vincenzo Iacovissi

potenziali conseguenze sulla funzionalità dell’ente stessofacilmente intuibili.Resta da dire che il cumulo di due o tre incarichi in una solapersona (come ad esempio sindaco-consigliere comunale-pre-sidente della provincia), oltre a stridere con il clima di razio-nalizzazione e sobrietà imposto dalle conseguenze della crisieconomica e dall’esplosione dell’antipolitica, contiene in nuce

una difficoltà strutturale per lo svolgimento efficiente di tuttigli incarichi, abbassando il rendimento complessivo delle isti-tuzioni locali. Inoltre la gratuità degli incarichi, se può esserepreferita agli sperperi troppe volte emersi negli ultimi anni,finisce per svilire lo stesso ruolo di amministratore provin-ciale, con effetti anch’essi potenzialmente negativi sull’opera-tività degli organi monocratici e collegiali. Infine la facoltà,per il Presidente, di affidare deleghe ai singoli consiglieri pro-vinciali ripropone il tema della necessità di una “squadra di

governo” che si pensava superata con l’eliminazione dellegiunte, le quali, peraltro, fino al recente passato, erano almenosottoposte all’indirizzo e controllo del Consiglio, circostanzaassolutamente assente nella normativa attuale.In questa cornice le province divengono enti di coordina-mento di aree vaste con connotati prevalentemente ammini-strativi, ma all’interno dei quali il ceto politico locale riac-quista un ruolo cruciale nelle dinamiche di governo dellacollettività, realizzando nei fatti una sorta di eterogenesi deifini rispetto alla ratio della riforma, volta, come spessoricordato dai proponenti, a semplificare la politica e ridurrela spesa. Su tutto, pesa, infine, la spada di Damocle dell’a-bolizione costituzionale dell’ente provincia, che rendeancora più precario uno scenario che ai nastri di partenzapresenta sicuramente molte novità ed altrettante (e forse piùrilevanti) incognite.

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Cronache di rottamati

“Ed ora?”, si saranno chiesti in molti il 9 dicembre 2013:cosa bisogna pensare del partito democratico passato di

colpo dal bersanismo alla più completa negazione dello stesso?Le primarie per l’elezione del nuovo segretario del Pd eranostate fissate per l’8 dicembre 2013. A Milano era ormai termi-nata la fiera degli Oh bej! Oh bej!: la fiera delle meraviglie, deifatti nuovi, delle cose inusitate, che si svolge ogni anno perSant’Ambrogio. Finalmente, dopo la fatidica data, bisognavacercare di capire che cosa fosse avvenuto fra le primarie pree-lettorali del 2012, le elezioni perdute del febbraio 2013 e lascelta avvenuta a dicembre 2013: quali situazioni irrisoltevenissero lasciate in sospeso, dopo che le primarie avevanoassegnato a Renzi una maggioranza di oltre il 67%, il che por-tava anche ad una Assemblea nazionale con una presenza dicirca due terzi di membri renziani e ad una segreteria nazionalecon i renziani in maggioranza e in gran parte nuovi e giovanis-simi. Tutto ciò mentre invece alla Camera e al Senato deputatie senatori erano rimasti quelli scelti da Bersani, espressione diun partito ormai scomparso, ma con cui paradossalmente lanuova segreteria avrebbe dovuto fare i conti.Come è potuto accadere un simile basculement, un tale ribal-tamento? Attraverso quali passi gli elettori del Partito demo-cratico hanno di colpo reso obsoleta una segreteria che imper-versava da anni, sempre intenta principalmente ad auscultareintensamente la propria identità? Si tratta di capire come si èmesso in moto tale processo e perché.La storia dei due anni in cui il Pd si avvia verso la catastrofe(2012 e 2013), e poi vi si trova immerso come mai era acca-duto in precedenza, rimanda certo alla debolezza delle forzeriformiste che pur stando all’origine del partito non sono riu-scite ad imprimere quella svolta netta in direzione del riformi-smo di taglio europeo che tutti si aspettavano; ma rimandaanche – per il modo in cui il gruppo dirigente bersaniano, chepure si era impossessato saldamente del Pd, è stato in seguitorisucchiato in un vortice che lo ha infine spazzato via – ad unastoria non immediatamente percepibile, ma tuttavia moltoprecisa.

La prima cosa che balza agli occhi è la relativa arretratezza,rispetto ad altri paesi, degli stili con cui si conducono le batta-glie elettorali in Italia: dove elementi relativi a fasi più antichesi sovrappongono a situazioni nuove. Nel recente passato, èstato notato da Roberto Grandi e Cristian Vaccari, le campagneelettorali erano «condotte in modo da mobilitare i propri soste-nitori, riattivando legami, relazioni e appartenenze preesi-stenti: non si mirava, quindi, a modificare gli atteggiamenti deicittadini, ma a rinforzarli in modo che si trasformassero incomportamenti (la conferma del voto allo stesso partito). [...] Icontenuti della comunicazione politica erano in prevalenzaideologici e affrontavano in prevalenza i problemi che stavanoa cuore alla classe dirigente del partito, più che gli aspetti cheinteressavano i cittadini» (Grandi - Vaccari: pp. 14-15).

Nel Pd esistevano spezzoni, frammenti,

ideologicamente strutturati

e formatisi nel passato

A che cosa imputare tale arretratezza di cultura politica?Innanzitutto non va dimenticato il lungo periodo della ditta-tura fascista (dai primi anni Venti del Novecento alla finedella seconda guerra mondiale). In seguito ha pesato l’impos-sibilità pratica di realizzare un’alternativa di governo duranteil periodo della prima Repubblica (dalla fine della guerraall’inizio degli anni Novanta del Novecento). Infine l’altolivello di presenza dello Stato in attività economiche anche dipoca importanza (ma di grande impatto elettorale) e la com-mistione fra organi di stampa e forze politiche.Così, mentre negli altri paesi democratici si passava dallecampagne elettorali dominate inizialmente dai partiti, dai loromilitanti e dalle loro logiche a campagne incentrate sulla tele-visione, sulla persuasione generica rivolta a tutti i cittadini,sulla pubblicità, ed infine, più di recente, a campagne multi-mediali dai contenuti personalizzati e indirizzati a gruppi spe-cifici, tutto ciò non avveniva in Italia, o avveniva non di radocon la sovrapposizione di spezzoni di un sistema arcaico con

>>>> Matteo Monaco

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spezzoni di sistemi più moderni (Grandi - Vaccari: pp. 29-30).A questo punto è opportuno fare un passo indietro, partendoproprio dall’inizio del Partito democratico. Come è noto èstato l’impulso di Veltroni a mettere in moto il meccanismo diformazione del nuovo partito (2007). Un partito che inten-deva inserirsi sulla via che ha portato alla nascita di quellaterza via auspicata da Anthony Giddens: «Tony Blair, LionelJospin, Romano Prodi, Wim Kok [...] interpretavano modivincenti, pur se tra loro diversi, di affrontare il superamentodelle posizioni tradizionali del riformismo europeo» (Grandi- Vaccari: p. 109). Nasceva quindi un partito a vocazionemaggioritaria: «Speravamo che, in un tempo breve – hascritto Veltroni nel 2013 – i “nativi” democratici, potesserodiventare la maggioranza “culturale” del Pd rivendicando conorgoglio la propria identità, quella democratica, che ha pro-fonde radici nella storia della politica occidentale. Ma le vec-chie identità si sono blindate, respingendo chi da esse nonproveniva. Negare che esistesse una cultura democratica –riformismo e radicalità – consentiva di tenere vive le vecchieappartenenze, come rifugi sempre aperti» (Veltroni: p. 51). In effetti nel Pd esistevano spezzoni, frammenti, ideologica-mente strutturati e formatisi nel passato, ma oggi inglobaticome cemento in nuove strutture; tuttavia era sufficiente unpiccolo smottamento perché riemergesse l’imprinting origi-nario e il “richiamo della foresta” diventasse irresistibile. Manon essendoci più né il nuovo né l’antico amalgama, tali spez-zoni rimanevano fluttuanti, scoordinati e privi di senso, alladeriva sul mare della politica. Tuttavia Veltroni – sia per la eccessiva vaghezza del trattovaloriale proposto, risultato troppo tenue e inadeguato, cheper la difficoltà ad imporre la propria leadership – non riuscìa svincolarsi dal contesto negativo in cui si dibatteva la suasegreteria e si dimise. Sarà sostituito da Franceschini, e nel-l’ottobre del 2009, a seguito di elezioni primarie, da Bersani.Bersani accentua i riferimenti cattolico-socialisti a discapitodi quelli laici e liberalsocialisti, rivendica una gestione disquadra del partito non assumendone con decisione la lea-dership, appesantisce l’organizzazione (tante sezioni, maspesso poco attive) come se si dovesse tornare alla primaRepubblica. Dal sogno veltroniano al risveglio bersaniano: ilnuovo segretario stabilisce, in una serie di incontri con forzecollaterali, la fine del partito a vocazione maggioritaria; inol-tre sposta l’asse della comunicazione «che per Veltroni rico-priva anche un ruolo strategico in sé, in grado di rafforzare laconnotazione di partito nuovo e moderno», in direzione di unpiù tradizionale uso di essa come strumento funzionale agli

obiettivi politici del partito (Grandi - Vaccari: pp. 111-121).Ma vediamo le caratteristiche possedute da Bersani quandodiviene segretario del Pd. In realtà da tempo Bersani ritenevache fosse venuto il suo turno di approdare alla segreteria delpartito, anche se spesso era stato scartato dai gruppi dirigentio si era fatto da parte da sé. Come scrive Ettore MariaColombo «esiste, dunque, una storia “ufficiale” e una “con-trostoria” (“ufficiosa”, diciamo così) delle mancate candida-ture di Bersani alla segreteria nazionale dei Ds prima (nel2001 e nel 2004), quando segretario divenne Piero Fassino, edel Pd poi (nel 2007), quando venne incoronato Veltroni.Quella ufficiale: Bersani fa un passo indietro per amore della“Ditta”, espressione peraltro proprio da lui coniata».

“Il nuovo vuole uccidere il vecchio perché

il vecchio non lascia posto al nuovo,

e il vecchio non lascia posto al nuovo

perché il nuovo non vuole riconoscere

il suo debito nei confronti del vecchio”

Delle varie “ufficiose” è utile prendere in considerazione que-sta: «Bersani è figlio della generazione del compromesso,quella di post-togliattiana e iper-berlingueriana memoria, èiscritto a pieno titolo nella lunga trafila ideologica, filosofica,politica, ma anche burocratica (nel senso dell’apparato) [...] edunque non poteva che cedere il passo di fronte a quei “catti-voni” degli ex-piccì [...] facendo un passo di lato o indietro»(Colombo: pp. 173-174).Tuttavia nei momenti critici è proprio il Bersani tardi anniSettanta quello che riemerge alla direzione del Pd, creandouna sensazione paradossale di déjà-vu. E come supporto diquesta sensazione Bersani mette a punto un linguaggio stra-nissimo: «E’ un chiodo fisso di Bersani, il linguaggio dellasinistra. Troppo spesso irrimediabilmente vecchio, incapacedi parlare con parti importanti della società, di liberarsi daisoliti schemi, di avere il coraggio di parlare con tutti e di tutto.Ecco perché nasce il bersanese», un linguaggio simil-popo-lare, ricco di metafore non si sa se vere e diffuse in certiambienti dialettali o inventate di sana pianta (Colombo: p.294). Un linguaggio che raggiungerà contemporaneamentetrionfo e disfatta nelle elezioni del febbraio 2013.Qual era l’orizzonte politico culturale reale, al di là delledichiarazioni “innovative” fatte da Bersani nel famoso libro-intervista del 2011? «La vocazione maggioritaria del Pd -scriveva Bersani - è per me anzitutto la responsabilità di

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costruire un progetto vincente di alternativa e di proporlo agliitaliani» (Bersani: p. 183). Ma in qual modo si è invece svoltala costruzione politica di tale progetto? Il Pd di Bersani, hascritto Marco Damilano, «si è dato come missione la ricostru-zione della politica tradizionalmente intesa: alleanze, corteg-giamento del centro cattolico moderato, [...] chiusura nelPalazzo, lettura della società tutta interna alle categorie nove-centesche del recinto della sinistra, l’antiberlusconismo comeunica parola d’ordine in grado di mobilitare il popolo». Ma èproprio tale concezione della politica, «i noi e i loro, ilrecinto, la frontiera, l’appartenenza, la Ditta. che è messadefinitivamente in crisi dallo sconvolgimento del 2012-13»(Damilano: pp. 229-237). In tale contesto si verifica un “imbarbarimento” causato dallamancanza di volontà del vecchio gruppo dirigente (vecchioper le idee sostenute, meno per l’età), che non vuole cedere ilpasso alle nuove realtà. Come scrive lo psicoanalista Mas-simo Recalcati, «il padre impedisce al figlio di avere un suoposto nel mondo rifiutando di tramontare [...] Il conflitto siimbarbarisce: il nuovo vuole uccidere il vecchio perché ilvecchio non lascia posto al nuovo, e il vecchio non lasciaposto al nuovo perché il nuovo non vuole riconoscere il suodebito nei confronti del vecchio. è lo stallo che ha paralizzatoil Pd» (Recalcati: p. 118). In effetti, sostiene Recalcati, è indispensabile un qualche

gesto di rottura nelle nuove generazioni contro le precedenti:«Se è importante saper riconsiderare il senso della tradizionee della continuità rispetto alla propria provenienza, nellostesso tempo sono altrettanto importanti la rottura con il fami-lismo, lo strappo, l’elemento discontinuo della differenzia-zione [...] Con il ‘68 diventa chiaro infatti che il conflitto frale generazioni è sano se produce differenza» (Recalcati: p.84). Ecco come, di fronte all’incredibile batosta elettorale, glielettori di centrosinistra abbiano quasi assunto a propria lineapolitica quella della rottura completa con la precedente classedirigente, una rottura che portasse appunto ad una profondadifferenza in tutto: nuova linea politica, nuovo stile di lavoro,nuova capacità di dirigere i processi politici invece di subirli,nuovo atteggiamento pragmatico tendente alla scelta veloce ealla decisione.

Bersani va avanti con una strategia

autoreferenziale e impermeabile ai fatti

politici circostanti

Lo studioso di scienze politiche Mauro Calise ha descritto inmodo convincente tutto ciò che occorrerebbe al Pd per dive-nire “qualcosa”, non si dice altro: «Nella folgorante etichettadi Ilvo Diamanti, il Pd è rimasto l’unico partito impersonale,definito ormai per la negazione non soltanto della leadership,ma della propria stessa identità. Un partito senza qualità. Percercare di vincere ai tempi supplementari, non serve ripeteregli stessi schemi di gioco. Occorrono forze fresche, con l’en-tusiasmo e le energie di chi scende per la prima volta incampo. E sa che il risultato finale dipende solo da lui. Per rien-trare in partita, occorre rimettersi in gioco» (Calise: p. 142). Erimettere in gioco anche lo stile dell’azione politica: non pen-sare più ad un inesistente elettorato rigidamente suddiviso neisuoi comparti sociali ma al pubblico fluido che interagisce congli strumenti di Internet, un pubblico cambiato rispetto al pas-sato, composto da un intersecarsi plurale di gruppi etnici e cul-turali (e di genere) differenti, dalle mille sfaccettature.Intanto, attraverso le elezioni primarie e gli appuntamentiperiodici alla Stazione Leopolda di Firenze, si viene progres-sivamente a delineare la figura di un nuovo leader in ascesa(molto contrastata dal centro del Pd). In tali appuntamenti-assemblee vengono fuori le proposte politiche: rottura conquanto di arcaico c’è nella tradizione socialista tradizionale eforte innovazione sulla scia di quanto hanno già compiuto inGermania, in Francia, in Inghilterra; grosso ricambio genera-zionale; forte leadership, sulla scia del presidente Obama. Il

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nuovo leader emergente «non intende tesaurizzare i proprivoti per costruire una ennesima corrente all’interno del par-tito, ma utilizza il risultato delle primarie per dare legittimitàalle proprie proposte politiche e credibilità alla sua possibilefutura premiership» (Grandi - Vaccari: pp. 126-129).Ma torniamo alla guida di Bersani per le elezioni del 2013.Bersani va avanti con una strategia autoreferenziale e imper-meabile ai fatti politici circostanti. In sostanza la sua non-stra-tegia si muove esclusivamente sulla tattica: «Si trova arispondere giorno dopo giorno alle proposte o alle prese diposizione di quelli che giudica i suoi avversari più importanti,legittimando così, di fatto, la loro agenda e mostrando di nonriuscire più, dalle primarie in avanti, ad influenzare le prioritàdella campagna». Nei confronti di Berlusconi adotta la tatticadi sempre delle forze politiche di sinistra del passato: «Dele-gittimare il suo ruolo politico [...] ridicolizzare la sua pretesadi stare montando [...] criticare le sue promesse come dema-gogiche». In sostanza risponde colpo su colpo al leader dicentrodestra senza avere un progetto organico e credibile.Rimane così come ingessato nel ruolo di vincitore annun-ciato, senza essere in grado di mettere in campo risposte dina-miche atte «a rispondere alle modifiche del contesto di par-tenza» (Grandi-Vaccari: 342-344), mentre una campagnaelettorale corretta avrebbe voluto che una narrazione ade-guata individuasse la missione condivisa nella quale il candi-dato fosse il protagonista: una narrazione che si rivolgesse aicittadini, non solo agli elettori affezionati.La campagna elettorale viene invece impostata all’insegnadella «Italia giusta»: ripropone una serie di temi (democrazia,sviluppo sostenibile, beni comuni, diritti, lavoro, egua-glianza) congrui con l’identità del partito: ma «programmi eproposte, sia in relazione al contenuto che alle modalità dicomunicazione, riescono a rivolgersi con efficacia solo a chiè già convinto, non riuscendo ad includere in maniera emoti-vamente coinvolgente chi è indeciso o chi è tiepido sosteni-tore del Pd» (Grandi-Vaccari: pp. 353-354). Se si confronta loscenario politico del 2012 con i risultati elettorali del 2013, sipuò osservare che «il Pd ha fallito sia nell’obiettivo di mobi-litare la sua base, sia in quello di persuadere elettori indecisiche in passato avevano votato per il centrodestra»: pur per-dendo molti consensi il centrodestra (Pdl) ha reso impossibileche ci fosse una maggioranza al Senato; mentre M5S e(almeno per un po’) Scelta civica sono riusciti ad intercettarela maggior parte dei voti allontanatisi dagli altri partiti.Bersani, subito dopo le elezioni, sembra entrato in una mac-china del tempo: improvvisamente si è catapultato indietro nel-

l’ultimo periodo degli anni Settanta del Novecento, a riascol-tare le lezioni moralistiche (si potrebbe finanche dire reaziona-rie) di Berlinguer: perché? Come direbbe Recalcati, «senza ilgrande ombrello dell’ideologia, nulla sembra garantire un sen-timento di identità» (Recalcati: p. 19). Per capire la “discesaagli inferi” dei dirigenti bersaniani del Pd è indispensabile nontanto ripercorrere la cronaca degli avvenimenti, quanto affron-tare alcuni punti nodali della vicenda, da cui si possono trarreinsegnamenti non irrilevanti. Intanto dopo le elezioni si pre-senta il problema della elezione del nuovo presidente dellaRepubblica. Saltano i due candidati (prima Marini, poi Prodi)proposti da Bersani. Bersani si dimette da segretario.

Dopo ci sono state le primarie

dell’8 dicembre 2013 e Renzi è divenuto

segretario del Pd

Ed eccoci al famoso muro dei 101 contro Prodi. Una buonaricostruzione è quella offerta dalla parlamentare Pd SandraZampa: «So che in realtà sono più di 101, probabilmente 115-120 [...] Di certo, dopo gli applausi e l’ovazione generale afavore di Prodi, ci fu chi organizzò il boicottaggio della suaelezione [..] Hanno aderito alla proposta di boicottare l’ele-zione di Prodi coloro che pensavano di dover vendicareMarini [...] quelli che pensavano [...] che si dovesse dare unapossibilità a D’Alema, [...] quelli che si erano convinti chel’elezione di Prodi avrebbe portato assai rapidamente alleurne [...] Ma in quel comportamento c’erano anche altre fina-lità: colpire Bersani è certamente tra le più evidenti [...] Farfallire l’elezione di Prodi serviva anche a colpire Renzi [...] Èevidente, non fosse altro per ragioni statistiche, che nessunacategoria può essere esclusa, neppure i giovani».Più avanti Zampa afferma: «Mi ha sempre colpito la distanzache separa la mitica “base” democratica, legata a Prodi daaffetto e simpatia grandi, e i dirigenti del Pd». Ciò che èavvenuto indica qualcosa di preciso relativo all’intero Pd:«Nel Pd molti hanno mantenuto la propria vecchia identità,la propria vecchia cultura, un pensiero conservatore che inmodo carsico torna a galla ogni volta che il cambiamentorichiede slancio innovatore per impedirlo o ostacolarlo»(Zampa: pp. 16-21). Anche in questa vicenda, dunque, rie-merge il problema chiave di Bersani e dei suoi collaboratori:la questione “identitaria”.A questo punto si nomina un segretario traghettatore,Guglielmo Epifani, che assume il compito di guidare il Pdfino alle primarie di fine anno. In mancanza d’altro, i bersa-

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niani si sono affidati, o meglio si sono nascosti, dietro un fun-zionario di innegabile serietà e correttezza (Gianni Cuperlo),ma che politicamente era impalpabile, una “povera fogliafrale” – come scriveva il poeta – presentato agli occhi delpubblico incredulo come una grande e corposa novità: inrealtà è stato lanciato inutilmente in un gioco al massacro. In uno studio pubblicato nell’ottobre del 2013 dal gruppo distudiosi che si presenta sotto il nome di Itanes (Italian Natio-

nal Election Studies) si è cercato di rilevare le profonde modi-ficazioni che il voto del 24-25 febbraio 2013 ha messo in evi-denza. Innanzitutto tali elezioni hanno visto un numero moltoalto di elettori cambiare voto («il numero più alto di elettoridella storia repubblicana», p. 11). Di conseguenza Itanes haritenuto opportuno mettere «a confronto la distribuzione delleautocollocazioni degli italiani sull’asse sinistra-destra» (p.13), con risultati davvero interessanti. Intanto va notato che,fra coloro che non hanno accettato di essere inseriti lungoquest’asse, si trova un’alta percentuale di coloro che non sonoandati a votare (che quindi non si riconoscono in nessuno deidue poli). Hanno accettato invece gli elettori del M5S (nono-stante la contrarietà di Grillo). Se si osservano le tabelle dicomparazione effettuate lungo una serie di problemi cruciali(tasse, tipi di famiglie, immigrazione, ambiente, protezionesociale, pene carcerarie, differenze di reddito, governi piùsolidi con leader forti) si scopre che chi si colloca nell’area didestra occupa una posizione conservatrice (generalmente nonestremistica); chi si colloca nell’area di sinistra, pur differen-ziandosi sempre dalla destra lungo l’asse destra-sinistra,occupa però una collocazione fra il centro ed un moderatoconservatorismo: «Va notato che sebbene vi sia una certa dif-ferenza tra elettori di sinistra e di destra, questi non si trovanomai su fronti opposti» (Itanes: p. 141). Procedendo lungo questa strada sono stati analizzati i risultatielettorali delle singole forze politiche. Veniamo al Pd: «Que-sti risultati segnalano una mancanza di sintonia tra le posi-zioni percepite del Pd e il suo potenziale elettorato [...] Tutta-via non sembra proprio che la soluzione a questa mancanza disintonia possa risiedere nella definizione di un più precisoprofilo progressista del Pd. Almeno dai nostri dati risultainvece il contrario» (Itanes: p. 90). Inoltre il Pd non offre unprofilo chiaro per la soluzione delle questioni politiche edeconomiche importanti per l’Italia: «In quest’ottica possiamoquindi riconsiderare la questione della leadership: se un altrocandidato premier avesse solo cambiato la faccia del partito enon il suo approccio alla proposta di governo, probabilmenteil risultato non sarebbe stato molto diverso» (Itanes: p. 92).

Ma nei risultati elettorali ha contato la mancanza di un leaderforte e riconosciuto a sinistra? Grandi e Vaccari sostengono chela psicologia politica ha individuato due campi semantici chepermettono di comprendere se il leader proposto risponde allecaratteristiche richieste. Il primo campo si riferisce alla credi-bilità, «che riassume le modalità attualizzanti (ciò che serve alsoggetto in vista dell’azione): il saper fare (capacità) e il poter

fare (leadership)». Il politico in possesso di tali qualità vieneritenuto in grado di potere svolgere il ruolo a cui aspira unavolta eletto. Il secondo campo comprende invece l’affidabilità,e cioè il «dover fare (integrità) e il voler fare (empatia). Questecaratteristiche riguardano le motivazioni del candidato e la suavicinanza alle esigenze dei cittadini» (Grandi-Vaccari: p. 234).Sono evidenti i punti in cui Bersani risultava insufficiente.Itanes osserva che sia stata «proprio la mancata offerta di unaleadership forte da parte del centrosinistra ad avere favorito ilrisultato elettorale largamente insoddisfacente per la coali-zione guidata da Bersani». Studiando i dati relativi alladomanda/offerta di leadership fra gli elettori italiani (unadomanda costantemente in aumento) si può osservare che ilsaldo negativo maggiore è stato per il centro, e subito dopoper il centrosinistra: «La mancata congruenza tra domanda eofferta mostra una sorta di “deficit di leadership” (vale a direla quantità di domanda di leadership non soddisfatta dall’of-ferta politica) fra gli elettori italiani che solo Grillo e Berlu-sconi sono stati in grado di colmare» (Itanes: pp.155-156).Questo è quanto scriveva Itanes alla fine dell’estate 2013.Dopo ci sono state le primarie dell’8 dicembre 2013 e Renziè divenuto segretario del Pd.

RifeRimenti bibliogRafici

P.L. Bersani, Per una buona ragione. Intervista a cura di M. Gotor eC. Sardo, Laterza, 2011.

M. Calise, Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader, Laterza,2013.

E.M. Colombo, Bersani, Editori Internazionali Riuniti, 2013.M. Damilano, Chi ha sbagliato più forte. Le vittorie, le cadute, i

duelli dall’Ulivo al Pd, Laterza, 2013.R. Grandi-C. Vaccari, Come si vincono le elezioni. Elementi di

comunicazione politica, Carocci, 2013.Itanes [Italian National Election Studies], Voto amaro. Disincanto e

crisi economica nelle elezioni del 2013, Il Mulino, 2013.M. Recalcati, Patria senza padri. Psicopatologia della politica ita-

liana, Minimum Fax, 2013.W. Veltroni, E se noi domani. L’Italia e la sinistra che vorrei, Riz-

zoli, 2013.S. Zampa, I tre giorni che sconvolsero il Pd, Imprimatur, 2013.

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>>>> saggi e dibattiti

Nel Novecento italiano, Bobbio è il teorico del diritto edella politica che più di tutti ha saputo coniugare rigore

intellettuale e impegno civile. La costante coesistenza diquesti due aspetti della sua opera è ben rappresentata dal mo-dello (che Bobbio chiama “del mediatore”) cui egli la riconduce.D’altra parte – e con paradosso solo apparente – Bobbio puòben definirsi – com’è stato del resto da altri definito – un in-tellettuale “militante”.Non è mia intenzione riflettere in astratto sulla compatibilitàdella metodologia analitica con la filosofia militante: sullacompatibilità, per dirla in altri termini, dell’analisi del lin-guaggio con una filosofia vocata a non arrestarsi alla descrizionedel proprio oggetto di indagine, bensì ad elaborare proposteper la sua trasformazione, consapevole del carattere necessa-riamente anche progettuale della ricerca scientifica soprattuttonell’ambito delle cosiddette scienze sociali. Non mi interessacioè riproporre l’ennesima riflessione sulla presunta “neutralità”della scienza giuridica – che ripudia qualsiasi slittamentonella politica del diritto – o sulla presunta “avalutatività” chedovrebbe informare l’opera dello scienziato politico – tantoper circoscrivere il discorso alle due discipline cui Bobbio hadato il contributo più rilevante.Voglio invece riflettere sulla figura dell’intellettuale Bobbioavviando il discorso da un punto di partenza più storiograficoche critico. Ossia dall’idea che nell’opera di Bobbio non siavverte tensione tra i due aspetti – la metodologia analitica ela filosofia militante – bensì un’equilibrata combinazione,una loro armonica integrazione, nella quale l’impegno civileha bisogno del rigore intellettuale, che con il primo convivenel felice binomio Politica e cultura: così come il rigore intel-lettuale non può che soccorrere, contrassegnandolo tipicamente,

l’impegno civile profuso da Bobbio nei trent’anni che vannodal 1966 – anno in cui si costituisce in Italia il Partito socialistaunificato, che com’è noto avrà vita brevissima – al 1997, annoin cui Bobbio ci ha consegnato la sua memoria intellettuale.E’ infatti nelle pagine di congedo della sua Autobiografia cheBobbio scrive di aver vissuto quel trentennio “immerso nellabattaglia politica”1.

La peculiarità dello stile di pensiero di

Bobbio risiede nel suo essere dettato da

una concezione laica, antiideologica e

antiretorica e insieme civile e impegnata

della cultura

Luigi Ferrajoli, nella laudatio pronunciata in occasione delconferimento a Bobbio della laurea honoris causa da partedell’Università di Camerino (29 maggio 1997), ha osservatoche la peculiarità dello stile di pensiero di Bobbio risiede nelsuo essere “dettato da una concezione laica, antiideologica eantiretorica e insieme civile e impegnata della cultura”2. Nonlo si poteva dire meglio. Proverò, a partire da questa magistraleformulazione sintetica per ricostruirne i dettagli. E’ certamente all’indomani della guerra, e preso atto dell’e-saurimento dell’esperienza politica dell’azionismo, che Bobbiomatura lo stile di pensiero che contraddistingue la sua operaintellettuale (non a caso è in quegli anni che è stato identificatol’inizio della maturità di Bobbio). Gli scritti raccolti in quelsaggio – com’è stato detto – di “pedagogia” o “filosofia”civile che è Politica e cultura ne è il primo fulgido – e forseinsuperato – esempio3. Qui – in articoli pubblicati tra il 1951 e il 1955 – Bobbiodelinea con precisione i compiti che a suo giudizio spettanoall’uomo di cultura. Scrive Bobbio: compito dell’intellettualeè di “impegnarsi a illuminare con la ragione le posizioni incontrasto, a porre in discussione le pretese dell’una e dell’altra,di resistere alla tentazione di una sintesi definitiva, o della op-

Il rigore e l’impegno>>>> Fabrizio Mastromartino

La lezione di Bobbio

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1 N. BOBBIO, Autobiografia, Laterza, 1997, p. 247.2 L. FERRAJOLI, Laudatio, Ragione, diritto e democrazia nel pensiero di

Norberto Bobbio, in Diritto e democrazia nella filosofia di Norberto

Bobbio, a cura di L. Ferrajoli e P. Di Lucia, Giappichelli, 1999, p. 6.3 Ivi, p. 7. Vedi anche F. SBARBERI, Introduzione a N. BOBBIO, Politica

e cultura, (1955), Einaudi, 2005, p. VIII.

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zione irreversibile: di restituire, insomma, agli uomini – l’uncontro l’altro armati da ideologie in contrasto – la fiducia nelcolloquio, di ristabilire insieme col diritto della critica ilrispetto dell’altrui opinione”4. Spetta all’intellettuale – si leggenelle notissime righe con cui si apre la raccolta – “seminaredei dubbi, non già […] raccoglier certezze”5 (una formula cheBobbio ripeterà a distanza di oltre venticinque anni, affermandoche l’intellettuale non ha “nessuna risposta da dare”, ma ha ilcompito precipuo di sollecitare i suoi interlocutori a porsidelle domande6).

Prendendo congedo dalla lezione

crociana, Bobbio dichiarava senza

infingimenti che l’unico modo di fare cultura

è di fare politica

Questo “invito al colloquio” rispondeva a un obiettivo culturalee insieme politico, l’uno difficilmente disgiungibile dall’altro.Bobbio – come molti altri intellettuali suoi contemporanei,che un decennio più tardi avrebbe annoverato nella sua Italia

civile – esprimeva l’esigenza di superare col dialogo la con-trapposizione ideologica di civiltà e non civiltà, che l’Occidentecapitalista e l’Oriente comunista rivendicavano l’uno control’altro: il primo presentandosi come l’unica civiltà possibile,fuori dalla quale poteva esserci solo barbarie (un aggiornamentodel classico adagio della Chiesa di Roma, per la quale extra

ecclesiam nulla salus); il secondo opponendo alla vecchiaciviltà capitalista la civiltà nuova dell’avvenire socialista7.Bobbio dunque fu innanzitutto promotore del confronto ra-zionale, appunto anti-ideologico, tra liberali – al cui orizzontedi valori certamente apparteneva – e comunisti, verso i qualitendeva la sua sensibilità verso l’eguaglianza sociale. Il suoobiettivo era tenere aperti i canali di comunicazione tra i duefronti ideologici, nella speranza che lo scontro potesse risolversicon il dialogo e non con le armi.Questo obiettivo rispondeva innanzitutto a una necessità de-mocratica. Appariva a Bobbio infatti decisivo per la sopravvi-venza della giovanissima Repubblica che fosse favorito nongià l’isolamento del partito comunista – realizzato sul pianodelle istituzioni parlamentari per mezzo della conventio ad

excludendum – ma la sua evoluzione in senso democratico,che avrebbe potuto realizzarsi solo quando nella cultura co-munista si fossero pienamente radicate le libertà, civili e poli-tiche, tradizionalmente proprie del modello liberal-democratico8.Si trattava insomma, secondo Bobbio, non già di progettare la“rivoluzione di classe” prospettata dai comunisti, ma di pro-

seguire nella “rivoluzione democratica”, nata con la Resistenzacontro il fascismo e istituzionalmente realizzata dalla Costitu-zione del 1948.9 I due problemi che allora gli apparivanocome i più urgenti – scriverà nel 1979 nella prefazione al vo-lume sul Problema della guerra e le vie della pace – eranoquelli della democrazia in Italia e della pace internazionale.Per quanto su due livelli – nello Stato il primo, tra gli Stati ilsecondo – “i due problemi [...] erano alla radice lo stesso pro-blema: il problema della eliminazione, o per lo meno dellamaggior limitazione possibile, della violenza come mezzo perrisolvere i conflitti tra individui e fra gruppi, sia all’interno diuno stesso Stato sia nei rapporti fra gli Stati”10: il problemacioè – si potrebbe così riassumere – della pace attraverso lademocrazia.Ebbene, questa “rivoluzione democratica” – dopo il fallimentodel Partito d’Azione – poteva realizzarsi, per Bobbio, solo permezzo di una e vera e propria “rivoluzione della cultura”11.Prendendo congedo dalla lezione crociana, Bobbio dichiaravasenza infingimenti che “[l’]unico modo di fare cultura è difare politica”; la cultura doveva cioè dare “il proprio contributoa trasformare la società, dal momento che – spiegava Bobbio– o la cultura serve a trasformare la società, è anch’essa unostrumento rivoluzionario, o è un inutile passatempo”12. La cultura doveva, insomma, farsi “militante”13; la posturadell’intellettuale – di fronte allo scontro ideologico tra i dueblocchi contrapposti, tra loro non comunicanti – doveva esserequella del “mediatore”, il cui “metodo di azione è il dialogorazionale”14. E’ la democrazia – scriveva Bobbio – ad averne“sempre più bisogno”15, essendo possibili la sua sopravvivenzae il suo sviluppo solo scongiurando l’interruzione della comu-nicazione tra gli avversari politici. E’ un’idea, questa, che pe-

4 N. BOBBIO, Invito al colloquio (1951), in Id., Politica e cultura,Einaudi, 1974, p. 18.

5 Ivi, p. 15.6 Id., Intellettuali e potere (1977), in Id., Il dubbio e la scelta. Intellettuali e

potere nella società contemporanea, La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 113.7 P.P. PORTINARO, Introduzione a Bobbio, Laterza, 2008, p. 124.8 M.L. SALVADORI, L’impegno e le speranze, in Cinquant’anni e non

bastano. Scritti di Norberto Bobbio sulla rivista “Il Ponte”. 1946-1997,Il Ponte Editore, 2005, pp. 15-16.

9 N. BOBBIO, Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana,Donzelli, Roma, p. 22.

10 Id., Prefazione alla prima edizione (1979), in N. BOBBIO, Il problema

della guerra e le vie della pace, (1979), Il Mulino, 1997, p. 19.11 Id., Maestri e compagni, Passigli, 1984, pp. 26-2712 Id., Profilo ideologico del novecento italiano, (1968), Einaudi, 1986, p. 172.13 P. BORSELLINO, Norberto Bobbio metateorico del diritto, Giuffrè,

1991, p. 4.14 N. BOBBIO, Introduzione (1993) a Id., Il dubbio e la scelta, cit., p. 17.15 Id., Libertà e potere (1955), in Id., Politica e cultura, cit., p. 282.

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raltro riflette il modello democratico dei primi anni di vita delParlamento repubblicano, in cui si afferma il primato delladiscussione sulla decisione, del confronto costante sulla solu-zione: si pensi ai regolamenti parlamentari, prima della lororiforma, che non ponevano limiti né alla durata degli interventiin aula né al numero di interventi consentiti a deputati esenatori nell’ambito della stessa discussione.

Il modello da cui traeva ispirazione era

l’opera di Carlo Cattaneo, nella quale aveva

trovato la rappresentazione di una filosofia

utile, volta alla riforma della società

Certamente, comunque, realizza il tentativo di prospettare una“terza via” nel rapporto tra politica e cultura16: tra i due estremidella cultura apolitica – esemplata dall’intellettuale chiusonella sua torre d’avorio, sostanzialmente indifferente nei con-fronti della società in cui opera – e della cultura politicizzata –rappresentata dall’intellettuale organico, al partito o alle istitu-zioni, sostanzialmente dipendente dalle strutture di cui si sente

parte – il modello d’intellettuale proposto da Bobbio, cui eglistesso si acconcia, è quello del “mediatore”, il quale deve pos-sedere “una capacità di controllo critico che non si ottunda acontatto coi problemi quotidiani”17: in un’icastica formula,“indipendenza ma non indifferenza”18. Un atteggiamento egual-mente distante dal manicheismo tipico dell’intellettuale organicoche dalla posizione di supremazia in cui si colloca – più omeno consapevolmente – l’intellettuale apolitico, nella cuiopera il “distacco critico” trascolora in un’incolmabile distanzadalla società e dai suoi problemi concreti. Questa postura mediana, incardinata sul dialogo e sul confrontorazionale, costituisce per Bobbio un imperativo morale. Nonne va però equivocato il significato. Bobbio era senz’altro“uomo del dialogo e del dubbio”, ma – come correttamente hascritto Massimo L. Salvadori – “i suoi punti ben fermi liaveva e li faceva valere con forza”19. Il compito dell’intellettuale,che è quello “di rompere i blocchi, d’impedire le chiusure e lefratture, d’invocare la tolleranza, di perseguire il dialogo”,deve cioè svolgersi compatibilmente con “l’unico abito che siaddice” a questo tipo d’intellettuale, ossia “l’intransigenza suivalori”20. Ebbene, a me pare che il primo “valore” – se così vogliamochiamarlo – che Bobbio ha sempre voluto mantenere fermonella sua opera è stato quello di aver concepito l’attività intel-lettuale, il suo stile di pensiero, come una “filosofia militante”.Il modello da cui traeva ispirazione, com’è noto, era l’operadi Carlo Cattaneo, nella quale aveva trovato la rappresentazionedi una “filosofia utile, volta [...] alla riforma della società”21.

16 BORSELLINO, cit., p. 4.17 N. BOBBIO, Cultura vecchia e politica nuova (1955), in Id., Politica e

cultura, cit., p. 196.18 Id., Intellettuali e potere (1977), in Id., Il dubbio e la scelta, cit., p. 124.19 SALVADORI, cit., p. 11.20 N. BOBBIO, Intellettuali e vita politica in Italia, (1954), in Id., Politica

e cultura, cit., p. 135.21 Id., Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, 1971, pp.

98-99.

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Su di essa, secondo Bobbio, gravavano “compiti di rinnova-mento politico ed economico”22. Era non lo sconvolgimentodella rivoluzione socialista, ma il rinnovamento che dovevarealizzarsi nella “rivoluzione democratica” quello auspicatoda Bobbio: che – nelle pagine su Cattaneo – ripeteva con ap-provazione, citandolo, che “la filosofia è una milizia”, nelsenso che “è un’arma per la guerra che il popolo combatte”23.“Il mondo – scriveva Bobbio – è uno scandalo”24. Davanti a

questo scandalo – che realisticamente Bobbio addebitava agli“errori” e alle “miserie” degli uomini – occorreva assumereun atteggiamento, appunto, “militante”, che, spiegava conprecisione, “non vuol dire né partigiano, né settario, né devoto.E’ il modo di filosofare di chi non se ne sta a guardar le cosedall’alto di una saggezza ossificata ma scende a studiare pro-blemi concreti, e solo dopo aver condotto la sua ricerca minutae metodica prende posizione. Prendere posizione non vuoldire parteggiare, ubbidire a degli ordini, opporre furore controfurore, vuol dire tender l’orecchio a tutte le voci che si levanodalla società […] ascoltare i richiami dell’esperienza [...] Esolo dopo aver ascoltato e cercato di capire, assumere lapropria parte di responsabilità”25.

Nello stile di pensiero di Bobbio sono

presenti tutte le componenti che

tipicamente sono associate al metodo

dell’analisi del linguaggio

La filosofia militante di Bobbio, intesa in questa accezione,non poteva essere il marxismo. Assumeva invece le vesti diun sedicente “nuovo illuminismo”26, che oltre alla “aspirazionead impiegare la scienza a fini di utilità sociale”27 – comune almarxismo – riponeva “fiducia” non già in una deterministicafilosofia della storia, bensì “nella funzione indefinitamente ri-schiaratrice della ragione”, strumento insostituibile per dipanareogni genere di controversia intellettuale attraverso l’elabora-zione di idee chiare e distinte: fiducia in una nuova stagionedei lumi che Bobbio condivideva con un altro grande maestrodel Novecento, Uberto Scarpelli28. Per Bobbio, che già al volgere degli anni ‘40 aveva compiutola sua “conversione al kelsenismo”29, questa ragione nonpoteva che identificarsi con la ragione analitica. E’ ancora inPolitica e cultura che Bobbio invitava gli intellettuali a “im-piegare l’esattezza del discorso e il rigore del procedimentologico”, nella convinzione che, fuori dalla logica del discorsorigoroso “il progresso scientifico non sarebbe mai avvenuto”

e non avrebbe potuto altrimenti continuare a realizzarsi. Ma già qualche anno prima, rivolgendosi alla comunità scien-tifica a lui più vicina – che almeno fino alla fine degli anni ‘60è certamente quella dei giuristi – aveva elevato il rigore acriterio della scientificità del discorso. Mi riferisco a quel“manifesto programmatico” della filosofia del diritto italianadi indirizzo analitico30 che, al principio della seconda metà delNovecento ha rappresentato Scienza del diritto e analisi del

linguaggio, dove Bobbio affermava che “la scientificità di undiscorso non consiste nella verità, cioè nella corrispondenzadella enunciazione ad una realtà obbiettiva, ma nel rigore delsuo linguaggio, cioè nella coerenza di un enunciato con tuttigli altri enunciati che fanno sistema con quelli”31.Nello stile di pensiero di Bobbio sono presenti, senzaombre di sorta, tutte le componenti che tipicamente sonoassociate al metodo dell’analisi del linguaggio. Lo stileche ne risulta, innanzitutto, rifugge dal tentativo di costruire“grandi sintesi”32, sul presupposto che sia “pur sempre pre-feribile un’analisi senza sintesi […] che una sintesi senzaanalisi”33. Così, prendendo nettamente le distanze dalla fi-losofia italiana precedente la guerra, tutta intesa a elaboraregeneralissime visioni del mondo entro le quali le più diversediscipline scientifiche venivano a posteriori forzosamente

22 Ivi, p. 131.23 Ivi, pp. 99-100.24 Id., Cultura vecchia e politica nuova (1955), in Id., Politica e cultura,

cit., p. 204.25 Ivi, p. 205.26 Id., Tra due repubbliche, cit., p. 103.27 Id., Cultura vecchia e politica nuova (1955), in Id., Politica e cultura,

cit., p. 202.28 Id., Recensione a B. Dunham, Man against Mith, in “Rivista di Filosofia”,

4, 1949, p. 455. Si legga Diritto e analisi del linguaggio, a cura di U.Scarpelli, Edizioni di Comunità, 1976, p. 12: “La ricostruzione, o co-struzione linguistica, il perseguimento della chiarezza e del rigore conl’ordinamento del linguaggio, l’ordinamento dell’esperienza per la viadell’ordinamento del linguaggio, sono stati, per chi uscì dal buio del fa-scismo e della cultura fascista, una maniera di riaccendere e portare i‘lumi della ragione’, di professare e praticare un aggiornato illuminismo:un illuminismo convenzionalistico, che puntava su una ragione da confi-gurare nella determinazione della struttura del discorso mediante scelteed intese espresse nelle convenzioni”.

29 T. GRECO, Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e

politica, Donzelli, 2000.30 E. PATTARO, Il positivismo giuridico italiano dalla rinascita alla crisi,

in “Politica del diritto”, 1972, p. 455.31 N. BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, in “Rivista tri-

mestrale di diritto e procedura civile”, 2, 1950, pp. 350-351.32 Id., L’impegno dell’intellettuale ieri e oggi, in “Rivista di Filosofia”, 1,

1997, p. 18.33 Id., Natura e funzione della filosofia del diritto, in Giusnaturalismo e

positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, 1965, p. 44.

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ricondotte, Bobbio si fa promotore di una filosofia che“sminuzz[i] l’universo in tanti pezzettini da esaminare unoalla volta”34: uno “spezzatino di filosofia” – come è statapolemicamente definita la filosofia analitica da RichardRorty nel suo libro forse più noto, La svolta linguistica35 –che tuttavia nel caso di Bobbio – se mi è concesso usareuna metafora un po’ triviale – è senza dubbio assai “gustoso”e soprattutto necessario alla democrazia, al metabolismo(inteso come processo) democratico. Inoltre l’opera di Bobbio è consistita in quello che Pier PaoloPortinaro ha chiamato il “lavoro del critico che si avvale del-l’arte delle distinzioni”36. Ora, la distinzione è lo strumentoprincipe dell’analisi del linguaggio, che come sappiamo “èessenzialmente un lavoro di definizione”37. E’ difficile trovareun filosofo analitico italiano che si sia cimentato con i più di-versi problemi della teoria del diritto e della politica, e che alpari di Bobbio abbia articolato i suoi interventi sempre apartire da un intenso esercizio definitorio. Frequentissimisono infatti nella sua opera, non solo scientifica ma anche piùpropriamente politica, i contributi in cui il “discorso analitico”,che si realizza nella “analisi concettuale”, svolge la funzioneesiziale di “riflessione preliminare” alla proposta progettuale38:una riflessione che è il frutto di uno sforzo ricostruttivo e de-finitorio sempre attento a non confondere nel medesimo di-scorso il piano descrittivo da quello prescrittivo, il livello del-l’essere dal livello del dover essere.Ancora al principio dell’ultimo decennio del Novecento,Bobbio dichiarava che “la funzione più utile della filosofiapolitica” è “quella di analizzare i concetti politici fondamentali”.L’utilità di una filosofia politica condotta secondo la metodo-logia analitica risiedeva, a suo giudizio, nel fatto che essaavrebbe potuto soccorrere le altre discipline che si occupano

del suo proprio oggetto di indagine – come la storia politica,la storia delle dottrine politiche, la sociologia politica, lascienza politica – sopperendo alla loro mancanza di rigoreanalitico nell’uso degli stessi concetti, da esse spesso adottati“senza andare troppo per il sottile nella identificazione delloro significato, o dei loro molteplici significati”39.

Questa sintesi, concentrata nel concetto

di “libertà socialista”, costituisce il culmine

logico del pensiero politico di Bobbio

Sono ovviamente innumerevoli gli esempi che si potrebberoportare a sostegno della tesi secondo cui “l’analisi del lin-guaggio è una costante dell’opera di Bobbio”40. Tanto perrimanere al tema del ruolo degli intellettuali, richiamo l’at-tenzione sul metodo con il quale Bobbio esamina la letteraturasulla questione. Sottoposta ad esame analitico, essa gliappare per lo più viziata da errori logici. Ravvisa in partico-lare l’uso di una falsa generalizzazione, con cui semplicisti-camente si fanno apparire gli intellettuali come una “categoriaomogenea” (ciò che stigmatizza come “un’insensatezza”);rileva poi una generale “mancanza [...] di distacco storico”,che denota una certa parzialità di giudizio; infine, e soprat-tutto, indica nella incapacità di distinguere il “momentodell’analisi da quello della proposta” la “più grave e imper-donabile […] ragione di confusione” della letteratura sul te-ma41. Notazioni, queste, forse banali, ma certamente neces-sarie ai fini dell’elaborazione di tesi improntate alla logicadel discorso rigoroso.La mediazione critica, condotta con l’esercizio della ragioneanalitica, può assumere poi (come di fatto ha assunto nell’operadi Bobbio) tanto più valore quando è rivolta non già contro gliavversari ma contro il fronte cui Bobbio apparteneva, lasinistra democratica. Come ha osservato Umberto Eco, “la le-zione principale di Bobbio […] è stata che l’intellettualesvolge la propria funzione critica e non propagandistica solo(o anzitutto) quando sa parlare contro la propria parte”42.

Basti qui ricordare i tanti dibattiti suscitati da Bobbio in senoalla sinistra (per esempio quello sul socialismo nel decennioSettanta e quello sulla distinzione destra/sinistra nel decennioNovanta): dibattiti che Bobbio ha sempre condotto sotto le in-segne del discorso rigoroso, anche quando, per il loro rilievopubblico, dalle poco lette riviste specializzate si sono allargatial grande pubblico dei giornali (si pensi ai tanti editorialiscritti per La Stampa e l’Avanti!). Al riguardo, credo meritino una menzione particolare alcuni

34 Id., Recensione a A. WOOD, Bertrand Russell, scettico appassionato, in“Rivista di filosofia”, 1961, pp. 230-233.

35 R. RORTY, La svolta linguistica, Garzanti, 1994 (1967).36 PORTINARO, Introduzione a Bobbio, cit., p. 6. Riccardo Guastini ha si-

gnificativamente intitolato uno dei suoi studi su Bobbio, appunto, Bobbio,

o della distinzione: in GUASTINI, Distinguendo. Studi di teoria e meta-

teoria del diritto, Giappichelli, 1996.37 GUASTINI, cit., p. 42.38 N. BOBBIO, Riformismo, socialismo, eguaglianza, in “Mondoperaio”,

38, 5, maggio 1985 (ripubblicato in “Mondoperaio”, 3-4, 2014, da cui sicita, pp. 60-61, 65 e 67).

39 Id., Ragioni della filosofia politica (1990), in Teoria generale della

politica, Einaudi, 1999, p. 38.40 GUASTINI, cit., p. 43.41 N. BOBBIO, Introduzione (1993), Il dubbio e la scelta, cit., pp. 10-14.42 U. ECO, La missione del dotto rivisitata, in AA.VV., Lezioni Bobbio.

Sette interventi su etica e politica, Einaudi, 2006, p. 36.

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tra i suoi contributi più rilevanti: l’isolamento di una defi-nizione minima di democrazia come “insieme di regole (lecosiddette regole del gioco)”43; la riduzione del liberalismoal “metodo democratico”44; l’identificazione nella social-democrazia di una via – e non di una meta – per il sociali-smo45; la ridefinizione, infine, di “eguaglianza” e “libertà”allo scopo di tracciare le linee fondamentali di quel “com-

posto chimico instabile”46 – come l’ha chiamato Perry An-derson – che è il socialismo liberale (o liberalsocialismo)47.Proprio questa sintesi, concentrata nel concetto di “libertàsocialista”, costituisce forse “il culmine logico del pensieropolitico di Bobbio”48, uno dei più importanti insegnamentiche ci ha lasciato e sul quale occorrerebbe tornare ariflettere.

43 N. BOBBIO, Quali alternative alla democrazia rappresentativa?, in“Mondoperaio”, XXVIII, 10, ott. 1975, pp. 40-48 (ristampato in Quale

socialismo? e in N. BOBBIO, Etica e politica. Scritti di impegno civile,Mondadori, 2013, da cui si cita, p. 1277).

44 Id., Introduzione, (ottobre 1979), in C. ROSSELLI, Socialismo liberale,Einaudi, 2004, p. XXII.

45 Id., La terza via non esiste, in La Stampa, 1 settembre 1978; La via demo-

cratica, in La Stampa, 3 settembre 1978 (entrambi ristampati in AA.VV.,

Il Socialismo oggi, Massimiliano Boni Editore, 1978, pp. 107 e 111.46 P. ANDERSON, Norberto Bobbio e il socialismo liberale, trad. it. di The

affinities of Norberto Bobbio, in Socialismo liberale. Il dialogo con Nor-

berto Bobbio oggi, a cura di G. Bosetti, L’Unità, 1989, p. 55.47 In particolare: N. BOBBIO, Eguaglianza e libertà, Einaudi, 1995; Id., Le

ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comu-

nismo, terza via e terza forza, Le Monnier, 1981.48 GRECO, cit., p. 223.

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Di Andrea Caffi sono state date molte definizioni: perGaetano Salvemini era «l’uomo più straordinario e lo

spirito più eletto» che avesse mai conosciuto, opinione con-divisa anche da Nicola Chiaromonte, che lo definì «il piùsavio e il più giusto» di quei tempi; dopo la sua morte An-gelica Balabanoff lo ricordò come una persona «dalla co-scienza adamantina, onestissimo ed altruista»; secondo Al-berto Moravia, che fu suo amico, era «un hippy ante litteram,in lui c’era un’anticipazione di molte cose che poi sono di-ventate comuni negli anni ’60 e ’70»; Gino Bianco, uno deisuoi biografi, lo presentò come «un eremita socievole», ap-parente ossimoro che però bene rivela l’intima natura delpersonaggio.Nato a Pietroburgo il primo maggio del 1887 da genitoriitaliani (il padre lavorava come costumista presso il Teatroimperiale), Caffi frequentò nella città natale la scuola rifor-mata, dove ebbe modo di rapportarsi con coetanei di diversenazionalità e di ceti sociali differenti. La sua adesione al so-cialismo giunse molto presto: dopo una visita alle officinePutilov, dove prese visione delle pessime condizioni dilavoro degli operai. Più che sui testi sacri del marxismo ilsuo avvicinamento al socialismo avvenne quindi tramite laconoscenza diretta delle condizioni di vita dei ceti subalterni,mediata ideologicamente da retaggi del populismo russodella seconda metà dell’800 (Herzen in primis). Visse inprima persona la rivoluzione del 1905, su posizioni men-sceviche (municipalizzazioni delle terre e garanzie demo-cratiche), conoscendo le galere zariste, da cui uscì per inter-vento dell’ambasciatore italiano, dato che era cittadino delnostro paese.In seguito al fallimento della rivoluzione si trasferì all’estero:prima a Berlino. dove si iscrisse all’Università rimanendoaffascinato dalle lezioni di Georg Simmel; poi, spinto dalsuo animo inquieto, iniziò a girovagare in maniera randagiaattraverso l’Europa, passando per l’Italia: a Firenze strinseamicizia con Giuseppe Prezzolini, mentre nel 1911 si recò aRapallo per conoscere personalmente l’anarchico Petr Kro-

potkin che allora dimorava nella cittadina ligure; fino a rag-giungere Parigi, città che reputava congeniale alla poliedricitàdei suoi interessi.

Non si poteva farla finita con il fascismo

solamente tramite vie insurrezionali

e rivoluzionarie, ma con un lavoro di lunga

lena sulle coscienze degli italiani

Nella capitale francese ritrovò un amico di scuola, Lucien Bo-din, con il quale formò un circolo di giovani rivoluzionarifrancesi, russi, polacchi e tedeschi che chiamarono la Jeune

Europe, il cui primario scopo culturale era quello di preservarela tradizione classica e umanistica propria dell’Europa control’imbarbarimento irrazionalista e futurista; mentre politicamentesi rifaceva ad un socialismo democratico e non marxista. Ed aParigi lo colse lo scoppio della prima guerra mondiale, a cuidecise immediatamente di prendere parte, quando ancoral’Italia era su posizioni neutraliste, arruolandosi nelle Legioniinternazionali garibaldine: non per una propria vocazione bel-licista, ma convinto che il futuro del socialismo e della demo-crazia europea dipendesse dal definitivo crollo degli imperiautoritari dell’Europa centrale. Ferito in battaglia nelle Argonne,rispose successivamente alla chiamata alle armi in Italia, an-dando a combattere in Trentino, dove venne nuovamenteferito prima di essere trasferito nelle retrovie con funzioni diinterprete.Dopo la guerra si legò ad un gruppo di intellettuali – fra cuispiccavano Salvemini, Umberto Zanotti Bianco, GiuseppeAntonio Borgese – che aveva formato un movimento, la Gio-

vane Europa, che puntava ad una ripresa della vita politicacontinentale aliena da rivalità nazionalistiche ed etniche. Caffisi interessò principalmente delle vicende della Polonia, av-versando lo spirito delle decisioni prese a Versailles, consideratedivisive nella nuova Europa che doveva risorgere dalle ceneridel conflitto bellico.

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Il socievole eremita>>>> Nicola Del Corno

Andrea Caffi

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Grazie alla sua conoscenza della lingua e del contesto russovenne inviato nel luglio del 1919 dal Corriere della Sera perdescrivere ai propri lettori ciò che stava accadendo in quelpaese, ancora in pieno fermento rivoluzionario. Arrivato adOdessa via Costantinopoli, Caffi decise però di rimettere l’in-carico e di trasferirsi a Mosca per vivere in prima persona, elibero da impegni e condizionamenti di sorta, la creazione diun nuovo ordine sociale e politico. Qui incontrò i suoi vecchiamici e compagni di lotta, parteggiò naturalmente per i men-scevichi ed i libertari, e incaricato – data la sua ottima cono-scenza di più lingue– di compilare l’In-

ternazionale comu-

nista, un bollettinocontenente una ras-segna stampa estera,inserì spesso ritaglidi stampa tesi a su-scitare motivi didubbio e perplessitàsulle scelte compiutedal potere sovietico.A contatto con la de-legazione italianasocialista guidata daSerrati per parteci-pare al II Congressodella Terza Interna-zionale, nell’estatedel ’20 fu accusatodi aver fatto pressio-ni su questa perchénon aderisse e messoin carcere, da cui fuliberato per interven-to della Balabanoff.Rientrato nel giugnodel 1923 nell’Italiafascista, trovò lavoropresso il ministerodegli Esteri quale re-dattore di un noti-ziario destinato allerappresentanze all’e-stero, occupazioneche abbandonò pre-

sto per non sentirsi in nessun modo complice con il neonatoregime mussoliniano. Nel frattempo aveva iniziato a scriveredi politica su riviste antifasciste, e più precisamente sul Quarto

Stato di Carlo Rosselli e di Pietro Nenni, e su Volontà diRoberto Marvasi e Vincenzo Torraca. Su questa rivista pubblicòle famose Cronache di dieci giornate a proposito dell’assassiniodi Matteotti.Fatto oggetto delle sempre più circospette attenzioni dellapolizia fascista, Caffi emigrò in Francia nel 1926. Agliinizi degli anni trenta, a Parigi, Caffi partecipò alla vita

politica della viva-ce colonia dei fuo-riusciti politici, av-vicinandosi a Giu-

stizia e libertà ecollaborando aiQuaderni del mo-vimento rossellia-no, sia pure da unaposizione autono-ma (“metapoliti-ca”): cosa che loportò spesso a ri-sultare in contrastocon l’impegno mi-litante e impazientedi Rosselli. Secon-do Caffi il fascismonon aveva nullad’originale, era unsegno esteriore diuna malattia – prin-cipalmente cultura-le – che affliggevala società, ormaisottomessa defini-tivamente alle lo-giche e alle dina-miche dello Stato.Per questo motivo,secondo Caffi, nonsi poteva farla fi-nita con il fascismosolamente tramitevie insurrezionali erivoluzionarie, ma

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con un lavoro di lunga lena sulle coscienze degli italiani.A partire da questi anni, e per il resto della sua esistenza,Caffi rivendicò un pacifismo assoluto, convinto che dallaviolenza, anche da quella rivolta contro i regimi totalitari,non potesse mai sgorgare nulla di costruttivo: «Ogni vio-lenza è per definizione antisociale», scrisse dopo la secondaguerra mondiale. Degli anni parigini, e più precisamentedel 1932, è anche il suo famoso attacco contro il bolscevi-smo e lo stalinismo portato dalle colonne dei Quaderni di

Giustizia e Libertà,: «Che la libertà di pensiero, il rispettodella persona, un ordinamento della vita fondato su spon-tanee scelte possano ‘valere’ qualcosa nell’esistenza degliuomini è un’idea che semplicemente non affiora nelle co-scienze della generazione cresciuta sotto il bolscevismo».A metà degli anni trenta, dopo essersi allontanato dal grupporosselliano anche per divergenze interpretative sul Risorgimentoe sul suo presunto “mito” da riproporre agli italiani in chiave an-tifascista, Caffi si trasferì nel sud della Francia, dove presecontatto con gli ambienti a lui più politicamente congeniali dellibertarismo federalista, pur non disdegnando di partecipare inprima persona al tentativo di ricostruire il partito socialista suposizioni differenti rispetto a Nenni e al suo avvicinamento al-l’Unione Sovietica (che aveva appena dichiarato guerra a Hitler). Nel partito si erano delineate tre posizioni: la prima – cherisultò vincente – quella di Nenni e Saragat, favorevolead una stretta adesione alla politica delle potenze antifa-sciste, e quindi - per quello che riguardava la politica ita-liana – ad una stretta collaborazione con il partito comu-nista; la seconda, di Modigliani, che riprendendo il pro-gramma zimmerwaldiano del tradizionale pacifismo so-cialista era al contrario per una totale autonomia; la terzadi Caffi (sottoscritta anche da Giuseppe Faravelli, EmilioZannerini ed Enrico Bertoluzzi), che era per un appoggiocondizionato alle potenze occidentali e all’Urss con l’o-biettivo primario della sconfitta del nazi-fascismo, perpoter poi rilanciare la propria idea di socialismo demo-cratico e federalista. La tesi caffiana infatti concludevache un auspicabile accordo in vista della lotta contro il fa-scismo «non deve implicare per noi impegni politici dinessuna specie nei riguardi dei comunisti; dobbiamo alcontrario conservare intera la nostra libertà d’azione eper l’oggi e per il domani»; e ribadiva alcune priorità po-litiche del suo essere socialista, quale soprattutto – rifa-cendosi alla «etimologia stessa» del socialismo – la supe-riorità della società rispetto allo Stato nel regolare irapporti fra gli individui.

Terminata la guerra tornò a vivere a Parigi. L’amicizia conAlbert Camus gli aprì la strada ad una collaborazione conGallimard, senza che questo lavoro sicuro gli facesse cam-biare il suo stile di vita di volontaria indigenza. Dal puntodi vista dell’analisi politica collaborò, su invito di Chiaro-monte, a Politics, autorevole rivista radicale e socialista(ma non marxista) di New York diretta da Dwight Macdo-nald. Lontano da qualsiasi concessione ad ogni tipo di co-modità materiale Caffi visse anche gli ultimi anni della suavita dedicandosi a coltivare studi, interessi e amicizie.Morì il 22 luglio 1955 e fu sepolto presso il cimiteroparigino di Père-Lachaise.

Il suo socialismo era caratterizzato

etimologicamente, rifacendosi al termine

«società»

Nel cercare di caratterizzare in poche parole il socialismolibertario di Caffi occorre innanzitutto riconoscere qualisiano stati i suoi maestri, da lui più volte citati: quindi so-prattutto Proudhon, Owen, Tolstoj, Herzen, Kropotkin. Vainoltre ricordato come il suo socialismo si fosse formatonon tanto sulla lettura dei classici, quanto dal contattodiretto con i problemi delle classi subalterne e dalla fasci-nazione giovanile esercitata dalle tendenze nichiliste di cuiera permeata una certa intelligencija russa. Risultò inoltrefondamentale per la formazione del pensiero politico ilsentimento di “filia” verso il genere umano, e come suquesto concetto di naturale empatia che lega le esistenzeumane Caffi puntasse per un definitivo superamento delloStato e delle sue logiche gerarchiche e di dominio. Scriveva infatti Caffi alla fine del secondo conflitto mon-diale: «Oggi, il moltiplicarsi di gruppi d’amici partecipidelle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi va-lori avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di pro-paganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole ob-bligatorie né di ortodossie ideologiche; non fiderebberosull’azione collettiva, ma piuttosto sull’azione individualee sulla solidarietà che può esistere fra amici che si conosconobene e dei quali nessuno persegue fini di potenza». Il suosocialismo era quindi per un certo verso caratterizzato eti-mologicamente, rifacendosi al termine «società», ossiaall’«insieme di quei rapporti umani che si possono definirespontanei e gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenzadella libertà nella scelta delle relazioni, nella loro durata,nella loro rottura».

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L’occasione di queste brevi riflessioni nasce dalla recentepubblicazione, per i tipi della Laterza, di un volume

di Vincenzo Ferrone1 in cui l’autore individua nella lottaper il riconoscimento e la tutela dei diritti dell’uomo lachiave risolutiva del grande “enigma” dell’Illuminismo,con l’intento di riaffermare la vocazione universale deidiritti umani anche nel tempo presente, sulla scorta dell’e-sperienza storica. Come noto, il discorso sui diritti dell’uomo – intesi come pa-trimonio giuridico di tutti gli uomini, indipendentemente dalledifferenze etniche, fisiologiche e culturali – si afferma, stori-camente, in Occidente nella seconda metà del Settecento, pe-raltro seguendo linee interpretative diverse nei paesi latini ein quelli dell’Europa del Nord2. A livello politico, invece, idiritti umani trovano riconoscimento e protezione molto piùtardi, all’indomani della Seconda guerra mondiale: concetticome “umanità” e “dignità” dell’uomo, assenti nella Dichia-razione del 1789, vengono posti al centro della “Dichiarazioneuniversale dei diritti dell’uomo” del 1948, ove è solennementeaffermato che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed egualiin dignità e diritti”.Il tema dei diritti umani assume contorni di scottante at-tualità e richiede concrete risposte sul piano pragmaticonel secolo attuale, sol che si pensi alle delicate questionigiuridiche sorte dopo l’attentato del settembre 2001,oppure a quelle legate ai ricorrenti episodi di genocidio

interessanti varie parti del pianeta e al ritorno delle guerredi religione.Ferrone nota un’analogia: il discorso sui diritti umani siimpone, tra Sei e Settecento, come reazione ai privilegi, allegerarchie e disuguaglianze dell’ancien regime, in una visionedell’Illuminismo che l’autore definisce “nuovo umanesimo”dei moderni. Una straordinaria rivoluzione culturale, ancheper contrastare il dramma della guerra civile e religiosa cheallora infiammava l’Europa. Fa la sua apparizione il cosiddetto“deismo” di Voltaire, Filangieri, Rousseau, fautori di una reli-gione culturale comune a tutti i popoli, senza chiese e teologi,devota a un dio lontano e disinteressato alla vicende umane.

Il problema oggi è conciliare

l’universalismo dei diritti umani

con il pluralismo culturale, evitando

da un lato impostazioni storicistiche

e dall’altro forme

di neo-imperialismo

L’analogia con quanto avvenuto dopo la Seconda guerra mon-diale è evidente: presupposto per la concezione universalisticae cosmopolita dei diritti, la cui riscoperta avviene propriodopo la Shoah e “il rischio mortale, corso dal genere umano,con la riapparizione sulla scena storica dell’homo necans edella sua terribile volontà di potenza”3.Il problema oggi, nel terzo millennio, è conciliare l’universa-

lismo dei diritti umani con il pluralismo culturale, evitando daun lato impostazioni storicistiche, e dall’altro forme di neo-imperialismo. La questione, che si legge in filigrana in tutto ilvolume ma che non viene direttamente affrontata, è laseguente: posto che i diritti umani sono innegabilmente unprodotto culturale della tradizione giuridica occidentale, comepossono ritenersi universali? Ferrone non tratta direttamente il tema, ma certamente viallude con la citazione di Marx (falso profeta, secondo Popper)

Da Voltaire a Norimberga>>>> Antonio Salvatore

1 V. FERRONE, Storia dei diritti dell’uomo, Laterza, 2014.2 Come evidenziato da Ferrone, mentre nel Nord Europa e negli ambienti

della fisiocrazia parigina prevalse un’interpretazione “duty-based” (ovverodei diritti come derivanti dai doveri), gli illuministi napoletani e milanesiproclamarono l’autonomia e la libertà dell’individuo, da attuare nellapartecipazione repubblicana alla vita politica e nella ricerca della felicità

come diritto naturale dell’uomo. É peraltro noto che in Francia vi fu una“riscoperta” dei doveri da parte dei termidoriani, che aggiunsero laparola devoirs alla Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del1789, che circa vent’anni dopo diventò Déclaration des droits et des de-

voirs de l’homme et du citoyen. 3 FERRONE, cit., Prefazione, p. XVII.

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posta in esergo al vo-lume4. I diritti umaniuniversali, nelle ap-plicazioni pratiche5,si tende a giustificarlinon in termini filo-sofici (ché sarebbeinammissibile, costi-tuendo il prodottodella cultura occiden-tale), ma storico-po-litici, in considera-zione della loro uti-

lità pragmatica pergli individui: parten-do dal presuppostoche i diritti riguarda-no “ciò che è giusto”e non “ciò che è be-ne”, essi sono uni-versali perché sononecessari per proteg-gere gli individui da-gli attacchi alla lorointegrità fisica, psi-chica e sociale.Ferrone conclude no-tando un curioso pa-rallelismo tra quantoosservato da JulioCortazar, nel corso della prima delle otto lezioni di letteratura

tenute nel 1980 inCalifornia, pressol’Università di Ber-keley6. Il riferimentonon è casuale, vistoche lo scrittore feceparte, tra il 1973 e il1975, della giuria del“Tribunale BertrandRussel II” che inda-gava sui crimini con-tro l’umanità com-messi in AmericaLatina. Nel descri-vere il proprio “cam-mino di scrittore”(prevalentemente,come si sa, uno scrit-tore “fantastico”: marivoluzionaria e“fantascientifica”doveva certo appa-rire, tra Sei e Sette-cento, l’idea di diritticomuni a tutto il ge-nere umano), l’arti-sta argentino dichia-ra di aver attraver-sato tre fasi ben de-finite: una prima,

che definisce “estetica”, una seconda, “metafisica”, e infineuna terza, “storica”, in cui, pur continuando a trattare temifantastici, partecipò attivamente al dibattito politico relativoalla vicende dei desaparecidos (si ricorderà il noto interventointitolato Negacion del olvido), e in genere a quelle delcontinente latinoamericano.Sembra, davvero, di assistere al cammino e allo sviluppodei diritti umani universali: da una prima fase, “estetica”,tesa a privilegiare, come vero obiettivo dell’Aufklarung

l’indagine della persona umana in ogni aspetto anche attra-verso la poesia, la letteratura, il teatro, la pittura7, si èpassati a un’indagine metafisica su tali diritti, e in prospettivastorica- ma, si badi, anti-storicistica - a una fase in cui dareconcreta attuazione ai diritti umani in prospettiva universalee ispirandosi al nuovo umanesimo che nell’Illuminismotrova radici autentiche.

4 K. MARX, La questione ebraica, 1843: “L’idea dei diritti dell’uomovenne scoperta per il mondo cristiano appena nel secolo scorso. Essanon è innata nell’uomo, viene piuttosto conquistata solo nella lottacontro le tradizioni storiche nelle quali venne finora allevato l’uomo.Così i diritti umani non sono un dono della natura, non una dote dellastoria trascorsa, bensì il premio della lotta contro la casualità dellanascita e contro i privilegi, che la storia di generazione in generazione halasciato in eredità fino ad oggi. Sono il risultato della cultura e li puòpossedere solo colui che se li è guadagnati e meritati”.

5 Il tema riveste anche interesse per la pratica giudiziaria: si pensi al te-ma dei cosiddetti “delitti culturalmente orientati”, sul quale, attesi i li-miti del presente intervento, non è possibile diffondersi.

6 J. CORTAZAR, Lezioni di letteratura. Berkeley, 1980, Einaudi, 2014,p. 4 e ss.

7 Si sarà capito che il riferimento è a J. G. Herder – peraltro citato daFerrone - per il quale l’umanità, nella sua dimensione cosmopolita, co-stituisce il patrimonio e il risultato di tutti gli sforzi umani, l’arte dellanostra specie.

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Da parte di alcune vestali del patrimonio culturale si ripro-pongono periodicamente campagne intese a mantenerlo

puro e incontaminato, legato soltanto all’idea pura di bellezza,soprattutto lontano da ogni rischio di contiguità con una pos-sibile valenza economica dello stesso. Ma gli anatemi servonoa poco: il patrimonio culturale ha, per la sua stessa natura, unapluralità di significati e anche di usi. E’ opportuno perciòcercare di capire quali sono stati, storicamente, questi significatie questi usi1.In realtà coesistono, e non da oggi, tre diverse concezioni dipatrimonio culturale. Si prenda il caso dell’Italia, alla qualeci riferiremo nelle linee che seguono soprattutto allorchésaranno evocati gli aspetti legislativi e istituzionali della que-stione. La prima concezione si riferisce alle singole tipologiedi beni culturali. Il Codice dei beni culturali e del paesaggione individua alcune: cose di interesse artistico, storico, ar-cheologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico;ma, come vedremo più avanti, si lascia aperta la strada all’in-clusione di altre tipologie.Va notato che questa tassonomia è andata variando nel tempo;anzi, l’analisi di queste variazioni dà preziose indicazioni sulvariare della cultura egemone in ciascuna epoca storica. Seprendiamo il più importante documento normativo sulla tutelaprecedente il Codice attualmente in vigore – cioè le due leggidel 1939 promosse dall’allora Ministro per l’Educazione na-zionale Giuseppe Bottai2 - già dai titoli si ricava che venivanoprese in considerazione soltanto le «cose di interesse artisticoe storico» e le «bellezze naturali». È vero che, scorrendo l’art.1 della L. n. 1089 si trovavano elencate, oltre a quelle giàcitate, anche le «cose» che presentavano interesse archeologico

o etnografico, precisando ulteriormente che in queste categorieerano comprese anche le «cose» che interessavano la paleon-tologia, la preistoria e le primitive civiltà; quelle d’interessenumismatico; i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documentinotevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioniaventi carattere di rarità e di pregio. Infine si precisava ulte-riormente che vi erano pure comprese le ville, i parchi e igiardini che avessero interesse artistico o storico.

Nonostante il tempo trascorso dal 1939

e i grandi mutamenti politici, istituzionali

e culturali intervenuti, questo impianto

culturale è ancora largamente presente,

e anzi dominante

Il progressivo ampliamento delle categorie comprese nellalegge di tutela non toglieva che fra le tipologie elencate sussi-stesse un rapporto gerarchico, di importanza, sottolineato ap-punto dal titolo stesso della legge: le «cose» tutelate in quantopatrimonio culturale lo erano soltanto in quanto avevano uninteresse artistico o storico: l’elencazione delle altre tipologieserviva soltanto a chiarire le intenzioni del legislatore. Così ibeni archeologici erano tali solo se rientravano in queste duecategorie primarie, e a maggior ragione quelli etnografici; leulteriori precisazioni rispetto alla paleontologia e alla preistoriaappaiono pleonastiche; a maggior ragione gli archivi e le bi-blioteche erano prese in considerazione sempre e soltanto inrapporto al loro valore di raccolte di documenti storici. Sur-rettiziamente, quasi per inciso, venivano inseriti quelli cheoggi chiamiamo beni architettonici, però solo sotto la speciedi ville, parchi e giardini, sempre che, beninteso, rispettasseroi due canoni fondamentali.Se poi si prende in considerazione l’altra legge promossa daBottai in quel 1939 («Protezione delle bellezze naturali»),anche in questo caso il titolo è estremamente chiarificatore:non il paesaggio, come in seguito è stato definito, ma solo le

Le vestali della bellezza>>>> Valentino Baldacci

Beni culturali

1 Questo scritto è la rielaborazione di un testo già pubblicato nel n.18/2014 dei Cahiers d’études italiennes dell’Université Stendhal – Gre-noble 3. Si trattava di un numero speciale dal titolo Da Torino a Parigi:

Laura Malvano storica e critica d’arte. Omaggio alla vita e all’opera. 2 Legge n. 1089 del 1 giugno 1939 : Tutela delle cose d’interesse artistico

e storico; Legge n. 1497 del 9 giugno 1939 : Protezione delle bellezze

naturali.

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bellezze naturali sono tutelate. È cioè il valore estetico, equindi l’eccezionalità, la discriminante fondamentale. Questadiscriminante era fortemente presente anche nella legge n.1089, perché – se è vero che varie categorie di beni eranotutelati in virtù del loro valore storico – era prevalente quelloestetico, che non solo restava l’unico valido per i beni artisticicosì esplicitamente richiamati, ma proiettava la sua influenzaanche su altre categorie, e in particolare sulle architetture.Si veniva così a creare una sorta di gerarchia fra i beni culturali,che vedeva al primo posto quelli artistici, portatori dei fonda-mentali valori estetici; seguivano quelli sui quali in qualchemodo veniva proiettata, sia pure in modo indiretto, la luce pro-veniente dai primi; quindi le architetture e i reperti archeologici.Il resto, cioè documenti d’archivio (purché “notevoli”) e i libriaventi carattere di rarità e di pregio, era tutelato solo in quantosi riferiva a una documentazione storica di particolare impor-tanza; anzi, in quella espressione “di pregio” riappariva, anchequi, l’importanza primaria del valore estetico. L’inserimentofra i beni da tutelare di quelli di interesse etnografico, singolar-mente connessi a quelli archeologici, appariva più un relittoottocentesco che un’apertura a una nuova sensibilità. Tutto ciò è ben noto ed è stato più volte sottolineato dalla let-teratura sull’argomento. Se ha un senso tornarci sopra e sotto-linearlo è perché, nonostante il tempo trascorso dal 1939 e igrandi mutamenti politici, istituzionali e culturali intervenuti,questo impianto culturale, e in particolare l’idea di unagerarchia fra i beni culturali imperniata sul primato dei valoriestetici, è ancora largamente presente, e anzi – si potrebbedire – ancora dominante, avendo ricevuto un insospettatoaiuto dalla diffusione della cultura di massa e del turismo cul-turale, cioè proprio da quei fenomeni che la cultura idealistica,che stava alla base delle leggi del 1939 non avrebbe certovisto di buon occhio. Il fatto è che l’industria culturale – comprendendo in essa nonsoltanto l’editoria ma soprattutto la televisione e la fabbrica dimostre, eventi culturali e simili – ha contribuito in manieradecisiva a trasformare le opere d’arte e i relativi autori infeticci, in oggetti e figure mitiche, da adorare in forme cultualiindipendentemente dalla reale comprensione delle opere edegli autori stessi. Questo fenomeno ha trasferito a livello dimassa l’idea della gerarchia dei beni culturali e quella del pri-mato dell’opera d’arte, divenuta oggetto di culto privo di ogniriferimento critico e contestualizzante e ricondotto soltanto amomenti e situazioni puramente emozionali (da qui, per inciso,l’enorme successo, che non accenna a calare, della pittura im-pressionistica).

C’è un altro aspetto che merita di essere sottolineato. Ricondurrela definizione di patrimonio culturale alla particolare tipologiadi appartenenza della cosa tutelata comporta la perdita di unadefinizione complessiva di patrimonio culturale e l’introduzione,non casuale, dell’espressione plurale «beni culturali». Quellache viene così messa in evidenza non è una definizione unitariadi patrimonio culturale, ma quella particolare relativa a ciascunatipologia: si avrà così una definizione di bene artistico, una dibene archeologico ecc. Anche quando il ricordato primatodella dimensione estetica comincerà, con il mutamento dell’e-gemonia culturale, a declinare, resterà in piedi, e in largamisura è ancora fortemente vigente, l’idea di una frammenta-zione del patrimonio culturale nelle singole tipologie nellequali lo si vuol classificare. Si afferma così un’impostazionetassonomica che vede, accanto al prevalere della cultura idea-listica espressa nell’idea del primato dell’estetica, la coesistenzadi vecchie categorie risalenti alla cultura positivistica.

L’idea del patrimonio culturale come

testimonianza di civiltà (e quindi come

fattore di identità) ha fatto molta strada

La seconda concezione si esprime nel recupero di una conce-zione unitaria del patrimonio culturale (si usa appunto l’e-spressione «patrimonio culturale» e non quella «beni culturali»),e soprattutto in una diversa concezione che mette al centro ilsuo significato identitario. Il patrimonio culturale è così visto,indipendentemente dalla sua articolazione in varie tipologie edal suo valore estetico, come espressione (l’espressione piùalta, se vogliamo) dell’identità di una comunità. Una comunitàche può avere una dimensione più o meno ampia: dalla comu-nità locale, a quella nazionale, fino a quella comunità che ècostituita dall’intera umanità. Almeno in Italia questa concezione si è manifestata abbastanzaprecocemente, prima ancora della creazione del ministero deiBeni culturali e ambientali. Il riferimento d’obbligo è al docu-mento prodotto al termine dei suoi lavori, nel 1966, dallaCommissione parlamentare (istituita con Legge 26 aprile 1964n. 310) presieduta dall’on. Francesco Franceschini, che definìbene culturale «tutto ciò che costituisce testimonianza materialeavente valore di civiltà». Come si vede, venivano del tutto ab-bandonate la definizione pluralistica sulla base delle tipologiee il principio del primato del valore estetico, e si metteva alcentro della nuova definizione unitaria quello della «testimo-nianza di civiltà». Questa definizione non solo affermava unaltro primato, quello del documento storico, ma apriva la

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strada all’affermazione del valore del patrimonio culturalecome aspetto essenziale dell’identità di una comunità. Il con-cetto di identità resta a tutt’oggi assai discusso, perché daparte di alcuni esso viene rifiutato sia in base a considerazionidi carattere politico, che fanno riferimento alle degenerazionidi carattere nazionalistico che – in passato e nel presente –esso avrebbe prodotto; sia anche in base a considerazioni piùgenerali, che hanno alla base la tesi della necessaria “conta-minazione” (spesso si adopera addirittura il termine di “me-ticciato”, con significato positivo rispetto a quello, più negativo,tradizionale) fra culture e popoli, e quindi comunità diverse.Considerazioni, come si vede, più generali, ma altrettanto“politiche”, o addirittura ideologiche, rispetto alle precedenti. A parte la riflessione sui possibili esiti degenerativi di questoprincipio, che affronteremo a parte, resta il fatto che l’idea delpatrimonio culturale come testimonianza di civiltà (e quindi,conseguentemente,come fattore di iden-tità di una comunità)ha fatto molta strada.È stata accolta, a li-vello nazionale, nelCodice dei beni cul-turali e del paesaggio,dove all’art. 2 comma2, in maniera piuttostoconfusa, da un lato siconserva l’espressio-ne plurale «beni cul-turali», elencandonele tipologie in base al-l’interesse artistico,storico, archeologico,etnoantropologico, ar-chivistico e bibliogra-fico; ma poi si intro-duce una nozione re-siduale, che in realtàfinisce per essere uni-versalmente definito-ria, parlando di «te-stimonianze aventivalore di civiltà». Mapiù significativo echiaro è l’art. 1 com-ma 2, dove la funzio-

ne del patrimonio culturale è individuata nella preservazionedella «memoria della comunità nazionale e del suo territorio».Va ricordato che nei lavori preparatori del Codice la Commis-sione cultura della Camera dei Deputati aveva definito il pa-trimonio culturale come «elemento costitutivo e rappresentativodell’identità nazionale», definizione poi superata nel testo de-finitivo. Anche a livello internazionale ci si è mossi nella stessa direzione.La stessa nozione di «patrimonio universale dell’umanità», ela-borata dall’Unesco e che sta conoscendo una grande fortuna, vanello stesso senso, assumendo l’intera umanità come comunitàuniversale, nel senso già ricordato sopra: il che ovviamente nonnega l’esistenza di altre comunità particolari. Anche l’Icom (In-

ternational Council of Museums) accoglie nel suo statuto la defi-nizione di «testimonianze materiali e immateriali dell’umanità».Proprio l’emergere di istanze universalistiche e lo stesso cre-

scente sviluppo dellaglobalizzazione inogni campo, da quelloeconomico a quellodella comunicazione,ha fatto crescere l’e-sigenza di una sotto-lineatura degli aspettiidentitari che caratte-rizzano una comunità,anche e forse soprat-tutto a livello locale.È degno di nota il fat-to che questa esigen-za, presente in ogniluogo e in ogni tem-po, abbia assunto inquesta fase storica laforma della valoriz-zazione del patrimo-nio culturale. In altritempi questa esigenzasi esprimeva in modie con simboli assaidiversi: la bandiera el’inno nazionale; ilculto del sangue deimartiri, religiosi o po-litici poco importa;l’idea della superio-

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rità razziale e antropologica; quella della «necessità storica»della vittoria di una classe sociale con l’eliminazione di tuttele altre, e via elencando. A proposito dei possibili aspetti degenerativi del principiodel patrimonio culturale come rappresentativo dell’identitànazionale, c’è da rilevare come sia venuto modificandosil’atteggiamento dei belligeranti nei casi di conflitto. Inpassato, fino alla seconda guerra mondiale, prevaleva un at-teggiamento che tendeva a trascurare il significato simbolicodel patrimonio culturale a favore di considerazioni puramentemilitari, appena temperate, in alcuni casi, da valutazioni e dariflessioni di carattere culturale e talvolta politico. In altreparole, i bombardamenti e le distruzioni massicce operatedurante la seconda guerra mondiale dai tedeschi sulle cittàinglesi e dagli anglo-americani sulle città tedesche muovevanoda intenti puramente militari, fra i quali, oltre alla distruzionedella capacità economica del nemico, anche quello di fiaccarela volontà di combattere e di resistere della popolazionecivile. Non sembra invece che si mirasse al patrimonio cul-turale con particolare intenzione, né di distruggerlo né dipreservarlo (a meno che, come si è detto, non intervenisseroparticolari considerazioni).

Nessun simbolo come il patrimonio

culturale ha una così forte valenza

universale

Il Duomo di Colonia o il centro storico di Dresda non furonodistrutti perché assumevano un particolare valore simbolico;semplicemente, rientravano nella tattica di distruzione integraledelle città tedesche che gli anglo-americani perseguivano,così come qualche anno prima avevano fatto i tedeschi con lecittà inglesi. In certi casi – come per le città d’arte italiane,Roma in primo luogo – intervenivano a risparmiarle, anche separzialmente, considerazioni di carattere politico: le ripercus-sioni sull’opinione pubblica dei propri paesi, o su quella cat-tolica in particolare. In tempi più recenti invece, e con particolare riferimento alleguerre nella ex-Jugoslavia, il patrimonio culturale è stato lettoe trattato proprio in funzione del suo significato simbolico: ilponte di Mostar fu distrutto dai croati non per esigenze militarima perché rappresentava un simbolo delle tradizioni locali diderivazione turco-islamica, ed era al tempo stesso un simbolodi pace e di incontro fra diverse civiltà che in quel momentoveniva rifiutato in nome della lotta all’ultimo sangue fra etnienemiche. Ancora più di recente, per la Serbia è “impossibile”

riconoscere l’indipendenza del Kossovo, abitato per il 90% dauna popolazione albanese, perché in questa regione si trovanoi monumenti, in particolare monasteri, che stanno alla basedella storia e dell’identità serba.Tuttavia sarebbe un errore ricavare da questi casi il rifiuto delpatrimonio culturale come segno di identità. Anzi, il fatto diassumere il patrimonio culturale come simbolo dell’identitàlocale o nazionale, invece di altri simboli necessariamente an-tagonistici come quelli sopra citati, apre la strada al riconosci-mento reciproco del valore del patrimonio culturale altrui equindi delle diverse identità. Nessun simbolo come il patrimonioculturale ha una così forte valenza universale.La terza concezione si riferisce al valore economico del beneculturale, insistendo proprio su quell’aspetto sottinteso nelsostantivo «bene» o «patrimonio», indipendentemente dal-l’aggettivo. Questa dimensione economica può essere presain considerazione secondo varie modalità. La prima, e la piùovvia, si riferisce proprio al valore monetario, di mercato, delbene preso in considerazione. Le cronache sono piene di casi

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di opere d’arte (ma talvolta anche di strumenti musicali rari,oppure di libri altrettanto rari) venduti all’asta per cifrealtissime. Questi episodi inducono nell’opinione pubblical’idea che ci sia un legame tra il valore monetario e quello ar-tistico dell’opera, laddove è evidente che il primo è soggettoalle norme che regolano lo scambio delle merci sul mercato(rarità, utilità, ma anche gusto, moda ecc.), mentre il secondosegue regole sue proprie, anch’esse soggette a variazioni, masecondo parametri propri.

Quello del valore del singolo bene è solo

un aspetto della dimensione economica

del patrimonio culturale, e nemmeno il più

importante

C’è da rilevare che grandi variazioni sono intervenute nelmercato dei beni culturali a partire dagli inizi del XX secolo.In precedenza, in un’epoca dominata dall’ideologia liberista,le opere d’arte, i reperti archeologici, ecc. venivano compratie venduti in quasi totale libertà: erano considerati beni più omeno come gli altri, e solo in determinati e rari casi (monumentinazionali) la loro vendita era soggetta a restrizioni. A partiredall’inizio del XX secolo si diffuse l’idea che il patrimonioculturale era fortemente connesso all’idea di identità nazionale,e che quindi occorreva regolarne la possibilità di scambioeconomico: in particolare era necessario restringere la possibilitàdella sua esportazione all’estero. Nacquero così in Italia, maanche negli altri paesi, normative vincolistiche: la prima, peril nostro paese, è la L. n. 185 del 12 giugno 1902 (LeggeNasi), che pose un freno, anche se non assoluto, all’esportazionedelle opere d’arte. La legislazione vincolistica si è andata progressivamente ina-sprendo, anche se non è mai stato posto un divieto assolutoalla commerciabilità dei vari tipi di beni, specialmente versol’estero. L’istituto della notifica, introdotto nel 1909, ha co-munque posto sotto controllo il commercio delle opere consi-derate di interesse artistico e storico. Questi vincoli hannofatto sì che per determinate tipologie di patrimonio culturale(in particolare per le architetture) la dichiarazione di interesseculturale finisca per abbassare notevolmente il suo valore dimercato. Ma quello del valore del singolo bene è solo un aspetto delladimensione economica del patrimonio culturale, e nemmenoil più importante. Maggiore rilevanza hanno tutte quelleattività che sono in qualche modo connesse al patrimonio cul-

turale e che si è soliti indicare con il termine di indotto. La piùvisibile di queste attività è certamente il turismo culturale, cheè venuto assumendo negli ultimi decenni proporzioni gigante-sche. All’antica pratica del grand tour, riservata ai giovanidelle famiglie aristocratiche e improntata a motivi di studio edi educazione, si è sostituito un gigantesco intreccio di spo-stamenti e di viaggi che coprono tutto il pianeta. Le tipologiedel turismo culturale sono numerose e in continua evoluzione.La più tradizionale è quella riferita alle città d’arte, i centriche in Europa, e in particolare in Italia, raccolgono i monumentipiù noti e i musei più famosi. Ma negli ultimi anni si è svilup-pato un turismo culturale che si indirizza in due direzioni op-poste: da un lato c’è stata la progressiva scoperta del patrimonioculturale “minore”, rappresentato da borghi, cittadine, castelli,conventi e monasteri isolati, in precedenza appena sfiorati dalturismo culturale. In questa tipologia di turismo un ruolo fon-damentale è svolto dal paesaggio, che sempre più è oggetto diparticolare attenzione da parte di turisti il cui obiettivo è la ri-cerca di un ambiente diverso da quello standardizzato dellecittà di residenza. Si tratta di un turismo che si dirige preva-lentemente, anche se non unicamente, verso aree e luoghi nonlontani dalla località di residenza, che possono essere raggiuntinel corso di una sola giornata o al massimo di un week end. Alpolo opposto si colloca la crescente scoperta di aree e localitàesotiche, poste in paesi anche lontanissimi da quello di resi-denza. Questo tipo di turismo mette in moto, naturalmente, spostamentidi notevoli dimensioni e richiede un impiego di tempo (e didenaro) piuttosto elevato. Alla base della crescita progressivadi questo tipo di turismo c’è da un lato, da parte di un certotipo di pubblico, l’esaurimento delle mete più tradizionali;dall’altro la scoperta che il patrimonio culturale non è presentesoltanto nelle zone di più antica e tradizionale civilizzazione,in particolare in Europa, ma può essere scoperto in aree chefino a non molto tempo fa erano mete soltanto di tipologie diturismo molto particolari, ristrette a gruppi di persone limitati,come i cultori dei safari ecc. Naturalmente ha concorso aquesta diffusione di un turismo culturale verso mete lontane ilprogressivo abbassamento dei prezzi, soprattutto quelli deiviaggi aerei, connesso prima alla pratica dei voli charter e poidi quelli low cost. È appena il caso di sottolineare quali e quanti settori economicisono messi in movimento dalle tipologie di turismo culturalesopra indicate. Si va dai trasporti (aerei, ferroviari, marittimi,automobilistici) a tutta la rete dell’accoglienza e dell’ospitalità,dagli alberghi ai ristoranti, dai bar agli agriturismo. Oltre alle

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attività specializzate, come quelle delle agenzie di viaggio e aquelle delle guide, è tutta la rete commerciale delle città edelle zone interessate che viene coinvolta, in quanto il turismoesprime una domanda aggiuntiva rispetto a quella abituale deiresidenti: anzi è ben noto che esiste una maggiore propensioneal consumo quando si è fuori della propria area abituale di re-sidenza. A parte va considerata l’attività di quelle strutture che, perloro natura, sono direttamente connesse al patrimonio culturale:i musei innanzitutto, e poi l’organizzazione delle mostre.Musei e mostre vanno considerate da un lato come occasioniaggiuntive di richiamo rispetto a quello offerte dai monumentie dal paesaggio, dall’altro come strutture autonome che svi-luppano una loro attività che ha una notevole rilevanza eco-nomica.

La gestione di un museo, oltre a una

dimensione culturale, ne presenta una

strettamente manageriale

Un museo va considerato, oltre che come luogo di conserva-zione e di esposizione di collezioni e centro di attività culturale,come soggetto di una serie molteplice di attività economicheche lo rendono per certi aspetti simile a un’azienda commer-ciale, con i suoi costi e ricavi, le sue problematiche managerialiecc. Se i costi di un museo sono identificabili in quelli chenormalmente figurano in un’attività commerciale (personale,energia, ecc.), a questi vanno aggiunti quelli che mirano allaconservazione e al restauro delle opere. I ricavi sono di molte-plice natura: prima di tutto la bigliettazione, che può assumerele forme più raffinate e complesse; poi l’associazione al museo(membership) che tende alla fidelizzazione del visitatore;inoltre l’affitto degli strumenti di informazione, laddove nonsiano gratuiti (audioguide ecc.). Una voce rilevante è costituitadallo store (o bookshop, come viene impropriamente chiamatoin Italia), che nei grandi musei raggiunge non solo notevolidimensioni ma anche livelli di qualità assai elevati. Ci sono poi ricavi derivanti dalle vere e proprie attivitàculturali: visite guidate, conferenze, lezioni, concerti, cicli difilm, attività teatrali. In alcuni casi i musei si fanno promotorie organizzatori di viaggi all’estero verso località consideratedi particolare attrattività culturale. Un’altra fonte di introito ècostituita dai ristoranti e caffetterie interni al museo, sia informa di gestione diretta che di diritti di concessione. Semprepiù spesso gli spazi dei musei vengono offerti a pagamento

per occasioni di vario genere, dalle cene aziendali alle sfilatedi moda. Un’altra voce significativa delle entrate è costituitadalle donazioni e dalle offerte volontarie, che spesso sono or-ganizzate e sollecitate in forma assai elaborata. Infine, soprat-tutto nei musei europei, è fondamentale l’apporto costituitodai contributi provenienti dagli enti pubblici, siano essi loStato, le Regioni o gli enti locali. Al di là del dibattito sullapossibilità che un museo possa essere gestito in pareggio permezzo delle sole risorse proprie, resta il fatto che la gestionedi un museo, oltre a una dimensione culturale, ne presenta unastrettamente manageriale. Per le mostre valgono in larga misura riflessioni simili, conalcuni aspetti, relativi ai costi e ai ricavi, analoghi, ed altrispecifici. Per i costi, ovviamente, una voce di particolare

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rilievo è costituita dai trasporti, dalle assicurazioni e dall’alle-stimento temporaneo, nonché dalle spese per promozione epubblicità. Per i ricavi sono meno rilevanti quelli derivanti daun’attività permanente e continuativa come quella di un museo,ma a compensare questi minori introiti stanno quelli derivantidall’aspetto di eccezionalità che ogni mostra, quale più qualemeno, assume: e quindi maggiore affluenza di visitatori, mag-giore numero di biglietti venduti, maggiore vendita di tutta laproduzione accessoria, come i cataloghi, i poster, l’oggettisticae in generale il merchandising, maggiore occasione di entratederivanti da sponsorizzazioni. Se il turismo culturale e la gestione dei musei e dellemostre sono gli aspetti più visibili della dimensione econo-mica del patrimonio culturale, non si devono dimenticarealtre attività che, pur meno evidenti, tuttavia hanno anch’essericadute economiche non trascurabili. Una dimensione eco-nomica la ha la stessa attività di catalogazione del patrimonioculturale, svolta in Italia dalle Soprintendenze ma che co-involge anche soggetti esterni ad esse, come ad esempiogli esperti in elaborazione di programmi informatici eanche gli stessi compilatori di schede.

Le tre dimensioni del patrimonio culturale,

ognuna delle quali ha in sé la sua legittimità,

possono degenerare, se intese

unilateralmente senza tener conto

delle altre due

Un’attività che in alcune realtà ha assunto un rilevante si-gnificato economico è quella del restauro. Il restauro, siapittorico e plastico che architettonico, ha da tempo superatolo stadio artigianale - nel quale era prevalente l’abilità ma-nuale del restauratore nonché ovviamente la sua preparazionestorico-artistica - per utilizzare tecniche informatiche dielevato contenuto tecnologico. Ci riferiamo non solo all’e-secuzione del restauro, ma anche e soprattutto alle analisidiagnostiche che precedono il restauro stesso, e che ormaicoinvolgono competenze di altissimo livello.Ognuna di queste tre dimensioni del patrimonio culturale ha unasua validità e una sua legittimità. Anche se ciascuna di queste di-mensioni ha una sua autonomia, si pone tuttavia il problema delloro rapporto reciproco, e soprattutto quello di possibili collisionie contraddizioni a seconda che si privilegi l’una o l’altra. Vienevoglia di scomodare Platone, che distingueva le tre formelegittime di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) dalle

loro degenerazioni (tirannide, oligarchia, demagogia). Anche letre dimensioni del patrimonio culturale, ognuna delle quali ha insé la sua legittimità, possono degenerare, soprattutto se inteseunilateralmente senza tener conto delle altre due. Così è evidente che assumere la dimensione economica comela sola, o comunque quella prevalente, nel guidare le sceltedella politica dei beni culturali e la gestione delle strutture adessi inerenti porta a gravi degenerazioni, che hanno comeconseguenza il rischio del depauperamento dello stesso patri-monio. Ciò è particolarmente evidente nel caso del paesaggio,dove uno sfruttamento senza regole del medesimo porta allaconseguenza, purtroppo ben visibile in un notevole numero dicasi, della perdita o comunque del degrado proprio di queivalori paesaggistici che si volevano sfruttare. Anche la definizione identitaria del patrimonio culturale puòportare a degenerazioni. Ne abbiamo già visto alcuni esempi,ma più in generale è la dimensione stessa dell’identità chepuò condurre a gravi degenerazioni. La storia degli ultimi duesecoli è purtroppo ricca di insegnamenti in questo senso, par-tendo dalle spoliazioni compiute dai francesi in età napoleonicaa danno dei paesi occupati fino agli esempi sopra citati, aiquali altri si potrebbero aggiungere. Il sentimento dell’identità, irrinunciabile in ogni persona, puòcondurre all’egoismo e all’insensibilità verso il prossimo. Cosìper i popoli o le comunità: il diritto a coltivare e a difendere lapropria identità può trasformarsi in chiusura o addirittura inostilità verso le identità altrui. D’altra parte abbiamo già dettoche le identità fondate sul patrimonio culturale sono le piùaperte, le più disponibili ad accogliere i valori identitari di altrecomunità, perché il patrimonio culturale è meno disponibile dialtre forme simboliche ad essere letto attraverso i moduli del-l’intolleranza e della chiusura, e rinvia invece a forme universali,sia pure comprese nei loro contesti storici. I rischi inerenti alle dimensioni economica e identitaria del patri-monio culturale sono abbastanza evidenti, e quindi è più agevoleprendere le necessarie contromisure. Meno evidente e più sottileè il rischio legato ad un’altra unilateralità, quella che assumecome esclusiva la dimensione inerente a ciascuna tipologia di pa-trimonio culturale. È più sottile perché è evidente la legittimità diassumere come criterio di valutazione di ciascuna tipologia criterielaborati all’interno della tipologia stessa. Ogni ramo del saperee della conoscenza ha un suo proprio statuto, ed è questo statutoche consente il dialogo fra competenze e fra saperi. Il problema nasce quando si pretende di imporre questo statutoanche a dimensioni del patrimonio culturale che sono esternialla logica propria di ciascuna tipologia. Che gli storici dell’arte

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elaborino una loro propria teoria relativa non solo agli aspettiestetici ma anche alle tecniche della conservazione e delrestauro non solo è legittimo ma è del tutto necessario. Manon è più legittimo pretendere che questa dimensione internaalla cultura storico-artistica sia l’unica possibile, e in nome diquesto esclusivismo rifiutare di prendere in considerazione ladimensione identitaria del patrimonio culturale o addiritturarifiutare in partenza ogni considerazione della dimensioneeconomica dello stesso.

Solo uscendo da una logica basata

sull’esclusivismo delle proprie ragioni si può

andare oltre una logica che appare ancora

fortemente condizionata da pregiudizi

ideologici o all’opposto da mancanza

di principi

Il rifiuto della dimensione identitaria porta alla conseguenzadi considerare il patrimonio culturale come un affare esclu-sivo degli addetti ai lavori, intendendo con ciò soltanto glispecialisti di una determinata disciplina, e a trascurarequindi la dimensione del pubblico, cioè dei cittadini, del-l’intera comunità, che anche se privi di conoscenze specia-listiche sono fortemente interessati al patrimonio culturalee alla sua conoscenza. Di fatto questa cultura porta a un at-teggiamento di tipo elitario, che nega di fatto ogni validitàalla dimensione educativa: alla diffusione fra i cittadinidella conoscenza del patrimonio culturale, intesa appuntocome patrimonio comune di tutta la comunità. Porta anche,come ulteriore conseguenza, a considerare validi sul pianoscientifico soltanto quei rami del sapere interni alla tipologiaconsiderata e a trascurare altri saperi (per esempio, la so-ciologia, la psicologia, la scienza della comunicazione) chepossono dare un valido aiuto alla diffusione della conoscenzadel patrimonio culturale. Più drastico ancora, e più carico di significati ideologici, è ilrifiuto di accettare la dimensione economica del patrimonioculturale, perché si accompagna a una serie di tesi legate al ri-fiuto della mercificazione del sapere, del condizionamentocapitalistico non solo della produzione economica ma anchedell’espressione culturale, e altri simili rifiuti, che si basanosu una concezione antagonistica della società contemporaneache viene rifiutata in toto in quanto condizionata e succubedella forma di produzione capitalistica. Colpisce il fatto cheuna simile cultura, ereditata dal periodo dell’egemonia culturale

del marxismo, sia ridotta a dimensioni minoritarie in qualunquealtro campo salvo, forse, in quello del patrimonio culturale,nel quale la difesa contro ogni forma di inquinamento capita-listico si sposa strettamente con la difesa della sua purezza,eredità di un’epoca precapitalistica. Aspetti positivi e aspetti negativi di questi rifiuti si intreccianoin maniera che appare indissolubile. Per orientarsi in questoche appare un labirinto inestricabile occorre assumere un atteg-giamento fortemente pragmatico, che si appoggi da un lato adalcuni principi ma che rifiuti anche ogni pregiudiziale di carattereideologico. I principi che appaiono irrinunciabili sono abbastanzaevidenti, e alla fine si riducono ad uno: che ogni uso del patri-monio culturale non comporti il deterioramento e il degrado delmedesimo. Fatto salvo questo principio, ogni altro tipo diazione dovrà essere esaminato e valutato sulla base di orienta-menti pragmatici che tengano conto di tutte e tre le dimensionisopra enunciate. Occorre che fra studiosi e operatori cheagiscono nelle tre dimensioni messe in evidenza si crei unclima basato sullo sforzo di comprendere le ragioni degli altri,anche se sono lontane dall’impostazione culturale nella quale sisono formati. È difficile per lo storico dell’arte e per il funzionariodi Soprintendenza accettare che esiste anche una dimensioneeconomica del patrimonio culturale che va tenuta presente enon demonizzata a priori, anche se le ragioni della tutela devonosempre essere considerate prioritarie. È difficile per un operatoreeconomico che agisce nell’ambito dei beni culturali comprenderetalvolta le ragioni degli addetti alla tutela, che sembrano porreinutili pastoie all’esercizio di un’attività da essi considerata le-gittima. È difficile per entrambe queste categorie, addetti allatutela e operatori economici, comprendere che esiste un interessedel pubblico, dei cittadini, alla conoscenza del patrimonio cul-turale come espressione fondamentale dell’identità di una co-munità che tende a prescindere sia dalle ragioni tecniche dellatutela che da quelle dell’interesse economico. Solo uscendo da una logica basata sull’esclusivismo delleproprie ragioni, dovuta da un lato all’eredità dell’antica impo-stazione idealistica basata sul principio della gerarchia deivalori e sul primato del valore estetico, dall’altra ad unacultura dell’iniziativa economica che tiene scarso conto dellaspecificità del campo del patrimonio culturale, si può andareoltre una logica che appare ancora fortemente condizionata dapregiudizi ideologici o all’opposto da mancanza di principi,per approdare a una cultura pragmatica, capace di promuovereuna collaborazione fra tutti coloro che a vario titolo operanonel campo della tutela e della valorizzazione del patrimonioculturale.

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mondoperaio 10/2014 / / / / aporie

>>>> aporie

Risse non negoziabili

Il 6 ottobre le “Sentinelle in piedi” che manifestavano a Napolihanno incontrato una colorata e colorita protesta a opera dei

manifestanti di segno contrario. L’episodio si è segnalato per ilvivace dialogo fra contro-manifestanti e sentinelle, e per avermesso in risalto il tipo di partita che in realtà si sta giocando:quella dei temi “non negoziabili”, vulnus cromosomico dellademocrazia. Possiamo mediare su tutto, ma su vita e morte no.I due punti di vista sono ugualmente comprensibili, ma allostesso tempo entrambi poggiano su un arrière-pensée farlocco eanalfabeta. Le sentinelle ritengono che la famiglia debba esserecomposta da uomo e donna che procreano, i contro-manifestantiritengono che le coppie di omosessuali debbano godere deimedesimi diritti dei cittadini eterosessuali (quindi anche spo-sarsi civilmente e adottare).Ma, per quanto riguarda le sentinelle, l’asserto che famiglia egenitorialità abbiano diritto di esistere solo all’interno dell’ete-rosessualità è palesemente mutuato dalla sfera religiosa, che inuno Stato di diritto è tutelata, ma per fortuna limitata. La Bibbiadice tante cose e un fedele dovrebbe rispettarle tutte, ma poi c’èsempre una selezione e ci ritroviamo fra i piedi i soliti adeptidella “religione fai-da-te” oggi in voga grazie alla sistematicaignoranza dei precetti: si difende la vita, ma poi siamo uno deipaesi più corrotti del mondo (il “non rubare” non è mai statomolto popolare). Insomma sono interlocutori incoerenti che lagirano un po’ come vogliono e che non sono molto versati nel-l’argomentazione teoretica (“Dio ha creato Adamo ed Eva, nonAdamo e Adamo” o “La Natura ci ha fatti maschi e femmine”,e altre chicche da sussidiario dell’anteguerra).Mentre, per quanto riguarda i contro-manifestanti, la loro menta-lità emerge chiaramente dalla frase che uno del gruppo indirizzaalle sentinelle: “Scopate di più”, come se tutto si riducesse a unascarsa attività sessuale, che sarebbe come dire che il 41/bis èstato introdotto perché il legislatore usciva poco di casa. Lo “sco-pate di più” è il parente povero (per non dire il parente stupido)di quella forma mentis che derubrica a “rosicamento” ogni cri-tica al proprio operato e alle proprie convinzioni. “Brutta cosal’invidia!” è il ritornello dei coatti sotto assedio: Berlusconi lodiceva ai comunisti invisibili; Matteo Renzi risponde di nongufare, come se le critiche gli fossero mosse unicamente per anti-

patia e non per un ragionamento ponderato. Tutti modi per nondover dare conto delle proprie insufficienze a chi le mette in luce.Le sentinelle che stanno lì a difendere la famiglia (come se qual-cuno volesse proibire il matrimonio fra etero) forse ignoranoche dove da tempo i gay adottano si è notato che i loro figli nonsolo non manifestano maggiori problemi dei bambini apparte-nenti a coppie eterosessuali, ma che addirittura mostrano unapiù marcata sensibilità nei confronti delle istanze del prossimo.Del resto ci sarebbe da chiedersi quali problemi dovrebberovenire a crearsi nel bambino stando a contatto con dei genitoriomosessuali: c’è forse il rischio che diventi omosessuale a suavolta? Se fosse questo il problema dovremmo concludere chesono le famiglie etero a portare all’omosessualità, visto che tuttii gay fino a poco tempo fa hanno avuto un padre e una madre.Viceversa, se i problemi dovessero essere di altra natura,dovremmo comunque fare il paragone col modello eteroses-suale, che non è certamente tutto rose e fiori.Ai contro-manifestanti dovremmo rispondere che il loro approccioalla faccenda è elementare e destrutturato, senza nessuna profon-dità, semplicistico rispetto alle questioni che tira in causa, asservitoalla censura democratica del dissenso (la gente contestata, fino aprova contraria, gode della libertà d’espressione e d’opinione,almeno finché non tracima nell’offesa gratuita). Rispondere “sco-pate di più” significa non aver capito il problema di diritto che sipone in essere e che riguarda i diritti del nascituro: se prima gli toc-cava nascere in una famiglia eterosessuale, oggi c’è un bivio chelo riguarda molto da vicino e lo coinvolge esistenzialmente, ma sucui non può pronunciarsi: un po’ come se i genitori potessero deci-derne il sesso prima della nascita. Non è un problema etico (gli atti-visti ci sono cascati per rimbeccare la Chiesa, ma prima o poi biso-gnerà dirglielo), bensì di diritto, e i sostenitori dell’adozione-gay(espressione giornalistica che non significa nulla, come “divano-gay” o “becco di Bunsen-gay”) si mostrano spesso totalmenteimpreparati a sviscerare questo punto, che non si risolve stendendoal balcone una bandiera arcobaleno. Ma siccome sono temi non negoziabili non ci sarà mediazionee confronto. Ci sarà solo uno scontro dove vincerà la superioritànumerica, la potenza d’impatto e il peso economico-elettorale diuno dei contendenti: e non i valori, come credono i semplici.

>>>> Andrea Romano

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mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni

>>>> eugenio colorni

Federalista, antifascista, filosofo, esponente di spicco del-l’intellettualità ebraica tra le due guerre, ma soprattutto

socialista: tante sono le manifestazioni dell’uomo e della suaattività nella pur breve esistenza che la sorte gli ha riservato.Eugenio Colorni nacque a Milano il 22 aprile 1909 da una fa-miglia della borghesia ebraica. La cerchia delle relazioni, pa-rentali e amicali lo mise ben presto in contatto con alcunedelle più importanti famiglie dell’ebraismo italiano (tra icugini vi erano i Pontecorvo, i Sereni, gli Ascarelli e i Taglia-cozzo). Dopo la fine della prima guerra mondiale Eugenio ela sorella Silvia persero il padre a causa dell’epidemia di“spagnola”.Eugenio frequentò il liceo classico “Manzoni” a Milano es’iscrisse, poi, alla facoltà di filosofia, laureandosi nel1930 con una tesi, discussa con Piero Martinetti suSviluppo e significato dell’individualismo leibniziano.Negli anni dell’università rimase legato in particolare aPiero Martinetti e Giuseppe Antonio Borgese1. Sia Marti-netti che Borgese saranno, nel dicembre 1931, tra i dodicidocenti universitari che rifiutarono il giuramento di fedeltà

Soprattutto socialista>>>> Andrea Becherucci

La vita spezzata di Eugenio Colorni

Eugenio Colorni, nato in famiglia ebraica a Milano il22 aprile 1909, è stato fin da giovane un appassio-

nato e pionieristico studioso di filosofia e soprattutto difilosofia della scienza. Dopo un viaggio a Berlino nel1931 in cui conobbe Benedetto Croce e la giovane ebreaberlinese Ursula Hirschmann (sorella del Premio NobelAlbert Hirschmann), che sposò. Insegnò filosofia invarie città, tra cui Trieste, legandosi tra gli altri aUmberto Saba. Ma anche cominciò la frequentazionedei Gruppi goliardici per la libertà che facevano capo aLelio Basso e a Rodolfo Morandi. A partire dal 1935 cresce il suo impegno politico nellalotta antifascista. Quando il fascismo annienta il gruppotorinese di Giustizia e Libertà, Colorni stabilisce un rap-porto con il Centro interno socialista di Milano(Morandi, Basso, Luzzatto, Maffi e altri), diventandoneuno dei principali dirigenti. A Parigi nel 1937 per il con-gresso internazionale di filosofia, incontra Carlo Ros-selli, Angelo Tasca e Pietro Nenni e comincia a scriveresu Politica socialista e Nuovo Avanti!. Arrestato a Trie-ste nel 1938 come ebreo e antifascista, va in carcere aVarese e viene condannato a cinque anni di confino. Dal1939 al 1941 è così al confine di Ventotene, con ErnestoRossi, Manlio Rossi Doria e Altiero Spinelli. Su questastagione della sua vita scrive con Spinelli (pubblicatipostumi) i sette Dialoghi di Commodo. Aderisce alleidee federaliste e sarà lui a scrivere la prefazione e acurare poi la diffusione del Manifesto di Ventotene cheRossi e Spinelli elaboreranno nel 1941. Grazie a Giovanni Gentile (nella cui collana della San-soni escono sue traduzioni e interpretazioni di Leibnitz)ottiene il trasferimento al confino di Melfi, dove arrivanel 1941 e da cui fugge il 6 maggio del 1943 (riuscendotuttavia nel 1942 ad elaborare a distanza, con Ludovico

1 S. GERBI, Ebreo suo malgrado, in Eugenio Colorni e la cultura italiana

fra le due guerre, a cura di G. Cerchiai e G. Rota, Lacaita, 2011, pp. 57-61, Id., Tempi di malafede. Guido Piovene ed Eugenio Colorni. Una

storia italiana tra fascismo e dopoguerra, Hoepli, 2012, pp. 23-46,nuova ed., (I ed. 1999). Si veda anche il ritratto pionieristico di ElviraGencarelli, Profilo politico di Eugenio Colorni, in Mondoperaio, n. 7,luglio 1974, pp. 49-54, le voci biografiche redatte dalla stessa Gencarelliper il Dizionario biografico del movimento operaio italiano, a cura di F.Andreucci e T. Detti, Editori Riuniti, 1976, vol. II e da E. Garin per il Di-

zionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol.XVII, 1982 ora anche in rete all’indirizzo http://www.treccani.it/enci-clopedia/eugenio-colorni_(Dizionario-Biografico)/ e il contributo di N.Bobbio su Colorni presente nella raccolta Maestri e compagni, Passigli,1984, pp. 203-237 (riprende l’introduzione bobbiana al volume degliScritti di Colorni curato dal filosofo torinese per La Nuova Italia nel1975). Fondamentale anche lo scritto autobiografico di Colorni La

malattia della metafisica, disponibile ora nel volume La malattia della

metafisica. Scritti filosofici e autobiografici, a cura di G. Cerchiai,Einaudi, 2009, pp. 10-44.

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imposto dal regime2. In questi anni Colorni pubblicheràun articolo dedicato a Roberto Ardigò sulla rivista Pietre,pochi mesi prima della chiusura da parte delle autorità(aprile 1928). Durante le vacanze estive, frequentemente trascorse insieme, ilgiovane Eugenio si confrontò spesso in brillanti disquisizioni po-litiche e filosofiche con i tre cugini Sereni, Enrico (1899-1930),Enzo (1905-1944) ed Emilio (1907-1977). Tutti e tre orientatipoliticamente a sinistra (Emilio, studioso di storia dell’agricoltura,sarà attivo nella Resistenza e dirigente del Pci nel dopoguerra),ebbero grande influenza sulla formazione del cugino di poco piùgiovane. In particolare Enzo Sereni fece in modo di coinvolgerlonelle prime esperienze del sionismo italiano; tuttavia dopo pochianni Eugenio si rese conto che il suo interesse per la ricerca delleproprie radici ebraiche si stava affievolendo mentre si facevasempre più vivo in lui il richiamo della politica italiana3.

Il vero sforzo di elaborazione doveva

prodursi dall’interno

Si avvicinò alla militanza politica intorno al 1930. Inizialmente,in un percorso non dissimile da quello di altri giovani, sischierò sulle posizioni di “Giustizia e Libertà”, in un itinerariomolto fluido tra le varie componenti dell’antifascismo demo-cratico non comunista che vedeva spesso fenomeni di osmositra un gruppo e l’altro. Lo stesso Rodolfo Morandi era passatoattraverso varie vicissitudini che lo avevano visto prima nellefile repubblicane e poi in quelle di GL4. Vi sono prove e testi-monianze dell’impegno di Colorni nella diffusione dellastampa giellista e di contatti con il gruppo torinese che facevacapo a Leone Ginzburg e Vittorio Foa.Quando nel 1934 a Milano fu presa l’iniziativa di fondare unCentro interno socialista da parte un gruppo ristretto di militanti

comprendente Rodolfo Morandi, Lucio Luzzatto, Lelio Bassoe Bruno Maffi, sembrò ovvio che fosse necessario far ripartirel’azione appoggiandosi ad una struttura clandestina capace diaffrontare su basi nuove la costituzione di una forza che si ri-chiamasse al socialismo. Sarebbe stato possibile, in questomodo, ripartire da zero, facendo tabula rasa degli errori delpassato.Il Partito socialista aveva creato a Parigi nel 1927, in collabo-razione con altre forze, la Concentrazione antifascista, mentrenel 1930 Psi e Psu, su sollecitazione di Nenni e Saragat, sierano unificati. Un accordo con Giustizia e libertà, siglato nel1931, aveva delegato tuttavia a Gl l’iniziativa socialista inItalia; ma nel 1934 il Partito socialista aveva riaperto il dialogocoi comunisti e in agosto aveva siglato quel patto d’unità d’a-zione che anticipò la svolta dei fronti popolari5. La nuova con-notazione classista assunta dal Psi favoriva, insieme ad altrifattori contingenti, «un carattere “aperto”, spregiudicato, al-l’interno del quale assai più facilmente che nel Pcd’I si sarebbepotuta affermare una nuova concezione di un partito in fieri,in una posizione di critica nei confronti del passato e del pre-sente»6.In un documento interno del dicembre 1935 indirizzatodal centro socialista interno alla Direzione del Psi erafatto il punto della situazione quale si presentava in Italia.Nel rapporto venivano illustrati i punti principali dellastrategia da adottare per recuperare il consenso delle masse

Geymonat, il progetto di una rivista di metodologiascientifica). Latitante a Roma, organizza il Psiup(fusione del Psi con il Movimento di unità proletaria),partecipa nell’agosto del ’43 alla riunione di fondazionedel Movimento federalista europeo a Milano in casa diMario Alberto Rollier, e si trasferisce a Roma per lo svi-luppo della attività nella Resistenza. Ricostruisce laFederazione giovanile socialista, riorganizza e diffondel’Avanti!, partecipa alla creazione della prima BrigataMatteotti. Muore all’Ospedale San Giovanni il 30 mag-gio del 1944, due giorni dopo essere stato oggetto di trecolpi di pistola da parte dei militi della banda Koch.Medaglia d’oro al valor militare nel 1946.

Sulla sua vita politico-intellettuale, Leo Solari, Eugenio

Colorni. Ieri e sempre, Marsilio 1980. Sul suo pensierofilosofico, La malattia della metafisica. Scritti filosofici

e autobiografici, a cura di Geri Cerchiai, Einaudi, 2009.Su entrambi i profili, Norberto Bobbio, Maestri e com-

pagni, Passigli, 1984.

2 H. GOETZ, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fa-

scista, La Nuova Italia, 2000, G. BOATTI, Preferirei di no. Le storie dei

dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi, 2001.3 Numerosi sono i riferimenti a Colorni nel carteggio tra i fratelli Sereni.

Cfr. Enzo Sereni, Emilio Sereni, Politica e utopia. Lettere 1926-1943, acura di D. Bidussa e M.G. Meriggi. La Nuova italia, 2000.

4 A. AGOSTI, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Laterza,1971, pp. 137-170, Id., Colorni e il Centro interno socialista, in Eugenio

Colorni dall’antifascismo all’europeismo socialista e federalista, a curadi M. Degl’Innocenti, Lacaita, 2010, p. 150.

5 L. RAPONE, L’età dei fronti popolari e la guerra (1934-1943), in Storia

del socialismo Italiano diretta da G. Sabbatucci, vol. IV, Il Poligono,1981, pp. 179-411.

6 A. AGOSTI, Colorni e il Centro interno socialista, in Eugenio Colorni

dall’antifascismo all’europeismo socialista e federalista, cit., p. 153.

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popolari. Era messo in rilievo lo stato di sbandamentodelle masse, facile preda della propaganda fascista. Lapresenza di una tale situazione rendeva indispensabile – aldi là di espedienti agitatori (di marca comunista) o attivistici(di segno giellista) – riprendere il lavoro di educazionepolitica delle masse in senso socialista. Per farlo occorrevaperò la formazione di quadri in grado di influire sull’o-rientamento delle masse. Il lavoro che si richiedeva nonpoteva essere svolto da un altro paese o mediante inviatidall’estero. Il vero sforzo di elaborazione doveva prodursidall’interno. Questo faticoso lavoro di ricucitura avrebberichiesto tempo e la disponibilità ad impegnarsi in unosforzo di preparazione politica con la messa a punto di un“orientamento politico comune” in un confronto serratocon i compagni dell’emigrazione7.Nel documento si faceva poi riferimento al rifiuto di un frontepopolare “alla francese”, ma s’invocava la possibilità d’integraresulla base d’un programma condiviso anche alcune formazionipolitiche di segno “borghese” che avessero dimostrato “diaver rinunciato alle posizioni privatistiche del vecchio libera-lismo”, e perfino taluni esponenti del liberalismo prefascista:con ciò provocando la reazione polemica di Morandi, che ve-deva in questa “contaminazione” un potenziale pericolo d’i-naridimento della politica classista.

Ogni forma di collaborazione

non poteva andare oltre

alla comune battaglia per la riconquista

delle libertà democratiche

Nel 1935 Colorni - che aveva sposato Ursula Hirschmann,un’ebrea berlinese allevata come protestante che militava inun’organizzazione studentesca rivoluzionaria, e da cui avràtre figlie, Silvia, Renata ed Eva - abbandonò Gl e iniziò, aTrieste, dove insegnava all’Istituto magistrale Carducci, adavvicinarsi al Centro interno socialista, in cui cominciò benpresto ad operare clandestinamente. In questo stesso torno ditempo collaborò a Padova con Eugenio Curiel8. La sua lineaera ben espressa nella nota che indirizzò alla Direzione del Psinel febbraio-marzo 1936. In questo documento erano illustratedal giovane dirigente politico alcune osservazioni riguardo adue problemi: i termini e i limiti entro cui era legittimo instau-rare rapporti di collaborazione con i partiti borghesi e leforme di cooperazione da stringere con gli altri partiti della si-nistra operaia.

Quanto al primo dei due problemi, Colorni precisò che la col-laborazione con le forze politiche antifasciste d’ogni altra ten-denza che non fosse quella della sinistra classista dovevabasarsi su poche ma precise regole: ogni forma di collaborazionenon poteva andare oltre alla comune battaglia per la riconquistadelle libertà democratiche. Diversa avrebbe potuto essere lasituazione nella costituzione di un vero e proprio frontepopolare che avesse visto la partecipazione delle classi medie;dal momento, però, che l’attualità non consentiva di prevederegli sviluppi di un’eventuale collaborazione con le classi medie(al momento irrealizzabile per la mancanza dei suoi presup-posti), del problema ci si sarebbe fatti carico solo se e quandole condizioni per quest’alleanza si fossero verificate.Ben più complessa risultò essere la “collaborazione competi-tiva” con il Partito comunista. In questo caso Colorni racco-mandò al partito socialista di dedicarsi con efficacia alla pre-parazione rivoluzionaria. Quest’ultima doveva possedere uncarattere spiccatamente di classe e avrebbe dovuto coinvolgere«tutti coloro che dal fascismo, dal capitalismo e dalla guerrahanno da soffrire non solo in quanto uomini pensanti, manelle loro persona, nei loro interessi concreti e quotidiani»9.La conquistata consapevolezza che il fascismo era la ragione,diretta o indiretta, delle loro sofferenze avrebbe inevitabilmenteportato le masse alla ribellione contro il regime. In questa bat-taglia era ragionevole, per Colorni, servirsi di ogni mezzo,lecito o illecito, dal più insignificante al più organizzato; nédovevano essere trascurate le manifestazioni di dissenso su-scitate da rivendicazioni di tipo economico.Restava da risolvere il problema del rapporto tra socialisti e co-munisti, tra “formazione di quadri” e “lavoro di massa”. Il Fronteunico continuamente invocato dai comunisti non poteva, per Co-lorni, «limitarsi a ricercare l’adesione di questo o quel gruppo dilavoratori del Partito alleato, per una particolare azione»10. Era ri-chiesta, piuttosto, una linea d’azione condivisa, sedimentata instrutture durevoli con la «formazione comune di organi dirigenti»11.

7 Il Centro socialista interno alla Direzione del PSI, dicembre 1935, inDocumenti inediti dell’archivio Angelo Tasca. La rinascita del socialismo

italiano e la lotta contro il fascismo 1934-1939, a cura di S. Merli, Fel-trinelli, 1963, (Pubblicazioni dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli), pp.153-154.

8 G. FRESU, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, Odradek,2013, in particolare le pp. 52-64.

9 Agostini (E. Colorni) alla Direzione del PSI, febbraio-marzo 1936, inDocumenti inediti dell’archivio Angelo Tasca. La rinascita del socialismo

italiano e la lotta contro il fascismo 1934-1939, cit., p. 190.10 Ivi, p. 191.11 Ibidem.

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L’amicizia fra i tre uomini, Colorni, Spinelli

e Rossi, non sboccerà immediatamente,

ma avrà bisogno di tempo per maturare

Quando nell’agosto 1936 il Partito comunista lanciò dalle pa-gine de Lo Stato operaio la politica della mano tesa ai “fratelliin camicia nera”, Colorni reagì alla provocazione con unarticolo che apparve sul Nuovo Avanti! nell’ottobre dellostesso anno. In questo scritto analizzò la proposta di collabo-razione con i fascisti in termini critici: non era possibileprendere contatti con militanti del regime, seppur insoddisfatti,proponendo un’alleanza tattica dichiarandosi per quello che siera in realtà (ossia oppositori irriducibili del fascismo). Untale approccio avrebbe potuto condurre, per Colorni, soltantoalla carcerazione. Si sarebbe potuto invece provare a sollecitarei fascisti di “sinistra” delusi a unirsi alla protesta per la

mancata realizzazione delle promesse contenute nel programmafascista di Piazza San Sepolcro del 1919: ma sarebbe occorsotroppo tempo perché le conseguenze di tale presa di coscienzapotessero maturare nella società italiana. Sarebbe stata, però,possibile «la propaganda non presso i fascisti, ma nell’ambitodel fascismo12; in questo modo si sarebbe potuto far passaremessaggi e parole d’ordine di classe e sarebbe stato piùsemplice evidenziare le contraddizioni del regime. Colorniconcluse che per fare «questo non è però necessario né oppor-tuno accordarsi col fascismo. Basta porsi sul suo terreno e ri-conoscerlo come il normale stato di cose esistente, propugnandoil cambiamento all’interno di esso, senza peraltro dimenticarela nostra essenza e i nostri ultimi fini»13.Del resto il rapporto di Colorni con i comunisti è ben sintetizzatoda Gaetano Arfè, secondo cui anche dopo il varo della politicadei fronti popolari da parte del VII congresso dell’Internazionalecomunista Colorni tiene ferme le sue riserve nei confrontidello stalinismo, riafferma le ragioni dell’autonomia socialista,porta nell’azione la generosa fiducia nel fatto che l’unità d’a-zione, in quanto vale a spegnere la rissa tra i due partiti operaie a sbarazzare il terreno dal settarismo comunista, darà laspinta necessaria, inarrestabile perché rispondente a una ne-cessità politica, alla formazione di un possente movimentounitario che potrà consentire alle masse di sviluppare perintero il loro potenziale rivoluzionario14.Nell’aprile 1937 la rete clandestina del Centro interno socialistafu sconvolta da una serie di arresti che videro poi deferiti alTribunale speciale, tra gli altri, Rodolfo Morandi e LucioLuzzatto. Nell’estate dello stesso anno Colorni si recò a Parigicon la copertura della partecipazione a un congresso interna-zionale di filosofia, in realtà con l’intenzione di prendere con-tatto con i compagni presenti nella capitale francese per rico-stituire nuovamente il Centro interno, di cui diventerà il nuovoresponsabile. La polizia era però già sulle sue tracce. Rientratoin Italia, perse il lavoro d’insegnante a Trieste per l’emanazionedelle leggi razziali e l’8 settembre del 1938 fu arrestato. Con-dannato a cinque anni di confino, fu inviato a scontarli a Ven-totene.

12 Agostini (E. Colorni), Intorno al manifesto del PCdI. La lotta all’interno

del fascismo, in Il Nuovo Avanti!, Parigi, 31 ottobre 1936, ora in S.MERLI, Fronte antifascista e politica di classe. Socialisti e comunisti in

Italia, 1923-1939, De Donato, 1975, p. 115.13 Ibidem.14 G. ARFE’, Eugenio Colorni l’antifascista, l’europeista, in Matteotti,

Buozzi, Colorni perché vissero, perché vivono, a cura di A. Forbice,Franco Angeli, 1996, p. 68.

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Sull’isola pontina si aprì una nuova fase dell’esistenza edella riflessione di Colorni. Il giovane intellettuale vi sbarcònei primi giorni del gennaio 1939 dopo aver già fatto alcunimesi di carcere tra Trieste e Varese. Pochi mesi dopo, aluglio, si concentrò a Ventotene – a causa del trasferimentoda Ponza – un gran numero di detenuti politici di spicco, tracui molti comunisti (mentre il giellista Ernesto Rossi arriveràin ottobre). Tra i comunisti c’è anche un uomo che cercauno sbocco nuovo alla sua riflessione teorica e politica: sitratta di Altiero Spinelli. L’amicizia fra i tre uomini, Colorni,Spinelli e Rossi, non sboccerà immediatamente, ma avrà bi-sogno di tempo per maturare. Spinelli è forse quello più se-gnato dalle esperienze del carcere e del confino, ancheperché il suo progressivo distacco dal marxismo avevaportato alla sua espulsione dal Pci. Come ben rilevato dalbiografo di Spinelli, questa circostanza ne aveva fatto unasorta di “non-persona” agli occhi dei compagni di prigioniarimasti fedeli alle direttive del partito15.

Circondato dal sospetto tra i dirigenti,

il messaggio federalista fu invece accolto

con interesse tra i più giovani

Quando l’amicizia fra i tre si fece più stretta, cementata, oltreche dalla simpatia umana, anche dalla condivisione degli inte-ressi di studio, si trasformò in un vero e proprio cenacolo.Sull’isola si respirava un clima da reclusione (non bisognamai dimenticarlo): eppure talvolta questo era rallegrato dascherzi e battute che accompagnavano il trascorrere dei giorni.Poi lentamente l’atmosfera mutò lasciando uno spazio sempremaggiore al lavoro politico. Siamo nel 1941, quando da unaserie di serrati confronti tra i tre amici avrà origine il documentoPer un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto (piùconosciuto in seguito come Manifesto di Ventotene) cheColorni curerà e di cui scriverà l’introduzione nella primaedizione uscita clandestinamente a Roma nel 1944 edita dalMovimento italiano per la federazione europea. Purtroppo pertroppi anni, grazie anche a una lettura sommaria e tendenziosadella memorialistica fin lì disponibile, le ricostruzioni di cuidisponevamo lo davano come frutto dell’elaborazione intel-lettuale dei soli Spinelli e Rossi. Al contrario, come ricordaGraglia, “di trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione èEugenio Colorni, che partecipò alle discussioni preparatoriealla stesura del Manifesto assieme a poche altre persone, edebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimoloe di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista,

verso i due autori del documento, fino al suo trasferimento aMelfi, nell’ottobre del ’41 – benché comunque i contatti noncessassero del tutto”16.Infatti dopo la nascita della terzogenita Eva e per intercessionedi Giovanni Gentile, a Colorni fu concesso il trasferimentosul continente, a Melfi: da dove, nel maggio 1943, riuscì aevadere per raggiungere Roma. Dopo la fondazione del Mo-vimento federalista europeo a Milano a fine agosto 1943, Co-lorni a Roma era ormai impegnato nella resistenza armatacontro i nazifascisti e agiva in clandestinità. Aveva aderito alPsiup, originato dalla fusione (25 agosto 1943) tra il Psi e ilMovimento di Unità proletaria fondato da Lelio Basso aMilano il 10 gennaio 1943. Per la nuova formazione politicail federalismo europeo non costituiva però una priorità, e puraccettandone l’inserimento nella dichiarazione programmaticanei fatti continuò a contrastarlo, temendo che la lotta di classepotesse finire subordinata alla nuova parola d’ordine. Circon-dato dal sospetto tra i dirigenti, il messaggio federalista fuinvece accolto con interesse tra i più giovani. Tra costoroerano c’erano Leo Solari, Giuliano Vassalli, Tullio e AlbertoVecchietti, Mario Zagari e Achille Corona. Saranno gli stessiche rifonderanno la Federazione giovanile socialista riunitisotto le bandiere del foglio Rivoluzione socialista, seguiti dal-l’occhio vigile ma benevolo di Eugenio Colorni17.Colorni morì nel pieno della battaglia per la liberazione, uc-ciso il 28 maggio 1944 da militi della banda Koch a Roma.Nenni lo commemorerà nel suo diario con queste parole:«Non era marxista e di ciò avevamo sovente disputato. Maamava il partito e l’aveva servito con entusiasmo già daitempi del Centro interno di Milano. […] La sua perdita èper noi irreparabile ed è dolorosa per la cultura italiana edeuropea»18.

15 P.S. GRAGLIA, Altiero Spinelli, Il Mulino, 2008, pp. 115-124, Id.,Colorni, Spinelli e il federalismo europeo, in Eugenio Colorni dall’anti-

fascismo all’europeismo socialista e federalista, cit., pp. 209-249.16 P.S. GRAGLIA, Colorni, Spinelli e il federalismo europeo, in Eugenio

Colorni dall’antifascismo all’europeismo socialista e federalista, cit.,pp. 215.

17 S. GERBI, Tempi di malafede. Guido Piovene ed Eugenio Colorni. Una

storia italiana tra fascismo e dopoguerra, cit., pp. 174-175, L. SOLARI,I giovani di “Rivoluzione socialista”, IEPI, 1964, Id., I giovani socialisti

nel crocevia degli anni ’40, a cura e con introduzione di D. Conti,Odradek, 2009. Cfr. anche P. S. GRAGLIA, Il socialismo federalista di

Eugenio Colorni, in Storia e percorsi del federalismo, a cura di D. Predae C. Rognoni Vercelli, Il Mulino, 2005, t. II, pp. 861-891.

18 P. Nenni, Tempo di Guerra fredda. Diari 1943-1956, a cura di G. Nennie D.Zùcaro, prefazione di G. Tamburrano, Milano, SugarCo, 1981, p.78, annotazione del 31 maggio 1944.

Avolte una celebrazione istituzionale può caricarsi disignificati ed essere vissuta collettivamente come un

momento di riflessione denso di significati. E’ raro, tutt’altroche scontato: ma può accadere che - nei tempi della tweetpolitic esasperata, istintiva, comunicativa e spesso superfi-ciale - una moltitudine di cittadini e di associazioni trovinouna qualche ragione per ritrovarsi per introiettare nella gelidaattualità il calore delle pulsioni che hanno animato le idee el’azione politica di uomini e donne che hanno dato la vita perconsegnarci ciò di cui oggi noi godiamo. E’ ciò che è acca-duto a Melfi il 25 aprile 2014. Nonostante la prorompente spinta alla liquefazione delle ideee dei valori a vantaggio di una sempre più diffusa pratica digestione afinalistica e pragmatica del potere e delle istitu-zioni in generale, a Melfi, dove Eugenio Colorni ha dimoratocome confinato politico tra il ’41 e il ’43, c’è ancora una“sacca di resistenza” che avverte il bisogno di anteporre leidee nel processo decisionale e nelle scelte. Quella sacca diresistenza, in occasione del 25 aprile, è venuta spontanea-mente allo scoperto nelle strade della città, negli istituti sco-lastici e nei luoghi dove si è svolta un’articolata manifesta-zione che ha avuto un alto valore culturale.La creatività di Franco Avenoso, autore di un romanzogeniale che ha attirato la curiosità e l’interesse degli studenti,è stato l’ingrediente che ha stimolato interesse alla ricerca,anche per distinguere tra cronaca e fantasia. Quanto c’è divero, ad esempio, sull’episodio del processo subito a Melfi

da Eugenio Colorni e sui personaggi descritti dall’autore?L’episodio, che sappiamo essere realmente accaduto, vienedescritto attraverso i personaggi coinvolti i cui particolarisuscitano suggestioni che faremmo bene a recuperare ditanto in tanto. La tracotante prepotenza del podestà cittadinoche il 18 giugno 1942 (con l’ordinanza n. 8461) prescriveval’esposizione della bandiera nazionale anche al confinatopolitico Colorni in occasione della visita a Melfi di un mem-bro del direttorio nazionale del Partito, materializzava plasti-camente nella realtà della comunità locale le caratteristichedel regime fascista: la forza di una presunta investitura popo-lare, rappresentativa di una larga maggioranza del paese,convinta di avere un ruolo nella storia, che si materializzavanella persona del suo leader indiscusso per il suo diretto rap-porto con il popolo, supportato dall’unico partito in circola-zione fatto su misura.Colorni, che con dignità e ostinazione opponeva resistenzapassiva, astenendosi dal compiere un atto di prostrazione alregime tanto umiliante quanto irragionevole, nonostante ladistanza del tempo ancora oggi ci sollecita ad approfondirela qualità e la consistenza, la forza ovvero la debolezza, diogni manifestazione del potere costituito, anche quandoviene esercitato da persone cui viene attribuita un indiscuti-bile consenso proveniente da una larga legittimazione popo-lare-elettorale. Il potere, si sa, per sua natura tendenzial-mente si traduce in una costrizione, nell’utilizzo della forzadelle istituzioni e nell’applicazione delle leggi, ed a volte

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L’esilio di Melfi>>>> Livio Valvano

Il 24 aprile si è tenuto presso il Centro culturale “Francesco Saverio Nitti” di Melfi – per

iniziativa dell’Amministrazione della Città, della Fondazione e della Associazione intitolate a

Nitti - un convegno di rievocazione della figura di Eugenio Colorni, dove - dal 1941 al 1943,

dopo Ventotene – egli fu confinato.

La rievocazione ha preso spunto dal libro del melfitano Franco Avenoso “Silvia e Renata. Melfi

1963” (prefazione di Gianni Pittella, pubblicato dall’autore, stampato da Cromografica Roma

nel 2013).

appare prepotente anche in un sistema democratico.Colorni, rappresentativo in quel momento, di una minoranza,di una sacca di resistenza intellettuale e popolare aggrappataai valori, agli ideali, ma schiacciata dalla forza del leader, delpartito, delle istituzioni, delle forze dell’ordine, dello Stato ingenerale, e comunque una minoranza alla fine dimostratasiinvincibile, perché alimentata da quegli ideali vissuti comeirrinunciabili, addirittura anteposti rispetto al bene supremo,la propria vita.E infine il Pretore, il magistrato cui viene affidato il compitodi decidere sulla denuncia del Podestà. Il personaggio tra-sforma il caso in un capolavoro, nella realtà come nelromanzo. Un uomo apparentemente insignificante, i cuiricordi, trasferiti nel libro dalla fantasia dell’autore, dise-gnano un personaggio “debole”, insicuro: tanto insicuro datenere reclusa sotto chiave la moglie nella sua casa di resi-denza per prevenire relazioni “indesiderate”. Gli atti ufficialiconfermano l’assoluzione di Colorni e la sconfitta del goffoPodestà. Il piccolo magistrato diventa un gigante, trova nellasua apparente debolezza la forza eversiva di proteggere l’ir-rinunciabile valore della dignità umana dell’imputato, sotto-

posto a giudizio dal regime per non aver voluto subire unainaccettabile umiliazione. La sconfitta della forza irragione-vole dinanzi all’apparente debolezza fisica, alla delicatezzadegli ideali.Un piccolo episodio, una finestra nel tempo, un viaggio nellacoscienza collettiva, nell’intimo dell’oggi sempre piùcostretto dalle prevaricazioni e dagli egoismi di questotempo. Un’occasione per discutere oggi di difesa dellalibertà, di estensione della libertà oltre la nostra persona, lenostre famiglie, le nostre città, la nostra frontiera, di integra-zione tra nazioni, di Europa; argomenti che suscitano senti-menti di paura nelle piccole città dove il fenomeno dell’inte-grazione con gli stranieri, e in particolare con i nuovi popolieuropei, induce egoistica diffidenza.E’ compito delle istituzioni e della politica recuperare ilsenso e le ragioni dello stare assieme, soprattutto in questotempo della comunicazione short, pericolosamente accompa-gnato dalla ritirata dei partiti politici e dalla riconfermatatendenza populista di una nazione che oggi più che mai habisogno di quella sacca di resistenza militante che ha il com-pito di salvaguardare valori e ideali irrinunciabili.

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La rievocazione di Eugenio Colorni a Melfi ha un significatomolto rilevante sia dal punto di vista del recupero alla memoria

collettiva di una delle figure più importanti tra i martiri della lotta diliberazione perché rievoca anche una vicenda meno nota, cioè i dueanni di confino di Colorni a Melfi.Sotto questo profilo dobbiamo ringraziare anche chi, letterariamente,ci ha offerto l’occasione, cioè Franco Avenoso, l’autore di questoromanzo (Silvia e Renata. Melfi, estate 1963) che racconta di unviaggio immaginario. Si immagina che le figlie di Colorni - Silviae Renata - tentino di recuperare, attraverso il racconto di testimonidell’epoca, la fase che precede il sacrificio del padre. Cioè la fasedella vita di un confinato, qui a Melfi, caratterizzata da alcuniepisodi, anche imprevedibili, come la vicenda giudiziaria locale chefu, tutto sommato un incidente del Podestà di allora che non riuscì acomprendere che bisognava valutare quel che accadeva con ilportato di una storia che uno come lui non poteva nemmenopercepire. A Colorni a un certo punto si offre l’occasione di scappare,di andare fuori da Melfi, di tornare a Milano, di diventare protagonistaal tempo stesso del rilancio del Partito socialista e della diffusionedel manifesto dei federalisti di Spinelli con cui era ancora in strettocontatto (dopo il comune confino di Ventotene). Poi di andare aRoma ad organizzare la presenza dell’Avanti! con l’importanteruolo di redattore capo. Purtroppo per effetto di questo suo ulterioree più diretto impegno, anche legato alla necessità di coprire icolleghi che con lui animavano la lotta politica clandestina, Colornisi espone quotidianamente nelle settimane che precedono la libera-zione di Roma. Pensare che solo qualche giorno dopo Bonomisarebbe diventato presidente del Consiglio, mentre da poco erastato avviato il governo di unità nazionale a Salerno. Nel governo retto da Badoglio sedeva una personalità del valore diBenedetto Croce, che ritroviamo anche come interlocutore diEugenio Colorni nei suoi studi critici sulla estetica crociana.Benedetto Croce è colui che dà formalmente il benvenuto aglialleati a Roma, inglesi ed americani; e che diventa il ponte simbolicoprincipale di questo passaggio storico.Colorni, socialista, è ebreo (lo dico per sottolineare un dato che puòaver influenzato la persecuzione iniziale su di lui). All’inizio erasionista. Poi invece abbraccia più direttamente il socialismo, conuna parentesi di impegno con il movimento di Giustizia e Libertà,

che tuttavia diventa in gran parte nucleo fondatore del secondo so-cialismo italiano, al punto che è difficile dire dove ci sia continuitàe dove discontinuità in questo tipo di esperienza. Colorni è unodegli organizzatori della nuova fase del Partito socialista italiano, esicuramente è da indicarsi come una delle personalità che più sistava impegnando per creare le condizioni della ripresa democraticanel nostro paese, confermando una interpretazione, in realtà pocoripresa dagli storici, secondo cui questa ripresa democratica è co-minciata un po’ prima delle date che noi registriamo attraverso lacronologia degli episodi della Resistenza. Infatti in vari segmentidella vita politica e sociale italiana e presso alcuni ambienti culturaliriprende una nuova trama di rapporti, con la fiducia nel crollo delfascismo - che anima quella trama - senza saperne la data certa.La classe dirigente post-fascista emergente non aveva avuto a chefare con la fase pre-fascista, e Colorni è l’espressione di questa fasenuova. Una delle espressioni interessanti e moderne che infatti siesprime con il Manifesto di Ventotene e che sicuramente prendespunto, nella sua percezione della politica e dei problemi dell’Italia,dai danni della prima guerra mondiale.Lo era anche culturalmente, perché Colorni era un filosofo importante,che parte da un approccio quasi neo-idealistico e poi se ne distacca cri-ticandolo, rivisitandolo e abbracciando la strada della filosofia della

scienza. Colorni, insieme a Geymonat, ridà fondamento alla costruzioneteorica del sapere scientifico. Nella sua vita gli è capitato di essereospitato in una collana diretta da Giovanni Gentile, nella Sansoni, inun momento della sua vita in cui l’attenzione di alcune figure dicontrollo del Regime forse lo aiuta. Ma è evidente che quell’attenzionenon ne modifica il carattere antagonistico nei confronti del Regime.Insomma Colorni è uno di quegli intellettuali tutti di un pezzo chenon ha fatto concessioni e sconti e si è buttato a capofitto primanella lotta clandestina e poi nell’avvio in embrione della lottapolitica: e poi ha lasciato la politica con il sacrificio.Nel libro di Roberto Battaglia è scritto: “Si uccide sul luogo, ripetendoi fasti del primo squadrismo fascista. Così cadde il 27 maggio, neipressi di piazza Bologna, in via Livorno, assassinato dagli sgherri diKoch, mentre si recava ad un appuntamento clandestino, EugenioColorni, redattore dell’Avanti!, uomo di scienza di primo piano e nelsuo nome si chiude la lista degli intellettuali caduti a Roma sotto ilpiombo nazista”.

L’antifascista moderno >>>> Giampaolo D’Andrea

>>>> eugenio colorni

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Questa rievocazione si svolge nel Centro culturale Nitti

di Melfi, ristrutturato da alcuni anni - dopo una lungaincuria - e capace di contenere una ormai sperimentatachiamata della migliore cittadinanza locale e territorialeattorno a temi storici, politici, culturali, economici e civiliche fanno capire che la partecipazione non è argomentoretorico, in generale in Italia e in questo Mezzogiorno in par-ticolare. Parto da qui, per parlare di figure come quella di Eu-genio Colorni, per una ragione precisa. Quando FilomenaNitti concepì negli anni ‘60 l’idea - poi finanziata dalla Cassaper il Mezzogiorno - di un grande centro attrezzato (2500metri quadrati di sale per convegni, formazione e attività cul-turali) qui accanto alla casa natale di suo padre, lo scopo diquesta struttura era legato all’idea di combattere l’analfabetismo.Quello vero - del deficit specifico di lettura e scrittura - alloraancora affliggente l’Italia e in particolare l’Italia meridionale.Mancò la volontà politica e sociale per realizzare poi inpratica quella missione e questo Centro fu per anni un monu-mento al deficit civile del paese. Nel portarne a termine, negli anni recenti, la ristrutturazione- grazie alla collaborazione con i sindaci della città - il nostroobiettivo si è aggiornato. Compito fondamentale del Centrosarebbe stato quello di combattere appunto quel deficit civile,ossia il nuovo vero analfabetismo di ritorno, che non è soloquello meritoriamente sempre denunciato da Tullio De Mauro,il quale ci dice che due terzi degli italiani non sono in grado diinterpretare la prima pagina di un quotidiano. Ma è anchequello di una larga maggioranza di italiani che ha reso possibileil taglio della memoria e l’assopimento del lavoro critico sullastoria: ciò che ha caratterizzato in modo drammatico gli anniche vanno sotto il nome di “seconda Repubblica”.Il sonno della memoria intitolò ai primi degli anni ‘90 un suobel libro Barbara Spinelli, la sorella della nostra gradita ospitedi oggi, Renata Colorni (figlie entrambe della stessa madre,Ursula Hirschmann, e di due padri - che sono stati anche i“padri” del Manifesto di Ventotene insieme a Ernesto Rossi -come Eugenio Colorni e Altiero Spinelli). Così che questo

Centro - arricchendosi di biblioteche, di documentazione au-diovisiva, di un intenso lavoro con le scuole - è diventato unluogo di attenzione a valori fondanti nel raccordo tra tradizionee futuro.La memoria come motore del ripensamento sulle condizioniculturali e di sviluppo della nostra società e delle nostreistituzioni. Dunque come lavoro sull’identità e sullo spaziopossibile per la riscossa. Aperto al pluralismo delle miglioritradizioni della cultura politica, nel solco di un grande pensierosulla storia del nostro paese che si deve all’ingegno e alla pro-fondità culturale di Francesco Saverio Nitti. Ma anche latensione al cambiamento, che è parte ineliminabile di quelpensiero e dei caratteri fondamentali di una generazione diitaliani e di europei. Lo sguardo ai momenti cruciali dellanostra storia è diventato così qui appuntamento popolare. Evi-dente che lo è stato per l’anniversario - ogni anno - della Libe-razione, nelle forme meno retoriche e più in “presa diretta”,cioè con i testimoni importanti che le nostre condizioni orga-nizzative ci hanno permesso di attuare. E anche con l’aiutoappassionato di figure competenti, come lo è stato in questianni Giampaolo D’Andrea, che ha introdotto sapientemente inostri lavori e che su Colorni ha già delineato una cornice in-terpretativa importante.Voglio limitarmi solo a una riflessione che si connette con lapremessa che ho fatto. Attorno al 25 aprile qui abbiamoparlato di figure fondanti la nostra cultura della libertà e

della democrazia. Lo stesso Nitti - che visse il fascismo in unesilio di lotta e di incessante iniziativa internazionale - e poiPertini, di cui, accogliendo qui con gioia la biblioteca personale,abbiamo ricordato il contributo alla rete dell’antifascismoitaliano in Francia dedicando a questa complessa pagina distoria una sala permanente del nostro Centro. E poi le donnenella Resistenza, con Marisa Ombra. E ancora la figura di DeGasperi, tratteggiata in modo straordinario da Piero Craveri -membro del nostro comitato scientifico - nella sua recentebiografia. E oggi Eugenio Colorni, con un nesso molto forte,quello del confino a Melfi - dopo quello di Ventotene - di

Profilo di un visionario>>>> Stefano Rolando

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Colorni, di Ursula Hirschmann e delle loro piccole figlieSilvia, Renata e Eva: un confino terminato con la fuga nel ‘43per riconnettersi alla lotta di resistenza che lo porterà all’agguatomortale attorno a piazza Bologna a Roma il 28 maggio del‘44, ad opera della famigerata banda Koch.

Il pensiero fisso all’Italia futura, a quella

che sarebbe potuta diventare solo

se italiani coraggiosi si fossero assunti

la responsabilità di una drammatica

discontinuità

Questi racconti, che qui abbiamo potuto fare sempre grazie atestimoni speciali, non hanno riguardato tanto “uomini dipotere” - per cui spesso si fanno celebrazioni - ma soprattutto“uomini visionari”. In che senso? Nel senso di mettere la lorovita e le loro famiglie a repentaglio, con il pensiero fissoall’Italia futura, a quella – non immaginabile dai più - chesarebbe potuta diventare solo se italiani coraggiosi si fosseroassunti la responsabilità di una drammatica discontinuità.Ecco allora che le pagine di Nitti sulla democrazia e sull’Europaci raccontano l’uomo di visione e non solo l’uomo di potere

che era stato. Così come gli spunti che ha introdotto GiampaoloD’ Andrea ci riconsegnano in Colorni un giovanissimo pionieredel cambiamento della filosofia italiana, dall’idealismo allafilosofia della scienza (e ci dicono, in modo per noi consolatorio,che si poteva essere redattore-capo dell’Avanti! ed essere altempo stesso un uomo di scienza e di cultura, oltre che di co-raggio, cosa che lenisce la deriva del nome dell’Avanti!

associato a persone come Lavitola): ci riportano ai nessi dichi, con diverse appartenenze, era capace di sognare un paeseinesistente nella realtà senza aspettarselo come dono dal caso.Per Colorni la lotta fu bisogno etico. Per De Gasperi fu laforza della tessitura di una immaginazione maturata nella pe-nombra della biblioteca Vaticana. Storie diverse, Italie diverse,destini diversi. Quanto a Melfi il confino fu comunque lungoe il racconto che ci ha fatto - mescolando testimonianze efantasie - Franco Avenoso nel suo libro contiene alcunepagine esemplari, come quella della figura del pretoresospettato di conformismo e capace invece di una sentenza inpunta di diritto.Di Colorni ora parleranno con competenza chi ne ha studiatoil pensiero filosofico, chi il pensiero politico, chi il suocontributo all’idea di Europa. Io vorrei solo ricordare un libroche conservo con la dedica di un grande amico che fu LeoSolari: una biografia politico-culturale di Eugenio Colorniedita da Marsilio dal quale ho annotato per la giornata di oggiqueste parole: “Tutto in lui si legava in modo unitario: ilprofondo sentimento libertario, la volontà di comprendere eaccettare l’altro e il diverso, il ruolo da attribuire ai movimentispontanei delle masse, l’intensa vocazione internazionalista,una concezione dell’azione intesa come testimonianza e,insieme, come uno dei modi della ricerca del vero”. Diversi,per esempio, furono certamente Colorni, Spinelli e Rossi nelloro accettarsi e concepire un disegno rivoluzionario. PierVirgilio Dastoli lo dirà con l’evidente autorità di chi hadedicato molta riflessione a quel “Manifesto”.A noi resta oggi il conforto di una scelta che cade a ridossodelle ormai imminenti elezioni europee: che da qui nonpossono che essere viste come speranza che non prevalganoistanze che accentuino le derive nazionaliste, quelle xenofobe,quelle populiste, quelle che - a tenaglia da sinistra e da destra- hanno imbrigliato e marginalizzato la cultura federalista.Come ha scritto appunto Leo Solari: “Mentre non vi è statauna resistenza europea vi è stato tuttavia un europeismo dellaResistenza, di cui Colorni si è reso interprete e che ha rappre-sentato l’espressione più originale e insieme più autenticadella lotta di liberazione”.

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>>>> eugenio colorni

Mi è capitato spesso, nelle conversazioni universitarie enegli incontri con le scuole, di evocare le idee concepite

fra il 1935 ed il 1945 da Eugenio Colorni, Ernesto Rossi eAltiero Spinelli sulle cause della guerra e sul metodo per rag-giungere la pace e la democrazia, idee tradotte nel 1941 nelManifesto di Ventotene “per un’Europa libera e unita”. Miha colpito la convinzione di molti giovani sull’attualità delpensiero del socialista ebreo Colorni, del radical-liberale Rossie del “meteco della democrazia” Spinelli, e specialmentel’idea che la proposta di creare un potere democratico europeo,immaginata per offrire una soluzione permanente a problemicomuni degli europei alla fine della seconda guerra mondiale,sia ancora più valida oggi per affrontare altri e nuovi problemicomuni.Ho scoperto in molti giovani, ben più che nei dirigenti politiciche si trovano al cospetto della crisi europea e si dibattonoinutilmente alla ricerca di una via d’uscita, un pensiero chepotrebbe essere formulato negli stessi termini in cui esso fuformulato da Spinelli nel 1957: “Il progetto di una federazioneeuropea non era un bell’ideale cui rendere omaggio peroccuparsi poi d’altro, ma un obiettivo per la cui realizzazionebisognava agire ora, nella nostra attuale generazione. Non sitratta di un invito a sognare, ma di un invito a operare”.Ho scoperto anche, nelle reazioni dei giovani, la condivisionedi un’altra idea essenziale sulla natura della “sua” federazione:essa “non si presenta come un’ideologia, non si propone di co-lorare in questo o quel modo un potere esistente […] è lasobria proposta di creare un potere democratico europeo, nelcui seno avrebbero ben potuto svilupparsi ideologie, se gliuomini ne avessero avuto bisogno, ma assai differente rispettoa esse […] il riconoscimento della diversità e della fratellanzadelle esperienze nazionali dei popoli europei, in mezzo alle cuilingue, ai cui scrittori e pensatori vivevamo da anni senza maisentirci più vicino a loro se italiani, più lontani se stranieri”.La presentazione ragionata dell’alternativa federale propostadal Manifesto si distingue così sia dal federalismo ideologicodi tipo proudhoniano o mazziniano, sia dalla concezione di chi

ha ritenuto e ritiene che la battaglia federalista sarà vinta solose si porterà a compimento la teoria federalista come un’ideologia,con un proprio aspetto di valori costituzionali ma ancheuniversali (la pace kantiana) e storico-sociali (il superamentodella divisione del genere umano in nazioni e classi).II Manifesto fu il punto d’incontro fra l’interesse di Spinelliper la libertà dell’individuo e quella della società, ma ancheper l’idea che questa lotta non poteva fermarsi ai confini dovesi stava costruendo il socialismo (per Spinelli “l’Urss si erascrollata progressivamente da sé le sovrastrutture internazionalistediventando essa stessa nazionalista”), le critiche di Rossi alcapitalismo, al sindacalismo, al comunismo, col suo progettodi “abolire la miseria” innestando un pezzo di costituzioneeconomica comunista in un’economia di mercato, e le analisisvolte fin dal 1935 da Eugenio Colorni nel suo I problemi

della guerra.

Il laboratorio di Ventotene>>>> Pier Virgilio Dastoli

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Proprio in questo testo, che precorreva le analisi di Rossi eSpinelli, Colorni scriveva che la guerra avrebbe portato allacatastrofe del fascismo come sistema europeo e avvertivacome fondamentale il ruolo della politica estera per raggiungerela pace e la democrazia, che legava all’affermazione della ri-voluzione in Italia e nei paesi vicini.Spinelli scrisse poi di Colorni nella sua autobiografia Come

ho tentato di diventare saggio: “Egli è una delle personescomparse da molti anni, dinanzi alla memoria delle quali miinchino, con affetto nostalgico perché lui e Rossi sono stati idue più grandi amici della mia vita, con riconoscenza perchémi furono accanto senza esitare nel momento difficile dellanascita dell’impegno politico nuovo, con reverenza perché inquegli anni cruciali trovai e accettai in Colorni un maestrodell’anima, in Rossi un maestro della mente”.La difesa della democrazia li aveva portati alla comprensioneche l’azione politica deve avere come obiettivo l’impiego delpotere al servizio della libertà e che lo Stato nazionale era ilnemico della libertà. E’ così che il Manifesto inizia: “Laciviltà moderna ha posto come proprio fondamento il principiodella libertà secondo il quale l’uomo non deve essere merostrumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questocodice alla mano si è venuto imbastendo un grandiosoprocesso storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lorispettassero”.Nel caso di Rossi le critiche al capitalismo e al comunismo -insieme a una sommaria lettura di testi federalisti inglesi - loavevano portato alla convinzione che solo una federazioneeuropea – “inizialmente limitata a un nucleo di paesi latini” –avrebbe garantito maggiori risorse per lo sviluppo sottraendolealla preparazione delle guerre volute dal crescente poteredelle élites militari e dall’accentramento amministrativo. Dallediscussioni che avevano preceduto l’elaborazione del Manifesto- cui partecipavano Spinelli, Rossi, Eugenio Colorni e lamoglie Ursula, gli azionisti Dino Roberto ed Enrico Giussani,i repubblicani Giorgio Braccialarghe e Arturo Buleghin e losloveno Milos Lokar - era emersa la convinzione che la Fede-razione europea sarebbe stata l’unica soluzione ragionevole alproblema, che tormentava l’Europa dal 1870, della pacificaconvivenza della Germania con gli altri popoli del vecchiocontinente. La Federazione sarebbe stata, soprattutto, la possibilità per ledemocrazie di controllare “quei Leviatani impazziti” che eranoormai gli Stati nazionali europei, poiché lo Stato federaleavrebbe impedito loro di diventare mezzi di oppressione esarebbe stato da essi impedito di diventarlo lui. Contrariamente

a una parte della teoria federalista che individua nella nazioneil male in sé, gli autori del Manifesto ritenevano che l’ideologiadell’indipendenza nazionale fosse stata “un potente livello diprogresso” ma che essa portava in sé “i germi dell’imperialismocapitalista”.Il Manifesto fu materialmente scritto nel giugno 1941, quandoquasi tutta l’Europa continentale era soggiogata da Hitler, learmate tedesche entravano nelle terre russe e solo resisteva alnazismo il Regno Unito. Portato in continente da UrsulaHirschmann e Ada Rossi, il Manifesto fu inizialmente ciclostilatoe poi stampato nel 1943 come primo dei Quaderni del

Movimento Federalista Europeo fondato a Milano alla fine diagosto di quell’anno.

Colorni aveva inutilmente tentato

di introdurre questa cultura federalista

nel mondo politico socialista

Spinelli si rendeva perfettamente conto del fatto che la culturafederalista era estranea alle culture politiche esistenti nei paesieuropei, che sarebbero usciti dalla guerra tentando di restaurarele democrazie nazionali, nonostante l’origine universalistadei movimenti cattolici, internazionalista dei partiti socialistie comunisti e cosmopolita delle forze d’ispirazione liberale.Egli sapeva che questi stessi partiti erano ormai avvezzi,per consuetudine e per tradizione, a porsi tutti i problemipartendo dal tacito presupposto dell’esistenza dello Statonazionale, e a considerare i problemi dell’ordinamento in-ternazionale come questioni di politica estera da risolversimediante azioni diplomatiche e accordi fra i vari governi.Colorni da parte sua aveva inutilmente tentato di introdurrequesta cultura federalista nel mondo politico socialista.Spinelli era convinto, molto più di Rossi e Colorni, chel’ideale della federazione europea – “preludio della federazionemondiale” – si sarebbe presentato alla fine della guerracome una meta raggiungibile “quasi a portata di mano” eche “forze provenienti da tutte le classi sociali” sarebberostare interessate a esso. Alla via diplomatica Spinelli con-trapponeva quella che è stata chiamata nel Manifesto la viarivoluzionaria dell’agitazione popolare, provocando stati difatto avvenuti i quali non fosse più possibile tornare indietro.“E’ la prima volta – scrisse Spinelli presentando nel 1944 ilManifesto - che il problema si pone sul tappeto della lottapolitica non come un lontano ideale ma come un’impellentetragica necessità”.

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Pur confinati nell’isola di Ventotene, Colorni, Rossi e Spinellierano stati capaci di analizzare con estrema lucidità lo statodella guerra nel 1941, e prevedere la sconfitta dell’imperialismotedesco e delle potenze totalitarie, le cui forze “hannoraggiunto il loro culmine e non possono ormai che consumarsiprogressivamente” sapendo che “la sconfitta della Germanianon porterebbe però autonomamente al riordinamento del-l’Europa secondo il nostro ideale di civiltà”.Essi non avevano invece previsto che gli europei nonsarebbero rimasti padroni di sé nella ricerca del loro avvenire,ma – avendo l’Europa cessato di essere al centro del mondo– sarebbero stati pesantemente condizionati da poteri ex-traeuropei: l’imperialismo sovietico a Est e l’egemonia degliStati Uniti a Ovest. Cosicché la via intrapresa dalle nuovedemocrazie nate nel secondo dopoguerra non fu l’abbattimentodelle sovranità nazionali ma la ricostituzione degli Stati na-zionali, seppure nei limiti e nel quadro del processo di inte-grazione comunitaria – avviato nella “piccola Europa” deiSei – secondo il modello funzionalista concepito da JeanMonnet, che all’obiettivo della creazione di uno Stato federaleaveva sostituito quello tutto nuovo della sopranazionalità. La critica di Spinelli al modello funzionalista non si è maiinterrotta, anche quando egli prese atto delle opportunitàofferte dalla costruzione comunitaria alla lotta federalista.All’approccio funzionalista – che Delors ha successivamentedefinito “il metodo dell’ingranaggio”, giungendo infine ad

ammetterne il suo carattere “perverso” – Spinelli ha conti-nuamente contestato la convinzione secondo cui si potesserounificare efficacemente e durevolmente, in modo gradualee separatamente gli uni dagli altri, i vari settori della vitadegli Stati (l’economia, la moneta, la politica estera, ladifesa) rinviando solo alla fine la creazione di un potere de-mocratico e federale.A questa impostazione Spinelli contrapponeva l’approcciocostituzionale, e cioè la rivendicazione di una costituzioneeuropea secondo un modello federale e di un’assemblea dicarattere parlamentare come spazio politico per la sua ela-borazione. La posizione di Spinelli è apparsa di grandissimaattualità in questi ultimi trent’anni della storia europea: co-erentemente con quest’approccio, il progetto del Parlamentoeuropeo approvato il 14 febbraio 1984 antepone la realizza-zione dell’unità politica dell’Europa all’unificazione eco-nomica e monetaria: al contrario del Trattato di Maastrichtche – ben lungi dal costituire l’embrione di un poterefederale europeo – antepone invece la realizzazione dell’unionemonetaria al completamento dell’unione economica, lasciandosullo sfondo - con un’agenda indeterminata nei contenuti enei tempi - la creazione dell’unione politica. Secondo lastessa logica perversa, i governi hanno immaginato che larisposta alla crisi finanziaria del 2007-2008 potesse esseredata da un processo che partisse dall’unione bancaria,passando poi all’unione di bilancio, quindi all’unione eco-nomica, e lasciando ancora una volta indeterminata neitempi e nei modi la legittimità democratica.Vi è infine un elemento essenziale del Manifesto che è statosottolineato da Norberto Bobbio nel suo saggio Il Federalismo

nel dibattito politico e culturale della resistenza. Il Manifesto– ricorda Bobbio - inizia parlando del principio nazionale edella sua degenerazione e aggredisce poi il problema dellasovranità assoluta: “Il superamento della sovranità assolutaconduce allo Stato federale e il superamento del principionazionale conduce all’idea d’Europa. E il movimento chesorge a Ventotene è insieme federale ed europeo”. Ciò vuoldire – chiosa Bobbio – che il meccanismo dello Statofederale può applicarsi a una realtà diversa dall’Europacome la federazione mondiale o le federazioni che si vannotentando fra Stati del mondo arabo.Varrebbe la pena, in un’agenda per un’altra Europa, riprenderequest’analisi e queste suggestioni collocandole nell’ambitodelle riflessioni della sinistra euro-mediterranea e sapendoche, nelle sue varie versioni linguistiche il Manifesto èstato tradotto anche in arabo.

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La Milano che esce dalla seconda guerra mondiale èuna città che, forse più di altri centri politici e

culturali, risente di quello che alcuni autori hanno definitolo “spirito del ’45”, uno spirito che dopo la disfatta delregime fascista cercava di rispondere alla duplice esigenzadi dare conclusione ad un tragico periodo storico e diinaugurare un nuovo ciclo di ricostruzione politica e isti-tuzionale. Un brano di Ludovico Geymonat, che ad EugenioColorni fu vicino durante gli anni di confino e che sarebbestato uno dei punti di riferimento della “rinascita episte-mologica” della seconda metà del secolo, giova sottoquesto punto di vista ad inquadrare il senso più profondodel clima culturale che si respirava nell’immediato dopo-guerra.Nell’Avvertenza ai suoi Studi per un nuovo razionalismo,che risultano significativamente finiti di stampare il 25aprile 1945, Geymonat scriveva le seguenti parole: «L’in-dirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato,è e vuole essere un vero e proprio razionalismo […] Gli èche il razionalismo, cui aspira la cultura moderna […]deve contemporaneamente essere: critico, ossia capace ditenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la puraragione dalle filosofie mistiche e decadenti, fiorite negliultimi anni; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le esi-genze di ricostruzione e di logicità caratteristiche dellanuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemisempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanziallo spirito umano» (Ludovico Geymonat, Studi per un

nuovo razionalismo, Chiantore, Milano 1945, p. VIII,corsivi miei). Ricostruzione e logicità venivano così posti su di un me-desimo piano, quasi a voler significare – come ha sostenutoMario Dal Pra nel 1985 – che «l’avversione alla metafisicadel neoempirismo e l’avversione alla dittatura fascista daparte del movimento di liberazione” avessero “una comuneradice» (Mario Dal Pra, Il razionalismo critico, in AA.VV.La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi, Laterza,

Roma-Bari 1985, p. 42). In un simile fermento intellettuale,fra il 1947 e il 1948 uscirono, su riviste di punta delnuovo pensiero metodologico quali Analisi e Sigma, iprimi frammenti epistemologici di Eugenio Colorni, lacui riflessione matura venne in tal modo a saldarsi con lapiù avanzata cultura della Liberazione.Se tuttavia questi sono gli esiti dell’itinerario colorniano,le radici di esso debbono essere ricercate in un complessopercorso che ha preso le mosse da una critica interna alneoidealismo crociano, ed è in tal senso che l’opera diColorni può essere letta come uno specchio del camminopercorso da una parte importante della cultura italianadella prima metà del secolo scorso.Pur apprezzando il pluralismo del neoidealismo crociano,Colorni ne rifiutò fin da subito la rigidità sistematica, ecercò in Leibniz una risposta al problema della deduzionedell’ordine concettuale dall’esame delle singole determi-nazioni spirituali. Il convincimento che quella armoniache Leibniz riteneva di scorgere come l’essenza piùprofonda del reale fosse un’esigenza del pensatore piuttostoche una legge della natura portò tuttavia Colorni allostudio delle forme stesse dell’umano pensare e alla con-seguente scoperta dei problemi metodologici, psicologicied epistemologici.Fortemente diviso fra impegno politico ed attività intel-lettuale, l’itinerario del giovane filosofo e partigiano mi-lanese è però in grado di porre in questione anche il nessofra pensiero ed azione al quale si riferiva il razionalismodi Geymonat: «Proprio la scienza […] obbligava [Colorni]a combattere contro il nemico non soltanto a parole», hascritto Guido Piovene del suo antico amico nel romanzoLe furie (Guido Piovene, Le furie, Aragno, Torino 2009,pp. 255-256), evidenziando così quella spinta morale chene ispirava tanto la riflessione filosofica quanto l’impegnopolitico. E Colorni fu difatti uno studioso che tale impegno,il quale pure lo allontanava dalla passione filosofica,spinse fino al sacrificio della vita.

Il filosofo militante>>>> Geri Cerchiai

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Sono molto emozionata, quindi le mie saranno solo paroledi ringraziamento. Sono emozionata perché – in relazione

al libro di Franco Avenoso - devo premettere che non solo ioe mia sorella Silvia non siamo state insieme a Melfi nell’estate1963, ma soprattutto non siamo mai più tornate qui da queglianni assai più remoti del confino di nostro padre, di nostramadre, e di noi tre bambine Colorni. Le cose che il libro racconta in parte mi hanno interessato ecommosso, ma in parte – lo dico con amicizia – mi hanno unpoco irritato e turbato proprio perché, per alcuni elementi, leho sentite estranee e non attendibili, o comunque indiscrete enon corrispondenti alle mie fantasie relative al grande traumadella mia infanzia: l’uccisione di mio padre. Naturalmentequesto è quello che succede quando in un libro storia efantasia si mescolano, con la complicazione in più, in questocaso, che la fantasia e l’invenzione si esercitano su qualcunoche è ancora vivo, essendo io in effetti, fin dal titolo, uno deipersonaggi a cui, nel racconto, si dà volto e voce. Ho avuto dunque una reazione ambivalente leggendoquesto libro. Poi però l’ho riletto, ci ho ripensato, e ho ap-prezzato il sentimento, che tutto lo pervade, di profondis-sima stima e affetto nei confronti dei miei genitori e dellaloro, ma anche della nostra, storia. Soprattutto ho cono-sciuto Franco, che dopo avermi fatto leggere il libro, è ve-nuto a trovarmi a Milano e si è messo in relazione con mecon estrema gentilezza, quasi trepidazione, un garbo e unrispetto che mi hanno toccato nell’intimo. Ho persino pro-vato una certa invidia nei confronti di mia sorella Silvia,che tra il 1941 e il 1943 aveva tra i quattro e i sei anni (ènata nell’aprile del 1937) e dunque certamente conserva diquel periodo alcuni ricordi preziosi, mentre io, che sononata nel novembre del 1939, non ho purtroppo memoria diquegli anni. Sono sicura che comprenderete quanto grande sia il mio ram-marico per l’inevitabile oblio che ricopre la mia vita a Melfi,e quanto intensa la commozione suscitata da questo miotardivo ritorno. Si può dire infatti che io abbia visto mio padre

Riscoprire un padre>>>> Renata Colorni

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proprio qui per l’ultima volta: perché poi noi – mi riferisco amia madre Ursula Hirschmann e a noi tre bambine, Silvia,Renata e Eva - siamo andate nel nord Italia per rifugiarci, acausa delle leggi razziali, in Svizzera, dove siamo rimastefino alla fine della guerra. Mio padre, fuggito da Melfi, èinvece andato a Roma, dove si è febbrilmente impegnatonella lotta fino all’estremo sacrificio. L’unico ricordo vero che io conservo, non intriso e mescolatocon ricordi o racconti altrui, è l’immagine di mia madre chevicino a Bellinzona, ai primissimi di giugno del 1944, venne adirci che nostro padre era stato assassinato. Questo me loricordo benissimo. Mia madre era incinta di Diana, la primafiglia di Altiero Spinelli, il grande europeista che diventò inseguito nostro padre. Noi tre sorelle Colorni abbiamo vissutoinfatti la tragedia delle perdita di nostro padre Eugenio, maabbiamo avuto l’immenso privilegio di avere poi un altropadre nella persona di Altiero Spinelli. E altre tre sorelle:Diana, Barbara e Sara Spinelli.Con particolare gioia ho dunque ascoltato le parole chepoco fa ha pronunciato Pier Virgilio Dastoli e lo ringrazio dicuore per essere venuto a Melfi, dove oggi viene onorata lamemoria di Eugenio Colorni e dove io sono l’unica rappre-sentante, purtroppo, delle sue tre figlie (perché mia sorellaSilvia in questo momento è malata e non può essere con noibenché lo desiderasse moltissimo, mentre mia sorella Eva, acui sono stata profondamente legata, non è qui perché unacrudele malattia l’ha strappata alla vita nel 1985). Quindi èanche in memoria di Eva e di mia madre che io oggi sono aMelfi mentre rivolgo un pensiero molto affettuoso a Silviache a sua volta, per mio tramite, manda a voi tutti dalCanada i suoi saluti più cari. Ma quello che stavo dicendo è che la presenza di Pier VirgilioDastoli è per me, in questo momento, quanto mai significativa.Egli rappresenta infatti, simbolicamente in questo luogo, unalinea di continuità assolutamente reale che da molti decenniio avverto nella mia vita sentimentale, emotiva e intellettuale,tra la persona, il pensiero e gli ideali di Eugenio Colorni, cheho ricostruito attraverso gli scritti, l’esegesi degli studiosi,nonché le testimonianze di coloro che lo hanno amato e cono-sciuto meglio (da mia madre a Leo Solari, a Enzo Tagliacozzo,a Guido Morpurgo Tagliabue, a Paolo Milano), e la straordi-naria personalità umana e intellettuale di Altiero Spinelli, dicui ho la fortuna di ricordare vividamente e con nostalgia l’o-riginalità di pensiero, il coraggio, la lungimiranza, l’immensadedizione all’ideale europeo da lui difeso e diffuso con straor-dinaria forza persuasiva.

Pier Virgilio è stato profondamente legato, dal punto di vistapolitico, ad Altiero Spinelli, di cui ha condiviso con passionela lunga, ostinata battaglia per la federazione europea; ma èstato anche intimamente legato a tutta la nostra famiglia dalpunto di vista affettivo. Quindi qui, in qualche modo, egli hacontribuito a rievocare due figure che hanno significatodavvero qualcosa per la storia del nostro paese e per l’idea diun’ Europa libera e unita. Ma al di là di questo legame specialissimo con Dastoli, desi-dero esprimere la mia riconoscenza a Stefano Rolando perché- tra le molte parole che si possono riferire a una figuracome quella di mio padre - egli ha voluto sottolinearel’aspetto propulsivo, creativo, del pensiero di Colorni: il suoè “un pensiero fervido”, così ha detto Stefano Rolando, chesi caratterizza per l’audacia, in un momento così cupo dellastoria del mondo, di disegnare l’avvenire, di desiderare for-temente la realizzazione di un’utopia. Vivere per il futuro:ancora una volta un ideale che accomuna profondamenteColorni e Spinelli e che rende più acuto e insopportabile ildolore per la morte scandalosa, a soli trentacinque anni, dimio padre. Questo aspetto - l’audacia, la creatività, il fervore - mi è par-ticolarmente caro. Anzi vorrei dire che ciò che più mi com-muove leggendo i suoi scritti - quelli filosofici ma anchequelli autobiografici - è proprio il suo “fervore”, qualcosache dà voce, con una espressività letteraria che raramente

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troviamo nei filosofi di professione, a un’ansia quasi sfrontatadi oltrepassare steccati e certezze riposanti per avventurarsiin territori sconosciuti, impervi e rischiosi (così è stato perlui l’abbandono del neoidealismo per la psicoanalisi e la fi-losofia della scienza).

Era un uomo che non vedeva l’ora

che la guerra finisse per potersi di nuovo

dedicare ai suoi prediletti studi filosofici

e scientifici

Quanto a Geri Cerchiai, permettetemi di dirvi che ho desideratofortemente la sua presenza a questo convegno sulla figura diColorni perché, curando il volume einaudiano dei suoi scrittifilosofici e autobiografici intitolato Malattia della metafisica

(uscito nel 2009, a cento anni dalla nascita di mio padre) ecorredandolo con una ricca introduzione e un commento ca-pillare a ogni singolo scritto, egli ha offerto un contributo fon-damentale e innovativo alla comprensione e diffusione dell’o-pera di Colorni. Se Geri Cerchiai ha un posto di assolutorilievo nella costellazione di coloro a cui devo riconoscenza e

ammirazione è perché egli si è assunto il non facile compitodi ripercorrere, con acribia scientifica mai disgiunta dalla em-patica passione del biografo, un percorso intellettuale assaiaccidentato e, com’è inevitabile, privo di sistematicità. Quando io ero ragazza, Ernesto Rossi - che ha firmato con Al-tiero Spinelli il Manifesto di Ventotene per il quale Colorniha scritto la prefazione, mi ha detto tante volte che mio padreera per così dire “morto per sbaglio”. Era un uomo, dicevaErnesto, che non vedeva l’ora che la guerra finisse per potersidi nuovo dedicare ai suoi prediletti studi filosofici e scientifici;Eugenio, aggiungeva, si è gettato con furia e ardore nella lottapolitica, perché spinto, in quegli anni terribili, da un’esigenzamorale improrogabile e impossibile da eludere, dati i suoiprincipi. Ma era, prima di ogni altra cosa, un uomo di pensieroe di studi.Fu la lotta politica a condurlo alla morte, ma non era questa lasua vocazione, non la sua vita. Io immagino che, se fosse so-pravvissuto, mio padre sarebbe diventato un filosofo importante,un professore, o magari uno scienziato (si occupava anche diteoria della relatività). E’ nato nello stesso giorno mese e annodi Rita Levi Montalcini, che è morta solo tre anni fa. Ogni

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tanto mi viene in mente cosa avrebbe potuto essere la sua vita,e la mia, la nostra. Mentre Spinelli non poteva che fare il politico, perché questaera la sua vocazione essenziale e irrecusabile fin da ragazzo(non aveva ancora vent’anni quando, nel 1926, il TribunaleSpeciale lo condannò a sedici anni di carcere per attività co-spirativa antifascista), quella che Colorni sognava era la vitadello studioso, dell’uomo che dedica tutto se stesso alla storiadelle idee e alle avventure del pensiero. Era un giovane molto colto e versatile, amante della musica edella matematica, raffinato ed esigente, soprattutto con sestesso, animato da un severo senso della giustizia, del doveree della moralità pubblica, profondamente interessato agliideali del socialismo e dell’unità europea. Il suo coraggio, ri-cordano quelli che lo hanno frequentato negli ultimi mesidella sua vita, aveva un che di candido e fanciullesco. Eraanche molto simpatico, più di uno ha ricordato la sua risatacontagiosa. Ed era ebreo. I sicari della Banda Koch lo hannoabbattuto tre giorni prima della liberazione di Roma da partedell’esercito americano. Uno degli aspetti che più hanno influito sulla mia vita è statoil suo appassionato interesse per la psicoanalisi, che ha segnatoperaltro un momento fondamentale di svolta nella evoluzionedel suo pensiero e della sua ricerca, quello che lo ha “guarito”dalla “malattia della metafisica”. Come Colorni racconta inuno splendido racconto (Un poeta) contenuto nei suoi scritti

autobiografici, ad avvicinarlo a questa disciplina e al suo lin-guaggio, nuovissimi allora in Italia, fu uno tra i massimi poetidel nostro Novecento, il poeta – libraio triestino UmbertoSaba che i miei genitori hanno frequentato spesso, proprio aTrieste, tra il 1935 e il 1938 (mia madre ricordava Saba conaffetto, stravaccato su un divano e con uno sguardo arcigno eun po’ smarrito, ad ascoltare Debussy). Uno dei momenti di maggior contatto intellettuale ed emotivocon mio padre io l’ho vissuto quando, molti anni fa, nel tra-durre in italiano gli scritti teorici di Freud, mi sono imbattutain un libro tedesco da lui posseduto (Theoretische Schriften,del 1931), e in margine al testo originale de L’introduzione al

narcisismo del 1914, ho potuto scorgere e poi leggere distin-tamente alcune sue osservazioni a matita che prima mi hannolasciato senza fiato e poi mi sono perfino servite per assicurarea quel saggio, così limpido e perentorio ma anche complesso,una buona resa italiana. La matita è molto commovente, piùcommovente della penna, perché sembra un segno così tenue,labile, destinato a sparire rapidamente, e invece a distanza didecenni è ancora lì, forte , eloquente, e vivo. Regalerò quellibro a mia figlia Sara, che è qui con me e si avvia a diventarepsicoanalista. Le osservazioni a matita di Eugenio Colorni suun testo fondamentale di Freud sono in parte in italiano, inparte in tedesco. Spero che trasmettano anche a lei qualcosadella nobiltà d’animo e della passione per gli studi del suogrande nonno.

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Ricordate “Gramsci/ Togliatti/ Longo/ Berlinguer”? Quellasequenza non aveva nulla a che fare con l’ideologia, la

“linea” e nemmeno con il comunismo in sé (per quello bastava,e avanzava, il “viva Lenin/ viva Stalin/ viva Mao-tse-tung”della breve stagione delle impazienze e dei deliri). Rappre-sentava piuttosto la convinzione profonda del popolo comu-nista: si veniva da lontano e si sarebbe arrivati lontano, guidatida capi autorevoli perché sempre padroni della rotta. Avanti,sempre più avanti, nonostante gli errori e le sconfitte: perchégli errori e gli immancabili ritardi stavano lì per essere superatie le stesse sconfitte (e malo bonum) rappresentavano la pre-messa di successive vittorieAttenzione: non stiamo parlando della vulgata propagandisticadestinata al “popolo bue”. Stiamo parlando di un immaginariocollettivo trasmesso da molteplici analisi politiche e storio-grafiche che accomuna il gruppo dirigente politico e intellet-tuale: di un immaginario in cui il partito diventa il luogo de-putato dell’impegno individuale e collettivo per cambiare ilmondo. Il mondo di ieri. Un mondo che sarà ricordato, anchedai critici più aspri dell’eredità berlingueriana (come Macalusoe, appunto, il nostro Ranieri) con una nostalgia sempre piùlancinante: quella che porterà lo stesso Macaluso, assieme apochissimi intimi, davanti alla tomba di Togliatti nell’anni-versario della sua morte; e Ranieri a ricordare con rispetto eammirazione la figura di quel Berlinguer pur oggetto, già daallora, del suo radicale dissenso politico.Dopo il 1984, però, la magia si interrompe. Niente più papi,profeti o sommi sacerdoti (sostituiti, come vedremo, da “papiesterni”collettivi e individuali). Si dirà che i vari personaggicomparsi sul proscenio erano tutti inadeguati alla bisogna(“Natta/Occhetto/D’Alema/Veltroni/Fassino”, una litania im-pronunciabile). Il fatto è che sono scomparsi, tutti insieme,fede e religione, Chiesa, popolo di Dio e fine dei tempi. E’ vero: il partito è stato al governo o nella maggioranza di

governo per dodici dei vent’anni della seconda Repubblica;un suo autorevole esponente riveste, dal 2006, la massimacarica dello Stato; è e rimane il crocevia della politica e delpotere; non ha più rivali degni di questo nome a sinistra (e, seè per questo, da nessun’altra parte). Ma, anche prima dell’av-vento di Renzi , il senso di frustrazione, la percezione del fal-limento, rimane palpabile. O almeno questo è ciò che sievince sulla base sulla base delle molteplici narrazioni prodottedai protagonisti e da autorevoli testimoni della vicenda.Quando e in che cosa ci si è sbagliati? E chi ha sbagliato eperché? Perché hanno vinto gli altri? Queste le grandi coordinatedella letteratura “sconfittista”. Una letteratura spesso e volentiericondizionata da pulsioni strumentali: dal puro e semplice re-golamento di conti fino al desiderio di riscrivere il passatoalla luce delle necessità di riposizionamento nel presente.Nulla di tutto questo nel testo di Ranieri.1 La sua forma è

Diario di un migliorista>>>> Alberto Benzoni

Ranieri

1 Umberto Ranieri, Napolitano, Berlinguer e la luna. La sinistra riformista

tra il comunismo e Renzi, Marsilio, 2014.

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quella della elaborazione di un materiale diaristico. Nessunutilizzo dell’oggi per rimodellare opportunamente le vicendedi ieri. Nessun ricorso al senno del poi. Piuttosto il ripercorrere,nel corso del tempo, e con il massimo rispetto per la verità, levicende di una sensibilità interna al mondo comunista, quella“migliorista”, delle sue ragioni e delle sue battaglie (effettiva-mente combattute e no): e soprattutto delle sue ripetute sconfitte. Umberto Ranieri ci appare qui, come probabilmente è, unmite idealista: ma ciò non fa che accrescere, anche a distanzadi tempo, la sua indignazione, anzi la sua vera e propria soffe-renza. Quest’ultima si tradurrà, nel tempo, in una dolorosaestraniazione rispetto al mondo in cui aveva vissuto (non altrele ragioni del suo appoggio alla candidatura De Magistris,dopo la sciagurata vicenda delle primarie napoletane). Laprima lo porterà irresistibilmente a corroborare i suoi giudizie le sue reazioni, caso pressoché unico nella saggistica politica,con opportuni punti esclamativi.

E’ proprio sull’opzione socialdemocratica

che si giocherà e si perderà, nel corso

degli anni ottanta e novanta, la battaglia

politica all’interno del Pci. E che si perderà

senza averla nemmeno giocata

Una narrazione diaristica, si diceva. Articolata sui vari appun-tamenti, quasi tutti interni al partito, in cui i “miglioristi”avran-no occasione di misurarsi con i loro oppositori. In un arco diquasi cinquant’anni, che va dalla seconda metà degli anni ses-santa sino all’avvento di Renzi. Parliamo di un evento cheRanieri, del tutto correttamente, saluta con favore. Non delsuccessivo e totale trionfo sulla, diciamo così, sinistra tradi-zionale, cui il nostro amico, nello scrivere il suo libro, nonaveva ancora potuto assistere. Se l’avesse fatto, forse, la prospettiva, il filo rosso della suanarrazione, sarebbero stati in qualche misura diversi. Per metterlanel modo più brutale: lo stesso Renzi aveva dimostrato che il“vecchio”era, in tutte le sue componenti, non una tigre ma uncastello di carta. E che bastava semplicemente prenderlo a calciper farlo crollare. E allora come mai questo stesso castello dicarta era apparso ai miglioristi un muro ostile e invalicabile?Ora, il grande valore del testo sia nell’avere offerto, conspirito di verità, un materiale di prima mano per rispondere aquesta domanda. Il suo limite è che la sua risposta è unarisposta parziale. Per chiarire, in estrema sintesi, i terminidella questione, possiamo prendere le mosse dalla metafora

del muro. Di un muro che misura la sua consistenza solo seoggetto di attacco. E qui Ranieri, in un rimarchevole omaggioallo spirito di verità, ci dice che questo muro i miglioristi nonl’avevano mai veramente attaccato. E non c’è altro da aggiun-gere ad una narrazione assolutamente esauriente. Quello che non riesce a spiegarci (la passione politica avràpotuto fare velo alla sua lucidità di giudizio) è quale fosse lanatura di questo muro, insomma il collante su cui si eraformato. Attenzione: l’argomento è al centro di un raccontotutto costruito in uno schema rigidamente bipolare, nel con-fronto tra il riformismo e i suoi avversari. E’ però la descrizionedegli avversari che non appare complessivamente persuasiva;suscitando numerosi interrogativi.Cominciamo allora con la definizione della posta in gioco:insomma, della natura dello scontro che si apre agli inizidegli anni ottanta. Ranieri lo presenta, proprio all’inizio, nelcontrasto tra i sostenitori dell’opzione socialdemocratica ecoloro che la rifiutano pregiudizialmente. Salvo poi precisare,nel corso della sua esposizione, che “socialdemocrazia” èuna formula che racchiude in sé non tanto il richiamo alla

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“socialdemocrazia reale” e ai suoi protagonisti europei,quanto piuttosto l’affermazione dei valori del riformismo,del realismo, della capacità di rinnovamento, contrapposti aidisvalori del massimalismo, della demagogia, dell’estremismoe del conservatorismo.In realtà, come ci racconta con lucida passione lo stessoautore, è proprio sulla opzione socialdemocratica, e nel sensotradizionale del termine, che si giocherà e si perderà, nelcorso degli anni ottanta e novanta, la battaglia politicaall’interno del Pci. O - per dirla tutta, e per stare al racconto diRanieri - che si perderà senza averla nemmeno giocata.In linea di principio l’obiettivo della riconversione socialista– qualunque cosa ciò significasse – poteva essere perseguitosu tre distinti terreni. Quello internazionale, dove però il mo-vimento socialista è ridotto ad un “fantasma con le mezze ma-niche”, sino ad assistere, nella generale indifferenza, allabrutale defenestrazione, in Grecia, del suo presidente GiorgioPapandreu. Quello europeo, dove il fantasma stenta ancora adassumere sembianze concrete. E, soprattutto, quello italiano,dove queste sembianze c’erano, eccome, e dove quindi il pro-getto avrebbe avuto da subito un significato importante.Ranieri non entra nei primi due terreni. Non si occupa, insom-ma, che di riflesso di questioni internazionali, pur essendoneun esperto e appassionato praticante. Un vero peccato. Perché,in linea generale, avrebbe potuto misurarsi con il male oscurodel socialismo europeo: l’incapacità di affrontare concretamenteil fenomeno della globalizzazione (con l’eccezione della Ger-mania di Schroeder: gli altri o l’hanno esaltato acriticamente– vedi Gran Bretagna – o l’hanno esorcizzato a parole- vediFrancia – o l’hanno semplicemente ignorato – vedi Spagna eItalia). E perché, nello specifico, avrebbe potuto denunciare ilcaso, propriamente pirandelliano, di un partito ex comunistapartecipe a pieno titolo del socialismo a livello internazionale,socio occulto (almeno sino all’arrivo di Renzi) in Europa,mentre dalle Alpi al Lilibeo continuava a dichiararsi del tuttoestraneo alla cosa e financo alla parola.La partita decisiva si giocherà, come detto, nell’arco di tempoche separa la formazione del governo Craxi dalla frettolosa eburocratica archiviazione della “Cosa due”. Ranieri vivrà,con la stesso nostro dolore di oggi, la storia delle varieoccasioni perdute. Si poteva valutare il primo governo a guidasocialista come occasione per ricostruire, su basi nuove,rapporti a sinistra: e viceversa questo governo e il suo presidentevengono considerati avversari da abbattere, per essere magarisostituiti dal governo dei tecnici e degli onesti. Si potevavedere la proposta di unità socialista come un’ipotesi di partito

unico e perciò aperto anche ai Cossutta e ai Bertinotti: e vice-versa questa proposta viene considerata come una richiesta dicapitolazione. Si poteva valutare l’ondata giustizialista deiprimi anni novanta negli stessi termini in cui il tanto vituperatopartito comunista francese vide la manifestazione del 6 febbraio1934; e cioè come qualcosa di “altro da sé” cui si doveva dareuna risposta da sinistra, con la costituzione del Fronte popolare:e viceversa i comunisti assistono compiaciuti alla caccia al“cinghialone” con lo stesso spirito con cui le tricoteuses

parigine guardavano alla passeggio delle carrette, o con cui icommercianti “ariani” assistevano, nel 1938, alla chiusuradel negozio del concorrente ebreo. Si poteva, infine, costruirela “Cosa due” come postuma ma doverosa “raccolta del testi-mone”: e viceversa l’operazione degenera quasi da subito,anche per la perdita d’interesse da parte dei suoi promotori, inuna raccolta d’adesioni di stampo frontista.

L’allora Pds si trova proiettato al centro del

nuovo assetto di potere proprio nel punto

più basso della sua parabola politica,

culturale ed elettorale, destinatario di

un’offerta faustiana che non può rifiutare

ma che non è nemmeno in grado

di gestire in prima persona

Si poteva, o piuttosto si doveva. Perché (salvo, forse, nel casodella “Cosa due”, ma Ranieri non affronta questo tema) era,diciamo così, altamente improbabile che il Pci/Pds fosse al-l’altezza delle opportunità che gli venivano di volta in voltaofferte. Pure, delle battaglie andavano fatte. Un confronto po-litico aperto andava condotto. Da parte dell’ala migliorista nelsuo insieme, e da parte del suo esponente più prestigioso inparticolare. Ma, almeno nei passaggi decisivi, di tutto questonon c’è traccia. E basterà ricordare, al riguardo ciò cheaccadrà, o meglio non accadrà, durante la vergognosa mattanzadi Tangentopoli.Ranieri trova al riguardo (e ripropone nel suo libro) paroleche suoneranno per sempre a suo onore: ma queste parolenon verranno ripetute là dove avrebbero pesato. E cioè alivello politico e istituzionale. Un silenzio che all’autorepesa. E che, all’occorrenza, viene fortemente deplorato. Maanche un silenzio che, come ci viene ricordato nel corso dellibro, si riprodurrà nel corso degli anni, anzi dei decenni suc-cessivi. E di cui lo stesso Ranieri ci illustra, all’inizio, som-mariamente le ragioni. Basate sulla convinzione che, volente

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o nolente, il partito potesse uscire dal limbo (post togliattianoo post berlingueriano che fosse) solo adottando una prospettivadi tipo riformista, l’altra via essendo quella che avrebbe rele-gato il partito stesso in un “ruolo di testimonianza e di oppo-sizione”. Di qui la scelta di affiancare la leadership di turno,mantenendo il diritto alla differenza, ma senza mai tradurrequesta differenza in vera e propria opposizione, o almeno inuno scontro politico.In ultima analisi, questa l’opinione di Ranieri, questa strategianon ha pagato. Perché il partito non è diventato quel “partitoriformista di massa” sognato dai miglioristi; e perché questirimangono oggetto di ostracismo: per le loro opinioni e,qualche volta, nelle stesse loro persone.Avrebbero, allora vinto gli altri? Le posizioni antiriformisteperché variamente massimaliste ed estremiste? Oppure, inuna prospettiva diversa, le posizioni antiriformiste perché va-riamente conservatrici? A giudicare dal suo testo, Ranierisembra fare di tutt’erba un fascio, considerando queste dueposizioni frutto di un’unica matrice. E però non traduce questesue sensazioni in un ragionamento complessivo. Il che permetteal suo modesto recensore di formulare, al riguardo, una diversaipotesi di lavoro: diversa, ma non necessariamente contrastantecon le idee dello stesso Ranieri. Nel formularla partiamo da un dato indiscutibile. Dal fatto chel’allora Pds si trovi proiettato al centro del nuovo assetto dipotere - grazie ad altri e a discapito di altri ancora- proprio nelpunto più basso della sua parabola politica, culturale ed elettorale.Destinatario di un’offerta faustiana che non può rifiutare mache non è nemmeno in grado di gestire in prima persona.In questo quadro (dopo la parentesi movimentista eideologico/folcloristica di Occhetto) si aprono al gruppo diri-

gente ex berlingueriano due strade. Da una parte, l’apertura diun grande confronto interno, nella prospettiva di creare unpunto di riferimento convincente all’interno del nuovo sistemabipolare. Ma è un percorso che viene scartato sin dall’inizio.Sia perché il partito non dispone delle coordinate necessarie.Sia, e soprattutto, perché qualsiasi apertura al confronto ri-metterebbe in di-scussione lo stesso gruppo dirigente e ilsistema che lo sostiene. E allora rimane aperta solo la secondastrada. Quella del soccorso esterno: o, detto in altro modo, del“papa esterno”. Saranno, nel primo caso, le ideologie neolibe-riste – modello capitani coraggiosi – adottate senza beneficiod’inventario, ma anche senza la visione complessiva di unBlair e la concretezza operativa di uno Schroeder. Ma sarannoanche il ricorso alla magistratura e all’Europa (in un contestoin cui l’una e l’altra esigeranno insostenibili parcelle per illoro aiuto). E sarà anche l’antiberlusconismo della “borghesiariflessiva”, tutto calato sulla ripulsa nei confronti del perso-naggio, a scanso del confronto sulla sua politica e sulla sua vi-sione della società.Nonché, ovviamente, i vari personaggi in qualche modogaranti di una funzione di governo che non si riesce adesercitare in prima persona: i Dini e i Prodi, i Rutelli, maanche i Monti e i Letta. Non ci sono, qui, prezzi pagati all’e-stremismo o al massimalismo: ma un pedaggio permanentepagato alla conservazione di se stessi. Poi arriverà Renzi. Chegriderà sopra i tetti che il re è nudo e che il muro della conser-vazione è fatto di cartongesso. A questo punto l’augurio, sottoforma di punto interrogativo, è che dalle rovine possa nascereuna formazione riformista nell’impostazione, ma anche, perchéno, radicale nelle proposte. Perché questo avvenga, però, do-vremo tutti fare la nostra parte.

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Èapparso poche settimane or sono un denso libro di SabinoCassese dedicato alla storia della costruzione statale ita-

liana1. Nessuno forse più di questo autore era in grado dioffrire un quadro così articolato e documentato. Formatosialla scuola di uno dei più insigni studiosi di diritto ammini-strativo del secolo scorso, Massimo Severo Giannini, nelcorso di una lunga e indefessa attività scientifica s’è infattiimposto tra le figure preminenti della scienza giuridica delnostro paese a cavallo del secolo come uno dei massimi co-noscitori dell’intera macchina amministrativa italiana. E’anche da segnalare come egli sia tra coloro che maggiormentehanno esteso il loro sguardo al di là delle frontiere nazionali,impegnandosi in una riflessione scientifica ormai senzaconfini, tesa a confrontarsi con la straordinaria complessitàdei fenomeni giuridici legati ai processi d’internazionalizza-zione e di globalizzazione. All’ampiezza di questi interessi s’è poi associata, in modo ab-bastanza peculiare, una costante attenzione a collocare i feno-meni da lui indagati in una prospettiva storica. Ne fa fede laquantità di saggi dedicati a molteplici aspetti di storia dellapubblica amministrazione in Italia che ha arricchito il suopercorso scientifico. Seguendo tale prospettiva, soprattutto inquesti ultimi anni, egli si è venuto da tempo ponendo, intermini sempre molto innovativi, alcuni problemi fondamentaliper la storia delle nostre istituzioni e per una migliore com-prensione di alcune caratteristiche di fondo della nostra vicendapolitica, e quindi del nostro presente2. Con questo nuovo libro egli compie un importante passo avanti

su questa strada misurandosi con alcuni problemi di fondodella nostra storia nazionale e segnando un forte progresso neimoderni studi sulla storia dell’organizzazione statale italiana,dagli ormai lontani lavori di Romanelli sino alle più recenti efruttuose ricerche di Guido Melis. Già il titolo – o meglio laspecificazione tematica del sottotitolo – evidenzia l’ambiziosoprogetto dell’autore: né più né meno che una Storia dello

Stato. L’alto livello di questa sua storia dell’organizzazionestatale nell’Italia moderna è infatti assicurato dalla felice sal-datura di una conoscenza profonda della macchina ammini-strativa e delle logiche inerenti al suo funzionamento (che èaltra cosa, si badi, dal mero “diritto amministrativo”, da lasciarsiai nostri consiglieri di Stato) con un ormai collaudato e tempratomestiere di storico.

Questa continuità è affermata anche

simbolicamente col rifiuto di Vittorio

Emanuele II di Savoia d’affermarsi

come il primo re della nuova Italia

D’ora in avanti il lavoro di riflessione sulla nostra modernastoria nazionale avrà in quest’opera una sicura base di partenza:ma soprattutto il brusio continuo e il disordinato rumoreggiareintorno alle “riforme” della pubblica amministrazione, delleleggi elettorali, della Costituzione e via dicendo, dai qualisiamo quotidianamente oppressi, dovrà misurarsi con lo spessoredi questa analisi impietosa: i cui risultati, va detto subito, ap-paiono molto spesso sconcertanti. Per questo essi non devonorestare nel chiuso delle nostre Università o dei ristretti seminaritra specialisti.Su questa rivista ho già esposto alcune considerazioni sullacrisi di fondo della struttura statale del nostro paese. Il libroqui discusso in qualche modo sposta notevolmente questa

La continuità di uno Stato improvvisato>>>> Luigi Capogrossi

Cassese

1 S. CASSESE, Governare gli italiani. Storia dello Stato, Il Mulino, 2014.2 Si vedano in particolare i suoi studi sugli elementi di continuità e di

novità apportati all’ordinamento politico italiano dall’avvento del regimefascista nella peculiare relazione tra ordinamento statale e società checaratterizza il nostro paese: S. CASSESE, Lo Stato fascista, Il Mulino,2010; Id., L’Italia: una società senza stato?, Il Mulino, 2011.

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problematica, riportandola ad una constatazione che segna laprima parte del lavoro: e cioè che di una “organizzazionestatale moderna” il nostro paese non s’è mai dotato. La debo-lezza del presente, dunque, ha radici strutturali di fondo,dando una dimensione veramente drammatica ai nostri dibattiticorrenti. Su questo punto le mie precedenti analisi si mostranotroppo unilaterali: troppo influenzate, in ultima analisi, da unassunto di partenza (peraltro non privo di valore, come infondo risulta anche da certi risultati del libro qui discusso)mutuato dal pensiero di una generazione di maestri: da A.C.Jemolo ad Ernesto Rossi, e a tutto il filone liberale del Mondo.Dove appunto l’interpretazione di fondo delle trasformazionidel ventennio fascista e della successiva evoluzione della Re-pubblica postbellica era permeata da una latente ma pervasivaidea di “decadenza” rispetto alla stagione postrisorgimentaledei padri fondatori e dei loro immediati successori, sino aGiolitti.Con Cassese è proprio questo punto di vista che viene rimessoin discussione: e il pensiero va immediatamente a chi, comeLuciano Cafagna, con più immediatezza di quanto non avessefatto Rosario Romeo nella sua meritoria biografia di Cavour(così snobbata dalla cultura storiografica di quegli anni carichid’ideologie e di preconcetti) aveva incisivamente insistito sulcarattere di scommessa e d’improvvisazione della costruzionedell’unità nazionale, tutto giocato sul genio di Cavour3. Perchéa me sembra che proprio la struttura profonda di questa tesistoriografica sia ora sviluppata nella sua pienezza dalla vastaanalisi svolta da Cassese. Dove si sottolinea la proclamazionedello Stato unitario come una nascita mancata: senza cesuredi continuità con gli ordinamenti preunitari. E questa continuitàè affermata anche simbolicamente col rifiuto di Vittorio Ema-nuele II di Savoia d’affermarsi come il primo re della nuovaItalia, restando appunto il secondo Vittorio Emanuele dellavecchia dinastia sabauda. In parallelo la complessiva fisionomiadelle strutture portanti del nuovo Stato unitario è pazientementeanalizzata dall’autore come un mosaico di strutture ammini-strative mutuate dal regno di Sardegna. Col risultato d’apparirciun processo svoltosi secondo una continuità slabbrata che finìcol connotare l’intero ordinamento statale come un qualcosadi provvisorio ed episodico, mai rispondente ad un disegnogenerale – ad un’idea di Stato, insomma.Prioritaria appare, nelle preoccupazioni della dirigenzapolitica del nuovo Stato, più che la costruzione organizzativae amministrativa – insomma il compiuto disegno sotteso ad

uno state building – l’unificazione economica e la creazionedi un mercato nazionale (p. 48, 63). Fu una scelta forse indi-spensabile, date le catastrofiche, e permanenti, condizionidel bilancio nazionale: ma non per questo meno fatale perl’ordine di priorità così definito. Gli squilibri così ingeneratinon vennero mai meno: anzitutto per quella costruzione isti-tuzionale che era stata trascurata. Ma il paradosso lo si trovaanche nella permanente debolezza della nostra stessa econo-mia: o meglio, della sua fisionomia “capitalistica”. Perché lamodernizzazione economica, e il connesso processo d’indu-strializzazione, continuarono a poggiare sull’intervento statalee su un capitalismo di Stato le cui radici nell’Italia giolittianasono adeguatamente illustrate da Cassese (Cap. XI-XII). Diqui la permanente debolezza del capitalismo privato, chenon è un fattore secondario nella lunga crisi di ristagno enell’oggettivo arretramento del nostro paese nei settori stra-tegici dello sviluppo economico.

L’arretratezza dell’impianto istituzionale

di partenza avrebbe ostacolato a lungo

la piena collocazione delle forme politiche

della democrazia all’interno

dell’ordinamento statale dell’Italia unita

Tutto resta provvisorio in questo Stato “moderno” – l’ultimovenuto nel consesso europeo e infinitamente meno forte diquello che sarà il nuovo Reich tedesco – e anzitutto, appunto, lasua “modernità”. Priva essa stessa di un certificato atto dinascita: quella carta costituzionale divenuta quasi d’obbligodopo la Rivoluzione francese. Una lacuna, si noti, che non duròqualche anno, magari prolungandosi per qualche decennio, masegnò gran parte della sua stessa storia. Al posto di quest’attofondativo il vecchio statuto albertino del regno di Sardegna,chiamato a nuova vita e però inadeguato a dare l’avvio ad unmoderno Stato liberale. L’autore sottolinea con forza come inesso non fosse neppure garantita la libertà d’associazione, ilfondamento stesso della politica moderna (p. 82). La faticosa vicenda di questa mancata costruzione di un mo-derno ordinamento statale ci porta ad un primo nodo proble-matico. Perché l’arretratezza dell’impianto istituzionale dipartenza e la sua farraginosità avrebbero ostacolato a lungo lapiena collocazione delle forme politiche della democrazia al-l’interno dell’ordinamento statale dell’Italia unita. Il vizio difondo costituito dalla nascita monca del nuovo ordinamentostatale, io credo, non è estraneo ad una peculiarità giustamente3 L. CAFAGNA, Cavour, Il Mulino, 1999.

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sottolineata da Cassese: il fatto che “in un secolo e mezzol’Italia abbia sperimentato dodici diverse leggi elettorali” (p.80). Questa continua ridefinizione delle regole del giocoesprime chiaramente l’incerto rapporto tra la società italiana ele sue classi dirigenti, ma è indubbiamente favorita da una piùprofonda incertezza che attiene alla natura stessa dello Statoinventato nel Risorgimento, ma mai sostanziatosi in un bendefinito ordine legale.D’altra parte non si deve dimenticare che l’intera storia dellagenesi e dello sviluppo delle moderne forme della democraziapolitica e sociale si colloca tutta all’interno della moderna co-struzione dello Stato di diritto. Dimentichiamoci i progetti e iproclami internazionalistici, da sempre così cari alle forze so-cialiste, ma del cui maggior fallimento celebriamo quest’annoil sinistro centenario. Perché le lotte politiche, le conquiste di

nuovi spazi e la stessa costruzione novecentesca dello Statosociale si collocano tutte all’interno della storia della modernastatualità: quell’impianto istituzionale, appunto, che apparecosì debole e carente nel corso di tutta la nostra storia moderna.Il che contribuisce a spiegare le difficoltà e le lacune intervenutenel processo d’integrazione delle grandi masse popolari al-l’interno della comunità politica nazionale, rendendo ancorpiù evidente che in altre esperienze europee il valore d’integralesupplenza esercitato in tal senso dai moderni partiti: non soloi partiti socialisti e cattolici, ma – come lo stesso Cassese ciha spiegato nei suoi precedenti lavori – dallo stesso partito fa-scista. La mancata costruzione di un nuovo e coerente ordinamentoamministrativo, ricostruita nei primi capitoli del libro, trovail suo logico sviluppo nell’incertezza di fondo che caratte-

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rizzerà in modo per-manente il funziona-mento del sistema digoverno e la fisiono-mia stessa dell’appa-rato burocratico: do-ve l’impasto di lavoropubblico e privato hacontinuato a ripropor-si in modo perverso– salvo forse il tenta-tivo di razionalizza-zione portato avantida De Stefani - sinoalle più recenti rifor-me dell’organizzazio-ne burocratica, i cuiaspetti negativi sem-brano almeno equili-brare, nella valutazio-ne dell’autore, quellipositivi. L’esito è atutti noto: una buro-crazia poco capace dioperare per fini, privadi motivazione e in-capace di rinnova-mento: e soprattuttodebole, e quindi per-meabile da logiche adessa estranee, ancheperché la sua dirigenza è priva di quell’ethos proprio dellegrandi élites burocratiche al servizio dei grandi Stati moderni.Dove emergono altresì le tragiche illusioni dei riformatoridi sinistra, quando pensarono che bastasse ridefinire in ter-mini privatistici la collocazione e le forme di selezione deidipendenti pubblici perché se ne modificassero le caratteri-stiche di fondo. Al contrario questa scelta, conclude sempre Cassese, nonha fatto che accentuare arbitri e privilegi anche finanziari(p. 131 ss., 144 s.). Come antichi sono la complessiva debo-lezza delle forme d’organizzazione del potere, solo in appa-renza evitata negli anni della dittatura fascista, e i difetti difondo dell’impianto normativo; e così egualmente risalenteappare la tendenza a quella che Cassese chiama “entizza-zione” dello Stato: la moltiplicazione, in sostanza, dei

soggetti portatorid’autorità in funzio-ne di obiettivi più omeno specifici divolta in volta indi-viduati come realiz-zabili con una pecu-liare strumentazioneorganizzativa. Di quil’ininterrotto prolife-rare di enti pubblici,para-pubblici, pub-blico-privati, e infi-ne, ultima e non me-no costosa invenzio-ne, delle “autorità in-dipendenti”. Certo siè che “un sistemapolitico nel pienodella sua forza nonavrebbe acconsentitoa vedersi sottrarretante aree d’influen-za” (p. 158). Soloche, appunto, alme-no in quest’ultimastagione questo si-stema di deleghe èstato consapevol-mente perseguitoproprio per spogliar-

si di poteri sentiti ormai dagli stessi governanti come im-praticabili secondo quelle che avrebbero dovuto essere leregole ordinarie di funzionamento dell’apparato pubblico.Poco importa poi, anche se certo non è privo di significatoper cogliere le dinamiche profonde del nostro Stato, chequesti stessi strumenti speciali abbiano perso rapidamentequell’efficacia d’azione per cui erano stati istituiti.Una caratteristica risalente alle stesse origini ottocenteschedell’ordinamento statale è poi la porosità dell’organizzazionedi governo e amministrativa rispetto agli interessi e ai gruppidi pressione privati e di settore. E’ un aspetto importante diun altro tipo d’ambiguità che l’autore sottolinea a propositodella costruzione statale italiana: sempre ondeggiante tradue spinte politiche opposte. Ad un sovente più apparenteche reale “strapotere del centro” si contrappone infatti la

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“fluidità”, come Cassese la chiama, dell’esercizio dei ruolidi governo del potere politico. Sono pagine di straordinariointeresse (e di grande capacità d’ammaestramento, per chivoglia riflettere) quelle in cui è tracciata la parabola conse-

guente alla rigida centralizzazione dell’intero corpo statale,con la rigida subordinazione ad uno schema unitario di pro-vincie e comuni e con l’esclusione di ogni ente intermedioin grado di assorbire all’interno del disegno unitario dello

Stato le profonde diversità di condizioni,tradizioni e sviluppo che caratterizza-vano le varie parti di un paese appenaunificato: ma proprio per questo timo-roso di qualsiasi flessibilità che avrebbepotuto aprire spinte disgregatrici (Cap.IV). Quello che però illumina Cassese è ancheil processo opposto derivato da tale rigi-dità, e che appare particolarmente rile-vante in rapporto alla più importante for-zatura precedentemente effettuata con latotalizzante e uniformatrice incorpora-zione dell’intero Mezzogiorno d’Italia.Perché proprio tale scelta avrebbe resototalmente dipendenti queste regioni dalcentro, ma contemporaneamente avrebbereso questo “prigioniero” di quelle: omeglio di quella loro espressione costi-tuita dalla “piccola borghesia meridionale,che affollava i ministeri”. Essa finì infatticol connotare l’intera fisionomia del-l’apparato burocratico “secondo la propriacultura, intessuta di idealismo e di cini-smo, di sfiducia nella politica e di ricercadi garanzie d’imparzialità” (p. 106): unaricerca facilmente sconfinabile peraltroin una semplice richiesta di protezione,aggiungo io.Non staremo a seguire il ricco percorsoanalitico volto a cogliere le diverse vi-cende e il sovrapporsi di orientamentitalora anche contraddittori nel disegnoorganizzativo dell’amministrazione digoverno che l’Autore viene tracciando.Due sono i punti su cui vorrei richia-mare l’attenzione del lettore: il primoconcerne la pervasiva e insistita fun-zione delle ragionerie nei ministeri, esoprattutto il loro processo di centra-lizzazione nel ministero del Tesoro, di-venuto di fatto controllore delle politi-

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che di spesa (e non solo delle compatibilità con il bilanciogenerale dello Stato) dei singoli ministeri. Il secondo èancora più importante, perché ha ingenerato una voraginetuttora aperta e che non trova soluzioni, stando almeno allagenericità del dibattito in corso. Si tratta delle nuove regoleper le assunzioni e promozioni della dirigenza statale,ispirate, com’è noto a modelli stranieri e fondate essenzial-mente sulle logiche dello spoils system, “che hanno portatoal vertice persone di varia provenienza, per lo più fedeli aquesto o a quel politico o a quel partito”(p. 141 s.). Con laconseguenza, aggiunge ancora Cassese, di una dilatata pre-senza dei consiglieri di Stato con “una funzione di supplenzanell’inesistente élite amministrativa”.

Un processo penale le cui scelte di politica

del diritto sono celate dietro il vero

e proprio imbroglio dell’obbligatorietà

dell’azione penale

E questo punto ci porta ad una delle contraddizioni di fondodella storia presente: le “funzioni di supplenza” più in generaledella magistratura (il cui prezzo è però costituito dalla fugaanche di questo corpo dello Stato dalle sue funzioni primarie).V’è un capitolo, drammatico per il suo contenuto, intitolato si-gnificativamente “I magistrati dall’amministrazione alla poli-tica”, dove, con il consueto stile attento ai fatti e alla documen-tazione disponibile, l’Autore evidenzia la frattura intervenutanel secondo dopoguerra nella funzione e nei ruoli di quest’organodello Stato. Sotto l’usbergo di quell’indipendenza del sistemagiudiziario costituzionalmente garantita (e ovviamente funzio-nale alla concezione stessa dello Stato moderno) s’è verificatainfatti una vera e propria “corsa dei magistrati verso la politica”che li ha portati a divenire “parte della élite politica, a differenzadi quella francese e a somiglianza di quella americana”. Un’e-terogenesi, in verità, tanto più pericolosa in quanto garantitada un uso a tutto campo di un processo penale le cui scelte dipolitica del diritto, quando non di politica tout court, sonocelate dietro il vero e proprio imbroglio dell’obbligatorietàdell’azione penale: principio cui non a caso la corporazionedei magistrati è particolarmente affezionata (ed ovviamenteuno dei fondamentali idola di certa cultura di sinistra). La cosa singolare rilevata da Cassese è che a quest’espansionedel potere giudiziario, sotto gli occhi di tutti, fa riscontro “ilfallimento della funzione principale della magistratura”, giacché“la giustizia in senso proprio langue”, data la inaccettabile

durata dei processi. Con la conseguenza che “se la magistraturafa parte della élite del paese, trascura la sua funzione principale,quella di dare giustizia”(p. 189). Mentre poi io credo sia diffi-cilmente accettabile che un sistema pubblico efficiente possapermettere che l’indipendenza della magistratura come corpogiudicante e a tutela delle sue funzioni di terzietà si traduca inuna totale indipendenza dei singoli magistrati. In una fase incui anche nei riguardi di ricercatori impegnati nei settori piùastrusi si pretendono controlli di produttività, sovente in modomolto rozzo, non è possibile che in nessun modo la produttivitào la improduttività di un magistrato sia priva di qualsiasi con-seguenza pratica.Ma soprattutto è evidente che la “corsa dei magistrati versola politica”, con la triplicazione dei magistrati arruolati nellapolitica successivamente “alle iniziative della magistraturamilanese denominata ‘mani pulite’”(p. 189), ha contribuitoal nodo di fondo denunciato da Cassese e costituito dallamassimizzazione “dei livelli d’indipendenza, e [da] livellid’efficienza inferiori agli standard internazionali”. Sostan-zialmente un cattivo uso di questa indipendenza che porta alparadosso di un’accresciuta domanda di giustizia, e conte-stualmente di una sempre più generalizzata tendenza alla“fuga dalla giustizia”, con la ricerca di soluzioni alternativeal processo ordinario (p. 192). Ancora una volta – Costituzioneo no – la forza dei singoli gruppi sociali e delle corporazionisi trasforma in arbitrio.Il tono pacato, la ricerca di dati oggettivi, l’attenzione airapporti di causalità ed ai nessi di contestualità, ma anchealle contraddizioni interne, alla compresenza di più fattoriconvergenti o tra loro contrastanti, sono tutti aspetti dellavoro di Cassese che contribuiranno a farne un duraturopunto di riferimento non solo per qualsiasi studioso deldiritto e dei sistemi amministrativi e di governo, ma ancheper chi a qualsiasi titolo s’occupi di politica italiana. Per-ché la grande crisi del nostro paese, che mina l’interoquadro politico, passa attraverso i nodi individuati inquesto libro. Che io ho letto, debbo confessare, con il cre-scente sentimento di una catastrofe immanente e pure an-tichissima nelle sue latenze. E concludendo questa letturacon una vera e propria sensazione d’ira verso tutti i difen-sori dell’esistente: a partire da coloro, che soddisfattidella “Costituzione più bella del mondo”, non vedono chesotto il suo impero – ma talora anche grazie ad essa edalle interpretazioni datane – è stata possibile una paurosaaccelerazione dei processi di disgregazione dello Statomoderno.

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Viviamo il tempo della crisi della democrazia a livello glo-bale e delle sue declinazioni nazionali, che ha alla base

una serie di fattori: la progressiva perdita di sovranità degliStati, la “privatizzazione della politica”, il prevalere del capi-talismo finanziario sulla produzione, la concentrazione di ric-chezza in poche mani come mai era avvenuto nella storia del-l’umanità, la riduzione del Welfare State con l’esplosione diuna gravissima “questione sociale” segnata dalla diffusione dipovertà e disoccupazione. In Italia tutti questi fattori sono ag-gravati dall’incapacità di fronteggiare i problemi creati dallacrisi finanziaria planetaria e dallo stolido rigorismo monetaristadell’Europa germanocentrica, assieme alla rottura del patto fi-scale paragonabile a quella che provocò la Rivoluzione ameri-cana al grido di No taxation without representation.

La rappresentanza sociale da parte dei

tradizionali soggetti collettivi, in primo luogo

i sindacati dei lavoratori, appare in difficoltà

Anche la rappresentanza sociale da parte dei tradizionali soggetticollettivi, in primo luogo i sindacati dei lavoratori, appare indifficoltà. Un sindacato che ha perduto la grande capacità dimobilitazione sociale e il potere di interlocuzione istituzionale,sviluppatesi con la straordinaria stagione di conquiste dell’au-tunno caldo (aumenti retributivi, occupazione, diritti sindacali edel lavoro), e arrivate sino alle esperienze stabili di concertazionedegli anni Novanta del secolo trascorso.Quella lunga stagione è descritta in un nuovo libro di GiorgioBenvenuto1, uno dei leader storici del sindacalismo italiano,protagonista di quegli anni al vertice del metalmeccanici primae della Uil dopo, con l’originale modello del “sindacato deicittadini”; poi Gran commis de l’état al vertice del ministero

delle Finanze, segretario del Psi nel 1993 e parlamentare delcentrosinistra alla Camera e al Senato, dal titolo “Il divorzio diSan Valentino. Così la scala mobile divise l’Italia”2, che prendele mosse dal famoso decreto del 14 febbraio di 30 anni or sonoche tagliò la scala mobile, entrando nell’immaginario collettivocome modello di politica decisionista.Il filo conduttore del libro di Benvenuto, oggi storico del mo-vimento operaio ed esperto di fisco ed economia, è la scalamobile, il meccanismo di adeguamento automatico dei salari,che proprio grazie alle lotte del 1969 e dei seguenti anni ’70divenne uno strumento formidabile di adeguamento delle re-tribuzioni al costo della vita, ma anche elemento inflazionisticoin una fase economica segnata dalla fine degli accordi monetaridi Bretton Woods e dalla crescita del costo delle materieprime importate, petrolio in primo luogo, a causa delle crisigeopolitiche mediorientali, soprattutto dopo l’accordo del 25gennaio 1975, “imposto” alla Confindustria di Gianni Agnellida Cgil, Cisl e Uil, allora guidate da Lama, Storti e Vanni, mai cui leader “marcianti” erano i segretari della Federazioneunitaria dei metalmeccanici, Bruno Trentin, Pierre Carniti e,appunto, Giorgio Benvenuto.Attorno alla scala mobile – divenuta nel 1975 a punto unicosu base trimestrale, e quindi egualitaria per i lavoratori, conuna riduzione notevole del peso della contrattazione collettivae connessa fortemente alle tendenze inflazionistiche di prezzie tariffe – si svilupperà un lungo confronto tra partiti, sindacatie imprese, segnato dalla strategia rivendicativa sindacale fon-data sulla “conflittualità permanente” e dalla barbarie deglianni di piombo il cui zenith fu l’uccisione del presidente dellaDc Aldo Moro: strategia sindacale basata sul conflitto socialeche trovò una pesante battuta d’arresto con la vertenza per laristrutturazione della Fiat a Torino nell’autunno 1980 e la“marcia dei 40mila”. E così di volta in volta, sarà la Cgil di Lama a sostenere l’esi-

La concertazione non è un pranzo di gala>>>> Maurizio Ballistreri

Benvenuto

1 Scritto in collaborazione con il giornalista Antonio Maglie.

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genza di legare i salari alle compatibilità economiche e allalotta all’inflazione, nell’ambito del “compromesso storico”;la Cisl di Carniti per fare affermare il modello dello “scambiopolitico” neocorporativo; o la Uil di Benvenuto, funzionale aduna strategia legata ai modelli sindacali socialdemocratici eu-ropei che in Italia, in ambito sindacale, hanno avuto come“padre nobile” Bruno Buozzi (al quale è intitolata la prestigiosaFondazione di studi che l’ex segretario della Uil presiede).

Benvenuto ricostruisce con rigore

storiografico quelle vicende, arricchendole

di aneddoti frutto del suo ruolo

di protagonista

Benvenuto descrive quelle vicende, dall’accordo del 1975 alprotocollo Scotti (dal nome del ministro democristiano delLavoro dell’epoca, che utilizzò come base di confronto illavoro svolto l’anno precedente dal governo presieduto dalrepubblicano Giovanni Spadolini, il primo “laico” dopo quellodi Ferruccio Parri nell’immediato dopoguerra) del 1983,segnato da due diverse versioni che il ministro democristianosottopose alle parti sociali; e poi, il decreto di San Valentinodel governo presieduto dal leader socialista Bettino Craxi, il14 febbraio 1984, con il quale vennero tagliati quattro punti discala mobile con l’accordo di Cisl, Uil e socialisti della Cgil el’opposizione del Pci e della maggioranza del sindacato guidatoda Lama3.Nel 1985, dopo episodi dolorosi come l’uccisione da partedelle Brigate rosse dell’economista Ezio Tarantelli (vicinoalla Cisl e ritenuto un “nemico” riformista come nel 1980 ilgiornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi), che avevaideato il meccanismo di attenuazione della scala mobile attra-verso la predeterminazione dei punti di contingenza, si arrivaal voto, il 9-10 giugno, sul decreto nel frattempo convertito inlegge dal parlamento, a seguito del referendum promosso dalPci di Berlinguer, scomparso in circostanze drammatiche du-rante un comizio per le elezioni europee del 1984. VinceCraxi con il suo governo, e l’economia e l’occupazione volano,l’Italia supera la Gran Bretagna tra le nazioni più sviluppate

del mondo e il suo prestigio internazionale diventa altissimo,anche a seguito dell’episodio di Sigonella, che vide il leaderdel Psi e premier contrapporsi al presidente americano Regannella notte tra il 9 e 10 ottobre 1985.Benvenuto ricostruisce con rigore storiografico quelle vicende,arricchendole di aneddoti frutto del suo ruolo di protagonista4,evidenziando la ripresa dell’unità d’azione tra le confederazionidopo il referendum e l’affermazione nelle relazioni industrialiitaliane del metodo concertativo tra governo, associazioni da-toriali e sindacati per la realizzazione di quelle politiche deiredditi poi affermatisi nei successivi anni ’90 con i governi dicentrosinistra.Nel 1993 l’accordo triangolare del 23 luglio con il governo“tecnico” di Carlo Azeglio Ciampi abolisce la scala mobile infavore di un meccanismo di programmazione dell’inflazione“in discesa”, dopo che l’anno prima, con il governo di GiulianoAmato, si era provveduto ad una radicale modifica del mecca-nismo introdotto nel 1975 per una drastica attenuazione delsuo impatto sulla struttura salariale.Il libro, scritto – come dicono gli autori – “con un linguaggiooriginale, quindi né in ‘politichese’ né in ‘sindacalese’”, mache coglie anche gli aspetti umani degli avvenimenti descritti,traccia in appendice un profilo biografico dei protagonisti sin-dacali, politici, imprenditoriali, del mondo accademico e del-l’informazione. Dalla sua lettura si ricostruisce una fase storicadella vita pubblica nazionale caratterizzata dal primato dellapolitica e da un ruolo straordinario dei sindacati e dei lavoratori,argine al modello capitalistico che purtroppo si è affermato aigiorni nostri, generando la “società liquida” descritta dal so-ciologo Zygmunt Baumann: a testimonianza di come senzaforti organizzazioni collettive di rappresentanza – in primoluogo i partiti e i sindacati – la democrazia diventi sterile.

2 Edizioni della Fondazione Bruno Buozzi, 2014, pagg. 527.3 Che però non perse mai il “filo rosso” dell’unità d’azione con le altre or-

ganizzazioni, sia pure nel quadro di una dura divisione a sinistra tra so-cialisti e comunisti e tra le tre centrali sindacali, segnata anche da conte-stazioni ai dirigenti sindacali durante i comizi.

4 Come quando cita l’“avvocato” che per giustificare la firma dell’accordodel ’75 dice: “Ma che volete, loro sono i metalmeccanici, sono i più bravi”.

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In un paese in cui il tema delle intercettazioni ha occupatoe occupa stabilmente le prime pagine dei giornali, un

libro sul mito della trasparenza e sui suoi vizi dovrebbegiungere a proposito. Il libro in questione, scritto dalfilosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han e intitolato La

società della trasparenza, è stato tradotto da FedericaBuongiorno per le edizioni Nottetempo. Se ne è parlato egiustamente se ne parla ancora: era inevitabile, visto chenel frattempo siamo passati dalla retorica delle intercettazionialla retorica dello streaming, senza però affrontare i duetemi con la dovuta profondità. Di questa retorica il libro del filosofo tedesco di origini co-reane coglie soltanto alcuni aspetti, dedicandosi ad ampliarelo sguardo, nello spazio di un saggio breve, in molte dire-zioni. In direzione ad esempio del tema della trasparenzacome eccesso di informazioni – e qui nota, giustamente,come a un aumento di informazioni non corrispondano ne-cessariamente scelte migliori – o del tema del “segreto” inpolitica. Abbondano le citazioni da Carl Schmitt, che in di-versi testi (Han cita soprattutto La condizione storico-spi-

rituale del parlamentarismo odierno e Cattolicesimo romano

e forma politica) ha sottolineato l’intima connessione trauna certa dose di segretezza e la politica in quanto azionestrategica. Per Schmitt il postulato della pubblicità «ha il suo oppositorespecifico nella rappresentazione secondo cui a ogni politicaappartengono degli arcana, dei segreti politico-tecnici, chein effetti sono altrettanto necessari all’assolutismo quanto isegreti negli affari e nell’impresa per una vita economicafondata sulla proprietà privata e la concorrenza». Egli con-trappone quindi una società che non ha più il coraggio di«far valere un concetto aristocratico di “segreto”» - comequella verso cui (apparentemente) ci stiamo dirigendo -alla società del XVIII secolo, che al contrario era «ancoraben sicura di sé». Nella società della trasparenza «non cisaranno più arcana, né gerarchia, né diplomazia segreta:soprattutto, non ci sarà più politica, poiché ogni grande po-

litica implica l’arcanum». Tutto, dice ancora Schmitt, «sisvolgerà davanti alle quinte» e «davanti a una platea di Pa-pageni». Quest’ultima citazione, tratta da Cattolicesimo romano e

forma politica, avrebbe meritato forse più attenzione daparte dell’autore, soprattutto per il riferimento a Papageno,l’uccellatore del Flauto magico di Mozart. Schmitt infattinotava come nel Flauto magico, opera considerata illumi-nista per eccellenza con la sua simbolica lotta della lucecontro le tenebre, sembrino contrapporsi due diverse im-magini. Da un lato, una rappresentazione della “tremendae intrepida” autocoscienza e del sicuro autoritarismo deisacerdoti-massoni, dall’altro la “diabolica ironia” controPapageno, e cioè contro l’uomo comune: il «buon padredi famiglia, intento all’appagamento dei propri bisognieconomici e liquidato una volta soddisfatti i suoi desiderie le sue necessità». Questa è quindi la “platea di Papageni”davanti alla quale la società della trasparenza svelerà isuoi arcani: è la platea dell’uomo comune.La politica senza più coraggio, senza più il “coraggio delsegreto”, non è più politica, si autoannulla, segna la suafine. L’esempio evidente, per Han, è il partito dei Piraten

(data la sua rilevanza nel panorama politico tedesco, manoi potremmo dire le stesse cose del Movimento 5 stelle):un anti-partito che, «come partito della trasparenza, con-tinua l’evoluzione verso la post-politica», ossia continual’evoluzione in direzione di una de-politicizzazione. L’an-ti-partito non ha colore (è trasparente) nel senso che nonha ideologia; ha invece opinioni, che rivendica comelibere da condizionamenti ideologici. E come partito diopinioni (partito che si lascia guidare dalle opinioni deipropri elettori, opportunamente rilevate in un sondaggiopermanente), l’anti-partito «non è nella posizione di arti-colare una volontà politica e di produrre nuove coordinate

sociali».Nella sua analisi - talvolta rapsodica, talaltra appesantitadalle citazioni, dalle allusioni e da certi trucchetti della fi-

La società della sfiducia>>>> Giovanni Damele

Byung-Chul Han

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losofia à la page che iniziano a mostrare la corda (etimologiespregiudicate, abuso del trait d’union ecc.) - Han toccamolti temi, ma tralascia alcune ovvietà che, anche se tali,meriterebbero di essere citate in questo contesto.

Mettere una telecamera dove prima

non c’era favorisce il protagonismo

La prima, sulla quale non vale comunque la pena di dilun-garsi, è che a meno di trasmettere in diretta la vita pubblicae privata dei deputati e dei membri del governo minuto perminuto (in una sorta di “grande fratello” parlamentare cheforse non dispiacerebbe ai frequentatori del blog di Grillo),le dirette (ancorché in streaming) di una discussione parla-mentare, di un incontro tra delegazioni di governo o partito,delle riunioni dei gruppi parlamentari non impedisconoche i protagonisti poi si incontrino regolarmente al bar o incasa di un comune amico per parlarsi a telecamere spente.Il mito dell’assoluta trasparenza è, insomma, niente piùche un mito, almeno per il momento. La seconda, più interessante, è l’ingenua convinzione chebasti piazzare una telecamera in una sala del Parlamento (oin un aula di tribunale) perché tutto sia finalmente “traspa-rente”, anzitutto a se stesso. Come se la presenza della tele-camera non influenzasse (tanto per dirne una) le parole e gliatti dei politici teletrasmessi, trasformando così il tutto inuna “scena” che difficilmente si sarebbe svolta allo stessomodo a telecamere spente. Dopotutto, chi argomenta, chidiscute, chi parla allo stesso modo in privato e in pubblico?

Infine, la terza ovvietà è che mettere una telecamera doveprima non c’era favorisce il protagonismo. E non sempre èbene. Prendiamo un esempio che può fare al caso nostro. InBrasile, le sessioni del Supremo Tribunal Federal (una corteanaloga alla Corte Suprema degli Stati Uniti) sono trasmessein diretta video. La diretta è integrale. Dal 2002 esiste unatelevisione apposita, chiamata TV Justiça (con il suo dovutocanale su Youtube), che trasmette in diretta i processi, com-prese quelle parti che qui da noi sarebbero coperte dalsegreto della cosiddetta “camera di consiglio”, cioè i dibattititra i giudici, con relativi dissensi (talvolta anche aspri) escambi di opinioni. Il tutto avviene, ovviamente, in nomedella trasparenza, e non è detto che questa scelta non abbiaeffettivamente aiutato a migliorare le pratiche discorsivedei giudici della suprema corte. Va anche detto che le prime ricerche sistematiche (inverità ancora a una fase abbastanza preliminare) sembranoindicare una tendenza dei giudici a pronunciare voti epareri sempre più lunghi, magari con l’intento di accrescereil proprio prestigio dinanzi all’opinione pubblica. Certo,non è sempre così: il protagonismo può variare da giudicea giudice e anche da caso a caso. Alcuni casi, si sa, sonopiù sensibili di altri. Recentemente, anche il Brasile ha co-nosciuto la sua tangentopoli. Una vasta inchiesta (dettadel mensalão) ha condotto a processo esponenti di rilievodel partito dei lavoratori di Lula. Molti di loro, in quantoministri e senatori, hanno dovuto essere giudicati dinanzial Supremo Tribunal Federal in quanto “foro privilegiato”.Tutti si sono trovati a fare i conti con il carismaticoJoaquim Barbosa: di fatto il primo giudice di colore del

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Supremo, nominato dallo stesso presidente Lula da Silva,e simbolo - lui nero e di famiglia povera - delle trasforma-zioni sociali in atto (pur con molte lentezze e contraddizioni)nel Brasile contemporaneo. Non sorprenderà i lettori sapereche dopo un processo costellato da polemiche, autenticiscontri verbali e protagonismi (al termine del quale egli haanche rivestito, per ragioni di turnazione, la carica di pre-sidente del Tribunale), Barbosa si è infine spogliato dellatoga e ha lasciato la suprema corte, inseguito dalle voci diuna sua imminente carriera politica.Che sia vera oppure no la sua intenzione di entrare in poli-tica, Barbosa ha rappresentato per molti versi un elementodi disturbo tra le élite tecnocratiche della suprema cortebrasiliana. Anche per questo la retorica del difensore degliinteressi dell’uomo comune contro le caste politico-giudi-ziarie ha accompagnato i suoi non infrequenti battibecchicon i suoi colleghi (trasmessi in diretta, ovviamente). Nelcorso di un processo altamente polemico, nel quale si giu-dicavano in sede penale esponenti delle alte sfere politichedi Brasilia, il mito della “trasparenza” ha mostrato i suoilati oscuri, lasciando intravedere i rischi di una sorveglianzamorbosa che confonde la “società della trasparenza” con la“società del controllo” e rischiando tra l’altro, come notaHan, di annientare la libertà di azione e di decisione.L’aula di un tribunale e l’aula di un Parlamento non sonodifferenti, in fondo, di fronte al mito della trasparenza.Sorvegliare e vigilare può anche voler dire far sentire ilpeso dell’opinione pubblica e togliere, attraverso questocondizionamento, libertà d’azione al giudice o al deputato.Il passo successivo è la trasformazione del delegato in por-

tavoce, privo il più possibile di margini di discrezionalità.In questa sorveglianza continua - e nel desiderio di ridurreal minimo la libertà di azione e di decisione, ossia ladelega lasciata al politico di turno - sta in fondo la chiavedella retorica della trasparenza. Qui il discorso di Han si faveramente interessante, e dice davvero molto anche allasocietà italiana. Il mito della trasparenza si trasforma involontà di controllo, ma il controllo non può rimpiazzare lafiducia “che produce liberi spazi di azione”. Han è (dichiaratamente) debitore di Richard Sennett: «Ilpopolo deve avere fiducia nei suoi governanti; se ha fiducia,accorda loro una libertà di azione senza sentire bisogno diconsultazioni, monitoraggi e supervisioni costanti. Se nongodesse di questa autonomia, il governante non potrebbemai fare una mossa». La fiducia, dice Han, “è possibilesolo in una condizione intermedia tra sapere e non-sapere”,perché “se si sapesse tutto in anticipo, la fiducia sarebbesuperflua”. La trasparenza elimina questa dimensione di“non-sapere” e con essa elimina ogni spazio per la fiducia.La trasparenza, insomma, non “realizza la fiducia”, ma laesclude. Per questo “la domanda di trasparenza diventaforte proprio quando non c’è più fiducia”. Gli eletti del M5s giunti in Parlamento con l’apriscatoleper aprire quelle istituzioni popolate da delegati dei qualinon si fidano, sono poi fatti oggetto della stessa sfiducia daparte del loro elettorato e dei militanti, che chiedono le di-rette streaming delle riunioni dei gruppi parlamentari e in-tervengono per sfiduciare ora un rappresentante, ora l’altro.Se oggi vogliamo la società della trasparenza, è perchésiamo già diventati la società della sfiducia.

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Le religioni dell’uomo-Dio>>> Corrado Ocone

Non è una tesi nuova quella chefa da sfondo al ponderoso tomo

di Paolo Bellinazzi, ma ė un’idea chetendiamo a dimenticare con troppa fa-cilità: che cioè fra comunisti e nazi-fascisti ci sia stata una unità di pen-siero e di intenti, sia dal punto divista della teoria sia della tragica pra-tica novecentesca. Sarebbe interes-sante capire perché questa dimenti-canza abbia ripreso nuovamente vigorenella sinistra italiana negli ultimi anni,nonostante il lavoro teoretico e sto-riografico svolto, in primo luogo suquesta rivista, negli anni Settanta eOttanta del secolo scorso. Il fatto èche ad un certo punto è ritornato adoperare forte nelle menti quel pregiu-dizio, perfettamente esemplificato inDestra e sinistra (1993) di Bobbio,per cui queste due categorie sono con-siderate da una parte le principali insenso assoluto del discorso politico edall’altro connotate di un valore on-tologico e sovrastorico che si estendeanche all’ambito antropologico e mo-rale: ove la sinistra diventa naturaliter

portatrice di valori positivi e la destrail contrario. È l’impianto, d’altronde, su cui si fondala nostra Costituzione, che è sì antifa-scista ma non è proprio ugualmente esimmetricamente anticomunista. Percui, pur essendo non comunista, è pas-sibile di essere letta dai comunisti come“incompiuta” o ancora e sempre “darealizzare”. E invece Bellinazzi ci mo-stra, con dovizia di particolari, proprioil contrario. Lo fa , come non è usuale,alternando il registro scientifico a quel-

lo dei ricordi personali, cioè le “ri-membranze” di leopardiana memoriadi cui parla nel sottotitolo. Cominciamodalle affinità politiche, di cui la storiaci ha dato ampia prova. Comune è, inprimo luogo, l’odio per la borghesia,cioè per la classe più dinamica delmondo moderno. Un’avversione pro-

fonda per le forme del suo operareeconomico, e quindi per il capitalismo,e di quello politico. In questo secondosenso la “democrazia borghese”, e cioèrappresentativa, viene considerata solo“formale”: una finzione sovrastrutturalevolta a mascherare il predominio diuna classe sociale sulle masse.

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Conseguenza di ciò è anche l’antise-mitismo, l’identificazione del capita-lismo con lo spirito ebraico. Al biecomaterialismo dei tempi moderni vieneperciò opposto un rinnovato spiritua-lismo da riconquistare in futuro, al-l’individualismo lo spirito di comuni-tà. L’idea è quella di un “uomo nuovo”da plasmare in modo quasi ingegneri-stico, un uomo riconciliato con sestesso e con gli altri. È sicuramenteuna visione pregna di teologismo, tan-to che è perfettamente congruo il ri-chiamo che Bellinazzi fa sin dal titoloall’idea dell’uomo-Dio, che è anchel’ idea di una “purezza” o non conta-minazione da perseguire quasi conparossismo e che è la negazione diciò che è umano. Più controversa o discutibile è l’indi-viduazione da parte di Bellinazzi diquesta affinità di fatto nelle filosofiesette-ottocentesche. Non perché nonci siano, beninteso: ma perché il qua-dro è molto più chiaroscurale di comequi viene presentato. Soprattutto nonconvince la posizione di Kant come“bestia nera”, e quindi origine idealedei totalitarismi, per la sua idea di unSoggetto forte e teso a realizzare “ope-rativamente” le idee prospettateglidalla sua “immaginazione”. La stessaidea di una linea di pensiero che, fon-data sul primato della “pratica” sulla“teoria”, da Aristotele porterebbe drit-to al pensatore di Koenigsberg è forsecorretta ma non pertinente. Il problema dei totalitarismi si poneal livello di teoria più che di pratica,a livello di quella fallacia razionali-stica che scettici e liberali hanno dasempre messo in evidenza. Forse sonopiù i tratti russoviani di Kant chequelli soggettivistici ad essere passibilidi imputazione dal nostro punto di vi-sta. Né tantomeno Hegel è facilmenteliquidabile come teorico del totalita-rismo, anche se qui Bellinazzi è inbuona e vasta compagnia (si pensisolo a Popper). Hegel è un Giano bi-fronte che a un certo punto chiude luistesso quel processo di apertura e li-bertà che aveva individuato col ter-mine di dialettica.

Se dovessi giustificare teoricamentela tesi - che mi trova consenziente -della unità di intenti fra i due totalita-rismi, farei riferimento agli studi didue autori pur molto diversi fra loroquali Zeev Sternhell e Ernst Nolt (cheBellinazzi non cita proprio). Da unaparte l’unità di intenti fra i due totali-tarismi nasceva sostanzialmente dauna comune origine forse tardo-otto-centesca; ma dall’altra i totalitarismidi destra vanno visti come una rea-zione al bolscevismo. Proprio per questo secondo aspetto,come ogni reazione, anche quella na-zi-fascista si gioca sullo stesso terreno,col segno cambiato. Ma cambiato, in

definitiva, mica tanto: il nazismo, adesempio, era nazionalista e non inter-nazionalista: ma pur sempre un socia-lismo era, come è evidente anche dal-l’uso del colore rosso e da altre nonsecondarie simbologie. Le mie sonocomunque suggestioni: l’importante ètornare ai documenti senza paraocchi,e anche con la capacità di mettere indiscussione gli schemi di pensiero piùsolidi e accreditati. Virtù che al librodi Bellinazzi certo non mancano.

Paolo bellinazzi, In nome dell’uomo-

dio. 1789-1989. Rimembranze di un post-

socialista, Rubbettino, 2013, pagine 674,

euro 29.

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La Riforma e la democrazia>>> Danilo Di Matteo

Massimo Aquilante, nella prefa-zione al volume a cura di Paolo

Naso promosso dalla Federazione dellechiese evangeliche in Italia con la col-laborazione dell’Unione italiana chiesecristiane avventiste e della Federazionechiese pentecostali, ricorda che l’obiet-tivo è di suscitare interrogativi, di sug-gerire piste di riflessione. E in effettigià i contributi dei vari autori si rincor-rono e si intersecano in maniera sugge-stiva, donando al lettore una rappresen-tazione nel contempo composita esignificativa dell’argomento di fondo.Proprio Paolo Naso prende le mosse dal“paradosso protestante”: dalla teologiadi Calvino e “a fortiori di Lutero”, ispi-rata a una visione “teocratica”, è scatu-rito un contributo di rilievo all’edificiodella modernità: “La critica teologica epolitica al sistema delle ‘chiese stabi-lite’, il principio e l’etica della tolle-ranza nei confronti delle altre confes-sioni religiose, il superamento del pre-giudizio antiebraico furono patrimoniodi rami secondari e minoritari dellaRiforma che però ebbero la forza e lacapacità di strutturarsi in chiese che neisecoli acquisirono consapevolezza epeso politico all’interno dell’ecumeneprotestante”. E Sergio Rostagno indivi-dua nel binomio libertà-mutualità la“posizione protestante”: sulla dialetticatra libertà e relazione (mirabilmenteespressa dall’esortazione attribuita aHannah Arendt: “Pensa con la tua testae agisci insieme con altri”) “è costruitol’intero Nuovo Testamento”. Ma cos’è, in definitiva, la democrazia?Noi moderni, scrive Luigi Alfieri, “non

la percepiamo come governo deipoveri”, bensì “come governo delpopolo inteso come ‘tutti’”. Essa non è“il governo dei migliori”, però pretende“di essere non semplicemente unaforma di governo tra altre, e neppuresemplicemente una buona forma digoverno, migliore di altre, ma di esserela migliore possibile, l’unica legittima,la sola ammissibile nel nostro orizzontestorico”. Dentro il fatto della democra-zia c’è la sua pretesa di valore, che èessa stessa un fatto ineludibile.Biagio de Giovanni, da parte sua,coglie la tensione fra libertà e ugua-glianza: “L’uguaglianza spinge versol’omogeneità, la libertà verso la diso-mogeneità”. E che dire del conflitto “traesistenza-vita e storia, dove l’espres-sione ‘esistenza-vita’ corrisponde allivello della libertà del singolo, e la sto-ria corrisponde alla sovranità del collet-tivo, alla creazione di spirito ogget-tivo”? Lo Stato-nazione è divenuto “ilcontenitore della democrazia, la suaforma politica”, il luogo di mediazionefra spinte contrastanti: eppure già ilManifesto del Partito comunista diMarx ed Engels contiene la “previsionedi una economia mondializzata cheavrebbe travolto – o almeno messo inradicale discussione – la forma” delloStato-nazione. E’ dunque possibile unademocrazia oltre il suo classico conte-nitore? “Può esistere un demos euro-peo?”. Probabilmente “in Europa tantesono e tante saranno le forme di demo-crazia”, in corrispondenza dei varidemoi. Ma se, in seguito alla globaliz-zazione, il luogo tradizionale dellademocrazia è scompaginato, “come e inche forme si potrà ricostituire?”. Elena Bein Ricco, dal canto suo,sostiene che “se il mondo è privo diarmonia e di ordine, i credenti non pos-sono sottrarsi alla possibilità di porvi

rimedio, impegnandosi attivamente perrenderlo più vivibile e più giusto, inlinea con quella idea guida del prote-stantesimo riformato secondo cui lastoria è il luogo della vocazione dei cre-denti e il banco di prova della lorofede”. In virtù del concetto di patto,l’assetto della comunità civile nonviene più identificato “con un ordinenaturale e immutabile che discende dal-l’alto, ma con una costruzione che sicrea dal basso”, grazie a un liberoaccordo tra gli esseri umani. E presup-posto fondante della democrazia è lanozione di individuo-cittadino, titolaredi diritti civili, politici e sociali.Douglas F. Ottati delinea alcuni trattidel cristianesimo sociale americano, apartire dalla figura di Walter Rauschen-busch, il principale sostenitore delSocial Gospel: “Gli insegnamentimorali di Gesù acquistano il loro verosignificato” solo alla luce della spe-ranza nel Regno di Dio, “un’immaginee una concezione intrinsecamentesocio-politica che coinvolge tutti gliaspetti della vita umana”, in vista di unagrande trasformazione. E la prospettivadi una democrazia economica può con-durre al socialismo. Reinhold Niebuhr,invece, non condivideva lo stesso otti-mismo e si chiedeva piuttosto: “Cosadobbiamo fare dal momento che nonsiamo abbastanza buoni da amarci l’unl’altro? […] è la capacità dell’essereumano per la giustizia a rendere possi-bile la democrazia; ma è l’inclinazionedell’essere umano all’ingiustizia a ren-dere la democrazia una necessità”. EMartin Luther King rilevava come l’an-sia e il conflitto esercitassero un pesonotevole sull’esistenza degli esseriumani in un mondo frammentato, edefiniva la redenzione come il supera-mento di ciò.Wolfgang Huber, poi, nota che per Die-

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trich Bonhoeffer “la fede è qualcosa daprendere sul serio, e non tanto comeuna regione separata nell’esistenzaumana, come una riserva della pietà ladomenica mattina o come un senti-mento del proprio intimo, bensì comeatto di vita”, come cura a favore dellavita altrui. E se Hanz Gutierrez mostraalcuni dei “cortocircuiti” e delle ano-malie della democrazia rappresentativa,che tende ad esempio a divenire “unademocrazia burocratica”, Nadia Urbi-nati si interroga sul fenomeno populi-sta: “La protesta contro gli intellettualie l’alta cultura, gli attacchi alla ‘spazza-tura’ cosmopolita dei ‘pezzi grossi’ innome del ‘senso comune della gentecomune’ che vive del proprio lavoro eabita lo spazio ristretto di un villaggio odi un quartiere” sono ingredienti dell’i-deologia populista. Tale polarizzazione– da un lato i molti, il popolo, la mag-gioranza; dall’altro le elite, i pochi –tende però a escludere, non a includere.Se alla base della democrazia vi sono ilcittadino e la libertà uguale, l’essenzasuprema del populismo è “il popolo”:“Il conflitto fra i diversi interessi ingioco e fra le classi sociali” non sisvolge “attraverso il linguaggio delleistituzioni e delle procedure, bensìcome espressione diretta della forzasociale che fa dello Stato il suo stru-mento”, al fine di superare il pluralismodelle opinioni mediante la “produzionedi una narrazione dominante”, fon-dendo “in uno solo la pluralità di pub-blici che costituisce ciò che in una

società democratica definiamo opi-nione pubblica”.Stefano Fassina, dal canto suo, mostracon chiarezza due diversi approcci allacrisi economica. Alcuni pongono l’ac-cento sulla capacità di offrire inmaniera competitiva beni e servizi(“siamo in crisi perché non cre-sciamo”). Altri insistono sull’esigenzadi incrementare la domanda (“dallacrisi si esce con la crescita”). In realtà“ciò che conta è l’equilibrio didomanda e offerta ed entrambi i lati delmercato contano nel determinarlo”. EMauro Ughetto ricorda che “non c’èsocietà democratica con un pensierounico o senza pensiero”, e che l’unico“universale” concepibile è la nonoppressione. Letizia Tomassone, a proposito delladifferenza di genere, ricorda fra l’altrola “Dichiarazione dei sentimenti” delledonne convenute nel 1848 a SenecaFalls: “Il richiamo alla funzione posi-tiva della parola femminile era giàchiaro ed evidente al tempo dellaRiforma protestante, quando donnecome Caterina Zell, la ‘dottora’ di Stra-sburgo, rivendicavano la loro partecipa-zione anche di pensiero al farsi dellachiesa riformata”. E Monica Fabbri, aproposito delle sfide della bioetica,prende le mosse dall’articolo 8 dellaConvenzione dei diritti dell’uomo fir-mata a Roma nel 1950. Esso definisce il“diritto al rispetto della propria vita pri-vata e familiare”, al riparo dall’inge-renza di un’autorità pubblica. Herbert

Anders insiste invece sull’infrangersidel sogno di una crescita illimitata ericorda che “il protestantesimo indivi-dua il centro della vita extra nos, al difuori dell’umana impresa”: da qui ilcarattere provvisorio e imperfetto dellenostre azioni e il bisogno di lasciarespazio a una varietà di risposte e di pro-spettive. Valdo Spini, poi, rievoca in manierasuggestiva la propria partecipazione,nel settembre 1994, al congresso delLabour Party di Blackpool: la segrete-ria dell’evento “era ospitata nella localechiesa metodista”. E che dire delpastore e teologo svizzero LeonhardRagaz, “che partiva dal Sermone sullamontagna e dalle Beatitudini procla-mate da Gesù nei confronti dei poveri,degli ultimi e dei deboli per indicare lascelta a favore dei lavoratori nel Partitosocialista svizzero, e che costituì laLega internazionale dei socialisti reli-giosi”? E Katrin Göring-Eckardsostiene che “in democrazia le chiese ele religioni, in un campo di tensionecompreso tra prossimità e distanza cri-tica nei confronti dello Stato, hanno tral’altro il compito, da una parte, di con-tribuire a modellarlo, dall’altra di met-terlo di fronte a uno specchio. Essesono partner importanti che possonoimmettere nella pubblica discussioneaspetti particolari” e sono anche “uncorrettivo importante nelle società incui il fondamento del senso” rischia diridursi all’economia. È Debora Spini a tirare le fila del di-

scorso e a esprimere “preoccupazioniprotestanti”. Ella nota che la gover-nance globale è sì fluida, “ma ancheopaca e lattiginosa”, e i cittadini sisentono sempre più confusi e impo-tenti. La rabbia “può essere passionedistruttiva, ma può diventare” pas-sione “mobilitante e creativa se orien-tata” a rimuovere le ingiustizie. Oggi,però, i canali che permettevano unatraduzione dell’insoddisfazione edell’indignazione in azione politicasono più che mai stretti e aridi.

“Uomini e donne non hanno più a di-sposizione un vocabolario, una gram-matica che li aiuti a riformulare le lorosofferenze in termini di ingiustiziesociali”. La nostra attenzione devevolgersi “allo snodo fra società civile e‘politica’”. È in esso, infatti, che “siinserisce una dimensione cruciale:quella del potere”. E il protestante-simo, in quanto “agente come partedella società civile italiana”, devepreoccuparsi “di richiedere e promuo-vere una riassunzione di responsabi-

lità” da parte sia dei rappresentati, siadei rappresentanti: “Come eredi di unprocesso storico iniziato con le parole‘qui io sto’, abbiamo forse un po’ diesperienza nel vivere con passione, equalche carta in regola per chiedere anoi stessi e a chi ci sta intorno di tor-nare a dire, ancora una volta,‘Eppure!’”.

Protestantesimo e democrazia, a cura di

Paolo naso, claudiana, 2014, pp. 272,

€ 18.50.

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