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I MERIDIANI

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I MERIDIANI

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FRANCO FORTINI

SAGGI

ED EPIGRAMMI

a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini

e uno scritto di Rossana Rossanda

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SOMMARIO

Uno sperato tutto di ragione

di Rossana Rossanda

Le parole della promessa

di Luca Lenzini

Cronologia

a cura di Luca Lenzini

Nota all’edizione

LIBRI E RACCOLTE D’AUTORE

Verifica dei poteri

I cani del Sinai

Saggi italiani

L’ospite ingrato primo e secondo

Breve secondo Novecento

SCRITTI SCELTI 1938-1994

Notizie sui testi

a cura di Elisabetta Nencini

Bibliografia

a cura di Elisabetta Nencini

Indice dei nomi

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UNO SPERATO TUTTO DI RAGIONEdi Rossana Rossanda

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Un bel volto caparbio, occhi chiari e indagatori, sobrie le mo-venze, cappotto blu e taccuino di appunti sotto mano – questa è l’immagine di Franco Fortini che resta nella mente. Siamo prima di tutto il nostro corpo, ed egli si teneva riservato, in guardia, nella sua bella persona, senza concedersi alcuna ec-centricità. Non si finse metalmeccanico nei cortei operai né ragazzino fra gli studenti in corsa né un quidam de populo se lo fermava la polizia. Mai si lasciò catturare da un’establish-ment e mai si travestì da emarginato. Era stato povero, ave-va tirato la vita e accumulato saperi con tenacia e diletto, sa-peva di essere quel che era.

Non si lasciava andare, le sue famose collere erano medita-te, gli interventi brevi e mirati; non espose mai tormenti che non fossero della ragione. Salvo forse la pena dell’invecchia-re: «dimmi, tu conoscevi, è vero, quanto sia indegna / questa vergogna di vecchiezza?». Ma si stenta a credere che il male che lo afferrò nel 1993 ne abbia incrinato la disciplina. Aveva già letto per sé l’epigrafe sulla tomba di Francis Bacon al Tri-nity College, e titolato con il verso che la chiude l’ultima rac-colta di poesie – Composita solvantur – si scomponga tutto ciò che è composto. Aveva preso la parola sempre, per sé e per gli altri, ma si appartò per morire, evento da affrontare in soli-tudine – «transi hospes», «nunc dimittis» – spegnendosi sotto lo sguardo amoroso di Ruth Leiser, che per tanti anni s’era chinato accanto al suo sulla lirica tedesca.

Nel declinare del secolo e dell’esistenza gli era caduta ad-dosso una stanchezza. Non smise di scontrarsi – era un caval-lo da combattimento, sapeva di essere considerato intrattabi-le e con quell’ironia che si permette soltanto a se stessi s’era dipinto criniera al vento e narici frementi come i cavalli di legno delle giostre. E non c’era osso che non gli dolesse al

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dubitare degli esiti, non della verità, del suo pugnare – il vero, la verità, la mia verità, le nostre, ricorrono nei suoi scritti in opposizione al nulla, il niente cui gli appariva trascinato il mondo. Sentiva la rovina, provava fastidio per la sordità altrui, gli pesava l’isolamento – tutti abbiamo bisogno di consenso – ma non era disposto a transigere: la verità non è agevole, passa attraverso dure verifiche. All’indirizzo dei molti che gli parvero sottrarsene scoccava crudeli epigrammi: eccovi là tranquilli e onorati, amici miei cari, potrei essere come voi, ma non lo sono perché sapevo la verità. Poi si pentiva dell’arroganza, e tornava su quel che aveva scritto, nulla ritirando ma riordinando e ripubblicando nel contesto della storia – non la sua, quella dei destini generali.

Una volta per sempre, mai più. Rompeva sperati dialoghi e imprese comuni – imprese di ricerca, dunque politiche, dun-que di ordine morale, dunque non negoziabili. Che politica ed etica non si potessero separare era un comando della sapien-za ebraica e di quella cristiana, le assumeva tutte e due. Non c’è operare lecito se non mira a un più di umanità, a che l’uo-mo, come scriveva ai posteri il suo amato Brecht, sia final-mente amico dell’uomo. Che la politica si riducesse alla lubri-ficazione del sistema del mercato non gli parve fatale, gli par-ve una gaglioffata. Così restava perlopiù in una solitudine or-gogliosa e indolenzita. Dalla quale gettava sul mondo quel suo sguardo esigente, intollerante di mediazioni, per cui pas-sava sempre da felici incontri a sanguinose rotture. Tutti avrebbero voluto Fortini ma nessuno alle sue condizioni.

Neppure in morte è stato consegnato con pietà alla storia. Gli onori non sono mancati ma la scena, tutte le generazioni incluse, sembra sollevata dal non sentirsene continuamente sfidata e giudicata senza amenità. Fortini giace insepolto fuo-ri delle mura. E si spiega: ha voluto essere una voce poetica di quella parte del secolo che aveva tentato l’assalto al cielo d’un

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cambiamento del mondo, ha perduto ed è ricaduta fra le ma-ledizioni del Novecento e l’inizio d’un millennio che non ne sopporta il ricordo.

La necessità d’una palingenesi non l’aveva ereditata da casa né dalla sonnolenta Firenze dell’adolescenza. Le letture del padre, un avvocato ebreo poco praticante come i più che il Risorgimento aveva cessato di discriminare, oscillavano fra progressismo, spiritualismo e perfino esoterismo – molti no-stri padri frequentarono Michelet e Anatole France e i dintor-ni di Annie Besant o Rudolf Steiner. La madre, cattolica, leg-geva i romanzi per signore che la chiesa metteva all’indice, Luciano Zuccoli e Lucio D’Ambra. Il ragazzo Franco si formò da solo, come i più, attraverso incontri fulminanti – Jack London, Dostoevskij, Pirandello, Otto Weininger, poco a che vedere uno con l’altro ma controcanto alla romanità spalma-ta dal regime. E poi i modernissimi, Joyce e Döblin e Mal-raux. Montale e la Firenze letteraria, l’ermetismo e le riviste come «Solaria» ebbero presto la meglio sugli studi di giuri-sprudenza cui lo avevano votato i suoi e colorarono i primi tentativi di versi. Ne discuteva con i coetanei, una squadra che avrebbe lasciato il segno sulle patrie lettere, guardando gli illustri entrare ed uscire dalle Giubbe Rosse e nei Littoriali che il fascismo offriva agli studenti irrequieti. Quando le leggi razziali gli tolsero la tessera del GUF e gli vietarono quell’a-gone, Fortini si ribellò, cercò inutilmente di essere riammesso, si sentì escluso e in cerca d’una appartenenza si precipitò, rompendo con le tiepide fedi paterna e materna, verso un cri-stianesimo eroico facendosi battezzare presso la chiesa val-dese. Aveva ventidue anni.

L’anno dopo fu l’arresto del padre e la guerra, nel 1941 la chiamata alle armi e l’alternanza dell’università (ancora in-certo fra letteratura e storia dell’arte) con il servizio militare.

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Fino all’8 settembre, quando assieme ad altri dispersi avreb-be raggiunto la Svizzera, la quale accoglieva tutti ma in poco meno che campi di concentramento, proibendo questo e quel-lo. Ma qui avrebbe incontrato il Partito socialista, che parlò all’animo suo più degli amici comunisti e azionisti di Firenze. Di qui tentò un’incursione nella resistenza della repubblica dell’Ossola – già in fase di ripiegamento – fra audacie e timo-ri, ritiri e ritorni. Qui, a Zurigo, incontrava Ruth Leiser.

Il 1945 avrebbe chiuso questo apprendistato. Non diverso da quello di molti della generazione nata attorno al 1920, poco prima o poco dopo. Stesse letture, stessi interrogativi, stesse frequentazioni, stesso fastidio del fascismo, stesse in-certezze a impegnarsi fino all’occupazione tedesca. Ma l’esse-re stato mezzo ebreo, mezzo protestante, mezzo antifascista, mezzo resistente dovette arrovellarlo ed è probabilmente al-l’origine della intolleranza che avrebbe maturato, verso se stesso e gli altri, per ogni scelta non fatta o rimandata. Dell’e-braismo e del protestantesimo gli rimase una idea severa e non conversevole di Dio, assieme a una percezione gianseni-sta della colpa e del tragico, che raramente mise in parole: come le oscure rose del suo poema, custodì un non detto delle cose ultime, non partecipabile col primo che passa.

Molto cambiano nei percorsi individuali una guerra mon-diale, lo sterminio d’un popolo, la crisi d’un regime e la fine della primissima giovinezza. Nel 1945 l’Italia era da rifare e più delle macerie contò la passione del ricominciamento. A ventotto anni Franco aveva trovato la sua causa – il socialismo, la sua vocazione –, la letteratura e un grande amore – Ruth Leiser.

Fedele a tutti e tre, non avrebbe mai smesso di interrogare i primi due. L’impegno politico non si esercita da soli, il parti-to che si sceglie è in gran parte già dato, se ne è determinati

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più che non si determini. Aderendo al Partito socialista Forti-ni si aspettava di essere caricato di impegni e chiamato a con-dividerne le scelte, ma trovò non più che l’interesse dei partiti di sinistra per il compagno intellettuale, dal quale avere un riverbero di fama piuttosto che un contributo alla linea. Come uomo di lettere – definizione che non avrebbe lasciato passare se non per approssimativa – incrociando il «Politecnico» di Elio Vittorini pensava di avere un crogiolo nel quale filtrare gioiosamente il vecchio e fondere il nuovo, ma si sarebbe scontrato – oltre che nella diffidenza di molta intellettualità altra, anche fiorentina, che poteva forse non pesargli – nella diffidenza prima e poi contrarietà del Partito comunista per un laboratorio tutt’altro che allineato. Non crediate che sono qui per suonare il piffero alla rivoluzione, avrebbe esclamato Vittorini, e da Botteghe Oscure gli sarebbe stato risposto: Va’ pure. Franco ne patì con più furore – essere socialista era per lui un modo di essere comunista, altrettanto e più radicale, non cessò di clamare che sempre di questo mondo aveva volu-to la fine, lo sapevano bene i comunisti, ma non lo tolleravano perché era anche un pensatore politico e non soltanto, appun-to, un uomo di lettere. Sul «suo» comunismo sarebbe tornato altre volte, in prosa e nei versi, che diventavano essi stessi materia di scontri, corrispondenze polemiche, proposte e at-tacchi.

Il suo rapporto con la causa fu dunque tumultuoso e non perché chiedesse una sorta di statuto speciale – che i partiti di sinistra davano senza troppa difficoltà ai grandi e meno grandi intellettuali che accettavano di essere rispettati orna-menti, al più consulenti del loro campo, e nelle scelte generali non mettevano troppo il naso –, ma perché parlava da mili-tante e dall’interno di quelle scelte generali. Un primo consun-tivo dei suoi rapporti con comunisti e socialisti sta in Dieci in-verni, uscito dopo la invasione di Budapest quando tutto il mondo comunista è scosso. Non era il solo a tempestare nel

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1956, nella brusca oscillazione fra le speranze del XX Con-gresso del PCUS (forse quel mondo si apriva?) e l’arrivo dei carri armati russi a Budapest il 4 novembre. L’URSS si rivela-va peggio di quel che gli aveva suggerito la critica socialista e l’aspra dissidenza interna degli anni Trenta – della quale il li-bro più diffuso in Europa era stato quello di Victor Serge. Ma nel 1956 Fortini fu tra i pochi che gridarono non tanto in nome della libertà intellettuale repressa, ma in nome della ri-voluzione del 1917 che sparando sugli operai della Csepel, la grande fabbrica di Budapest, tradiva le sue proprie ragioni. Io ero allora nel PCI e mi telegrafò augurandomi una tremen-da vendetta operaia. Restava nel Partito socialista, ma un anno dopo se ne sarebbe separato, chiudendo anche con l’«Avanti!» cui collaborava tutte le settimane – perché Nenni era andato a Pralognan e i socialisti stavano mutando spon-da. Dunque o si stava con l’URSS o si abbandonavano gli sfruttati?

Fortini si sarebbe dibattuto in questa tenaglia. Questo è il Leitmotiv di tutta la sua opera e rende impossibile distinguere una sfera del tutto interiore da quella del tutto civile. Quella contraddizione gli passa dentro. E avrebbe tentato di risol-verla fin che poté nell’affermazione che no, i motivi e la forza del comunismo restavano anche se non avrebbero più avuto alle spalle un grande paese, diventato una nazione potente e prepotente come le altre, né un grande partito diventato bu-rocratico e inerte. Restavano in quanto restava un dominio economico politico inaccettabile. Franco non s’era mai troppo impicciato del Capitale, il suo era il Marx degli scritti giovanili, quello dell’alienazione, e il Lukács di Storia e coscienza di classe. Al fondo dei quali stava la innaturalità dell’uomo a farsi merce – come il Galy Gay di Bertolt Brecht. La ragione della rivolta, anzi della rivoluzione, era qui, e il fondamento del suo ethos. Più la speranza: accorciando i passaggi, restò convinto che la migliore definizione del

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comunismo fosse sempre quella marxiana, l’orizzonte cui tendono le cose presenti – e la fuse in uno dei suoi versi: «I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari. / La sola cosa che importa è / il movimento reale che abolisce / lo stato di cose presente».

Non so quanto della intollerabilità del capitalismo (sistema di rapporti fra uomini mediati da cose) gli venisse dalla esclu-sione percepita, e non solo come ebreo, nell’adolescenza e poi nell’esperienza di lavoro sotto padrone, anche il più illumina-to dei padroni. Con Adriano Olivetti a Ivrea, Franco lavorò un paio d’anni: forse sono suoi gli slogan «veloce e leggera vi accompagna nella vita» e «completa come una frase, leggera come una sillaba» della Lettera 22, prodigiosa macchinetta sulla quale stese i suoi pensieri tutta la cultura italiana, dal dopoguerra fino al computer, la Olivetti era un’impresa di punta e assieme un’utopia della convergenza capitale/lavoro nei rapporti di produzione e fra crescita industriale e bene co-mune. E anche un’idea della città a misura d’uomo: produzio-ne di modelli, architettura, sociologia, psicologia, design, arte moderna – qualcosa che somigliava al Bauhaus di Walter Gropius e al Movimento moderno di Le Corbusier, una micro-società interdisciplinare di uomini e donne, di sinistra e rifor-matori. Fortini vi trovò o ritrovò molte delle amicizie più du-rature. Ma al primo acerbo conflitto con le maestranze stette dalla parte degli operai, non fu licenziato ma dovette lasciare quell’utopia pedemontana, oggi del tutto spenta, per insegnare in una scuola secondaria a Milano. Rimase una collaborazione e l’amicizia per Adriano Olivetti, ma si era consolidata la diffidenza per il riformismo.

Non era in Italia che trovava l’elaborazione più persuasiva della sua posizione. Paradossalmente i comunisti, e all’inizio anche il PSI, stigmatizzavano i riformisti ma il loro program-

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ma altro non era, anche se accompagnato da un acuto senso del conflitto contro quella che definivano la reazione premo-derna del capitale italiano, e quindi da una forte soggettività operaia (meglio, dei lavoratori, come si preferì dire nel dopo-guerra). Fu del resto l’immagine che ne conservarono gli av-versari. L’alleanza antifascista prima e la guerra fredda poi interdicevano però ai comunisti di andare a fondo nell’analisi della società e ancor più a un progetto di rivolgimento. Ma Franco Fortini non era ingenuo né velleitario, quel che non perdonava era il venir meno, già nei primi anni dopo il 1945, di una critica dell’esistente nelle sue forme più subdole – per esempio nella meccanica dei consumi, che potevano apparire anche bisogni e diritti. Nel PCI e nel PSI la cultura come di-svelamento degli apparati e delle ideologie del capitale passa-va in secondo piano rispetto a una cultura popolare, che era poi la versione italiana del realismo socialista venuto in auge nell’URSS nel 1927, e si dava una veste più presentabile ag-ganciandosi alla tradizione che Gramsci aveva definito nazio-nal-popolare – il primo uso di Gramsci fu quello, anche se i Quaderni dal carcere avrebbero nutrito tutt’altre ricerche e pensieri.

Fortini era messo all’erta dall’inclinazione radicale, anar-chica o trockista, di una larga parte della intellettualità fran-cese – conosceva i surrealisti, aveva amato e tradotto Éluard (assai meno Aragon), i Jean Cassou e i Tristan Tzara, apprezzava Pierre Naville. Ma decisivi furono i tedeschi, forse introdotti da Ruth; primo Bertolt Brecht e poi quei veri e propri maestri del sospetto che erano i francofortesi come Theodor W. Adorno, e più tardi Walter Benjamin. Nessuno come loro decostruiva – allora non correva l’espressione derridiana – le seducenti immagini del capitale, città, mode, gusto, e le sue teorie giustificative; questo smontaggio incantava Franco, anche lui traccheggiatore dei variopinti

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imbrogli della mente. Nel 1954 era uscito in Italia Minima moralia di Adorno, e il resto sarebbe seguito nel decennio successivo fino all’intervento fracassante di Marcuse, più L’uomo a una dimensione che Eros e civiltà.

Impossibile leggere le prose fortiniane senza riconoscervi più che una affinità, accentuata dall’incalzare: dunque faccia-mo, battiamoci contro. E del resto egli tenne sempre ferma, nel mare delle letture personali e professionali, una sua co-stellazione: dice di avere letto dal 1946 al 1956, anni decisivi, Gramsci, Jean-Paul Sartre, György Lukács, Lucien Gold-mann (del quale tradusse Le dieu cache,), Brecht, Adorno e Benjamin. Poi Merleau-Ponty, Bloch e Auerbach, ma i primi restarono quelli fondamentali. E su questa traccia, dismessa la fiducia nel Partito socialista, tentò dimettere assieme grup-pi di lavoro e di ricerca con gli amici italiani, specie Roberto e Armando Guiducci e Luciano Amodio con i quali cominciava «Discussioni», poi con «Ragionamenti» cui fece eco il france-se «Arguments» di Roland Barthes e Edgar Morin. «Batti ma ascolta» era il motto che vi aveva messo in esergo, percuotimi ma stammi a sentire, rivolto alle opache sinistre.

Anche «Ragionamenti» conobbe una crisi e fu la rottura con Roland Barthes quando questi rifiutò di prender posizio-ne su una repressione relativa ai fatti di Algeria. E come il so-lito trovò insopportabile che a Fortini paresse ovvio preten-derla. In quella fine tempestosa degli anni Cinquanta sarebbe invece iniziato un tentativo di fare con Pasolini – e Romano, Leonetti, Scalia, Roversi – la seconda serie di «Officina», della quale non sarebbero usciti più di due numeri. Perché mai rapporto fu più tormentoso di quello tra Franco e Pier Paolo, che avevano tutto di opposto come carattere e cultura e modo di intendere la politica – tutti e due si volevano a sinistra e con un ruolo determinante – salvo un bisogno sin-cero l’uno dell’altro. E una storia anche di solitudine e di affet-ti che si chiuderà bruscamente ma che in Franco non avrà

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mai fine, tanto che l’ultimo suo lavoro è un ripercorrere scru-poloso e tormentato il rapporto con Pasolini – è Attraverso Pasolini che rifa una intera storia, con collera e dolore.

Ma con i primissimi anni Sessanta Franco non si sente più l’intellettuale solitario che – suggerivano le sinistre ufficiali – il popolo non capiva. Bisognava essere ciechi, si accorgeva perfino con qualche allegria, per non vedere che nel volgere degli anni dai Cinquanta ai Sessanta stavano erompendo lot-te e soggetti senza, anzi contro i partiti, come geyser da una terra in ebollizione. Erano grossi frammenti di classe operaia e una intellettualità giovane, proveniente o no dalle sinistre, più spesso dal sindacato, molto colta. Nel 1957 le Tesi sul con-trollo operaio, poi quelle sul partito di classe, nel 1961 i «Qua-derni rossi» di Raniero Panzieri e nel 1962 le lotte di fabbrica e strada a Torino – lotte non per avere ma per essere, conflitti identificanti e non addomesticabili. La società si spaccava per faglie interne, finalmente per classi. Il paese parve percorso da un’ondata senza precedenti.

Furono gli anni felici di Franco fino all’esplosione del 1968 che affiancò con pudore e emozione. Uscirono i «Quaderni piacentini», vi scrisse, incontrava nuovi amici, sodali.

Con un problema in più che si aprì nel 1967 e la guerra dei Sei Giorni. Era ebreo – dire mezzo ebreo fuori da un contesto fascista non ha senso. Sino ad allora il comune antifascismo aveva identificato gli ebrei con la sinistra, adesso li divideva sulla Palestina. E l’identità ebraica assumeva una assolutezza con l’esser venute alla luce, assieme al rifiuto arabo di Israele, le dimensioni della Shoah. Auschwitz come orrore assoluto, tale da far dubitare fin di un Dio che lo aveva permesso, sug-geriva una primarietà dell’essere ebreo che la generazione dei sopravvissuti non aveva sentito con la stessa violenza simbo-lica. Cosa che le fu imputata. A lui poi veniva rinfacciato di

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aver assunto il cognome della madre al posto del paterno Lat-tes, come se all’ebraicità avesse voluto sfuggire. Rispose con veemenza nei Cani del Sinai: no, essere ebreo non consentiva l’ingiustizia esercitata sui palestinesi, al contrario la interdi-ceva. Era un’idea alta, forse eccessiva, dell’ebraismo come po-polo di giusti, prima giusti che popolo. Molti anni più tardi, recatosi con Ruth a Gerusalemme, avrebbe scritto pagine di sgomento e malinconia.

Intanto in Italia sperimentava qualcosa di simile alla spe-ranza provata alla fine della guerra. Era ben diverso aver le idee chiare sulla natura proteiforme del capitale e la sua infi-nita capacità di travestimento, denunciandolo con le armi della critica, dall’assistere al nascere della rivolta giovanile e operaia, una rivolta antisistema, che del sistema rifiutava ra-dici, fini e misure, e pareva maturare dovunque nel mondo. Malgrado le due superpotenze, in tensione tra loro ma ambe-due ostili verso una sinistra che usciva da controllabili sentie-ri. L’Occidente si apriva come una melagrana, e non più per disperazione; era la società affluente che i giovani negavano, e con loro gli operai delle roccaforti industriali. Addio al pro-gressismo.

Su questo, che non amava chiamare movimento – dei mo-vimenti che si accendono e spengono il sistema non si cura – Fortini punta molto. Non si atteggia a leader, per un momen-to anzi sventola con ironia la disposizione a far la mosca coc-chiera, espressione crudele di Togliatti, nulla rivendicando del suo passato e mettendosi al servizio di quell’onda. Dalla quale era ridimensionato e assorbito il mandato dell’intellet-tuale, già crudamente esaminato in Verifica dei poteri, nel ca-povolgimento delle categorie, delle analisi e dei fini. Perfino la contesa con i comunisti perdeva di peso, perché il 1968 stava seppellendone l’egemonia.

In quel no giovanile Fortini, e non è il solo, vede il frutto della lunga crisi delle forme borghesi. Ma non è un ragazzo

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fra i ragazzi, se qualcosa può fare è gettare nel crogiolo quel che sa, anche se ha un sapore amarognolo. Non si fida infatti della spontaneità, di una sua totale innocenza e sapienza, du-bita dell’informe che essa lusinga. Il 1968 disfa tutto, e questo è un bene, ma ha un’idea semplificante di quel che vuole e una indifferenza pericolosa ai saperi. I quali hanno in sé anche una maturazione critica della quale è ingenuo credere di po-ter fare a meno. Provocatorio, Fortini ammonisce che nel ri-fiuto di una qualsiasi autorità, anche prodotta nel proprio seno, c’è un verme: è il rifiuto d’un progetto da darsi per timo-re di dividersi o di definirsi. E così critica la volontà, anzi vel-leità, di darsi un linguaggio del tutto nascente. Nello «scrive-re chiaro» va controcorrente: contro l’illusione che si possa, almeno da noi in Occidente, non discernere la tradizione dal segno di classe che porta, e qui Lukàcs gli dà tutti gli argo-menti, fin troppi, e contro il sogno avanguardistico di inven-tare una lingua nuova, che ha rotto ogni legame con la bor-ghesia. Lui, Fortini userà la «grande lingua borghese», e non solo perché bisogna farsi capire e solo così si ha diritto di pre-tendere di essere capiti, ma anche perché una lingua nuova, come è stata tentata da qualche avanguardia e dal surrealismo, è simile al balbettìo.

E infine c’è ordine e ordine: quando gli chiedono di firmare a favore dell’assoluzione di un giovane parricida, si nega; per quanto feroce possa essere stato il padre, ci sono interdizioni che non si possono infrangere, che attengono a un livello sa-pienziale. Fortini non lo dirà esplicitamente ma qualche cen-no di ostilità verso il femminismo non è casuale; conosce la condizione iniqua riservata alle donne (il suo saggio su Paoli-na Leopardi è bellissimo) ma su una sorta di “naturale” divi-sione dei ruoli, come sulla figura del padre, qualcosa di pro-fondamente radicato lo trattiene.

E non finge mai un ascolto accattivante. Preferisce tacere ed esser messo da parte, come presto avviene con la nuova si-

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nistra dei gruppi, che con gli intellettuali ha un rapporto di mero utilizzo, non diverso dalla sinistra storica («quelle mer-de di intellettuali»). Così neanche il momento di massima identificazione con una spinta politica gli dà una appartenen-za. E siccome la sinistra storica detesta un po’ sornionamente il 1968, resterà isolato sui due versanti. Quando Pasolini apo-strofa gli studenti romani che a valle Giulia pestano i poliziot-ti, come figli di ricchi che possono permettersi di picchiare quei figli di poveri che sono i celerini, Fortini è sgomento. Un settimanale balza sulla succosa vicenda, egli supplica di non prestarsi a un ’operazione strumentale al PCI, Pasolini non gli bada ed è un’altra rottura. Ma non come le altre, e non solo perché stavolta è per sempre, non si vedranno mai più. Ma perché nessun poeta italiano lo ha più incantato di Pasolini, da nessuno si sentiva più distante nel giudizio sul che fare, sulla vita, sulla politica, nessuno avrebbe altrettanto voluto convincere del suo errore. Convincerlo significava esserne ac-cettato. Sette anni dopo, nel 1975, Pasolini veniva ucciso a Ostia, e in Franco furono grandi il dolore quanto l’amarezza di essersi perduti e non poterlo persuadere mai più.

Perché Pasolini aveva torto, lo penserà sino alla fine. Quali che fossero i limiti del 1968, esso è la rivoluzione dei nostri tempi, o almeno il suo abbozzo. La felice stagione non dura a lungo. La sinistra istituzionale toglie a studenti e operai aria e acqua, ne incamera i voti ma per ristabilire un ordine. È una sconfitta della quale Fortini non vede rimedio. Non lo vede nel movimento del 1977, del quale tace quando non dubita. Non lo persuadono né la prima Autonomia operaia né più tardi l’as-sai più elaborato «Luogo comune».

E soprattutto lo turbano ripetizioni e derive. «O voi quasi gli stessi! / O sempre troppo figli! / Passate oltre voi stessi / o finirà/ la tragedia in sbadigli». Non finì in sbadigli, finì in sangue. Nel 1993 avrebbe scritto: «Hanno portato le tempie / al colpo di martello / la vena all’ago / la mente al niente. [...]

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Compagni. // Non andate così. // Ma voi senza parlare/ mi rispondete: “Non ricordi/ quel ragazzo sfregiato / la sera del-l’undici marzo 1971/ che correva gridando / ’Cercate di capire / questa sera ci ammazzano / cercate di / capire!’ // La gente alle finestre / applaudiva la polizia / e urlava: Ammazzateli tutti!’ // Non ti ricordi?" // Sì, mi ricordo». È una poesia ma-linconica, non intende cavarsela facendo a due più due fa quattro con la storia.A breve – ma nel breve sta quel che verosimilmente gli resta di vita – la storia va in tutt’altro verso da quello sperato. E anche la generazione che si voleva rivoluzionaria dimentica il suo sussulto, se ne ritrae, partecipa alla sua damnatio memo-riae. Sono diventate indecifrabili le «nostre» ragioni. Nostre, di chi? Fra chi Franco si colloca? Ai giovani che verranno chiede di piegarsi su di esse «come su una lingua straniera»: «Vi chiedo / di prendere in considerazione / non la fatica su-bita / ma le mie proposte / di ampiezza o d’ira / e anche di quella incertezza che è utile. / Della mia pronuncia / i suoni sordi e i chiari / non separateli...». L’omologazione consumistica è avvenuta e l’individualismo che essa lusinga depotenzia bisogni e possibilità della persona – come già sapevano Benjamin e Adorno. A un postmoderno che predica la fine del senso non dà molta attenzione, tanto la riduzione di ogni progetto a mera «narrazione» gli appare strumentale all’ordine esistente. Piuttosto pensa che dichiarare una sconfitta significa anche chiedersi se non se ne porti qualche responsabilità. Ma è difficile farlo mentre chi non si pente subisce un processo, formale o no, o neppur si rende conto che di sconfitta si tratta. Almeno per ora.

Ostinato, Franco pensa che l’opacità è destinata a cadere. Perché c’è un limite oltre il quale nessuno arretrerà, pena per-dere il poco che gli resta. È la sua cocciuta speranza, uno spe-rato tutto di ragione che nessuno può eludere. E lo costringe anche a qualche conto con se stesso. Quando gli accade di di-scutere nel carcere di San Vittore con alcuni brigatisti disso-

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ciati, dice che non si può mettere in causa una legalità repub-blicana della quale lui stesso non ha mai taciuto né ipocrisie né limiti. O quando accenna, sempre negli ultimi versi, al sol-dato sovietico che nel novembre del 1941 sulla Volokolamkaja Chaussée: «Non possiamo più – ci disse – ritirarci. Abbiamo Mosca alle spalle». L’inamata anzi detestata Mosca, quell’os-simoro che era lo stato operaio – il ritorno della mente alla difesa di Mosca rinvia, più che alla gravità del presente, allo scoglio del secolo, alla contraddizione fra spinta rivoluziona-ria e un riformismo che si muove solo quando il nemico è già alle porte. Ma allora si muove. Disperante ma da non dimen-ticare.

Quel che gli pare acquisito delle rivoluzioni avvenute è sol-tanto il tentativo della Cina, del quale Edoarda Masi, anima forte e tragica, gli ha fornito le chiavi – assoluta diversità, condizione di un assoluto altro cui, malgrado o forse a cagio-ne delle traversie e sconfitte, restare fedeli. Era anche la Cina del suo Brecht, scenario di rapporti inequivocabili fra potere e fare.

A stagione delle milizie concluse si infittisce il lavoro sulla critica letteraria, accanto a una presenza sui giornali – la scrittura è il suo mestiere e la usa con astuzia da colomba in modo diverso a seconda degli interlocutori – e all’insegna-mento all’Università di Siena. La riflessione sulla letteratura, come il far versi, non l’aveva mai interrotta. Ma se la pratica politica gli ha dato la certezza del legame fra l’io e i destini ge-nerali, e assieme della non riducibilità dell’uno agli altri, la pratica critica e il fare poesia lo hanno messo di fronte a un più problematico scarto fra incompiutezza del vissuto e com-piutezza dell’opera. Perché questa, se è, è armonia. È fruizione finalmente pacificata. È risoluzione del conflitto, un’icona del-la sua fine. È quello che sarebbe il comunismo. O no?

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È il tema sul quale più scava negli anni Ottanta. Recupera materiali passati, mettendoli in risonanza uno con l’altro, ne aggiunge di nuovi. Che cosa è la letteratura, si chiede nel 1978, quando sono cadute tutte le definizioni che la modernità le aveva dato, e qualsiasi mandato demiurgico è venuto a ces-sare? Perché bisogna pur dirlo che sull’andamento del mondo la poesia non ha mai contato nulla – se c’è un intellettuale prepotente che però nulla concede a un ruolo eccellente del-l’intellettuale, questo è Fortini. Nessuno, o ben pochi, ha rifiu-tato come lui di stare ai dettami d’una proprietà o d’un parti-to o d’una moda, ha fin sospettato gli altri di troppo conceder-vi (sei un malfidato, protestava Pasolini) e nessuno come lui ha definito il fare letteratura in sé come opus servile in senso ultimo.

E tuttavia lo rode quella che un tempo era definita l’auto-nomia del giudizio estetico, perché certo l’opera poetica, se è, è conclusa. Questo, che è il terreno per dir così di sua compe-tenza professionale, è vangato e rivangato. Lui poeta, lui pro-fessore, lui militante, lui Franco Lattes Fortini sono una sola persona. E non si concede di dividersi. Bisognerebbe leggere assieme gli interventi politici, i saggi critici e i versi («non sono un prosatore»). Ma l’essere uno non significa essere sce-vro di scarti. Il solo peccato mortale è soddisfarsi della pro-pria duplicità: quel che più ha rimproverato a Pasolini non è l’atteggiarsi a sovversivo mentre svolge quel ruolo conserva-tore che lo rende accetto alla borghesia e al Partito comuni-sta, ma il riposarsi sulla propria ambiguità, metterla in for-ma, compiacersi della devastazione, adularsi nell’immaturità. E farne poesia.

Perché è un grande poeta, il Pasolini che gli strappa l’escla-mazione più calorosa. Del fare poetico Fortini conosce i mec-canismi, sa che cosa ne sono le strutture, ne conosce gli stile-mi, si diletta a sperimentarli. Ma soltanto per breve tempo ha creduto di poter acquietarsi nel formalismo – Jakobson e poi,

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letto in ritardo, Bachtin. Se ne è presto ritratto: se l’opera è totale nelle sue relazioni interne, non è leggibile soltanto in esse. Una poesia non è solo quel che dice e come lo dice, la sua musica o le sue dissonanze, che peraltro hanno a loro volta una storia. L’opera in parole è luogo di proiezioni individuali e collettive. È fruizione, piacere, ma anche reperto sociologi-co, riflesso di funzioni sociali più o meno consapevoli. Pasolini è tutti e due, oltranzista nel suo doppio volto e Fortini non se ne rassegna.

Non sembra esserci nei suoi scritti un approdo teorico defi-nitivo, anche se non mancano le asseverazioni. Il fascino di Fortini critico, e non solo quello dei saggi italiani, ma anche dei suoi silenzi e delle sue idiosincrasie - argomentate come il fastidio per Gadda e non argomentate come quello per Kafka – sta nel passare ininterrotto fra un piano e l’altro. Non nasconde affatto che l’amore per il Tasso si accompagna al disamore per l’Ariosto, perché nel primo c’è la sofferenza della persona e del tempo e nel secondo un elegantissimo divagare rispetto a tutti e due, critica contenutistica se ce n’è una. Più complicato è il fascino che esercita su di lui Manzoni, inseguito con diletto nelle strutture formali nello stesso tempo in cui vi scorge un ritrarsi dalle precedenti scelte civili. Nell’analisi d’una poesia poco frequentata di Leopardi lega invece quella che giudica una incompiutezza alla debolezza del pensato, che è poi la riflessione sulla fragilità della vita che in Aspasia raggiunge una perfezione che sembra il frutto di una più profonda implicazione del pensiero e dell’emozione. E così nell’elogio all’ultima Morante, quella di Aracoeli, Fortini ne collega la forza alla fine della bianca beatitudine della Storia. Mentre si dice persuaso della grandezza di Montale quando i versi ne rivelano la verità «di piccolo borghese che si crede grande».

E tuttavia è impossibile ridurre Fortini a contenutista, epi-gono raffinato del realismo. La messa in forma e il pensato lo

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fanno egualmente e contraddittoriamente soffrire e gioire. Come è possibile? Come è sopportabile? Questo è quel che non perdona a Pasolini. Aveva avuto a che fare con maestri come Noventa, e con fratelli come Zanzotto e Sereni con i quali il rapporto era univoco. Anche le distanze erano facili da segna-re quando univoche – stima ma affinità zero con Calvino, che senz’altro annovera fra gli scaltri, per l’ammirevole fuga nel-l’irrealtà. Pasolini invece gli getta davanti fin troppa realtà, materica, lacerata, e sfugge alla domanda: ma questa è la realtà sovversiva che pretendi? Non lo è. Fortini scrive lun-ghissime lettere (e ottiene magrissime risposte: non sono un epistolografo, perché insisti, perché pretendi, che cosa vuoi, sei insopportabile) per spiegargli che altra cosa è il povero e altra il proletario, altra il sottoproletariato e altra il proletariato. E Pasolini a ribattergli che lui almeno frequenta i sottoproletari, dei quali è piena l’Italia da Roma in giù, mentre Fortini vagheggia un proletariato libresco standosene a casa. Sarebbe una lite banale se Fortini non fosse affascinato da poesie come Il pianto della scavatrice, colpito nel profondo. È facile demolire Pasolini, pensa e scrive con furore, quando fa i film – dei quali riconosce soltanto Accattone mentre imperversa contro II Vangelo secondo Matteo e Medea, ennesima fuga nella contemplazione dell’arcaico. E poi i film rivelano una partecipazione alla perfida industria culturale. Ma i versi? Pasolini è poeta malgrado quel che mette in versi? Sfavillante ma innocuo, sontuoso ma come una rovina. I conti non tornano, perché è innocuo ma sfavillante, una rovina ma sontuosa. Non torneranno mai. Attraverso Pasolini è il suo ultimo libro, meticoloso come una requisitoria o un’arringa della difesa.

Non si può dire di Fortini che visse con distrazione, come Brecht scrisse di sé. Per questo è inattuale. Chi vuole esporsi?

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Meglio non esporsi. Al non cercare un senso, egli non si rasse-gnò mai. Né lo perdonò neanche a se stesso. Chi gli ha dato del narcisista, al di là di quella custodia di sé senza la quale non si vive, gli ha attribuito a torto una soddisfazione di sé mentre era permanente il bisogno di verifica, di capire e ca-pirsi, senza indulgenze e masochismi, per nulla incline alle belle sofferenze, alle crudeltà squisite, all’incanto dei propri abissi. È stato uno in cerca di giustizia, e non sub specie aeter-nitatis, ma nel concreto e presente, dove si tratta di muoversi quando ancora hai un dubbio. Aggressivo e bisognoso, sba-gliando e pagandone il prezzo, e lasciando sempre un aculeo.

Rossana Rossanda