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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA Cina 1 Cina CINA. – SOMMARIO: I. Premessa terminologica. - II. I fondamenti della tradizione prima dello sviluppo delle «scuole filosofiche». - III. Le «scuole filosofiche» (jia): 1. Confucio e la scuola dei letterati (rujia). - 2. Mo Di (o Mozi) e la scuola moista (mojia). - 3. La scuola dei sofisti (mingjia). - 4. Laozi, Zhuangzi e la scuola taoista (daojia). - 5. Il confucianesimo di Mencio e Xunzi. - 6. La scuola dei legisti (fajia). - 7. Fondamenti e sviluppi della prospettiva cosmologica. - IV. Sviluppi del confucianesimo e del taoismo nel periodo Han (206 a. C. - 220 d. C.) e delle Sei Dinastie (220-589). - V. Il buddhismo in Cina. - VI. Le dottrine neo-confuciane dall’epoca Song (960- 1279) all’epoca Ming (1368-1644). - VII. L’iden- tità del pensiero tradizionale e l’incontro con l’Occidente. - VIII. Il periodo moderno e con- temporaneo. I. PREMESSA TERMINOLOGICA. – È soltanto a par- tire dalla fine del XIX secolo che i cinesi adot- tano, mutuandolo dal giapponese, il termine zhexue per tradurre il concetto occidentale di «filosofia», non prima cioè dell’incontro con la filosofia occidentale moderna. In preceden- za, il termine xue era utilizzato in maniera tutt’altro che astratta, ovvero in riferimento a una specifica dottrina riconducibile a uno o più maestri. La stessa distinzione tra filosofia e religione risulta estranea alla Cina tradizio- nale, che utilizzerà, sia per specifiche correnti taoiste sia per le scuole buddhiste, i termini jiao e zongjiao a sottolineare particolari «aspetti applicativi» di una stessa dottrina. Nonostante questa specificità della tradizione cinese, è possibile distinguere in essa dottrine di portata propriamente metafisica e dottrine di natura più limitatamente cosmologica (si vedrà, ad esempio, che anche una dottrina co- me quella confuciana, tutta incentrata sulla comprensione e armonizzazione del mondo umano, non esclude l’esistenza di principi co- smologici più universali – il Cielo e la Terra – che tale mondo influenzano e fra i quali l’uo- mo stesso, in primis il sovrano, funge da inter- mediario). II. I FONDAMENTI DELLA TRADIZIONE PRIMA DELLO SVILUPPO DELLE «SCUOLE FILOSOFICHE». – Il peri- odo storico che precede lo sviluppo delle «scuole filosofiche» fra l’VIII e il III secolo a. C., e per il quale molti studiosi utilizzano il termi- ne di «cultura arcaica», è un vero e proprio de- posito di concetti tradizionali che saranno di- versamente applicati e mai abbandonati nel corso di tutta la storia del pensiero cinese (con l’eccezione, ovviamente, di quei pensatori che in epoca moderna subiranno in maniera radi- cale l’influenza dell’approccio filosofico occi- dentale). Si tratta di un deposito di concetti tradizionali che è andato formandosi lungo un periodo storico eccezionalmente esteso e che vede il succedersi nel nord e nel centro della Cina di tre grandi dinastie: Xia (III millennio - XVIII secolo a. C.), Shang (XVIII-XVI secolo a. C.), Zhou (XVI-III secolo a. C.). Per quanto ri- guarda il periodo Shang, le testimonianze ar- cheologiche che ci sono pervenute evidenzia- no come la divinazione, lungi dall’essere una pratica marginale, sia l’espressione di una pro- fonda concezione della ritualità che afferma la possibilità di una comunicazione fra il mondo umano e quello celeste, fra il re e il Sovrano dell’Alto (Shangdi ). È la pratica divinato- ria che ci conserva, sotto forma di domande ri- volte al Sovrano dell’Alto incise su scapole di bovino o piastre di tartaruga, i primi esempi di scrittura, e che ci fa intravedere le radici del rapporto inscindibile fra scrittura e rito che se- gnerà per millenni la civiltà cinese. Con la di- nastia Zhou la concezione del Sovrano dell’Al- to verrà sostituita da quella di Cielo (Tian ) e il culto degli antenati cesserà di essere prero- gativa del regnante per diventare elemento fondante dell’ordine familiare e sociale. Allo stesso periodo Zhou risale il nucleo originario del Classico dei Mutamenti (Yijing), opera che, coi relativi commentari, costituirà il testo più autorevole al quale attingeranno tutti i pensa- tori successivi per l’esposizione della dottrina dello Yin-Yang e del Dao, nonché dei concetti di «centralità» (zhong ) e «armonia» (he ). III. LE «SCUOLE FILOSOFICHE» (JIA). – Il termine cinese jia , tradotto convenzionalmente co- me «scuola filosofica», ha il significato lettera- le di «casa, famiglia» e rinvia a un «ambiente», a una «filiazione» in cui si trasmette l’influenza di un maestro e del suo specifico insegnamen- to. Tuttavia, non va dimenticato che siamo di fronte a una classificazione a posteriori che fa primariamente riferimento a una filiazione di tipo testuale: infatti il termine jia è utilizzato in epoca Han (III secolo a. C. - III secolo d. C.) in un contesto strettamente bibliografico, ovvero per catalogare i testi contenuti nella biblioteca imperiale. Con il termine «cento scuole» la tradizione vuole indicare la ricchezza e la varie- tà delle dottrine che si sviluppano durante il periodo delle «Primavere e Autunni» (722-481 a. C.) e degli «Stati Combattenti» (403-256 a.

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA Cina

CinaCINA. – SOMMARIO: I. Premessa terminologica. - II. I fondamenti della tradizione prima dello sviluppo delle «scuole filosofiche». - III. Le «scuole filosofiche» (jia): 1. Confucio e la scuola dei letterati (rujia). - 2. Mo Di (o Mozi) e la scuola moista (mojia). - 3. La scuola dei sofisti (mingjia).- 4. Laozi, Zhuangzi e la scuola taoista (daojia). - 5. Il confucianesimo di Mencio e Xunzi. - 6. La scuola dei legisti (fajia). - 7. Fondamenti e sviluppi della prospettiva cosmologica. - IV. Sviluppi del confucianesimo e del taoismo nel periodo Han (206 a. C. - 220 d. C.) e delle Sei Dinastie (220-589). - V. Il buddhismo in Cina. - VI. Le dottrine neo-confuciane dall’epoca Song (960-1279) all’epoca Ming (1368-1644). - VII. L’iden-tità del pensiero tradizionale e l’incontro con l’Occidente. - VIII. Il periodo moderno e con-temporaneo.I. PREMESSA TERMINOLOGICA. – È soltanto a par-tire dalla fine del XIX secolo che i cinesi adot-tano, mutuandolo dal giapponese, il termine zhexue per tradurre il concetto occidentale di «filosofia», non prima cioè dell’incontro con la filosofia occidentale moderna. In preceden-za, il termine xue era utilizzato in maniera tutt’altro che astratta, ovvero in riferimento a una specifica dottrina riconducibile a uno o più maestri. La stessa distinzione tra filosofia e religione risulta estranea alla Cina tradizio-nale, che utilizzerà, sia per specifiche correnti taoiste sia per le scuole buddhiste, i termini jiao e zongjiao a sottolineare particolari «aspetti applicativi» di una stessa dottrina. Nonostante questa specificità della tradizione cinese, è possibile distinguere in essa dottrine di portata propriamente metafisica e dottrine di natura più limitatamente cosmologica (si vedrà, ad esempio, che anche una dottrina co-me quella confuciana, tutta incentrata sulla comprensione e armonizzazione del mondo umano, non esclude l’esistenza di principi co-smologici più universali – il Cielo e la Terra – che tale mondo influenzano e fra i quali l’uo-mo stesso, in primis il sovrano, funge da inter-mediario).II. I FONDAMENTI DELLA TRADIZIONE PRIMA DELLO SVILUPPO DELLE «SCUOLE FILOSOFICHE». – Il peri-odo storico che precede lo sviluppo delle «scuole filosofiche» fra l’VIII e il III secolo a. C., e per il quale molti studiosi utilizzano il termi-ne di «cultura arcaica», è un vero e proprio de-posito di concetti tradizionali che saranno di-versamente applicati e mai abbandonati nel corso di tutta la storia del pensiero cinese (con

l’eccezione, ovviamente, di quei pensatori che in epoca moderna subiranno in maniera radi-cale l’influenza dell’approccio filosofico occi-dentale). Si tratta di un deposito di concetti tradizionali che è andato formandosi lungo un periodo storico eccezionalmente esteso e che vede il succedersi nel nord e nel centro della Cina di tre grandi dinastie: Xia (III millennio - XVIII secolo a. C.), Shang (XVIII-XVI secolo a. C.), Zhou (XVI-III secolo a. C.). Per quanto ri-guarda il periodo Shang, le testimonianze ar-cheologiche che ci sono pervenute evidenzia-no come la divinazione, lungi dall’essere una pratica marginale, sia l’espressione di una pro-fonda concezione della ritualità che afferma la possibilità di una comunicazione fra il mondo umano e quello celeste, fra il re e il Sovrano dell’Alto (Shangdi ). È la pratica divinato-ria che ci conserva, sotto forma di domande ri-volte al Sovrano dell’Alto incise su scapole di bovino o piastre di tartaruga, i primi esempi di scrittura, e che ci fa intravedere le radici del rapporto inscindibile fra scrittura e rito che se-gnerà per millenni la civiltà cinese. Con la di-nastia Zhou la concezione del Sovrano dell’Al-to verrà sostituita da quella di Cielo (Tian ) e il culto degli antenati cesserà di essere prero-gativa del regnante per diventare elemento fondante dell’ordine familiare e sociale. Allo stesso periodo Zhou risale il nucleo originario del Classico dei Mutamenti (Yijing), opera che, coi relativi commentari, costituirà il testo più autorevole al quale attingeranno tutti i pensa-tori successivi per l’esposizione della dottrina dello Yin-Yang e del Dao, nonché dei concetti di «centralità» (zhong ) e «armonia» (he ).III. LE «SCUOLE FILOSOFICHE» (JIA). – Il termine cinese jia , tradotto convenzionalmente co-me «scuola filosofica», ha il significato lettera-le di «casa, famiglia» e rinvia a un «ambiente», a una «filiazione» in cui si trasmette l’influenza di un maestro e del suo specifico insegnamen-to. Tuttavia, non va dimenticato che siamo di fronte a una classificazione a posteriori che fa primariamente riferimento a una filiazione di tipo testuale: infatti il termine jia è utilizzato in epoca Han (III secolo a. C. - III secolo d. C.) in un contesto strettamente bibliografico, ovvero per catalogare i testi contenuti nella biblioteca imperiale. Con il termine «cento scuole» la tradizione vuole indicare la ricchezza e la varie-tà delle dottrine che si sviluppano durante il periodo delle «Primavere e Autunni» (722-481 a. C.) e degli «Stati Combattenti» (403-256 a.

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C.). Con il disgregarsi del potere unitario dei Zhou (potere politico ma anche, secondo la dottrina del «Mandato celeste», sovranità sa-cra conferita direttamente dal Cielo), si assiste al fiorire di scuole che intendono spiegare le ragioni profonde dell’avvenuta decadenza dell’ordine precedente e proporre soluzioni che portino alla restaurazione dell’unità per-duta.1. Confucio e la scuola dei letterati (rujia). – Se si vuole comprendere il primato della figura di Confucio (551-479 a. C.) lungo tutto il corso della storia cinese, è necessario aver chiaro che la figura del letterato che egli incarna (il ru

) ha una portata eminentemente sociale, co-sì come eminentemente sociale è la natura dell’etica espressa nel suo insegnamento; in tale insegnamento, conservatoci sotto forma di conversazioni e brevi aforismi nei Dialoghi(Lunyu), le norme di comportamento indivi-duale sono interpretate senza eccezione come frutto dell’interiorizzazione di norme più uni-versali, la cui capacità di fondare l’ordine so-ciale e di armonizzare il mondo umano deriva direttamente dal Cielo (Tian). La totale fiducia di Confucio nei principi che avevano retto la precedente società Zhou è sintetizzata nel no-to passaggio dei Dialoghi che recita: «Io tra-mando, non creo» (VII, 1), e si basa in primo luogo sulla certezza che solo la continuità del-la trasmissione dei «riti» (li ) può permettere a una società disgregata di ricostituire la pro-pria unità. Tuttavia, garante dell’appropriata esecuzione esteriore dei riti è l’assimilazione interiore di un «comportamento rituale» (li ) nei confronti di ogni aspetto della vita sociale e nei confronti di se stessi, comportamento che può dare i suoi frutti solo se l’essere indi-viduale riconosce all’interno di sé e prende co-stantemente come guida il «senso dell’umani-tà reciproca» (ren ). Il carattere ren è costitu-ito dal radicale di «uomo» nella sua parte sini-stra e dal carattere «due» nella sua parte de-stra, rimandando a una concezione in cui l’umanità del singolo uomo ha il suo fonda-mento nel rapporto con la molteplicità degli altri uomini (si comprende dunque come il ter-mine «benevolenza», con il quale ren è stato spesso tradotto, sia alquanto riduttivo). Nell’insegnamento di Confucio «comporta-mento rituale» e «senso dell’umanità recipro-ca» devono accompagnarsi al «senso del giu-sto» (yi ): è infatti questa triade di attitudini a far sì che l’individuo possa sviluppare piena-

mente le potenzialità che la nascita umana gli ha conferito. Per indicare quest’uomo piena-mente uomo Confucio utilizza il termine junzi

. Usato in passato con riferimento esclusi-vo a una «nobiltà di nascita», ora il termine viene a esprimere un valore interiore che si ac-quisisce attraverso lo studio e attraverso l’esercizio della triade di attitudini di cui si è detto. Il junzi, inteso come «uomo esemplare», «mai si separa dal “senso dell’umanità reci-proca” (ren), fosse anche per il tempo necessa-rio a consumare un pasto. A esso si attiene nei periodi di disordine, a esso si attiene nei peri-odi di confusione» (Dialoghi, IV, 5); «nei con-fronti del mondo non ha mai un’attitudine di esclusiva accettazione o di esclusivo rifiuto. Egli usa come unico criterio il “senso del giu-sto” (yi)» (ibi, IV, 10); «studia con assiduità gli scritti degli antichi e li sottopone al vaglio del proprio “comportamento rituale” (li): così fa-cendo non devia» (ibi, VI, 27). Il «senso dell’umanità reciproca» (ren) trova applicazio-ne non solo nella «pietà filiale» (xiao ), ma in tutte e cinque le relazioni in cui l’individuo è chiamato a confrontarsi con l’altro: i rapporti tra genitore e figlio, fratello maggiore e fratello minore, marito e moglie, amico e amico, so-vrano e ministro. Queste stesse relazioni sono l’oggetto di uno dei cardini dell’insegnamento confuciano: la «rettificazione dei nomi» (zhengming ). Il significato dell’espressio-ne, sinteticamente indicato nei Dialoghi con la frase: «Il sovrano agisca da sovrano, il ministro da ministro, il padre da padre, il figlio da fi-glio» (XII, 11), rinvia a una dottrina che afferma non solo la necessità che a ogni realtà corri-sponda un nome adeguato, ma soprattutto che a ogni funzione portatrice di un nome cor-risponda l’effettivo comportamento al quale tale nome-funzione obbliga chi lo riveste. Si tratta anche in questo caso di una visione ri-tuale della vita in assenza della quale nessuna armonia, sia essa individuale o collettiva, è possibile. Il percorso di perfezionamento spiri-tuale di Confucio, articolato anch’esso secon-do una cadenza rituale, ci è conservato in un noto passaggio dei Dialoghi: «A quindici anni posi la mia determinazione nello studio. A trent’anni fui saldo. A quarant’anni non ebbi più dubbi. A cinquant’anni compresi il destino assegnatomi dal Cielo. A sessant’anni il mio orecchio cessò di respingere alcunché. A set-tant’anni fui capace di seguire gli impulsi del cuore senza per questo violare alcuna regola»

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(II, 4). La tradizione ci parla di settanta disce-poli di Confucio che avrebbero diffuso l’inse-gnamento del maestro dopo la sua morte; in realtà nulla di scritto ci è stato conservato e bi-sognerà attendere fino alla fine del IV secolo a. C. per vedere confermate e sviluppate, con l’opera che va sotto il nome di Mencio, tutte le potenzialità della dottrina confuciana. Quanto alla canonizzazione sia della sua figura sia dei Classici di cui è tradizionalmente considerato l’autore o il revisore, essa sarà sancita in epoca Han (III secolo a. C. - III secolo d. C.) e in ma-niera ancor più definitiva in epoca Song, con lo sviluppo del neoconfucianesimo e l’assunzio-ne del confucianesimo a «dottrina di stato» (a partire dalla riforma degli esami per accedere alla carriera di funzionario che, avviata nel 1313, sancirà un sistema di reclutamento che durerà fino al 1905).2. Mo Di (o Mozi) e la scuola moista (mojia). – Gli studiosi sono sempre stati concordi nell’attri-buire all’ambiente da cui la dottrina di Mo Di si sviluppa un carattere ben diverso da quello dei letterati confuciani, senza tuttavia negarne la comune natura elitaria. Gli insegnamenti conservati nel Mozi, l’opera che porta il suo nome, appaiono infatti provenire da una co-munità organizzata di insegnanti, tecnici, mili-tari di professione, con a capo un juzi (Gran Maestro). Messo a confronto con i Dia-loghi di Confucio, lo stesso Mozi presenta uno stile che appare al lettore estremamente pe-sante e che inaugura nella tradizione cinese l’utilizzazione dell’«argomentazione basata su due alternative» (bian ). Tale metodo di di-mostrazione della verità o falsità di un assunto dottrinale, pur non escludendo il riferimento all’esemplarità degli antichi, afferma una pro-pria autonomia razionale che sarà successiva-mente sviluppata dai pensatori della «Scuola dei Nomi» o scuola dei sofisti (mingjia). Per Mo Di, la verità di una dottrina deve essere ve-rificata per mezzo di criteri certi: «Dimostrare la verità di una dottrina senza un criterio certo è come voler stabilire la direzione del levare e del calare del sole stando sulla ruota in movi-mento di un vasaio. In questo modo non sarà possibile distinguere con chiarezza il giusto dallo sbagliato, l’utile dal dannoso. Ogni as-serzione deve essere sottoposta a tre criteri di verifica. Quali sono questi tre criteri? Mozi dis-se: “Ogni asserzione deve avere un fondamen-to, un’origine, un’utilità. In che cosa consiste il fondamento? Consiste, andando all’indietro,

nelle gesta dei saggi sovrani dell’antichità. In che cosa consiste l’origine? Consiste, seguen-do il corso dei tempi, nella testimonianza di-retta delle orecchie e degli occhi del popolo. Come si individua l’utilità? Si individua osser-vando gli effetti che il sistema penale e ammi-nistrativo hanno sul popolo e sullo stato”» (Mozi, cap. 35). L’ultimo dei tre criteri, quello di utilità, è lo strumento attraverso il quale Mo Di lancia la sua critica contro alcuni dei capi-saldi della tradizione rituale confuciana: i riti legati al lutto famigliare e la concezione della musica come strumento di armonizzazione in-teriore ed esteriore. Il lutto, con la sua eccessi-va durata, toglie a tutti i componenti della so-cietà tempo prezioso impedendogli di adem-piere ai propri doveri; la musica, considerata come semplice veicolo di emozioni, è anch’es-sa produttrice di sprechi e inutili distrazioni. Più profonda la critica che Mo Di rivolge alla concezione confuciana del ren («senso dell’umanità reciproca»); la reciprocità che vi è connessa è, secondo Mo Di, limitata a ciò che è «proprio» (si tratti della famiglia o dello sta-to) e non ha carattere di universalità. Al ren Mo Di contrappone il jian’ai , termine tradotto generalmente con «amore universale, indiffe-renziato»; in esso il carattere jian ha il signi-ficato di «equiparare tutti gli altri a se stessi» e ha come proprio opposto il carattere bie «fa-re distinzioni». Si legge nel Mozi: «Come defi-niremo il fatto che ovunque nel mondo si odiano gli uomini e si cerca di danneggiarli? “Equiparare gli altri a se stessi” (jian) o “distin-guere fra se stessi e gli altri” (bie)? Senza alcun dubbio “distinguere fra se stessi e gli altri”» (cap. 16). Sempre in contrapposizione con la prospettiva confuciana, Mo Di rigetta come «fatalista» la concezione che vede nel Destino (ming ) qualcosa di impersonale e inconosci-bile, e vi oppone una concezione della «Volon-tà del Cielo» (Tianzhi ) e degli «spiriti» la cui influenza sul mondo umano è tutt’altro che trascurabile: «Coloro che ubbidiscono alla Vo-lontà del Cielo, amano senza fare distinzioni e fanno il bene degli altri, otterranno dunque il suo favore. Coloro che si oppongono alla Vo-lontà del Cielo, agiscono in maniera parziale e danneggiano gli altri, incorreranno dunque nella sua punizione» (Mozi, cap. 27).3. La scuola dei sofisti (mingjia). – Mingjia, lette-ralmente «Scuola dei Nomi», è l’etichetta bi-bliografica attribuita a opere di pensatori che ci sono state conservate in forma estrema-

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mente frammentaria. Con il termine «sofisti» gli storici del pensiero cinese fanno riferimen-to ad autori che fra il IV e il III secolo a. C. pon-gono al centro della loro attività intellettuale l’abilità nell’argomentare attraverso il discor-so: argomentare che va ben al di là dell’inte-resse moista per la definizione e il cui caratte-re estremo sarà aspramente criticato dalle al-tre scuole di pensiero. È grazie al capitolo 33 dell’opera attribuita a Zhuangzi che ci sono state conservate le dieci tesi di Hui Shi (IV se-colo a. C.). La loro affinità con i «paradossi» di Zenone giustifica l’utilizzazione del termine «sofista» per un personaggio che, lungi dall’essere un pensatore isolato, riesce a met-tere a frutto le proprie capacità dialettiche fino a diventare ministro del re Hui dello stato di Wei (370-319 a. C.). Anche se delle dieci tesinon ci è stata conservata la dimostrazione a opera dello stesso Hui Shi, vale ugualmente la pena elencarle: «<1> Il massimo del grande non ha nulla fuori di sé; è chiamato la Grande Unità. Il massimo del piccolo non ha nulla dentro di sé; è chiamato la Piccola Unità. <2> Ciò che è senza spessore non può essere accu-mulato, ma la sua ampiezza raggiunge mille miglia. <3> Il cielo è basso come la terra; le montagne sono allo stesso livello delle paludi. <4> Nello stesso momento in cui il sole rag-giunge il mezzogiorno, ecco che nello stesso momento declina; nello stesso momento in cui una cosa nasce, ecco che nello stesso mo-mento muore. <5> Quando si afferma una dif-ferenza a livello di grandi e piccole somiglian-ze, si sta parlando di “piccole somiglianze e piccole differenze”; quando si afferma che le diecimila cose sono tutte simili e tutte diffe-renti, si sta parlando di “Grande Somiglianza e Grande Differenza”. <6> Il Sud non ha limiti, eppure ha un limite. <7> Parto per lo stato di Yue oggi e ciononostante ci sono arrivato ieri. <8> Anelli uniti possono essere separati. <9> Conosco il centro del mondo: esso è a nord dello stato settentrionale di Yan e a sud dello stato meridionale di Yue. <10> Ama le dieci-mila cose in maniera indifferenziata: cielo e terra sono un tutt’uno». L’«unità» del reale af-fermata nell’ultima tesi fa comprendere come molti dei paradossi precedenti intendano esemplificare punti di vista che, non tenendo conto di tale «unità», restano imprigionati nel relativismo spaziale e temporale.È invece Kungson Long (III secolo a. C.) che ri-prende e porta all’estremo l’interesse moista

per la definizione. Il suo nome resterà indisso-lubilmente legato al famoso argomento: «Un cavallo bianco non è un cavallo» (baima fei ma

). Innumerevoli sono state le interpre-tazioni che della frase hanno dato gli studiosi sia occidentali che cinesi; questi ultimi, a par-tire da Feng Youlan, hanno voluto vedervi ap-plicata la distinzione aristotelica fra archetipo e fenomeno: il cavallo qualificato dall’attribu-to «bianco» non sarebbe identificabile per Kongsun Long con «il cavallo» inteso come ar-chetipo universale di ogni cavallo particolare. Più recentemente, altri studiosi (cfr. A. Cheng, Histoire de la pensée chinoise, Paris 1997, tr. it. di A. Crisma, Storia del pensiero cinese, Torino 2000, p. 144) hanno invece sottolineato l’inte-resse strettamente nominalistico del pensato-re che, lungi dal porre la distinzione fra realtà archetipica e realtà fenomenica, sarebbe uni-camente interessato ad affermare il primato del linguaggio come strumento per la com-prensione della realtà. Il gioco dialettico sta-rebbe nel proporre all’interlocutore una frase il cui significato paradossale deriva unicamen-te dall’interpretazione per così dire «contenu-tistica» che lo stesso interlocutore ne dà. Se infatti ci si attenesse all’interpretazione sem-plicemente linguistica, il significato risulte-rebbe privo di ambiguità: «“Cavallo bianco” (baima) è cosa diversa da “cavallo” (ma)» o, an-cora più esplicitamente, «l’espressione “caval-lo bianco” è diversa dall’espressione “caval-lo”».4. Laozi, Zhuangzi e la scuola taoista (daojia). – I limiti insiti nel termine «scuola filosofica» ri-sultano particolarmente evidenti quando ci si riferisce ai testi che portano il nome di Laozi e di Zhuangzi. La dottrina metafisica che in essi è esposta ha una natura talmente universale che la stessa storiografia antica si limita a for-nirci scarni dati biografici sugli autori e sem-bra voler rispettare l’alone di «impersonalità» che li contraddistingue. Questo vale soprattut-to per Laozi (si pensi che nel Daodejing non compare un solo nome proprio o di luogo), ma in parte anche per il Zhuangzi, testo che con-tiene precisi riferimenti ad altre correnti di pensiero ma nel quale abbondano passaggi in cui a essere simbolicamente e ironicamente personificate sono realtà impersonali: «“Da chi hai udito il Dao?”. “L’ho udito dal figlio del signor Inchiostro, il signor Inchiostro lo udì dal nipote della signora Recitazione, il nipote della signora Recitazione lo udì dalla signora

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Vista Acuta, la signora Vista Acuta lo udì dal si-gnor Insegnamento Bisbigliato, il signor Inse-gnamento Bisbigliato lo udì dal signor Duro Apprendistato, il signor Duro Apprendistato lo udì dalla signora Cantilena Popolare, la signo-ra Cantilena Popolare lo udì dalla signora Nera Oscurità, la signora Nera Oscurità lo udì dal si-gnor Trevolte Silenzio, e il signor Trevolte Si-lenzio lo udì dal signor Inizio Chissà”» (Zhuangzi, 6). Per quanto riguarda la datazione dei due testi, la composizione del Zhuangziviene fatta risalire al IV secolo a. C., mentre per quella del Laozi si deve oggi tenere conto di due versioni che antedatano in maniera signi-ficativa il textus receptus (III secolo d. C.): la pri-ma, ritrovata nel sito archeologico di Mawan-gdui, lo antedata alla seconda metà del II se-colo a. C., mentre la seconda, rinvenuta nel si-to di Guodian, porta indietro la datazione fino al 350-300 a. C. In entrambe le opere, pur di-versissime nello stile (il Laozi si presenta come una sintetica raccolta di affermazioni dottrina-li e aforismi, il Zhuangzi come una trattazione che privilegia l’esposizione per metafore, dia-loghi e aneddoti), è possibile riconoscere una comune dottrina metafisica. Essa è incentrata su quattro concetti principali: il Dao (letteral-mente «Via»), il De (Potenza/Unità), la non-azione, il Saggio (o Uomo Vero nel caso del Zhuangzi). La natura incondizionata del Princi-pio cui il termine Dao si riferisce è efficace-mente affermata nel primo capitolo del Laozi: «Per quanto riguarda il Dao, il Dao di cui si può parlare non è il Dao eterno. Per quanto riguar-da il Nome, il Nome che può essere nominato non è il Nome eterno. Considerato come “Non-Esistenza”, lo si chiama “Origine del Cie-lo e della Terra”; considerato come “Esistenza” lo si chiama “Madre della Molteplicità delle cose”. Considerandolo come eterna “Non-Esi-stenza”, se ne contemplerà l’aspetto sottile; considerandolo come eterna “Esistenza”, se ne contemplerà l’aspetto esteso. Questi due aspetti hanno un’unica origine ma vengono chiamati in maniera diversa. Considerando <il Dao> come un’unica realtà si parla di “Miste-ro”: è più misterioso di tutto ciò che è miste-rioso, è la porta di ogni prodigio». Come si ve-de, il Dao in quanto tale, ovvero in quanto Infi-nito che nulla ha fuori di sé, non può essere oggetto di conoscenza alcuna, tuttavia l’essere condizionato può avvicinarlo limitatamente ai due principali «aspetti» in cui esso si presenta a chi cerca di coglierne la realtà con mezzi

umani: l’estremo della sottigliezza (l’origine indistinta di tutto ciò che esiste), l’estremo dell’espansione (l’evidente e costante espan-dersi, come gli esseri dalla madre, di tutte le forme di manifestazione). Per prevenire l’erro-nea identificazione di questi due aspetti dell’Infinito con l’Infinito stesso, il testo si af-fretta a riaffermare la non dualità del Dao, pri-ma attribuendogli l’appellativo di «Mistero», ma ribadendo subito dopo che la realtà che ta-le appellativo sottende non può essere esauri-ta da nessuna delle idee di mistero che le fa-coltà condizionate sono in grado di concepire. Sia nel Laozi che nel Zhuangzi il passaggio dal Dao incondizionato alla molteplicità del mon-do manifestato avviene per il tramite della pri-ma determinazione del Dao stesso: l’Unità, identificata con la Potenza (De). «Il Dao produ-ce l’Uno, l’Uno produce il Due, il Due produce il Tre, il Tre produce la Molteplicità delle cose. Le cose portano sulle spalle lo Yin e abbrac-ciano lo Yang, ma è grazie al Soffio Vuoto che risultano armoniose» (Laozi, 42). Il riferimento al «Soffio Vuoto» nell’ultima frase implica che la dualità Yin-Yang non è di per sé sufficiente a garantire l’armonia del mondo manifestato. Il termine «Soffio Vuoto» è il principio unitario e informale senza il quale la molteplicità for-male non potrebbe manifestarsi e conservarsi. Esso ha il suo corrispettivo nel termine shen («Spirito») utilizzato in un passaggio del Zhuangzi che descrive in maniera più articola-ta il medesimo percorso che dall’Incondizio-nato conduce alla molteplicità. Si legge nel cap. 12: «Nel Supremo Inizio vi è il non-essere, non vi è essere, non vi è nome: è ciò da cui ori-gina l’Unità. Vi è l’Unità ma non vi è ancora la forma. È partecipando dell’Unità che le Dieci-mila Cose nascono ed è per questo che a tale Unità si dà il nome di “Potenza” (De). In ciò che non ha ancora forma vi sono delle suddivisio-ni, ma ciononostante <l’Unità> resta indivisa: è ciò a cui si dà il nome di “destini” (ming <ov-vero gli archetipi informali di quelle che saran-no le singole forme>). Quindi, grazie a un mo-vimento vibratorio <letteralmente “un’alter-nanza di stasi e movimento”>, si ha la genera-zione delle cose e ogni singola cosa, una volta completata, ha il proprio specifico contorno: si parla a questo punto di “forma”. I corpi formali custodiscono in sé un principio spirituale (shen) e hanno ciascuno proprie regole e misu-re: è ciò a cui si dà il nome di “natura origina-ria” (xing)». Come si comprende dall’ultima

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frase, la «natura» di ogni singolo essere oltre a contenere gli elementi formali che gli sono propri («regole e misure») ha in sé un elemen-to spirituale e informale (shen) che li governa e senza il quale non si potrebbe realizzare quel ritorno allo stato di Unità e quindi allo stato incondizionato descritto sinteticamente nel prosieguo del brano: «Coltivando la propria natura originaria si fa ritorno alla Potenza/Uni-tà, e una volta che lo stato di Unità è stato completamente realizzato ci si identifica con l’Origine. Una volta realizzata l’identità con l’Origine, ecco che si è tutt’uno con il Vuoto». Quanto al concetto di «non azione» (wuwei

), esso è correlato al concetto di ziran . La traduzione corrente di ziran con «Sponta-neità» non permette in effetti di cogliere il si-gnificato letterale dell’espressione «essere co-sì di per sé», vale a dire «avere in sé e in nulla di esterno il proprio principio». Primariamen-te, si tratta di uno stato che va riferito al Dao: «L’uomo si regola sulla Terra, la Terra si regola sul Cielo, il Cielo si regola sul Dao, il Dao si re-gola sul suo essere così di per sé» (Laozi, 25); «il Dao si mantiene eternamente nella non-azione, e tuttavia non vi è nulla che non venga compiuto» (Laozi, 17). Secondariamente, tale stato trova la propria applicazione in colui che ha realizzato, o si avvia a realizzare, l’identità con il Dao stesso (il shengren , il Saggio del Laozi, o il zhenren , l’Uomo Vero del Zhuangzi): «Il Saggio si attiene a un’azione che è non azione, pratica un insegnamento senza parole. Molteplici si manifestano le cose, ma egli non le respinge; egli le produce, ma non le considera proprie, agisce su di esse, ma da es-se non dipende; quando il risultato è ottenuto, non vi si attarda, ed è proprio perché non vi si attarda che i risultati sono duraturi» (Laozi, 2); «se ci si dedica allo studio, di giorno in giorno si aumenta; se ci si dedica al Dao, di giorno in giorno si diminuisce. Si diminuisce e ancor più si diminuisce, fino ad arrivare alla non azione. Non si agisce, eppure non vi è nulla che non si compia» (Laozi, 48); «l’Uomo Vero mette da parte la conoscenza, ed è così facendo che co-nosce. Egli non agisce, ed è così facendo che agisce. Mentre ogni cosa viene in esistenza, egli rimane semplicemente seduto; pur di-mentico di tutto, egli tutto ottiene» (dal com-mento di Guo Xiang al cap. 6 del Zhuangzi). Sia nel Laozi che nel Zhuangzi, tale «azione di pre-senza non agente» viene estesamente applica-ta all’arte di governo ed è a questo livello che

la prospettiva taoista mostra la propria estra-neità rispetto alle teorie della sovranità propo-ste dalle altre scuole di pensiero: «Quando a governare è un sovrano illuminato, i suoi me-riti si estendono al mondo intero, ma sembra che non emanino da lui; la sua influenza rag-giunge la molteplicità degli esseri, ma il popo-lo non si avvede di dipendere da lui; egli è pre-sente, ma nessuno pronuncia il suo nome; egli lascia che ogni cosa trovi da sé la propria sod-disfazione. Poggia i propri piedi sull’Incom-mensurabile, vaga a piacimento nella Non-Esistenza» (Zhuangzi, 7). «È con la correttezza che si governa un paese, è con l’artificio che si conduce una guerra, ma è con la non azione che si conquista il mondo. [...] Quanto più nu-merosi nel mondo saranno proibizioni e divie-ti, tanto più povero diverrà il popolo. Quanto più strumenti utili avranno gli uomini, tanta più confusione regnerà nel paese e alla corte. Quanto più ingegno e abilità avranno gli uomi-ni, tanto più si vedranno in giro prodotti biz-zarri. Tanto più si emaneranno leggi e ordinan-ze, tanto più si vedranno in circolazione ladri e briganti. È per questo che il Saggio afferma: “Se non si agisce, il popolo da solo si trasfor-ma; se si ama la quiete, il popolo da solo si corregge; se non si interviene, il popolo da so-lo ottiene prosperità; se non si è sopraffatti dai desideri, il popolo si mantiene nella semplici-tà”» (Laozi, 57). Le stesse virtù confuciane ven-gono viste come reazioni tardive e inefficaci a uno stato di decadenza di fronte al quale esse si rivelano impotenti: «Solo quando il Grande Dao è decaduto, cominciano ad apparire il “senso dell’umanità” e il “senso del giusto”. Solo quando nascono ingegno e sagacia, si manifesta il Grande Artificio. Solo quando nei sei rapporti di parentela non regna l’armonia, fanno la loro comparsa la pietà filiale e l’amo-re dei genitori. Solo quando in un paese regna il disordine, fanno la loro apparizione i buoni ministri» (Laozi, 18). L’ampiezza della prospet-tiva dottrinale esposta nel Laozi spiega la pre-cocità dei commentari di cui sarà oggetto an-che in ambienti non taoisti (ne è un esempio il Commentario di Wang Bi), così come spiega l’indiscussa autorità di cui lo stesso Laozi go-drà, insieme al Zhuangzi, all’interno delle di-verse correnti «applicative» che a partire dal Commentario di Heshang Gong caratterizzeran-no il cosiddetto «taoismo religioso». Molti dei principali temi dottrinali esposti nel Laozi e nel Zhuangzi vengono inoltre ripresi in opere

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taoiste di natura composita, quali il Liezi, il Wenzi, lo Huainanzi.5. Il confucianesimo di Mencio e Xunzi. – Ricono-sciuto tradizionalmente come l’erede più emi-nente di Confucio, Mencio (380 ca. - 289 a. C.) arricchisce la dottrina confuciana in due prin-cipali direzioni: approfondisce la natura del rapporto fra l’«uomo esemplare» (junzi) e il so-vrano; affronta, in contrapposizione alle dot-trine di altri pensatori a lui contemporanei, la questione della bontà o malvagità originaria della «natura umana» (xing ). Senza mettere in discussione la tradizionale concezione della gerarchia e continuando a riconoscere all’«uo-mo esemplare» la funzione di guida del sovra-no in possesso del «Mandato celeste», Mencio assegna al popolo un ruolo primario nella le-gittimazione dello stesso mandato sanzionato dal Cielo: «Il popolo è la cosa più preziosa, do-po di lui vengono gli spiriti della Terra e del Grano, il sovrano viene per ultimo. È ottenen-do il consenso del popolo che si diventa Figlio del Cielo» (Mengzi, VII B 14). Lo stesso popolo risulta per Mencio il miglior consigliere del so-vrano (in questo caso il re Xuan di Qi): «Quan-do tutti i ministri a voi più vicini dicono che un uomo è degno, ciò non è sufficiente. Quando ve lo dicono tutti i grandi ufficiali, anche ciò non è sufficiente. Quando ve lo dice l’intero vostro popolo, occupatevene, e se trovate che quell’uomo è degno prendetelo al vostro servi-zio. Quando tutti i ministri a voi più vicini di-cono che un uomo è malvagio, non ascoltateli. Quando ve lo dicono tutti i grandi ufficiali, non ascoltateli. Quanto ve lo dice l’intero vostro popolo, indagate, e se trovate che quell’uomo è malvagio cacciatelo» (ibi, I B 7). Citando un discorso attribuito a Zi Si, nipote di Confucio, Mencio è altrettanto perentorio nell’affermare la superiorità interiore dell’«uomo esemplare» anche rispetto al sovrano: «Zi Si disse: “Se consideriamo le nostre rispettive funzioni, voi siete il sovrano e io sono il suddito. Come po-trei osare stringere amicizia con voi? Ma se consideriamo le nostre rispettive virtù, siete voi che dovete mettervi al mio servizio. Come potreste osare stringere amicizia con me?”» (ibi, V B 7). La dottrina sociale di Mencio trova applicazione nella sua proposta di organizzare la comunità contadina secondo il modello tra-dizionale noto come campi «a pozzo» o «a scacchiera» (raffigurati nel carattere jing co-me forma stilizzata di un terreno diviso in nove quadrati): «Nei vari distretti i campi saranno

suddivisi in singole unità a scacchiera. Coloro che apparterranno a una stessa unità faranno prevalere la mutua amicizia, si aiuteranno re-ciprocamente sia nella sorveglianza che in ca-so di malattia. [...] Il sistema a scacchiera co-prirà una superficie di novecento are. Il terreno centrale comune coprirà cento are, in modo tale che le altre ottocento are possano essere coltivate da otto famiglie per il proprio sosten-tamento. Tutte le otto famiglie lavoreranno al terreno comune e solo dopo aver svolto il pro-prio servizio in quello potranno dedicarsi alla cura del proprio» (ibi, III A 3). Mencio elabora la dottrina della bontà originaria della «natura umana» partendo dall’affermazione che fin dalla nascita ciascun uomo possiede in sé i «germogli» (duan ) delle quattro principali virtù confuciane: «senso dell’umanità recipro-ca» (ren ), «senso del giusto» (yi ), «com-portamento rituale» (li ), «conoscenza» (zhi

). Obiettivo della sua critica non è tanto il pensiero di Yang Zhu, per il quale la natura umana ci è stata data direttamente dal Cielo e compito dell’uomo è semplicemente quello di conservarla integra (posizione sanzionata da Mencio come «egoistica»), bensì il pensiero di Gaozi, maestro di cui nessuno scritto ci è stato conservato ma con il quale Mencio polemizza nella sua opera: «Gaozi disse: “La nostra natu-ra è paragonabile all’albero di salice, il senso del giusto a tazze e recipienti. Ricavare il senso dell’umanità e del giusto dalla natura umana è come ricavare tazze e recipienti dal salice”. Mencio replicò: “Si è forse in grado di ricavare dal salice tazze e recipienti senza ledere la na-tura del salice? Dire che per ricavarne tazze e recipienti si deve forzare la natura del salice equivale a dire che per ricavare dall’uomo il senso dell’umanità e del giusto bisogna forza-re la sua natura. Sono discorsi come questi che inducono il mondo a considerare come una vera calamità il senso dell’umanità e del giusto!”» (ibi, VI A 1). Allo stesso Gaozi che ri-corre alla metafora dell’acqua per sostenere la «neutralità» originaria della natura umana, Mencio così ribatte: «Gaozi disse: “La natura umana è paragonabile all’acqua che scorre vorticosa. Se la si incanala verso est, fluisce verso est; se la si incanala verso ovest, fluisce verso ovest. La natura dell’uomo non fa distin-zione fra ciò che è buono e ciò che è malvagio, proprio come l’acqua non distingue fra est e ovest”. Mencio replicò: «Ammettiamo pure che l’acqua non abbia predisposizione per

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scorrere verso est o verso ovest, ma possiamo dire la stessa cosa per l’alto e per il basso? La tendenza originaria dell’uomo è buona, pro-prio come la tendenza originaria dell’acqua è quella di scorrere verso il basso. Non esiste nulla nell’uomo che non tenda al bene, pro-prio come non esiste nulla nell’acqua che non tenda a scorrere verso il basso. Certo, se colpi-te l’acqua con forza potete farla schizzare an-che al di sopra della vostra fronte; se la incana-late e la forzate a salire potete farla arrivare su una montagna. Ma è forse questa la vera natu-ra dell’acqua? Certo che no; l’acqua si compor-terebbe in tal modo grazie a una forzatura. Allo stesso modo, è solo a causa di una forzatura che l’uomo può deviare dal bene”» (ibi, VI A 2). In Mencio, la metafora dei «germogli» di bontà il cui naturale sviluppo non deve essere forza-to si accompagna a una concezione del Soffio vitale che non si limita all’ambito fisiologico e che proprio per questo verrà ripresa, a partire dal X secolo d. C., dai maestri del neoconfucia-nesimo; si tratta di un «Soffio sovrabbondan-te» (haoran zhi qi ) che, nutrito dalla pratica delle virtù, può circolare nell’uomo at-tivando quell’armonia imperturbabile che già caratterizza l’ambiente cosmico.Pur inserendosi come quello di Mencio nell’al-veo della tradizione confuciana, il pensiero di Xunzi (310 ca. - 219 a. C.) sviluppa un’autono-ma prospettiva per quanto riguarda tre fonda-mentali temi dottrinali: il percorso di perfezio-namento del saggio e dell’uomo comune; la natura e la funzione del Cielo; la distinzione fra «natura originaria» (xing ) e «natura acquisi-ta» (wei ). La posizione assunta da Xunzi nei confronti dei primi due temi deriva da una concezione della «natura umana» che perde l’unicità e la continuità che gli aveva attribuito Mencio: ciò costringe sia il saggio che l’uomo comune a uno sforzo personale che conduce ad «acquisizioni» che nella loro «artificialità» (questo è il significato primario del carattere wei ) sanciscono il positivo distacco da una condizione originaria che Xunzi non esita a de-finire, in quanto puramente naturale e incolta, «malvagia» (e ). Se il distacco dalla concezio-ne menciana di una natura originariamente buona è evidente, va parimenti sottolineato che la posizione di Xunzi ben si distingue da quella della scuola dei legisti: per questi ulti-mi, alla nascita l’uomo possiede verso il male una vera e propria propensione che va tenuta sotto controllo attraverso rigide misure coerci-

tive, ben diverse dall’educazione alla pratica delle virtù proposta da Xunzi. Se il saggio è ca-pace di affrancarsi dalla condizione naturale e incolta definita come «malvagia», lo stesso può fare l’uomo comune: «Se si attribuisce tanto rispetto ai saggi sovrani Yao e Shun e agli “uomini esemplari” è perché essi sono sta-ti capaci di trasformare la loro natura origina-ria (xing ) e di sviluppare la loro natura ac-quisita (wei ), realizzando in tal modo il “comportamento rituale” e il “senso del giu-sto”. [...] “L’uomo comune può diventare il saggio Yu”. Che significato daremo a questa affermazione? Yu è diventato Yu grazie all’esercizio costante del senso dell’umanità, del giusto e delle norme rituali di condotta. Senso dell’umanità, del giusto e norme rituali di condotta sono principi che possono essere conosciuti e messi in pratica. Dal momento dunque che non esiste chi non sia capace di comprendere il senso dell’umanità, del giusto e le norme rituali di condotta, e che non pos-sieda gli strumenti adatti per metterli in prati-ca, è evidente che un qualunque uomo comu-ne può diventare come Yu» (Xunzi, cap. 23). Il ruolo eminentemente attivo che Xunzi ricono-sce all’uomo si manifesta anche nella sua ca-pacità di ordinare armonicamente la società attraverso il riconoscimento e l’applicazione delle necessarie «distinzioni/ripartizioni» (fen

), sia a livello di risorse che a livello di gerar-chie: «L’uomo, a differenza degli animali è in grado di vivere in società. Che cosa lo rende capace di questo? Il principio di distinzione (fen ). E qual è il criterio per operare le distin-zioni? Il “senso del giusto”. Tramite il senso del giusto si realizza l’armonia, tramite l’armonia si realizza l’unità, tramite l’unità si incremen-tano le risorse, tramite le risorse si realizza la potenza, tramite la potenza si realizza la signo-ria sulle cose» (ibi, cap. 9). A questo ruolo emi-nentemente attivo dell’uomo Xunzi conferisce un’estensione universale: «Il Cielo e la Terra generano l’“uomo esemplare” e l’“uomo esem-plare” mette ordine nel Cielo e nella Terra. L’“uomo esemplare” forma una triade con il Cielo e la Terra, è il culmine dei diecimila es-seri, è un padre e una madre per il popolo» (ibid.). Come si comprende, con questa visione delle forze cosmiche prive di una propria auto-nomia e quasi subordinate all’azione dell’uo-mo, Xunzi prende decisamente le distanze dal-le scuole a lui contemporanee in cui si comin-cia a delineare quella tendenza ad «antropo-

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morfizzare» il Cielo che troverà il suo massimo sviluppo nel successivo periodo Han e la sua critica più severa nell’opera di Wang Chong.6. La scuola dei legisti (fajia). – Con la scuola dei legisti (fajia, da fa «legge») la figura del let-terato confuciano, che nella tradizione degli antichi saggi trovava lo strumento essenziale per unificare in sé funzione sociale e funzione etica, viene sovvertita dalle fondamenta. Leggi e tecniche di governo (shu ) devono confor-marsi ai nuovi tempi e alle singole situazioni e l’esperienza del passato diviene totalmente inutilizzabile: infatti l’interesse dello stato non può più essere garantito da principi etico-so-ciali adatti a un’umanità che non è più quella di un tempo. È quanto afferma Hanfeizi: «Nei tempi antichi gli uomini non aravano perché i frutti delle piante e degli alberi erano suffi-cienti per il loro nutrimento; le donne non tes-sevano perché per coprirsi bastavano le pelli degli animali. Essendo i beni sufficienti non era necessario affaticarsi nel lavoro; essendo la popolazione poco numerosa, le risorse era-no in eccesso e di conseguenza gli uni non competevano con gli altri. Ecco perché il po-polo viveva in buon ordine senza che gli venis-sero elargite grandi ricompense o inflitte gravi punizioni. Ai giorni nostri non è raro che un uomo abbia cinque figli, che ciascuno di que-sti ne abbia a sua volta cinque e che il nonno prima di morire si trovi ad avere venticinque nipoti. Ecco dunque che vi è una popolazione numerosa con poche risorse a disposizione e si deve lavorare duramente per ottenere magri risultati [...]. Ne consegue che nei tempi anti-chi la generosità nella distribuzione delle ri-sorse non derivava dal senso dell’umanità re-ciproca bensì dall’ampia disponibilità delle ri-sorse stesse e che la violenza e l’inganno con cui oggi gli uomini se le disputano non deriva dalla malvagità bensì dalla loro scarsità» (Hanfeizi, cap. 49). Anche Shang Yang, lo stati-sta che tanta influenza ebbe alla corte di quel-lo stato di Qin il cui sovrano sarebbe diventato il primo imperatore della Cina riunificata, riba-disce con forza il rifiuto della tradizione. Si leg-ge nel primo capitolo del Libro del Principe Shang (Shangjun shu): «Le generazioni passa-te non condividevano la stessa dottrina. Quale antichità prenderemo dunque come norma? Imperatori e re non si assomigliavano fra loro. A quale norma di comportamento ci confor-meremo? Gli imperatori Fuxi e Shennong inse-gnavano e non infliggevano punizioni; l’Impe-

ratore Giallo e gli imperatori Yao e Shun inflig-gevano punizioni ma risparmiavano le fami-glie dei condannati. I re Wen e Wu stabilirono a loro volta norme che si adattavano ai tempi [...]. Io sono dell’opinione che vi sia più di una Via (Dao) per mettere ordine nella propria epo-ca e che per fare il bene del paese non sia ne-cessario prendere l’antichità come modello». Tutte quelle misure particolari di ricodificazio-ne e unificazione (pesi e misure, forma della moneta e larghezza dell’asse dei carri ecc.) che videro la loro applicazione con il Primo Impe-ratore e il suo ministro Li Si (annoverato fra i legisti), hanno a monte una teoria dell’azione di governo basata sulla distinzione fra legge (fa ) e tecnica (shu ). La prima necessita della massima diffusione fra il popolo, la se-conda ha carattere riservato in quanto attiene direttamente ai rapporti di potere e alla scelta dei funzionari. La distinzione è così sintetizza-ta nel cap. 43 dello Hanfeizi: «Shen Buhai tratta della tecnica di governo, Shang Yang si occupa della legge. La tecnica consiste nell’attribuire i posti di governo in base alle capacità e nel controllare che al nome della funzione asse-gnata corrisponda l’effettivo comportamento. Essa ha nelle proprie mani il potere di vita e di morte, di indagare nell’azione dei ministri e di verificarne i risultati. La tecnica è dunque cosa che attiene al sovrano. La legge consiste nel rendere pubblici gli editti emanati dal gover-no, facendo sì che le punizioni restino impres-se nei cuori. Le ricompense sono riservate per chi rispetta le norme, le punizioni colpiscono chi le infrange. La legge è dunque cosa che at-tiene ai ministri. Quando il sovrano non appli-ca la tecnica di governo, ecco che in alto pre-vale l’abuso; quando i ministri non applicano la legge, ecco che in basso prevale il disordine. Tecnica e legge non possono stare l’una senza l’altra: sono infatti i due strumenti di cui impe-ratori e re non possono fare a meno».7. Fondamenti e sviluppi della prospettiva cosmo-logica. – Già nel periodo finale degli «Stati Combattenti» (403-256 a. C.), con quella che verrà genericamente definita «Scuola dello Yin-Yang e dei Cinque Agenti», la tradizione cinese ci testimonia gli sviluppi di cui era por-tatrice la dottrina cosmologica contenuta nel Classico dei Mutamenti (Yijing). A un maestro di nome Zou Yan, vissuto intorno al IV secolo a. C., viene in particolare attribuita l’applicazio-ne della dottrina dello Yin-Yang e dei Cinque Agenti all’evoluzione storico-politica e, in par-

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ticolare, alla successione dinastica. Nessuna opera di Zou Yan ci è stata tramandata, ma del suo pensiero danno conto sia la prima opera storiografica cinese, le Memorie di uno storico(Shiji) di Sima Qian, sia gli Annali delle Prima-vere e degli Autunni del signor Lü (Lüshi Chun-qiu): «Egli indagò a fondo il crescere e il decre-scere dello Yin e dello Yang e scrisse trattati di più di centomila caratteri sui mutamenti di na-tura straordinaria e sull’ascesa e la caduta dei grandi saggi» (Shiji, cap. 74). «All’avvento dell’Imperatore Giallo, il Cielo fece apparire una grande quantità di lombrichi e grilli-talpa. L’Imperatore Giallo disse: “Si tratta del domi-nio dell’agente Terra”. Dal momento che si inaugurava il dominio dell’agente Terra egli scelse come proprio emblema il colore giallo e modellò la sua attività sulla Terra. All’avvento di Yu <fondatore della dinastia Xia>, il Cielo fece apparire piante e alberi le cui foglie resta-vano verdi anche in autunno e in inverno. Yu disse: “Si tratta del dominio dell’agente Le-gno”. Dal momento che si inaugurava il domi-nio dell’agente Legno, egli scelse come pro-prio emblema il colore verde e modellò la sua attività sul Legno. All’avvento di Tang <fonda-tore della dinastia Shang>, il Cielo fece emer-gere dall’acqua lame di metallo. Tang disse: “Si tratta del dominio dell’agente Metallo”. Dal momento che si inaugurava il dominio dell’agente Metallo, egli scelse come proprio emblema il colore bianco e modellò la sua at-tività sul Metallo. All’avvento del re Wen <fon-datore della dinastia Zhou>, il Cielo fece ap-parire delle fiamme e contemporaneamente uccelli rossi si posarono sull’altare della casa-ta dei Zhou tenendo nel becco una scrittura rossa. Re Wen disse: “Si tratta del dominio dell’agente Fuoco”. Dal momento che si inau-gurava il dominio dell’agente Fuoco, egli scel-se come proprio emblema il colore rosso e modellò la sua attività sul Fuoco. Giunti a que-sto punto, al Fuoco succederà inevitabilmente l’Acqua e il Cielo manifesterà la predominanza dell’Acqua. Pertanto <la nuova dinastia> sce-glierà come proprio emblema il colore nero e modellerà la sua attività sull’Acqua» (Lüshi Chunqiu, 13, 2). Quest’ultimo passaggio, in cui l’Acqua succede al Fuoco, è quello che legitti-merà anche a livello cosmologico l’ascesa al potere del primo imperatore Qin Shihuangdi: «La dinastia Zhou aveva dominato in accordo con la potenza del Fuoco. Qin aveva soppian-tato i Zhou e dal momento che ogni potenza

succede a quella che da essa non può essere conquistata, <con la dinastia Qin> prese il so-pravvento la potenza dell’Acqua. L’imperatore modificò il calendario, scelse il colore nero per abiti e vessilli e prese come numero distintivo il sei <numero pari e Yin, come l’Acqua>; sigil-li e copricapi ufficiali misuravano sei pollici, gli assi dei carri sei piedi; il doppio passo mi-surava sei piedi e i carri erano tirati da sei ca-valli» (Shiji, cap. 6).Dopo l’ascesa al potere della dinastia Han nel 206 a. C., l’interesse per la cosmologia acqui-sterà per la prima volta un peso preponderan-te anche nelle fila dei pensatori confuciani. Le basi di questo interesse sono poste nell’opera di Dong Zhongshu (179-104 a. C. ca.). L’univer-so vi è concepito come un’unità organica retta dal Cielo, unità il cui ordine si rispecchia in corrispondenze osservabili non solo nella co-stituzione gerarchica della sfera politica e fa-miliare ma anche nella stessa costituzione fisi-ca dell’essere umano: «Il Cielo, la Terra e l’Uo-mo sono l’origine delle diecimila cose. Il Cielo le genera, la Terra le nutre, l’Uomo le perfezio-na. Il Cielo le genera come fa un padre, la Terra dà loro cibo e vesti, l’Uomo le porta a perfezio-ne tramite i riti e la musica [...]. Se si considera la forma fisica dell’uomo, si vede che la sua te-sta è larga e rotonda, proprio come il Cielo. I suoi capelli sono come le stelle e le costella-zioni. Orecchie e occhi, acuti e brillanti, sono come il sole e la luna. Narici e bocca, nell’atto del respirare, sono come il vento. La capacità di comprensione del suo cuore corrisponde al-la comprensione universale del Cielo [...]. Il corpo è come il Cielo e condivide le sue cate-gorie numeriche. Il corpo umano è reso com-pleto dal Cielo in un numero di giorni che cor-risponde a un anno: è per questo che le sue giunture minori sono 366 come i giorni dell’anno e quelle maggiori 12 come il numero dei mesi. All’interno del corpo ci sono 5 orga-ni, in corrispondenza con il numero dei Cinque Agenti; al suo esterno 4 arti, in corrispondenza con il numero delle stagioni. L’aprirsi e il chiu-dersi degli occhi corrisponde al giorno e alla notte; l’alternanza di forza e debolezza corri-sponde all’inverno e all’estate; l’alternanza di dolore e gioia corrisponde allo Yin e allo Yang» (Chunqiu fanlu, cap. 56).IV. SVILUPPI DEL CONFUCIANESIMO E DEL TAOISMO NEL PERIODO HAN (206 A. C. - 220 D. C.) E DELLE SEI DINASTIE (220-589). – Il segno principale del rafforzarsi dell’interesse per la cosmologia

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nell’ambiente dei letterati-funzionari di epoca Han è certamente l’inserimento del Classico dei Mutamenti (Yijing) nel canone confuciano (in-sieme al Classico delle Odi, al Classico dei Docu-menti, alla Raccolta dei Riti e agli Annali delle Primavere e degli Autunni). La struttura fonda-mentale del Classico dei Mutamenti è costituita dal succedersi di 64 esagrammi, ovvero da 64 figure costituite ciascuna da 6 linee orizzontali poste l’una sull’altra e seguite da un’interpre-tazione molto sintetica (sia dell’intero esa-gramma che dei singoli tratti, interi o spezzati, che lo compongono). Il numero 64 esaurisce di fatto tutte le possibili combinazioni su base 6 di linee intere (Yang) e linee spezzate (Yin), fornendo un’esemplificazione grafica di una molteplicità finita ed emblematica di situazio-ni che l’uomo può trovarsi ad affrontare nel corso dell’esistenza. In epoca Han il Classico dei Mutamenti possiede ormai una struttura ben più complessa: ingloba infatti una notevo-le mole di materiale esegetico (le cosiddette «Dieci Ali») che, tradizionalmente attribuito allo stesso Confucio, si presenta sotto forma di commentari aggiuntivi sia agli esagrammi che alle sentenze originarie che li accompa-gnano. Fra le «Dieci Ali» spiccano le Xici (Sen-tenze correlate), note anche come Dazhuan(Grande Commentario): esse propongono una sintesi dell’intero testo che oltre a sottolinear-ne gli aspetti significativi a livello dell’etica so-ciale confuciana pongono anche le basi per la dottrina cosmologica e metafisica che i neo-confuciani svilupperanno a partire dal X seco-lo (ne è un esempio la coppia di concetti xing er shang e xing er xia usati nel Grande Commentario per indicare «ciò che è al di fuori della forma» e «ciò che è all’interno della forma», ovvero l’ambito metafisico e l’ambito cosmologico).Di tutt’altra natura è l’utilizzazione dell’Yijing e degli altri Classici confuciani da parte dei fan-gshi, espressione che significa letteralmente «maestri delle tecniche». Attivi già alla corte dei Qin e poi a quella degli Han, essi si pongo-no come i detentori di conoscenze di tipo co-smologico (pronostici, numerologia, tecniche di longevità) che vengono presentate in stretta relazione con i Classici, di cui costituirebbero la necessaria integrazione. Non è raro che i lo-ro testi, noti come weishu («scritture <che costituiscono la> trama <dei Classici>») o chenshu («scritture sui pronostici»), si at-tribuiscano un carattere rivelato e siano per-

tanto considerati dagli studiosi come i precur-sori del cosiddetto «taoismo religioso». La di-stinzione fra un taoismo «filosofico» (quello del Laozi e del Zhuangzi) e un taoismo «religio-so» (quello che si sviluppa a partire dall’epoca Han) è da tempo considerata una distinzione fallace. Essa nasce in un periodo storico, quel-lo dei primi rapporti fra missionari occidentali e mondo cinese, in cui «religioso» veniva in questo caso equiparato a «superstizioso» e in cui un’inadeguata conoscenza dei testi impe-diva di riconoscere la fondamentale unità che il taoismo conservava intatta a livello dottrina-le. Unità dottrinale che non impedisce a que-sta tradizione di produrre «applicazioni» di-verse nel corso della storia, applicazioni e adattamenti che prendono inizialmente la for-ma di tre grandi rivelazioni che si verificano fra il II e il IV secolo d. C. La prima di queste rive-lazioni è nota con nomi diversi: «Via dei Cin-que Moggi di Riso», «Via dell’Uno Ortodosso», «Via dei Maestri Celesti». Quest’ultima deno-minazione fa più direttamente riferimento a una gerarchia di maestri spirituali che si è tra-mandata per via ereditaria fino ai giorni nostri e che ha il suo capostipite in un membro della famiglia Zhang (Zhang Daoling). Nel 142 d. C., sulle montagne dell’attuale regione nord-occi-dentale del Sichuan, avviene l’incontro in so-gno fra Zhang Daoling e lo stesso Laozi, incon-tro che si configura come un vero e proprio «rinnovamento del patto» fra il Cielo e un’umanità ormai incapace di comprendere i principi dottrinali contenuti nei testi taoisti dell’antichità. In un periodo di disordini che precedono la caduta degli Han, i Maestri Cele-sti sono in grado di stabilire un’organizzazione che, fino al 215 d. C., prende la forma di un ve-ro e proprio stato, autofinanziato e con una propria amministrazione. Va ricordato che l’in-tento non era quello di istituire un potere di-nastico alternativo bensì di formare un’élite, ampia ma gerarchicamente articolata, che fos-se in grado di preparare l’avvento di una dina-stia capace di instaurare l’armonia nel mondo umano (quella «Grande Pace» [Taiping ] che darà il titolo alla principale scrittura rive-lata riconducibile ai Maestri Celesti, il Taipin-gjing). La complessità delle pratiche rituali, dietetiche, esorcistiche ecc. che caratterizza l’aspetto «applicativo» della via dei Maestri Celesti, non impedisce di riconoscere in tale via il saldo riferimento ai principi dottrinali del taoismo delle origini. L’autorità attribuita al

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Daodejing è confermata dal suo uso costante, come dimostra la stesura di uno specifico commentario (il Xiang’er), e il suo stile e il suo contenuto dottrinale riecheggiano in numero-si testi: «Il grande Dao abbraccia il Cielo e la Terra, nutre ogni forma di vita, governa il ger-mogliare di ogni cosa manifestata. Da ciò che è assolutamente indistinto e oscuro <hunhun dundun, espressione onomatopeica che evoca il caos precedente la manifestazione>, il Daogenera spontaneamente la miriade degli esse-ri. Anche se gli uomini non possono dargli un nome, tutto ciò che esiste, a partire dal Cielo e dalla Terra, è il Dao che lo fa nascere, è il Daoche lo fa morire» (cfr. I. Robinet, Histoire du Ta-oïsme des origines au XIV siecle, Paris 1991, tr. it. di M. Miranda, Storia del Taoismo dalle origini al quattordicesimo secolo, Roma 1993, p. 64). La se-conda rivelazione di nuovi insegnamenti taoi-sti avviene fra il 365 e il 370 d. C. nella Cina me-ridionale ed è nota come Shangqing («Purezza Suprema»), o anche Maoshan, dal nome del complesso montagnoso a sud di Nanchino do-ve una divinità femminile appartenente alla tradizione dei Maestri Celesti trasmette una serie di scritture a Yang Xi. La famiglia aristo-cratica cui Yang Xi appartiene è imparentata con quella di uno dei maggiori rappresentanti del taoismo meridionale, Ge Hong, nella cui opera (Baopuzi, «Il Maestro che Abbraccia la Semplicità») vediamo coesistere l’interesse per le pratiche alchemiche e una concezione del Dao espressa in termini che ricalcano, an-che in questo caso, quelli del Daodejing: «Il Mi-stero è il primo antenato della Spontaneità, il grande antenato della molteplicità delle mani-festazioni. [...] Quadrato, la squadra non lo può misurare; rotondo, non lo può misurare il compasso; quando arriva non gli si può andare incontro; quando parte non lo si può seguire. [...] Se gli si aggiunge qualcosa, non aumenta; se qualcosa gli si toglie, non diminuisce» (Ba-opuzi, cap.1); «quando applichiamo al Dao il termine “ristretto”, eccolo che si muove dentro un fuscello e ha ancora spazio in abbondanza; quando gli applichiamo il termine “ampio”, ec-co che il Grande Vuoto non è capace di conte-nerlo. È il suono nei suoni, il rumore nei rumo-ri, la forma nelle forme, l’ombra nelle ombre» (Baopuzi, cap. 9). La via dello Shangqing pone l’accento sulla sacralità del testo rivelato, co-pia terrestre di un archetipo celeste ed eterno che ne garantisce la potenza sul piano umano. Esso contiene tutte le istruzioni necessarie af-

finché il discepolo qualificato a riceverlo pos-sa utilizzarlo direttamente, in un cammino di concentrazione che culminerà nel ritorno dalla molteplicità all’unità e all’identificazione con il Dao incondizionato. A differenza di quanto avviene nella via dei Maestri Celesti, si tratta di un cammino personale che non presuppone un lavoro collettivo e in cui il ruolo del mae-stro si limita alla verifica delle qualificazioni che rendono il discepolo degno di ricevere il testo. La natura prettamente interiore di que-sta via sarà alla base di un processo di interio-rizzazione dei metodi applicativi taoisti che prenderà avvio in epoca Tang (618-907) e avrà la massima fioritura con i maestri dell’«alchi-mia interiore» (Jing, Qi, Shen) di epoca Song (960-1279). Pur se composti da Ge Chaofu fra il 397 e il 402, anche i testi del Lingbao («Teso-ro Sacro»), la terza principale corrente taoista del periodo, vengono tradizionalmente inseriti in un contesto di «rivelazione». In questo caso le scritture non sono trasmesse da una qual-che divinità bensì ritrovate in una grotta; cio-nonostante, la concezione secondo cui il testo tramandato è una semplice «copia» di un «ar-chetipo» celeste trova ulteriore conferma nella struttura del corpus oggetto della rivelazione. Una parte di esso è infatti costituita da testi ri-velati nella loro completezza, un’altra da testi in cui compare soltanto il titolo, a significare – come indica una concisa nota – che il testo esiste nella sua forma archetipica in cielo ma che l’umanità terrestre non è ancora qualifica-ta per riceverlo e utilizzarlo. Nella storia del ta-oismo, la tradizione del Lingbao ha un’impor-tanza primaria nella codificazione dei più im-portanti rituali, gli stessi che sono stati tra-smessi fino ai giorni nostri.V. IL BUDDHISMO IN CINA. – Considerando che le prime testimonianze su una presenza buddhi-sta in Cina risalgono al I secolo d. C., si può parlare di «scuole buddhiste cinesi» solo in re-lazione a un periodo storico in cui il buddhi-smo, dopo un lungo processo di assimilazione e sinizzazione, si presenta articolato in corren-ti dottrinali e applicative ben distinte; queste, oltre ad avere ormai a disposizione un vasto corpus di traduzioni in cinese di pressoché tutti i principali sutra indiani, ne padroneggiano le molteplici esegesi e sono esse stesse in grado di produrre testi originali. In tale periodo, che coincide con i primi due secoli di regno della dinastia Tang (VII-X secolo), la Cina svolgerà anche un ruolo cruciale nella propagazione del

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buddhismo nella sua forma sinizzata sia in Co-rea che in Giappone. Prima di allora, la pene-trazione del buddhismo lungo il percorso ter-restre della via della seta aveva comportato una prima diffusione di elementi di natura de-vozionale che risultavano estranei alla menta-lità cinese, non in quanto tali ma in quanto in-quadrati in un contesto «monastico» che pre-supponeva l’«uscita dalla famiglia» (come in-dica l’espressione cinese chujia usata per tradurre la parola «monaco»). L’accettazione della via monastica buddhista da parte di una tradizione che non aveva mai conosciuto for-me di monachesimo sarà tuttavia favorita dal-la graduale assimilazione della figura e della dottrina mahayana del bodhisattva: l’essere che, una volta realizzata la propria liberazione, ridiscende nel mondo a operare per la libera-zione di tutti gli altri esseri, offrendosi in tal modo come intermediario spirituale anche per tutti quei buddhisti che rimangono nello stato laicale. Alla lenta assimilazione di tale dottri-na, così come dei concetti di retribuzione kar-mica, di liberazione dal ciclo delle rinascite (nirvana) e dei metodi di contemplazione (dh-yana), contribuisce il precoce lavoro di tradu-zione compiuto da missionari buddhisti di ori-gine centro-asiatica nella capitale Luoyang già nel II secolo d. C. Si tratta di traduzioni piutto-sto grezze e che non hanno ancora abbando-nato quel metodo di «interpretazione per ana-logia di senso» (geyi ) che utilizzava termi-ni cinesi, per lo più taoisti, per rendere in ma-niera ovviamente approssimativa la termino-logia tecnica buddhista; metodo questo che trovava la sua giustificazione teorica nei dibat-titi sui concetti di «Essere» (you ) e «Non-es-sere» (wu ) in voga fra i letterati della «Scuo-la del Mistero» (Wang Bi). L’influenza di tali di-battiti negli ambienti buddhisti si farà sentire fino a tutto il IV secolo (ciò è dimostrato dal fatto che la catalogazione delle prime scuole buddhiste cinesi proposta da Jizang fra il VI e il VII secolo prende in considerazione sette cor-renti interpretative che vengono significativa-mente distinte in «scuole del Non-essere» e «scuole dell’Essere»; cfr. Wing-Tsit Chan, A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734, pp. 336-342).Dopo la frammentazione dell’impero in segui-to alla caduta degli Han nel 220 d. C., la costi-tuzione di dinastie «barbariche» nel nord a partire dal 317 costringe l’élite politica e intel-lettuale cinese a un esodo di massa nelle re-

gioni centro-meridionali. Sarà questa stessa élite che rinnoverà il suo riconoscimento alle comunità buddhiste e che offrirà il proprio pa-trocinio a importanti maestri cinesi come Da-oan (312-385) e il suo discepolo Huiyuan (344-416). La dottrina di Daoan, che afferma il «non-essere originario» (benwu ) di tutti i fenomeni (dharma), mostra come il buddhi-smo cinese sia ormai pronto ad assimilare in maniera profonda i sutra e i trattati del Maha-yana indiano in cui il concetto di sunya («Vuo-to») svolge un ruolo primario. Nel 402 giunge a Chang’an il maestro centro-asiatico Kuma-rajiva che, a capo di un’équipe composta da un cospicuo numero di collaboratori con compe-tenze sia nel sanscrito che nel cinese, procede alla traduzione di un numero impressionante di scritture: vi sono fra queste, oltre al Sutra del Loto, al Sutra di Vimalakirti e alle diverse ver-sioni della Prajñaparamita (che permettono al pubblico cinese di completare la conoscenza del buddhismo mahayana), anche i trattati della scuola Madhyamika, fondata in India da Nagarjuna nel II secolo d. C. Come indica il no-me, «Via mediana», il Madhyamika respinge la visione dualistica che, non riconoscendo il ca-rattere relativo e condizionato dei fenomeni, li inquadra in categorie dotate di realtà assoluta che vengono poste l’una all’estremo dell’altra: esistenza e non esistenza, movimento e quiete ecc. Il punto di vista «mediano», fondato sulla concezione dell’assoluto come «Vuoto», viene acquisito attraverso un’argomentazione in quattro fasi: impossibilità di affermare che i fe-nomeni esistono, impossibilità di affermare che non esistono, impossibilità di affermare che a un tempo esistono e non esistono, im-possibilità di affermare che non appartengono né all’esistenza né alla non esistenza. Seng-zhao (374-414), uno dei principali discepoli di Kumarajiva, sarà in grado di esporre in cinese i fondamenti della dottrina madhyamika in tre importanti trattati: L’immutabilità delle cose, La vacuità dell’irreale, La prajña non è conoscenza(cfr. Wing-Tsit Chan, op. cit., pp. 343-356). Si deve invece a Jizang (549-623) il trattato suiDue livelli della Verità, in cui la stessa dialettica madhyamika viene portata alle estreme conse-guenze: «La dualità e la non-dualità apparten-gono <anch’esse> alla verità mondana, si può definire verità assoluta solo ciò che è simulta-neamente al di là della dualità e al di là della non-dualità» (cfr. Wing-Tsit Chan, op. cit., pp. 357-369). Con la riunificazione dell’impero

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sotto la dinastia Sui (581-618) si è alla vigilia di quel periodo di stabilità che vedrà il pieno sviluppo delle «scuole buddhiste cinesi» du-rante la successiva dinastia Tang. Il monaco e traduttore Xuanzang (602-664), dopo un sog-giorno in India durato sedici anni, introduce in Cina i testi della scuola Yogacara (in cinese Faxiang , «caratteristiche dei dharma») e riesce a compendiare nel trattato Cheng weishi lun la complessa dottrina del «niente altro che coscienza» (weishi ) traduzione del sanscri-to vijñana-matra). Il fatto di ridurre l’intera ma-nifestazione alla coscienza che l’essere ne ha, non fa che ribadire l’illusorietà sia del mondo fenomenico sia della coscienza individuale che lo fa apparire dotato di realtà: anche l’io (wo ), come i fenomeni (fa /dharma), è infat-ti condizionato e privo di realtà propria. Un’analisi estremamente dettagliata individua sette forme di coscienza che fanno apparire il mondo illusorio come reale; un’ulteriore otta-va coscienza, chiamata «coscienza-deposito» (zangshi alaya-vijñana), è capace di imma-gazzinare le percezioni e di fare apparire conti-nuo e reale ciò che è impermanente e illusorio. Un’analisi altrettanto dettagliata dei caratteri distintivi e condizionati del mondo fenomeni-co (xiang ) permette infine a Xuanzang di de-scrivere il processo graduale che conduce all’abbandono definitivo dell’illusione e alla realizzazione-identificazione con la Realtà In-condizionata (Bhutatathata, in cinese zhenru

, «quiddità»). Il concetto di via o verità «mediana» svolge un ruolo essenziale anche in quella che viene considerata la prima delle scuole buddhiste specificamente cinesi, la scuola Tientai (dal nome della catena montuosa del Zhejiang dove si stabilisce Zhiyi [538-597], il terzo e più autorevole dei suoi pa-triarchi). Se nella scuola Madhyamika ogni concezione dualistica della realtà si annulla nella centralità dell’assoluto, la «realtà media-na» della Tiantai contiene armonicamente in sé, senza annullarli, sia la «realtà vuota» dei fenomeni (in quanto privi di natura propria) sia la loro «realtà temporanea» (in quanto in possesso di esistenza relativa e impermanen-te). La natura onnicomprensiva della «realtà mediana» è la stessa che fonda il concetto di «matrice della quiddità» (Tathagata-garbha, in cinese rulaizang ), all’interno della quale hanno la loro ragion d’essere sia la realtà feno-menica che la realtà assoluta. A livello di pra-tica spirituale, lo stesso Tathagata-garbha vie-

ne identificato con la «Mente Unica» che pre-siede al duplice metodo di «cessazione» (zhi

) e «contemplazione» (guan ): il primo blocca l’erroneo lavorio mentale che ci fa ap-parire i fenomeni come separati dalla «Mente Unica» che li contiene, il secondo ci permette di cogliere i fenomeni per quello che effettiva-mente sono (ovvero aspetti condizionati del Tathagata-garbha stesso). Va notato che si tratta di un processo realizzativo di tipo «di-scendente» che comporta un recupero e una reintegrazione del mondo fenomenico nella Realtà Unica, processo «discendente» che tro-verà completa applicazione negli insegnamen-ti della scuola buddhista Chan. Il maestro Fa-zang (643-712), fondatore della scuola Huayan

(da Huayan jing, titolo cinese dell’Ava-tamsaka-sutra, il Sutra della Ghirlanda), pur ri-prendendo dalla Tiantai la dottrina secondo cui tutti gli elementi che costituiscono il mon-do manifestato sono fondamentalmente «in-differenziati», riconosce all’interno di ciascu-no di essi un aspetto principiale e permanente (li ) e un aspetto formale e mutevole (shi ). Alla compenetrazione tra fenomeno e fenome-no, resa possibile dall’aspetto principiale, cor-risponde la compenetrazione fra lo stesso mondo fenomenico e il principio universale che ne costituisce la causa essenziale (dhar-madhatu). Il carattere di simultaneità di tale compenetrazione è illustrato da Fazang con l’esempio del «leone d’oro» che dà il titolo al noto trattato esposto alla presenza dell’impe-ratrice Wu Zetian (anni di regno: 690-705): co-me «l’oro compenetra totalmente il leone» non essendone condizionato dalla forma, così il principio compenetra totalmente il fenome-no senza che fra i due esista soluzione di con-tinuità (cfr. Fung Yu-lan, A History of Chinese Philosophy, Princeton 19737, 2 voll., pp. 339-359). La genealogia tradizionale della scuola buddhista Chan vede nel maestro Bodhi-dharma il trasmettitore in Cina (agli inizi del VI secolo) di una via spirituale che si differenzia dalle altre per la natura del suo insegnamento: un insegnamento che viene trasmesso «da cuore a cuore e al di fuori delle scritture». La linea dei patriarchi indiani (di cui Bodhidhar-ma è il ventottesimo) è inaugurata da uno dei più stretti discepoli del Buddha storico, Mahakasyapa. Nel corso di un’adunanza in cui il Buddha non pronuncia parola e si limita a mostrare un fiore, solo Mahakasyapa è in gra-do di cogliere l’insegnamento silenzioso insito

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nel gesto. Il fiore, come ogni elemento della realtà manifestata, non è distinto dalla realtà non duale e incondizionata che solo l’illusione individuale ci impedisce di cogliere (o ci spin-ge a concepire in maniera separativa). L’ap-proccio «diretto» alla conoscenza della realtà incondizionata è presente in importanti sutradel buddhismo mahayana (allo stesso Bodhi-dharma è ad esempio attribuita la diffusione in Cina del Lankavatarasutra), ma nel caso del Chan tale approccio trova piena applicazione nel rapporto maestro-discepolo così come ci è tramandato negli yulu («dialoghi»; cfr. P. Demiéville (a cura di), Entretiens de Lin-tsi, Pa-ris 1972). Il discepolo, che con tutte le proprie facoltà (in primis il mentale) è teso costante-mente a «salire» verso quella che considera la realtà incondizionata (nirvana), è costante-mente bloccato dal maestro che lo costringe a «ridiscendere» nella realtà ordinaria (samsa-ra), facendo uso di mezzi «non discorsivi»: do-mande o risposte prive di logica, ma anche ur-la, colpi ecc. L’illusione della separazione fra samsara e nirvana, fra natura propria e «natura di Buddha», cesserà nel momento in cui il di-scepolo riconoscerà in maniera subitanea il proprio vero sé, ovvero quel «chi» che è al di là della distinzione fra samsara e nirvana, fra na-tura propria e «natura di Buddha» (colui che è anche detto wuwei zhenren , «l’Uomo Vero che è al di là di ogni stato»). Il Chan svi-luppa in Cina una propria genealogia patriar-cale, una serie complessa di lignaggi, di strut-ture monastiche e di metodi di insegnamento che ne fanno una via spirituale la cui natura è assolutamente estranea alle interpretazioni ri-duttive di tipo semplicistico o parodistico (comprese quelle meramente psicologiche e psicoanalitiche) che spesso ne sono date in Occidente. È anche la scuola che meglio so-pravvive alle persecuzioni anti-buddhiste che raggiungono il loro apice con l’editto dell’im-peratore Wuzong dell’845 (cfr. E. Zürcher, Il Buddhismo in Cina, in G. Filoramo, Storia delle religioni, vol. IV: Religioni dell’India e dell’Estre-mo Oriente, Roma-Bari 1996, pp. 369-410; in particolare p. 399) e che esercita una grande influenza (non esente da adattamenti) sia in Corea che in Giappone. La Cina farà anche da tramite per la diffusione in Giappone della tra-dizione tantrica (scuole Tendai e Shingon), co-sì come della via salvifica della Terra Pura (Jin-gtu in cinese, Jodo in giapponese).

VI. LE DOTTRINE NEO-CONFUCIANE DALL’EPOCA SONG (960-1279) ALL’EPOCA MING (1368-1644).– Fra l’XI e il XIII secolo la corrente di pensiero nota con il nome convenzionale di neoconfu-cianesimo non si limita a realizzare un amplia-mento della prospettiva dottrinale confuciana in senso sia cosmologico che metafisico, ma riesce anche nell’intento di fissare in maniera definitiva l’identità stessa del letterato-funzio-nario confuciano, rendendo predominante il suo ruolo all’interno dell’élite di governo. Non è un caso che ciò si realizzi con la riunificazio-ne della Cina sotto la dinastia dei Song, ovvero ad assimilazione del buddhismo avvenuta e dopo gli accesi dibattiti che in vista di tale riu-nificazione avevano visto scontrarsi un’élite di conservatori favorevoli al rafforzamento delle istituzioni tradizionali (neoconfuciani come, ad esempio, Shao Yong), e un’élite di innova-tori (come Wang Anshi) il cui ampio progetto riformatore si spingeva fino a scardinare un si-stema di importanza primaria come quello de-gli esami che davano accesso alla carriera bu-rocratica. Anche se in maniera diversa, bud-dhismo e taoismo hanno avuto un ruolo non secondario nella formazione di quelli che ci sono noti come i «Cinque maestri» del neo-confucianesimo dell’XI secolo (Shao Yong, Zhou Dunyi, Zhang Zai, i due fratelli Cheng). Per quanto riguarda il pensiero cosmologico di Shao Yong, la tradizione gli attribuisce una precisa ascendenza che rinvia al maestro taoi-sta Chen Tuan (906-989 ca.), lo stesso maestro al quale si sarebbe direttamente ispirato Zhou Dunyi per la configurazione del «Diagramma della Trave Maestra» (Taiji tu), la cui sintetica interpretazione costituirà una delle sue opere principali. Direttamente riferibile al buddhi-smo Chan, e al suo concetto di «natura di Bud-dha» che può essere colta soltanto attraverso l’attivazione della «contemplazione interiore», è invece l’uso che Shao Yong fa dell’espressio-ne fanguang , il «rovesciamento della con-templazione <dall’esterno all’interno>». Tale contemplazione del Principio unico all’interno di sé, senza il quale non è possibile cogliere il medesimo Principio unico che regge la molte-plicità delle cose fuori di sé, è così descritta: «Ciò che chiamo contemplazione delle cose non è un contemplare per mezzo degli occhi. No, è un contemplare per mezzo del Cuore (xin

). Anzi, più che un contemplare per mezzo del Cuore è un contemplare per mezzo del Principio stesso (li )» (Huangji jinshi shu, 6).

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Questa visione interiorizzata del Principio fon-derà le pratiche di «auto perfezionamento» che a partire dai fratelli Cheng acquisteranno un ruolo primario all’interno del neoconfucia-nesimo. Tornando alla dottrina cosmologica di Shao Yong, essa riprende dal Grande Com-mentario al Classico dei Mutamenti il concetto di Taiji («Trave Maestra» ovvero «Grande Unità») e lo considera l’origine indifferenziata del mondo differenziato: «Quando la Grande Uni-tà si differenzia, ecco che appaiono i Due Mo-delli <lo Yin e lo Yang>. Dall’interazione fra lo Yang che sta sopra e lo Yin che sta sotto, e dall’interazione fra lo Yin che sta sotto e lo Yang che sta sopra, ecco che si originano le Quattro Figure <si tratta delle quattro combi-nazioni possibili di una linea intera/Yang e di una linea spezzata/Yin>. Le linee Yang e Yin<combinate a formare i quattro precedenti di-grammi> interagiscono ulteriormente e danno origine alle quattro Figure Celesti <quattro di otto trigrammi in cui prevalgono linee intere/Yang>; allo stesso modo, dall’interazione reci-proca fra duro e molle si generano le quattro Figure Terrestri <quattro di otto trigrammi in cui prevalgono linee spezzate/Yin>. In questo modo assumono la loro forma definitiva gli Otto Trigrammi. Dalla combinazione degli Ot-to Trigrammi si genera la miriade delle cose <emblematicamente fissata nei 64 esagrammi che esauriscono tutte le possibili combinazio-ni su base 6 di linee intere/Yang e linee spez-zate/Yin>. Si vede dunque che 1 si divide in 2, 2 si divide in 4, 4 si divide in 8, 8 si divide in 16, 16 si divide in 32, 32 si divide in 64» (Huangji jinshi shu, 7a). Per Shao Yong le figure e i nu-meri che ci permettono di descrivere lo svilup-po del mondo manifestato non sono che il ri-flesso di figure e numeri che hanno i loro ar-chetipi in una realtà più universale, definita come «anteriore alla manifestazione del Cielo e della Terra» (xiantian ). Ciononostante, egli non prende in considerazione il concetto metafisico di Wuji («Ciò che è al di là della Trave Maestra» ovvero «Ciò che è al di là dell’Unità»), concetto che il suo contempora-neo Zhou Dunyi contribuirà a mettere al cen-tro dell’attenzione e dei dibattiti dei principali maestri neoconfuciani. Il suo Taiji tu shuo(«Spiegazione del Diagramma della Trave Ma-estra») si apre infatti con la frase «Wuji er Taiji» , il cui significato è stretta-mente legato all’interpretazione che si decide di dare alla particella grammaticale er che

collega i due termini. Secondo alcuni, indiche-rebbe che Wuji e Taiji sono due nomi che fan-no riferimento a un’unica realtà (nel senso che il Non-essere e l’Essere sono situati sullo stes-so piano), secondo altri la stessa particella in-dicherebbe l’anteriorità di Wuji rispetto a Taiji(ovvero che il Non-essere è cronologicamente anteriore all’Essere). In effetti, se ci si pone da un punto di vista rigorosamente metafisico, tanto l’equiparazione fra i due principi quanto la loro successione cronologica deve essere esclusa. Dando alla particella er una funzione sia di congiunzione che avversativa, avremo la seguente traduzione: «Ecco “Ciò che è al di là della Trave Maestra” (Wuji) e che, tuttavia, è an-che “La Trave Maestra”!»; ovvero l’affermazione che ciò che è al di là delle forme (il Non-esse-re, lo Zero metafisico) possiede, fra la totalità delle sue possibilità, anche quella di determi-narsi come Essere, come Principio di Unità che produce la molteplicità delle forme. In ter-mini di simbolismo matematico, l’universalità dell’uno=Taiji si manifesta nella sua capacità di generare la sequenza dei numeri aggiungen-do se stesso a ciascuno di essi, ma la maggiore universalità dello zero=Wuji risulta evidente se si considera che qualunque potenza di zero dà come risultato lo zero stesso. Una volta compreso che per Zhou Dunyi Taiji/Essere non è che un aspetto di Wuj/Non-essere, risulta chiaro il significato del cerchio vuoto che com-pare in tutte le fasi che rappresentano grafica-mente la sequenza che dall’incondizionato conduce alla molteplicità. Il Principio incondi-zionato considerato nel suo aspetto di Unità (il cerchio vuoto) è infatti presente in ciascuna delle fasi che costituiscono il percorso cosmo-logico e garantisce l’esistenza stessa di ognu-na di esse. Senza il Principio unitario che ne è la «ragion d’essere» non potrebbe ad esempio esistere la dualità Yin-Yang, e lo stesso vale per la sequenza dei Cinque Agenti (Wuxing), principi ordinatori della realtà molteplice. Già nelle prime frasi del Taiji tu shuo la necessità di riportare ogni elemento differenziato al suo principio indifferenziato prende la forma di un processo in due fasi, una discendente e una ascendente. Fase discendente (differenziazio-ne secondo la sequenza 0-1-2-5): «Ecco “Ciò che è al di là della Trave Maestra” (Wuji) e che, tuttavia, è anche “La Trave Maestra”! Attraverso il movimento, la Trave Maestra produce lo Yang. Quando il movimento raggiunge il suo apice, interviene la quiete e con la quiete <la

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Trave Maestra> produce lo Yin. Quando la quiete raggiunge il suo apice, si ha il ritorno al movimento. Avendo il proprio fondamento l’uno nell’altro, movimento e quiete si alterna-no: questa è l’origine dello Yin e dello Yang, così si determinano i Due Modelli. Dalla tra-sformazione dello Yang e dalla sua unione con lo Yin si producono <i Cinque Agenti> Acqua, Fuoco, Legno, Metallo e Terra». Fase ascen-dente (riassorbimento nell’Incondizionato se-condo la sequenza 5-2-1-0): «I Cinque Agenti si alternano seguendo il ciclo dello Yin e dello Yang e lo Yin e lo Yang hanno la loro radice nella “Trave Maestra” (Taiji). La “Trave Mae-stra” ha la sua radice in “Ciò che è al di là della Trave Maestra” (Wuji)». Lo studio approfondi-to del buddhismo e del taoismo porteranno il maestro neoconfuciano Zhang Zai a respinge-re l’impostazione metafisica di Zhou Dunyi e ad abbandonare l’idea stessa di Wuji. Tale concezione gli sembra troppo simile all’idea di «Vuoto» dei buddhisti e all’idea di «Dao incon-dizionato» dei taoisti: «Laozi affermava che l’Essere nasce dal Non-essere e non riuscì a concepire il principio eterno e indifferenziato che unisce in sé Essere e Non-essere. [...] Bud-dha insegnava che le montagne, i fiumi e la terra tutta non sono che illusioni» (Zheng-meng, cap. 1). Quel «principio eterno e indiffe-renziato che unisce in sé Essere e Non-essere» di cui si parla nella precedente citazione viene identificato da Zhang Zai con il qi (Soffio/Forza vitale), inteso come il costituente unico e indistruttibile di tutta la realtà. Tale concezio-ne di un qi unico permette a Zhang Zai di dare anche conto della natura della realtà informa-le; realtà informale che, ferma restando la cri-tica alla concezione buddhista di «Vuoto», egli non esita a definire come «Vuoto Supremo» (Taixu ). Con tale espressione, in realtà, egli non intende rinviare a un Principio incon-dizionato che fonda la realtà manifestata, ben-sì al medesimo qi considerato nello stato che precede la sua differenziazione nella moltepli-cità delle forme: «Nel suo stato originario di Vuoto Supremo, il Soffio/Forza vitale è assolu-tamente tranquillo e privo di forma. Quando si mette in azione, esso genera lo Yin e lo Yang e attraverso il loro combinarsi dà origine alle forme» (ibid.). Il carattere ciclico del passaggio dall’indifferenziato al differenziato, e vicever-sa, è descritto nel cap. 2 dello stesso Zheng-meng: «Il Vuoto Supremo non può che essere costituito da Soffio/Forza vitale. Questo Soffio/

Forza vitale non può che condensarsi e dare forma alle cose; queste, a loro volta, non pos-sono che tornare a disperdersi e a ricostituire il Vuoto Supremo». A livello di percorso spiri-tuale, la concezione di Soffio unico e onniper-vadente di Zhang Zai, oltre a rinviare all’idea di «Soffio sovrabbondante» (haoran zhi qi

) di Mencio, si riflette in una visione del Saggio che «allargando il proprio cuore può penetrare ogni cosa nell’universo. Fintan-toché ogni cosa nell’universo non sia stata pe-netrata, vi è ancora qualcosa che resta al di fuori del cuore. Il cuore dell’uomo ordinario è confinato entro i limiti di ciò che vede e ode; il Saggio, invece, sviluppa pienamente la pro-pria natura e non lascia che il proprio cuore sia ostacolato da ciò che vede e ode. Egli conside-ra ogni cosa nell’universo come il proprio sé» (ibi, cap. 2). Se per Zhang Zai l’uomo e le cose formano un tutto grazie all’unicità del Soffio/Forza vitale (qi ), per i maestri Cheng Hao e Cheng Yi ogni elemento della realtà possiede in sé un aspetto ordinatore che viene definito Principio (li ) o Principio Celeste (Tianli ). In ciascuna cosa tale Principio si identifica con la sua «ragion d’essere», che viene appunto in-dicata come suoyiran («ciò per cui una cosa è quello che è») e suodangran («ciò per cui una cosa è quello che deve essere»). È dunque grazie alla condivisione del Principio, e non del Soffio/Forza vitale, che uomo e cose formano un tutto unico. Come si è visto, sem-pre Zhang Zai afferma il carattere ciclico del passaggio del Soffio da uno stato indifferen-ziato a uno stato differenziato e viceversa; i fra-telli Cheng vi scorgono una concezione mecca-nicistica secondo la quale il Soffio «logorato-si» nella manifestazione delle forme sarebbe costretto a rientrare nello stato indifferenziato per poterne poi riuscire e attualizzare nuove forme: «Che bisogno c’è che una forma ormai dissoltasi o un Soffio ormai esauritosi <nell’indifferenziato> torni a manifestarsi in una nuova forma? Facciamo un esempio che riguarda da vicino il nostro corpo. L’aprirsi e il chiudersi, l’andare e il venire del Soffio/Forza vitale può essere osservato nella respirazione. Si inspira e si espira una prima volta, ma per inspirare una seconda volta non c’è certo biso-gno di inalare la stessa aria che si era già espi-rata» (cfr. Wing-Tsit Chan, op. cit., p. 553, § 21). Per i due maestri Cheng la potenza generatrice del Cielo è costante e inesauribile e il «Soffio sovrabbondante» di cui parla Mencio non può

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certo essere ridotto alla componente vitale co-stituita dal Soffio; secondo la loro concezione, ciò che il Cielo genera e diffonde è primaria-mente la virtù del ren («senso dell’umanità re-ciproca») di cui il Soffio costituisce soltanto il veicolo psico-fisiologico. La sintesi delle dot-trine confuciane e neo-confuciane condotta da Zhu Xi nel XII secolo non poteva non prendere avvio dalla rivisitazione del rapporto fra Taiji e Wuji, ovvero dal già citato incipit del Taiji tu shuo di Zhou Dunyi: «Wuji er Taiji». Questo il sintetico commento di Zhu Xi: «La frase “Wuji er Taiji” (“Ecco ‘Ciò che è al di là della Trave Maestra’ (Wuji) e che, tuttavia, è anche ‘La Trave Maestra’ (Taiji)!”) significa semplicemente che <Wuji, la Realtà Incondizionata> è al di là del-le forme ma contiene il Principio <di ogni for-ma>» (cfr. Fung Yu-lan, op. cit. , p. 535). Re-spinta in questo modo l’obiezione del contem-poraneo Lu Xiangshang che proprio nella for-mulazione del concetto di Wuji scorgeva un cedimento alla concezione buddhista del «Vuoto», Zhu Xi riprende il concetto di Taiji e lo identifica con il Principio Unico che costitu-isce il limite estremo e insieme il reggitore dell’edificio cosmico: «Il Taiji è simile alla ci-ma di una casa o allo zenit del cielo, il punto oltre il quale null’altro vi è» (cfr. Wing-Tsit Chan, op. cit., p. 641, § 119). L’affermazione se-condo cui oltre al Taiji «null’altro vi è» va ov-viamente interpretata nel senso che null’altro vi è che possa essere definito (infatti il concetto di Wuji, proprio come il concetto di Dao o di Infi-nito, resta al di là di ogni definizione che non sia puramente convenzionale). Zhu Xi si pre-occupa anche di ribadire come allo stesso Taiji, in quanto Principio unitario della manife-stazione, non possa essere attribuito nulla che attenga al piano della manifestazione di cui esso è l’origine: «Considerato nella sua essen-za originaria, il Taiji non ha questo nome. Si tratta di un semplice nome usato per esprime-re la sua natura» (cfr. ibi, p. 641, § 121); «<Il Taiji> non è qualcosa di fisico che splende nel-la sua magnificenza in qualche luogo» (cfr. Fung Yu-lan, op. cit., p. 535); «il Taiji non è sot-toposto a condizionamenti spaziali e non ha forma o corpo fisici. [...] È difficile da esprime-re. Questa che ne ho dato non è che una vaga descrizione. La verità è qualcosa che ciascuno deve realizzare da sé» (cfr. Wing-Tsit Chan, op. cit., p. 641, § 117). Un altro elemento di contra-sto fra Lu Xiangshang e Zhu Xi riguarda la que-stione del rapporto fra «natura originaria»

(xing ) e «natura emotiva» (qing ). Secondo la visione di Lu Xiangshang, scopo dell’inse-gnamento confuciano è quello di rendere ca-paci di comprendere intimamente che «il Cuo-re/Spirito <di ciascuno> non è altro che il Prin-cipio» (xin ji li ) e risulta dunque super-fluo discutere su una duplicità di «nature» che l’intuizione unificante del saggio è perfetta-mente in grado di padroneggiare: «Il Principio è ciò che possiedo grazie al Cielo, non mi è stato inculcato dall’esterno. Se si comprende che il Principio non è altro che il maestro, e si fa di esso il proprio maestro, non si potrà es-sere condizionati dalle cose esterne o ingan-nati da dottrine devianti» (cfr. ibi, p. 574, § 1).La questione del rapporto fra Principio e Cuo-re/Spirito, risolta da Lu Xiangshang in termini di identificazione, sarà oggetto di un lunghis-simo dibattito fra i diversi maestri del neocon-fucianesimo; esso si protrarrà ben oltre il peri-odo Song e Yuan, tanto che a partire dall’epo-ca Ming (1368-1644) si sentirà la necessità di coniare, per indicare i due principali punti di vista, due espressioni forse un po’ generiche ma significative: Lixue («Scuola del Princi-pio»), per coloro che sulla scia di Zhu Xi e dei fratelli Cheng mantengono la distinzione fra lie xin; Xinxue («Scuola del Cuore/Spirito») per coloro che, prendendo come base il punto di vista unificante dello stesso Lu, danno al Cuore/Spirito (xin) una valenza di universalità la cui ampiezza eguaglia certamente quella che allo stesso principio viene attribuita dalla scuola buddhista Chan. Le basi dottrinali della Xinxue (Scuola del Cuore/Spirito) sono esposti nell’opera di Wang Yangming (1472-1529). Per Wang Yangming il Cuore/Spirito è il principio primario sia della riflessione che dell’azione in quanto è l’organo di quella «conoscenza etica innata» (o «intuitiva», liangzhi ) che già Mencio aveva definito come «ciò che rende l’uomo capace di conoscere <il bene> senza ri-correre a una valutazione di tipo discorsivo» (Mengzi, VII A 15). Ciò non significa tuttavia che Wang Yangming, da buon confuciano, non si ponga il problema della rettificazione delle tendenze disarmoniche presenti nell’uomo: «L’essenza originaria del Cuore/Spirito condi-vide la stessa essenza della natura umana, ed essendo la natura umana originariamente buona altrettanta perfezione va riconosciuta al Cuore/Spirito. Perché dunque sarebbe neces-sario un qualche sforzo per rettificare il Cuore/Spirito? La ragione sta nel fatto che pur essen-

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do il Cuore/Spirito perfettamente armonico, la disarmonia sorge nel momento in cui comin-ciano a operare volontà e pensieri individuali. Pertanto colui che vuole mantenere retto il proprio Cuore/Spirito deve farlo a partire dalla rettificazione dei propri pensieri e della pro-pria volontà [...]. Tuttavia, ciò che si origina dalla volontà può essere buono o malvagio, e a meno che non vi sia la capacità di distingue-re il buono dal malvagio, vi sarà confusione fra ciò che è vero e ciò che è falso. In questo caso, anche chi vorrà rendere la propria volontà sin-cera, non ne sarà capace. Riuscirà a rendere sincera la propria volontà soltanto colui che sarà capace di “estendere la conoscenza” (zhizhi ). [...] “Estendere la conoscenza” non significa, come altri maestri hanno affer-mato <il riferimento è a Zhu Xi e ai fratelli Cheng>, arricchire e ampliare la conoscenza, ma semplicemente attestare al massimo gra-do (zhi ) la propria conoscenza innata del be-ne. Questa conoscenza innata del bene è ciò a cui si riferisce Mencio quando afferma: “Il sen-so del giusto e dell’ingiusto è comune a tutti gli uomini”. Per distinguere il giusto dall’ingiu-sto non è necessario nessun lavorio mentale: si tratta di una conoscenza <immediata> che per funzionare non ha bisogno di nessun tipo di erudizione. È per questo che la si definisce “conoscenza innata”. [...] Quando un pensiero o un desiderio sorge, ecco che la conoscenza innata del mio Cuore/Spirito ne prende imme-diata coscienza. Quanto al fatto che si tratti di qualcosa di buono o di malvagio, ecco che la conoscenza innata del mio Cuore/Spirito sarà pronta a riconoscerlo per quello che è» (cfr. ibi, pp. 664-665). Negli anni che precedono la ca-duta della dinastia Ming e la definitiva conqui-sta della Cina da parte della dinastia mancese dei Qing nel 1644, il pensiero di Zhu Xi e dei fratelli Cheng, così come quello di Lu Xian-gshang e Wang Yangming, si troveranno acco-munati e identificati in quella «ortodossia confuciana» che dovrà difendere il proprio ruolo su diversi fronti: quello più strettamente politico all’interno di una corte caduta in mani straniere, quello dei rapporti con i missionari cristiani, e infine quello delle spinte «icono-claste» ed «empiriste» che già avevano comin-ciato a svilupparsi all’interno dello stesso am-biente intellettuale neoconfuciano (cfr. A. Cheng, Histoire..., tr. cit., pp. 580-583).VII. L’IDENTITÀ DEL PENSIERO TRADIZIONALE E L’IN-CONTRO CON L’OCCIDENTE. – Già alla fine dei

Ming l’ortodossia confuciana tende a perdere rigore sul piano dottrinale e a mostrare i segni di una notevole esteriorizzazione della sua tra-dizionale funzione di guida del sovrano (in grossa parte dovuta alla necessità di contra-stare il sempre crescente potere degli eunuchi alla corte). In tale situazione, che vede anche la soppressione nel 1579 di tutte le accademie private, il radicalismo iconoclasta di pensatori come Li Zhi (1527-1602) appare come un pun-to di vista piuttosto isolato, soprattutto se lo si confronta con i ben più profondi effetti che sulla mentalità tradizionale confuciana avrà la mentalità empirica occidentale, veicolata dal-le discipline scientifiche e dalle tecnologie in-trodotte dai missionari gesuiti. Si tratta di in-fluenze sulla mentalità tradizionale che non sono certo prodotte dalle conoscenze scienti-fiche e tecnologiche in quanto tali (tutt’altro che nuove in Cina), bensì dal loro presentarsi come discipline autonome che fondano la pro-pria validità su un unico principio, quello della loro stessa efficacia empirica. È del resto es-senziale rimarcare che già agli inizi dell’epoca Qing pensatori come Gu Yanwu (1613-1682) avevano elaborato, del tutto autonomamente, una critica del neoconfucianesimo basata su un punto di vista «pragmatico». Avendo aderi-to in gioventù a quella «Scuola del Rinnova-mento» che alla fine dei Ming si era posta co-me l’erede della distrutta Accademia Donglin, Gu Yanwu ne riprende gli ideali (sintetizzati nell’espressione shixue , «studi pratici»), allineandosi a quei pensatori che affermavano la necessità di affiancare allo «studio dei Clas-sici» (jingxue ) la «ricerca dell’utilità nell’organizzazione del mondo attuale» (jin-gshi zhiyong ). Se si può dunque dire che la mentalità empirica occidentale abbia trovato un terreno favorevole negli ambienti intellettuali cinesi che aderirono agli «studi pratici», non va certamente dimenticato l’aspetto anche strumentale che tale adesione implicava: è infatti una strategia cinese bene attestata quella che consiste nel contrastare la forza disgregatrice dell’aggressore facendo uso dei suoi stessi mezzi; una strategia che nel XIX secolo, in un contesto socio-politico che andrà configurandosi come pura aggressione militare, annessione territoriale e asservimen-to economico da parte delle potenze occiden-tali, prenderà la forma del motto: «Il sapere ci-nese come essenza (ti ), il sapere occidenta-

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le come strumento funzionale (yong )» (zhon-gxue wei ti xixue wei yong ).Con il progressivo decadere della dinastia Qing, sempre più incapace di contrastare le minacce sia interne che esterne, riprende vigo-re fra i letterati l’interesse per un dibattito sui Classici confuciani che, risalendo ai primi de-cenni dell’era cristiana, sembrerebbe del tutto inattuale. Si tratta della controversia fra i fau-tori del «testo antico» (guwen ), ovvero dei testi tracciati in una grafia che precede l’uni-formazione degli stili di scrittura voluta dal primo imperatore Qin Shihuangdi, e i fautori del «testo nuovo» (jinwen ), ovvero delle versioni considerate ortodosse alla corte degli Han. Il letterato Liu Fenglu (1776-1829), ba-sandosi sugli studi dello zio Zhuang Cunyu (1719-1788), si spingerà ad affermare che i te-sti in grafia antica altro non erano che falsi cre-ati dal bibliotecario degli Archivi Imperiali Han, Liu Xin, al fine di legittimare il regno dell’usurpatore Wang Mang (9-23 d. C.). Per la comunità di letterati che segue le orme di Liu Fenglu, la riaffermazione dell’ortodossia dei Classici in grafia moderna (e in particolare l’importanza conferita al commento di Gong-yang agli Annali delle Primavere e degli Autunni) è lungi dall’avere un significato meramente erudito: il vero obiettivo è quello di stabilire il primato del concetto di «sovranità esteriore» di Confucio, rispetto a quello di saggezza pura-mente interiore che aveva guidato i neoconfu-ciani a partire dal periodo Song. Questa rilet-tura di Confucio come modello capace di ispi-rare riforme in campo sociale e politico troverà la sua applicazione più estrema nel pensiero di Kang Youwei (1858-1927): il maestro viene descritto come «riformatore delle istituzioni» e come «santo sovrano» che, grazie a una «di-vina intelligenza», aveva espresso una visione anticipatrice dell’intero cammino dell’umani-tà: «Quando Confucio scrisse gli Annali delle Primavere e degli Autunni li estese fino a com-prendere tre Età. Nell’Età del Disordine egli considerò come nativo il proprio stato e come stranieri gli altri stati in cui era divisa la Cina. Nell’Età della Pace Emergente egli considerò tutti gli stati in cui era divisa la Cina come na-tivi e come straniere le tribù barbare al di fuori di essi. Nell’Età della Grande Pace, egli consi-derò tutti i gruppi umani, fossero essi vicini o lontani, grandi o piccoli, come un’unica comu-nità. Così facendo egli stava applicando il principio dell’evoluzione. Confucio era nato

nell’Età del Disordine. Oggi le comunicazioni si sono estese a tutto il pianeta e importanti cambiamenti si sono verificati in Europa e in America: il mondo è dunque entrato nell’Età della Pace Emergente. Più avanti, quando tutti i gruppi umani della terra, vicini e lontani, grandi e piccoli, formeranno un tutt’uno, quando le nazioni cesseranno di esistere, quando non verranno più fatte distinzioni fra le razze e i diversi costumi saranno unificati, tutto ciò che era distinto formerà un tutto uni-co e si sarà entrati nell’Età della Grande Pace. Confucio conosceva tutto ciò in anticipo. [...] Nell’epoca attuale di Pace Emergente noi do-vremmo promuovere i principi di autonomia e indipendenza e adottare il sistema parlamen-tare e costituzionale» (cfr. Wing-Tsit Chan, op. cit., pp. 726-727). Il riformismo universalistico di Kang Youwei riesce a imporsi alla corte nel 1898, anche grazie al contributo di intellettuali quali Liang Qichao (1873-1929) e Tan Sitong (1865-1898); numerose riforme istituzionali (per lo più basate sul modello giapponese) vengono attuate, ma l’opposizione dei conser-vatori capeggiati dall’imperatrice vedova Cixi riprende ben presto il sopravvento su quella che verrà ricordata come la «riforma dei cento giorni». Tan Sitong viene giustiziato, mentre Kang Youwei e Liang Qichao riescono a fuggire in Giappone. Se si eccettua la posizione di Zhang Binglin (1869-1935), che riprende ca-parbiamente il dibattito su testo nuovo e testo antico per rifiutare la sacralizzazione di Confu-cio da parte di Kang Youwei, e quella di Liu Shipei (1884-1919), che si ricollega al pensiero critico di Wang Fuzhi, il confronto all’interno dell’élite intellettuale cinese ha sempre meno per oggetto l’eredità del pensiero confuciano in quanto tale. Con l’ingrossarsi delle fila di in-tellettuali che si formano all’estero (Giappone, Germania, Francia, Inghilterra, Stati Uniti), au-menta la mole di opere filosofiche occidentali disponibili in traduzione cinese: già nel primo decennio del Novecento, Yan Fu traduce e an-nota opere di Adam Smith, John Stuart Mill, Herbert Spencer, Montesquieu, mentre Wang Guowei introduce in Cina la filosofia di Scho-penhauer, Nietzsche, Kant. Ormai è la stessa applicazione sociale e politica del confuciane-simo alla realtà contemporanea ad apparire inadeguata (ciò vale tanto per i riformatori promotori di una monarchia costituzionale che per i rivoluzionari fautori di un ordinamen-to repubblicano su basi nazionaliste). Ciono-

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nostante, in un momento storico in cui a esse-re minacciata non è soltanto l’unità territoriale della Cina ma anche la sua stessa identità cul-turale, il motto «il sapere cinese come essen-za, il sapere occidentale come strumento fun-zionale» continuerà a indicare (anche se spes-so in maniera consapevolmente velata) la vera natura di tanti apparenti cedimenti della tradi-zione cinese di fronte alla mentalità dell’Occi-dente in espansione.VIII. IL PERIODO MODERNO E CONTEMPORANEO. – Il processo di assimilazione della filosofia occi-dentale e delle sue categorie interpretative, lungi dall’attenuarsi nel corso degli sconvolgi-menti sociali e politici che portarono alla pro-clamazione della Repubblica nel 1912 e della Repubblica popolare nel 1949, è andato espandendosi fra gli intellettuali cinesi e ha contribuito a una precoce rifondazione delle istituzioni accademiche e di ricerca. L’opera di pensatori quali Zhang Dongsun (1886-1973) testimonia la profondità dell’assimilazione e dell’innovazione anche a livello terminologico (ne è un esempio il termine duoyuan renshi lun

, coniato per rendere il suo concetto di «epistemologia pluralista»), mentre quella di Fang Dongmei (1899-1977) indica come le tradizionali categorie confuciane di li («prin-cipio») e qing («natura emotiva») siano an-cora utilizzate per distinguere il pensiero cine-se da quello greco ed europeo. Lo stesso Jin Yueling (1895-1984), formatosi negli Stati Uni-ti e in Europa per poi tornare in Cina dove fon-da nel 1926 il dipartimento di filosofia dell’università Qinghua, riprende, senza ab-bandonare i suoi interessi per la logica e per il pensiero di Bertrand Russell, il concetto tradi-zionale di Dao riconoscendovi il fondamento della metafisica cinese. L’iconoclastia anti-confuciana che fa seguito al Movimento del Quattro Maggio del 1919 non impedirà a pen-satori di rilievo di tornare a proporre un rinno-vamento del confucianesimo che sia in grado di salvaguardare l’identità culturale cinese e di contrastare la supremazia dell’Occidente. Feng Youlan, autore della prima Storia della fi-losofia cinese pubblicata agli inizi degli anni trenta, pur essendosi formato negli Stati Uniti sotto la guida del pragmatista John Dewey, una volta tornato in Cina si fa promotore della «Nuova Scuola del Principio» (Xin Lixue, dove Lixue fa diretto riferimento alla sintesi degli in-segnamenti neoconfuciani operata nel XII se-colo da Zhu Xi). Da parte sua He Lin (1902-

1992), dopo un periodo di formazione in occi-dente in cui approfondisce il pensiero di He-gel, si dedica a un progetto di rivitalizzazione che prende come base la Xinxue («Scuola del Cuore/Spirito»), ovvero l’altra grande corrente neoconfuciana inaugurata da Wang Yangming a cavallo fra il XV e il XVI secolo.Se con l’adozione del marxismo a partire dal 1949 si assiste all’elaborazione di schemi in-terpretativi estremamente rigidi (l’esempio più evidente è la periodizzazione del pensiero cinese basata sui cambiamenti dei modi di produzione proposta da Guo Moruo), va sotto-lineato che l’eredità del pensiero tradizionale ha continuato a essere oggetto di studi molto approfonditi, rivelando, al di là delle apparen-ze, che tale eredità non ha cessato di costituire l’elemento centrale per la salvaguardia dell’identità culturale cinese in quanto tale. Arrivando all’oggi, sarà interessante vedere quale spazio verrà concesso a tendenze inter-pretative di tipo comparativistico come quelle portate avanti dalla International Society for Chinese Philosophy, associazione fondata al di fuori della Cina ma a cui partecipano auto-revoli studiosi di università e centri di ricerca cinesi. Si tratta dell’ambiente che nel 2002 ha prodotto il volume Contemporary Chinese Phi-losophy (a cura di Chung-ying Cheng e N. Bun-nin, Malden [Massachusetts] 2002), opera in cui si può osservare come proprio gli studiosi che operano nella Repubblica popolare appa-iano determinati nel tenere a distanza quelle suggestioni che, auspicando la nascita di una filosofia «globale», potrebbero far perdere di vista le specificità del pensiero cinese e gli ele-menti di continuità che lo hanno sempre con-traddistinto.

A. CadonnaBIBL.: E. ZÜRCHER, The Buddhist Conquest of China, Leiden 1972; I. ROBINET, Les Commentaires du Tao tö king jusq’au VIIe siècle, Paris 1977; C. DESPEUX, Taiji quan. Art martial, technique de longue vie, Paris 1981;K. SCHIPPER, Le Corps taoïste. Corps physique - corps social, Paris 1982, tr. it. di F. Pregadio, Il corpo taoista. Corpo fisico - corpo sociale, Roma 1983; R.M. GIMELLO - P.N. GREGORY (a cura di), Studies in Ch’an and Hua-yen, Honolulu 1984; J.R. MCRAE, The Northern School and the Formation of Early Ch’an Buddhism, Hono-lulu 1986; A.K.L. CHAN, Two Visions of the Way. A Study of the Wang Pi and the Ho-shang Kung Com-mentaries on the Lao-tzu, Albany 1991; M. LOEWE, Early Chinese Texts. A Bibliographical Guide, Berke-ley 1993; A.C. GRAHAM, Disputers of the Tao. Philo-sophical Argument in Ancient China, La Salle (Illino-

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is) 1989, tr. it. di R. Fracasso, La ricerca del Tao. Il di-battito filosofico nella Cina classica, Vicenza 1999; P.L. SWANSON, Foundations of T’ian-t’ai Philosophy: the Flowering of the Two Truths Theory in Chinese Buddhi-sm, Berkeley 1989; M. SCARPARI, La concezione della natura umana in Confucio e Mencio, Venezia 1991; LIU MING-WOOD, Madhyamika Thought in China, Lei-den 1994; ZHAO DONGDONG, La pensée musulmane chi-noise et le confucianisme, in «Etudes Orientales», 13-14 (1994), pp. 70-76; R. FRACASSO, Mawangdui, in En-ciclopedia dell’arte antica. Classica e orientale, II suppl., Roma 1995, vol. III, pp. 575-578; M. STRICKMANN, Mantras et Mandarins. Le bouddhisme tantrique en Chine, Paris 1996; GU MEISHENG, Le chemin du souffle. Pensée chinoise et Taiji quan, Paris 1999; A. ANDREINI, Analisi preliminare del «Laozi» rinvenuto a Guodian, in «Cina», 28 (2000), pp. 9-26; A. CADONNA, «Quali parole vi aspettate che aggiunga?». Il Commentario al Daodejing di Bai Yuchan, maestro taoista del XIII se-colo, in «Orientalia Venetiana», vol. IX, Firenze 2001; C. LE BLANC, Le Wenzi à la lumière de l’histoire e de l’archéologie, Montréal 2000; SACHIKO MURATA, Chinese Gleams of Sufi Light, New York 2000; K. SCHIPPER - F. VERELLEN (a cura di), The Taoist Canon: a Historical Companion to the Daozang, Chicago 2004.

➨ CHAN; DAO; DAODEJING; DE; FANGSHI; GUODIAN; JING, QI, SHEN; MAWANGDUI; NEOCONFUCIANESI-MO; QI; TAIJI E WUJI; WUXING; XIANTIAN E HOU-TIAN; YIJING; YIN-YANG.

Opere e Autori

• Yijing, Classico dei Mutamenti: ANONIMO

• Lunyu, tr. it. Dialoghi: CONFUCIO

• Lunyu, tr. it. Dialoghi: CONFUCIO

• Lunyu, tr. it. Dialoghi: CONFUCIO

• Lunyu, tr. it. Dialoghi: CONFUCIO

• Lunyu, tr. it. Dialoghi: CONFUCIO

• Lunyu, tr. it. Dialoghi: CONFUCIO

• Lunyu, tr. it. Dialoghi: CONFUCIO

• Mengzi, tr. it. Mencio: MENCIO (Meng Tzu)

• Mozi: MO DI

• Mozi: MO DI

• Lunyu, tr. it. Dialoghi: CONFUCIO

• Mozi: MO DI

• Mozi: MO DI

• Mozi: MO DI

• Mozi: MO DI

• Dieci tesi, conservate nel Zhuangzi: Hui Shi

• Dieci tesi, conservate nel Zhuangzi: Hui Shi

• Histoire de la pensée chinoise, Paris 1997, tr. it. di A. Crisma: Anne Cheng

• , Storia del pensiero cinese, Torino 2000: Anne Cheng

• Laozi: LAOZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Daodejing, tr. it. Classico della Via e della Potenza; noto anche come Qianzi wen, tr. it. Scrittura in cinquemila caratteri: LAOZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Laozi: LAOZI

• Laozi: LAOZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Laozi: LAOZI

• Laozi: LAOZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Laozi: LAOZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Laozi: LAOZI

• Laozi: LAOZI

• Laozi: LAOZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Laozi: LAOZI

• Laozi: LAOZI

• Commento allo Zhuangzi: Guo Xiang

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Laozi: LAOZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Laozi: LAOZI

• Laozi: LAOZI

• Laozi: LAOZI

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA Cina

• Commentario al Laozi: WANG BI

• Laozi: LAOZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Commentario al Laozi: HESHANG GONG

• Laozi: LAOZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Liezi: LIEZI

• Wenzi: WENCK, Johannes

• Huainanzi: HUAINAN ZI

• Mengzi, tr. it. Mencio: MENCIO (Meng Tzu)

• Mengzi, tr. it. Mencio: MENCIO (Meng Tzu)

• Mengzi, tr. it. Mencio: MENCIO (Meng Tzu)

• Mengzi, tr. it. Mencio: MENCIO (Meng Tzu)

• Mengzi, tr. it. Mencio: MENCIO (Meng Tzu)

• Mengzi, tr. it. Mencio: MENCIO (Meng Tzu)

• Mengzi, tr. it. Mencio: MENCIO (Meng Tzu)

• Xunzi: XUNZI

• ibi: XUNZI

• Xunzi: XUNZI

• Hanfeizi: HAN FEIZI

• Shangjun shu, tr. it. Il libro del Principe Shang: SHANG YANG

• Hanfeizi: HAN FEIZI

• Yijing, tr. it. Classico dei Mutamenti: ANONIMO

• Shiji, tr. it. Memorie di uno storico: Sima Qian

• Lüshi Chunqiu, tr. it. Annali delle Primavere e degli Autunni del signor Lü: Lüshi Chunqiu

• Lüshi Chunqiu, tr. it. Annali delle Primavere e degli Autunni del signor Lü: Lüshi Chunqiu

• Shiji, tr. it. Memorie di uno storico: Sima Qian

• Lüshi Chunqiu, tr. it. Annali delle Primavere e degli Autunni del signor Lü: Lüshi Chunqiu

• Shiji, tr. it. Memorie di uno storico: Sima Qian

• Chunqiu fanlu, tr. it. Gemme depositate come rugiada negli Annali delle Primavere e degli Autunni: DONG ZHONGSHU

• Yijing, tr. it. Classico dei mutamenti: ANONIMO

• Classico delle Odi: ANONIMO

• Classico dei Documenti: ANONIMO

• Raccolta dei Riti: ANONIMO

• Lüshi Chunqiu, tr. it. Annali delle Primavere e degli Autunni del signor Lü: Lüshi Chunqiu

• Yijing, tr. it. Classico dei Mutamenti: ANONIMO

• Yijing, tr. it. Classico dei Mutamenti: ANONIMO

• Dieci Ali: CONFUCIO

• Dieci Ali: CONFUCIO

• Xici, tr. it. Sentenze correlate (noto anche come Dazhuan, tr. it. Grande Commentario); fa parte delle Dieci Ali: CONFUCIO

• Xici, tr. it. Sentenze correlate (noto anche come Dazhuan, tr. it. Grande Commentario); fa parte delle Dieci Ali: CONFUCIO

• Xici, tr. it. Sentenze correlate (noto anche come Dazhuan, tr. it. Grande Commentario): CONFUCIO

• Yijing, tr. it. Classico dei Mutamenti: ANONIMO

• Weishu, tr. it. Scritture <che costituiscono la> trama <dei Classici> : ANONIMO

• Chenshu, tr. it. Scritture sui pronostici: ANONIMO

• Laozi: LAOZI

• Zhuangzi: ZHUANGZI

• Taipingjing: ANONIMO

• Daodejing, tr. it. Classico della Via e della Potenza; noto anche come Qianzi wen, tr. it. Scrittura in cinquemila caratteri: LAOZI

• Xiang’er: ANONIMO

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Cina ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

• Histoire du Taoïsme des origines au XIV siecle, Paris 1991, tr. it. di M. Miranda: Isabelle Robinet

• , Storia del Taoismo dalle origini al quattordicesimo secolo, Roma 1993: Isabelle Robinet

• Baopuzi, tr. it. Il Maestro che Abbraccia la Semplicità: Ge Hong

• Daodejing, tr. it. Classico della Via e della Potenza; noto anche come Qianzi wen, tr. it. Scrittura in cinquemila caratteri: LAOZI

• Baopuzi, tr. it. Il Maestro che Abbraccia la Semplicità: Ge Hong

• Baopuzi, tr. it. Il Maestro che Abbraccia la Semplicità: Ge Hong

• Lingbao, tr. it. Tesoro Sacro: Ge Chaofu

• Lingbao, tr. it. Tesoro Sacro: Ge Chaofu

• A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734: Wing-Tsit Chan

• Sutra del Loto: ANONIMO

• Sutra di Vimalakirti: ANONIMO

• Prajñaparamita: ANONIMO

• L’immutabilità delle cose: Sengzhao

• La vacuità dell’irreale: Sengzhao

• La prajña non è conoscenza: Sengzhao

• A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734: Wing-Tsit Chan

• Due livelli della Verità: Jizang

• A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734: Wing-Tsit Chan

• Cheng weishi lun: Xuanzang

• Huayan jing, titolo cinese dell'Avatamsaka-sutra (tr. it. Sutra della Ghirlanda): ANONIMO

• Avatamsaka-sutra, tr. it. Sutra della Ghirlanda: ANONIMO

• leone d’oro: Fazang

• A History of Chinese Philosophy, Princeton 19737, 2 voll.: Fung Yu-lan

• Lankavatarasutra: ANONIMO

• Yulu, tr. it. Dialoghi; ed. francese in P. Demiéville (a cura di), Entretiens de Lin-tsi, Paris 1972: Lin-tsi

• Entretiens de Lin-tsi: Paul Demiéville

• Il Buddhismo in Cina, in G. Filoramo, Storia delle religioni, vol. IV: Religioni dell'India e dell'Estremo Oriente, Roma-Bari 1996, pp. 369-410: ZABA, Gustav

• Storia delle religioni: Giovanni Filoramo

• Huangji jinshi shu, tr. it. L’evoluzione dell’universo a partire dall’Augusto Principio: Shao Yong

• Xici, tr. it. Sentenze correlate (noto anche come Dazhuan, tr. it. Grande Commentario): CONFUCIO

• Yijing, tr. it. Classico dei Mutamenti: ANONIMO

• Huangji jinshi shu, tr. it L’evoluzione dell’universo a partire dall’Augusto Principio: Shao Yong

• Taiji tu shuo, tr. it. Spiegazione del Diagramma della Trave Maestra: Shao Yong

• Taiji tu shuo, tr. it. Spiegazione del Diagramma della Trave Maestra: Shao Yong

• Zhengmeng, tr. it. Per correggere la stoltezza giovanile: ZHANG ZAI

• Zhengmeng, tr. it. Per correggere la stoltezza giovanile: ZHANG ZAI

• Zhengmeng, tr. it. Per correggere la stoltezza giovanile: ZHANG ZAI

• Zhengmeng, tr. it. Per correggere la stoltezza giovanile: ZHANG ZAI

• A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734: Wing-Tsit Chan

• Taiji tu shuo, tr. it. Spiegazione del Diagramma della Trave Maestra: Shao Yong

• A History of Chinese Philosophy, Princeton 19737, 2 voll.: Fung Yu-lan

• A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734: Wing-Tsit Chan

• A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734: Wing-Tsit Chan

• A History of Chinese Philosophy, Princeton 19737, 2 voll.: Fung Yu-lan

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA Cina

• A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734: Wing-Tsit Chan

• A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734: Wing-Tsit Chan

• Mengzi, tr. it. Mencio: MENCIO (Meng Tzu)

• Mengzi, tr. it. Mencio: MENCIO (Meng Tzu)

• A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734: Wing-Tsit Chan

• Histoire de la pensée chinoise, Paris 1997, tr. it. di A. Crisma, Storia del pensiero cinese, Torino 2000: Anne Cheng

• Commento agli Annali delle Primavere e degli Autunni: GONGYANG

• Lüshi Chunqiu, tr. it. Annali delle Primavere e degli Autunni del signor Lü: Lüshi Chunqiu

• Lüshi Chunqiu, tr. it. Annali delle Primavere e degli Autunni del signor Lü: Lüshi Chunqiu

• A Source Book in Chinese Philosophy, Princeton 19734: Wing-Tsit Chan

• Zhongguo zhexue shi, Shanghai 1931, tr. ingl. di D. Bodde, A History of Chinese Philosophy, Princeton 1952-53, tr. dall'inglese di M. Tassoni, Storia della filosofia cinese, Milano 1975: FENG YOULAN

• Contemporary Chinese Philosophy, Malden (Massachusetts) 2002: Chung-ying Cheng - N. Bunnin

Autori

+ Anne Cheng

+ Bodhidharma

+ Cheng Hao

+ Cheng Hao - Cheg Yi

+ Cheng Yi

+ Chen Tuan

+ Chung-ying Cheng

+ CONFUCIO

+ Crisma, Amina

+ Daoan

+ DEWEY, John

+ DONG ZHONGSHU

+ Erik Zürcher

+ FANG, DONGMEI

+ Fazang

+ FENG YOULAN

+ Fung Yu-lan

+ Ge Chaofu

+ Ge Hong

+ Giovanni Filoramo

+ GONGYANG

+ Guo Moruo

+ Guo Xiang

+ Gu Yanwu

+ HEGEL, Georg Wilhelm Friedrich

+ He Lin

+ HESHANG GONG

+ Hui Shi

+ Isabelle Robinet

+ Jin Yuelin

+ Jizang

+ Kang Youwei

+ KANT, Immanuel

+ Kongsun Long

+ Kumarajiva

+ LAOZI

+ Liang Qichao

+ LIEZI

+ Lin-tsi

+ Li Si

+ Liu Fenglu

+ Liu Shipei

+ Liu Xin

+ Li Zhi

+ Lüshi Chunqiu

+ Lu Xiangshan

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Cina ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

+ Marina Miranda

+ MENCIO (Meng Tzu)

+ MILL, John Stuart

+ MO DI

+ MONTESQUIEU, Charles-Louis de Secondat

+ Nicholas Bunnin

+ NIETZSCHE, Friedrich Wilhelm

+ Paul Demiéville

+ RUSSELL, Berthrand Arthur William

+ SCHOPENHAUER, Arthur

+ Sengzhao

+ SHANG YANG

+ Shao Yong

+ Shen Buhai

+ Sima Qian

+ SMITH, Adam

+ SPENCER, Herbert

+ Tan Sitong

+ WANG BI

+ WANG CHONG

+ WANG FUZHI

+ WANG GUOWEI

+ WANG Yang-Ming

+ WENZI

+ Wing-Tsit Chan

+ Xuanzang

+ XUNZI

+ Yan Fu

+ YANG ZHU

+ ZENONE di Elea

+ Zhang Binglin

+ Zhang Dongsun

+ ZHANG ZAI

+ Zhiyi

+ ZHOU DUNYI

+ Zhuang Cunyu

+ ZHUANGZI

+ ZHU XI

+ Zou Yan

Parole

- abilità

- accademia

- biblioteca

- unità

Caratteri

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