India Filosofica

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SAVERIO MARCHIGNOLI L’India filosofica. Un percorso tra temi e problemi del pensiero indiano I. Dalle origini alla fine del sec. VIII Eurocopy – Bologna 2005

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L'india filosofica

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SAVERIO MARCHIGNOLI

L’India filosofica.

Un percorso tra temi e problemi del pensiero indiano

I. Dalle origini alla fine del sec. VIII

Eurocopy–Bologna

2005

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©Copyright2005SaverioMarchignoliviaGalliera10‐[email protected]:AngeloChieco‐Eurocopy‐Bolognatel.051.22.74.56‐[email protected]–Bolognamaggio2005La traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i film, i microfilm, le fotocopie), nonché la memorizzazione elettronica, sono riservati per tutti i paesi.

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Indice

Premessa p. 5 Nota sulla trascrizione delle lingue indiane p. 7 Introduzione generale 1. Scopi e limiti di questa trattazione p. 11 2. Partizione – Sguardo d’insieme p. 15

Parte prima 1. Prologo p. 23 2. Chi erano i filosofi.

Tradizione bråhma±ica e movimenti çrama±ici. Teorie del karman e della rinascita p. 28

3. Il Buddhismo e il Jainismo primitivi p. 32 4. La Bhagavadgîtå e lo yoga dell’azione p. 41 5. Teoria della disputa e medicina p. 46 Parte seconda 1. Epistemologia e logica I: il Nyåya p. 53 2. Sviluppi nel Buddhismo. Någårjuna p. 58 3. Il Såµkhya della Såµkhyakårikå p. 63 4. L'ontologia del (Nyåya-)Vaiçeßika p. 70 5. Epistemologia e logica II: Dignåga p. 75 6. Filosofia del linguaggio: Bhart®hari.

Filosofia della parola rituale: la Mîmåµså p. 79 7. Il Kevalådvaita Vedånta di Çaºkara p. 86

Esempi di testi filosofici indiani 1. Någårjuna: la dottrina delle due verità p. 93 2. Någårjuna: critica dei mezzi di conoscenza p. 95

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3. I Vaiçeßikasûtra sulla cognizione dell’irrealtà p. 99

4. La relazione tra purußa e prak®ti nel Såµkhya p. 101

5. Çaºkara e la «sovrapposizione» p. 104 6. Çåntarakßita sulla non esistenza di Dio p. 110 7. Çåntideva sul Nyåya p. 114 Filosofi moderni sul pensiero indiano 1. Hegel sulla coscienza yogica p. 119 2. Piero Martinetti sul Såµkhya p. 123 3. Simone Weil sul Såµkhya

e sulla Bhagavadgîtå p. 127 4. Karl Jaspers su Någarjuna p. 130 5. Jitendra Nath Mohanty sulla natura

del pensiero filosofico indiano: empirismo, razionalismo e “fondazione” ultima p. 133

Riferimenti bibliografici p. 141

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Premessa Nonostante molti segnali sembrino andare in direzione opposta, è ancora vero, soprattutto in Italia, che le filosofie indiane non hanno ancora occupato una posizione stabile nelle trattazioni della storia del pensiero filosofico. Ciò si deve al perdurare dei pregiudizi sulla natura del pensiero indiano che si sono formati nel corso del XIX secolo in base a una contrapposizione essenzialistica tra Occidente e Oriente (e tra Europa e India in particolare). Con questo lavoro intendo proporre un breve percorso tra i temi e i problemi di natura inequivocabilmente filosofica che le varie correnti del pensiero indiano hanno trattato in modo acuto e originale. I rapporti tra la causa e l’effetto, tra l’intero e le sue parti, tra il significante e il significato, tra il soggetto conoscente e l’oggetto, ecc., sono stati al centro di dibattiti appassionanti che hanno attraversato le epoche più diverse della storia indiana. Oltre ad interrogarsi sulla natura dell’azione e sulle sue eventuali conseguenze non percepibili, i filosofi indiani hanno affrontato con rigore e spregiudicatezza problemi importanti e delicati di filosofia del linguaggio, di logica e di epistemologia, di estetica, di ontologia e di teologia, secondo uno stile di discussione tra “scuole” che costituisce di per sé un motivo di estremo interesse. La piccola antologia di testi filosofici indiani in fondo al volume è intesa tra l’altro a fornire un’esemplificazione di questi dibattiti.

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Allo scopo di testimoniare le possibilità che potrebbe offrire un confronto con il pensiero indiano ho poi raccolto alcuni testi di filosofi moderni, europei o di formazione europea, che si misurano, con prospettive molto diverse, con alcuni dei temi filosofici trattati nel percorso da me proposto. Ho inteso così costruire un primo nucleo di un’antologia sulla ricezione filosofica del pensiero indiano: esso costituisce, voglio sperare, un elemento di originalità della presente trattazione. Questo primo volume, che spero di poter arricchire di altri materiali in una successiva edizione, si ferma al secolo VIII d.C. Sono in preparazione altri volumi, strutturati in modo analogo, sui periodi seguenti fino all’età contemporanea.

Bologna, marzo 2005.

S. M.

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Nota sulla traslitterazione delle lingue indiane

Si è adottato il sistema di traslitterazione del sanscrito e del påli usato comunemente dagli indologi. Esso consente di avvicinarsi abbastanza facilmente alla pronuncia corretta dei termini indiani, a patto di tenere presenti le seguenti avvertenze: g è sempre velare (come in “gola", non come in "giro"): gîtå («canto») si legge dunque "ghita", non "gita" (in grafia italiana); c è sempre palatale: cakra ("ruota") si legge dunque "ciakra", non "cakra" (in grafia italiana); j è palatale, come la j inglese; ç è una sibilante palatale sorda vicina al suono indicato in grafia italiana da "sc" (seguito da i o da e): Çaºkara si legge approssimativamente "sciankara"; ß è una retroflessa, di pronuncia simele alla ç, ma ottenuta retroflettendo la punta della lingua contro il palato; ® è un suono vocalico oscillante tra r e ri: K®ß±a si legge approssimativamente "Kriß±a" (in grafia anglicizzante, "Krishna"); ± e º (nasali, rispettivamente retroflessa e gutturale) si possono pronunciare approssimativamente come la nostra n (poiché si assimilano naturalmente al contesto fonico); ñ corrisponde alla nasale palatale indicata in grafia italiana da "gn" (ñ spagnola); h è un’aspirata sonora; ¿ è l’aspirata sorda; µ indica una nasale generica. Occorre distinguere: le vocali brevi (a, i, u) dalle lunghe (å, î, û; anche e e o sono sempre lunghe); le consonanti dentali (t, th, d, dh) dalle corrispondenti retroflesse (¥, ¥h, ∂, ∂h), che si pronunciano retroflettendo la punta della lingua contro il palato; le consonanti non aspirate (k, g, c, j, ¥, ∂, p, b) dalle corrispondenti aspirate (kh, gh, ch, jh, ¥h, ∂h, ph, bh), che si pronunciano aggiungendo una forte aspirazione sonora. Per l’accentazione si segue convenzionalmente la regola seguente (valida per il sanscrito classico): l’accento cade sulla penultima sillaba se questa è lunga (saµs˚åra), altrimenti retrocede fino alla prima sillaba lunga (br˚åhma±a). Sono lunghe, oltre alle sillabe che contengono una vocale lunga o un dittongo, quelle che contengono una vocale lunga per posizione (seguita da due o più consonanti). Nei composti si conserva l’accento delle singole parole.

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Introduzione generale

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1.

Scopi e limiti di questa trattazione. 1. Un’esposizione sintetica dei principali temi filosofici affrontati dai pensatori dell'area indiana non può che cominciare con alcune avvertenze e precisazioni. In realtà, sarebbe opportuno affrontare preliminarmente la discussione di problemi molto generali. Per esempio: il termine «filosofia» è adeguato a designare le diverse dottrine che hanno preso forma sul suolo indiano, o si tratta di un addomesticamento fuorviante? Esistono barriere culturali insormontabili che rendono qualitativamente diversa la comprensione, ad esempio, della «filosofia greca» rispetto a quella della «filosofia indiana»? Perché la storiografia filosofica dell'Ottocento e di gran parte del Novecento ha consapevolmente evitato, tranne rare eccezioni, di trattare il pensiero indiano?; perché oggi è invece divenuto possibile, anzi necessario, includere il pensiero indiano tra gli oggetti degni dell'attenzione storico-filosofica?. Va subito detto che la formulazione di questi interrogativi non prelude, nelle pagine che seguono, ad alcun tentativo di risposta. Suo unico scopo è, al contrario, quello di sottolineare uno dei limiti più evidenti della presente trattazione: la rinuncia inevitabile a discutere in modo esplicito tali importanti e legittime questioni. Tuttavia esse vanno sempre tenute presenti sullo sfondo, quasi fossero un

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invito alla cautela, nel momento in cui ci si accosta alle filosofie dell'India. 2. Non si troverà poi nelle pagine che seguono – in questo caso intenzionalmente - alcun tentativo di elencare in via preliminare le caratteristiche presunte o gli orientamenti generali del pensiero indiano: non si ripeterà qui, ad esempio, il topos secondo cui la speculazione indiana, a differenza di quella greca, sarebbe motivata da preoccupazioni soteriologiche e non dal «puro desiderio di conoscenza», proprio di un atteggiamento puramente «teoretico»; né quello secondo cui il pensiero indiano tenderebbe inevitabilmente ad un approdo «mistico». Si cercherà invece di evidenziare l'estrema complessità e l'irriducibile varietà della tradizione filosofica indiana, che ha accolto in se stessa tendenze contrapposte e tra loro altrettanto divergenti quanto, per fare un esempio, quelle espresse dalle scuole filosofiche greche. 3. La difficoltà principale che deve affrontare un'esposizione sintetica dei temi e dei problemi filosofici dell’India è proprio quella di rendere il più possibile giustizia, in uno spazio ristretto, alle numerosissime posizioni teoriche che hanno trovato espressione nel corso degli oltre due millenni e mezzo di ininterrotto, ancorché disomogeneo, sviluppo, e contemporaneamente di evitare che i dettagli tecnici e storiografici prendano il sopravvento ed eclissino le questioni filosoficamente più rilevanti. Si è dunque scelto di non tentare affatto di redigere un compendio propriamente storico delle filosofie indiane.1 Né

1 Oltre alle ovvie difficoltà di sistemazione cronologica connesse con la mole della letteratura filosofica, le perduranti incertezze sulle datazioni

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Introduzione generale: 1. Scopo e limiti 13

d'altra parte si poteva, data la mole sterminata della letteratura, tentare di giungere nemmeno lontanamente ad un inventario delle posizioni filosofiche.

delle opere fanno sì che il terreno indiano risulti, per la storiografia filosofica, particolarmente arduo da dissodare. Si pensi che in molti casi le datazioni possono essere precisate solo con uno scarto temporale che va misurato non già in decenni, bensì in secoli. Inoltre, sia per la fase più antica (fino ai primi secoli dell’era volgare), sia, anche se in misura minore, per il cosiddetto «periodo classico» (la parte centrale del primo millennio d.C.) dobbiamo tener conto del fatto che la trasmissione delle conoscenze avveniva essenzialmente per via orale. Ciò comportò almeno due conseguenze. In primo luogo, molti degli insegnamenti, allorquando venivano superati da nuove e più comprensive formulazioni, finivano per essere omessi nella trasmissione orale tradizionale e pertanto venivano dimenticati: il risultato è che essi sono per noi definitivamente perduti, cosicché in molti casi la genesi e le fasi più antiche delle filosofie delle "scuole" sono oggi quasi impossibili da ricostruire. In secondo luogo, le necessità della memorizzazione ponevano vincoli molto stretti alle modalità della trasmissione: nella fase più antica le opere di riferimento erano spesso costituite da raccolte di brevi frasi facilmente memorizzabili ma a volte assai criptiche e involute (i sûtra), che necessitavano di una spiegazione. Tali spiegazioni, in un primo tempo solo orali, dettero poi origine ai commentari interpretativi che costituiscono una delle parti più cospicue della letteratura filosofica indiana. Il fatto che in molti casi diversi commentari forniscano interpretazioni divergenti dei medesimi «aforismi» ci fa capire che molto presto i Sûtra perdettero univocità e perspicuità di significato. Ciò costituisce per noi un ulteriore ostacolo sulla via della ricostruzione delle fasi più antiche delle varie scuole. Tuttavia, nonostante tutti gli impedimenti che si frappongono alla ricostruzione storica, storie della filosofia indiana non solo sono state scritte, ma in alcuni casi hanno raggiunto ottimi risultati (si pensi a opere pur diversissime tra loro come quelle di Surendranath Dasgupta ed Erich Frauwallner). Ma questi risultati vanno comunque sempre commisurati, anche nel caso delle opere che hanno portato avanzamenti reali nella conoscenza, alle difficoltà e agli ostacoli insormontabili sopra esposti.

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Piuttosto si è cercato di selezionare – non senza una certa dose di arbitrarietà – alcune delle dottrine più rilevanti, e di organizzare il materiale contemperando tra loro tre esigenze distinte: a) quella di individuare le caratteristiche fondamentali delle principali «scuole filosofiche» al di là dei complessi problemi posti dalla ricostruzione storiografica; b) quella di porre in evidenza i temi centrali che costituiscono l'oggetto delle fitte discussioni e polemiche tra le varie «scuole»; c) quella di non perdere di vista, comunque, il senso dello sviluppo nel tempo delle dottrine. 4. La letteratura di interesse filosofico dell'area indiana è immensa e comprende opere di natura molto diversa, scritte in varie lingue.2 Accanto ai testi base delle «scuole filosofiche» e ai loro numerosi commentari e subcommentari3 si collocano intere sezioni di opere appartenenti a generi completamente diversi, come l’epica, la mitologia o la trattatistica poetico-letteraria. Poiché una scelta si imponeva, si è preferito privilegiare le opere e le tradizioni di pensiero di natura più distintamente filosofica, tralasciando o trascurando le correnti nelle quali altri interessi sono di fatto preponderanti. Ciò ha voluto dire, ad esempio, dare maggiore rilievo alle fasi «classica» e «postclassica» del pensiero indiano, nelle

2 La lingua principale è certamente il sanscrito, che per un lungo periodo ebbe la funzione di lingua di cultura paragonabile a quella svolta dal greco in età ellenistica o dal latino in Europa fino all'età moderna. Altre lingue importanti sono il påli (lingua del canone buddhista dei Theravåda), l'ardhamågadhî (lingua del canone jaina) e il tibetano (se si assume che il Tibet, almeno per un certo periodo, vada compreso nell'area culturale indiana). 3 Per una efficace descrizione della forma dei testi filosofici indiani si veda Torella, Il pensiero indiano [2001], pp. 644-645.

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Introduzione generale: 1. Scopo e limiti 15

quali la delimitazione del genere «filosofia» si pone in India in modo molto netto.

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2.

Partizione – Sguardo d’insieme. 1. Seguiremo convenzionalmente una partizione di comodo del pensiero indiano in cinque grandi periodi: 1) la prima fase, di formazione delle grandi correnti di pensiero (VIII secolo a.C. - I sec. d.C.); 2) il periodo «classico» (secoli II-VIII); 3) il periodo «post-classico» (secoli IX-XV); 4) i secoli XVI-XVIII (corrispondenti al periodo Moghul); 5) la fase della colonizzazione europea e la fase post-coloniale. Tale partizione è ovviamente in larga misura arbitraria, segnatamente per quel che riguarda i confini tra il secondo e il terzo periodo. L'inizio della fase di formazione delle filosofie dell'area indiana va collegato con le trasformazioni culturali e sociali avvenute intorno alla metà del I millennio a.C. Precedono, forse di poco, questo periodo le più importanti delle Upanißad vediche (B®hadåra±yaka Up. e Chåndogya Up.), che testimoniano l'avvenuto distacco dalle preoccupazioni mitologico-ritualistiche tipiche della fase precedente. Nascono in questo periodo il Buddhismo, il Jainismo e altri «movimenti spirituali», tra i quali si suppone abbia avuto una certa importanza quello degli Åjîvika. Nel frattempo all’interno della tradizione bråhma±ica fiorisce la speculazione di derivazione upanißadica, mentre si gettano le

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Introduzione generale: 2. Partizione – Sguardo d’insieme 17

basi della filosofia del linguaggio, della teoria politica e della teoria della disputa. È questo il periodo di incubazione delle «scuole filosofiche» tipiche dell'epoca successiva. A partire almeno dal II secolo dell'era volgare i pensatori indiani sono infatti perfettamente consapevoli di essere degli specialisti e di rivolgersi con le loro opere ad altri specialisti che possiedono un linguaggio tecnico altamente settorializzato. Gli esponenti delle varie «scuole» (spesso chiamate in sanscrito darçana, lett: "visioni", o "punti di vista") hanno ben presenti le posizioni di fondo delle altre scuole, affini o concorrenti, e molta parte del loro lavoro filosofico consiste in tentativi di confutare razionalmente le posizioni altrui. Contrariamente a un'opinione assai diffusa, dunque, le filosofie indiane non sono caratterizzate da un rapporto ferreo con la "tradizione", della quale non sarebbero che la sistemazione razionalizzata: sono invece anzitutto il risultato, a volte la registrazione, di continui dibattiti tra diverse posizioni in concorrenza tra loro.1 Proprio dalla teoria della disputa ebbero origine l'epistemologia e la logica del Nyåya, che presto si trovarono associate alle più antiche dottrine ontologiche del Vaiçeßika. Il dualismo del Såµkhya-Yoga, anch’esso di origine molto antica, trovò durante la prima metà del I

1 Ciò si evince non solo, come si diceva, dalla letteratura più propriamente filosofica (opere autonome o, più spesso, commentari alle opere di base delle scuole, sub-commentari, sub-sub-commentari, ecc.), ma anche dalla tradizione dossografica che, pur senza essere ricchissima, ha trovato in India espressioni di altissimo rilievo. Anche i dossografi infatti tendono a dare molta importanza alle differenze tra le varie scuole, e spesso la loro esposizione, pur essendo in molti casi relativamente affidabile, tende esplicitamente a disporre gli argomenti in modo che una delle scuole presentate risulti comparativamente vincente.

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millennio d.C. una sistemazione pressoché definitiva, mentre le antiche scuole esegetico-ritualistiche dettero origine alla Pûrva-Mîmåµså. Decisivi furono gli sviluppi del buddhismo: alla speculazioni fortemente tecniche delle scuole dell’Abhidharma fece seguito la comparsa, nel II secolo, della scuola någårjuniana della «vacuità» e, nel IV-V secolo, della scuola rappresentazionista degli Yogåcåra. Fortemente influenzata da questi sviluppi buddhisti fu, con ogni probabilità, la tradizione speculativa di derivazione upanißadica che, attraverso Gau∂apåda, dette origine all'Advaita Vedånta di Çaºkara (VIII sec.). Decisivi contributi da parte buddhista vennero anche nel campo della logica, con la scuola di Dignåga e Dharmakîrti. Nella fase post-classica si nota una certa prevalenza delle preoccupazioni teologiche e mistiche, anche se non viene mai meno la speculazione prettamente razionalistica. Grande sviluppo hanno le tradizioni del tantrismo çivaita, soprattutto nel Kashmir dove fioriscono importantissime scuole di estetica e dove operano le grandi personalità filosofiche di Utpaladeva e Abhinavagupta. Altre scuole vedåntiche si contrappongono al Kevalådvaita-vedånta di Çaºkara. Particolare importanza ha, nel sud, la tradizione viß±uita che culmina in Råmånuja. Intanto il buddhismo si espande soprattutto nell'area tibetana, dove attecchisce la corrente tantrica (Vajrayåna). In India si assiste invece ad un affievolirsi della tradizione buddhista, che giunge quasi a scomparire nel XIII secolo. Importantissimi sviluppi si hanno poi nella logica, con Gaºgeßa e la nascita del «nuovo Nyåya». Nel frattempo tende sempre più ad imporsi una sorta di sintesi di tutti i sistemi sotto l'egida del Vedånta.

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Introduzione generale: 2. Partizione – Sguardo d’insieme 19

Nei secoli XVI-XVIII non cessa l'attività di commento delle opere classiche, anche se si assiste a un certo irrigidimento della tradizione scolastica. La caratteristica più evidente di questa fase fu il diffondersi di tendenze mistiche e bhaktiche che ebbero notevoli ripercussioni sulla filosofia. Importante il consolidarsi delle speculazioni logiche e filosofico-linguistiche. Nel corso della fase coloniale spiccano i pensatori che tentano una “riforma” religiosa in senso universalistico dell’induismo. Tra questi hanno notevole rilievo filosofico Rammohan Roy e Bankimchandra Chattopadhyay. Tra i pensatori neo-induisti emerge nel XX secolo la figura di Sarvepalli Radhakrishnan, mentre il confronto con l’Europa diventa il tema dominante per molti filosofi (da Brajendranath Seal, attivo all’inizio del secolo, a Jaswant Lal Mehta).

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Parte prima

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1.

Prologo. 1. «O caro, al principio questo [universo] era soltanto l'Essere (sat), uno, senza secondo. A questo proposito alcuni dicono: "Al principio questo [universo] era soltanto Non essere (a-sat), unico, senza secondo. Di poi dal Non essere nacque l'essere". Ma come, o caro, potrebbe essere così? - soggiunse egli -. Come dal Non essere potrebbe essere sorto l'Essere? Essere soltanto questo [universo] era al principio, o caro, uno, senza secondo».1 Con queste parole il maestro upanißadico Uddålaka Åru±i dà inizio al suo insegnamento al figlio Çvetaketu. La qualità dell'interrogativo in esse contenuto («Come dal Non essere potrebbe essere sorto l'Essere?») e l'uso di termini astratti come sat e asat2 attestano la presenza, nell'India upanißadica, di un pensiero capace di formulare chiaramente

1 Chåndogya Upanißad VI, 2, 1-2. La traduzione, qui e in seguito, è di Carlo Della Casa (Upanißad, UTET, Torino 1976). 2 Sat è il neutro del participio presente del verbo essere, ås-, radice sanscrita parallela alla radice latina es- di esse («essere»). In a-sat la "a" prefissata ha funzione di negazione, come l'alfa privativa del greco.

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problemi di natura filosofica e di assumere posizioni critiche rispetto alla tradizione. Non sappiamo nulla circa la storicità del dialogo tra Uddålaka e il figlio. Possiamo ragionevolmente supporre che la redazione della Chåndogya Upanißad vada collocata prima della metà del I millennio a.C. Alcuni studiosi la datano all'VIII secolo a.C.. Uddålaka dunque - intendendo convenzionalmente con questo nome un personaggio storico oppure chi gli ha dato voce - va considerato tra i primi filosofi in senso assoluto, non solo dell'area indiana. Non è questo tuttavia l'aspetto che qui maggiormente interessa. Importa invece porre in evidenza come quella di Uddålaka sia una delle prime formulazioni a noi note di due problemi: quello dei rapporti tra essere e non-essere e quello della relazione tra essere e divenire. Si tratta di problemi affrontati in seguito da quasi tutte le scuole filosofiche dell'area indiana. Soluzioni caratteristiche e divergenti ne saranno date in particolare dalla "scuola" Såµkhya – che, nel contesto della teoria della trasformazione continua della prak®ti ("natura"), sosterrà la dottrina della preesistenza dell'effetto nella causa (satkårya-våda) - e dal Vaiçeßika, che sosterrà la dottrina opposta (a-satkårya-våda). 2. Vediamo come continua l'insegnamento di Uddålaka al figlio. Il tema è quello del rapporto tra l’Essere (il sat) e le creature. Volendo riprodursi, infatti, il sat «emette» il tejas (“calore” e “luminosità”), che a sua volta «emette» l'acqua, la quale poi «emette» il "cibo". Tejas, acqua e "cibo" sono i tre principi costitutivi grazie ai quali il «Sé vivente» del sat, penetrando in ciascuna delle creature, dà loro «nome e forma», ossia le individua. Nell'uomo poi ciascuno dei tre principi si triplica:

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Parte prima: 1. Prologo 25

«Il cibo mangiato si divide in tre parti: la parte più grossolana diventa escremento, la mediana carne, la più sottile mente. L'acqua bevuta si divide in tre parti: la parte più grossolana diventa urina, la mediana sangue, la più sottile respiro. Il tejas assorbito si divide in tre parti: la parte più grossolana diventa l'osso [dello scheletro], la mediana midollo, la più sottile parola. Costituita di cibo è la mente, o caro, costituito di acqua è il respiro, costituita di tejas è la parola».3 Uddålaka è dunque sostenitore di una visione che potremmo definire naturalistica, secondo la quale non vi è discontinuità tra i principi costitutivi “naturali” e le funzioni mentali («Costituita di cibo è la mente», ecc.). Per provare la sua teoria Uddålaka sottopone il figlio Çvetaketu ad una sorta di esperimento: lo fa digiunare per quindici giorni, permettendogli solo di bere l'acqua sufficiente a mantenere vivo il respiro. Il sedicesimo giorno lo invita a recitare i Veda, e Çvetaketu si rende conto che la memoria non lo sorregge. Finalmente dopo aver mangiato, cioè allorquando, secondo la teoria precedente, la terza parte del cibo ingerito si è trasformata in pensiero, Çvetaketu ritorna a ricordare i Veda. Lo sperimentalismo che affiora nella storia ora narrata è un tratto che risulterà riconoscibile in molte posizioni filosofiche indiane. La continuità tra la dimensione “corporea” e quella “mentale” non sarà affatto negata neppure dalle correnti più “antimaterialistiche”: semmai, in queste ultime, al complesso psico-fisico verrà contrapposta una “coscienza” o, come vedremo, una “coscienzialità pura” totalmente separata dall'elemento psichico e mentale.

3 Chåndogya Upanißad VI, 5, 1-4.

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3. «Allora Ußasta discendente di Cakra disse: "[...] Parlami veramente di quella che è l'essenza presente in ogni cosa, ossia del brahman visibile e direttamente percepito". "È il tuo åtman quello che è presente in ogni cosa". "Quale è, Yajñavalkya, [questo åtman] presente in ogni cosa?". "Tu non puoi vedere chi è causa della vista, non puoi ascoltare chi è causa dell'ascolto, non puoi pensare chi è causa del pensiero, non puoi conoscere chi è causa del conoscere. Questo è il tuo åtman presente in ogni cosa. Al di fuori di esso non c'è che dolore". Allora tacque Ußasta discendente di Cakra».4 In questo brano il maestro Yajñavalkya enuncia il principio definitorio dell’assoluto: da esso tutto dipende, esso non dipende da nulla. Secondo un’immagine che diverrà un topos della letteratura filosofica, l’assoluto è come una lampada, la quale illumina tutto, ma non viene illuminata da nulla; essa permette di vedere tutto il resto, ma nient’altro permette di vederla. L’assoluto dunque non può essere oggetto del pensiero, perché ciò che è pensato dipende dal pensante. 4. «Due uccelli, stretti amici, abbracciano lo stesso albero. Uno di essi mangia la dolce bacca; l'altro, senza mangiare, guarda attentamente». Questa immagine, così semplice e solenne ad un tempo, risale alla più antica testimonianza letteraria della cultura indiana, il �g -Veda.5 Essa è volutamente enigmatica,6 e

4 B®hadåranyaka Up. III, 4, 2. 5 � g-Veda I, 164, 20.

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Parte prima: 1. Prologo 27

precisamente come enigma è stata accolta nel pensiero indiano, dalle Upanißad7 in poi. Vi si potrebbe vedere enunciata icasticamente la decisiva opposizione teorica tra “fruizione” (bhukti) e “liberazione” (mukti) che caratterizzerà tante correnti del pensieriero indiano e che viceversa sarà contestata dal tantrismo - una tendenza del pensiero indiano che si sviluppò nella seconda metà del I millennio d. C. Çaºkara (VIII sec. d.C.) vi vide precisamente l'opposizione tra il sé individuale (jîva) che è affetto dall'esperienza del mondo e l'îçvara, il “signore”, l'eterno “testimone”: opposizione che, valida sul piano relativo, si perde tuttavia sul piano assoluto dell'identità tra il sé e il brahman (forse per questo i due sono «stretti amici»?). Ma l'immagine si potrebbe interpretare anche come la contrapposizione tra due atteggiamenti: quello del ritualista che, mosso dal desiderio, agisce in vista dei frutti dell'azione, e quello del rinunciante che è pienamente soddisfatto della ben diversa "esperienza" del brahman. Una contrapposizione che sarà al centro della dottrina dell’azione della Bhagavadgîtå.

6 Nell'inno in cui è contenuta (I, 164) è posta accanto a una serie di oscure espressioni metaforiche, di indovinelli, di enigmi appunto, che costituiscono altrettante sfide all'interpretazione. 7 Cfr. Mu±∂aka Up. II, 1; Çvetåçvatara Up. IV, 6.

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2.

Chi erano i filosofi. Tradizione bråhma±ica e movimenti çrama±ici.

Teorie del karman e della rinascita

1. Nei testi più antichi, in particolare nei testi buddhisti, come pure nelle iscrizioni, è abbastanza comune imbattersi in un composto, çrama±a-bråhma±a, che sembra voler abbracciare l'insieme di tutte le figure religiose e spirituali. Esso è costituito di due termini, bråhma±a e çrama±a, il primo dei quali indica gli appartenenti alla classe sacerdotale dedita alla scrupolosa conservazione dell'eredità vedica; il secondo gli asceti itineranti o i monaci mendicanti che spesso assumevano le funzioni di maestri spirituali. Çrama±a è un derivato della radice çram-, e significa «colui che si sforza, si affatica, si esercita». Di qui l'analogia con il termine di derivazione greca “asceta”, che significa appunto “colui che si esercita”. Movimenti çrama±ici per eccellenza furono il Buddhismo e il Jainismo, ma le fonti autorizzano a ritenere che dovettero avere una certa importanza anche numerose altre tendenze, per esempio quella degli Åjîvika. Da parte bråhma±ica la tradizione speculativamente più rilevante fu quella di derivazione upanißadica. Occorre tuttavia aggiungere subito che nello sviluppo delle importanti teorie del linguaggio indiane ebbero un ruolo

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Parte prima: 2. Chi erano i filosofi 29

decisivo le scuole esegetiche e la tradizione «tecnica» dei grammatici (che culminò nell’opera di På±ini). Forse poi, oltre ai bråhma±a e ai movimenti çrama±a, dobbiamo riconoscere un terzo gruppo, tipologicamente distinto, nella tradizione intellettuale che dette origine alla corrente cosiddetta “materialista” dei Cårvåka o Lokåyata.1 È assai verosimile che l'incontro-scontro tra tradizioni bråhma±iche e movimenti çrama±a abbia caratterizzato la vita intellettuale dell'India settentrionale intorno alla metà del I millennio a.C., allorquando, nel contesto di mutamenti profondi della struttura sociale e politica (sviluppo di una civiltà urbana, moltiplicazione delle professioni, costituzione di veri e propri stati, ecc.), alle speculazioni mitologico-ritualistiche delle parti più antiche dei Veda si affiancano o si sostituiscono nuove preoccupazioni e nuove tendenze dottrinali. 2. In realtà non è possibile stabilire se il movimento çrama±ico debba essere pensato come un'evoluzione interna al vedismo o se piuttosto non si debbano immaginare due percorsi in origine distinti e indipendenti che siano giunti ad intersecarsi intorno alla metà del I milliennio a.C. Quello che si può dire è che, a partire dal periodo in cui questo incontro ebbe luogo, assunse valore pressoché assiomatico per quasi tutte le correnti del pensiero indiano una concezione estranea al vedismo più antico: la caratteristica credenza nella retribuzione delle azioni

1 È tuttavia possibile che anche la corrente materialista vada ricondotta a uno dei due gruppi fondamentali: alcuni ritengono che si sia sviluppata in ambienti bråhma±ici; altri, più verosimilmente, pensano che sia sorta in ambienti çrama±ici.

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(karman) e nella rinascita. Ed è probabile, benché tutt'altro che certo, che il contributo decisivo all'imporsi di questa concezione provenga dagli ambienti çrama±ici. Karman è un derivato della radice sanscrita k®- («fare») e significa «azione», «opera», «atto» (in primis in senso rituale). L'idea di base della teoria del karman è che ogni azione produce di per sé una retribuzione, cioè una ricompensa o una punizione, le quali sono il fondamento delle esperienze negative o positive che segnano la nostra esistenza. Viene così stabilito un nesso causale tra il passato e il presente (che è ricondotto alle azioni compiute nel passato) e tra il presente e il futuro (che sarà il risultato delle azioni presenti). La credenza nella rinascita2 consente di estendere il potere retributivo dell'azione anche alle vite future e di pensare la vita presente come retribuzione delle infinite vite che l'hanno preceduta. Comune alle tradizioni bråhma±iche e a quelle çrama±iche è l'idea che la serie senza inizio di nascite e rinascite regolate dal principio retributivo del karman (ciò che viene chiamato generalmente saµsåra) sia intrinsecamente dolorosa e insoddisfacente e che occorra cercare di interromperla. Questa interruzione viene chiamata in vario modo: mokßa, mukti (“liberazione”) o nirvå±a (“spegnimento”, “cessazione”), ecc. 3. Il patrimonio di credenze fin qui sommariamente tratteggiato costituisce un presupposto imprescindibile della

2 È opportuno evitare termini come “trasmigrazione” o “metempsicosi”, che implicano l'esistenza di un sostrato trasmigrante (l'“anima”): esistenza che è esplicitamente negata, ad esempio, dalla gran parte delle correnti buddhiste.

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speculazione bråhma±ica e çrama±ica della seconda metà del I millennio a. C. Si legano ad esso questioni decisive di natura metafisica, epistemologica ed etica. Che cos'è che permane nel passaggio da una vita all'altra? Se esiste questo sostrato permamente, in che modo esso è conoscibile? Qual è la natura del rapporto causale che connette i vari momenti della serie saµsårica? Che cosa si può dire dello “stato” di chi abbia interrotto la serie saµsårica? In che modo si ottiene tale interruzione? Occorre forse interrompere la catena causale astenendosi totalmente dalle azioni? Oppure si deve controllare l'intenzione con cui si agisce? Oppure, ancora: la catena causale viene forse interrotta non già al livello “ontologico” tramite l'azione, bensì a un altro livello, quello “gnoseologico”, tramite la conoscenza o il “riconoscimento” della condizione liberata? Infine: qual è la differenza tra il merito e il demerito nell'agire, visto che ogni azione, anche meritoria, produce comunque inevitabilmentne una conseguenza a livello karmico che ostacola il processo di liberazione? Le varie correnti bråhma±iche e çrama±iche della prima fase di sviluppo delle filosofie indiane si differenziano fondamentalmente a partire dalle risposte date a questi interrogativi, o anche, come vedremo, sulla base del rifiuto esplicito di fornire queste risposte.

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3.

Il Buddhismo e il Jainismo primitivi

I. La prima fase del pensiero buddhista. 1. Buddhismo e Jainismo furono i movimenti çrama±ici più importanti. Il movimento buddhista, che si sarebbe diffuso in gran parte dell'Asia e che ormai da tempo ha raggiunto anche l'Europa e l'America fino a divenire un fenomeno planetario, ebbe origine e si sviluppò in India nel primo millennio a.C. I punti filosoficamente più rilevanti dell'insegnamento del Buddha sono i seguenti: la diagnosi del carattere insostanziale, impermanente e insoddisfacente di tutte le cose; l'indicazione delle «quattro nobili verità» e dell'«ottuplice sentiero» (che contempla precetti etici); il rifiuto metodico di prendere posizione sulle grandi questioni metafisiche e lo sviluppo di una «posizione mediana» - cioè al di là degli estremi - anche attraverso l'uso dello strumento logico-argomentativo del “tetralemma” (catußko¥i); l'esposizione della catena causale della «coproduzione condizionata»; l'indicazione di una tecnica di meditazione in quattro stadi (le «quattro meditazioni»). Questi ultimi due

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elementi furono quasi certamente elaborati dai primi successori del Buddha storico. Gli scritti canonici ci restituiscono l'immagine viva di un Buddha che rifiuta metodicamente, opponenendo silenzi significativi e istruttivi, di pronunciarsi sulle grandi questioni metafisiche; egli pone in evidenza l'impermanenza di tutte le cose, le quali non sono altro che «aggregati» destinati alla dissoluzione, ed addita a ciascun uomo, al di là dell’appartenenza castale (la cui importanza viene rifiutata), la possibilità di liberarsi dal dolore/insoddisfazione (du¿kha) praticando la «via intermedia» che conduce alla condizione di arahant (påli; scr. arhat: “degno”, “perfetto”) e al nibbåna (påli; scr. nirvå±a: “spegnimento”, “estinzione”, ma si tratta di una nozione veramente complessa, se è vero che in alcuni ambienti mahåyana si giungerà ad affermare, come si vedrà, la non-differenza tra nirvå±a e saµsåra).1

1 Sulla vita dell'uomo che sarebbe stato considerato lo «svegliato» per antonomasia (questo è il significato del termine buddha), possediamo numerose testimonianze scritte, che però sono in gran parte di natura leggendaria. È opinione comunemente condivisa dagli studiosi che Siddhårtha Gautama, della stirpe degli Çåkya, sia un personaggio storico, uno dei primi a noi noti dell'India antica. Si sono fatte molte ipotesi sulle date della sua vita, ma il problema rimane a tutt'oggi aperto, pur rimanendo certo che egli sia vissuto prima del III secolo a. C. (le iscrizioni di Açoka della metà del III secolo documentano la già avvenuta espansione del dharma buddhista). La questione della datazione del Buddha è molto importante, giacché molte altre datazioni decisive sia sotto il profilo della storia del pensiero che sotto quello della storia tout court, dipendono, per così dire a cascata, da essa. Recentemente gli studiosi si sono orientati a considerare più plausibile una datazione più "bassa" rispetto a quella calcolata in un primo tempo (VI-V secolo). Si veda Bechert (ed.), The Dating of the Historical Buddha [1991]. Il Buddha sarebbe vissuto circa ottanta anni. Intorno ai trentacinque avrebbe conseguito il «risveglio» (bodhi, abhisambodhi). La sua vicenda personale sarebbe stata segnata da tre avvenimenti decisivi: l'abbandono

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2. Le comunità di orientamento monastico cui il Buddha avrebbe dato vita provvidero a tramandare la memoria dei suoi insegnamenti, finché si giunse alla fissazione di veri e propri «canoni» (i più importanti sono quelli dei Theravådin e dei Sarvåstivådin). Questi sono suddivisi in tre grandi sezioni, dette «canestri»: il canestro dei discorsi, quello delle regole disciplinari (vinaya) e quello della sistematica dottrinale (abhidharma). È soprattutto dai testi contenuti nel canestro dei discorsi (Sutta-pi¥aka) che possiamo ricostruire l'insegnamento del Buddha storico, mentre nelle dottrine e nelle speculazioni contenute nell'ultimo possiamo riconoscere le origini della grande speculazione filosofica buddhista fiorita nel primo millennio d.C. 3. In quello che si usa chiamare Discorso della messa in moto della ruota del dhamma, e che costituisce tradizionalmente il resoconto del suo primo discorso dopo il risveglio - il Buddha si presenta essenzialmente come un terapeuta che nelle quattro «nobili verità» (påli ariya-

della vita principesca, della casa paterna, della moglie e del figlio per seguire la vita ascetica; l'abbandono della via della mortificazione e il distacco dagli insegnamenti dei vari maestri per seguire una «via mediana» anche nel cammino çrama±ico; il risveglio, cioè la conquista autonoma e definitiva della verità circa la natura della sofferenza/insoddisfazione (du¿kha) e circa il modo per farla cessare. Superata la tentazione di “entrare” immediatamente nello stato di cessazione del dolore (nirvå±a) senza comunicare agli altri esseri viventi la via del risveglio, il Buddha avrebbe trascorso il resto della sua vita a guadagnare al proprio insegnamento (dharma) gli ex-maestri e gli ex-compagni di vita ascetica, nonché a diffonderlo presso numerosi nuovi adepti. Da questo momento il Buddha, che già era noto come Çåkyamuni («Asceta degli Çåkya»), sarebbe stato chiamato anche Tathågata (forse: «Pervenuto alla verità»), Bhagavat («Beato») e Jina («Vittorioso»).

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saccåni / scr. årya-satyåni) ha condensato la conoscenza acquisita nel risveglio. Seguendo il modello dell'esposizione medica, egli definisce innanzitutto la malattia (la frustrazione, il dolore), poi ne individua la causa (la «sete»), quindi prospetta la possibile cessazione di tale causa, e infine indica il mezzo per ottenere la guarigione (il «nobile ottuplice sentiero»). L'insegnamento del Buddha è dunque, in estrema sintesi, l'indicazione di una via intermedia di autoperfezionamento che ha per meta il superamento del dolore (cioè del raggiungimento del nirvå±a / påli nibbåna). Nelle otto parti (lett. «membra») del nobile sentiero la «via della conoscenza» e le indicazioni etiche si intrecciano saldamente tra loro: particolarmente interessanti sono i contenuti della «retta intenzione» e della «retta azione», in cui vediamo configurati in forma di precetti al negativo (in particolare non nuocere, non essere violenti, non uccidere) i comportamenti che sono alla base delle speculari e positive virtù buddhiste della «compassione» (karu±å) e della «benevolenza» (påli mettå / scr. maitrî). 4. Il «non-sé» (in påli anattå, in sanscrito anåtman o nairåtmya) è una delle categorie più importanti e controverse del pensiero buddhista. Nell'India del primo millennio a.C. la speculazione di matrice vedica era giunta, nelle Upanißad, a negare sostanzialità al soggetto che dice «io» e «mio», per attribuire realtà solo al sé anegoico (åtman), identificato con la realtà assoluta (brahman). Questo sé costituiva tra l'altro il sostegno, la garanzia di continuità su cui basare il principio del susseguirsi delle rinascite (saµsåra). Le dottrine buddhiste invece, a partire da quelle attestate nella letteratura canonica in lingua påli, rinunciano - pur con qualche resistenza e tentennamento (su

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cui si appoggiano alcuni studiosi2 per combattere le interpretazioni radicali dell'anattå) - a questa ipostatizzazione del sé: al contrario, avventurandosi, si potrebbe dire, al limite estremo del percorso di disidentificazione già iniziato nelle Upanißad, esse affermano che non si può attribuire sostanzialità non solo all'io, ma neppure al sé anegoico. Per alcune scuole poi (ma pure qui spesso l'interpretazione è aperta, e gli studiosi in disaccordo tra loro) anche gli elementi nei quali viene analizzata la realtà esperienziale, i dhammå, sono privi di sostanzialità.3 Secondo una formulazione caratteristica, «sabbe dhammå anattå», «tutti gli elementi sono privi di sé» (Dhammapåda, 279). È bene tuttavia chiarire subito che sarebbe avventato concludere che il pensiero buddhista abbracci una metafisica del nulla.4 5. L'anattå sembra essere piuttosto, nella maggior parte dei casi, uno strumento argomentativo antimetafisico, che nega non già la realtà, bensì le affermazioni su di essa, le

2 Si veda ad esempio, tra gli ultimi di una lunga serie, Pérez-Remón, Self and Non-Self [1980]. Su questa importante questione vale la pena di segnalare alcuni lavori per un approfondimento: per una analisi critica delle varie posizioni possibili si vedano Collins, What are B. doing when they deny the self? [1994]; Tillemans, What would it be like to be selfless? [1996]; e Gómez, The Elusive Buddhist Self [1999]. 3 Certamente non tutte le scuole buddhiste sostennero questa posizione: anzi, alcune delle più importanti scuole antiche si sono dichiarate per la sostanzialità dei dhammå. 4 È questa la vecchia accusa rivolta al buddhismo, di essere cioè un «culto del nulla». Sulla storia di questa interpretazione e dell'apologetica religiosa e "occidentale" ottocentesca ad essa connessa si veda Droit, R.-P., Le culte du néant, Paris 1997. Si veda anche, sulle interpretazioni del nirvå±a Welbon, G. R., The Buddhist Nirvå±a and Its Western Interpreters, Chicago and London 1968.

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dottrine che si formulano a proposito della sua stabilità, del suo permanere, oppure viceversa della sua nullità. L'anattå sarebbe dunque non una dottrina, bensì uno strumento di confutazione delle dottrine, o «visioni speculative» (di¥¥hi), che, tutte indimostrabili, non darebbero indicazioni su come liberarsi dal dolore, e quindi andrebbero evitate. Si legga a questo proposito la spiegazione degli istruttivi silenzi del Buddha che si trova nel Discorso a Vacchagotta sul fuoco:5 «O Vaccha, pensare che "il mondo è eterno", [...] "il mondo non è eterno", "il mondo è finito", "il mondo è non finito", "il principio vitale e il corpo sono la stessa cosa", "il principio vitale è una cosa e il corpo è un'altra", "il Tathågata, dopo la morte, è", "il Tathågata, dopo la morte, non è", "il Tathågata, dopo la morte, è e non è", "il Tathågata, dopo la morte, né è né non è", questo, Vaccha, significa tendere a una visione speculativa, attenersi a una visione, alle giungle delle visioni, ai contorcimenti delle visioni, alla zuffa delle visioni, ai vincoli delle visioni. Ciò è accompagnato da angoscia [...]; non conduce al distacco [...] né al nibbåna. Io, o Vaccha, ritenendo che questo sia un pericolo, non mi accosto a queste visioni speculative». 6. Quanto a ciò che è invece possibile dire, esso trova un compendio, ad esempio, nelle due espressioni che accompagnano il «sabbe dhammå anattå» citato prima, e cioè: «sabbe saºkhårå aniccå», «sabbe saºkhårå dukkhå»: «tutte le predisposizioni sono impermanenti», «tutte le predisposizioni sono dolore» (Dhammapåda, 277 e 278). Il

5 Si trova in Majjhima-Nikåya I, 483-489 (è il discorso n. 72): il brano riportato è tradotto in The Middle Length Sayings, transl. by I. B. Horner, The Påli Text Society, London 1957, vol. II, p.164. La traduzione italiana è di chi scrive.

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richiamo al dolore e all'impermanenza è evidentemente basato sull'esperienza diretta della realtà come continuo fluire e continuo perire. Il ritmo, per così dire, di questo flusso è scandito dai vari anelli della catena (circolare) della «coproduzione condizionata» (pratîtyasamutpåda). Essa descrive sinteticamente in dodici punti le relazioni causali e di interdipendenza che provocano la permanenza nel flusso saµsårico: «nescienza» (avidyå) e «latenze karmiche» (saµskåra) costituiscono il passato; «coscienza» (vijñåna), «nome-forma» (nåmarûpa, cioè l'individualità), le «sei entrate» (ßa∂åyatana), «contatto» (sparça), «sensazione» (vedanå), «sete» (t®ßnå), «appropriazione» (upadåna) e «esistenza» (bhava) sono gli otto anelli del presente; «nascita» (jåti) e «vecchiaia e morte» (jaråmara±a) sono il futuro.6 II. Il Jainismo. 1. Il Jainismo è un “movimento spirituale” ancora vivo, benché minoritario, nell'India contemporanea. Il suo tratto fondamentale - e filosoficamente più rilevante insieme al «multilateralismo» epistemologico - è l'adesione radicale all'ideale dell'ahiµså: «Tutti gli arhat e i bhagavat del passato, del presente e del futuro, tutti così dicono, così dichiarano, così proclamano, così spiegano: "non si deve

6 Uno dei testi più celebri sul pratîtyasamutpåda è il Çålistambasûtra, tradotto in italiano in Gnoli (a cura di), Testi buddhisti [1983]. Sull'interpretazione del pratîtyasamutpåda si veda, ad es., Potter et alii (eds.), Abhidharma Buddhism to 150 A.D. [1996], pp. 43-47.

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uccidere, né trattare con violenza, né maltrattare, né tormentare, né scacciare alcuna creatura che respiri, che esista, che viva, che senta". Ecco il puro, immutabile, perenne dharma, proclamato dai sapienti che comprendono il mondo».7 La giustificazione dottrinale della «non-volontà di nuocere» (a-hiµså) è naturalmente connessa alla teoria del karman e della rinascita, che nel Jainismo assume una forma particolarmente nitida. 2. Della vita di Vardhamåna, che sarebbe stato chiamato Mahåvîra («grande eroe») e il Jina («vittorioso»),8 e che svolse per il Jainismo un ruolo parzialmente analogo a quello ricoperto, per il Buddhismo, da Siddhårtha Gautama, sappiamo molto poco. Nato prima del Buddha, anch'egli sarebbe stato di famiglia nobile. Abbracciata la vita dell'asceta itinerante, avrebbe raggiunto a quarantatre anni la «conoscenza assoluta», cioè la conoscenza della via per sfuggire al saµsåra. Considerato dalla tradizione jaina il ventiquattresimo tîrthaµkara (lett. «facitore di guado»), sarebbe stato preceduto dal tîrthaµkara Pårçva, che gli studiosi ritengono una personalità storica. 3. La dottrina jaina costituisce un esempio molto chiaro di dottrina çramanica, caratterizzata dalla problematica dell'azione e dei legami che questa comporta. Ne vediamo qui alcuni aspetti paradigmatici. Essa viene riassunta in sette

7 Åcåråºga-sutta (I, 4, 1), dalla tr. ingl. di H. Jacobi, Jaina Sûtras, part I = SBE, vol. 22, Oxford 1884, p. 36). 8 I suoi seguaci vengono chiamati jaina (è il derivato di jina) da cui «Jainismo». Si noti che in italiano a volte si preferisce la grafia «Giainismo».

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argomenti di base: 1) le «anime» o «spiriti» (jîva), 2) l'inanimato (ajîva), 3) l'afflusso o contaminazione (åsrava), 4) il legame (bandha) 5) l'arresto del flusso (saµvara), 6) l'eliminazione (nirjarå) e 7) la liberazione (mokßa). Le sostanze, cioè i jîva e l'ajîva, esistono realmente. L'inanimato si suddivide in cinque sostanze (spazio, presupposti del movimento e della stasi, tempo, materia). La materia (pudgala) ha una struttura atomica. Non c'è un Dio creatore, la cui esistenza sarà sempre oggetto di polemica da parte dei Jaina. I jîva sono infiniti e immortali. L'azione in generale, ogni azione, produce «afflusso» di particelle materiali verso il jîva, sul quale si depositano facendogli assumere una «colorazione» (leçya). La liberazione si raggiunge attraverso un processo di purificazione che si basa sui «tre gioielli» («retta visione», «retta conoscenza», «retta condotta») ed è suddiviso in quattordici stadi. Al termine il jîva consegue la perfezione (siddhi) e rimane libero. Il fatto che ogni azione, anche quelle moralmente approvate, sia causa di «afflusso» karmico, ha due conseguenze decisive: 1) che il comportamento ideale sarebbe la rinuncia totale ad agire (e quindi la morte per fame, che fu effettivamente praticata); 2) poiché tuttavia resta il problema della «colorazione» accumulata in precedenza, tra le quattordici tappe del cammino di purificazione deve necessariamente venirne prevista una (la settima) a partire dalla quale si ha effettiva «eliminazione» del leçya: è la kßapaka-çre±î, la «linea dell'asceta distruttore [del karman]». I precetti etici, in primis l'“astensione dal desiderio di nuocere” agli altri esseri (ahimßå), costituiscono la condizione indispensabile per attenuare l'afflusso karmico ed incamminarsi sul cammino della liberazione.

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4.

La Bhagavadgîtå e lo yoga dell’azione. 1. «Perché agire?», «che cos'è l'azione?», «qual è il rapporto tra azione e conoscenza?», «chi è l'uomo saggio?», «qual è il rapporto tra l'uomo e la realtà suprema?». A questi interrogativi cerca di rispondere un poema celeberrimo, la Bhagavadgîtå, databile tra il II sec. a. C. e il II sec. d. C. 2. La tradizione speculativa bråhma±ica trovò espressione in opere di varia natura (trattati sul dharma, sulla lingua, sulla politica, ecc.) ma fu soprattutto nell'epica che vennero incorporati testi di natura spiccatamente filosofica. La Bhagavadgîtå è contenuta nel VI libro del Mahåbhårata, il vasto poema che, accanto al Råmåya±a, costituisce la grande epica dell'India antica. La vicenda principale narrata nel Mahåbhårata è quella dello scontro esiziale tra i Kaurava e i loro cugini, i cinque På±∂ava. Nelle sue diciotto «letture» la Bh.-g. presenta il dialogo tra Arjuna, il guerriero per eccellenza tra i På±∂ava, e K®ß±a, il suo auriga, nel corso del quale K®ß±a si rivela come volto personale della «realtà suprema» e impartisce ad Arjuna il suo insegnamento sul problema dell'agire. Arjuna infatti, vedendo nello schieramento avversario parenti e maestri, è

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preso dallo sconforto e pone angosciosamente l'interrogativo «perché combattere?» - domanda che nel corso del dialogo si amplierà sempre di più, fino a comprendere implicitamente o esplicitamente gli interrogativi ben più generali che abbiamo elencato all'inizio. 3. K®ß±a risponde indicando perlomeno tre vie, tre «discipline» (yoga): la disciplina della conoscenza (jñåna-yoga), la disciplina dell'azione rinunciante in ottemperanza al proprio dharma (karma-yoga), e la disciplina della devozione (bhakti-yoga). Nei numerosissimi commenti filosofici alla Bh.-g. che si sono susseguiti da quando essa venne considerata un testo a sé stante ed estremamente autorevole - cioè almeno da quando, al più tardi alla fine dell'ottavo secolo, il filosofo Çaºkara ne diede una celebre, assai unilaterale interpretazione - la discussione verte, fondamentalmente, sulle tre vie sopra elencate: c'è chi sostiene che una sola di esse debba essere considerata essenziale (per Çaºkara, ad esempio, lo jñåna-yoga), chi pensa che esse si implichino vicendevolmente (Yåmuna, X-XI sec.), chi le dispone una di seguito all'altra in ordine ascendente (per Råmånuja, XI-XII sec, ad esempio, il karma-yoga è superiore allo jñåna-yoga, ma il gradino più alto è riservato al bhakti-yoga), chi le vede come vie distinte e parallele tra le quali ciascuno deve trovare la propria (o piuttosto quella che gli è stata assegnata dal fatto di nascere in una determinata condizione), ecc. 4. Ma se tutte e tre le vie trovano nella Bh.-g. una loro giustificazione (e forse una reciproca complementarità), è il karma-yoga ad affrontare più direttamente il problema dell'agire, offrendone un'analisi ed una soluzione

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particolarmente sottili. Il rifiuto di combattere di Arjuna si ricollega infatti alla più vasta disputa sulla rinuncia ad agire: l'azione infatti implica un «frutto» (phala), che costituisce un «legame», il quale, caricando il meccanismo retributivo del karman, è causa dell'aborrito perpetuarsi delle rinascite (saµsåra), in perenne, dolorosa vicenda. La "soluzione karmayogica" si fonda sull'assunto che il «legame» non sia intrinseco all'azione stessa, ma dipenda dall'"intenzione" di chi la compie: l'azione «lega» se chi agisce lo fa spinto dal desiderio e dall'attaccamento al «frutto dell'azione». Non essendo in realtà possibile non agire (per vari motivi, come di spiega nel terzo canto del poema), l'unico modo per liberarsi dal «legame delle azioni» è compiere l'azione rinunciando preventivamente al suo frutto: infatti, una volta abbandonato il frutto dell'azione, questa a priori diviene - come si è detto glossando nelle lingue occidentali - un'"azione disinteressata", un'"azione rinunciante", un'"azione senza desiderio", e una siffatta azione non lega, si esaurisce in se stessa, senza generare conseguenze. 5. Ma se il karma-yoga consente dunque all'azione di assurgere al rango di non-azione, esso pone tuttavia un problema delicatissimo: qual è, infatti, il movente che regge un'azione che parrebbe restare sospesa nel vuoto della mancanza di intenzionalità? La risposta karmayogica, apparentemente semplice, ma in realtà profonda e inquietante insieme, è che il criterio dell'agire consiste, per ciascuno, nella necessità di conformarsi allo sva-dharma, al «proprio dharma»,1 al dovere specifico del proprio ruolo,

1 Dharma è un concetto fondamentale della cultura indiana. Racchiude in sé significati diversi: dharma è al tempo stesso il «mantenersi» dell'ordine del mondo, la legge morale (o le leggi morali), a volte la

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inteso sostanzialmente in senso castale: nel caso di Arjuna, essendo egli un guerriero, il dharma gli impone di combattere.2 6. La Bh.-g., con la sua capacità di far convivere in un unico quadro posizioni tra loro (apparentemente?) contraddittorie, si presenta come una sorta di registrazione compendiaria, in una forma letteraria spesso molto suggestiva e raffinata, di alcuni dei principali problemi e temi che caratterizzano l'universo filosofico-religioso della tradizione bråhma±ica: il tema del distacco dal desiderio (kåma), il tema della fedeltà al proprio dharma, il tema del riconoscimento - come strumento di liberazione (mokßa) - dell'identità tra l'åtman (il «sé») e la realtà assoluta (brahman), il tema dell'abbandono amoroso e totale alla divinità (bhakti), ecc. Anche per questa sua caratteristica la Bh.-g. è stata individuata, fin dai primordi degli studi

legge in senso giuridico, il dovere, e persino quella che in Europa si chiama «religione». Il termine sva-dharma, cioé «il proprio dharma», rimanda al "proprio posto nel mondo", normalmente inteso in senso castale. Sul concetto di dharma illuminante è il denso saggio di W. Halbfass intitolato Dharma in the Self-Understanding of Traditional Hinduism, comparso come capitolo 17 del suo India and Europe [1988]. 2 Vale la pena di notare qui che nell'ambito del cosiddetto “neo-induismo” tale risposta ha dato adito a interpretazioni divergenti, e numerosi sono stati i tentativi di svincolare il dharma dalla dimensione castale. Gandhi, ad esempio, interpreterà il dharma in senso universalistico e ne individuerà il nucleo essenziale nell'ahiµså (con il conforto di varie testimoninaze testuali - cfr. ad esempio Mahåbhårata XII, 110, 10; ecc.-; ma certo esiste il problema di quale fosse in questi testi il significato di ahiµså, e il tentativo gandhiano di spiegare perché K®ß±a, in nome della «non-violenza», induca Arjuna a riprendere la guerra, pone non poche difficoltà).

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indologici in Europa, come il testo con cui confrontarsi per un primo avvicinamento al pensiero indiano.3

3 Molto importanti a questo proposito furono la versione inglese di Wilkins del 1785 e soprattutto quella latina di August Wilhelm Schlegel del 1823, che diede il via a una interessante disputa a distanza sul pensiero indiano che coinvolse W. von Humboldt e Hegel). La Bh.-g. è così divenuta, negli ultimi due secoli, un testo «universale» (per utilizzare il termine adottato da Sharpe, E.J., The Universal Gîtå [1985]). Assai spesso l'interesse dei lettori europei e americani si è concentrato sull'interpretazione del concetto di dharma, particolarmente importante nel contesto della «soluzione karmayogica»: non potendoci qui soffermare su una vicenda che tuttavia varrebbe davvero la pena di ripercorrere, basterà dire che le interpretazioni variano dalla segnalazione di vaghe assonanze kantiane all'accettazione del dharma come norma perenne e universale, dalla totale adesione interiore al dharma inteso come «necessità amata» (S. Weil) all'esaltazione di un esteriore e militaresco «dovere per il dovere» connesso a una «metafisica dell'azione» (ad esempio gli indologi Hauer e Formichi), ecc.

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5.

Teoria della disputa e medicina 1. Già nel periodo documentato dalle Upanißad più antiche la disputa filosofica e il dibattito pubblico rivestivano un’importanza eccezionale. Il maestro upanißadico Yåjñåvalkya era noto e temuto per la sua abilità nello sconfiggere gli avversari. Si deve pensare anche a veri e propri tornei dialettici organizzati presso le corti regali, al termine dei quali erano previsti premi consistenti per i vincitori.1 Le Upanißad attestano che a tali dispute pubbliche partecipavano, almeno in certi casi, anche le donne.2 Anche il canone buddhista, l'abbiamo visto, come pure quello jaina, riportano numerosissimi incontri, discussioni e dispute memorabili tra maestri itineranti. Durante la fase più antica sembra comunque che non siano state elaborate regole per la conduzione del dibattito né che

1 Vedi ad es. B®hadåranyaka Up. III, 1-2: «Janaka di Videha ebbe desiderio di sapere qual fosse il più dotto tra i brahmani. Rinchiuse allora in un recinto mille vacche e alle corna di ciascuna erano attaccate mille monete[d'oro]. Poi disse [ai convenuti]: "Venerabili brahmani! Chi tra voi è il più dotto brahmano si porti via queste vacche"» (tr. di C. Della Casa). 2 Si veda il caso di Gårgî, interlocutrice di Yåjñavalkya nella B®hadåranyaka Up. (III, 6).

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siano stati stabiliti criteri in base ai quali assegnare la vittoria. Il tema della disputa in generale divenne verosimilmente oggetto di riflessione in occasione delle contese tra le varie sette buddhiste,3 allorquando si trattò di stabilire per via argomentativa quale fosse l'eredità dottrinale del Buddha. Una testimonianza in tal senso è rappresentata dal Kathåvatthu (forse del II sec. a.C.): celebre è il dibattito tra un pudgalavådin e un theravådin sul modo di conoscere il pudgala (il sostrato trasmigrante esistente secondo i pudgalavådin e negato dai theravådin).4 Di un certo interesse storico è poi la distinzione tra, per dir così, “forza dell'argomentazione” e “argomentazione della forza” che ci viene proposta, sempre in ambito buddhista, dal Milindapañha: «Il re disse: "Venerando Någasena, vuoi discutere con me?". "Se tu, gran re, discuterai come fanno i saggi, io discuterò con te; se invece vuoi discutere come fanno i re, allora no". "Come discutono i saggi, venerando Någasena?". "Gran re, nella discussione dei saggi si hanno lo svolgimento e la ricapitolazione, il convincere e il concedere; si raggiungono accordi e disaccordi. E i saggi non si irritano per questo. Così discutono i saggi". "E come discutono i re?". "Quando i re discutono, essi approvano un argomento e puniscono chi non lo approva. Così discutono i re"».

3 Per la storia del buddhismo indiano si possono consultare: Lamotte, Histoire du Bouddhisme Indien [1958]; Warder, Indian Buddhism [1970]. Una breve sintesi in traduzione italiana è quella di Conze, Breve storia del Buddhismo [1985]. 4 Il brano è riportato e discusso in Matilal, The Character of Logic [1998], pp. 33-37, oltreché in Bochenski, La logica formale, II [1972 (1956)], pp. 543-6.

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Si verificò tuttavia un mutamento decisivo quando la riflessione sul dibattito sfociò in una vera e propria teoria della disputa e delle sue procedure, teoria che divenne essa stessa un sapere tecnico e codificato. 2. Una sorta di manuale di questo nuovo sapere è contenuto in uno dei più importanti trattati medici antichi, la Carakasaµhitå (I o II sec. d.C.). La medicina (Åyurveda) in India come altrove contribuì notevolmente allo sviluppo di concezioni e dottrine riguardanti la fisiologia del complesso psico-fisico, le forze naturali, le vie per superare il dolore. Abbiamo inoltre visto come ad esempio il modello espositivo delle quattro nobili verità del Buddha sia quello medico. Ma quello che qui si vuole sottolineare è che l'ambito medico - dove doveva essere sentita fortemente la necessità di discutere, anche pubblicamente, le varie fasi del processo diagnostico e terapeutico, e di argomentarne la validità adducendo prove e dimostrazioni - costituì con ogni probabilità un terreno ideale per la codificazione di un sapere e di uno stile di ragionamento che finì per oltrepassare la teoria della disputa, contribuendo a dare origine alla logica e alla epistemologia che diverranno dominanti nella filosofia indiana “classica”.5

5 Leggiamo per esempio la seguente raccomandazione di Caraka ai medici: «Non lasciatevi coinvolgere in argomentazioni e controargomentazioni complesse, né d'altra parte permettetevi di fingere che la verità sia ovvia e facile da raggiungere se si aderisce ad una singola posizione filosofica (pakßasaµçraya). Grazie al vostro intelligente argomentare finirete per girare a vuoto, come uno che siede su un torchio che gira in tondo. Liberatevi dai pregiudizi semplicistici e cercate spassionatamente la verità». Carakasaµhitå I, 25, 32 (citato in Larson, Åyurveda and the Hindu philosophical systems [1993], p. 111).

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Nel “manuale” contenuto nella Carakasaµhitå6 si distingue dapprima tra la discussione “amichevole» - nella quale si devono esporre apertamente le proprie ragioni, facendo appello all'intelletto e alle conoscenze dell'altro senza temere la sconfitta - e la contesa, nella quale lo scopo da tenere presente è il vantaggio personale. Seguono un elenco delle qualità del buon disputatore, consigli su come valutare l'avversario e su come individuarne e sfruttarne i punti deboli, nonché indicazioni su quali atteggiamenti tenere a seconda che il pubblico sia favorevole, neutrale o sfavorevole. Quello che fin qui parrebbe solo un manuale di eristica passa infine a presentare una lista degli argomenti che chi vuole «sapere come agire nelle dispute» deve conoscere. Si tratta in realtà di una serie di termini tra i quali riconosciamo molte delle categorie ontologiche, logiche ed epistemologiche della filosofia indiana classica. Vediamone alcune: innanzitutto la disputa stessa (våda). Poi le categorie del Vaiçeßika: sostanza (dravya), qualità (gu±a) movimento/azione (karman), universalità/generalità (såmånya), particolarità (viçeßa). Seguono le parti del ragionamento dimostrativo, parzialmente analoghe a quelle sviluppate dal Nyåya: tesi (pratijñå), enunciazione della prova (sthåpanå), enunciazione della controprova (pratisthåpanå), ragione/motivo (hetu), applicazione (upanaya), conclusione (nigamana), replica (uttara), esempio (d®ß¥ånta), enunciazione conclusiva (siddhånta). Si passa poi ai mezzi di conoscenza, variamente accettati come validi o

6 Carakasaµhitå III, 8, 14 sgg. Il brano è discusso lungamente già da Dasgupta (A History of Indian Philosophy, Cambridge 1932, vol. II, pp. 378-88). Si veda inoltre Matilal, The Character of Logic in India cit., pp. 38-43 e soprattutto Frauwallner, E., Nachgelassene Werke I, Wien 1984.

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respinti dalle “scuole»: parola autorevole (çabda), percezione sensibile (pratyakßa), inferenza (anumåna), tradizione (aitihya), comparazione/analogia (aupamya). La lista infine si conclude con una serie di termini tecnici del linguaggio eristico, anch'essi di notevole interesse. 3. Dopo la fase di cui il testo discusso sopra costituisce un'importante testimonianza, il pensiero indiano era ormai pronto a compiere il passaggio verso una sistematica filosofica dotata di tecniche e di procedure discorsive proprie. Le “scuole” dei più vari orientamenti si organizzarono intorno a postulati e tesi fondamentali che vennero difesi facendo riferimento a regole comuni di ragionamento. La struttura stessa dell’esposizione nelle opere e nei commentari filosofici rivela la sua origine dalla disputa: su un dato argomento si espone dapprima una tesi avversa (pûrva-pakßa, «prima posizione», «obiezione»), poi la si confuta dimostrando la propria tesi (uttara-pakßa, «seconda posizione» o «risposta»), che viene infine ribadita nell'«enunciazione conclusiva» (siddhånta).

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Parte seconda

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1.

Epistemologia e logica I: il Nyåya. 1. Il tipo di problemi che, con terminologia di derivazione greca, chiamiamo «logici» ed «epistemologici», furono in India affrontati soprattutto dalla scuola Nyåya e da alcune correnti buddhiste. Contributi notevoli vennero anche dai Jaina e dai Mîmåµsaka, nonché dai filosofi del linguaggio. Come si è visto, le origini di questo tipo di dottrine vanno ricercate nella pratica e nella teoria della disputa. All'interrogativo epistemologico «quali sono i “mezzi di conoscenza” (pramåna)?» il Nyåya (Nyåyasûtra I, 1, 3) risponde sostenendo che essi sono i quattro seguenti: percezione (pratyakßa), inferenza (anumåna), comparazione analogica (upamåna) e parola autorevole (çabda). All'interrogativo logico «qual è la struttura dell'inferenza valida?» i Nyåyasûtra (d'ora innanzi NS) offrono la seguente risposta: «I componenti dell'inferenza (anumåna) sono: l'asserzione preliminare della tesi (pratijñå), il probans (hetu), l'esemplificazione (udåhara±a), l'applicazione (upanaya) e l'asserzione conclusiva (nigamana)» (NS I, 1, 32)». «Il probans è la proposizione che asserisce "la causa dello stabilimento del probandum" (sådhya-sådhana) attraverso la somiglianza [del soggetto o pakßa] con l'esempio citato [udåhara±a]; similmente, il probans è la

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proposizione che asserisce "la causa dello stabilimento del probandum" attraverso la dissomiglianza (vaidharmya) [del soggetto con l'esempio contrario citato]» (NS I, 1, 34-35). Come si vede, si tratta di una dottrina giunta ad un elevato grado di elaborazione tecnica. Abbiamo appositamente accostato l'elenco dei mezzi di conoscenza alla descrizione della struttura dell'inferenza per sottolineare fin dall'inizio la continuità, nel Nyåya, tra l'epistemologia e la logica (ma il giudizio si può estendere a gran parte della logica posteriore). Sarebbe dunque fuorviante voler valutare lo schema inferenziale che costituisce il nucleo centrale della “logica” indiana classica sulla base di un confronto (che pure, come vedremo, sembra sorgere spontaneamente) con il sillogismo aristotelico, il cui orizzonte è invece quello della “logica formale”. 2. È molto probabile che i NS attribuiti a Gautama (detto anche Akßapåda) costituiscano il risultato, almeno per le parti più antiche, dell'elaborazione sistematica di qualche manuale di eristica. Delle sedici “categorie” trattate dai NS, infatti, molte provengono dall'ambito della teoria della disputa, giacché oltre che dei 1) pramå±a e dei 2) prameya – rispettivamente “mezzi di conoscenza» e “oggetti di conoscenza» - i NS si occupano dei seguenti argomenti: 3) il dubbio (saµçaya), 4) l'intento (prayojana), 5) l'esempio (d®ß¥ånta), 6) la conclusione (siddhånta), 7) i membri (avayava) dell'inferenza, 8) l'argomentazione (tarka), 9) la tesi (nir±aya), 10) la disputa o obiezione (våda), 11) la controversia (jalpa), 12) il cavillo (vitå±∂a), 13) l'errore logico (hetvåbhåsa), 14) l'inganno (chala), 15) la confutazione insussistente (jåti) e 16) i punti deboli dell'avversario (nigrahasthåna). La presenza nei NS dei

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prameya (“oggetti di conoscenza»: åtman, corpo, facoltà sensoriali e d'azione, oggetti dei sensi, buddhi, manas, attività, colpe, esistenza del trapassato, frutto delle azioni, sofferenza e liberazione) attesta l'avvenuto innesto, sul tronco della tradizione logico-epistemologica della scuola Nyåya, di una tradizione metafisico-soteriologica. I NS furono commentati innanzitutto da Våtsyåyana (V sec.), a sua volta commentato da Uddyotakara (VI-VII sec.), che ne prese le difese contro gli attacchi del logico buddhista Dignåga. Våcaspati Mîçra poi nel X secolo difese l'opera di Uddyotakara dagli attacchi dell'erede di Dignåga, Dharmakîrti. Altri importanti filosofi della scuola furono Jayanta Bha¥¥a, Bhåsarvajña, Çrîdhara e soprattutto Udayana. 3. Torniamo ora alla struttura del processo inferenziale (anumåna). Per vederne da vicino il funzionamento riporteremo un esempio tipico, ossia la dimostrazione della non-eternità del suono (contro la tesi eternalista tipica della “scuola” denominata Mîmåµså). Ecco il ragionamento a cinque membri: 1) pratijñå : «il suono è non-eterno». 2) hetu: «perché ha la caratteristica di esser prodotto». 3) udåhara±a: «gli oggetti come la pentola che hanno la ca-ratteristica di esser prodotti sono non-eterni». 4) upanaya: «similmente, il suono ha la caratteristica di essere prodotto». 5) nigamana: «dunque il suono è non-eterno, perché ha la caratteristica di esser prodotto». In questo caso il probans è basato sulla similarità (del suono con la pentola).

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La seconda possibilità è che il probans sia basato sulla dissimilarità: 1) pratijñå : «il suono è non-eterno». 2) hetu: «perché ha la caratteristica di esser prodotto». 3) udåhara±a: «gli oggetti, come il sé, che non hanno la caratteristica di esser prodotti, si trova che sono eterni». 4) upanaya: «ma il suono non ha la caratteristica di essere non prodotto». 5) nigamana: «dunque il suono è non-eterno, perché ha la caratteristica di esser prodotto».1 Si sarà notato che il terzo passo, l'udåhara±a, non si limita ad enunciare una regola di concomitanza astratta («dove c'è fumo c'è fuoco»), ma associa sempre a questa regola un esempio. Questo fatto, lungi dall’essere inessenziale, rivela la natura profonda della concezione indiana del processo inferenziale: esso combina in modo inseparabile deduzione e induzione. Se lo si trasformasse in un sillogismo (ad es. : «tutto ciò che è prodotto è non-eterno, il suono è prodotto, dunque è non-eterno»), si perderebbe l'esibizione dell'esempio, o del controesempio, che ancorano l'inferenza alla “realtà” e mostrano che la regola da applicare non è “vuota”.

1 Ma l'esempio più spesso citato di processo inferenziale è il seguente: 1) pratijñå : «sulla montagna c'è fuoco»; 2) hetu: «perchè c'è fumo»; 3) udåhara±a: «dove c'è fumo c'è fuoco, come nella cucina»; 4) «upanaya: c'è fumo sulla motagna»; 5) nigamana: «dunque sulla montagna c'è fuoco».

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Su questo schema inferenziale, e sui problemi posti dalla sua “ambiguità”, si incentrerà la ricchissima riflessione logica che coinvolgerà Nayåyika, Buddhisti e Jaina per oltre un millennio.

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2.

Sviluppi nel Buddhismo. Någårjuna 1. Någårjuna fu una delle personalità filosofiche più forti dell'India antica. La sua dottrina antidottrinaria della vacuità (çûnyatå) non solo ebbe un'influenza decisiva su gran parte delle correnti filosofiche buddhiste successive, ma più in generale costituì una delle strutture portanti del Buddhismo Mahåyåna, che si sarebbe diffuso, al di là dell'India, in Cina, Tibet, Giappone, ecc. Si può inoltre dire che il fascino intellettuale di una dottrina che sfocia nella negazione di se stessa – o meglio la comprende in sé - abbia oltrepassato i confini dell'India e dell'espansione buddhista, e non abbia mancato di esercitarsi su pensatori, anche europei e americani, estranei a quella tradizione.1 Le risonanze attualizzanti del suo pensiero costituiscono con ogni probabilità una componente non inessenziale delle continue controversie interpretative che il suo lascito filosofico suscita tra gli studiosi.2

1 Si vedano ad esempio nella sezione “Filosofi moderni sul pensiero indiano” le pagine dedicate a Någårjuna da Karl Jaspers. 2 Su questo tema si veda Tuck, Comparative philosophy and the Philosophy of Scholarship[1990].

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2. Någårjuna, nato nell'India meridionale, visse a quanto pare nel II sec. d. C. Su di lui esiste una nutrita tradizione agiografica dalla quale poco si può trarre per ricostruire la sua biografia. Gli sono attribuite moltissime opere, tra le quali anche alcune di carattere alchemico. La più importante tra le opere che si possono considerare autentiche è quella intitolata Madhyamaka-kårikå (Le stanze del cammino di mezzo,3 d'ora in poi MK), che costituisce il testo-base del Madhyamaka. Essa fu difesa e commentata da vari esponenti della scuola, tra i quali vanno ricordati Buddhapålita, Bhavaviveka (V e VI sec.) e Candrakîrti (VII sec.), autore dell'importante commento intitolato Prasannapadå. Tra le altre opere di Någårjuna, oltre ad alcuni inni poetici, andrà segnalata soprattutto la Vigraha-vyåvartanî (La sterminatrice degli errori,4 d'ora in poi VV). Discepolo diretto di Någårjuna fu Åryadeva. Nel solco del Madhyamaka, ma fortemente influenzati dalla logica di Dignåga e Dharmakîrti e dallo Yogåcåra, vanno considerati Çåntarakßita e Kamalaçîla (VIII sec.). Instancabile diffusore del Buddhismo Mahåyåna e del Madhyamaka fu poi Çantideva (VIII sec.), autore del Bodhicaryåvatåra, un'opera divulgativa dotata di notevole forza polemico-argomentativa (si veda la sezione antologica). 3. Någårjuna riprende la nozione di vuoto (çûnya) dalla letteratura della «Perfezione della Gnosi» (prajñåpåramitå) e

3 Tradotte in italiano da Raniero Gnoli: Någårjuna, Le stanze del cammino di mezzo, Torino 1961; anche in Gnoli, R. (a cura di), Testi buddhisti in sanscrito, Torino 1983. 4 Anch'essa tradotta in italiano in Någårjuna, Le stanze cit., pp. 139-56; si veda anche Någårjuna, Lo sterminio degli errori, a cura di A. Sironi, Milano 1992.

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ne fa il cardine interpretativo della dottrina della «coproduzione condizionata»: «la coproduzione condizionata, questa e non altro noi chiamiamo la vacuità» (MK XXIV, 18). In altre parole, la «vacuità» designa in primo luogo l'interdipendenza e l'impermanenza dei fenomeni. In particolare, in polemica con la dogmatica dell'Abhidharma, Någarjuna attacca la dottrina secondo cui i dharma (gli elementi ultimi e istantanei della realtà) sarebbero dotati di «natura propria» (svabhåva). Anch'essi invece, in ultima analisi, sono «vuoti»:5 Någårjuna ripete cioè contro lo svabhåva l'antico argomento dell'anattå, condensato nella frase «tutti i dharma sono privi di sé». 4. Un secondo obiettivo polemico di Någårjuna è la teoria dei mezzi di conoscenza sostenuta dal Nyåya e in generale (pur con notevoli differenze) dalle «scuole» bråhma±iche. «Se io percepissi, mediante la percezione diretta, eccetera, qualcosa, l’ammetterei o la negherei. Ma, visto che nulla percepisco, la mia posizione è inobiettabile». «Se, inoltre, tu pensi che l’esistenza delle varie cose è stabilita dai mezzi di conoscenza, da che cosa, dí un po’, è stabilita l’esistenza dei mezzi di conoscenza?» (VV 30-1). Sotto accusa, ovviamente, è la pretesa di stabilire attraverso i pramå±a la “realtà” degli oggetti conosciuti. 5. La critica çûnyavåda non si limita alla confutazione della «natura propria» (svabhåva) e dei pramå±a: in generale si appunta contro la fondatezza di ogni tesi positiva. Ciò è chiarissimo nelle MK, dove una dopo l'altra tutte le varie posizioni filosofiche vengono confutate dimostrando che esse hanno inevitabilmente implicazioni assurde. Någårjuna

5 La polemica sullo svabhåva dei dharma si può leggere in VV 52 ss.

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fa spesso un uso brillante della struttura argomentativa della catußko¥i.6 Si tratta di dimostrare di ogni cosa che 1) «né è», 2) «né non-è», 3) «né è né non-è», 4) «né non-è né non non-è». A tale critica radicale sono sottoposte anche le verità buddhiste, in quanto passibili di essere assunte dogmaticamente. Di conseguenza Någårjuna deve rispondere all'obiezione secondo cui anche le quattro nobili verità del Buddha sono «vuote» (si veda la sezione antologica). 6. Raggiungiamo così il punto più alto della dialettica någårjuniana. L'apparentemente paradossale negazione degli stessi dogmi buddhisti conduce ad una domanda radicale sulla natura del çûnyavåda: in che cosa consiste la differenza tra esso e il nichilismo (ucchedavåda)? La risposta di Någårjuna è la seguente: il çûnyavåda stesso deve essere preservato dal divenire una tesi (VV 29). Se lo divenisse, si trasformerebe in una fonte di pericolo: «La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come il serpente male afferrato o una formula magica male applicata». «E per questo, la mente dell’Anacoreta si tirò addietro dall’insegnamento della legge, pensando alla difficoltà che avrebbero avuto gli uomini di corto vedere a penetrarla» (MK 11-12). Come l'insegnamento del Buddha era stato una «via mediana» tra gli estremi del soddisfacimento e della mortificazione, così il çûnyavåda è una «via mediana» (madhyamaka, da cui il nome della “scuola”) tra eternalismo

6 Già utilizzata nel Buddhismo primitivo (vedi il discorso a Vacchagotta). Si veda, anche per un interessante confronto con il rifiuto aristotelico di utilizzare questo schema tetralemmatico, Bugault, G., L'Inde pense-t-elle?, Paris 1994.

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(çasvåtavåda) e nichilismo (ucchedavåda), dove «via mediana» va inteso non nel senso che sta in mezzo, ma nel senso che è oltre gli estremi, cioè li supera entrambi. 7. Resta tuttavia il problema: che cosa si deve pensare del dharma buddhista? Occorre seguirlo? Come ci si deve comportare nella vita ordinaria? Nasce da questo tipo di interrogativi la dottrina della doppia verità: quella «assoluta» (paramårtha) e quella «relativa del mondo» (lokasaµv®ti). Le quattro nobili verità possono certo essere dichiarate vuote dal punto di vista assoluto, ma non da quello relativo. A questo secondo livello il dharma buddhista continua ad essere indispensabile, pur nella consapevolezza che si tratta di una zattera che, una volta condottici all'altra riva, deve essere abbandonata.

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3.

Il Såµkhya della Såµkhyakårikå. 1. Il Såµkhya è una dottrina dualista che distingue due principi, entrambi reali ed eterni, opposti tra loro: il purußa e la prak®ti. Il purußa (normalmente si rende con «spirito», ma la traduzione è fuorviante) è coscienzialità pura, non soggetta a modificazioni, assolutamente inattiva. La prak®ti (normalmente si rende con «natura») è invece attività pura ma inconsapevole: è il principio che da immanifesto (avyakta) dà origine, per evoluzione/trasformazione (pari±åma), a tutto quanto è manifesto, intendendo con ciò sia la realtà materiale che la realtà mentale e “psichica”. È questo un punto da sottolineare. Non solo infatti nel Såµkhya c'è continuità tra “corporeità” e “psichicità”, ma entrambe le dimensioni sono pensate come radicalmente opposte - in quanto prak®ti - alla pura coscienzialità del purußa. Il quale di conseguenza non è affatto una realtà “psichica”. Contrariamente a quello che ci si potrebbe attendere, il purußa non è uno: esiste infatti eternamente una pluralità infinita di purußa, uno per ciascun individuo. Ogni purußa è in contatto con la prak®ti, ma la natura di questo contatto non è sufficientemente tematizzata, e ciò

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costituisce ovviamente uno dei problemi teorici più rilevanti del Såµkhya. Scopo della dottrina è descrivere il «mezzo» per far cessare l'«oppressione dovuta al dolore» (Såµkhyakårikå 1). Tale mezzo, si dice esplicitamente, non è quello rivelato dai Veda (cioè non è la pratica rituale e sacrificale). «Superiore [ai mezzi rivelati] è quel mezzo, diverso da essi, che proviene dalla conoscenza discriminativa (vijñåna) del manifesto (vyakta), dell'immanifesto (a-vyakta) e del conoscitore (jña) [cioè il purußa]» (Såµkhyakårikå 2). 2. Il Såµkhya è ritenuto uno dei darçana più antichi e conserva anche nel periodo “classico” molti tratti di arcaicità. Tracce significative di quello che viene chiamato «proto-Såµkhya» si trovano già nelle Upanißad, anche nelle più antiche.1 Alcune porzioni del Mahåbhårata (soprattutto la Bhagavadgîtå e il Mokßadharma)2 attestano come intorno all'inizio dell'era volgare il «proto-Såmkhya» avesse già sviluppato molte delle categorie che diverranno caratteristiche del Såµkhya “classico”.3 Una fase ulteriore e

1 La stessa dottrina di Uddålaka Åru±i (Chåndogya Up. VI, 2-5), secondo cui l'Essere nasce necessariamente dall'Essere e avrebbe tre manifestazioni, fuoco (rosso), acqua (bianco) e nutrimento (nero), può essere considerata un precedente della dottrina della preesistenza dell'effetto nella causa, e delle concezioni della prak®ti e dei tre gu±a (vedi sopra, Prologo). 2 Il Mokßadharma è una sezione del libro XII del Mahåbhårata. 3 Altre testimonianze del «proto-Såµkhya» si possono trovare nei trattati medici (soprattutto nella Carakasaµhitå) e nel XII canto del Buddhacarita di Açvaghoßa (si veda la tr. it. di A. Passi: Le gesta del Buddha, Milano 1979). In generale sul Såµkhya «pre-classico» e i suoi rapporti con il Såµkhya classico si possono vedere Johnston, E.H., Early

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più sistematica sarebbe rappresentata da uno o più testi ora perduti intolati Íaߥitantra. L'elegante opera di ¡çvarak®ß±a, la Såµkhyakårikå (350-450 d.C., d'ora in poi SK), costituisce una sintesi e al tempo stesso una rielaborazione delle dottrine precedenti. Essa svolge lo stesso ruolo che in altri darçana svolgono i sûtra di base. Tra i vari commenti antichi (noti sono soprattutto quello di Gau∂apåda del VI sec. e la Suvar±asaptati tradotta in cinese da Paramårtha sempre nel VI sec.) quello di gran lunga più importante è la Yuktidipikå,4 databile al VII sec. Tra i commenti più tardi spiccano quelli di due grandi dotti: Våcaspati Miçra (X sec.) e Vijñånabhikßu (XVI sec.). Soprattutto con quest'ultimo il Såµkhya subisce un processo di assimilazione, o meglio di subordinazione, al Vedånta.5 Nel seguito, dopo aver rapidamente tratteggiato la teoria dei gu±a e dei derivati della prak®ti, ci soffermeremo sui seguenti temi: 1) la teoria della preesistenza dell'effetto nella «causa materiale» (satkåryavåda), 2) il ruolo della buddhi nella relazione tra purußa e prak®ti. 3. Se, per ipotesi assurda, i purußa cessassero di esistere, la prak®ti cesserebbe di essere attiva. Infatti il processo creativo (sarga) è causato dall'«associazione» (saµyoga) o

Såµkhya, London 1937; Larson, G. Classical Såµkhya, Delhi 1979; Larson, G. - Bhattacharya, R. S. (eds.), Såµkhya: A Dualist Tradition in Indian Philosophy, Princeton 1987. 4 Edita per la prima volta nel 1938. 5 Un elenco esaustivo e una articolazione in tendenze delle opere della tradizione Såµkhya si può trovare in Larson, G. - Bhattacharya, R. S. (eds), Såµkhya cit., pp. 14-18.

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compresenza dei due principi, associazione che è come quella di uno zoppo (il purußa immoto) con un cieco (la prak®ti priva di coscienzialità).6 L'attività della cieca prak®ti è dovuta al movimento incessante dei suoi tre costituenti fondamentali, i tre gu±a, che, senza la presenza del purußa, resterebbero in una condizione di equilibrio inattivo. I gu±a sono il sattva (il bianco e luminoso, il tranquillo, l'intelligibile, ecc.), il rajas (il rosso, l'eccitato e dinamico, l'instabile, ecc.), e il tamas (l'oscuro, l'inerte, l'errore, ecc.). Nelle SK gli evoluti elementari della pråk®ti - i tattva - sono ventitre. Aggiungendo il purußa e la prak®ti i principi enumerati sono dunque venticinque. È probabile che la denominazione «Såµkhya» (lett.: «calcolo») tragga origine da questa e da altre «enumerazioni» analoghe. Contrariamente a quanto può far supporre la traduzione di prak®ti con «natura», il movimento di emergenza della prak®ti dallo stato immanifesto e primordiale (mûla-prak®ti, lett. prak®ti-radice) allo stato manifesto non comincia dagli elementi «grossi» per passare poi agli elementi «sottili» e così via. Al contrario, il primo derivato è proprio l'elemento che sta assiologicamente all'apice della catena dei derivati: la buddhi (spesso il termine viene reso con «intelletto»), che, come si vedrà, ha un ruolo decisivo nel processo di “liberazione” del purußa. Seguono il senso dell'io (ahaµkåra) e il sensorio comune (manas), le cinque facoltà di senso (udire, toccare, vedere, gustare, odorare), le cinque facoltà d'azione (parlare, afferrare, muoversi, evacuare, procreare), i cinque elementi sottili (suono, contatto, forma, gusto, odore) e infine i cinque elementi grossi (“etere”, aria, fuoco, acqua, terra).

6 Vedi SK 21.

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Parte seconda: 3. Il Såµkhya della Såµkhyakårikå 67

Si è voluto dare l'intero elenco dei venticinque tattva, pur senza discutere il dettaglio della loro derivazione, perché esso costituisce una sorta di patrimonio o lessico comune delle dottrine indiane. La portata di questa osservazione può in realtà essere estesa fino a dire che il Såµkhya stesso costituisce una specie di “dottrina generale”, un presupposto - da accettare o da rifiutare polemicamente - sempre presente sullo sfondo degli altri sistemi filosofici.7 4. «Poiché (a) non si dà produzione di ciò che non esiste (asat), poiché (b) si dà selezione del materiale, poiché (c) non si dà originazione di qualcosa da qualsiasi altra, poiché (d) la produzione del[l'effetto] possibile è propria di ciò che può [produrlo], e poiché (e) l'effetto ha la stessa essenza della causa: [per questi motivi] l'effetto preesiste nella causa» (SK, 9). Così ¡çvarak®ß±a formula l'importante teoria della preesistenza dell'effetto nella sua causa (sat-kårya-våda). Si tratta di una teoria della causalità che viene spesso descritta come teoria dell'identità dell'effetto e della causa, o in questo caso, più precisamente, della produzione dell'effetto come «trasformazione» (vikåra) della causa materiale. Tutto ciò che si produce preesiste allo stato latente nella sua causa materiale, dato che (a) non si può produrre ciò che non esiste già, (b) per produrre un vaso si deve ricorrere all'ar-gilla, e (c, d) dal chicco di riso non nasce qualcosa di diverso dal riso, ad es. il grano. L'effetto è sì “reale”, ma (e)non è essenzialmente diverso dalla sua causa (materiale).8

7 Su questo punto insiste Torella, R., Såµkhya as såmånyaçåstra, in «Asiatische Studien/Études Asiatiques» 53/3 (1999) pp. 553-562. 8 Contrariamente all'accusa portata dai pensatori del Nyåya, il Såµkhya conosce anche la nozione di «causa efficiente».

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Questa teoria “fortissima” della causalità apparenta il Såµkhya all'Advaita Vedånta (dove però l'effetto non è “reale”) e lo contrappone al Nyåya-Vaiçeßika (l'effetto è nuovo e diverso rispetto alla causa), così come alle varie correnti buddhiste (che sostengono discontinuismo e istantaneismo nel rapporto tra causa ed effetto) e allo scetticismo radicale dei Cårvåka (secondo i quali i rapporti tra quelli che percepiamo come «cause» ed «effetti» sono accidentali). La teoria della preesistenza dell’effetto nella causa è decisiva per riservare alla prak®ti (nella forma dei suoi tre gu±a) il ruolo di causa ultima (pradhåna) e unica del manifesto e delle sue trasformazioni. Da ciò si deduce che questa teoria è motivata, più che dal desiderio di rendere conto del processo causale, da preoccupazioni ontologiche.9 Tutti i derivati sono preesistenti eternamente nella prak®ti, la cui esistenza evita il regressus ad infinitum. Non c'è dunque bisogno di postulare un Dio creatore (come invece avverrà in altri sistemi) o altre cause, né, soprattutto, di attribuire alcuna causalità o attività al purußa.10 5. Il purußa è coscienzialità pura o, come dice con precisione la Yuktidipikå,11 «potenza di coscienza» (cetanå-çakti), mentre la prak®ti non è dotata di coscienza (è a-cetana): come può dunque la buddhi, un derivato della

9 Su questo punto si veda Halbfass, W., On Being and What there is. Classical Vaiçeßika and the History of Indian Ontology, Albany1992, pp. 58 sgg. 10 Vedi ad es. il commento di Gau∂apåda alla strofa 61: «come è possibile che le creature, le quali sono provviste degli elementi costitutivi, siano create da Dio che ne è privo, o dall'anima [cioè il purußa] che ne è altrettanto priva? Onde la causalità appartiene alla stessa natura» (tr. di C. Pensa). 11 Ad es. nel commento a SK 1.

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prak®ti, essere capace di conoscenza discriminativa e di intelligenza? Viceversa, come può il purußa, che è inattivo, accogliere le esperienze che la buddhi gli porge? Questo interrogativo non cesserà di tormentare i filosofi del Såµkhya, che, attraverso varie fasi, elaboreranno una teoria del «riflesso» (pratibimba) e del «mutuo riflesso» (anyonya-pratibimba) per descrivere la relazione tra la buddhi e il purußa.12 Tale relazione ha un'importanza decisiva anche nel processo di “liberazione” - come si può vedere nelle ultime strofe delle SK riportate nella sezione antologica - giacché questo avviene in virtù di un atto conoscitivo che si attua non nel purußa, ma nella buddhi. La prak®ti attiva è immaginata come una danzatrice, il purußa come lo spettatore. Tutto ciò che avviene - le trasformazioni della prak®ti, l'acquisizione del merito, la stessa dolorosa trasmigrazione del «corpo sottile» - è una danza che la prak®ti compie «a favore del purußa» (purußårtha). L'atto conclusivo di questa danza si ha quando la danzatrice «sa» di essere «vista», ossia quando la buddhi conosce discriminativamente la differenza tra manifesto/immanifesto e conoscitore. Solo allora la prak®ti cessa la sua attività, lasciando il purußa nel suo definitivo isolamento. Il purußa viene così generosamente sollevato anche dell'unica azione che sembrerebbe competergli, cioè quella di “raggiungere” lo stato di isolamento (kaivalya).

12 Le due teorie saranno esposte rispettivamente da Våcaspati Miçra e Vijñånabhikßu.

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4.

L'ontologia del (Nyåya-)Vaiçeßika. 1. Che cosa è “reale”? Che cosa “c'è” veramente? Sono questi gli interrogativi che orientano la ricerca del darçana chiamato Vaiçeßika. Si tratta di un sistema filosofico realista e pluralista. Il suo obiettivo è quello di identificare ed enumerare esaustivamente, tramite l’analisi, gli elementi della realtà non ulteriormente riducibili. Ad un primo livello di analisi il Vaiçeßika classifica ciò che esiste in termini di sei padårtha («significati», o «oggetti di parola»; spesso si traduce con «categorie»): 1) sostanza (dravya), 2) qualità (gu±a), 3) azione o movimento (karman), 4) universalità (såmånya), 5) particolarità (viçeßa), 6) inerenza (samavåya). Le sostanze sono 9; le qualità 17 (o più); 5 (o più) i movimenti. Si noterà che gli ultimi tre padårtha sono eterogenei rispetto ai primi tre. A un secondo livello l'analisi scompone ulteriormente alcune delle sostanze (le prime quattro: terra, acqua, fuoco e aria) in atomi (a±u o paramå±u), eterni e invisibili. L'atomismo è un tratto caratteristico, se pur non esclusivo, del Vaiçeßika.1

1 Pertanto non è forse un caso che il nome con cui è noto l'autore del testo di base della scuola (i Vaiçeßika-sûtra), e cioè «Ka±åda» (che si potrebbe tradurre come “Il mangia-particelle”, “Il mangia-semi”)

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2. Oltre ai Vaiçeßika-sûtra (d'ora innanzi VS) la cui composizione risale ai primi secoli dell'era volgare, l'opera più autorevole della scuola è il Padårtha-dharma-saµgraha di Praçastapåda (V-VI sec.), che non è un commento ai sûtra, ma un'opera originale che si discosta in vari punti dall'opera di base (per esempio presenta 24 «qualità» rispetto alle 17 dei VS). Si può anzi dire che il “sistema” di Praçastapåda costituisca il punto di partenza per gli ulteriori sviluppi della scuola.2 Minore influenza ha avuto il Daça-padårtha-çåstra di Candramati (V sec.), perduto nell'originale sanscrito e a noi noto attraverso una traduzione cinese. Come indica il titolo (Trattato delle dieci categorie), in quest'opera il numero delle categorie è elevato a dieci, grazie a quattro aggiunte di notevole interesse teorico: “universalità limitata” (såmånyaviçeßa),3 “potenzialità” e “non-potenzialità” (çakti e a-çakti) e non-essere (a-bhåva).4 Il più antico commento ai VS a noi giunto sembra essere quello di Candrånanda (secondo Halbfass forse del IX-X sec.). Un importante commento all'opera di Praçastapåda è la Vyomavatî di Vyomaçiva.

contenga un accenno, verosimilmente ironico, alla sua dottrina. Un altro nome per l'autore dei Vaiçeßika-sûtra è Ulûka. 2 Si può addirittura ipotizzare, per esempio, che la lista delle sei «categorie» risalga a Praçastapåda, poiché nei VS le categorie erano originariamente, con ogni probabilità, solo le prime tre. 3 W. Halbfass propone di interpretare il termine come “universale per se”, “esistenza” (On being and what there is. Classical Vaiçeßia and the History of Indian Ontology, Albany 1992, p. 72). 4 La categoria di a-bhåva viene aggiunta come settima e ultima categoria anche in un'opera del XII sec., la Saptapadårthî (Le sette categorie) di Çivåditya.

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Nel corso della seconda metà del I millennio il Vaiçeßika tende a fondersi, in un rapporto di complementarità, con il Nyåya. In altri termini, il Vaiçeßika contribuisce con la sua sviluppatissima ontologia a completare l'epistemologia e la logica tipiche del Nyåya. Gli studiosi sono perciò propensi a parlare di un'unica scuola, il Nyåya-Vaiçeßika. Nelle pagine che seguono si cercherà di mettere in luce due degli aspetti più controversi della dottrina Vaiçeßika, la teoria degli aggregati e la teoria della causalità. 3. Il realismo atomista del Vaiçeßika doveva cercare di rispondere alla sfida portata dai buddhisti, che negavano la realtà degli interi compositi o aggregati. Secondo il Vaiçeßika, gli oggetti forniti dalla percezione sensoriale sono costituiti in ultima analisi da atomi, che sotto la spinta di una forza invisibile (ad®ß¥a) si aggregano dapprima in diadi e poi in triadi di diadi - raggiungendo a questo punto la soglia della visibilità - e così via. Ora, il Vaiçeßika e il Nyåya affermano in generale che le totalità composte di parti costituiscono qualcosa di diverso e di nuovo rispetto alla semplice somma delle parti. Essi ammettono, infatti, che «c'è incertezza a proposito dell'intero (avayavin), perché [la sua esistenza] va provata» (NS II, 1, 33); tuttavia affermano che a questo dubbio si possono dare due risposte: in primo luogo, «se non si prova l'esistenza dell'intero, ne consegue che non si dà apprensione di nessuna cosa» (NS II, 1, 34); in secondo luogo, al di là di questa conseguenza paradossale, l'esistenza dell'intero è provata dal fatto che possiamo «tenerlo e spingerlo» (NS II, 1, 35). Rispetto, cioè, al mero ammasso delle parti, l'intero è dotato di qualità ulteriori e distintive: il carro dei buddhisti può essere «tenuto» e «spinto» in avanti, contrariamente all'eventuale

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mucchio dei suoi componenti (ruote, assi, ecc.). Se infine si vuole attaccare la teoria atomica adducendo per analogia i casi della foresta composta di alberi e dell'esercito composto di guerrieri, la risposta è che l'analogia non tiene, perché «a differenza degli esempi proposti, gli atomi sono [intrinsecamente] impercettibili» (NS II, 1, 36), cioè il rapporto tra atomi e intero è diverso da quello che intercorre tra elementi e insieme, in quanto questi ultimi sono entrambi visibili. 4. La teoria secondo cui l’«aggregato» (avayavin) è qualcosa di nuovo rispetto alla somma delle «parti» (avayava) pone tuttavia rilevanti problemi a livello ontologico. Essa è infatti in aperto contrasto con la teoria della preesistenza dell’effetto nella causa (satkåryavåda), sostenuta ad esempio dal Såµkhya. Infatti tale concezione implica che qualcosa che «non c'era» giunga all'esistenza: dunque il prodotto (in questo caso il tutto) non preesiste nella sua causa materiale (in questo caso le parti). Il (Nyåya-)Vaiçeßika non indietreggia di fronte a questa conseguenza, e sostiene apertamente che l'effetto non è “reale” già nella causa. Né esso può essere, come sostengono alcuni, sia reale che non reale: «poiché il reale e l'irreale sono eterogeni, la realtà e la non-realtà non possono coesistere nell'effetto [prima della sua produzione]» (VS IX, 8, 12). Dato poi che prima della sua produzione non si dà alcuna percezione dell'effetto (VS IX, 8, 7) - percezione che ne attesterebbe la realtà - se ne conclude che prima della sua produzione l'effetto è solo irreale.5 Questa dottrina è nota come a-satkåryavåda, e costituisce un importante tentativo di affrontare il problema del divenire, alternativo

5 Si veda il brano riportato nella sezione antologica.

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all'idea che il divenire sia solo una trasformazione (vikåra) di una sostanza che resta tuttavia eternamente identica a se stessa.6 Il divenire, secondo il (Nyåya-)Vaiçeßika, è passaggio dall’irreale al reale, è un giungere all’esistenza di qualcosa che prima non c’era.

6 Wilhelm Halbfss suggerisce per questa opposizione un modello tratto dalla riflessione linguistica indiana: la distinzione che Patañjali il grammatico fa tra vikåra (trasformazione) e ådeça (sostituzione) (Halbfass, On being cit., p. 57).

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5.

Epistemologia e logica II: Dignåga.

1. «Ci sono soltanto due mezzi di conoscenza (pramå±a), e cioè la percezione sensoriale (pratyakßå) e l'inferenza (anumåna), perché gli altri, come la parola autorevole, l'analogia, ecc. sono contenuti in questi due».1 Parte da qui, si potrebbe dire, la polemica del buddhista Dignåga (V-VI sec.) contro l'epistemologia del Nyåya (e in generale delle scuole bråhma±iche): i pramå±a indipendenti non sono quattro, ma solo due, perché gli altri si riducono a quelli. Infatti la «parola autorevole» si fonda essa stessa sulla percezione di qualcuno, mentre l'«analogia» non è che un caso di inferenza. La conseguenza implicita di questa riduzione era, naturalmente, che la «rivelazione» non poteva essere invocata per fondare l'esistenza di enti soprasensibili. Per Dignåga la percezione sensoriale (pratyakßå) è un mezzo di conoscenza valido in quanto essa fornisce una conoscenza pura, immediata, libera da ogni costruzione mentale (kalpanå). Sono le costruzioni mentali e linguistiche infatti che, sovrapponendosi alla percezione e interferendo con essa, causano l'errore. Oggetto della percezione sensoriale è la «caratteristica propria» (sva-lakßana) del

1 Tucci, G. (ed. e tr.), Nyåyamukha of Dignåga, in "Materialien zur Kunde des Buddhismus" 15, Heidelberg 1930, p. 50.

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percepito. È questa, per Dignåga, la conoscenza per eccellenza. Ogni atto percettivo è puntuale, così come è puntuale la conoscenza che esso produce. Tuttavia a questa conoscenza si accompagna sempre, per Dignåga, la percezione di sé in quanto percipiente: l'atto percettivo è così distinto in due momenti - percezione immediata dell'oggetto e autocoscienza del percipiente - che Dignåga chiama le due «forme del conoscere».2 2. Stando alle notizie biografiche che ci sono giunte, Dignåga sarebbe nato alla fine del V secolo vicino a Kañchi, nell'India meridionale, da famiglia bråhma±ica. Si sarebbe fatto monaco buddhista e, insoddisfatto dell’insegnamento dei suoi maestri, si sarebbe recato nell'India settentrionale per divenire discepolo di Vasubandhu. Scrisse varie opere di epistemologia e di logica. Il suo capolavoro è il Pramå±asamuccaya. Altre opere importanti sono l'Hetucakra∂amaru e il Nyåyamukha. Suo successore fu Dharmakîrti (autore del Pramå±avårttika), che finì per oscurarne la fama. Altri autori notevoli della scuola logica buddhista furono Dharmottara, Çåntarakßita e Kamalaçîla. 3. Oltre al pratyakßa Dignåga accetta, come si è visto, un mezzo di conoscenza indiretto: l’inferenza (anumåna). Naturalmente l'inferenza, coinvolgendo l'attività della mente, corre continuamente il rischio di essere inficiata dalle costruzioni mentali. Il compito che Dignåga si assume è

2 Si veda Pramå±asamuccaya I, 11-13, in Frauwallner, E., Die Philosophie des Buddhismus, Berlin 1969, pp. 393-4.

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dunque quello di purificare il processo inferenziale da qualunque intromissione arbitraria. Il primo passo da lui compiuto consiste nel distinguere tra l'inferenza «per se stessi» e quella «per un altro». Quella di cui ci si deve occupare speculativamente è ovviamente la prima, poiché è priva delle preoccupazioni comunicative proprie della seconda. Ebbene, dice Dignåga, lo schema inferenziale «per se stessi» non è a cinque membri come quello classico del Nyåya, ma è a tre membri: i primi tre, visto che altri gli due sono ridondanti. Dopo aver così “ripulito” lo schema inferenziale da ciò che non è ad esso pertinente, Dignåga compie un deciso passo in avanti verso la risoluzione dell'ambiguità (tra deduzione e induzione) intrinseca allo schema, enunciando la regola dei tre membri (trairûpya): «È evidente che questa è l'unica regola d'inferenza valida: se 1) la presenza di questo segno caratteristico [liºga] definito è stata constatata nel soggetto [pakßa], e se ricordiamo che 2) lo stesso segno caratteristico è certamente in tutto ciò che è simile al soggetto [sapakßa], ma 3) assolutamente assente in tutto ciò che è diverso da esso [vipakßa], allora il risultato dell'inferenza è certamente valido».3 È evidente che il punto decisivo di questo passo risiede nell'uso del termine «tutto»: la validità dell’inferenza poggia sulla verifica che il «segno caratteristico» definito sia presente in tutti i «membri della classe del soggetto» (sapakßa) e sia simultaneamente assente in tutto ciò che «non appartiene a quella classe» (vipakßa). Dignåga continua poi passando in rassegna tutte le possibilità: in linea teorica un «segno caratteristico» può infatti essere presente a) in tutti i sapakßa, b) in qualche sapakßa, c) in nessuno dei sapakßa. Lo stesso dicasi per i

3 Tucci, G. (ed. e tr.), Nyåyamukha cit., p. 44.

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vipakßa. Combinando in tutti modi possibili si ottengono, per la coppia sapakßa/vipakßa, nove possibilità, che costituiscono quella che Dignåga chiama la «ruota delle ragioni» (hetu-cakra). Di queste nove combinazioni, Dignåga mostra come solo due costituiscano la base dell'inferenza valida, e cioè 1) quella in cui il segno caratteristico si trova in tutti i sapakßa e in nessun vipakßa, e 2) quella in cui il segno caratteristico si trova in qualche sapakßa e in nessun vipakßa. 4. È impossibile discutere qui i passaggi successivi della storia della logica indiana.4 Si ricorderà soltanto che ci furono tentativi di intendere in senso estensionale l'«invariabile concomitanza» tra i sapakßa e il liºga (teoria della «pervasione», vyåpti) e che da parte jaina venne enunciato il criterio della «non-occorrenza altrove» (anyathånupapannatva).

4 Per i quali si vedano Matilal, B.K., The Character of Logic in India, Albany (NY) 1998 e Bochenski, J.M., La logica formale, vol. II (1956), tr. it. Torino 1972.

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6.

Filosofia del linguaggio: Bhart®hari. Filosofia della parola rituale: la Mîmåµså.

I. Bhart®hari 1. La tradizione bråhma±ica fu sempre interessata al tema del linguaggio. Ciò non può stupire, data la necessità, da parte bråhma±ica, di preservare l'eredità del parola vedica. Tra le scienze vediche sussidiarie (vedåºga) ben presto fiorirono l'etimologia e la grammatica (vyåkara±a), che ebbe carattere al contempo normativo e descrittivo. Il progressivo affermarsi della lingua sanscrita come lingua dotta delle classi dominanti rese poi indispensabile una codificazione del suo uso. Da questo tipo di esigenze trasse origine il grandioso edificio grammaticale di På±ini (IV-III sec. a.C.), che con l'Aߥådhyåyî fissò una volta per tutte le regole normative del sanscrito e fornì un esempio formidabile di che cosa sia la descrizione linguistica. L'opera di På±ini fu commentata da Patañjali nel suo Mahåbhåßya (forse del I sec. a.C.), un'opera che presenta già una notevole problematica filosofica. Erede di questa tradizione fu, nell'età della filosofia sistematica, Bhart®hari (V sec d.C.), che cercò di elevare la scienza grammaticale al rango di darçana. Ciò comportò il

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tentativo di dimostrare che «la grammatica è la porta che conduce alla liberazione» (Våkyapadîya 1, 14). Le opere filosofiche principali di Bhart®hari sono il Våkyapadîya (La parola e la frase, d'ora innanzi VP) e il commento al Mahåbhåßya di Patañjali. 2. Le parole esistono? La risposta a questo interrogativo non è affatto scontata nell'ambito dell'ontologia indiana. La parola, infatti, non solo si presenta come un tutto costituito di parti (il che come sappiamo ha implicazioni notevoli sul suo statuto ontologico), ma le sue parti (i fonemi) non soddisfano alla condizione essenziale di coesistere simultaneamente. Di fatto, quando pronunciamo una parola i fonemi si susseguono prendendo via via l'uno il posto dell'altro. I grammatici cercarono di risolvere i problemi teorici che nascevano dalla debolezza ontologica della parola distinguendo, nel linguaggio, ciò che è dotato di significato da ciò che invece, come i fonemi, non lo è. Per Bhart®hari, come già per Patañjali, il portatore del significato è un'entità “linguistica” diversa dall'insieme dei fonemi, chiamata spho¥a (lett. «sbocciamento», «esplosione» [del significato]). Come il Nyåya-Vaiçeßika aveva difeso le totalità composite dagli attacchi analitici dei buddhisti sostenendo che l’aggregato è ontologicamente superiore alla semplice somma delle sue parti, così Bhart®hari postula con lo spho¥a un'entità ontologicamente superiore alla semplice sequenza dei fonemi. Lo spho¥a non ha parti e non è soggetto a mutamento temporale. Ma che relazione può esserci tra lo spho¥a e la sequenza fonica? Quando il parlante intende comunicare un significato, nella sua mente la parola (o più precisamente, come si vedrà, la frase) è

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presente come spho¥a (VP 1, 44). Attraverso la mediazione di suoni non percepibili (dhvani), il parlante trasforma lo spho¥a immutabile e privo di parti in una sequenza di suoni «grossi» finalmente udibili (nåda). Il percorso inverso si compie dalla parte dell'ascoltatore. Per illustrare come sia possibile il passaggio da un'unità immutabile e priva di parti ad una sequenza temporale di suoni Bhart®hari usa l'esempio del riflesso nell'acqua: se l'acqua è agitata dalle onde, l'oggetto, che è immobile, sembra, nel riflesso, muoversi continuamente. Un altro esempio è quello del pittore, che dipinge come un'unica cosa ciò che vede e percepisce nel tempo in momenti inevitabilmente successivi (VP 1, 49-52). Un'analisi analoga vale, ad un livello superiore di segmentazione, per il rapporto tra le parole e la frase (våkya): per Bhart®hari anzi è proprio il våkya-spho¥a, lo spho¥a della frase, a costituire il vero portatore unitario del significato. Questo significato, esso stesso privo di parti, unitario e indivisibile, ha la natura della pratibhå, il «lampo intuitivo». 3. Ma la filosofia del linguaggio di Bhart®hari non intende limitarsi a queste importanti considerazioni. Infatti «la purificazione della parola è il mezzo per raggiungere il sé supremo. Chi ne conosce il principio di funzionamento ottiene il brahman immortale» (VP 1, 131). La “grammatica” si pone dunque come un percorso di liberazione, come uno yoga: il çabda-pûrva-yoga (lett.: «yoga preceduto dalla parola»). Il cammino previsto da questo yoga non è tuttavia delineato chiaramente nel VP, e dobbiamo ricorrere, per saperne di più, al commento (v®tti), la cui attribuzione allo stesso

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Bhart®hari è però incerta.1 Qui il cammino yogico è descritto come una sorta di percorso a ritroso rispetto a quello che si compie nella manifestazione cosmica (vivarta). Si parte, al livello più basso, dalla lingua come sonorità percepibile e sequenziale (vaikharî): la «purificazione della parola» a questo livello consiste nell'uso grammaticalmente corretto delle parole. Quindi, «dopo aver preso dimora nella parola che si trova oltre l'attività del respiro, dopo aver raggiunto la quiete in se stessi attraverso l'unità che risulta dall'eliminazione della sequenza, dopo aver purificato il discorso e averlo acquietato nella mente, dopo aver reciso i suoi legami ed averlo reso libero dai legami, dopo aver raggiunto la luce interiore, egli [cioè chi ha seguito questo percorso], si unisce con la Luce suprema».2 La Luce suprema è quella del Brahman, descritto, all'inizio del VP, come il principio del suono (çabdatattva) che attraverso la sua potenza di tempo e di spazio si manifesta e si dispiega (vivartate) nella molteplicità e nella sequenzialità temporale. Questo Brahman-suono è il fondamento della totalità del reale, che - secondo lo schema della causalità già riscontrato più volte - non è diverso da esso. Siamo di fronte, con Bhart®hari, ad una forma di non-dualismo (advaita) che non presuppone l'irrealtà del cosmo.

1 Sulla questione, e in generale sullo yoga linguistico, si veda Franci, G.R., Grammatica e liberazione. Appunti sullo yoga linguistico, in Diacronia, sincronia e cultura. Saggi linguistici in onore di L. Heilmann, Brescia 1984, pp. 91-114. 2 Commento a VP 1, 131. Traduco seguendo la tr. ingl. riportata in Coward, H.G. - Kunjunni Raja, K., The Philosophy of the Grammarians, (vol. 5 dell'Encyclopedia of Indian Philosophies curata da K. Potter), Princeton 1990, pp. 46-7.

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II. Filosofia della parola e del rito nella Pûrva-Mîmåµså. 1. Una via notevolmente diversa prese un'altra scuola bråhma±ica, anch'essa estremamente feconda di speculazioni sul linguaggio: la scuola esegetica della Pûrva-Mîmåµså (lett.: «Prima Indagine»). Essa ha certamente origini molto antiche, da ricercarsi forse nell'esegesi rituale che ritroviamo nei Bråhma±a.3 I suoi scopi principali sono due: in primo luogo, stabilire i criteri di corretta interpretazione della parola vedica ai fini della sua attuazione nel rituale; in secondo luogo, e soprattutto, difendere argomentativamente l'autorità dei Veda, e la insostituibilità per la liberazione delle loro «ingiunzioni», dagli attacchi mossi anche dalle scuole bråhma±iche (come abbiamo visto per esempio nel caso del Såµkhya). Per la Pûrva-Mîmåµså i Veda - la çruti, «ciò che è stato udito» - sono privi di autore e, perciò, eterni (nitya). Vedremo come da questo presupposto discendano conseguenze importanti riguardanti la filosofia del linguaggio. 2. I Mîmåµsaka non ammettono l'esistenza di un Dio creatore, che evidentemente comprometterebbe l'eternità dei Veda. Gli stessi dèi ai quali sono indirizzati i sacrifici sono in realtà ininfluenti per quel che riguarda l'efficacia del sacrificio: questo infatti è efficace di per sé, automaticamente; se i suoi effetti non sono percepibili, ciò non significa che siano inesistenti: sono invece ad®ß¥a, «invisibili». La caratteristica fondamentale del rito è di produrre qualcosa che prima non c'era (apûrva). Compiendo i riti eternamente prescritti (nitya-karman) si interviene sulla

3 I Bråhma±a sono testi ritualistici ed esegetici compresi nel corpus vedico.

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catena causale del karman e delle rinascite, e si può così godere di rinascite migliori per poi giungere alla liberazione dell'åtman immortale. 3. Il testo-base di questa scuola sono i Mîmåµsåsûtra (MS) di Jaimini (forse dell'inizio dell'era volgare). Il più antico commento a noi giunto è quello di Çabara (forse del IV-V sec.). Questo, a sua volta, fu commentato dai due principali filosofi Mîmåµsaka: Kumårila (VII sec.) - autore dello Çlokavårttika - e Prabhåkara (VII sec.). Da loro presero origine due diverse tradizioni di Mîmåµsaka, in forte opposizione tra loro perfino su punti dottrinariamente essenziali. 4. Il postulato dell'eternità e autosufficienza del Veda fa di questa scuola un sistema metafisico impenetrabile alla critica. Tuttavia le implicazioni di questo postulato andavano difese dalle obiezioni che venivano mosse dagli avversari. Ad esempio, se il Veda è eterno, anche il linguaggio in cui è espresso deve essere eterno. Un'intera sezione del primo libro dei MS (I, 1, 6-23) è dedicata alla difesa dell'eternità del suono (çabda). Le obiezioni degli avversari sono: che il suono (si intende: l'espressione linguistica) è prodotto, che è impermanente, che viene modificato da una sostanza materiale (quando si ha l'elisione o la assimilazione di fonemi contigui), che una stessa parola può essere pronunciata simultaneamente in luoghi diversi, ecc. A tali obiezioni si risponde che il suono è un'entità latente e non prodotta che si attualizza di volta in volta nell'espressione udibile e che, come il sole che splende da ogni parte, è ubiqua e può attualizzarsi ovunque. Contro la teoria dello spho¥a, tuttavia, i Mîmåµsaka (in particolare Kumårila)

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insistono sull'eternità della parola in quanto successione di fonemi (var±a). I fonemi stessi (non dunque i significanti come in Bhart®hari) sono eterni e ubiqui, il che non può essere contestato adducendo la loro imperfetta realizzazione sonora. Ma l'eternità del Veda implica anche che i significati siano eterni, e soprattutto che siano universali e non prodotti convenzionali (come ad esempio ritenevano i buddhisti). Ciò che lega la parola al suo significato non è dunque la convezione, ma una potenza intrinseca (çakti). Quanto alla referenzialità della parola: il referente della parola è l'åk®ti («forma»), non l'individuo. Si segnala infine un'interessante differenza di posizioni tra i seguaci di Kumårila e quelli di Prabhåkara a proposito del rapporto tra il significato complessivo della frase e i significati delle singole parole che la compongono: i primi sostengono che le parole di una frase esprimono in primo luogo i significati che sono loro propri, e solo in un secondo tempo questi si combinano a formare il significato della frase (teoria dell'abhihitånvaya). I secondi sostengono invece che il significato di ogni singola parola viene immediatamente modificato, nel momento stesso in cui viene pronunciata, da quelli delle parole che si trovano in relazione sintattica con essa (teoria dell'anvitåbhidhåna).

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7.

Il Kevalådvaita Vedånta di Çaºkara.

1. Se la Pûrva-Mîmåµså assume come oggetto di indagine il rito fondandosi sull'esegesi della parte rituale (kriyå-kå±∂a) dei Veda, la «seconda Mîmåµså» (Uttara-Mîmåµså) ha invece come oggetto il brahman, e si fonda sull'esegesi della parte dei Veda relativa al brahman (brahma-kå±∂a), ovvero le Upanißad, la sezione più speculativa e finale dei Veda (Veda-anta, «fine dei Veda»). Per questo motivo la «seconda Mîmåµså» viene chiamata più comunemente Vedånta. Difficilmente tuttavia si potrebbe affermare che il Vedånta costituisca una scuola. Le differenze tra i vari indirizzi che rivendicano il nome di Vedånta sono infatti enormi, nonostante tutti accettino la «triplice base» (prasthåna-traya) di testi autorevoli costituita, oltre che dalle Upanißad, dai Brahmasûtra e dalla Bhagavadgîtå. Le diverse posizioni di fondo vanno dal non-dualismo assoluto dell'Advaita Vedånta (il cui rappresentante più noto è Çaºkara, VIII sec.) al dualismo dello Dvaita Vedånta di Madhva (XIII-XIV sec.), passando per vari gradi intermedi, come il «non-dualismo qualificato» di Råmånuja (XI-XII sec.) e il bhedåbheda («non-differenza nella differenza») di Bhåskara. Nelle pagine che seguono si cercherà di tratteggiare rapidamente alcune delle principali dottrine di

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Çaºkara, l'autore del più antico commento ai Brahmasûtra a noi giunto (e che rientra nel limite cronologico da noi convenzionalmente adottato per questo volume). 3. Dei racconti in gran parte leggendari che trattano della vita di Çaºkara si può ritenere qui quanto segue: Çaºkara fu un brahma±o dell'India meridionale, nato probabilmente in Kerala; dopo aver scelto la vita del rinunciante, egli si sarebbe recato a Benares per approfondire gli studi; polemista acuto e finissimo, egli avrebbe girato l'India per dibattere pubblicamente contro avversari di ogni tipo, sia buddhisti sia appartenenti alle scuole bråhma±iche. Sempre vincitore, avrebbe non di rado "convertito" i suoi avversari alle sue dottrine. Dopo aver fondato importanti scuole a Ç®ºgeri (odierno Karnataka) e a Kañchi (odierno Tamil-Nadu), egli sarebbe morto all'età di trentadue anni.1 Nonostante la datazione tradizionale lo collochi a cavallo tra l'VIII e il IX secolo, l'opinione oggi prevalente è che egli sia vissuto nel secolo VIII. Gli sono attribuite decine di opere. La critica recente tende a considerare autentici, oltre al grande Commento ai Brahmasûtra, i commenti alle principali Upanißad e alla Bhagavadgîtå, nonché, almeno in parte, un'opera autonoma intitolata Upadeçasåhasrî. 4. Il punto di partenza e di arrivo della dottrina di Çaºkara è il brahman. Solo il brahman è reale: esso è non duale, eterno (nitya), privo di qualificazioni (nir-gu±a), non soggetto a cambiamento, assoluto (kevala). In conformità con l’insegnamento delle Upanißad, esso è 1) causa

1 Sulla vita di Çaºkara si veda Piantelli, M., Çaºkara e la rinascita del brahmanesimo, Fossano 1974; si veda anche Piantelli, M., Çaºkara e il Kevalådvaitavåda , Roma 1998.

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efficente e sostanziale del mondo, ma è anche 2) precondizione dell’esperienza, in quanto identico all’åtman, al «sé». Solo accostandosi a queste ultime due caratteristiche e alla loro articolazione si può comprendere la natura del brahman çaºkariano. Se infatti ci fermassimo alla prima caratteristica, ci troveremmo a concepire il brahman come pura sostanzialità indeterminata.2 Invece la caratteristica di essere precondizione dell’esperienza ci fa comprendere che il brahman non è la sostanzialità illimitata, ma è, essenzialmente e primariamente, coscienzialità (cit).3 Questo aspetto a volte non viene sufficientemente sottolineato nei compendi dedicati al pensiero di Çaºkara. Il brahman non può non essere coscienzialità, perché solo la coscienzialità è autonoma, indipendente: secondo un argomento già noto al Såµkhya, ciò che non è cosciente è necessariamente dipendente, perché dipende dalla coscienza di cui diventa oggetto. L’åtman-brahman, in quanto assoluto e indipendente, è dunque coscienzialità pura, precondizione della coscienza ordinaria. E tuttavia si tratta di una coscienzialità davvero sui generis. Essa è infatti radicalmente diversa dalla coscienza ordinaria (e per questo si è preferito usare il termine «coscienzialità»), in quanto non è occasionale, ma sussiste eternamente.4 Mentre infatti la

2 Si vedano, nella sezione “Filosofi moderni sul pensiero indiano”, le critiche di Hegel al concetto dell’assoluto quale viene espresso nella Bhagavadgîtå. 3 Anche se nelle opere di Çaºkara non compare mai la formula sintetica sac-cid-ånanda, che dopo di lui servirà a compendiare le caratteristiche (se così si possono chiamare) del brahman, è certo che Çaºkara concepì il brahman come essere (sat), coscienzialità (cit) e beatitudine o gioa (ånanda). 4 In questo l’Advaita Vedånta è in accordo con il Såµkhya, mentre si oppone tanto alle filosofie buddhiste quanto al Nyåya e alla Mîmåµså.

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coscienza ordinaria dipende dal presentarsi di oggetti e dall’attività dei sensi, la coscienzialità pura risplende indipendentemente dalla presenza di un oggetto. Ci possiamo fare un’idea di questo tipo di coscienza pensando al sonno profondo senza sogni (sußupti). In quella condizione la continuità della coscienza non viene meno (infatti al risveglio siamo coscienti di non avere sognato), eppure la coscienza non è diretta verso alcun oggetto. La coscienzialità pura, inoltre, non è essa stessa oggetto di coscienza, secondo l’argomento classico che una lampada non necessita di un’altra lampada per essere illuminata.5 Priva di oggetto, essa stessa non oggetto, la coscienzialità del brahman è, si potrebbe dire, pura soggettività. Siamo a questo punto in grado di apprezzare la celebre introduzione di Çaºkara al suo commento ai Brahmasûtra,6 dove viene analizzato il concetto di «sovrapposizione» (adhyåsa). L’argomento è il seguente: è purtroppo connaturato all'uomo il «sovrapporre» sul soggetto (che è naturato di coscienzialità e la cui sfera è la nozione di “io”), l’oggetto (la cui sfera è la nozione di “non-io”) e gli attributi dell’oggetto. Ciò è sbagliato, come è sbagliato, inversamente, sovrapporre sull’oggetto il soggetto e gli attributi del soggetto. Le due sfere sono assolutamente distinte «come la luce e il buio», e solo a causa dell'ignoranza (a-vidyå) noi operiamo l'erronea «sovrapposizione» dell'una sull'altra. In questo modo le limitazioni dell'oggetto vengono attribuite al soggetto puro, al brahman non duale. Per questo motivo pensiamo di essere soggetti conoscenti, agenti e fruitori (i cosiddetti jîva). In realtà l'åtman non conosce, non agisce, non fruisce.

5 Questo paragone si trova, ad esempio, in Upadeçasåhasrî I, 2, 71. 6 Riportata più avanti nella sezione “Esempi di testi filosofici”.

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Çankara interpreta così l'enigma dei due uccelli: «Due uccelli, stretti amici, abbracciano lo stesso albero. Uno di essi mangia la dolce bacca; l'altro, senza mangiare, guarda attentamente». 5. Il rapporto tra la sfera di pura soggettività dell'åtman-brahman e quella oggettiva non è, ovviamente, paritario. In certo qual modo il brahman è “causa” del mondo fenomenico, nel senso che lo “produce” per trasformazione identica (vivarta). Ma questa trasformazione non è reale. È un trasformarsi illusorio che si produce per effetto, sul piano “oggettivo”, della måyå, e, sul piano soggettivo, dell'avidyå. Esiste dunque un abisso ontologico tra il brahman e il mondo fenomenico: quest'ultimo scompare allorquando si conosce la propria identità con il brahman isolato (kevala), non duale (advaita). Come nel caso del Çûnyavådå di Någårjuna, anche il Kevalådvaita Vedånta di Çañkara fa propria la dottrina della doppia verità, e accorda una sorta di realtà relativa al mondo fenomenico, all'¡çvara (il Signore), al jîva, alla fruizione e all'azione. L'indagine sul brahman (brahmajijñåså)7 è diversa dall'indagine sul dharma, e ad essa infinatemente superiore: tuttavia anche nel Kevalådvaita resta la necessità di conformarsi, pur sul piano relativo, al dharma e alle sue regole.

7 Vedi Brahmasûtrabhåçya, commento al sûtra I, 1.

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Esempi di testi filosofici indiani

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Esempi di testi: 1. Någårjuna: la dottrina delle due verità 93

1. Någårjuna: la dottrina delle due verità. In questo brano Någårjuna espone la dottrina dei due livelli di verità, per rispondere alla critica di chi sostiene che è conseguenza del çûnyavåda che anche l’insegnamento del Buddha (a partire dalle “quat-tro Sante Verità”) sia vuoto. Il brano è tratto dalle Madhyamaka-kårikå, tradotte in italiano da Raniero Gnoli: Någårjuna, Le stanze del cammino di mezzo, Torino 1961; anche in Gnoli, R. (a cura di), Testi buddhisti in sanscrito, Torino 1983. 1. Se tutto questo mondo è vuoto, non v’ha allora né apparizione né sparizione di nulla: in conseguenza, per te, le quattro Sante Verità non esistono. 2. Non esistendo le quattro Sante Verità, la retta conoscenza, l’eliminazione, la realizzazione meditativa e l’esperienza diretta non son più logicamente possibili. 3. Non esistendo questi quattro momenti, non esistono i quattro santi frutti e, non esistendo i frutti, non esistono né residenti nei frutti né candidati. 4-5. La comunità non esiste, se questi otto personaggi non esistono. Non esistendo poi le quattro Sante Verità, non esiste neppure la buona legge, e, non esistendo né legge né comunità, come potrà esserci uno Svegliato? 5-6. Così, affermando la vacuità, tu rifiuti l’esistenza reale dei frutti, il bene e il male morali e tutto l’ordine pratico delle cose.

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7. A ciò noi rispondiamo: tu non comprendi né il fine della vacuità, né la vacuità, né il senso della vacuità. Per questo ti dai tanta briga. 8. L’insegnamento della Legge da parte degli Svegliati si svolge in base a due verità: la verità relativa del mondo e la verità assoluta. 9. Coloro che non discernono la differenza tra queste due verità, non discernono la realtà profonda insita nella dottrina degli Svegliati. 10. La realtà assoluta non può essere insegnata, senza prima appoggiarsi sull’ordine pratico delle cose: senza intendere la realtà assoluta, il nirvå±a non può essere raggiunto. 11. La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come il serpente male afferrato o una formula magica male applicata. 12. E per questo, la mente dell’Anacoreta si tirò addietro dall’insegnamento della legge, pensando alla difficoltà che avrebbero avuto gli uomini di corto vedere a penetrarla.

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Esempi di testi: 2. Någårjuna: critica dei mezzi di conoscenza 95

2. Någårjuna: critica dei mezzi di conoscenza. La posizione çûnyavåda di Någårjuna non può risparmiare i pramå±a, cioè i mezzi che dovrebbero permettere di stabilire la validità delle conoscenze. Il brano è tratto dalla Vigraha-vyåvartanî (La sterminatrice degli errori) nella traduzione italiana di A. Sironi (Någårjuna, Lo sterminio degli errori, a cura di A. Sironi, Milano 1992). 29. Se io avessi una qualche tesi, senza dubbio sarei vittima di questi controsensi. Io, senonché, non ho nessuna tesi, e quindi non mi si può imputare nessun controsenso. 30. Se io percepissi, mediante la percezione diretta, eccetera, qualcosa, l’ammetterei o la negherei. Ma, visto che nulla percepisco, la mia posizione è inobiettabile. 31. Se, inoltre, tu pensi che l’esistenza delle varie cose è stabilita dai mezzi di conoscenza, da che cosa, dí un po’, è stabilita l’esistenza dei mezzi di conoscenza? 32. Se tu pensi che l’esistenza dei mezzi di conoscenza è stabilita da altri mezzi di conoscenza, si cade evidentemente in un regresso all’infinito, e, stando così le cose, non si stabilisce l’esistenza del primo, non quella del mediano, non quella dell’ultimo. 33. Se, d’altro canto, tu pensi che l’esistenza dei mezzi di conoscenza è stabilita senza altri mezzi di conoscenza, tu vieni meno alla tua tesi, sei passibile dell’accusa di parzialità e devi addurre ragione di questa parzialità.

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34. Ma (tu dirai) a quel modo che il fuoco illumina se stesso e le altre cose, così i mezzi di conoscenza provano l’esistenza di se stessi e delle altre cose. 35. Quest’esempio (io ti rispondo) non quadra. Il fuoco, infatti, non illumina se stesso. Esso, infatti, non esiste prima all’oscuro, come un vaso, senz’essere percepito. 36. Se, come tu dici, il fuoco illuminasse, così come le altre cose, se stesso, esso, logicamente, dovrebbe allora bruciare se stesso. 37. Oltre a ciò, se il fuoco, come tu dici, illuminasse se stesso e le altre cose, anche la tenebra, allora, così come il fuoco, offuscherebbe se stessa e le altre cose. 38. La tenebra non sta nel fuoco né dove sta il fuoco. E come può dunque dirsi che il fuoco illumina? La luce infatti è un’offesa ed eliminazione della tenebra. 39. La tua tesi che il fuoco, nascente, illumina se stesso e le altre cose, è insostenibile. Il fuoco, nascente, non entra, infatti, in contatto colla tenebra. 40. Se, d’altro lato, tu pensi che il fuoco sopprime la tenebra, anche senza entrare in contatto con essa, il fuoco che sta qui dovrebbe allora sopprimere la tenebra di tutti i mondi. 41. Oltre a ciò, se tu pensi che l’esistenza dei mezzi di conoscenza è provata di per se stessa, essa lo sarà allora indipendentemente dalle cose conoscibili. Ciò infatti la cui esistenza è provata di per se stesso, non dipende da altro.

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Esempi di testi: 2. Någårjuna: critica dei mezzi di conoscenza 97

42. Se, per te, l’esistenza dei mezzi di conoscenza è provata di per se stessa, indipendentemente dalle cose conoscibili, questi mezzi di conoscenza non saranno più allora per te mezzi di conoscenza di qualche cosa. 43. Ma (dirà alcuno) se si ammette che l’esistenza dei mezzi di conoscenza dipende da quella della realtà conoscibile, a quale controsenso si va mai incontro? A questo - io rispondo - che uno stabilirebbe l’esistenza di una cosa che è già di per se stessa stabilita. Una cosa riconosciuta come esistente non dipende, infatti, da un’altra. 44. Se l’esistenza dei mezzi di conoscenza è, di regola, stabilita in dipendenza dalle cose conoscibili, l’esistenza delle cose conoscibili sarà allora stabilita di per se stessa, indipendentemente dai mezzi di conoscenza. 45. E se l’esistenza delle cose conoscibili è stabilita di per se stessa, indipendentemente dai mezzi di conoscenza, a che pro, allora, questi tuoi sforzi per stabilire l’esistenza dei mezzi di conoscenza? Perché? Ma perché ciò cui essi servono è già stabilito di per se stesso. 46. Se, d’altro lato, tu pensi che l’esistenza dei mezzi di conoscenza è stabilita dipendentemente dalle cose conoscibili, si ha, stando così le cose, un’inversione dei mezzi di conoscenza e del conoscibile. 47. Se, infine, tu pensi che l’esistenza delle cose conoscibili è stabilita mediante quella dei mezzi di conoscenza e quella dei mezzi di conoscenza mediante quella delle cose

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conoscibili, né l’esistenza degli uni né quella degli altri, per te, è allora più stabilita. 48. Se infatti l’esistenza delle cose conoscibili è stabilita mediante i mezzi di conoscenza e questi sono, a loro volta, stabiliti mediante le cose conoscibili, - come, dico, i mezzi di conoscenza potranno mai stabilire il conoscibile? 49. E se l’esistenza dei mezzi di conoscenza è stabilita mediante le cose conoscibili e queste sono a loro volta stabilite mediante i mezzi di conoscenza, - come, dico, le cose conoscibili potranno mai stabilire i mezzi di conoscenza? 50. Se il figlio è prodotto dal padre e se, a sua volta, il padre è prodotto dal figlio, chi è, dimmi, il produttore? e chi è il prodotto? 51. Qui chi è il figlio? e chi è il padre? E come, dimmi tu, posseggono ambedue i caratteri di padre e di figlio? Ciò è infatti per noi argomento di dubbio. 52. L’esistenza dei mezzi di conoscenza non è stabilita né di per se stessa, né reciprocamente tra di loro, né mediante altri mezzi di conoscenza, né in dipendenza delle cose conoscibili né senza causa.

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Esempi di testi: 3. I Vaiçeßikasûtra sulla cognizione dell’irrealtà 99

3. I Vaiçeßikasûtra sulla cognizione dell'irrealtà In questo brano, tratto dai Vaiçeßikasûtra, si dimostra, attraverso l’analisi delle cognizioni di “reale” e di “irreale”, che l’effetto non può preesistere nella causa. Vaiçeßikasûtra IX, 6-12 è stato tradotto in inglese da W. Halbfass in On being and what there is. Classical Vaiçeßika and the History of Indian Ontology, Albany 1992, pp. 244-6 (a cui si rimanda per un approfondimento). Si traduce qui da quella versione. 6. La cognizione «irreale» [sorge] perché non cè più la percezione di un'entità passata, a causa del ricordo di [questa] entità passata, e perché c'è qualcosa che contraddice [la continuità della sua esistenza]. 7. Perché, parimenti, c'è percezione dell'esistenza in riferimento a [ciò che era] inesistenza. 8. Questo spiega [anche] [il prefisso negativo a-, come in] a-gha¥a, «non-vaso», a-go, «non-mucca», e a-dharma, «non-dharma». 9. Non c'è differenza di significato [tra il soggetto e il predicato] ne[lla frase] «una non-entità [cioè ciò che non è mai presente] non esiste (abhûtaµ na asti)». 10. «Non c'è un vaso nella casa». Ciò nega la connessione di un vaso reale con la casa. 11. «Non c'è un'altra [cioè una seconda] luna». Ciò esclude che la luna [abbia un] universale.

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12. Poiché il reale e l'irreale sono eterogenei, la realtà e l'irrealtà non possono coesistere nell'effetto [prima che sia prodotto].

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Esempi di testi: 4. La relazione tra purußa e prak®ti nel Såµkhya 101

4. La relazione tra purußa e prak®ti nel Såµkhya di ¡çvarak®ß±a (Såµkhyakårikå 56-69). In questo brano di grande potenza immaginativa, posto quasi alla conclusione delle Strofe del Såµkhya, si noterà la fine descrizione del problematico rapporto tra purußa e prak®ti, che, in fondo, non viene pensato come un'unione, ma come una semplice compresenza: tutto (legame, rinascita, liberazione), avviene dal lato della prak®ti, che si esibisce come una danzatrice di fronte al purußa-spettatore, e cessa la sua esibizione non appena si accorge di essere stata vista, lasciando così il purußa nel suo isolamento (kaivalya). La traduzione è di C. Pensa (¡çvarak®ß±a, Le strofe del Såµkhya, Torino 1960), con qualche modifica. 56. Sicché questo sforzo in quanto vien fatto dalla prak®ti, a cominciare dalla mente fino agli elementi grossi specifici, avviene per la liberazione di ogni singolo purußa, cioè a vantaggio di un altro. 57. A quel modo che il latte insenziente funziona in vista della crescita del vitello, così la natura funziona in vista della liberazione del purußa. 58. L'immanifesto agisce per liberare il purußa non diversamente dalla gente comune che si adopera allo scopo di soddisfare il desiderio. 59. Come la danzatrice smette di danzare dopo essersi mostrata al pubblico, così la prak®ti cessa la sua attività dopo essersi manifestata al purußa.

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60. La prak®ti, che è generosa e provvista dei gu±a, con innumerevoli mezzi, senza alcun beneficio per sé, compie l'utile del purußa che è sprovvisto dei gu±a e non la ricambia in nulla. 61. Nulla, a mio vedere, è più sensibile della prak®ti; la quale, non appena è conscia di essere stata vista, non si porge più allo sguardo del purußa. 62. Perciò nessun purußa è legato o liberato né trasmigra. Non è altro che la prak®ti, con i suoi molti stadi, ad esser legata o liberata o a trasmigrare. 63. La prak®ti lega se stessa da se medesima per via di sette forme; per mezzo poi di un'unica forma si libera, compiendo così il fine del purußa. 64. Così, grazie all'esercizio sui principii, nasce una conoscenza la quale, atteso che (uno si dice): «Io non sono, nulla è mio, questo non sono io», è totale: questa conoscenza, non dandosi errore, risulta unica e pura. 65. In virtù di ciò il purußa, che se ne sta raccolto in se stesso al proprio posto come uno spettatore, vede la prak®ti che ha cessato di essere produttiva e che risulta svincolata dalle sette forme per aver finalmente compiuto lo scopo del purußa. 66. Il purußa, uno, è indifferente come uno spettatore di teatro; la prak®ti, una, cessa la sua attività, quando sa di essere stata vista. Malgrado il contatto esistente tra i due, non sussiste movente alla creazione.

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Esempi di testi: 4. La relazione tra purußa e prak®ti nel Såµkhya 103

67. Ottenuta la perfetta conoscenza, la virtù e le altre forme divengono improduttive, tuttavia per effetto degli impulsi carmici il corpo permane ancora, così come accade col movimento della ruota. 68. Avvenuta la separazione del corpo e avendo la prak®ti, poiché il suo fine è compiuto, cessato l'attività, il purußa perviene all'isolamento assoluto e definitivo. 69. Questa segreta conoscenza intesa a compiere il fine del purußa e nella quale sono considerate nascita, durata e dissoluzione degli esseri, è stata rettamente esposta dal sommo veggente.

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5. Çaºkara e la «sovrapposizione» (adhyåsa) Questo brano costituisce l'introduzione al Brahmasûtrabhaçya, l'opera principale di Çaºkara. Vi si enuncia compiutamente la teoria della «sovrapposizione». La traduzione italiana, compiuta sulla traduzione inglese di G. Thibaut (in Vedånta-Sûtras. With the Commentary of Çaºkaråcårya, vol. I, Oxford 1904 = SBE vol. 34), è di chi scrive. Che soggetto e oggetto, le cui rispettive sfere sono i concetti di “io” e di “tu”, e che sono tra loro opposti come la luce e il buio, non possano essere identificati, è una questione che non richiede prova. Né possono essere identificati i loro rispettivi attributi. Ne consegue che è sbagliato sovrapporre (adhyåsa) sul soggetto, che è naturato di coscienzialità e la cui sfera è la nozione di “io”, l’oggetto, la cui sfera è la nozione di “non-io”, e gli attributi dell’oggetto. E viceversa è sbagliato sovrapporre sull’oggetto il soggetto e gli attributi del soggetto. Ciononostante è da sempre connaturato all’uomo - e la causa di ciò risiede nell’errata conoscenza - il non distinguere i due campi e i loro rispettivi attributi, benché essi siano assolutamente distinti: e il sovrapporre invece a ciascuno la natura caratteristica e gli attributi dell’altro; e così, mettendo insieme il reale e l’irreale, fare uso di espressioni quali «Quello sono io» o «Quello è mio». Ma che cosa dobbiamo intendere con il termine «sovrapposizione» [adhyåsa]? L’affiorare alla coscienza, in forma di ricordo, di qualcosa osservato in precedenza in qualche altro luogo. Alcuni in verità definiscono il termine “sovrapposizione” come la sovrapposizione su una cosa degli attributi di un’altra cosa. Altri la definiscono come l’errore fondato sulla non apprensione della differenza tra

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Esempi di testi: 5. Çaºkara e la «sovrapposizione» 105

ciò che è sovrapposto e ciò su cui avviene la sovrapposizione. Altri ancora la definiscono come l’attribuzione fittizia di caratteristiche contrarie alla natura della cosa sulla quale avviene la sovrapposizione. Tutte queste definizioni concordano su un punto: che la sovrapposizione è il presentarsi apparente degli attributi di una cosa su di un’altra cosa. Con ciò concorda anche la concezione popolare che si esprime in frasi tipo «la madreperla appare come argento» o «la luna, benché unica, appare come fosse doppia».1 Ma come è possibile che sul Sé interiore, che non è esso stesso un oggetto, vengano sovrapposti degli oggetti e i loro attributi? Giacché ciascuno sovrappone un oggetto solo su oggetti che gli stiano di fronte (ossia in contatto con i suoi organi di senso), e tu hai detto prima che il Sé interiore, che è completamente slegato dall'idea del Tu (il Non-io), non è mai un oggetto. La risposta è che esso non è un non-oggetto in senso assoluto. Infatti esso è l'oggetto della nozione di Io, e l'esistenza del Sé interiore è conosciuta in ragione del suo presentarsi immediatamente all'intuizione. D'altra parte non è neppure una regola senza eccezione quella secondo cui gli oggetti possono essere sovrapposti solo su altri oggetti che siano di fronte a noi, cioè in contatto con i nostri organi di senso; infatti gli uomini privi di discernimento sovrappongono all'etere, che non è oggetto di percezione sensibile, il colore blu.2

1 Çaºkara si riferisce a due tipici esempi di errore percettivo: la madreperla scambiata per argento e la luna vista come duplice da chi ha un difetto di vista (una malattia chiamata timira). 2 Cioè, guardando il cielo, pensano che l'etere (åkåça) - che non è percettibile - sia blu.

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Ne consegue che l'assunto secondo cui il Non-sé viene sovrapposto al Sé interiore non è irragionevole. La sovrapposizione quale è stata ora definita, i dotti la considerano Nescienza (a-vidyå), mentre chiamano conoscenza (vidyå) l'accertamento della vera natura del Sé per mezzo della discriminazione di ciò che è sovrapposto al Sé. Essendoci tale conoscenza, [né il Sé né il Non-sé] sono affetti da qualità negative o positive dovute alla loro mutua sovrapposizione. La mutua sovrapposizione di Sé e Non-sé, che viene chiamata Nescienza, è il presupposto su cui si basano tutte le distinzioni pratiche - sia quelle della vita ordinaria sia quelle indicate dai Veda - tra mezzi di conoscenza, oggetti di conoscenza [e soggetti conoscenti], nonché tutte le scritture, che trattino di ingiunzioni o di proibizioni [di azioni meritorie o non meritorie], o della liberazione finale. Ma [si domanderà], come possono i mezzi di conoscenza come la percezione sensoriale, l'inferenza, ecc., e le scritture avere come oggetto ciò che dipende dalla Nescienza? La risposta è che i mezzi di conoscenza non possono operare se non c'è una personalità conoscente, e che l'esistenza di quest'ultima dipende dall'erronea concezione che il corpo, i sensi ecc. siano identici al Sé della persona conoscente o gli appartengano. Infatti senza l'impiego dei sensi la percezione sensibile e gli altri mezzi di conoscenza non possono operare. E senza una base [ossia il corpo] i sensi non possono agire. D'altra parte nessuno agisce per mezzo di un corpo sul quale non sia sovrapposta la natura del Sé. Né, in assenza di ciò, il Sé - che per sua natura è libero da ogni contatto - può diventare un agente conoscente. E se non c'è un agente conoscente, i mezzi di conoscenza non possono operare [come si è detto sopra]. Pertanto la percezione sensibile e gli altri mezzi di

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Esempi di testi: 5. Çaºkara e la «sovrapposizione» 107

conoscenza e i testi vedici hanno per oggetto ciò che dipende dalla Nescienza. [Il fatto che l'attività cognitiva umana abbia come presupposto la sovrapposizione sopra descritta] segue anche dalla non-differenza, sotto questo profilo, tra l'uomo e gli animali. Gli animali, quando sono toccati nell'udito o in altri sensi da un suono o altra qualità sensibile, avanzano o indietreggiano a seconda che l'idea prodotta dalla sensazione sia rassicurante o impaurente. Per esempio, se una vacca vede che un uomo le si avvicina con il bastone alzato, pensa che questi la voglia battere, perciò fugge; mentre si avvicina a un uomo che le porga dell'erba fresca. Allo stesso modo gli uomini - che pure possiedono un'intelligenza superiore - fuggono via allorché vedono avvicinarsi altri uomini forti e dall'aspetto feroce che gridano e impugnano spade; mentre si avvicinano fiduciosamente a persone che mostrino atteggiamenti e comportamenti opposti. Vediamo così che uomini e animali seguono il medesimo modo di procedere in rapporto ai mezzi e agli oggetti di conoscenza. Ora, è noto che il modo di procedere degli animali si basa sulla non-distinzione [tra Sé e Non-sé]; ne concludiamo che, visto che presentano le stesse apparenze, anche gli uomini - per quanto distinti da intelligenza superiore - procedono in relazione alla percezione sensibile ecc. nello stesso modo degli animali; fintantoché, cioè, dura la mutua sovrapposizione di Sé e Non-sé. Riguardo poi, di nuovo, a quel tipo di attività che è fondata sul Veda [sacrifici e simili], è certamente vero che l'uomo di riflessione che sia qualificato a compierla non lo fa senza sapere che il Sé ha relazione con un altro mondo. E tuttavia la sua qualificazione non dipende dalla conoscenza, derivabile dai testi vedåntici [cioè le Upanißad], della vera natura del Sé in quanto libero da tutti i bisogni

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ed innalzato sopra le distinzioni tra le classi dei bråhma±a e degli kßatriya e così via, e trascendente l'esistenza trasmigrante. Infatti questa conoscenza è, rispetto alla pretesa [dei sacrificatori, ecc. di compiere certe azioni e goderne i frutti] inutile e persino contraddittoria. E prima che questa conoscenza del Sé sia sorta, i testi vedici continuano nella loro operazione, cioè ad avere per oggetto ciò che dipende dalla Nescienza. Infatti i testi che dicono, ad esempio, che «un bråhma±a deve compiere i sacrifici» sono operativi solo se supponiamo che sul Sé siano sovrapposte condizioni particolari come casta, stadio di vita,3 circostanze esteriori, e così via. [...] Sono sovrapposti al Sé attributi extrapersonali allorquando un uomo si considera sano e integro, o l'opposto, fintantoché sua moglie, i suoi figli ecc. sono sani e integri o l'opposto. Sono sovrapposti al Sé [...] attributi degli organi di senso allorquando egli pensa «sono muto, o sordo, o orbo, o cieco». Attributi dell'organo interno allorquando si considera soggetto al desiderio, all'intenzione, al dubbio, alla determinazione e così via. Quindi ciò che produce la nozione di Io [cioè l'organo interno] è sovrapposto al Sé interiore, che, in realtà, è il testimone di tutte le modificazioni dell'organo interno, e viceversa il Sé interiore, che è il testimone di tutto, è sovrapposto all'organo interno, ai sensi e così via. In tal modo procede questo cominciamento naturale - e la sovrapposizione senza fine, che appare nella forma di concezione erronea, è la causa del fatto che le anime

3 Cioè uno dei quattro åçrama, secondo la regola che prevede il passaggio dalla condizione di brahmåcårin, a quella di g®hastha, poi di vanapråߥha e di saµnyåsin.

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Esempi di testi: 5. Çaºkara e la «sovrapposizione» 109

individuali appaiono come agenti e fruitore [dei risultati delle loro azioni], e ciò lo può osservare chiunque. Lo studio dei testi del Vedånta comincia dunque con l'idea di liberarsi di quell'erronea nozione che è la causa di ogni male, e di raggiungere così la conoscenza dell'assoluta unità del Sé.

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6. Çåntarakßita sulla non esistenza di Dio. Nel brano che segue (Tattvasaµgraha 72 ss.) troviamo un'interessante applicazione dello schema inferenziale, da parte del filosofo buddhista Çåntarakßita (sec. VIII), per discutere il problema dell'esistenza di Dio. La traduzione italiana è tratta, con qualche modifica, da Tucci, G., Storia della filosofia indiana, Bari 1957, pp. 326 ss. Voi [assertori dell'esistenza di Dio] non soltanto desiderate provare che [il mondo è] stato preceduto da un Ente intelligente, ma altresì che esiste un'entità detta Dio la quale è eterna, una, sostrato dell'intelligenza eterna e onnisciente, causa dell'Universo. Voi desiderate provare che Egli è anteriore al mondo. Esso è l'oggetto della presente discussione. L'esistenza di siffatta entità non può essere provata perché nel vostro ragionamento manca la invariabile concomitanza in quanto esso è privo del probandum; [il mondo ha un fattore intelligente, esempio omologo: come l'orcio; esempio differente: non come l'atomo]; infatti in ogni esempio omologo "come l'orcio" e altre cose simili farebbe difetto l'analogia (il vasaio non potrebbe avere gli attributi di Dio); pertanto non potrebbe provarsi la concomitanza invariabile del probans con un probandum di codesta natura. E davvero in nessun esempio [che possa addursi di un prodotto] si trova questa concomitanza fra il probans e il carattere del probandum quale è da voi asserito [...]. [...] Tutto ciò che non ha nascita non può essere causa di nulla, come un fiore di loto cresciuto nell'aria [che si porta ad esempio di cose inesistenti]; e noi sappiamo che Dio non

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Esempi di testi: 6. Çåntarakßita sulla non esistenza di Dio 111

ha nascita; perciò il vostro argomento è contrario alla premessa universale (vyapåka). Questo nostro ragionamento prova altresì l'incongruenza della tesi avversaria; perciò non si può obiettare contro di esso che il probans non ha locus standi (åçrayåsiddha). Per quale ragione l'Autore dice che diversamente tutte le cose nascerebbero contemporanea-mente? Ma perché se la causa avesse una capacità mai ostruita [da forze contrarie] - come si conviene a Dio - tutte le cose dovrebbero nascere nel medesimo tempo, sarebbero cioè simultanee. Questo ragionamento logico rende insufficiente la tesi dell'avversario; oppure si può intendere come semplice dichiarazione del senso di ciò che è stato detto. La prova dell'incongruenza nella posizione dell'avversario può così formularsi: quando una causa è completa, l'effetto ne consegue naturalmente; così accade nei riguardi del germoglio il quale si manifesta quando la sua causa sia completa, il complesso degli elementi causali essendo arrivato al suo estremo limite di maturazione. Ora, secondo voi, il mondo, che è prodotto da Dio, ha una causa completa e perciò dovrebbe nascere simultaneamente. Voi potete opporre che Dio non è la sola causa del mondo, ma egli lo crea, avuto riguardo a cause concomitanti come il merito, il demerito, gli atomi, ecc. in quanto che egli è soltanto la causa efficiente; per la qual cosa quando queste altre cause, merito, ecc. difettano, la causa non è intera. Ma questa interpretazione è errata. Infatti se qualche ausilio fosse dato dalle cause concomitanti, allora Dio sarebbe dipendente da codeste cause concomitanti; tuttavia, essendo egli eterno, e nessuna superiorità potendogli derivare da una sua dipendenza da altri, le cause concomitanti, non possono porgergli nessun ausilio. Allora come mai egli potrebbe

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dipendere da siffatte cause concomitanti che non gli sono di nessun ausilio? Per di più tutte codeste cause concomitanti, per il fatto che ripetono la loro origine da Dio, dovrebbero essere continuamente confluenti in lui: perciò la ragione da noi addotta non è non provata. E non è neppure inconcludente, perché allora ne deriverebbe l'assenza della condizione (dianzi detta) che debba esservi completezza di tutte le cause. Se questa completezza della causa non si manifesta vi sarebbe perpetua non nascita di chicchessia in quanto ugualmente mancherebbe quella completezza della causa. Uddyotakara (cioè le scuole logiche) obietta: «Sebbene la causa che si chiama Dio sia intera, ed eterna e presente in tutte le cose, tuttavia la nascita delle cose non è simultanea, perché Dio agisce con l'intelligenza. Se la nascita delle cose fosse dovuta alla semplice essenza divina, senza che quella nascita fosse prodotta dalla sua intelligenza, allora la confutazione che voi fate sarebbe applicabile al nostro ragionamento; ma siccome egli agisce con l'intelligenza, siffatto errore non può rimproverarsi a noi, in quanto Dio di sua propria volontà si volge alla creazione dei prodotti che intende creare. E pertanto la nostra ragione non è inconcludente». Ma cotesto argomento è improprio: l'attività e l'inattività delle cose non dipende dalla presenza o dall'assenza della volontà della causa, quasi che fosse possibile dire che, essendo sempre prossima la causa chiamata Dio con la sua efficienza mai impedita, quella attività o inattività rispettivamente si determinano dopo la presenza e il difetto della volontà di Lui. Infatti l'essere o non essere delle cose segue la presenza o l'assenza della efficienza inerente nella causa; onde avviene che sebbene un agente abbia la volontà di fare alcunché, quando difetti in lui l'efficienza nulla potrà egli produrre; ma il frutto deriva

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Esempi di testi: 6. Çåntarakßita sulla non esistenza di Dio 113

dalla causa come il seme ecc. che ha l'efficienza di crearlo, anche senza che la causa possegga la volontà di generarlo. Allora se codesta causa che voi chiamate Dio sempre possiede un'efficienza mai impedita, come gli accade nel momento stesso in cui produce un effetto, perché mai le cose dovrebbero dipendere, per venire alla esistenza, dalla sua volontà che non servirebbe proprio a nulla? Esse dovrebbero infatti venire alla luce simultaneamente come quando egli crea una quale che sia cosa. Queste cose dunque solo se nascessero simultaneamente potrebbero mostrare la perfetta causalità di lui. E Dio, che non ha bisogno dell'ausilio di nessun'altra cosa, non può dipendere da nessun'altra cosa per la quale egli dovrebbe dipendere dalla propria volontà. Inoltre non vi può essere volontà all'infuori dell'intelligenza; ma voi affermate che l'intelligenza di Dio è eternamente identica. Allora, sebbene Dio sia un attore intelligente, come mai le cose non nascerebbero simultaneamente? Infatti, così come Dio, anche la sua intelligenza sarebbe sempre presente. Se poi voi sostenete che la sua intelligenza non è eterna, l'errore in cui cadete è il medesimo, perché la esistenza di quella coincidendo con la essenza di Dio, come Dio dovrebbe sempre esistere.

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7. Çåntideva sul Nyåya. Dal Bodhicaryåvatåra IX, 69-78. Çåntideva (VIII sec.) fu un importante esponente del buddhismo madhyamaka. In questo brano egli confuta alcune dottrine del Nyåya. Il brano è tratto da R. Gnoli (a cura di), Testi buddhisti in sanscrito, Torino 1983, pp. 515-16. 69. “L'io (dicono alcuni) non è incosciente per incoscienza naturale, come una stoffa, eccetera”. Se però (io osservo) esso è cosciente per virtù della sua unione colla coscienza, allora, appena privato di coscienza, sarebbe distrutto. 70. “L'io (tu forse dirai) è immutabile”. Ma allora (ti rispondo) qual è l'effetto prodotto da questa unione colla coscienza? Le qualità di “io” potrebbero essere altrettanto bene attribuite allo spazio, anch'esso incosciente e inattivo. 71. “Ma la relazione fra l'atto e il frutto è impossibile, senza l'io! Se infatti chi ha compiuto l'atto perisce, a chi toccherà il frutto?”. 72. Noi siamo d'accordo su questo punto, che cioè, l'atto e il frutto hanno un supporto differente. Se, d'altro lato, tu pensi che l'atto e la degustazione del frutto suppongono l'attività dell'io, tu repugni alla tua stessa tesi, perché il tuo io è privo di attività. La discussione è, dunque, superflua. 73. “L'autore dell'atto ne degusta il frutto”. Questa (io ti rispondo) non è affatto una cosa evidente. Lo Svegliato, quando ha detto che l'autore dell'atto è anche colui che lo degusta, ha di fatto attribuito al continuum fenomenico un'unità fittizia.

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Esempi di testi: 7. Çåntideva sul Nyåya 115

74. L'io non può essere né il pensiero passato né il pensiero futuro, perché essi adesso non esistono. L'io sarà dunque il pensiero presente? Ma allora, appena sparito questo pensiero, non vi sarà neppure l'io. 75. Il tronco del banano, decomposto nelle sue parti, non esiste più come tale. Parimenti l'io esaminato criticamente, si rivela per una pura irrealtà. 76. “Ma se le creature non esistono su che si esercita allora la compassione?”. Le creature (ti rispondo) sono immaginate come esistenti per virtù di un'illusione che noi adottiamo in vista del fine che vogliamo raggiungere. 77 “Ma, se le creature non esistono, chi può avere un fine da raggiungere?”. Nessuno, in effetto, (rispondo) e lo sforzo procede unicamente dall'illusione. Ma, avendo come frutto l'acquietamento del dolore, questa illusione del fine non è proibita. 78. Ma l'illusione dell'io, al contrario, alimenta il sentimento del'io, causa di dolore; e visto che esso non può essere eliminato altrimenti, bisogna allora coltivare l'idea dell'inesistenza dell'io.

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Filosofi moderni sul pensiero indiano

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1. Hegel sulla coscienza yogica. Nel 1827 Hegel pubblicò una lunga recensione1 ad un importante saggio di Wilhelm von Humboldt sulla Bhagavadgîtå. Fu questa la sua più significativa presa di posizione sul pensiero indiano. Notevole è in particolar modo, al di là delle inesattezze dovute alle ancora scarse conoscenze del tempo, l’analisi del contenuto della forma di pensiero propria del meditante. Il giudizio di Hegel sulla Bhagavadgîtå restò sempre molto negativo. La traduzione italiana del brano è di G. Pinna in Hegel, Due scritti Berlinesi, Napoli 1990, pp. 161 sgg. Per un commento si rimanda a S. Marchignoli, La Bhagavad-gîtå come testo canonico dell'azione: appunti in margine ad alcune interpretazioni europee, in “Annali di storia dell'esegesi” 15/2 (1998), pp. 375-388. I. Per parlare ora del grado della perfezione, che è lo scopo supremo [della dottrina dello Yoga espressa nella Bhagavad-gîtå], consideriamola innanzitutto nella sua forma soggettiva. Questa perfezione si determina come un perdurante stato d'astrazione, quell'astrazione di cui si è trattato in tutto quanto precede - una perenne solitudine dell’autocoscienza, che ha rinunciato a tutte le sensazioni, a tutti i bisogni e a tutte le rappresentazioni di cose esterne, e con ciò non è più coscienza - neppure una compiuta autocoscienza, che avrebbe come contenuto lo spirito e in tale misura sarebbe ancora coscienza; un intuire che non intuisce nulla, e non sa nulla - il puro vuoto di sé in se stesso. In termini moderni la determinatezza di questo stato va chiamata assoluta immediatezza del sapere. Giacché dove c’è sapere di

1 Über die unter dem Namen Bhagavad-Gîtå bekannte Episode des Mahåbhårata, von W. von Humboldt (Berlin 1826), in «Jahrbücher für wissenschaftliche Kritik» (1827), pp. 51-63 e 1441-1492.

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qualcosa, di un contenuto, là c’è anche al tempo stesso mediazione. Il soggetto conoscente è conoscitore del contenuto solo mediante questo contenuto, che è per lui un oggetto, e il contenuto è un oggetto solo mediante il fatto che è saputo. Ma la coscienza ha un contenuto solo in quanto questo è per essa un oggetto, nella sensazione, nell’intuizione o come si vuole. Giacché il sentire, l’intuire, se non è il sentire dell’animale, è il sentire, l’intuire dell’uomo, cioè dell’essere dotato di coscienza. Sono determinazioni semplici e meramente analitiche, ma coloro che oggigiorno parlano tanto di sapere immediato sono addirittura incapaci, nella loro inconsapevolezza e ignoranza, di notarle e di conoscerle. Ora questa concentrazione astratta è la beatitudine [...] che viene promessa ai pii e ai credenti quasi ad ogni pagina del nostro poema - attraverso il penetrare nella divinità ovvero letteralmente, innanzitutto, in Krishna, il dissolversi in Brahma, il trasformarsi in Brahma [...]. Questa unità con Brahma dona anche la liberazione dalla metempsicosi. II. Quest’unità con Brahma conduce da sola al punto finale, che è il punto più alto all’interno della religione indiana: il concetto di Brahm, la vetta dell’approfondimento meditativo [Vertiefung] che abbiamo considerato. Per quanto ciò che è il Brahm sia facilmente comprensibile e ben noto, tanto maggiore è la difficoltà di comprendere che rapporto esso intrattenga con questo approfondimento meditativo, ed è tanto più interessante considerare tale rapporto da cui, come risulterà, deriva il concetto stesso di Brahm o che piuttosto si identifica con tale concetto.

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Filosofi sul pensiero indiano: 1. Hegel 121

Se consideriamo più da vicino quali siano l’aspetto affermativo e l’affermativa determinatezza dello spirito, cui quello sprofondarsi in se stessi e quell’isolarsi della coscienza appartengono, vediamo che si tratta del pensiero. L’espressione “approfondimento meditativo” [Vertiefung] e le altre espressioni designano l’aspetto situazionale, non la cosa stessa. Quel fare astrazione da ogni determinatezza, esteriore ed interiore, da ogni contenuto della sensazione e dello spirito nel loro affermativo e specifico esserci, è il pensiero al di fuori di ogni situazione. Bisogna ritenere sublime che gli indiani si siano sollevati fino a questa separazione del sensibile dal non sensibile, della molteplicità empirica dall’universalità, della sensazione, del desiderio, della rappresentazione, del volere, ecc., dal pensiero, che si siano sollevati fino alla coscienza dell’altezza del pensiero. Ma il tratto specifico è costituito dal fatto che dall’immane astrazione di questo lato estremo non si sono spinti fino alla conciliazione del particolare, sino al concreto. Il loro spirito è soltanto il debole oscillare dall’uno all’altro ed infine la sventura di conoscere la beatitudine solo come annientamento della personalità, che è identico al nirvå±a dei buddhisti. Se, in luogo di espressioni come approfondimento mediatativo, devozione, ecc. fosse stata usata la designazione della cosa, cioè pensiero, ciò si opporrebbe al fatto che quando si tratta del pensiero, anche del pensiero più puro e astratto, abbiamo sempre l’idea che venga pensato qualcosa, che nell’atto di pensare abbiamo dei pensieri, che essi sono cioè per noi un oggetto interno. Se si considera l’intuizione nella medesima assenza di determinazione, come intuizione assolutamente pura, essa è la stessa astratta identità con sé. Neppure la pura e semplice intuizione intuisce qualcosa,

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così che non la si può neanche chiamare intuizione del nulla, perché essa è priva di oggetto. Ma l’intuizione implica essenzialmente l’elemento concreto, vale a dire che, se il pensiero è vero solo nella misura in cui è concreto, la sua determinatezza specifica è quella pura universalità, l’identità semplice. Lo yogi che sta seduto, senza alcun moto interiore o esteriore, e guarda fisso la punta del suo naso, rappresenta quel pensiero che si è elevato alla vuota astrazione e si mantiene in questo stato con uno sforzo violento. Ma questo stato è per noi del tutto estraneo e remoto, e designandolo con il termine pensiero, che è assolutamente comune al nostro modo di vedere le cose, lo si avvicinerebbe troppo a noi. Se tuttavia ricordiamo quelle espressioni secondo cui quest’approfondimento meditativo cerca Brahma e costituisce la via, la direzione che a lui conduce e l’unione con lui, ciò implica certamente che esso ha un oggetto che si sforza di raggiungere. Tale approfondimento meditativo di fatto, nella sua determinazione, come si è mostrato, è privo di oggetto, e l’atto di sforzarsi e dirigersi a lui afferiscono soltanto alla coscienza che non l’ha ancora raggiunto. Ora, in quanto questo pensiero privo di oggetto è nel contempo rappresentato come essenzialmente in relazione con Brahma - e però una relazione immediata, cioè indistinta - questo pensiero puramente astratto è necessariamente determinato come Brahma stesso: un elemento soggettivo che è identico a ciò che viene detto oggettivo, così che questa opposizione scompare e diviene un’enunciazione esteriore, che non è presente nel contenuto in quanto tale.

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Filosofi sul pensiero indiano: 2. Martinetti 123

2. Piero Martinetti sul Såµkhya. Piero Martinetti, importante filosofo italiano, esordì come scrittore di filosofia con un libro sul Såµkhya, che egli interpretò in chiave idealistica. Per un commento si veda G. R. Franci, Piero Martinetti e “Il Sistema Sankhya”, in La conoscenza dell’Asia e dell’Africa in Italia nei secoli XVIII e XIX, vol. I (a cura di A. Marazzi), Napoli 1984, pp. 465-485. Il brano è tratto da P. Martinetti, Il Sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana, Lattes, Torino 1896, pp. 62-65. Dalle considerazioni precedenti mi sembra quindi risulti con sufficiente chiarezza che l’Intelligenza e la Personalità1 dalle quali il Sankhya fa derivare il mondo, non sono da intendersi come due principi cosmici, extraindividuali, ma semplicemente come due principi interiori ai quali l’astrazione psicologica riconduce ogni manifestazione così soggettiva come oggettiva dell’esistenza empirica. E con lo stesso criterio deve perciò essere interpretato il concetto della Natura. Essa non deve cioè essere considerata come alcunché di esterno e di materiale, ma come l’indistinto psicologico primitivo e supremo nel cui seno giace allo stato latente la totalità della nostra esistenza soggettiva empirica, come quel principio misterioso ed oscuro che esiste da tutta l’eternità accanto all’anima, come essa increato ed onnipresente, ma a differenza di essa attivo e non spirituale ossia incapace di elevarsi per sé alla vita cosciente, e che per effetto dell’ignoranza diventa, alla luce dell’anima, l’essere individuale empirico. La sua essenza è costituita di piacere, dolore ed indifferenza perché sono questi i tre modi

1 Martinetti così intende, rispettivamente, la buddhi e il purußa.

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più generali dell’esistenza empirica stessa ossia della nostra vita cosciente. [...] Queste tre categorie costituiscono secondo il Sankhya l’essenza delle cose, perché il mondo non è concepito da esso che per rapporto all’individuo il quale lo crea e ne fruisce. Il sattva è la sensazione piacevole in astratto: quindi comprende ciò che è fonte di gioia, la bellezza, la bontà, la luce, l’armonia; ed inoltre ciò che avvicina al bene supremo come la quiete e l’atto del conoscere, nella cui serena obbiettività par che il Sankhya veda, come Schopenhauer, il contrapposto della cieca e dolorosa volontà di esistere che si estrinseca specialmente nel secondo dei costituenti. Il rajas è la sensazione dolorosa in astratto: quindi specialmente l’agire, il voler esistere, l’attività d’ogni specie che ci avvolge in un’infinità di dolori. Il tamas per ultimo è la sensazione indifferente in astratto: quindi ciò che non si manifesta a noi né come piacere né come dolore, come il sonno, l’impotenza intellettuale ed in genere tutto ciò che è assenza d’ogni attività dolorosa ma anche d’ogni elevazione e perfezione. Tale è il senso che, secondo il mio avviso, devesi attribuire alle teorie cosmologiche del Sankhya. Nella sua forma originaria la serie delle cause materiali non dovette essere altro che, come ci è conservata nel Buddhismo, una serie di astrazioni procedente dalla ricerca della concatenazione delle cause soggettive del dolore individuale; ed in questa forma solamente essa ha un senso ed una connessione razionale. La teoria della sostanzialità permanente delle cose e della gradazione delle cause materiali secondo la loro maggiore o minor distinzione alterarono poi la fisionomia primitiva di questa serie dialettica; e tanto gli organi della soggettività e gli oggetti (dai quali come da fondamentali dati della rappresentazione o d’un’induzione semplicissima il Sankhya muove), quanto la Personalità e l’Intelligenza, furono intesi

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Filosofi sul pensiero indiano: 2. Martinetti 125

non come una serie ascendente di cause soggettive della schiavitù, ma come un’evoluzione di sostanze; ed a capo di tutta la serie, come causa materiale prima, fu posta l’indistinzione assoluta, la Natura. Ma in nessun modo perciò e la Personalità e l’Intelligenza e la Natura vennero ad essere intesi come esseri cosmici esteriori, materiali: e la Natura stessa non venne altrimenti pensata che come la coscienza empirica stessa nella sua assoluta indeterminatezza, come un’indistinta miscela di piacere, dolore ed indifferenza destinata a diventare, evolvendosi, l’io, l’essere empirico individuale nel cui seno sorge il mondo. Né si potrebbe opporre (come il Garbe oppone alla denominazione di idealistico data dal St. Hilaire al Sankhya), che, poiché la spiritualità appartiene all’Anima sola, la Natura ed il resto sono alcunché di esteso e di materiale. Come si è veduto Vijnana2 caratterizza assai bene ciò che si intende nel concetto indiano per materiale (che significa “percepibile sensibilmente”); e la sua definizione esclude la natura e gli altri principi sovrasensibili: né l’essere i medesimi estesi implica materialità, perché anche l’anima viene considerata come estesa. Non è quindi esatto dire che la Natura del Sankhya sia alcunché di materiale; essa è piuttosto semplicemente un principio attivo ed inconscio come l’Inconscio di Hartmann o la Volontà si Schopenhauer. E dalla Volontà di Schopenhauer (con cui lo Schopenhauer stesso rettamente l’identifica v. Par. u. Par. II, 187) essa differisce in questo solo punto essenziale: che la Volontà obbiettivandosi produce dal proprio seno anche la coscienza (in s. s.), il soggetto vero e proprio della

2 Cioè Vijñånabikßu, autore del commento alla Såµkhyakårikå intitolato Såµkhyapravacanabhåßya.

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conoscenza; laddove la Natura è per sua essenza inconscia e la coscienza (in s. s.) le perviene da un principio superiore la cui essenza non è altro che pura spiritualità, cioè dall’Anima.

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3. Simone Weil sul Såµkhya e sulla Bhagavadgîtå I questa pagina tratta dai Quaderni di Simone Weil emerge un'originale lettura e una importante applicazione attualizzante delle categorie del Såµkhya e delle dottrine espresse nella Bhagavadgîtå. Simone Weil, che ci ha lasciato anche interessanti interpretazioni delle principali Upanißad, fu attratta dalla Bhagavadgîtå soprattutto per la sua trattazione del problema dell'azione. Gli appunti risalgono al settembre-ottobre 1941. Per un commento si rimanda a S. Marchignoli, S.Weil a colloquio con i testi indù: il desiderio, l'åtman e il dharma, in AA. VV., Politeia e sapienza, a cura di Adriano Marchetti, Bologna 1993, pp. 47-65. Il brano è tratto da S. Weil, Quaderni, ed. it. a cura di G. Gaeta, vol. I, Milano 1982, pp. 333-335. Che nessuna attività - lavoro fisico o studio - divenga un ostacolo a vedere l'åtman in ogni cosa. Che ogni attività abbia al centro dei momenti di arresto. Vi è tamas nella buddhi. È la fatica che degrada e limita l'attenzione superiore. Il sattva è ovunque nella prak®ti. Non c'è una soglia. L'obbedienza è la virtù suprema. Amare la necessità. La necessità e il dharma sono una cosa sola. Il dharma è la necessità amata. La necessità è, rispetto all'individuo, ciò che vi è di più basso - costrizione, forza, “una dura necessità” - la necessità universale libera da essa. Considerare il dharma non come dovere, ma come necessità, è elevarsi al di sopra. Lasciare libero gioco alle proprie facoltà di azione e di sofferenza. Parallelismo tra Arjuna e il Cristo. Combatterà perché non può arrestare questa guerra e perché, se essa ha luogo, non può non prendervi parte. (Essa è già cominciata). Fare solamente ciò che non si può non fare.

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Azione non-agente. Egli non vorrebbe combattere e si perde nella sua emozione di pietà. Ma se si chiede chiaramente: “mi è consentito non combattere?”, non può a questo punto, in questa situazione, rispondere di sì. La non-violenza è buona solo se è efficace. In questi termini si pone la questione rivolta a Gandhi dal giovane a proposito di sua sorella. La risposta dovrebbe essere: usa la forza, a meno che tu non sia in grado di difenderla, con altrettanta probabilità di successo, senza violenza. A meno che tu possegga un'irradiazione la cui energia (cioè l'efficacia possibile, nel senso più materiale) sia uguale a quella contenuta nei tuoi muscoli. Alcuni hanno avuto questo potere. San Francesco. Sforzarsi di diventare tale da poter essere non-violento. Ciò dipende anche dall'avversario. sforzarsi di sostituire sempre più, nel mondo, la non-violenza efficace alla violenza. Niente di ciò che è inefficace ha valore. La seduzione della forza è bassa.1 È una difficoltà terribile. Arjuna è nel torto perché si lascia sommergere dalla pietà invece di pesare chiaramente il problema: posso non combattere? Ha dimenticato la sua bilancia. Ogni uomo deve imitare Zeus e fare uso della sua bilancia d'oro. La bilancia del dharma. Non credere di poter uccidere - né di poter salvare, beninteso. Non credere di avere un potere. La prak®ti con i suoi gu±a fa tutto - anche il bene - anche il male - il male e il bene, tutto. L'uomo non ha alcuna potenza, e tuttavia ha una responsabilità. L'avvenire corrisponde alla responsabilità, il passato all'impotenza. E tutto ciò che deve ancora venire sarà passato. Se K®ß±a fosse intervenuto a illuminare Arjuna, Arjuna si sarebbe battuto ugualmente, ma male. Il corpo è una

1 Le ultime due frasi sono unite da una graffa.

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Filosofi sul pensiero indiano: 3. Weil 129

bilancia per i moventi, una bilancia perpetua, perpetuamente mobile. Ciò che si chiama io, me - è solo un movente. Ma è soprannaturale che per un istante la bilancia si arresti e sia sospesa. Dopo l'arresto, le STESSE FORZE agiscono su di essa, ma è più giusta. Deve esservi un ritmo ottimale - una durata e una frequenza ottimali negli arresti. Anche quest'arresto implica necessariamente dispendio di energia - ma energia essenzialmente differente. Come avviene che qualcosa si arresti? Nella materia inerte, un corpo mobile si arresta per degradazione dell'energia meccanica in energia termica. Nell'uomo, apparentemente, trasformazione dell'energia in senso inverso. Perché negli scambi e modifiche dei tessuti organici, soprattutto nervosi, non vi sarebbe una forma di energia che stia al movimento e all'irradiamento come il movimento e l'irradiamento stanno al calore? Il mistero comunque resta lo stesso. Si tratta dei gu±a della prak®ti. Vi è qualcosa nel mondo con cui il soprannaturale ha un rapporto, un legame speciale. Che cosa? Quale legame?

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4. Jaspers su Någårjuna. Nel suo I grandi filosofi (1957) Karl Jaspers dedica un capitolo al Buddha e uno (quello finale) a Någårjuna. Notevolissima è la comprensione della dialettica della vacuità e la comprensione dei suoi effetti sulla coscienza. La trad. italiana è di F. Costa in K. Jaspers, I grandi filosofi, Milano 1973, pp. 1237-39. I Çûnyavådin sono una setta tra le tante. A tutte queste sette è comune la volontà buddhistica di redenzione, la scienza del dolore e dell'inessenzialità della realtà mondana. Entro questa dottrina comune, la riflessione sulla conoscibilità del reale ha fatto sorgere una molteplicità di opinioni. Il mondo esterno è veramente reale e si può immediatamente conoscere con la percezione (come pensano i Sarvastivådin); esso non è percepito dai sensi, ma la sua esistenza può essere desunta dalle percezioni (come pensano i Sautråntika); c'è solo la certezza che la coscienza ottiene da se stessa, reale è solo il mondo interiore, nella vera realtà non vale alcuna distinzione tra soggetto e oggetto (così gli Yogåcåra); né il mondo esterno né quello interno sono conoscibili come un essere reale per sé stante, non vale alcuna distinzione reale tra l'essere soggettivo e quello oggettivo (così i Çûnyavådin, cui appartenne Någårjuna). In questo quadro schematico dei vari punti di vista “riguardo alla teoria della conoscenza”, si possono ritrovare le distinzioni schematiche di idealismo e razionalismo, razionalismo ed empirismo, positivismo e nichilismo proprie del pensiero occidentale, specialmente quando si tratta del problema riguardante la realtà del mondo esterno. Ma questi concetti non sono che residui razionali del contenuto

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filosoficamente vissuto nell'India. Ciò che questo contenuto ha di essenziale si rivela come un punto di vista che non si può adeguatamente comunicare in una dottrina espressa in parole. La possibilità di una simile traduzione dottrinaria dipende dalla misura in cui un sapere determinato viene usato come mezzo di salvezza. Ma poiché ogni sapere, in quanto costituito da contenuti positivimente enunciabili, significa piuttosto adesione, la via della salvezza sta nella scomposizione del sapere stesso, di ogni soggetto conoscibile e di ogni concezione possibile. La vacuità di ogni realtà dell'esserci diventa ora l'essere positivo di ciò da cui derivano sventura e dolore per la caduta nel divenire del mondo e verso cui si compie il ritorno. Ogni pensare e ogni pensato appartengono a questa caduta. Il senso del vero pensiero sta nel rovesciamento di ogni dispiegamento di pensiero nel mero non pensare. Ciò che si è verificato mediante questo dispiegamento si risolve, per opera di un pensiero migliore, nel ritorno alla dissoluzione del pensiero. Questo si verifica in ultimo nella penetrazione intuitiva della falsità di ogni segno indicativo e quindi di ogni linguaggio. Se la mera datità della parola come segno e la sua mancanza di senso verace è intuitiva fino in fondo, allora si dissolve e questa è la liberazione. La dolorosa elaborazione compiuta dalla coscienza della vacuità nel dispiegamento del mondo è allora ricondotta all'origine. Ma nel mondo restano ancora la dottrina, il linguaggio, l'indicazione della via della salvezza, la distruzione del pensato ad opera del pensare stesso che ha prodotto la caduta. Nonostante ogni intellezione ottenibile nel proprio pensiero mediante l'autosuperamento del pensiero, resta perciò presente una posizione, a meno che non si realizzi di fatto seriamente il silenzio assoluto e non abbia fine ogni parlare, udire, comunicare. Pertanto la posizione di

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Någårjuna, cioè la dottrina del “sorgere condizionato”, ritorna ad essere una rigida formula della vacuità. La dottrina di Någårjuna del “sorgere condizionato” dice che ogni cosa è condizionata perché è e non è allo stesso tempo. Chi è giunto alla saggezza vede a fondo tutto questo e perciò diventa padrone di tutte le idee senza esser soggetto a nessuna di esse. Egli sta sospeso su tutte le idee determinate mentre si muove tra esse e mette in sospensione tutto se stesso con il suo esserci. La condizione di ogni cosa sta in ciò per cui c'è un mondo come questo, simile all'illusione prodotta da un mago; sta cioè in me e nel mio pensiero. Il mondo dei dharma e l'io stesso sono dentro il processo di condizionamento. È questo processo del sorgere condizionato che produce un mondo in cui presumiamo di avere sicura dimora mentre il nostro dolore non ha via di scampo. Il mondo intero del sorgere condizionato, insieme a questa dottrina, s'infrange nel suo stesso venire enunciato e questa è la salvazione. Ottenuta la salvazione l'inganno svanisce nel fondo e si apre ciò di cui è impossibile parlare. La dottrina è come un barca che ci porta al di là del fiume dell'esserci. Se questo veicolo ci porta da una sponda all'altra diviene del tutto inutile. Chi volesse allora continuare a insegnare la dottrina, così connessa con la corrente illusoria dell'esserci mondano, sarebbe tanto stolto come chi, approdato all'altra riva, volesse inoltrarsi nel nuovo territorio portando la barca sulle spalle. Il saggio invece l'abbandona alla corrente che si lascia dietro di sé. La dottrina è utile per farci sempre sottrarre a ogni realtà, non per farci impiantare in essa.

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5. Jitendra Nath Mohanty sulla natura del pensiero filosofico indiano: empirismo, razionalismo e “fondazione” ultima. Jitendra Nath Mohanty, grande studioso della fenomenologia husserliana, è uno dei maggiori storici e interpreti viventi della filosofia indiana. In questo brano, che apre a prospettive comparatistiche, egli si interroga, in una sorta di bilancio critico, sulla natura del razionalismo e dell’empirismo indiani. Il brano è tratto da J.N. Mohanty, Reason and Tradition in Indian Thought, Oxford 1992, pp. 227 ss. (la tr. it. è di chi scrive). I capitoli precedenti hanno senz'altro chiarito che nel pensiero indiano esiste un forte filone empirista. Ciò è attestato dal primato della percezione, dall'importanza dell'“esemplificazione” (d®ß¥ånta) nella teoria del sillogismo, e dalla notevole mancanza di pensiero modale (“mondi possibili”, “necessità”, ecc.). Tuttavia, alcune delle rovinose conseguenze dell'empirismo vengono evitate estendendo l'ambito della “percezione” fino a includere l'apprensione intuitiva degli universali e delle relazioni (e in alcuni casi persino la percezione straordinaria, a-laukika, da parte degli yogin, di tutto il tempo, passato, presente e futuro). Di fatto, anche se le posizioni filosofiche non sono mai state classificate in termini di empirismo e razionalismo (o simili), l'empirismo ha, nella tradizione filosofica indiana, prerogative più forti di quelle del razionalismo. Mentre il termine “esperienza” può, pur con qualche perdita di significato, essere tradotto con pratyakßa (“percezione”), il termine “ragione” non possiede sinonimi sanscriti. Buddhi può essere tradotta con “intelletto“, ma mancano le

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principali implicazioni epistemologiche e metafisiche connesse al termine “ragione”. E tuttavia c'è un aspetto della “ragione” che la filosofia occidentale moderna riconosce specialmente a partire da Kant. La ragione “costruisce” e “costituisce” il mondo che conosce. L'idea di “costruzione” è presente in un filone che attraversa lo Yoga, il Buddhismo e il Vedånta. I termini decisivi sono kalpanå e vikalpa - che significano entrambi “immaginazione”. Nel discorso filosofico, per estensione, vennero a significare la costruzione mentale, intellettuale o concettuale. Gli Yogasûtra (I, 9) definiscono il vikalpa come ciò che «è generato dalla cognizione verbale ma non ha un oggetto reale» (çabdajñånånupåtî vastuçûnyo). Il commento di Vyåsa spiega: il vikalpa non è né un pramå±a né appartiene alla categoria delle cognizioni false. Benché il vikalpa non abbia un oggetto reale, esso è utile grazie alla potenza della cognizione verbale. Tra i vikalpa vengono inclusi non solo i concetti d'invenzione, ma anche concetti come quello di “tempo”, che, stando al commento a Yogasûtra III, 52, è «senza alcun oggetto reale», è un «costrutto mentale» (buddhinirmå±a) ed è «generato dalla cognizione verbale», benché alla mente ordinaria appaia reale. Il vikalpa è dunque una particolare unione di parola, pensiero e cosa; nel caso dei pramå±a, e anche nel caso delle a-pramå, questi tre elementi restano disgiunti. Il vikalpa dello Yoga diventa la kalpanå dei buddhisti, che attribuisce “nome”, “genere”, “sostanza” ecc. - intese come categorie - all'essere istantaneo, alla “natura propria” (sva-lakßana) che è afferrata dalla percezione (pura). Si può poi dire che l'Advaita Vedånta consideri tutti gli oggetti, e così tutte le differenze tra essi e all'interno di essi, come «mere costruzioni verbali»

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(våc-årambha±a-måtra), dovute ad un'ignoranza metafisica che non ha inizio. Se di qualcosa si dice che è un a priori nel senso che è una condizione non empirica della possibilità dell'esperienza, si può dire che in una vasta parte del pensiero indiano l'avidyå o ignoranza sia precisamente un a priori. È non-empirica perché l'ignoranza - sia nel Buddhismo che nel Vedånta - non ha origine: è an-ådi, senza inizio. Ed è senza inizio perché, da un lato, non ha senso chiedere «quando hai cominciato ad ignorare la tal cosa?», e, dall'altro, la tendenza a concettualizzare, a costruire e a differenziare è trasportata dalle “nascite” precedenti a quella presente, sicché in linea di principio non è appresa (quella che si apprende è la capacità di utilizzare specifici concetti empirici, non le categorie superiori quali quelle di “sostanza”, “qualità”, ecc.). Mentre quindi l'avidyå funziona da a priori in quei sistemi, essa è tuttavia diversa dall'a priori di molta parte del pensiero occidentale nella misura in cui 1) è eliminata o meglio distrutta dalla conoscenza metafisica della natura delle cose, e 2) quelle che essa costruisce e pertanto fa “essere” sono, piuttosto, false apparenze rese presenti (mithyå). Se ora delimitiamo l'idea di un a priori a ciascuno dei sistemi, sarei indotto a pensare che la teoria dei pramå±a e la lista dei prameya proprie a ciascun sistema siano una struttura a priori che il sistema si limita ad elaborare e a difendere contro i critici. […] I filosofi d'altronde non riconoscono alcuna modalità particolare di conoscenza riflessiva che sia implicata in quella speciale attività che è il pensiero filosofico: i mezzi cognitivi utilizzati dal filosofo sono gli stessi che utilizzano anche lo scienziato e l'uomo comune nella vita quotidiana. Sono gli usuali pramå±a:

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percezione, inferenza e çabda, o alcuni altri che possono essere riconosciuti dal sistema. Qual è, dunque, il fondamento ultimo dei darçana? Uno degli scopi che la filosofia in Occidente si è proposta è quello di fornire un fondamento sicuro ad ogni esperienza umana - cognitiva, morale, estetica - e a se stessa. Questo tradizionale fondamentismo è divenuto a poco a poco sospetto, e ha finito per essere abbandonato da molti pensatori contemporanei. Ma un pensatore moderno che ha perseguito senza tregua questo scopo fondamentista è Husserl e, come ho già fatto in varie occasioni, vorrei comparare l'ideale dei filosofi indiani a quello di Husserl. La filosofia indiana condivide con Husserl l'idea che ogni prova, e pertanto il fondamento ultimo di ogni affermazione, sia coscienza. Ma Husserl perseguiva un fine estremamente radicale - il fine della razionalità: che cioè si possa mostrare, in linea di principio, che tutte le formazioni mondane, tutte le credenze scientifiche e quotidiane sono radicate nelle strutture della coscienza in un modo tale che il filosofo può, riflettendo all'interno del suo io, far giungere a chiarezza intuitiva questo radicamento. Questa tesi radicale della “fenomenologia trascendentale” non ha mai fatto capolino nel mondo del pensiero indiano. Come ho già avuto modo di sottolineare, la coscienza fondazionale, per il pensiero indiano, è una coscienza testimoniante e/o fondante, e non una soggettività costitutiva universale. Proseguendo su questa strada, è come se la messa a nudo della razionalità delle nostre credenze e delle nostre cognizioni, delle regole morali e delle creazioni artistiche, si scontrasse, nel pensiero indiano, contro un limite assoluto. I pramå±a le affermano, la coscienza testimonia di quest'atto

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di affermazione, ma l'autorità giudicante dei pramå±a non è, e non può essere, rintracciata nella loro origine nella struttura di quella coscienza. Qual è dunque la fonte della loro autorità? Il concetto di razionalità che opera - benché non tematizzato - nel pensiero indiano dipende dalla nostra risposta a questa domanda.

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