71524373 Kahlil Gibran Poesie in Prosa

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Titolo originale: Prose Poems. Traduzione di Tommaso Pisanti. Casa Editrice: Newton Compton Anno: 1993. VERSIONE ELETTRONICA CURATA DA AMEDEO MARCHINI. INTRODUZIONE. Il «fenomeno Gibran» - il libanese divenuto, in America, scrittore in inglese - ha ampiamente coinvolto anche l'Italia, come si sa; e dopo Il Profeta («The Prophet, 1923), hestseller mondiale, si sono andati via via pubblicando un po' tutti i suoi scritti, spesso accaval- landoli in varie e non sempre accurate edizioni. Tutti testi compositi, ibridi, in qualche modo anche kitsch, con quella fusione un po' approssimativa di Oriente e Occidente, e tuttavia anche intensi e accattivanti, che non a caso hanno ritrovato oggi un loro rilancio, in questo nuovo e inquieto e un po' paradossale, per le forme che spesso assume, interesse per la fenomenologia del religioso, del «sacro» che è andato conquistando masse di pubblico giovanile e meno giovanile, all'Ovest come all'Est, dopo tanti drammatici eventi, «crolli» e «ri- nascite» (e con tante tensioni in atto). Al di là dei testi in inglese, si sono pertanto recuperati anche quelli precedentemente scritti in araho (come La voce del Maestro, tra- dotto già nel '58 in inglese da A. R. Ferris), e alcuni altri testi più specificamente e propriamente poetici («poetico», pervaso di forte intensità emotiva e liricizzante è sempre, d'altra parte, lo stile di Gibran). Gibran lanciava, così, una sua riproposta «profetica» proprio in un periodo di grandi svolte e movimentismi in senso contrario. Da un lato, l'Occidente faustiano, dinamico e frenetico, e infine consumi- stico, andava realizzando la «rivoluzione del linguaggio» (e del co- stume), sulla base dell'individualismo liberal e «modernista», o ade- riva alle suggestioni di un irrazionalismo politico-totalizzante (fa- scismo, nazismo, con le varie derivazioni). Dall'altro, l'Est europeo sembrava preso dall'ossessivo sogno comunista, da poco crollato, di un «paradiso in terra», di una «giustizia» imposta per decreto. Gi- bran operava invece un reinnesto di fonti e temi biblico-apocalittici e, insieme, mistico musulmani (e indiani, fino a Tagore), e cattu- rando, al tempo stesso, alcune tensioni di «misticismi» occidentali (Blake, Novalis, Schelling e, perché no?, Nietzsche). Senza dire, s'intende, della tradizione d'esaltazione naturistico-predicatoria ameri- cana, da Emerson a Thoreau e allo stesso Whitman. Perché per Gibran - è evidente - la poesia non era tanto e solo «letteratura», ma «messaggio», «impegno», reimmersione totale nel- l'essere, ritorno alle grandi maiuscole. E lo stile non poteva essere, pur con alcune più «moderne» rifiltrazioni, che quello della tradi- zione oracolare, aforistico-assertiva, da «manuale per laici», in qualche modo. Con tutti i rischi, s'intende, delle forzature, delle fumosità e approssimazioni e di qualche confusione, anche, mistificatoria. Nato nel 1883 nel villaggio di Bsherri (o Bisharri) nel nord del Libano, emigrato nel 1894 negli Stati Uniti, a Boston, con madre, fratelli, zio e zie (il padre, semialcolizzato, non si mosse mai dal

Libano), Gibran Kahlil Gibran (ma in America lasciò cadere il primo nome, quello paterno) era poi ritornato, a quattordici anni a Beirut, dove aveva frequentato un collegio cristiano-maronita. Poi, nel 1904, Gibran - rientrato a Boston - aveva conosciuto Mary Haskell, che fu per lui musa, ispiratrice e protettrice: l'incontro cen- trale nella sua vita. Sarà lei, anche, a curare la pubblicazione delle opere. Gibran intrecciò anche una relazione con Emilie Michel, una giovane insegnante di origine francese. Qualche anno dopo, Gibran è a Parigi, sempre per merito della Haskell, e nella «ville lumière» studiò pittura e approfondì Blake, Rousseau e Nietzsche. Fu allora che Rodin lo definì, generosamente, «un nuovo Blake». Ma Gibran ama atteggiarsi, è talvolta istrionico, si modella sulla propria imma- gine ideale, teso e apocalittico, appunto, accentua gli aspetti di oscurità e misteriosità di cui ama circondarsi. Inquieto, tormentato, conseguì dapprima una sua fama come pit- tore, trasferendosi intanto a New York. Poi, nel 1918, pubblica The Madman (Il Folle), il suo primo libro in inglese: «rivolta contro l'Occidente tramite lo spirito dell'Oriente». Contro l'immagine di un Occidente «decadente», spregiudicato, sradicato dai «valori», ormai «indegno del suo romanticismo». Solo la «follia» dell'anticonfor- mismo può scuoterci, può indicarci la via. Due anni dopo, The Forerunner (Il Precursore» e, nel 1923, The Prophet, il suo testo più emblematico. Il «folle» si fa mistico e «profeta». New York gli si configurava ora come Orfalese, la città «corrotta», la metropoli da esorcizzare attraverso un ritorno radicale alla dimensione, per l'appunto, profetico-visionaria, alla valutazione etico-meditativa, al coinvolgimento interioristico. Non un politico, non un sociologo, e neanche un poeta o un artista: occorre, ora, un «profeta», per salvarci. Ancora, nel 1926, Sand and Foam (Sabbia e Spuma); e, nel '32, The Wanderer (Il Vagabondo), più pacata- mente sentenzioso. L'anno precedente, nel 1931, Gibran aveva invece respirato l'ebbrezza degli spazi e delle altezze cosmogoniche: in The Earth Gods (Gli Dei della Terra). Ed è fin troppo palese, qui, l'influsso di Shelley e del prometeismo romantico: con quei dialoghi fra primordiali esseri; tra divinità delle «origini», su sfondi di nubi, fra cielo e terra, fra albe e tramonti e fra contrapposte ipotesi, alla ricerca di perdute e ardue armonie. Il primo di tali dei è per un'as- solutezza illimitata; il secondo è per l'affermazione eroica e «supero- mistica», mentre il terzo è per la tenerezza fragile e suadente dell'u- mano, dell'amore, dei sentimenti. I critici più attenti non furono, per la verità, mai pienamente convinti e videro, sostanzialmente, nel Profeta (e poi nei successivi numerosi interventi) una sorta di pastiche, pur sottolineandone gli squarci di più acuta e incisiva «liricità visionaria». Ma il pubblico fu largamente conquistato da quegli strani «libelli», che si susseguivano, da quelle commistioni, da certi vortici di suggestione. E Gibran ne trasse fama e guadagni. Pubblicò ancora, lavorando intensamente, freneticamente; tormentosamente identificandosi egli stesso con Almu- stafa («il prediletto»), il suo «profeta». «Nell'attimo in cui Gibran giunse a vedere il mondo come un'unità perfetta - sottolinea Mikhail

Naimy nella sua biografia - e la vita come un'eterna armonia, tutti gli altri mondi in cui era vissuto in precedenza e che aveva conside- rato spaziosi e reali, gli divennero esigui e irreali». Ancora, un po' fumoso. E l'irrequietezza di Gibran si nutre in- tanto di atteggiamenti sconcertanti, di forme esteriori, di solennità da guru, da ierofante. E la popolarità (fino al 1959 Il Profeta era stato venduto in un milione di copie) s'intreccia con quella, così tipica in America, dei seguaci di santoni e ambigui «maestri» e delle più varie sette ed esperienze più o meno misticheggianti. è tutt'altro che facile, certo, seguire tutto ciò in una personalità così vibrante e cangiante, al tempo stesso, come quella di Gibran. Egli tese, comunque, a identifi- care col suo profeta le sue stesse esperienze (e Almitra è Maiy Haskell). Finché qualcuno scriverà sulla sua tomba, in arabo: «Qui giace il nostro profeta». Gibran era morto, nel 1931, di cirrosi epatica e di un principio di tubercolosi polmonare. La poesia «profetica» sembrava dunque ormai estinta, e la stessa poesia religiosa aveva imboccato le vie indicate dal nuovo linguaggio «modernista», allusivo (Eliot stesso, e Claudel in Francia, Rebora in Italia). Gibran continua a rielaborare, invece, direttamente le sue «fonti», si ripresenta con gli stessi tradizionali sintagmi («In verità vi dico...»), con il largo uso delle coordinate, con l'agitata densità del linguaggio, la predilezione per le parabole, la violenza degli ossimori. In un misto di scavo tormentoso, di nebulosità e di abilità. Ma anche senza troppo «spiritualizzare»; con un certo robusto senso, anzi, della concretezza, del lato fisico-corporeo, della gioiosità dei sensi, com'è del resto, in qualche modo, in ogni tradizione mi- stica. E avvertendo e facendo avvertire al lettore che, nel frattempo, è passato Freud. E anche Marx. Il «Profeta» o il «Maestro» si preoccu- pano anche del pane quotidiano, prospettano alla gente anche ar- monie sociali. E con accentuazione anche di affannosi stati «esisten- ziali», di ombre e sinuosità psicologiche, o di più intimistiche tene- rezze. Vi è anche il «pianto delle cose», un senso più oscuro e indecifrabile della vita. Che è però, sempre, anche splendida, al tempo stesso «amabile come il bianco cigno» e «la nera notte». L'ampio «successo» ha portato altresì a rilanciare, come all'inizio si diceva, le altre opere di Gibran, le opere più giovanili, o, anche, successive, di Gibran: quelle scritte in arabo e con accentuazioni più direttamente (ma, - anche, più vagamente) liricizzanti. Gibran intro- dusse anzi, in arabo, la forma stessa del «prose poem», del «poema in prosa». E il poemetto dialogico La sequenza corre velocemente e suggestivamente in parallelo con i suoi temi, con i temi di fondo, del discorso «naturistico» e teistico-panteistico che Gibran andrà svilup- pando. Sia i Prose Poems che The Procession, tradotti in inglese, rispettivamente, da Andrew Ghareeb e da George Keirallah, rien- trano perciò perfettamente nella circolazione delle opere di Gibran. Nel poemetto dialogico (Al-Mawakib, in arabo) sono messi a confronto, come in una sequenza archetipica, un Saggio e un Gio- vane: l'uno ricco, certo, di esperienza e di equilibrio, ma anche, infine, scettico e piatto e monocorde; mentre l'altro, il Giovane, che vive nei boschi e nella natura, rappresenta la forza vitale, la fre- schezza originaria e sempre risorgente.

Un po' «facile», certo. Ma vi è anche qui, alla base, una tensione cosmico-archetipica. Varianti tutte allora, le opere di Gibran, fonda- mentalmente, di uno stesso pastiche? Sì, probabilmente. Ma è vero anche che al di là delle «pure» distillazioni della letteratura si punta oggi a calarsi dentro nuove contaminazioni, si aspira a più diretti, agitati e magari compromissori coinvolgimenti. E ciò contribuisce, certo, a spiegare il gran «successo» di Kahlil Gibran. TOMMASO PISANTI NOTA BIOBIBLIOGRAFICA Gibran Kahlil Gibran nacque il 6 dicembre del 1883 a Bisharri, un villaggio del Libano settentrionale, da una famiglia maronita. Nel 1895, quando il poeta era appena dodicenne, la famiglia si trasferì negli Stati Uniti, a Boston, per sottrarsi all'oppressione dell'Impero ottomano, come molti altri emigrati dal Libano in quell'epoca. A Boston visse nel povero quartiere cinese, abitato anche da italiani, irlandesi e siriani. Dopo una breve permanenza negli Stati Uniti, a 16 anni, nel 1899, Gibran ritornò per tre anni a Beirut per studiare lingua e letteratura araba. Completati gli studi viaggiò a lungo in Libano e in Siria e nel 1902 abbandonò definitivamente il Libano per raggiungere la famiglia a Boston e dedicarsi alla pittura. Tra il 1902 e il 1903 la sua famiglia fu colpita da molti eventi dolorosi: la morte di una sorella, del fratello, della madre e del padre. Nel 1904 Gibran conobbe Mary Haskell, che ne apprezzò le capacità e divenne sua amica e mecenate. Nel 1908 si trasferì a Parigi per studiare all'Accademia di Belle Arti e diventò allievo dello scultore Auguste Rodin che vide nel giovane Gibran una promessa sia per le arti figurative che per la letteratura. Tornato negli Stati Uniti nel 1911, visse prima a Boston e poi a New York insieme all'amico Amin. All'inizio riscosse un certo successo come pittore e venne considerato dalla critica il massimo esponente della scuola pittorica orientale in Occidente. Nel 1920 fu tra i fondatori a New York della Lega Araba che doveva innovare la tradizione araba con l'apporto della cultura occidentale. Intanto alla sua fortuna di pittore si univa il grande successo come poeta e scrittore «visionario», soprattutto dopo la pubblicazione, nel 1923, in inglese (come quasi tutti i suoi libri), del Profeta, tradotto in parecchie lingue. Gli ultimi anni della sua vita furono estremamente attivi in campo letterario. Nel 1929 si manifestarono i primi sintomi della cirrosi epatica e della tubercolosi che lo avrebbero stroncato nel giro di due anni. Morì a New York l'11 aprile del 1931. Opere di Gibran Kahlil Gibran. "The Madman", New York, Knopf, 1918. "The Forerunner", New York, Knopf, 1920. "The Prophet", New York, Knopf, 1923. "Sand and Foam", New York, Knopf, 1926. "Jesus the Son of Man", New York, Knopf, 1928. "The Earth Gods", New York, Knopf, 1931. "The Wanderer", New York, Knopf, 1932.

"The Garden of the Prophet", New York, Knopf, 1933. "Prose Poems", New York, Knopf, 1934. "Tears and Laughter", New York, Philosophical Library, 1947. "Secrets of the Heart", New York, Philosophical Library, 1947. "Spirits Rebellious", New York, Knopf, 1948. "Nymphs of the Valley", New York, Knopf, 1948. "A Tear and a Smile", New York, Knopf, 1950. "A Treasury of Kahlil Gibran", Secaucus, Citadel Press, 1951. "The Broken Wings", New York, Citadel Press, 1957. "The Procession", New York, Philosophical Library, 1958. "The Voice of the Master", Secaucus, Citadel Press, 1958. "Thoughts and Meditations", London, Heinemann, 1961. "Spiritual Sayings of Kahlil Gibran", Secaucus, Citadel Press, 1962. "A Second Treasury of Kahlil Gibran", Secaucus, Citadel Press, 1963. "Mirrors of the Soul", New York, Philosophical Library, 1965. "Lazarus and His Beloved", Greenwich, New York Graphic Society, 1973. "A Third Treaswy of Kahlil Gibran", Secaucus, Citadel Press, 1974. Traduzioni italiane Il Profeta, Roma, Ed. Kossu, 1966. Sabbia e Onda, Milano, Guanda, 1979. Il Profeta, Milano, Guanda, 1981. I Segreti del Cuore, Milano, Guanda, 1982. 1l Profeta, Milano, Studio Editoriale, 1985. Il Giardino del Profeta, Milano, Studio Editoriale, 1986. Gesù Figlio dell'Uomo, Milano, Studio Editoriale, 1987. Il Profeta, Roma, Tea, 1988. Il Folle, Milano, Studio Editoriale, 1988. Le Ninfe della Valle e Spiriti ribelli, Milano, Guanda, 1988. Il Profeta, Roma, Newton Compton, 1988. Il Precursore e il Folle, Milano, Guanda, 1988. Il Vagabondo, Milano, Studio Editoriale, 1988 (e Mondadori, 1991). Il Profeta. Il Giardino del Profeta, Roma, Newton Compton, 1989. Il Pianto e il Sorriso, Milano, Guanda, 1989. Gli Dei della Terra, Milano, Studio Editoriale, 1989. La Voce del Maestro, Milano, Studio Editoriale, 1989. Le tempeste, Milano, Feltrinelli, 1991. Il Folle, Milano, Mondadori, 1991. La Voce del Maestro, Roma, Newton Compton, 1992. Massime Spirituali, Milano, Studio Editoriale, 1992. Sabbia e Spuma e Il Vagabondo, Roma, Newton Compton, 1992. Gesù Figlio dell'Uomo, Roma, Newton Compton, 1992. Massime Spirituali, Roma, Newton Compton, 1993. Le ali spezzate, Roma, Newton Compton, 1993. Studi e saggi. Mikhail Naimy, "Kahlil Gibran, His Life and His Work", Beirut, Khayats, 1964 (prima ed. 1934) . Barbara Young, "This Man from Lebanon", New York, Knopf, 1945. Kahlil S. Hawi, "Kahlil Gibran: His Background, Character and Works", Beirut, American University, 1963.

Jean and Kahlil Gibran, "Kahlil Gibran. His Life and World", Boston 1974. M. S. Daoudi, "The Meaning of Kahlil Gibran", Secaucus, Citadel Press, 1982. J. Hatem, "Kahlil Gibran", Parigi, 1986.

kahlil gibran POESIE IN PROSA 1. Sulla soglia del tempio Purificai le mie labbra col sacro fuoco per parlare dell'amore, ma quando aprii le labbra mi sorpresi senza parole. Prima di conoscere Amore, ero solito cantare i canti dell'amore, ma quando imparai a conoscerlo, le parole sulla mia bocca divennero nient'altro che un soffio, e le cadenze nel mio petto un silenzio profondo. Nel passato, se mi fossi interrogato sui segreti e misteri dell'amore, avrei parlato e risposto a te con piena sicurezza. Ma ora che Amore mi ha adornato dei suoi abiti, vengo, a mia volta, a interrogarti sulle vie tutte dell'amore, e su tutte le sue meraviglie. Chi tra voi potrà rispondermi? Io vengo a interrogarti su me stesso, sul mio io e su quello che è in me. Chi tra voi può rivelare il mio cuore al mio cuore, e rivelare il mio io al mio io? Ditemi ora, quale fiamma è questa che mi arde in seno, che consuma la mia forza e confonde in me speranze e desideri? Quali mani sono queste, leggere, gentili e seducenti, che abbracciano il mio spirito nelle sue ore più solitarie e versano nella coppa del cuore un vino misto all'amarezza della gioia e alla dolcezza del dolore? Quali ali sono queste che battono intorno al mio giaciglio nei silenzi lunghi della notte, mentre io veglio e vigilo - non so su che cosa; ascoltando qualcosa che non odo e fissando qualcosa che non vedo; meditando su qualcosa che non comprendo, e possedendo qualcosa che mai raggiunsi. Sì, resto vigile, in veglia, sospirando, giacché per me sospiri e pene sono più amabili del cerchio di gioia e riso; vigile io resto nelle mani di un celato potere che m'uccide e poi mi risuscita, finché l'alba non irrompe e riempie di luce ogni angolo della mia casa. Ed è allora che io dormo, mentre tra le secche palpebre ancora tremolano le ombre della mia veglia, e sopra il mio giaciglio di pietra aleggia la figura di un sogno. E cos'è questo che diciamo amore? Ditemi, cos'è questo mistico segreto che si cela dietro le apparenze del nostro vivere, e che vive nel cuore del nostro esistere? Cos'è questa vasta liberazione che arriva come una causa per tutti gli effetti e come un effetto per ogni causa? Cos'è questo ridestarsi che accomuna morte e vita e crea da essi un sogno più strano della vita e più profondo della morte? Ditemi, fratelli, ditemi, chi di voi non vorrebbe svegliarsi da questo sonno di vita quando il vostro spirito avverte il tocco delle bianche dita di Amore? Chi di voi non vorrebbe abbandonare suo padre e sua madre

e il luogo dov'è nato quando la fanciulla che il suo cuore ama lo chiama? Chi di voi non vorrebbe traversare il deserto e scalare i monti e navigare i mari per cercare colei per cui arde il suo spirito? Chi di voi, giovane, non vagherebbe fino ai più lontani confini della terra, se vi è là chi l'attende: il cui respiro, la cui voce e il cui tocco egli sa dolci e balsamici? Chi non vorrebbe così bruciare come incenso la sua anima da- vanti a un dio che prende cura del suo desiderio ed esaudisce la sua invocazione? Fu soltanto ieri che io stavo sulla soglia del tempio interrogando i passanti sui misteri e sui benefici d'amore. E un uomo passò, di mezza età, logoro, abbattuto, e con la fronte aggrottata. Disse: «è Amore un'innata debolezza che abbiamo ereditata dal primo uomo». Poi un giovane, forte nel corpo e impavido, avanzò cantando: «Amore è risolutezza che s'accompagna al nostro essere, e lega il nostro presente alle età passate e future». E, ancora, una donna dal viso triste, passò e sospirò, dicendo: «Amore è un mortale veleno che vipere nere e orride diffondono tutt'intorno dagli abissi d'inferno, ed esso discende come rugiada sull'anima assetata: e l'anima se ne ubriaca per un veloce attimo, se ne appaga per un anno, e ne muore per un eone». Ma una fresca fanciulla, rosea, con sorridenti labbra disse: «Vedete, Amore è un nettare che le spose del mattino versano ai forti perché essi balzino glorificati dinanzi alle stelle della notte e gioiosi dinanzi al sole del giorno». Di poi venne un uomo in abito nero e mesto, con un'incolta barba che gli cadeva sul petto. Disse in tono austero: «Amore è stupidità che appare con l'alba della giovinezza e svanisce con la sua sera». E uno seguì a lui con viso raggiante e sereno, e disse in tranquilla letizia: «Amore è celeste saggezza che illumina il nostro occhio interno ed esterno perché si possano guardare le cose con lo sguardo degli dei». Poi passò di lì un cieco che tastava il terreno col suo vecchio bastone, e vi era un tremito nella sua voce mentre diceva: «Amore è nebbia densa che avvolge l'anima velando per essa gli aspetti della vita, così che l'anima altro non vede se non le ombre dei suoi desideri perduti tra rocciosi dirupi, e altro non ode se non l'eco della sua voce che grida dalle valli della desolazione». Poi passò un giovane: suonava una lira e cantava: «Amore è celestiale luce che splende dal profondo dell'io sensibile e tutto illumina intorno a sé: ed esso, l'io, contempla i mondi come un corteo che avanza sui verdi prati, e la vita come un sogno di beltà tra un risveglio e un altro risveglio». E a quel giovane seguì un uomo decrepito, tremante, che trascinava

i piedi, e che disse: «Amore è il riposo del corpo triste nel silenzio di una tomba, ed è sicurezza dell'anima nella fortezza dell'eternità». Poi passò un fanciullino, di cinque anni appena, che correva e gridava: «Amore è il padre mio, amore è la madre mia, e nessuno sa d'amore se non la madre mia e il padre mio». Ed ora il giorno era andato, e tutti erano passati davanti al tempio, e ciascuno di essi aveva parlato dell'amore, e in ogni parola aveva rivelato i suoi aneliti e desideri e aveva dischiuso della vita i misteriosi segreti. Quando la sera fu arrivata, e la mobile folla s'era ormai dispersa, e tutto era silente, udii una voce dentro il tempio che diceva: «Tutta la vita è un doppio, è corrente di ghiaccio ed è ardente fiamma, e l'ardente fiamma è Amore». Dopo di che entrai nel tempio, e mi chinai, inginocchiandomi supplice e intonando una preghiera nel segreto del cuore: «Fa' di me, Signore, alimento per l'ardente fiamma, e fa' di me, Signore, combustibile per il sacro fuoco. Amen». 2. Rivelazione Quando la notte si fu estesa e il sonno ebbe gettato il suo manto su tutta la terra, io lasciai il mio giaciglio, e cercai il mare, dicendo a me stesso: «Il mare mai non dorme, e la veglia del mare reca conforto a un anima insonne». Quando raggiunsi il lido, la nebbia era già discesa dalle cime montuose e aveva coperto il mondo così come un velo che adorni il viso d'una fanciulla. Lì io stetti, mirando le onde, ascoltandone il canto, e considerando il potere che è dietro di esse - quel potere che viaggia con le tempeste e s'adira con i vulcani, che sorride con i sorridenti fiori e fa musica con mormoranti rivi. Dopo un poco, mi volsi, ed ecco, scorsi tre figure che sedevano su una roccia lì presso, e vidi che la nebbia le velava e che tuttavia non le velava. Lentamente procedei verso la roccia su cui sedevano, spinto come da un potere a me sconosciuto. Mi fermai, dopo pochi passi, e volsi ad esse lo sguardo, a quelle figure, giacché v'era in quel luogo una magia che cristallizzava il mio proposito e m'agitava l'immaginazione. E allora, una delle tre figure s'alzò, e con voce che pareva provenire dalle profondità marine disse: «Vita senza amore è albero senza fiori e senza frutti.

E amore senza bellezza è un fiore senza profumo, un frutto senza semi. Vita, Amore, Bellezza sono tre entità in una sola, immensa e libera, che non conosce né mutamento né separazione». Questo disse, e nuovamente sedette. Poi s'alzò la seconda figura, e disse con voce simile al ruggito delle acque che s'avventano: «Vita senza rivolta è come le stagioni cui manchi primavera. E una rivolta senza giustizia è come una fonte in un deserto arido e secco. Vita, Rivolta, Giustizia sono tre entità in una sola, e in esse non vi è né mutamento né separazione». Questo disse, e nuovamente sedette. Poi s'alzò la terza figura, e parlò con voce simile a un fragore di tuono, dicendo: «Vita senza libertà è un corpo senza spirito. E libertà senza pensiero è simile a uno spirito confuso. Vita, Libertà, Pensiero sono tre entità in una sola, eterna, che mai svanisce e passa via». Infine i tre s'alzarono e con voci di severa maestà così dissero: «Amore e tutto quanto esso genera, Rivolta e tutto quanto essa crea, Libertà e tutto quanto cui essa dà vita, sono tutti e tre aspetti di Dio... E Dio è la mente infinita del mondo finito e cosciente». Seguì un silenzio colmo di un invisibile agitarsi di ali e del tremolio di eterei corpi. E serrai gli occhi, ascoltando l'eco delle parole. Quando riaprii i miei occhi, altro non vidi che il mare nascosto sotto un lenzuolo di nebbia; e mi mossi ancor più verso la roccia, e non vidi altro che una colonna d'incenso che saliva verso il cielo. 3. L'anima E il Dio degli Iddii creò l'anima, foggiandola per la bellezza le diede la delicatezza di una brezza all'alba, profumo di fiori, la grazia di un chiaro di luna. Le porse anche la coppa della gioia, e disse: «Non berrai da questa coppa se prima non avrai dimenticato il passato e rinunciato al futuro». Le porse anche la coppa del dolore, e disse: «Bevine affinché tu possa comprendere il significato della gioia». Poi Dio collocò nell'anima l'amore perché scattasse col primo gioioso sospiro, e la dolcezza, che fuggisse via dalla prima parola d'arroganza. E pose un celeste segnale che lo guidasse sulla via della verità. Pose nelle sue profondità un occhio che sapesse vedere ciò che non è visibile. Creò, dentro, un'immaginazione che fluisse come un fiume con

fantomatici aspetti e mobili figure. Lo rivestì degli abiti del desiderio tessuti dagli angeli, con tinte d'arcobaleno. Vi pose anche le tenebre della confusione, che è l'ombra della luce. E Dio foggiò il fuoco dalla fucina della collera, il vento soffiando dal deserto dell'insipienza; raccolse sabbia dai lidi dell'egotismo e polvere da sotto i piedi dei secoli; così Egli diede forma all'essere umano. E all'uomo diede una cieca energia che sobbalza in fiamma nei momenti di passionale follia, e cede davanti al desiderio. E Dio gli soffiò la vita, che è l'ombra della morte; e il Dio degli Iddii sorrise e pianse, e conobbe un amore che non ha né confine né fine. Così uni Egli all'uomo la Sua anima. 4. Canto della notte Tacita è la notte, e i sogni si celano nel silenzio. La luna si leva - ha occhi per vegliare il giorno. Vieni, figlia dei campi, e insieme andremo tra i vigneti, dove gli amanti s'incontrano. Giacché può darsi che lì anche noi calmeremo ~con la buona vendemmia d'amore la sete del nostro desiderio. Ascolta, l'usignolo versa il suo canto nelle valli che le colline hanno colmato del loro verde aroma di menta. Non temere, mia amata, le stelle serberanno il segreto di quest'incontro, e la soffice nebbia della notte velerà il nostro abbraccio. Non temere - La giovane sposa dei genii (1) nella sua caverna incantata giace e dorme, ebbra d'amore, e semi-nascosta dagli occhi delle urì. (2) E se anche da qui passasse il re dei genii, Amore lo manderebbe indietro.

Giacché non è lui amante com'io sono, non svelerebbe anch'egli pena del suo cuore? 1) Esseri soprannaturali, nella tradizione coranica. 2) Le «fanciulle dagli occhi neri» che allietano i beati nel paradiso islamico. 5. La mia anima mi consigliò La mia anima mi parlò e mi consigliò di amare tutto quello che gli altri odiano, e di favorire colui che gli altri diffamano. La mia anima mi consigliò e mi rivelò che Amore dà dignità non solo a chi ama, ma anche a chi è amato. Fino a quel giorno amore fu per me un filo della ragnatela stesa tra due fiori, l'uno accanto all'altro; ma ora è divenuto un alone senza inizio e senza fine, che circonda tutto quanto è stato, e che sempre s'accresce per abbracciare tutto quanto sarà. La mia anima mi consigliò e m'insegnò a vedere la bellezza velata da forma e colore. La mia anima mi consigliò di guardar con occhio fermo a ciò che è giudicato brutto finché non sembri amabile. Prima che la mia anima m'avesse così consigliato, la bellezza m'era apparsa come fiamma di torcia tra colonne di fumo; ma ora il fumo si è disperso, è svanito, ed io non vedo che la fiamma. La mia anima mi consigliò e mi suggerì di accogliere voci che non si levino dalla lingua o dalla gola. Prima di quel giorno non avevo io udito che insensatezze, nient'altro che clamori e vane grida; ma ora avevo appreso ad ascoltare il silenzio, ad udire i suoi cori elevare i canti dei secoli, cantare gli inni dell'etere, svelare i segreti dell'eternità. La mia anima mi parlò e mi consigliò di placare la mia sete con quel vino che non può mai essere versato in coppe, né sollevato da mani, né toccato da labbra. Fino a quel giorno la mia sete era come un opaca scintilla giacente tra le ceneri, da tirar fuori, o da spillare come da una fonte; ma ora il mio saldo desiderio è diventato esso stesso la mia coppa, Amore è ora il mio vino, e la solitudine è ora la mia letizia. La mia anima mi consigliò e mi suggerì di cercar ciò che non è visibile; e la mia anima mi svelò che ciò che vorremmo afferrare è quello che desideriamo. In altri giorni io ero contento del calore d'inverno e d'un fresco zefiro nel tempo d'estate;

ma ora le mie dita son diventate come di nebbia, hanno lasciato cadere tutto quanto custodivano, per mescolarsi con l'invisibile che ora desidero. La mia anima mi parlò e m'invitò a respirare la fragranza da una pianta che non ha né radici né tronco né fiori, e che nessun occhio ha mai veduto. Prima che la mia anima così mi consigliasse, io cercavo profumi nei giardini, in anfore di erbe olezzanti e in vasi d'incenso; ma ora io cerco solo un incenso che non può essere bruciato, respiro un'aria più odorosa di tutti i giardini della terra e di tutti i venti dell'etere. La mia anima mi consigliò e mi suggerì di rispondere e dire: «Son pronto», quando l'ignoto e l'avventura mi chiamano. Fino ad allora io non avevo corrisposto che con la voce di chi grida nella piazza del mercato, e non seguivo che strade ben segnate sulle mappe e bene attraversate; ma ora quel che è noto è solo per me un destriero che monto per ricercare ciò che è ignoto e la strada è ora una scala su cui poter salire fino al più periglioso culmine. La mia anima mi consigliò e mi ammoni di misurare il tempo, così dicendomi: «Vi è stato un ieri e vi sarà un domani». Fino a quel tempo io giudicavo il passato come un'epoca che sia perduta, che sarà dimenticata, e consideravo il futuro come un'era che non potrò raggiungere, ma ora ho appreso questo: che ogni tempo, con tutto quanto in esso è contenuto, può essere raggiunto nel breve presente e avverarsi. La mia anima parlò e mi rivelò che io non sono delimitato nello spazio. Disse così: «Qui, là, e al di là». Fino ad allora io stavo sulla mia collina, ed ogni altra collina mi sembrava distante e remota, ma ora io so che la collina dove dimoro è in verità tutte le colline, e che la valle verso cui scendo comprende tutte le valli. La mia anima mi consigliò e mi scongiurò di vigilare mentre gli altri dormono e di cercare il mio guanciale mentre essi vegliano, giacché in tutti i miei anni io non avevo percepito i loro sogni, né essi i miei. Ma ora ho io le ali, di giorno, mentre sogno, e quando essi dormono li vedo liberi nella notte, e io godo del loro essere liberi. La mia anima mi consigliò e mi suggerì di non esaltarmi troppo se m'avessero lodato, e di non agitarmi per il timore di un biasimo. Fino a quel giorno io dubitavo del valore della mia propria opera; ma ora ho appreso questo: che gli alberi fioriscono in primavera, e portano frutti in estate,

e lasciano cader le loro foglie in autunno per diventar nudi e spogli in inverno senza mai esaltarsi e senza mai vergognarsi. La mia anima mi consigliò e m'assicurò che non sono né più alto del pigmeo né più basso del gigante. Prima di quel giorno vedevo il genere umano come due uomini, uno piccolo e debole che deridevo o compativo, e l'altro possente, che avrei voluto o seguire o combattere. Ma ora io so che fui formato anch'io con la stessa polvere di cui ogni uomo è fatto, che i miei elementi sono i loro elementi, che il mio io interiore è il loro io interiore. La mia lotta è la loro lotta, e il loro pellegrinare è il mio pellegrinare. Se essi trasgrediscono, sono trasgressore anch'io, e se essi bene operano, ho parte anch'io nel loro bene operare. Se essi s'innalzano, anch'io m'innalzo con essi; se essi restano indietro, anch'io resto indietro. La mia anima mi consigliò e mi fece comprendere che la luce che porto in me non è la mia luce, che il mio canto non nacque da me stesso; giacché, per quanto io viaggi con la luce, io non sono la luce, e per quanto io sia un liuto fornito di corde sonore, io non ne sono il suonatore. La mia anima mi consigliò, fratello, e m'illuminò. E spesso ti ha la tua anima consigliato e illuminato. Giacché tu sei come io sono, e non c'è differenza tra noi tranne che io parlo di quel che è dentro di me con parole che ho io appreso nel mio silenzio, e tu custodisci quel che è dentro di te, e il tuo custodire è buono quanto lo è il mio molto parlare. 6. Il mio giorno di nascita (Scritta mentre studiavo arte a Parigi, il 6 gennaio 1908) Nel giorno in cui mia madre mi generò alla luce, in quel giorno di venticinque anni fa, il silenzio mi affidò alle immense mani della vita, che sanno di lotte e conflitti. Ecco, venticinque volte ho io viaggiato intorno al sole. Quante volte la luna abbia viaggiato intorno a me, non saprei dire. Ma questo io so, che non ho ancora appreso i segreti della luce, che non ho compreso i misteri delle tenebre. Venticinque volte ho viaggiato con la terra, la luna, il sole e le stelle, tutt'intorno all'universo. Ecco, ora la mia anima sussurra i nomi di sistemi cosmici, così come le caverne del mare risuonano delle onde, giacché l'anima esiste, come corrente nel cosmo, ma non conosce il suo potere. E l'anima canta il ritmo cosmico, l'alto e il basso,

e tuttavia non raggiunge la pienezza delle sue armonie. Venticinque anni fa il Tempo mi iscrisse nel libro di questa vita strana e immane. Ecco, una parola io sono, che ora significa nulla e ora molte cose. In quel giorno di ciascun anno quali pensieri e quali memorie s'affollano nell'anima! Mi stanno innanzi - il corteo degli anni andati, la parata dei fantasmi della notte - poi, eccoli spazzati via, così come il vento spazza le nuvole dall'orizzonte; svaniscono nelle tenebre della mia casa come canti di ruscelli in valli remote e desolate. In quel giorno, in ogni anno, quegli spiriti che diedero forma al mio spirito tornano a cercarmi dalle estremità dei mondi, cantando parole di dolenti rimembranze. Poi svaniscono, per nascondersi dietro le apparenze di questa vita, come uccelli che s'abbassano fin sopra una soglia e non trovano semi da becchettare e indugiano solo un attimo e volano via verso un altro luogo. Sempre in quel giorno i significati del mio passato mi stanno innanzi, come specchi oscuri in cui guardo per un po' e non vedo altro che i pallidi visi cadaverici degli anni, non altro che volti annosi e rugosi di speranze e sogni da lungo perduti. Una volta ancora guardo in quegli specchi, e solo vi scorgo il mio volto immobile. Fisso, aguzzo gli occhi e altro non vedo che tristezza. Interrogo la tristezza e trovo che non ha parole; eppure potrebbe la tristezza parlare, mi sembra che potrebbe esprimere, più della gioia, dolci parole. Per venticinque anni io ho molto amato, e spesso ho amato quel che altri odiavano. E tuttavia quel che amavo da fanciullo amo ora, e quel che ora amo amerò fino al termine di questo vivere; poiché l'amore è tutto quel che ho, e nessuno mai potrà farmelo perdere. Spesso ho io amato la morte, l'invocai con dolci nomi e di essa parlai con amabili parole sia apertamente che in segreto. Ma pur non dimenticando né infrangendo le promesse di morte, ho imparato ad amare anche la vita. Giacché morte e vita sono per me uguali per bellezza e letizia; hanno avuto parte nella crescita in me di desideri e aspirazioni, hanno, insieme, condiviso il mio amore e la mia tenerezza. Libertà anche ho amato, come vita e morte. E come in me cresceva l'amore, così cresceva la consapevolezza, in me, di come si sia schiavi dell'odio e della tirannia,

mentre osservavo la loro sottomissione ad idoli scheggiati dalle più oscure età, elevati dall'ignoranza, lucidati da labbra servili. Ma io amavo quegli schiavi come amavo la libertà, e sentivo per essi pietà, giacché essi non sono che uomini ciechi che baciano le fauci di orrende belve sanguinarie, senza vederle; che succhiano il veleno di pestifere vipere, e non se n'accorgono; che scavano le loro tombe con le loro mani, e non lo sanno. Libertà ho io amato più che qualsiasi altra cosa, giacché m'apparve essa simile a una fanciulla intristita dalle privazioni e dalla reclusione, fino a diventare uno spettro che s'aggira tra le case lungo strade solitarie, e quando essa invoca aiuto ai passanti, nessuno ode e nessuno guarda. Come tutti, per tutti questi venticinque anni ho io amato la felicità; ho appreso a svegliarmi e a cercarla ad ogni alba, così come tutti. Ma non l'ho mai cercata al loro modo, né mai vidi le tracce dei suoi passi sulla sabbia nei pressi delle loro belle dimore, né mai udii l'eco della sua voce dalle finestre dei loro templi. Fui solo nel cercarla. Udii la mia anima sussurrarmi in un orecchio: «Felicità è una fanciulla nata e allevata nella fortezza del cuore; mai non arriva da oltre quelle sue mura». E tuttavia, allorché apersi l'uscio del cuore per trovarla, scorsi lì il suo specchio e il suo giaciglio e le sue vesti, ma non trovai lei. Ho amato l'umanità. Sì, molto ho amato gli esseri umani, e gli uomini sono, credo, di tre specie: uno è quello che maledice la vita, l'altro è chi la benedice, e l'altro è chi la contempla. Ho amato il primo per la sua infelicità, il secondo per la sua bontà, e il terzo per la sua saggezza. Così passarono i venticinque anni, e così i miei giorni e le mie notti, mentre essi inseguivano la mia vita: come le foglie degli alberi che si disperdono davanti ai venti dell'autunno. E oggi io cesserò da questo ricordare, come stanco scalatore che sia a mezza via dalla vetta. E riguardo indietro, a destra e a manca, e non vedo tesori d'intorno, né in altro luogo, che io possa reclamare e dichiarare miei. Né mi ritrovo un raccolto dalle stagioni dei miei anni, se non fogli di bella carta bianca segnati da tracce di nero inchiostro, e strane e frammentarie tele coperte di linee e colori, armoniose e insieme disarmoniose. In tali cose ho io avvolto e bruciato grazia e libertà da me pensate e sognate, simile all'aratore che va sul campo e getta i suoi semi nei solchi,

e ritorna alla sua casa a sera, sperando e attendendo. Ma io, benché abbia ben gettato i semi del mio cuore, non ho tuttavia né sperato né atteso. Ed ora che giungo a questa stagione di vita, il passato sembra celato dietro una nebbia di duolo e di sospiri, e il futuro rivelato solo attraverso il velo del passato. Ora poso e guardo alla vita dalla mia piccola finestra, osservo i volti umani, odo il clamore degli uomini levarsi al cielo. Noto i loro passi risuonare tra le strade e le case: percepiscono l'unità dei loro spiriti, lo zelo dei loro desideri, l'ardore dei cuon. Ora poso e osservo i fanciulli gettar polvere tra loro tra risate e alte grida. Osservo ragazzi con visi sollevati, quasi leggessero un'ode alla gioventù scritta sui margini di una nuvola, allineata con il radiante scintillio del sole. Osservo ragazze che di qua e di là si muovono, come rami di un albero, sorridenti come fiori, e volgendo lo sguardo ai giovani da dietro le palpebre, tremanti d'amore e tenero desiderio. Osservo vecchi che camminano lenti, coi dorsi ricurvi, Appoggiandosi ai loro bastoni e guardando fissamente a terra. come se i loro scuri occhi cercassero nella polvere perduti lucenti gioielli. Ora sto fermo, accanto alla mia finestra, e guardo a tutte queste forme ed ombre muovendomi ad aggirandomi in silenzio per la città. Poi guardo, più lontano, verso l'immensa foresta e osservo quanto vi è in essa di selvaggia bellezza e di invitante silenzio, i poggi e le piccole valli, gli alberi che s'innalzano e le tremule erbe, i fiori carichi d'intensi profumi, e i rivi mormoranti, i selvatici uccelli che cantano, e tutta quella vita alata e ronzante. Guardo oltre l'immensa foresta, e osservo, laggiù, l'oceano - con le sue meraviglie profonde e i segreti misteriosi e i tesori nascosti; lì osservo tutto quanto vi è di rabbiose acque frementi e spumeggianti, e gli spruzzi che si sollevano e i vapori che s'abbassano. Scruto laggiù, lontano, l'oceano e osservo l'infinità dell'etere, il formicolio dei mondi, le scintillanti costellazioni, i soli e le lune, le stelle fisse e quelle mobili e veloci; e osservo l'evidenza di forze che s'attraggono e si respingono, le guerre degli elementi, aggregazioni e metamorfosi, e il tutto imprigionato in una legge che non ha inizio e fine. Queste cose io contemplo attraverso la mia finestrina, e dimentico i miei venticinque anni, e tutti i secoli che li hanno preceduti, e tutte le età che li seguiranno. E allora la mia vita, con le sue rivelazioni e i suoi misteri, mi appare come il sospiro di un fanciullo che trema nel vuoto delle eterne profondità e altezze.

Tuttavia, quest'atomo, questo io che io chiamo Io, sempre provoca movimento e clamore, alzando le sue ali verso il vasto firmamento, tendendo le sue mani verso i quattro angoli della terra, col suo essere poggiato sulla punta del tempo che gli diede vita consapevole. E dal sancta sanctorum dove questa vivente scintilla dimora, una voce s'alza e grida: «Sia pace a te, vita! Sia pace a te, risveglio! Sia pace a te, attuazione! Sia pace a te, a giorno, la cui sovrabbondante luce cinge le tenebre della terra! Sia pace a te, o notte, le cui tenebre rivelano la luce del cielo! Sia pace a voi, stagioni! Sia pace a te, primavera, che rinnovi la giovinezza della terra! Sia pace a te, estate, che accresci la gloria del sole! Sia pace a te, autunno, che elargisci i frutti del lavoro e la messe della fatica! Sia pace a te, inverno, che restauri con le tue tempeste la forza stanca della natura! Sia pace a voi, o anni, che svelate quel che gli anni hanno nascosto! Sia pace a voi, epoche, che restaurate quel che i secoli hanno distrutto! Sia pace a te, spirito, che reggi con prudenza le redini della vita, nascosto a noi dal sole! Sia pace a te, cuore, perché ti muovi ad acclamare la pace pur mentre sei umido di lacrime! Sia pace a voi, labbra, perché esprimete pace pur mentre gustate il pane dell'amarezza!». 7. Sta' calmo, mio cuore Sta' calmo, mio cuore. Non ti ode l'immenso spazio. Sta' calmo, mio cuore. L'etere, greve di lutto e di gemiti, non tollera i tuoi canti. Sta' calmo, giacché i fantasmi della notte non baderanno al sussurro dei tuoi misteri, e il corteo delle tenebre non s'arresterà dinanzi ai tuoi sogni. Sta' calmo, mio cuore, sta' calmo finché non sia l'alba. Giacché chi pazientemente attende il mattino saluterà con forza il mattino, e chi così ama la luce, dalla luce sarà riamato. Sta' calmo, mio cuore, e ascolta le mie parole. Nei sogni udii un merlo cantare sulla bocca di un infuocato vulcano, e vidi un giglio sollevare il suo capo sopra la neve; vidi una nuda urì danzare tra le tombe, e un bambino ridere mentre giocava con un teschio. Tutto questo io vidi in un sogno. Quando mi destai e mi guardai intorno, ecco, vidi il vulcano versar fuori la sua furia, ma non più udivo il merlo cantare.

Vidi i cieli spargere neve sulle colline e le valli, che rivestiva del suo bianco sudario i gigli silenziosi. Vidi le tombe, fila dopo fila, star lì, davanti alla tranquillità dei secoli, ma nessuna di esse che danzasse o pregasse. Poi osservai colline di teschi, ma nessun riso vi era lì tranne il riso del vento. Destandomi non vidi che pena e dolore. Dove, dunque, sono andate le gioie dei sogni? Dove si cela lo splendore del nostro sonno, e come ne è svanita l'immagine? Come potrà l'anima pazientemente tollerare, finché l'ombra del suo ardore non sarà col sonno ritornata? Sta' calmo, mio cuore, e accogli le mie parole. Era solo ieri che la mia anima era un albero, vecchio e forte, le cui radici penetravano nelle profondità della terra e i cui rami erano protesi verso l'infinito, fiorendo in primavera e recando frutti in estate. Quando l'autunno fu venuto, io raccolsi i frutti su vassoi d'argento e li collocai agli incroci delle strade, e chi passava ne prendeva e ne mangiava e poi proseguiva il suo cammino. Quando l'autunno fu trascorso e il suo canto si volse in gemito e inno funereo, io tornai ai miei vassoi e vidi che la gente non v'aveva lasciato che un solo frutto; e quando lo gustai, lo trovai amaro come l'aloe e aspro come l'uva verde. Allora io dissi tra me: «Ahimè, ho certo collocato una maledizione sulle labbra della gente, e un'ostilità nelle loro viscere. Che hai fatto allora, o mia anima, della dolcezza che le tue radici avevano succhiato dal seno della terra, e della fragranza che i tuoi rami avevano bevuto dalla luce del sole?». Dopo di che, io sradicai il vecchio e forte albero della mia anima. Lo separai dal suo passato e lo smantellai delle memorie di mille primavere e di mille autunni. E piantai l'albero della mia anima in un altro luogo. Lo posi in un campo remoto dalle strade del tempo, e trascorsi la notte vegliando lì accanto, dandogli da bere dalle mie lacrime e dal mio sangue, e dicendo: «Vi è un sapore nel sangue e una dolcezza nel pianto». Quando ritornò primavera, l'albero della mia anima rifiorì, e portò frutti nella buona stagione. E quando fu venuto l'autunno, io raccolsi ancora una volta i frutti maturi, e li collocai su vassoi d'oro ai crocicchi delle strade. E la gente passava, ma nessuno tendeva la sua mano a prendere di quei frutti. Allora ne presi io e ne mangiai, e trovai che era il frutto, dolce come il miele, succulento come il nettare, profumato come il

gelsomino, e soave come il vino di Babilonia. E gridai con forza: «Gli uomini non vogliono la beatitudine sulle loro labbra né la verità nelle loro viscere; giacché è la beatitudine figlia delle lacrime, e la verità è figlia della pena». Poi ritornai e mi sedetti sotto l'ombra del solitario albero della mia anima, in quel campo remoto dalle strade del tempo. Sta' calmo, mio cuore, sta' calmo finché non sia l'alba. Sta' calmo, giacché lo spazio è greve dell'odore di cose morte e non può inalare il tuo vivente respiro. Sta' calmo, mio cuore, ascolta la mia voce. Era solo ieri che il mio pensiero era come una nave, che si dondolava sulle onde del mare, e si muoveva con il vento da un lido all'altro. E la nave del mio pensiero era vuota tranne che per sette fiale colme, fino agli orli, di sette colori, dei sette colori, anzi, dell'arcobaleno. Venne poi un tempo in cui io fui stanco di girare alla deriva sulla superficie delle acque, e dissi: «Ritornerò con la nave vuota del mio pensiero al porto della città dov'io nacqui». E appena salpato, incominciai ad attintare dei sette colori i fianchi della mia nave; ed essa brillò gialla come il tramonto, azzurra come il cielo e rossa come un anemone sanguigno; e sopra le sue vele e il suo timone tracciai dei segni per attirare e deliziare l'occhio. E quando ciò fu fatto, la nave del mio pensiero apparve simile alla visione d'un profeta, fluttuante tra due infinità, del mare e del cielo. Ora, quando la mia nave raggiunse il porto, ecco la gente tutta mi venne incontro, con gioia e clamore mi salutarano; e mi condussero in città, battendo i loro tamburelli e soffiando nei loro flauti di canne. Tutto questo essi facevano perché la mia nave incantava e affascinava i loro occhi: ma nessuno salì sulla nave del mio pensiero, né alcuno s'accorse che avevo condotto in porto una nave vuota. Allora io dissi tra me: «Ho raggirato il popolo, e con sette fiale di colori ho io ingannato il loro occhio interno e il loro occhio esterno». E quando un anno fu passato, nuovamente salii sulla nave del mio pensiero e affrontai il mare. Veleggiai per le isole d'Oriente, e lì raccolsi incenso e mirra e legno di sandalo, e li portai sulla mia nave. Veleggiai per le isole del Sud, e di là portai oro, giada, smeraldi e

ogni sorta di pietre preziose; e per le isole del Nord veleggiai, e trovai lì sete rare e velluti e merletti d'ogni specie; e di lì alle isole d'Occidente, e vi acquistai cotte di maglia, lance e spade e varie armi. Così, riempii la nave del mio pensiero con le cose più costose e più strane della terra, e ritornai al porto della mia città, dicendo nel mio cuore: «Ora la mia gente mi loderà come uomo meritevole di lode. Mi condurranno, certo, nella piazza del mercato tra canti e suoni». Ma, ecco, quando toccai il porto, nessuno venne ad incontrarmi e a salutarmi. Solitario entrai nelle strade della mia città, ma nessuno aveva sguardi per me. Mi fermai anche nelle piazze dei mercati, raccontando di tutto quello che avevo con me portato dei frutti della terra e d'altre buone cose. Ma la gente mi guardava e rideva, con sulle labbra la derisione. E si volsero via da me. Ed io ne fui turbato e abbattuto, e mi diressi verso il porto. Non appena i miei occhi caddero sulla nave, mi resi conto di qualcosa cui nei miei viaggi e nel mio cercare buone navi non avevo mai badato; e gridai allora nella mia umiliazione: «Guardate, le onde del mare hanno slavato i sette colori dalla mia nave, che ora appare come uno scheletro tutto d'ossa. E i venti e le tempeste e l'ardore del sole hanno cancellato dalle vele ogni immagine di meraviglia e diletto, e ora esse sembrano come vesti stinte e ridotte a brandelli. In verità, ho raccolto i tesori più costosi in una bara galleggiante sulla superficie delle acque. Sono ritornato alla mia gente, ma la mia gente s'allontana da me, giacché gli occhi di tutti non vedono che l'apparenza esteriore. In quel momento abbandonai la nave del mio pensiero e cercai la città dei morti, e lì sedetti tra le tombe imbiancate, meditando sui loro segreti. Sta' calmo, mio cuore. Sta' calmo finché non sia l'alba. Sta' calmo, benché la tempesta si faccia beffa dei sussurri delle tue profondità. Sta' calmo, mio cuore, finché non sia l'alba. Giacché chi sa attendere pazientemente il mattino, dal mattino sarà teneramente abbracciato. Ecco, mio cuore, l'alba è venuta; parla, dunque, se ancora hai il potere della parola. Ecco, mio cuore, il corteo del mattino. Non suscitò il silenzio della notte nelle vostre profondità un canto per salutare il mattino? Guardate quel volo di colombi e merli lì sulla valle:

non ha la solennità della notte dato forza alle vostre ali per volare insieme con loro? Ecco, i pastori conducono i loro greggi fuori dai recinti. Non hanno le ombre della notte sospinto il vostro desiderio a seguirli anche nei verdi prati? Ecco, giovani e fanciulle s'affrettano verso il vigneto. Non volete voi alzarvi e unirvi a loro? Sorgi, mio cuore. Sorgi e muovi insieme con l'alba. Giacché la notte è trascorsa e i timori della notte sono svaniti coi loro neri segni. Sorgi, mio cuore, e solleva la tua voce in un canto; giacché chi non si unisce, cantando, con l'alba non è che un figlio delle tenebre. 8. Notte O Notte, luogo in cui dimorano i poeti, gli amanti e i cantori, Notte, dove abitano le ombre in compagnia di spiriti e visioni, Notte, di cui s'avvolgono i nostri ardori, desideri e memorie, Gigante immenso che siede tra le piccole nuvole della sera e le spose del mattino, cinta dalla spada del timore, incoronata dalla luna e rivestita di silenzio; che guardi con mille occhi nelle profondità della vita, e ascolti con mille orecchi i sospiri di desolazione e morte! è la tua tenebra che rivela a noi la luce del cielo, giacché la luce del giorno ci ha cinto dell'oscurità della terra. è la tua promessa che ci apre gli occhi all'eternità, giacché la vanità del giorno ci teneva avvinti come ciechi nel mondo del tempo e dello spazio. è il tuo quieto silenzio che svela il segreto di spiriti infaticabili, sempre in veglia: giacché il giorno è clamore e turbolenza, e le anime vivono in esso sotto i duri zoccoli di ambizione e desiderio. Notte, sei un pastore che raccoglie nei recinti del sonno i sogni dei deboli e le speranze dei forti. Sei un veggente che chiude con le sue mistiche dita le palpebre degli infelici e solleva i loro cuori verso un mondo più mite che non sia questo nostro. Nelle pieghe dei tuoi grigi vestimenti gli amanti hanno trovato il loro riparo. E ai tuoi piedi, bagnati della rugiada del cielo, hanno pianto i cuori solitari le loro lacrime; nelle palme delle tue mani, fragranti dell'odore di campi e vigneti, gli stranieri hanno deposto i loro aneliti e la loro disperazione; agli amanti, sei amica; al solitario, sei consolatrice; al desolato, offri asilo. Nella tua profonda ombra s'agitano le fantasie del poeta, sul tuo seno si ridesta il cuore profetico; sulla tua fronte scrive l'immaginazione. Giacché per il poeta tu sei una sovrana, per il profeta una visione, e, per il pensatore, un'intima amica. Quando la mia anima diventò stanca dell'uomo e i miei occhi si

stancarono di guardare il viso del giorno, io ricercai i campi remoti dove dormono le ombre di passate età. Lì io stetti davanti a un essere nero e silenzioso che si muoveva con mille piedi su per il monte, su per la valle e il piano. Lì io guardai dentro gli occhi delle tenebre e sentii il mormorio di insensibili ali. Lì io sentii il tocco di vesti informi e fui scosso dai terrori dell'invisibile. Lì io ti vidi, Notte, tragica e bella e solenne. che stai tra cielo e terra, con le nuvole per abiti, cinta di nebbia. Che ridi alla luce del sole e ti beffi della supremazia del giorno, che deridi le moltitudini di schiavi in ginocchio, insonni, davanti ai loro idoli, e disprezzi i re che dormono e sognano nei loro letti di seta, lì io ti vidi che guardavi negli occhi dei ladri, e ti osservai mentre vigilavi sul fantolino addormentato; io ti vidi che piangevi davanti ai sorrisi delle prostitute e sorridevi alle lacrime degli amanti, sollevando con la tua destra i generosi, e schiacciando coi tuoi piedi i meschini. Lì io ti vidi, Notte, e tu mi vedesti; tu, nella tua imponente bellezza, eri per me madre, ed io, nei miei sogni, ero un figlio, giacché le cortine dell'essere erano state tirate, e il velo del dubbio s'era lacerato; tu rivelasti a me i tuoi proponimenti, ed io dissi a te delle mie speranze e dei miei desideri. E la tua maestà diventò allora una melodia più tenera del gentile sussurro dei fiori, e i miei timori si volsero in una fiducia superiore a quella degli uccelli dell'aria; e tu mi sollevasti e mi ponesti sulle tue spalle, e insegnasti ai miei occhi a vedere, alle mie orecchie a udire, alle labbra a parlare, al cuore ad amare; con le tue magiche dita sfiorasti il mio pensiero, e il mio pensiero si riversò fuori come un flusso canoro, portando via ogni erba inaridita. E con le tue labbra baciasti il mio spirito, che s'infiammò e divorò ogni morta e morente cosa. Io ti seguii, Notte, finché divenni simile a te; marciai come tuo compagno finché i tuoi desideri divennero i miei; e ti amai finché tutto il mio essere non fu, certo, che una ridotta immagine della tua. Giacché dentro il mio oscuro io s'accendono stelle che la passione dissemina a sera e che il dubbio raccoglie all'alba; e dentro il mio cuore v'è una luna che lotta ora con nuvole spesse, e ora con un corteo di sogni che riempie l'intero spazio. Ora dentro la mia anima ridesta abita una pace che mostra; insieme, il segreto dell'amante e la preghiera del devoto; e sopra il mio capo v'è un velo di mistero che l'agonia della morte lacererà, ma che i canti di giovinezza ritesseranno.

Io sono simile a te, Notte, e se gli uomini mi giudicheranno millantatore, non si vantano essi forse del loro esser simili al giorno? Sono simile a te, e come te sono accusato di tante cose che non sono. Sono simile a te con tutti i miei sogni, con le mie speranze e il mio essere. Sono simile a te, anche se il crepuscolo non m'incorona col suo dorato vello. Sono simile a te, benché il mattino non adorni il mio strascico di perle e di rose. Sono simile a te, benché io non sia cinto di nessuna via lattea. Sono notte anch'io, vasta e calma, e tuttavia incatenato e ribelle. Non vi è un inizio alla mia oscurità e nessun limite vi è alle mie profondità. Quando le anime dei trapassati balzeranno orgogliosi di se stessi nella luce della gioia, la mia anima notturna discenderà glorificata dall'oscurità del suo duolo. Sono simile a te, notte, e quando verrà la mia alba, verrà anche, allora, la fine per me. 9. Nella città dei morti Fu solo ieri che io scampai dal tumulto della città e proseguii verso i silenziosi campi; e giunsi a un'alta collina dove Natura dispiegava i doni della sua munifica mano. Salii su per quella collina e guardai indietro sulla città. Ed ecco, la città era là, con tutte le sue torri e i suoi templi, e giaceva sotto una nuvola di spesso e nero fumo che s'alzava dalle sue fornaci e fabbriche. Mentre contemplavo di lassù le opere dell'uomo, mi sembrò che molte, tante fossero vane e futili. E volentieri volsi la mia mente da tutto quanto i figli di Adamo hanno edificato, e guardai verso i campi, il luogo della grande gloria di Dio. E lì in mezzo scorsi un cimitero con molte tombe di fine marmo, e con alberi di cipresso. Lì dunque, tra la città dei viventi e la città dei morti, io sedetti a meditare sulle incessanti lotte e i continui turbamenti della vita, e l'avvolgente silenzio e la vasta dignità della morte. Da un lato, vedevo speranza e disperazione, amore e odio, ricchezza e povertà, credenza e miscredenza; e dall'altro, polvere su polvere che la natura rimescola continuamente, foggiandone il suo mondo di verdi cose che crescono e pro- sperano nel profondo silenzio della notte. Mentre così meditavo, ecco, una grande folla, che avanzava lentamente, colpi la mia visione, e udii una musica che riempiva l'aria di tristi suoni. Davanti ai miei occhi sfilava un corteo di grandi e di umili dell'umanità, che insieme andavano in corteo, al funerale di un uomo che era stato ricco e potente: un morto seguito da persone viventi. E questi piangevano e gridavano, riempendo il giorno dei loro lamenti e gemiti,

fin tra quelle tombe. E i preti offrivano preghiere e agitavano i loro incensieri, e i flautisti soffiavano, dolenti, nei loro flauti. Gli oratori attaccarono con sonore parole d'elogio, e i poeti si lamentarono con studiati versi, finché tutto fu giunto a una stanca fine. E allora la folla si disperse, e apparvero un'orgogliosa pietra tombale che gli scalpellini a gara avevano scolpito, e molte corone di fiori, e ghirlande intrecciate da abili ed esperte mani. Poi il corteo ritornò verso la città, mentre io sedevo, guardando la lontano, e meditavo. Ed ora il sole tramontava ad occidente, e le ombre delle rocce e degli alberi cominciavano ad allungarsi, deponendo il loro rivestimento di luce. In quel momento io guardai, ed ecco, due uomini portavano sulle spalle una bara di modesto legno; e, dietro, camminava una donna in cenciose vesti, con un bimbo al seno, mentre un cane, ai suoi piedi, ora fissava la donna ed ora il feretro di legno. Solo questi erano lì, al funerale di un uomo che era stato povero e umile. La moglie, le cui silenziose lacrime esprimevano intenso dolore, un bambino, che gridava perché la madre piangeva, e un animale fedele, che seguiva con la sua muta tristezza. E quando costoro raggiunsero il luogo delle tombe, calarono la bara in una fossa nel più discosto angolo, ben distante dalle alte marmoree tombe. Infine ritornarono in silenzio, desolati, e gli occhi del cane si volsero spesso verso l'estrema dimora del suo padrone e amico, finché tutti scomparvero dalla vista dietro agli alberi. Dopo di che rivolsi i miei occhi sulla città dei viventi, e tra me dissi: «Questa è per i ricchi e i potenti». Poi riguardai la città dei morti, e dissi: «E anche questa è per i ricchi e i potenti». E gridai con forza: «Dov'è allora la dimora di quelli che sono deboli e poveri, o Signore?». Questo io dissi, e guardai su verso il cielo e le nuvole, nel trionfo dei raggi d'oro dell'ultimo sole. E udii una voce, dentro di me, che diceva: «è là!». 10. Il poeta Un esule io sono in questo mondo. Un esule sono io, solo e tormentato dalla solitudine, che sempre dirige i miei pensieri verso un magico e ignoto reame e colma i miei sogni delle ombre di una regione remota e invisibile. Un esule sono io dai miei congiunti e conterranei, e dovessi io incontrare uno di loro, tra me direi: «Ma chi è che viene? Dov'è che l'ho conosciuto? Quale vincolo mi unisce a lui e perché m'accosto per sedergli accanto?

Un esule sono io da me stesso, e dovessi io udir parlare la mia lingua, il mio orecchio troverebbe strana quella voce. Talvolta mi guardo dentro e osservo il mio io, un io nascosto che ride e piange, che osa e teme. Allora il mio essere si stupisce del mio essere, e il mio spirito chiede al mio spirito. Ma io resto un esule, ignoto, perduto nella nebbia, rivestito di silenzio. Un esule sono io dal mio corpo; e quando sosto davanti a uno specchio, ecco, sul mio viso vi è quello che la mia anima non ha pensato, e nei miei occhi quello che la mia profondità non contiene. Quando io cammino per le strade della città, i ragazzi mi vengono dietro e gridano: «Guardatelo, il cieco! Diamogli un bastone su cui appoggiarsi». E io m'allontano in fretta da loro. Se m'imbatto in una frotta di fanciulle, esse s'attaccano a me cantando: «è sordo, oh, come una pietra! Colmiamo le sue orecchie di armonie d'amore e passione». E io fuggo anche da loro. Ogni volta che m'accosto a gente di mezza età nelle piazze del mercato, tutti mi vengono intorno, gridando: «Oh, è muto come una tomba! Raddrizziamo la sua lingua contorta». E io m'allontano da loro intimorito. E se passo accanto a un gruppo di vecchi, essi puntano verso di me le loro dita tremanti, dicendo: «Oh, è un pazzo che ha perduto la ragione nella terra degli spiriti e dei dèmoni!». Un esule sono io in questo mondo. Un esule sono io, giacché ho percorso la terra sia ad Est che ad Ovest, e non trovai, tuttavia, il mio luogo di nascita, né alcuno che mi conoscesse o avesse udito il mio nome. Al mattino mi svegliai per trovarmi imprigionato in un'oscura caverna dove pendono minacciose vipere, dove ogni essere strisciante infesta il terreno e i muri. Quando io cerco la luce esterna, le ombre del mio corpo marciano davanti a me - verso dove? Non so, mentre cerco ciò che non comprendo, anelando a ciò che non mi necessita. Quando cala il vespro, ed io ritorno e mi stendo sul mio giaciglio di spine e piume, strani pensieri mi seducono, insieme paurosi e gioiosi, e i desideri mi assediano con dolori e diletti. Quando è mezzanotte, le ombre di trascorse età piombano su di me, e spiriti di obliate terre mi visitano e mi guardano: ed io anche li guardo, e parlo a loro e chiedo di antichi fatti, ed essi mi rispondono con cortesie e sorrisi. Ma quando vorrei poi afferrarli e trattenerli, essi mi sfuggono e si dissolvono come fumo nell'aria. Un esule sono io in questo mondo.

Un esule sono io, e nessuno comprende il linguaggio della mia anima. Percorro la foresta e osservo i ruscelli risalire dal fondo delle valli alle cime dei monti; davanti ai miei occhi alberi nudi vanno fiorendo e recano frutti e spargono le loro foglie morte, tutto in un momento. E davanti ai miei occhi i loro rami cadono in basso e diventano scuri serpenti. Sì, sono strane le mie visioni, non somigliano alle visioni di nessun altro, giacché io vedo uccelli alzare le loro ali nel mattino con lieti canti e poi con lamenti; li vedo accendersi e poi mutarsi davanti ai miei occhi in donne nude con lunghe chiome sciolte, che mi guardano da dietro palpebre dipinte per l'amore, e mi sorridono con labbra infuse nel miele e tendono a me bianche mani profumate di incenso e di mirra. Ma mentre io guardo, ecco, svaniscono come nebbia che sia scossa, lasciando nell'aria l'eco del loro riso motteggiatore. Un esule sono io in questo mondo. Un poeta sono io che raccoglie in versi quel che la vita sparpaglia in prosa; e che sparpaglia in prosa quel che la vita raccoglie in versi. E perciò un esule sono io, e un esule resterò finché morte non m'avrà sollevato e riportato alla mia patria. 11. La fama Camminavo sulla sabbia. Bassa marea. E giù, oltre, la curva, scrissi un verso sulla sabbia. E in quel verso scrissi quel che la mia mente pensava e ciò che la mia anima desiderava. E quando la marea fu alta, ritornai, ancora, su quel lido, e di ciò che avevo scritto nulla trovai. Trovai solo i segni del bastone di uno che aveva lì camminato da cieco. 12. Terra Con forza e potenza emerge la terra dalla terra, poi terra si muove sulla terra con dignità e fierezza; e la terra innalza dalla terra palazzi per i re, e alte torri e squadrati templi per tutti, e intreccia bizzarri miti, severe leggi e sottili dogmi. Quando tutto questo è fatto, è stanca la terra del lavoro della terra, e dalla sua luce e oscurità crea grigie ombre, e assonnate fantasie, e fascinosi sogni. Il sonno della terra seduce allora le grevi palpebre della terra, che si serrano su tutte le cose in un profondo e quieto sonno. E la terra chiama la terra, e dice: «Guarda, io sono un grembo e sono una tomba;

grembo e tomba io sarò per sempre, sì, anche quando non vi saranno più stelle, e finché i soli non si volgeranno in morte ceneri».