7 L’impianto antincendio - STiDuE

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Il progetto idraulico 7 L’impianto antincendio 7.1 Introduzione, 7.2 Gli agenti estinguenti, 7.3 La normativa antincendio, 7.4 Gli impianti fissi di estinzione, 7.5 Gli impianti fissi di rilevazione, 7.6 Gli impianti mobili di estinzione 7.1 Introduzione L’obiettivo di un impianto di spegnimento degli incendi è la sicurezza della nave e di conseguenza quella delle persone imbarcate e del carico, oltre che indirettamente quella dell’ambiente circostante, ma l’aspetto della prevenzione dell’inquinamento non è strettamente correlato ai compiti dell’impianto quanto invece lo è con le conseguenze di una perdita della nave per incendio. La normativa di riferimento per il progetto degli impianti antincendio è vasta perché l’esigenza di garantire la sicurezza nei confronti dell’incendio è da sempre molto sentita a bordo delle navi, infatti una delle maggiori cause correlate alla perdita di una nave è lo sviluppo di un incendio in una delle zone a più alto rischio quali la sala macchine. Gli obiettivi della prevenzione degli incendi sono essenzialmente quelli di ridurre i rischi per la vita, per la nave ed il suo carico e per l’ambiente prevenendo lo sviluppo di incendi e di esplosioni, fornendo a tale scopo innanzitutto mezzi per il controllo e la soppressione del fuoco, ma anche sicure vie di sfuggita per le persone imbarcate. Ciò deve essere realizzato con le divisioni tagliafuoco, l’allontanamento delle zone a rischio dalle zone abitate, la restrizione dell’uso di materiali combustibili, la protezione degli spazi dedicati alle vie di sfuggita, la disponibilità di mezzi estinguenti, la riduzione di formazione di vapori infiammabili dalle casse e dalle cisterne. A bordo delle navi sono adottati diversi metodi per la protezione dagli incendi ed è usuale definire tre approcci diversi al problema. Ciascuna delle tre filosofie che si sono storicamente affermate propone, per la precisione, di 1

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Il progetto idraulico

7 L’impianto antincendio

7.1 Introduzione, 7.2 Gli agenti estinguenti, 7.3 La normativa antincendio, 7.4 Gli impianti fissi di estinzione, 7.5 Gli impianti fissi di rilevazione, 7.6 Gli impianti mobili di estinzione

7.1 – Introduzione

L’obiettivo di un impianto di spegnimento degli incendi è la sicurezza della nave e di conseguenza quella delle persone imbarcate e del carico, oltre che indirettamente quella dell’ambiente circostante, ma l’aspetto della prevenzione dell’inquinamento non è strettamente correlato ai compiti dell’impianto − quanto invece lo è con le conseguenze di una perdita della nave per incendio. La normativa di riferimento per il progetto degli impianti antincendio è vasta perché l’esigenza di garantire la sicurezza nei confronti dell’incendio è da sempre molto sentita a bordo delle navi, infatti una delle maggiori cause correlate alla perdita di una nave è lo sviluppo di un incendio in una delle zone a più alto rischio quali la sala macchine.

Gli obiettivi della prevenzione degli incendi sono essenzialmente quelli di ridurre i rischi per la vita, per la nave ed il suo carico e per l’ambiente prevenendo lo sviluppo di incendi e di esplosioni, fornendo a tale scopo innanzitutto mezzi per il controllo e la soppressione del fuoco, ma anche sicure vie di sfuggita per le persone imbarcate. Ciò deve essere realizzato con le divisioni tagliafuoco, l’allontanamento delle zone a rischio dalle zone abitate, la restrizione dell’uso di materiali combustibili, la protezione degli spazi dedicati alle vie di sfuggita, la disponibilità di mezzi estinguenti, la riduzione di formazione di vapori infiammabili dalle casse e dalle cisterne.

A bordo delle navi sono adottati diversi metodi per la protezione dagli incendi ed è usuale definire tre approcci diversi al problema. Ciascuna delle tre filosofie che si sono storicamente affermate propone, per la precisione, di

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intervenire in maniera decisiva − nello scongiurare il pericolo dell’incendio − in una delle seguenti fasi: innesco, sviluppo e diffusione. I tre metodi propongono infatti di nell’ordine: • innesco – prendere tutti i provvedimenti perché un incendio non possa

svilupparsi; • sviluppo – predisporre impianti per l’immediato rilevamento e per

l’intervento di spegnimento dell’incendio che si è sviluppato; • diffusione – fare in modo che un incendio sviluppatosi in un ambiente

non possa diffondersi in altri ambienti della nave. Le sorgenti d’ignizione a bordo di una nave possono essere molteplici e sono dovute a malfunzionamenti di apparecchiature elettriche o meccaniche che possono portare a riscaldamenti di superfici a contatto con materiali combustibili, a cause accidentali legate a lavorazioni con fiamma (saldatura o taglio), a scintille generate da impianti elettrici o da cariche elettrostatiche, oppure alla mancanza di precauzione nello stivaggio di gas infiammabili, di liquidi che emettono vapori infiammabili o ancora di materiali solidi alla rinfusa che reagiscono con l’aria dando origine ad incendi per auto−combustione (per esempio il solfato di ferro).

La protezione al fuoco sulle navi viene infatti effettuata facendo ricorso ad impianti di rilevamento e di estinzione, a sistemi strutturali di contenimento ed a materiali non combustibili.

La SOLAS raccoglie le indicazioni maturate negli anni dall’esperienza di applicazione dei tre diversi criteri e propone le norme per un corretto dimensionamento dell’impianto in un capitolo che è costantemente oggetto di revisioni − revisioni che maturano dall’analisi delle carenze degli impianti di spegnimento individuate in seguito a sinistri. Il Cap. II–2 “Construction – Fire protection, fire detection and fire extinction” raccoglie sia le regole inerenti il progetto della nave, con attenzione al problema dello sviluppo e della diffusione del fuoco a bordo, sia quelle che riguardano la definizione delle tipologie degli impianti da utilizzare in funzione delle caratteristiche della nave.

Il progetto degli impianti antincendio richiede nel suo complesso la definizione di tutti quegli apparati che interessano la catena di prevenzione, controllo ed intervento. La nave deve infatti essere dotata, per quanto riguarda la protezione dal fuoco, dei seguenti sistemi: • un sistema di rilevamento sia delle condizioni che possono essere

critiche per l’innesco di un incendio, sia di un incendio già in corso; sono usati rilevatori con principi di funzionamento adatti ai diversi tipi di incendio;

• un impianto di spegnimento manuale o automatico, il cui progetto deve essere caratterizzato dalla scelta del tipo di agente estinguente da

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utilizzare e dalle modalità con cui esso deve essere applicato al focolaio d’incendio;

• gli impianti correlati che devono intervenire per favorire l’intervento dell’impianto di spegnimento (per esempio per la chiusura delle porte e delle saracinesche delle condotte di distribuzione dell’aria poste sulle paratie tagliafuoco allo scopo di ridurre il “tiraggio”) o per smaltire i mezzi estinguenti riversati in un ambiente chiuso (per l’acqua l’impianto di smaltimento grandi masse, per i gas l’impianto di ventilazione, etc.). L’applicazione di uno dei tre metodi precedentemente illustrati consiste

nel garantire la sicurezza della nave minimizzando i rischi del fuoco con azioni che riguardano specificamente una delle tre fasi dell’incendio, ma dotandola comunque di tutti gli impianti necessari al controllo dell’innesco, dello sviluppo e della diffusione. In pratica, per il controllo della fase di innesco si dovrà privilegiare l’utilizzo di materiali ignifughi negli allestimenti della nave, per il controllo della fase di sviluppo dovranno essere previsti sistemi automatici di rilevamento ed estinzione ed infine per il controllo della diffusione dell’incendio dovranno essere previste divisioni tagliafuoco in modo da limitare al massimo le dimensioni degli ambienti di espansione dell’incendio.

È evidente che in generale il tipo di sistema da preferire per la difesa dagli incendi di un ambiente dipende dal tipo di sostanze che vi si trovano stoccate, e dalla loro quantità, dal tipo di materiali utilizzati per la costruzione e per l’allestimento di quell’ambiente, dalla disponibilità d’aria fresca per favorire l’incendio, dalla temperatura presente e dalle possibilità di inneschi.

Il fuoco è il frutto, e l’indicatore, di una combustione in corso, definita da una reazione chimica veloce, fortemente esotermica e che si auto−sostiene. La reazione ha luogo tra un agente ossidante (l’ossigeno atmosferico) ed un combustibile (principalmente sostanze organiche a base di idrogeno e di carbonio), generalmente ridotto allo stato gassoso, ed è accompagnata dal rilascio di calore e di luce. Se la reazione avviene fra l’ossidante ed il combustibile già miscelati in un ambiente confinato, allora essa dà luogo anche ad un rapido aumento della pressione, ossia ad un’esplosione (può aver luogo a bordo in presenza di grandi quantità di miscele gassose infiammabili contenute in un locale chiuso). Si parla infatti di esplosione quando la propagazione del fronte di fiamma avvenga non per trasmissione del calore prodotto dalla reazione chimica ma per la cessione dell’energia contenuta nell’onda d’urto.

A bordo delle navi i due reagenti sono un combustibile che può essere di diversa natura (nel caso del carico, per esempio, un idrocarburo liquido) e l’aria che fa da comburente.

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I combustibili solidi e quelli liquidi per bruciare devono essere riscaldati alla temperatura alla quale emettono vapori infiammabili. Per la precisione, le temperature caratteristiche delle sostanze combustibili sono rappresentate dalla temperatura di flash point e dalla temperatura di combustione (o “fire point”): la prima indica la condizione di sviluppo rapido di una fiamma in presenza di una fonte di accensione, ma non il sostentamento della combustione, la seconda indica la temperatura alla quale il combustibile emette vapori infiammabili in quantità tale da mantenere la combustione e da provocare quindi successivamente la diffusione della fiamma.

Oltre a queste esiste anche una temperatura di ignizione spontanea che, essendo molto più elevata di quella di fire point, è generalmente meno significativa nello studio dell’innesco degli incendi, anche perché non è di facile determinazione poiché è fortemente influenzata dalla modalità con cui il combustibile viene riscaldato (metodo di trasmissione di calore, tempo di contatto con la fonte di calore, etc.). A questa temperatura il materiale si auto−incendia e sostiene la combustione. Il calore necessario per il riscaldamento può derivare da un processo di ossidazione lenta (senza fiamma) del combustibile in aria, ed il calore prodotto, se non è dissipato, favorisce l’innalzamento della temperatura e la formazione di vapori e quindi, a catena, l’accelerazione della reazione di combustione finché viene raggiunta la temperatura di auto–ignizione che porta alla generazione della fiamma. Durante l’intero sviluppo si ha generazione di fumi che possono aiutare a rilevare la combustione nascosta che è in corso.

Materiali che possono soffrire del rischio di auto–ignizione sono gli idrocarburi, il carbone, i metalli ferrosi finemente suddivisi ed eventualmente intrisi di olii, le granaglie, le balle di cotone e di fieno. Anche l’azione di microrganismi tolleranti le alte temperature può favorire il fenomeno dell’innalzamento della temperatura della sostanza organica combustibile, infatti questi possono dare luogo a trasformazioni biochimiche esotermiche.

Con riferimento alla combustione che porta all’insorgere di una fiamma, si possono identificare le seguenti fasi: • l’inizio del focolaio – è la fase di innesco per effetto in genere di

un’azione esterna alla sostanza combustibile (ma anche per auto–ignizione);

• la combustione – corrisponde alla fase di formazione e sviluppo della fiamma, prima lenta e poi vivace: la durata dei due periodi è assai variabile in funzione delle condizioni della combustione, si pensi alla combustione di una balla di cotone oppure per contro a quella dei vapori emessi da un idrocarburo;

• il flash over – questa fase corrisponde alla diffusione della fiamma nell’ambiente circostante per effetto del riscaldamento, per convezione,

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conduzione e soprattutto per irraggiamento, dei materiali contigui: la temperatura nell’ambiente aumenta uniformandosi e provocando l’innesco della combustione per auto–ignizione del materiale presente nell’ambiente (in questa fase vengono raggiunte le temperature più elevate);

• la regressione – l’esaurirsi del combustibile comporta la riduzione della fiamma ma, per inerzia termica, le temperature si abbassano molto lentamente. La pericolosità del materiale combustibile che si trova a bordo della

nave è funzione dell’energia disponibile dalla combustione dello stesso (misurabile per esempio tramite il potere calorifico), che viene ad essere ovviamente proporzionale alla quantità di combustibile presente, e della velocità con cui il combustibile cede energia all’ambiente, usualmente indicata come “heat release rate” (HRR). É interessante notare che il valore del parametro HRR di picco è disponibile non solo per materiali puri alla rinfusa, ma anche per elementi in varia pezzatura e per componenti dell’allestimento o dell’arredamento di una nave, quali per esempio un televisore (HRR di circa 120 ÷ 290 kW).

Le condizioni necessarie affinché il fuoco si sviluppi e si mantenga sono rappresentate dalla disponibilità di combustibile e di comburente e dalla presenza di un’opportuna temperatura ossia, in altri termini, di una sufficiente quantità di calore detta “energia di attivazione”. Lo spegnimento dell’incendio può quindi basarsi sull’eliminazione di una delle tre componenti (combustibile, comburente, temperatura), ma un altro fattore importante è rappresentato dalla catena di reazioni che si sviluppano nel processo di combustione (autocatalisi). Risulta infatti che la combinazione fra combustibile ed ossigeno non avvenga in via diretta, ma si manifesti in stati successivi solo tra l’ossigeno (o meglio gli ioni ossigeno) ed i radicali liberi emessi dal combustibile portato al suo punto d’ignizione. Nella combustione che da origine al fuoco si formano perciò composti chimici a breve vita che, diffondendosi nei gas incombusti, trasmettono la reazione stessa. La fiamma può quindi essere spenta inibendo il mantenimento di questo processo a catena, ma è importante osservare che per evitare la successiva re–ignizione bisogna sempre intervenire sugli altri fattori (temperatura o combustibile). I quattro fattori fondamentali per il sostentamento del fuoco sono illustrati dal cosiddetto tetraedro del fuoco, essi sono rappresentativi anche dei quattro principi su cui si basano i diversi metodi di spegnimento.

Nel primo metodo, l’estinzione può effettuarsi per eliminazione di ossigeno, ossia dell’aria comburente ed in questo caso è necessario fare attenzione alla re–ignizione nel caso che nell’ambiente venga immessa aria fresca dopo lo spegnimento. Piccoli incendi possono essere spenti gettando

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sabbia direttamente sul fuoco oppure soffocandolo con getti di sostanze che allontanano l’ossigeno, quali schiume e gas privi di ossigeno libero (biossido di carbonio). L’incendio in una stiva può essere soffocato chiudendo le boccaporte, disattivando i sistemi di ventilazione, sezionando le condotte che fanno capo al locale. Si può anche agire per soffocamento diretto: ciò si realizza riducendo la concentrazione dell’ossigeno disponibile sulla fiamma riempiendo completamente il locale chiuso di gas inerte, oppure stendendo sul fuoco uno strato di sostanza inerte (schiuma) che, resistendo al fuoco, lo isoli dall’aria soprastante.

Il secondo metodo utilizzato consiste nell’abbassare la temperatura con getti di sostanze raffreddanti, ossia con acqua − che nel caso degli impianti di bordo è acqua di mare. L’acqua deve essere mandata sul fuoco in modo da richiedere, per riscaldarsi ed evaporare, più calore di quello prodotto dalla fiamma. Acqua viene anche gettata nell’ambiente circostante per ritardare o inibire la diffusione del fuoco. Per favorire il processo di assorbimento del calore l’acqua viene polverizzata in modo da aumentare la superficie di trasmissione del calore ed accelerare e rendere più completo il processo di evaporazione. Il vapore prodotto provoca poi l’allontanamento dell’aria e ciò a vantaggio dell’operazione di spegnimento. Un altro mezzo che provoca la riduzione della temperatura è rappresentato da quelle polveri secche costituite da sostanze che si decompongono assorbendo calore.

Una terza via, invero difficilmente percorribile, è quella di rimuovere il combustibile per fare regredire l’incendio. Questa via è efficace solo nel caso si voglia evitare il flash over di incendi localizzati.

Infine, l’ultimo metodo è quello di interrompere la catena di trasmissione della combustione all’interno della fiamma, bloccando la formazione dei composti chimici di transizione. Questa azione è svolta da gas quali i composti alogenati o da sostanze solide in forma di polveri secche. In tal caso è necessario intervenire successivamente allo spegnimento della fiamma (il processo ha una durata brevissima, anche di qualche centesimo di secondo) per impedirne la ripresa, infatti la temperatura durante lo spegnimento non cala e non viene asportato né il combustibile né l’aria.

7.2 – Gli agenti estinguenti

Gli agenti estinguenti generalmente utilizzati a bordo delle navi per spegnere incendi generatisi nei vari locali sono l’acqua, le schiume, i gas inerti e le polveri chimiche. Caratteristica comune di un buon agente estinguente è l’assenza di tossicità, di corrosività ed abrasione: l’agente estinguente non deve cioè danneggiare i materiali con i quali viene a contatto e non deve essere nocivo per l’uomo.

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Le modalità di applicazione variano a seconda del materiale che ha causato l’incendio. Si possono distinguere due metodi: l’applicazione locale sul focolaio d’incendio e la saturazione totale del volume del locale ove l’incendio si è sviluppato. Con il primo metodo l’estinguente viene inviato solo sul fuoco, mentre con il secondo l’ambiente chiuso in cui si è sviluppato l’incendio viene inondato completamente con l’estinguente.

Per l’estinzione, la quantità di estinguente erogata per unità di superficie nell’unità di tempo dovrà essere superiore alla sua portata critica, ovvero a quella portata al di sotto della quale l’incendio non si spegnerà per quanto lunga possa essere l’erogazione dell’estinguente.

Acqua di mare − L’acqua di mare è il mezzo estinguente più utilizzato a bordo delle navi per i notevoli vantaggi che presenta nello spegnimento di gran parte degli incendi che si sviluppano. Fra questi vanno annoverati la disponibilità illimitata e l’atossicità sua e dei vapori che essa genera. L’acqua è in grado di contrastare l’azione del fuoco sia riducendo la temperatura del combustibile, sia producendo un’atmosfera inerte. Il raffreddamento con acqua è molto efficace grazie all’alto valore del calore specifico e del calore latente di vaporizzazione da essa posseduto. Inoltre, nella vaporizzazione essa crea un vapore che a pressione atmosferica ed alle alte temperature della fiamma ha un elevato volume specifico (indicativamente l’aumento del volume specifico è di 1700 volte): il vapore satura il volume sopra il fuoco spostando l’ossigeno ed i vapori infiammabili, favorendo lo spegnimento per soffocamento.

Lo spegnimento con acqua può essere fatto sia con un getto compatto, sia con un getto polverizzato (acqua frazionata). Il getto pieno si presta allo spegnimento di incendi di combustibili solidi, in quanto l’acqua raffredda la sostanza che brucia inzuppandola ed inibendo quindi la formazione di vapori. Questo sistema è molto usato nella pratica perché permette di raggiungere, con le lunghe gittate ottenibili, zone non facilmente accessibili, anche se l’efficacia è ridotta dalla dispersione del getto e dal fatto che spesso l’acqua non è l’agente estinguente più adatto per quel tipo di incendio. Il getto d’acqua viene utilizzato anche per raffreddare dall’esterno le superfici del compartimento in cui si è generato l’incendio, in modo da ostacolarne la diffusione.

Un aumento della capacità di spegnimento si realizza con la nebulizzazione del getto. In questo modo la superficie di scambio del calore fra le gocce d’acqua ed il combustibile è maggiore: il risultato è un maggiore assorbimento di calore ed un conseguente effetto di soffocamento del fuoco tramite il vapore prodotto. Inoltre, la pioggia di acqua nebulizzata favorisce il raffreddamento anche dei gas presenti sul fuoco, attenuando l’effetto di diffusione del calore. La dimensione ottimale delle gocce nasce dal compromesso fra l’esigenza di avere un’ampia superficie di scambio e quella

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di avere un getto con una buona penetrazione nel fuoco, infatti le gocce devono essere abbastanza grandi da possedere l’energia sufficiente per raggiungere la fiamma vincendo la resistenza dell’aria e le correnti ascensionali di origine termica. In questa forma (gocce di dimensione massima inferiore al millimetro) l’acqua si presta all’estinzione di incendi di combustibili liquidi. L’acqua nebulizzata viene infatti usata per lo spegnimento di incendi di combustibili liquidi.

I combustibili liquidi hanno diversi comportamenti nei confronti dell’acqua, soprattutto per il fatto che essi possono essere miscibili in acqua o meno. Il processo di estinzione dei combustibili miscibili si basa sull’aumento della temperatura di infiammabilità della miscela, diluizioni troppo elevate possono però comportare traboccamenti dalla cassa in cui essi sono contenuti con conseguente spargimento dell’incendio.

Nel caso di combustibili non miscibili si ha un’azione di spegnimento per raffreddamento operato dall’acqua che penetra nello strato superficiale del liquido. L’acqua comunque non si presta allo spegnimento di incendi di liquidi meno pesanti, perché si deposita sul fondo della cassa praticamente senza intervenire nell’azione di estinzione.

L’azione dell’acqua è efficace quando la temperatura d’infiammabilità del liquido supera i 45 °C, altrimenti si ha solo un effetto di controllo. In quest’ultimo caso è bene che l’acqua si limiti al raffreddamento, sia dei vapori emessi, sia dell’ambiente circostante, mentre ad altri agenti estinguenti deve essere demandato il compito di agire sulle fiamme. Quando infine il liquido ha zone calde a temperature superiori a 100 °C, l’acqua può creare, con la sua improvvisa vaporizzazione, spruzzi di combustibile nell’area circostante.

Un altro caso in cui l’acqua è sconsigliata è quello in cui l’incendio interessa apparecchiature elettriche in tensione, infatti essa, da buon conduttore elettrico, può creare situazioni di pericolo per le persone coinvolte nello spegnimento.

Lo spegnimento di incendi con acqua non va effettuato quando sono interessati combustibili che reagiscono con essa dando luogo a reazioni fortemente esotermiche, ossia esplosive (come con il carburo di calcio), causando quindi ulteriore riscaldamento e produzione di vapori infiammabili, oppure quando dà origine a composti chimici che liberano idrogeno (come con sodio e potassio), quando da origine a gas infiammabili, come nel caso per esempio dei metalli leggeri con magnesio, zinco, alluminio, oppure ancora quando dal contatto con il combustibile si sviluppano sostanze corrosive (composti di cloro e fluoro). Anche lo spegnimento di incendi in cui è interessato il carbone deve essere effettuato con attenzione poiché dal contatto del carbone rovente con l’acqua si genera

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pericoloso ossido di carbonio. Infine, non è adatta a spegnere incendi che sviluppano temperature superiori a 2000 °C perché in tal caso si genera il fenomeno di piroscissione della molecola dell’acqua, con produzione di idrogeno e ossigeno che vanno ad alimentare l’incendio.

In conclusione l’acqua è efficace per incendi di solidi ed esercita un’azione combinata di raffreddamento e soffocamento. Nel caso di combustibili liquidi essa può avere un certo effetto operando la diluizione del liquido che brucia.

L’acqua possiede una tensione superficiale piuttosto elevata e tende perciò a formare gocce di grandi dimensioni, inoltre a contatto con una superficie tende a formare gocce separate invece di spargersi e bagnare la superficie con un film sottile. Nell’acqua per lo spegnimento di incendi possono essere perciò aggiunte sostanze detergenti ottenendo un vantaggio sia nell’uso di acqua nebulizzata, sia nella formazione di schiume. Da una parte infatti, miscelata nelle lance di nebulizzazione, l’acqua fornisce un getto polverizzato con gocce più piccole, dall’altra parte, miscelata con sostanze schiumogene, dà una schiuma più scorrevole che forma un film tale da sigillare la superficie del combustibile e bloccare il movimento dei vapori verso la fiamma.

Schiuma − La schiuma è un agente estinguente molto efficace per incendi di combustibili liquidi e solidi, la cui azione estinguente avviene per soffocamento della combustione. In ogni caso le schiume hanno un basso peso specifico e perciò – in quanto galleggiano – vengono efficacemente utilizzate per incendi di liquidi.

Con il termine schiuma si indicano emulsioni di sostanze chimiche in acqua, ottenute sia per via chimica, miscelando l’acqua con una miscela reagente in presenza di una sostanza schiumogena, sia per via meccanica, miscelando l’acqua con la sostanza schiumogena e quindi agitando meccanicamente la miscela in presenza di aria (la miscelazione avviene qui in due fasi: prima tra acqua e schiumogeno, poi tra la miscela e l’aria). Nel primo sistema si ottiene una schiuma più compatta ma poco scorrevole, utile per coprire un focolaio con un getto diretto: questo metodo è utilizzato per gli estintori portatili. Con il secondo metodo, quello meccanico, si producono schiume a vario grado di espansione, e quindi più o meno compatte.

Per rapporto di espansione si intende il rapporto fra il volume di schiuma generato ed il volume di miscela impiegata, nella quale la diluizione di agente schiumogeno in acqua va dal 3% al 6%. Per esempio per produrre 1 m3 di schiuma con rapporto di espansione 1:10 e con schiumogeno al 3% occorrono 900 litri d’aria, 97 litri d’acqua e 3 litri di schiumogeno.

Le caratteristiche di una schiuma sono diverse e fra queste si citano:

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• la coesione fra le bollicine, che misura la propensione di uno strato di schiuma a non spezzarsi, ossia a formare una superficie continua;

• la scorrevolezza o fluidità, ovvero la capacità di coprire velocemente la superficie che brucia;

• la resistenza al calore e alle sostanze chimiche presenti nel combustibile, ossia la capacità di mantenersi inalterata;

• la stabilità al drenaggio, ossia la capacità di ritenzione dell’acqua senza lasciarla drenare per gravità.

A tale riguardo si definisce il tempo di drenaggio come il tempo occorrente per separare dalla schiuma il 25% o il 50% della soluzione impiegata per produrla: i tempi di drenaggio variano da 5÷8 minuti per le schiume fluoro–sintetiche a 40÷60 minuti per quelle resistenti agli alcoli. Si tenga presente che la temperatura è un fattore accelerante del drenaggio.

Da un lato le schiume a basso rapporto di espansione (da 2:1 fino a 20:1) sono più resistenti al calore, al fumo, al vento e alle correnti ascensionali e permettono una maggiore gittata del getto, dall’altro quelle ad alto rapporto di espansione (da 200:1 fino a 2000:1) permettono di riempire più velocemente grandi spazi consentendo una rapida espulsione dell’aria dai locali con strati alti fino a 30 metri. Le prime si prestano allo spegnimento di incendi più difficili e più localizzati creando uno strato soffocante sul combustibile, hanno cioè un’azione superficiale di copertura ed isolamento oltre che di raffreddamento grazie alla conversione di vapore in acqua. Le altre sono invece adatte per generare un’atmosfera inerte saturando interi ambienti in cui vengono immesse da ventilatori affacciati su griglie sulle quali viene fatta colare la miscela schiumogena. Questa schiuma può essere quindi utilizzata per proteggere ambienti in cui siano presenti gas infiammabili (anche a scopo preventivo), ma il suo uso è ristretto a protezione degli ambienti chiusi, a causa della sua leggerezza.

Nelle applicazioni navali sono utilizzate in genere schiume a basso rapporto di espansione (da 5:1 a 12:1). L’applicazione della schiuma non avviene mai direttamente sulla fiamma, perciò la schiuma deve poter scorrere sulle superfici per raggiungere per gravità il fuoco e ovviamente il fuoco deve trovarsi nella parte bassa di un locale e su una superficie orizzontale. Nelle applicazioni localizzate è molto importante che il getto di schiuma sia tale da far crescere lo strato depositato compensando il disfacimento indotto dal calore. Anche le schiume ad alto grado di espansione trovano applicazione a bordo per certe tipologie di ambienti, in alternativa ai gas inerti e all’acqua.

I liquidi schiumogeni sono classificati in base alla loro composizione chimica e si possono sommariamente distinguere le seguenti tipologie:

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• le schiume proteiniche sono ottenute dalla decomposizione di proteine di origine animale o vegetale (che sono sostanze tensioattive) combinate con sali metallici stabilizzanti; si tratta delle schiume di base, resistenti e stabili anche se poco scorrevoli, non hanno un’azione rapida ma sono resistenti al calore per tempi prolungati. Vengono utilizzate, con formazione di schiuma a bassa espansione, per incendi di prodotti petroliferi.

• le schiume sintetiche sono ottenute componendo tensioattivi sintetici con sostanze stabilizzanti, si ha una schiuma scorrevole e resistente utilizzata con qualsiasi grado di espansione per incendi di idrocarburi e liquidi infiammabili. Tale schiuma può anche essere usata negli impianti sprinkler, ma è soprattutto adatta per la saturazione degli ambienti.

• le schiume fluoro–proteiniche sono sostanze proteiche idrolizzate con fluorocarburi tensioattivi e con stabilizzanti. I tensioattivi facilitano la formazione di un film liquido permettendo di ottenere schiume con alta scorrevolezza, alta tenuta dei vapori, elevata resistenza e stabilità chimica. Queste proprietà consentono l’impiego delle schiume in lance a grande portata e per lo spegnimento di incendi impegnativi, per esempio delle cisterne del carico di una nave petroliera. Sono schiume utilizzate a bassa e media espansione.

• le schiume fluoro–sintetiche sono ottenute combinando tensioattivi fluorurati con tensioattivi sintetici e sostanze stabilizzanti: in questo modo vengono migliorate tutte le caratteristiche, in particolare la scorrevolezza. Esse sono adatte agli interventi rapidi su grandi superfici anche per incendi di idrocarburi e quando drenano si forma un film liquido sulla superficie del combustibile, queste schiume vengono infatti dette “Acqueous film–forming foam” (AFFF). Vengono usate a bassa e media espansione.

Esistono poi anche schiume specifiche, per esempio per spegnere incendi in cui sono presenti alcoli ed in generale solventi polari, liquidi che tendono a distruggere la schiuma (le schiume normali non resistono che pochi secondi).

Si osservi in conclusione che lo spegnimento con le schiume avviene per soffocamento, ma anche per soppressione dei vapori, per raffreddamento ed inoltre grazie alla formazione di una barriera termica che riduce la trasmissione del calore nell’ambiente circostante. La loro efficacia dipende inoltre dal tempo di applicazione, mentre il tempo di attesa è importante per scongiurare la re–ignizione. Anche le schiume conducono l’elettricità e presentano perciò gli stessi rischi dell’acqua.

I liquidi schiumogeni vengono immagazzinati a bordo in casse, ma si deteriorano nel tempo e con le alte e basse temperature, il campo di temperature di stoccaggio va da 0 °C a 40 °C (per temperature al di fuori di

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questo campo si devono utilizzare opportuni additivi). Il problema maggiore relativo al loro stoccaggio è costituito dal fatto che non è possibile testare la qualità del prodotto nel tempo se non utilizzandolo.

Un’altra categoria importante di agenti estinguenti è rappresentata dai gas inerti, quei gas cioè che inertizzano l’ambiente sia miscelandosi con l’aria per ridurre la percentuale di ossigeno (ottenendo che la miscela di vapori emessi dal combustibile esca dal campo di infiammabilità), sia allontanando l’aria per soffocare la combustione.

Gas inerte − Il gas inerte comunemente usato a bordo è l’anidride carbonica, che agisce per diluizione e per soffocamento, non agendo per raffreddamento si deve sempre controllare che, una volta estinto l’incendio, non si abbia una re–ignizione per ingresso d’aria (si tratta di tempi prossimi a 15 minuti per piccoli incendi e di 24÷48 ore per grandi incendi). Il suo peso specifico a pressione atmosferica è di circa una volta e mezza quello dell’aria, perciò si deposita direttamente sul focolaio d’incendio. Ma se l’incendio non è nella parte bassa del locale tutto il locale deve essere riempito di anidride carbonica. Nei piccoli incendi localizzati si utilizzano perciò estintori portatili di varie dimensioni, mentre per incendi più diffusi bisogna prevedere impianti fissi che saturano l’ambiente (total floading).

Il vantaggio nell’utilizzo del gas di anidride carbonica sta nella sua facile reperibilità e nel fatto che non danneggia i materiali con cui viene a contatto, a meno che non si tratti di prodotti commestibili, inoltre esso non è un buon conduttore elettrico. Questo gas non va però usato per spegnere incendi ad alta temperatura (maggiore di 2500 °C), poiché ossigeno e carbonio si scindono alimentando l’incendio, oppure per spegnere incendi di sostanze che emettono vapori con i quali possa reagire chimicamente. Un altro vantaggio è rappresentato dal fatto che non si deteriora nel tempo nelle condizioni di stoccaggio. Purtroppo è molto pericoloso per l’uomo perché in piccole concentrazioni (5% in volume) provoca malessere, al 10% ÷ 20% provoca stordimento ed al 20% ÷ 25% la morte. Ne consegue che va prestata particolare attenzione all’immissione di anidride carbonica nei locali abitati − i locali dove è stata immessa devono essere ventilati prima di essere nuovamente agibili.

Il comportamento dell’anidride carbonica è particolare, infatti alla pressione atmosferica non può esistere che allo stato gassoso e solido perché il suo punto triplo è alla temperatura di –56 °C e alla pressione di 5,17 bar. Il punto critico si verifica ad una temperatura di 31 °C ed una pressione di 74 bar, bisogna quindi mantenere le bombole ad una tempera non superiore a 31 °C per evitare di doverla stoccare allo stato gassoso ad alte pressioni. Inoltre è interessante ricordare che un litro di anidride carbonica liquefatta sviluppa circa 500 litri di gas alla temperatura di 0 °C ed alla pressione atmosferica.

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L’anidride carbonica viene stoccata allo stato liquido (o al limite gassoso) in bombole alla temperatura ambiente ed alta pressione (la temperatura limite di stoccaggio è di circa 55 °C), in questo caso si usano bombole di capacità massima pari a 67 litri con un massimo riempimento compreso fra 2/3 e 3/4 del volume, oppure in condizioni refrigerate e bassa pressione (usualmente fino a –18 °C con pressione corrispondente di 21 bar) ed in questo caso l’impianto è più semplice. Si rammenta a riguardo che nelle bombole di CO2 la pressione e la temperatura sono legate secondo la seguente scala:

pressione di 52 bar alla temperatura di 15 °C ″ 60 bar ″ 21 °C ″ 66 bar ″ 25 °C ″ 91 bar ″ 32 °C ″ 160 bar ″ 45 °C ″ 180 bar ″ 50 °C ″ 220 bar ″ 60 °C .

Come tutti i gas liquefatti, l’anidride carbonica evapora assorbendo calore e se l’evaporazione è troppo violenta si rischia di causare un raffreddamento così intenso da provocare la solidificazione di parte del contenuto della bombola. Nella pratica, al momento dell’erogazione parte del contenuto della bombola vaporizza assorbendo calore da quel terzo circa che solidifica formando fiocchi bianchi detti “neve carbonica”. La successiva sublimazione nell’ambiente comporta un brusco raffreddamento dell’aria (e la condensazione dell’umidità dell’aria), ma l’effetto raffreddante sul combustibile non è accentuato. Si osservi a riguardo che, se il combustibile − alla temperatura in cui si trova − si decompone sviluppando ossigeno, l’incendio continua al di sotto della cappa di anidride carbonica.

Polvere secca − Un’altra categoria di agenti estinguenti è quella costituita dalle polveri secche. Si tratta di miscugli di particelle solide finemente suddivise ed essiccate costituite da sali e altre sostanze naturali o sintetiche (polveri chimiche) che per effetto di un gas propellente (anidride carbonica o azoto) vengono erogate per soffocare l’incendio. L’azione estinguente è quella di interrompere la catena delle reazioni chimiche nella fiamma per catalisi negativa dovuta alla cattura, da parte dei cristallini dei sali, dei radicali liberi responsabili delle reazioni di ossidazione a catena, formando strutture molecolari stabili, con conseguente rottura della reazione a catena. Esse comunque agiscono anche per soffocamento e raffreddamento rilasciando vapore acqueo. Sono deposte direttamente sull’incendio sia di combustibili solidi, sia liquidi, sia ancora gassosi: esistono a riguardo polveri per i diversi tipi di incendi.

Queste sostanze chimiche vengono polverizzate per poter entrare in contatto in maniera più diretta con i prodotti di transizione della

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combustione, ciò comporta che abbiano la tendenza ad agglomerarsi mentre sono stoccate e che sia difficile creare un getto compatto.

Nonostante l’azione estinguente immediata (le polveri chimiche sono i migliori prodotti estinguenti), si presenta il pericolo della re–ignizione poiché né la temperatura viene abbassata, né l’ossigeno viene allontanato (infatti quando vengono applicate si crea una nube di fronte all’erogatore).

Halon − Anche alcuni gas, gli idrocarburi alogenati (Halon), sono in grado di estinguere l’incendio per inibizione della catena di reazioni chimiche nella fiamma. Essi sono ottenuti da idrocarburi saturi (per esempio metano) in cui atomi di idrogeno sono sostituiti da atomi di fluoro, bromo o cloro. Si utilizzano essenzialmente tre tipi di gas: • Halon 1301 (CF3Br) – non è tossico e perciò si può utilizzare in

ambienti dove ci sono persone (nelle concentrazioni massime d’uso il personale può permanere nell’ambiente per un tempo limite di un minuto senza subire danni). Alla temperatura di 20 °C liquefa alla pressione di 14,3 bar perciò è tenuto in bombole a pressione; la sua temperatura di ebollizione è di –58 °C pertanto al momento della scarica vaporizza istantaneamente creando una concentrazione omogenea in tutto l’ambiente, purtroppo ha scarsa capacità di penetrare la fiamma.

• Halon 1211 (CF2ClBr) – è tossico e non può essere utilizzato in ambienti dove ci sono persone. Alla temperatura di 20 °C liquefa alla pressione di soli 2,3 bar perciò è tenuto in bombole con azoto in pressione; la sua temperatura di ebollizione è di –4 °C pertanto al momento della scarica non vaporizza istantaneamente e mostra la tendenza a stratificarsi.

• Halon 2402 (C2F4Br) – è tossico e non può essere utilizzato in ambienti dove ci sono persone, alla temperatura di 20 °C è liquido perciò viene pressurizzato con azoto e utilizzato negli estintori portatili (essendo liquido garantisce una buona gittata).

Tali gas hanno ottime caratteristiche estinguenti, inoltre non sono corrosivi e non conducono l’elettricità, non lasciano residui e sono inalterabili; il tipo 1301 è il meno tossico ed il più adatto per impianti fissi. Il loro peso specifico è di circa 6÷10 volte quello dell’aria. Vengono stoccati a bordo liquefatti sotto pressione in bombole e per aumentarne la velocità di intervento vengono pressurizzati fino a 25 bar con azoto, anche il tipo 1301 viene stoccato ad alta pressione poiché a contatto con l’aria si decompone − perciò la durata complessiva della scarica deve essere inferiore a 10÷20 secondi affinché rimanga efficace (i residui del gas decomposto sono tossici). La loro azione complessiva è essenzialmente di catalisi negativa, ma anche di soffocamento.

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Rispetto agli altri gas gli Halon richiedono minori concentrazioni nell’aria per inibire la fiamma (per l’Halon 1301 variabili dal 5% al 7% in volume), inoltre considerando il volume specifico medio dei gas all’emissione, la quantità stoccata può essere di circa 0,3÷0,4 kg/m3 contro 1,0÷2,0 kg/m3 per l’anidride carbonica − con una riduzione del volume occupato pari a circa 1/4÷1/5.

Sulle navi di nuova costruzione l’Halon non è ammesso per la sua azione deleteria nei confronti dello strato di ozono nella stratosfera, e per le navi dotate di impianti ad Halon è prevista la conversione ad altri sistemi. Sono stati perciò elaborati gas sostitutivi che al giorno d’oggi non risultano però altrettanto efficaci, sia per impianti fissi che portatili. Esistono comunque sostanze alternative come l’eptafluoropropano (CF3CHFCH3), che ha buone caratteristiche estinguenti basate sullo stesso principio (e quindi un’azione immediata), è innocuo per lo strato di ozono, non è tossico alle percentuali d’utilizzo, non si decompone, non lascia residui e non danneggia i materiali contenuti nell’ambiente in cui è immesso. Tale gas richiede una concentrazione leggermente superiore rispetto a quella dell’Halon ma significativamente inferiore rispetto all’anidride carbonica: la quantità richiesta è di circa 0,64 kg per m3 di volume protetto (il volume di stoccaggio risulta pari a circa il 60% in più di quanto richiesto per l’Halon 1301). Inoltre, a temperatura ambiente sviluppa una tensione di vapore di pochi bar e necessita quindi di essere pressurizzato con azoto a 25 bar.

Nella selezione dell’agente estinguente più adatto per ogni tipo di incendio può essere utile richiamare la classificazione degli incendi, si definiscono infatti quattro classi di incendi: • classe A – causati dalla combustione di materie solide organiche a base

cellulosica, dalla quale si formano braci incandescenti (si tratta in genere di combustibili solidi di comune utilizzo);

• classe B – causati dalla combustione di idrocarburi e di liquidi infiammabili (quali vernici, solventi, etc.);

• classe C – causati dalla combustione di gas infiammabili; • classe D – causati dalla combustione di sostanze reattive con l’aria o

con l’acqua, quali i metalli “combustibili” (sodio, potassio, alluminio, magnesio, titanio, etc. – e loro leghe).

Oggigiorno non si definisce più come tipologia a sé stante quella relativa ad incendi su apparecchiature elettriche sotto tensione, infatti tale caso è riconducibile all’incendio di classe A oppure di classe B se interessa anche sostanze liquide (per esempio l’olio di raffreddamento di apparecchiature elettriche) − un tempo si definiva tali casi come incendi di classe E.

Nell’estinzione sono solitamente utilizzate polveri chimiche per tutti i quattro tipi, schiume per quelli di classe A e soprattutto di classe B, gas

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inerti per quelli di classe B, idrocarburi alogenati (o gas equivalenti) per gli incendi di classe C ed acqua prevalentemente per quelli di classe A.

7.3 – La normativa antincendio

La normativa antincendio per le navi costituisce il termine di riferimento per il progetto. Infatti, dal momento che i carichi termici relativi ai diversi tipi di locali e di materiali trasportati sono noti, le caratteristiche dell’impianto sono state standardizzate in funzione della pericolosità ed è sufficiente riferirsi alle norme per conoscere la quantità necessaria e le modalità d’uso dei diversi agenti estinguenti per le diverse applicazioni. Al progettista non rimane altro che dimensionare – sulla base delle richieste della normativa –l’impianto di stoccaggio ed eventualmente anche quello di produzione del mezzo estinguente, oltre alle tubolature di distribuzione (una volta note le portate, le pressioni e la disposizione degli ugelli di rilascio).

Come precedentemente accennato, la normativa di riferimento per il progetto degli impianti antincendio di bordo è rappresentata dall’insieme delle regole contenute nel Cap. II–2 “Construction – Fire protection, fire detection and fire extinction” della SOLAS.

Vista la complessità dell’argomento trattato le norme sono raccolte in quattro parti: • parte A – norme generali per gli impianti antincendio, • parte B – norme specifiche per le navi passeggeri, • parte C – norme specifiche per le navi mercantili (cargo ships), • parte D – norme specifiche per le navi cisterna (tankers).

Parte A − La normativa espone innanzitutto gli obiettivi principali del sistema antincendio (sono quelli menzionati all’inizio di questo capitolo), affermando che “il proposito è quello di esigere il più completo grado di protezione al fuoco”, e fornisce una serie di definizioni necessarie alla trattazione dell’argomento. Tra queste si richiamano le seguenti:

materiale non combustibile – è un materiale che non brucia e non produce vapori infiammabili in quantità sufficiente affinché si inneschi l’autoaccensione se riscaldato ad una temperatura di almeno 750 °C. Qualsiasi altro materiale è considerato combustibile ai fini della normativa. standard fire test – è la prova standardizzata in cui il simulacro di una struttura di ponte o di paratia viene esposto, in un forno, a temperature via via crescenti, seguendo una prestabilita curva temperatura–tempo. La procedura di prova è stata codificata nella risoluzione MSC–61(67). acciaio o altro materiale equivalente – per materiale equivalente all’acciaio si intende un materiale che, eventualmente grazie ad una efficace isolazione, alla fine dello standard fire test mantiene una resistenza strutturale e

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un’integrità simili a quelle dell’acciaio (per esempio alluminio con adeguato isolamento) . divisione tagliafuoco di classe A – sono quelle divisioni formate da strutture portanti del ponte o di paratia che rispondono ai seguenti requisiti: sono costruite in acciaio o materiale equivalente; sono in grado di bloccare il passaggio di fumo e di fiamme per un intervallo di tempo di almeno un’ora nelle condizioni di prova fissate dallo standard fire test; sono isolate con materiali non combustibili in modo che la temperatura media sulla faccia non esposta al fuoco non subisca un aumento superiore a 140 °C rispetto alla temperatura ambiente di inizio prova, e la temperatura in ogni punto della divisione non subisca un aumento superiore a 180 °C, entro un tempo minimo di 60 minuti per divisioni di classe “A–60”, di 30 minuti per quelle di classe “A–30”, di 15 minuti per quelle di classe “A–15” e di zero minuti per quelle di classe “A–0”. divisione tagliafuoco di classe B – sono quelle divisioni strutturali o meno che rispondono ai seguenti requisiti: sono costruite in materiali non combustibili, idonei ad evitare il passaggio della fiamma per la prima mezz’ora dall’inizio della prova nelle condizioni fissate dallo standard fire test; sono isolate con materiali non combustibili in modo che la temperatura media sulla faccia non esposta al fuoco non subisca un aumento superiore a 140 °C rispetto alla temperatura ambiente di inizio prova, e la temperatura in ogni punto della divisione non subisca un aumento superiore a 225 °C, entro un tempo minimo di 15 minuti per divisioni di classe “B–15” e di zero minuti per quelle di classe “B–0”. divisione tagliafuoco di classe C – sono le divisioni costruite in materiali non combustibili. zone verticali principali – sono le sezioni trasversali in cui è diviso lo scafo, comprensivo delle sovrastrutture, da divisioni di classe A. La lunghezza media di ogni zona non deve superare ad ogni ponte 40 metri, così come la sua larghezza (perciò in genere le zone si estendono da murata a murata). A queste definizioni ne seguono altre, in particolare per identificare ogni tipo di destinazione d’uso dei volumi di carena in funzione della pericolosità all’innesco di incendi (spazi alloggio, pubblici, di servizio, per il carico, per il carico RO–RO aperti o chiusi, per impianti di macchine, etc.).

La normativa richiede innanzitutto che ogni nave sia dotata di un impianto fisso ad acqua di mare per l’estinzione di incendi, detto “impianto antincendio principale”, formato da proprie pompe e collettori facenti capo a idranti muniti di manichette e lance.

Le pompe devono fornire una portata Q proporzionale a quella delle pompe di sentina: per le navi passeggeri pari a 2/3 della portata di queste ultime e per le navi da carico pari a 4/3 della portata delle pompe di sentina di una nave passeggeri delle stesse dimensioni e comunque pari a non più di

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180 m3/h. Le pompe, con azionamenti indipendenti una dall’altra, devono essere almeno 3 per grandi navi passeggeri (GRT > 4000 t) ed almeno due negli altri casi, ognuna con una portata pari ad almeno l’80% di Q diviso il numero minimo di pompe (ma non inferiore a 25 m3/h). Possono essere utilizzate pompe in comune con gli altri impianti della nave. Le pompe devono essere installate in modo da non essere messe entrambe fuori uso da un incendio che si sviluppa in un solo compartimento, in caso contrario deve essere prevista una pompa di emergenza in un altro compartimento, alimentata da un sistema indipendente che deve garantire un funzionamento continuativo di almeno 18 ore. L’adescamento di ciascuna pompa deve essere garantito anche a nave sbandata e assettata e in presenza di moti di rollio e beccheggio, la prevalenza alla mandata devono soddisfare le richieste minime degli idranti e degli altri impianti collegati. Infine, quando le pompe devono servire sistemi di estinzione diversi da quello principale, vanno poste al di fuori dei locali in cui tali sistemi devono agire.

L’acqua per lo spegnimento di un incendio deve essere immediatamente disponibile e deve essere fornita senza interruzione grazie all’avviamento automatico delle pompe antincendio. In altre parole le condotte devono essere cariche e la pressione subito garantita dall’avvio della pompa, in pratica viene usata un’autoclave con una pompa di pressurizzazione (l’autoclave è indispensabile quando l’impianto è dedicato al sistema di acqua nebulizzata in pressione).

La rete di distribuzione viene strutturata facendo partire dai collettori principali le diramazioni che portano agli idranti. Il diametro delle tubolature deve essere tale da garantire la massima portata quando due pompe lavorano simultaneamente, eccetto nel caso delle navi mercantili per le quali si ritiene sufficiente dimensionare per una portata massima di 140 m3/h. Quando tale portata massima viene garantita alle manichette in uso, agli altri idranti deve essere garantita una pressione minima di 4 bar per navi aventi un tonnellaggio di stazza lorda superiore a 4000, e almeno 3 bar per le altre navi.

Il numero e la posizione degli idranti deve essere tale che ogni parte della nave normalmente accessibile ai passeggeri e all’equipaggio durante la navigazione, ogni parte delle stive quando sono vuote ed ogni parte di un ponte garage di una nave RO–RO possa essere raggiunta da due getti d’acqua provenienti da due lance non collegate allo stesso idrante. Nelle navi passeggeri tale requisito deve essere rispettato con le lance collegate a idranti della stessa zona in cui si genera il fuoco (come se le aperture nelle paratie tagliafuoco fossero sempre chiuse).

Le tubolature, così come gli idranti, devono essere costruiti in materiali resistenti al fuoco e protetti dal rischio di congelamento dell’acqua contenuta. Valvole sezionatrici devono essere poste alla mandata di ogni

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pompa, in corrispondenza di ogni idrante e in diramazione, in modo da rendere più flessibile possibile l’impianto di distribuzione. Le manichette devono essere di materiali non deperibili e di sufficiente lunghezza per raggiungere ogni zona dei locali serviti. La lunghezza standard delle manichette è in genere di 15 metri, lance hanno diametri di uscita del getto di 12, 16 o 19 mm e devono essere del tipo a doppio effetto (spray/jet type).

Negli impianti di spegnimento a gas, i gas utilizzati non devono essere tossici o generare prodotti tossici in concentrazioni tali da costituire pericolo per le persone. Essi devono essere immessi nei locali da saturare con condotte che garantiscano un’uniforme distribuzione ed i locali devono avere mezzi di chiusura delle aperture tali da evitare che i gas escano o che entri aria durante le operazioni di spegnimento. I serbatoi dei gas, ossia le bombole in pressione, devono trovarsi in ambienti diversi da quelli serviti.

Nei sistemi a biossido di carbonio la quantità di CO2 disponibile deve essere pari ad almeno il 30% ÷ 45% del volume lordo del più grande locale da servire (nel progetto si consideri un volume specifico del gas di 0,56 m3/kg). Tale gas deve essere immesso velocemente, in modo che l’85% del volume richiesto sia scaricato nei primi due minuti. Vista la pericolosità del gas, devono essere previsti allarmi ed i sistemi di rilascio dalle bombole devono avere un doppio sistema di valvole di controllo.

I sistemi ad idrocarburi alogenati sono permessi solo nel locale apparato motore, nel locale pompe e nelle stive di navi porta automobili, e non sono comunque ammessi su navi di nuova costruzione. La quantità di gas disponibile deve essere pari a circa il 4% ÷ 7% del volume da servire per quelli gassosi (nel progetto si consideri un volume specifico del gas di circa 0,15 m3/kg) e di 0,2 ÷ 0,3 kg/ m3 per l’Halon 2402. Tale gas deve essere immesso velocemente, in modo che sia in grado di agire (ossia di saturare l’ambiente) entro i primi 10 secondi. Sono ammessi anche impianti automatici.

Sistemi a vapore d’acqua non sono in genere ammessi, se non in situazioni particolari e con caldaie di generazione di vapore aventi certe caratteristiche minime di produzione. Possono infine essere utilizzati anche gas di combustione “stechiometrica”, i cosiddetti gas inerti, purché i generatori abbiano potenzialità tali da garantire una portata oraria di almeno il 25% del volume più grande da servire e possano funzionare continuativamente per almeno 72 ore.

Gli estintori portatili a gas o a polvere chimica devono avere una capacità tra 9 litri e 13,5 litri. Possono essere anche del tipo a schiuma chimica, in quest’ultimo caso devono avere una riserva di reagente di almeno 20 litri e una manichetta per il collegamento all’impianto antincendio principale.

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I locali con macchinari vengono divisi in due categorie in funzione della pericolosità degli impianti contenuti: quelli a maggiore rischio d’incendio devono essere circondati da divisioni di classe A e devono essere dotati di impianto di spegnimento degli incendi del tipo a gas, oppure a schiuma ad alta espansione oppure ancora ad acqua nebulizzata in pressione: • i sistemi a schiuma ad alta espansione (rapporto di espansione non

superiore a 1000:1) devono essere in grado di scaricare rapidamente la schiuma in modo da riempire tutto l’ambiente con una velocità di crescita dello strato di almeno 1 metro al minuto riempiendo il locale in 5 minuti. Il liquido reagente deve essere disponibile per almeno 5 spegnimenti.

• i sistemi ad acqua nebulizzata devono garantire una distribuzione di almeno 5 l/m2 al minuto su tutte le superfici del locale. Le tubolature vanno tenute cariche con acqua in pressione fornita da una pompa posta fuori dal locale e mossa da un generatore d’energia indipendente.

• i sistemi a gas devono avere le caratteristiche precedentemente esposte per vari locali in cui sono ammessi.

In aggiunta possono essere presenti sistemi a schiuma a bassa espansione (rapporto di espansione non superiore a 12:1) in grado di scaricare su tutta la superficie di base del locale uno strato di almeno 150 mm in non più di 5 minuti. Tutte le aperture per osteriggi, fumaioli, condotte di ventilazione e porte devono essere comandabili a distanza.

I sistemi a pioggia automatici vengono definiti impianti sprinkler e garantiscono il rilevamento e l’intervento automatico ed il loro utilizzo è ammesso per i locali alloggi e servizi. Questi sistemi sono costituiti da una rete di condotte che fanno capo a spruzzatori dotati di “valvole automatiche” che liberano il flusso quando nel locale la temperatura raggiunge il valore di taratura (circa 60 ÷ 80 °C per i locali alloggi e più ancora per locali di servizio quali le cucine). Le condotte vanno tenute cariche d’acqua in pressione, tranne nelle zone limitate in cui si può verificare il congelamento. Il circuito sprinkler deve essere suddiviso in sezioni di non più di 200 elementi, limitati a non più di due ponti e ad una sola zona verticale, allo scopo di poter identificare più celermente il luogo dell’incendio. Ogni ugello deve garantire in media una portata di 5 l/m2 al minuto su tutta la superficie servita. L’impianto deve essere dotato di un’autoclave con una capacità d’acqua pari al doppio della quantità scaricata dall’impianto in un minuto di funzionamento e servito da una pompa funzionante con due diverse sorgenti di energia. Questo impianto è inoltre collegato al collettore dell’impianto antincendio principale (collegamento con valvola di non ritorno).

Per quanto riguarda i sistemi di rilevamento e allarme, essi devono essere operativi con continuità e alimentati da due impianti elettrici separati. I rilevatori vanno raggruppati in sezioni per poter identificare con sicurezza

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il luogo in cui si innesca l’incendio e fanno capo alla stazione di controllo posta in plancia o nella fire control station. I rilevatori individuano la presenza di fumo, di calore, di prodotti di combustione, di fiamme oppure ancora ogni combinazione di questi fattori. In ogni locale deve essere poi presente un interruttore d’allarme e nei corridoi essi devono essere presenti a non più di 20 metri uno dall’altro.

In genere nei locali alloggio sono utilizzati rilevatori di fumo (che coprono al massimo 75 m2) anche nei locali serviti dall’impianto sprinkler. I valori di taratura dei rilevatori sono standardizzati e riportati nelle norme. Un particolare sistema di rilevazione è quello “ad estrazione dei fumi” generalmente usato per il controllo delle stive. Esso consiste in una serie di condotte di piccolo diametro che con degli estrattori portano il gas dell’ambiente da controllare ad un analizzatore posto nella sala di controllo.

Le norme riportano infine regole di sicurezza per la costruzione delle condotte di ventilazione (materiali, sezionamenti, passaggi di paratia, attraversamenti di locali adibiti a diverse funzioni, etc.), per il trasporto e lo stoccaggio degli olii infiammabili, per le dotazioni personali antincendio (vestiario, respiratori) e per le connessioni standard poste sul ponte di coperta per il collegamento alle manichette provenienti da terra e da usarsi quando la nave è ai lavori.

Parte B − Per le navi passeggeri sono fissate una serie di norme aggiuntive. Le norme fornite sono più restrittive per navi che trasportano più di 36 passeggeri.

Per quanto riguarda le divisioni tagliafuoco, essa fa riferimento a navi in cui le divisioni sono costruite in acciaio, nel caso si prevedano divisioni in una lega d’alluminio, la temperatura al “core” delle stesse non deve superare, durante lo standard fire test, la temperatura di 200 °C. Inoltre è previsto che, oltre alle zone verticali, possano essere previste zone orizzontali con divisioni di classe A, per esempio per delimitare ambienti serviti dall’impianto sprinkler da altri non serviti.

In generale, in funzione della pericolosità all’incendio, vengono classificati 14 tipi di ambienti e vengono fornite le indicazioni per la scelta delle divisioni fra ambienti di qualsiasi tipo affacciati uno sull’altro.

Particolare attenzione viene posta alla protezione delle vie di sfuggita, sia scale che corridoi, verso le aree d’imbarco sulle scialuppe di salvataggio. Esse devono essere prive di ingombri, rivestite con materiali ignifughi (e a basso rilascio di fumi), delimitate da divisioni resistenti al fuoco, dimensionate per il massimo flusso previsto di persone e ben indicate – ogni locale deve potersi abbandonare da almeno due vie di sfuggita indipendenti (gli ascensori non sono mai considerati vie di sfuggita).

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Le porte sulle paratie tagliafuoco di classe A vengono trattate con particolare attenzione. In generale, qualsiasi attraversamento di divisione, sia che si tratti di cavi o di condotte di ventilazione o di tubolature, non deve compromettere la tenuta al fuoco della divisione. In particolare, le porte nelle divisioni di classe A devono essere apribili da entrambi i lati da una sola persona e, se non sono asservite idraulicamente, devono possedere determinati requisiti per chiudersi velocemente (in un tempo compreso fra 10 e 40 secondi). In ogni caso la chiusura deve essere comandabile a distanza e deve effettuarsi automaticamente (asservimento o rilascio) anche con angoli contrari (fino a 3,5°) e con la temperatura massima di tenuta della divisione (945 °C).

Le condotte di ventilazione costituiscono notoriamente, in caso di incendio, una via di passaggio dei fumi e dell’aria a favore del mantenimento del fuoco. Per tale motivo esse devono essere sezionabili, inoltre devono essere resistenti al fuoco per non compromettere la tenuta delle divisioni ed infine devono essere tali da permettere il ricambio d’aria in tempi limite dopo lo spegnimento dell’incendio (fase di raffreddamento).

Per quanto riguarda gli impianti di rilevamento ed estinzione nei locali che sono adibiti ad alloggi e servizi, comprese le vie di sfuggita e le stazioni di controllo, le norme indicano: • per le navi con meno di 36 passeggeri due possibili alternative: un

impianto automatico di sola rilevazione (e quindi un sistema di estinzione non necessariamente fisso) oppure un impianto automatico di rilevazione ed estinzione (impianto sprinkler).

• per le navi con almeno 36 passeggeri obbligatoriamente un impianto automatico di rilevazione ed estinzione (impianto sprinkler).

Per i locali adibiti al carico si possono sommariamente riassumere le seguenti prescrizioni: • per le stive in cui vanno caricati veicoli con combustibile nei serbatoi

ed alle quali i passeggeri possono avere accesso, si deve prevedere un impianto di spegnimento ad acqua nebulizzata in pressione;

• per le stive in cui vanno caricati veicoli con combustibile nei serbatoi ed alle quali i passeggeri non hanno accesso, si deve prevedere un impianto di spegnimento a gas inerte;

• per le stive di navi classificate anche come RO–RO si deve prevedere un impianto di spegnimento a gas nelle stive chiuse ed uno di spegnimento ad acqua nelle stive aperte;

• per le stive adibite al trasporto di altro tipo di merce si deve prevedere un impianto di spegnimento a gas (soprattutto per merci pericolose) oppure un impianto a schiuma ad alta pressione.

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Va da sé che devono essere presenti sistemi automatici di rilevazione anche nei locali adibiti al trasporto del carico.

Parte C − Per le navi mercantili diverse da quelle trattate nella successiva Parte D possono essere seguiti diversi metodi alternativi di protezione dal fuoco, basati sui tre possibili criteri secondo i quali si può preferire il controllo dell’innesco, dello sviluppo o della diffusione. Le norme indicano infatti, per i locali di servizio ed alloggio, tre possibili vie: • metodo I C (limitazione dell’innesco) – prevede l’uso di divisioni di

sola classe B e C e non richiede l’installazione di impianti fissi di rilevamento o sprinkler (tutte le divisioni fra locali devono essere almeno di classe C), inoltre tutti i locali devono avere vernici, coperture delle strutture ed isolazioni non combustibili;

• metodo II C (estinzione immediata) – prevede l’uso di impianti fissi di rilevamento ed estinzione (impianto sprinkler), senza restrizioni riguardo alle divisioni ed alla loro classe; le sole vie di sfuggita devono avere vernici, coperture delle strutture ed isolazioni non combustibili;

• metodo III C (limitazione della diffusione) – prevede l’installazione solamente di impianti fissi di rilevamento e allarme in zone delimitate da divisioni di classe A e B aventi dimensioni non superiori a 50 m2; le sole vie di sfuggita devono avere vernici, coperture delle strutture ed isolazioni non combustibili.

Anche per questa tipologia di navi vengono fornite le indicazioni sui tipi di divisioni fra locali adibiti ai diversi usi, questa volta contemplando i tre possibili criteri sopra esposti.

Per quanto riguarda le vie di sfuggita e le aperture sulle paratie tagliafuoco sono fissate norme simili a quelle per le navi passeggeri. In particolare le vie di sfuggita devono avere sempre un impianto automatico di rilevamento del fuoco (in genere con rilevamento del fumo).

Le stive di una nave mercantile dovranno essere protette, quando possibile, con un impianto di estinzione a gas, ma nel caso in cui nelle stive siano caricati minerali, carbone, granaglie, legname non stagionato e carichi non combustibili, non è richiesto alcun impianto antincendio purché le chiusure delle boccaporte siano in acciaio e ci siano sistemi di intercettazione di tutte le condotte di ventilazione (il rischio di un incendio è infatti basso e lo spegnimento verrebbe effettuato semplicemente per soffocamento).

I garage di una nave RO–RO devono essere equipaggiati con un impianto di estinzione a gas, preferibilmente a biossido di carbonio, ma anche ad Halon se negli autoveicoli non è trasportato alcun carico (infatti i residui dell’Halon 1301 sono tossici). In alternativa si possono usare altri gas, oppure impianti a schiuma ad alto rapporto di espansione, oppure ancora

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impianti ad acqua nebulizzata in pressione ma solo se viene provato che la formazione di specchi liquidi liberi non compromette la stabilità della nave (e se l’impianto di sentina è opportunamente dimensionato). Quest’ultima opzione è obbligatoria per locali aperti. Nei locali chiusi il sistema di ventilazione deve garantire almeno 6 ricambi all’ora del volume lordo di stiva (a stiva vuota) e deve essere in funzionamento per tutta la durata del trasporto garantendo un buon rimescolamento dell’aria – garantendo cioè che non si formino stratificazioni di gas infiammabili.

Un caso particolare di caricazione è quello che riguarda il trasporto di merci pericolose, in tal caso le norme richiedono che l’impianto antincendio principale, che serve gli idranti, sia potenziato per permettere di realizzare dall’esterno il raffreddamento delle strutture di contenimento delle aree in cui tali merci vengono trasportate.

Parte D − Le norme contenute in questa sezione si applicano alle navi cisterna per il trasporto di prodotti petroliferi ed assimilati, aventi una temperatura di flash point non superiore a 60 °C (misurata a vaso chiuso) ed una tensione di vapore (misurata con il “metodo Reid” alla temperatura di 100 °F) inferiore a quella atmosferica – per tankers adibite al trasporto di prodotti petroliferi, e ad essi assimilabili, ma che non hanno le caratteristiche sopra richiamate, valgono regole meno severe (le norme si riferiscono anche alle navi OBO limitatamente al trasporto di prodotti petroliferi). Valgono inoltre le precisazioni contenute nelle normative IBC ed IGC.

Per queste navi la SOLAS fissa innanzitutto alcune regole sulla distribuzione degli spazi a bordo. Fra esse si menziona che, per quanto riguarda il locale apparato motore, questo deve essere posto a poppa delle cisterne per il carico, delle slop tanks e del locale pompe e non può affacciarsi direttamente sulle cisterne per il carico. I locali di servizio e di alloggio devono essere a poppavia dell’intercapedine creata fra il locale apparato motore e le cisterne del carico. Inoltre, eventuali colaggi di carico non devono poter arrivare a poppavia dell’ultima cisterna (barriere trasversali), le sovrastrutture che si affacciano sulle cisterne devono avere paratie di classe A–60 (anche lungo le murate per almeno 3 metri), le aperture devono essere poste a poppavia di questa zona, mentre le finestrature devono essere fisse ed anch’esse di classe A–60.

L’impianto antincendio per i locali di servizio e gli alloggi deve essere realizzato con il metodo I C, essendo il più affidabile nel tempo dal momento che non prevede l’utilizzo di impianti e quindi manutenzioni periodiche. Anche per questa tipologia di navi vengono fornite le indicazioni sui tipi di divisioni fra locali adibiti ai diversi usi.

Gli impianti per l’aerazione (camini, valvole di respirazione, valvole ad alta velocità) e la ventilazione, assieme ai corredi di cisterna per le

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operazioni di inertizzazione e di gas freeing vengono qui regolamentati definendone le caratteristiche principali e l’eventuale ridondanza. Per esempio, le valvole di sfogo in caricazione sono così importanti che devono essere raddoppiate se non sono installati sensori che trasmettono al ponte di comando il loro stato di funzionamento. Inoltre, a bordo della nave deve essere presente almeno un rilevatore della concentrazione di vapori infiammabili.

I sistemi fissi di estinzione nella zona delle cisterne del carico devono essere i seguenti: un sistema a schiuma a bassa o media espansione per il ponte di coperta ed un sistema a gas inerte per le cisterne.

L’impianto antincendio a schiuma deve essere in grado di fornire schiuma all’intera area del ponte per spegnere incendi di spillamenti di olio combustibile sul ponte e per “controllare” incendi che si sprigionano dalle cisterne. Inoltre, esso deve poter riversare la schiuma in una cisterna nella quale si sia verificata un’esplosione (immettendola dal ponte per caduta attraverso le strutture danneggiate). Le norme indicano che l’impianto deve fornire schiuma con un certo tasso minimo per unità di superficie al minuto e deve poter funzionare per almeno 20 ÷ 30 minuti. Le lance ed i monitori per l’applicazione della schiume hanno portate e gittate regolamentate.

Per il sistema del gas inerte vengono definiti i parametri di progetto precisando che non può trattarsi di un sistema a CO2 stoccata in bombole poiché in tale stato il gas diventa pericoloso per l’elettricità statica che esso produce percorrendo le condotte ad alta velocità.

Infine per quanto riguarda il locale pompe, la normativa lascia libertà di utilizzare un impianto a gas (biossido di carbonio o Halon), un impianto a schiuma ad alta espansione oppure un impianto ad acqua nebulizzata in pressione.

Per le navi chimichiere le norme IBC indicano come obbligatorio un sistema di spegnimento del tipo a schiuma per il ponte (schiuma specifica per il carico trasportato), ma per casi particolari sono indicati altri mezzi estinguenti, ovvero acqua nebulizzata o polveri chimiche.

Per quanto riguarda infine il trasporto di gas liquefatti, le norme IGC indicano come obbligatorio un sistema di spegnimento ad acqua nebulizzata per il ponte di coperta con una portata di progetto di 4 l/m2 al minuto. Per il trasporto di gas infiammabili, si deve prevedere anche un sistema a polvere chimica pressurizzata in azoto con monitori per il ponte di coperta ed idranti nelle zone sottostanti. Le norme indicano la gittata minima, la capacità minima (pari a 10 kg/s) ed un periodo minimo di alimentazione (di 45 secondi). L’impianto deve quindi essere dimensionato per erogare celermente il gas in pressione (che porta la polvere in sospensione) alla pressione massima di stoccaggio.

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7.4 – Gli impianti fissi di estinzione

Gli impianti fissi di estinzione devono essere progettati per soddisfare le esigenze di sicurezza al fuoco delle varie tipologie di locali delle nave (alloggi, stive, locale apparato motore, etc.), e quindi per i diversi possibili scenari di incendio, nel rispetto delle normative specifiche stabilite per ogni tipo di nave in funzione della sua destinazione d’uso (tipo di carico e di navigazione).

Su ogni nave deve essere presente un impianto antincendio principale al servizio delle manichette e dei monitori disposti opportunamente lungo tutta la nave: gli elementi di questo impianto sono simili su tutte le navi. In aggiunta devono essere presenti impianti dedicati alle varie zone della nave, zone suddivisibili in tre categorie: gli alloggi ed i locali di servizio; i locali con macchinari, ed in particolare la sala macchine; le stive per carichi solidi, le cisterne ed i garage per gli autoveicoli. Nei locali alloggi e di servizio e negli ambienti con macchinari devono inoltre essere presenti mezzi di estinzione mobili.

Come accennato, la normativa richiede innanzitutto che ogni nave sia dotata di un impianto fisso ad acqua di mare per l’estinzione di incendi, con pompe aventi determinate portate minime, definite in relazione alle portate dell’impianto che deve garantire lo smaltimento dell’acqua dalle sentine. In aggiunta le pompe devono essere in grado di servire simultaneamente tutti i diversi impianti antincendio ad acqua presenti sulla nave (che sono obbligatoriamente collegati al collettore principale). Le prevalenze da garantire vanno poi valutate in base alle esigenze della manichetta posta in posizione più sfavorevole, la più alta e più lontana dalla pompa. Quando insorgono problemi legati alle differenze di pressione fra le diverse manichette, ovvero per battenti statici molto differenti, l’impianto si fa più complesso.

Le manichette sono in materiale non deperibile e hanno lunghezze standard che non devono essere superiori a 15 m in sala macchine ed a 20÷25 m negli altri spazi (lunghezza minima di 10 m). All’estremità portano una lancia dotata di una valvola di sezionamento e di un meccanismo per creare sia un getto pieno, sia a pioggia. I monitori sono lance collocate su piedistalli in postazioni fisse e vengono utilizzati sui ponti delle navi mercantili: possono essere a comando manuale oppure con comando a distanza mediante sistemi oleodinamici.

L’acqua per lo spegnimento di un incendio deve essere immediatamente disponibile e deve essere fornita senza interruzione grazie all’avviamento automatico delle pompe antincendio e per tale motivo vengono generalmente usate autoclavi munite di pompe di pressurizzazione (in alternativa esistono vecchi impianti con ricircolo del 3% della mandata massima) e corredate da

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una cassa d’acqua dolce per i rabbocchi. Ciò permette di garantire la pressione di lavoro alle estremità dell’impianto quando esso è completamente o parzialmente in stand–by. Come noto l’abbassamento della pressione nel circuito comporta l’intervento dell’autoclave ed in successione quello delle pompe di alimentazione principale, con aspirazioni facenti capo alle prese mare.

Il numero delle pompe principali viene fissato dalla normativa e le pompe possono essere in comune con altri impianti per i servizi scafo. Inoltre, quando queste sono poste nello stesso ambiente, deve essere presente una pompa di emergenza in un locale separato: essa può trovare alloggio in un locale attiguo alla sala macchine, nel locale agghiaccio oppure, per esempio nelle navi cisterna, nel cassero di prora. La posizione ottimale è al di sotto del galleggiamento; quando la pompa viene posta a più di 6 metri dal galleggiamento, si rende necessario predisporre un sistema di adescamento, dedicato alla sola pompa di emergenza, ed in genere costituito da una pompa booster inserita sulla condotta di aspirazione. Questa pompa viene alimentata da un motore oleodinamico azionato dallo stesso motore della pompa antincendio d’emergenza (un diesel generatore), in modo che l’impianto d’emergenza sia completamente indipendente dal sistema di alimentazione principale di bordo.

I circuiti antincendio sono formati da un collettore principale unico che corre da prora a poppa o da un anello orizzontale che consiste di due collettori paralleli collegati fra loro da tratti trasversali. Questi, quando presenti, corrono lontani tra loro sui due fianchi della nave. Il diametro dei collettori va stabilito con calcolo diretto (in genere su una nave mercantile è di 120÷150 mm). Da ogni collettore si dipartono le ramificazioni che raggiungono i diversi punti fissi (idranti e monitori): il collettore principale deve perciò estendersi da prora a poppa e dal fondo al ponte più alto della nave. In corrispondenza di tutte le ramificazioni, e sui cross–over fra i due collettori, sono presenti valvole di sezionamento per escludere eventuali rami danneggiati. Infine, a centro nave, sia a dritta che a sinistra, sono installate le connessi standard per le manichette di terra (diametro interno di 64 mm), da utilizzarsi quando la nave è ai lavori in bacino e non può quindi garantire con mezzi propri l’alimentazione d’acqua al circuito.

Così come le pompe possono essere condivise con altri impianti, anche i collettori principali possono essere utilizzati per altri scopi, purché si tratti di servizi a basso coefficiente d’utilizzo ed il cui funzionamento non sia mai richiesto contemporaneamente a quello dell’impianto antincendio (impianto pulizia del pozzo catene, impianto di pulizia delle cisterne di una nave petroliera, etc.).

L’impianto principale è collegato agli altri eventuali impianti di spegnimento degli incendi che utilizzano l’acqua, ossia l’impianto fisso ad

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acqua nebulizzata in pressione, l’impianto a schiuma e l’impianto sprinkler. In questi casi sulle condotte di collegamento è posta una valvola di sezionamento e di ritegno che garantisca il flusso solo in direzione uscente dall’impianto principale.

Il sistema in cui l’acqua viene mantenuta in pressione nelle condotte prende il nome di sistema “wet pipe system”, a differenza di quello in cui l’acqua viene pompata solo quando è richiesta (dry pipe system). In un sistema pressurizzato, quando c’è rischio di congelamento dell’acqua nelle condotte che corrono sui ponti esposti, si ricorre all’esaurimento parziale di parti della tubolatura. Per questo motivo il collettore principale che corre sul ponte di coperta è dotato di una condotta di drenaggio – da utilizzarsi per evitare sia di danneggiarlo, sia di renderlo inutilizzabile.

Nell’impianto principale, come in ogni altro impianto di estinzione degli incendi ad acqua, viene usata acqua di mare in quanto non è ragionevole pensare a casse d’acqua dolce di sufficiente capacità. Essa è fonte di una forte corrosione sulle tubolature e perciò queste vengono realizzate in materiali idonei, ma per evitare un invecchiamento precoce delle linee è uso tenere in pressione acqua dolce. Dopo l’utilizzo delle linee con acqua di mare viene infatti effettuato il drenaggio, il lavaggio (o “flussaggio”) ed infine il riempimento con acqua dolce.

Gli utenti più a rischio possono anche essere serviti, oltre che dall’impianto principale, anche da un impianto dedicato con proprie pompe e collettori.

Gli impianti che verranno di seguito descritti sono sistemi di estinzione che si basano su diversi tipi di agente estinguente e che necessitano, tranne nel caso dell’impianto sprinkler che interviene automaticamente, di un sistema di rilevazione degli incendi.

L’impianto antincendio ad acqua nebulizzata in pressione è un sistema fisso di spegnimento ad acqua spruzzata utilizzato nelle sale macchine e nei garage aperti o chiusi delle navi RO–RO. Esso è costituito da un impianto ad acqua pressurizzata che termina con una serie di ugelli dai quali viene spruzzata acqua sotto forma di nebbia. L’impianto deve essere corredato da un sistema di detenzione e di allarme poiché non è automatico. L’attivazione si effettua aprendo le valvole di sezionamento poste fra i diversi gruppi di ugelli ed il collettore che rimane sempre pressurizzato. L’alimentazione viene usualmente fatta sia con un impianto dedicato, sia derivando un collettore secondario da quello della rete principale antincendio, servita dal sistema ad autoclave precedentemente descritto (si osservi che tale sistema è del tipo wet pipe solamente fino alle valvole sezionatrici).

L’impianto sprinkler è utilizzato esclusivamente nei locali alloggio e di servizio. Esso è simile a quello appena descritto ma ha la caratteristica di

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essere automatico: gli spruzzatori sono collegati ad una rete in pressione (wet pipe system) e vengono attivati dall’aumento di calore nell’ambiente in cui sono collocati. In tal modo la funzione di rilevamento e di estinzione viene conglobata in un unico impianto (ma un sistema di rilevamento dei fumi è sempre presente). Il termine sprinkler indica in inglese i particolari spruzzatori automatici (le prime applicazioni risalgono agli anni venti del secolo scorso).

Nel puntone della testa è sistemata una fialetta di vetro contenente un liquido con elevata tensione di vapore (o elevata espansione termica) che, alle temperature di taratura, riesce a rompere la fialetta (i colori del liquido sono rappresentativi delle temperature di taratura). Ciò determina l’apertura del circuito e l’acqua fluisce su un deviatore dentellato cadendo a pioggia sulle superfici dell’ambiente sottostante. I tempi d’intervento sono piuttosto lunghi, compresi fra 100 e 400 secondi, perciò esistono sprinkler con testa “a fusibile” metallico per interventi rapidi (20÷30 secondi).

Le teste automatiche a bulbo sono poste a copertura dei singoli locali e sono tarate per entrare in azione ad una temperatura adeguata: negli alloggi compresa fra 57 °C e 79 °C (liquido di colore arancione, rosso o giallo) e negli altri locali superiore al più di 30 °C rispetto alla temperatura massima prevista per i diversi servizi. I colori standardizzati per i liquidi contenuti nelle valvole automatiche sono i seguenti:

arancione 57 °C rosso 68 °C giallo 79 °C verde 93÷100 °C blu 121÷141 °C malva 163÷182 °C nero 204÷343 °C

Anche per i telaietti metallici di supporto dei fusibili sono definiti dei colori standard.

L’impianto è costituito anche in questo caso da un sistema dedicato ad autoclave, connesso al collettore dell’impianto antincendio principale. Sulle navi passeggeri questo impianto risulta molto ramificato e viene frazionato in sottosistemi che servono un numero massimo di 200 teste automatiche poste tutte all’interno di una zona principale della nave e su non più di due ponti (anche per evitare problemi di diverso battente statico).

Ogni sottosistema è dotato di apparecchiature di controllo e comando poste in corrispondenza dell’intercettazione dal collettore principale. Esse sono costituite essenzialmente da una valvola di sezionamento ed una di scarico per la manutenzione, una valvola di ritegno per evitare che il gruppo si scarichi quando si fa il lavaggio del collettore principale dopo l’uso,

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manometri sui due lati della valvola di ritegno, ed infine un indicatore di allarme (con trasmissione del segnale alla centrale di controllo) che interviene per effetto della pressione dell’acqua quando l’otturatore della valvola di ritegno si sposta dalla sua sede, per indicare l’apertura del circuito in corrispondenza di almeno una testa automatica (si osservi che in situazioni statiche l’otturatore, per gravità, si adagia sulla sua sede e la condotta che va al pressostato di allarme si scarica dal tubicino di drenaggio, in questo modo l’allarme rimane disinserito). Da questa stazione si può effettuare il controllo del sistema d’allarme e dello stato di riempimento del gruppo di sprinkler, mentre il controllo dello stato di funzionamento della pompa di alimentazione viene fatto aprendo una valvola di prova posta sulla mandata della pompa stessa.

Dal collettore principale si dipartono perciò tante linee secondarie che fanno capo alle rispettive stazioni di comando e controllo. Ogni stazione controlla gli sprinkler posti in un certo numero di locali contigui entro i quali passano, sotto i soffitti dei ponti, le tubazioni della sottorete.

Il sistema di estinzione con sprinkler è efficace se le tubolature sono mantenute in pressione, perciò usualmente l’acqua in pressione lambisce la testa automatica. In alcune sistemazioni non è però conveniente mantenere le condotte cariche per evitare problemi legati alle basse temperature (congelamento) o alle alte temperature (formazione di condensa). La formazione di condensa, ed il conseguente gocciolamento, riduce il comfort a bordo ed è quindi da scongiurare soprattutto nelle cabine di una nave passeggeri. Per tali motivi, in casi particolari, la parte terminale delle condotte nei sistemi wet pipe è caricata con aria compressa.

L’impianto antincendio ad anidride carbonica è costituito dalla riserva di gas e dalle tubolature fisse che la collegano agli ugelli posti negli ambienti da servire. La riserva è costituita da gas liquefatto contenuto in bombole pressurizzate (impianto ad alta pressione) oppure in un unico grande contenitore cilindrico refrigerato (impianto refrigerato a bassa pressione). In questo secondo modo si realizza un notevole vantaggio in termini di peso (di circa il 50%) e di costo.

Nell’impianto ad alta pressione, la schiera di bombole è costituita da contenitori standard di 67 litri ciascuno, fissati ad un robusto telaio di supporto. La temperatura nell’ambiente di stoccaggio viene controllata in modo da tenere la pressione a valori prossimi a 50÷60 bar. Si rammenta che le bombole sono riempite solo parzialmente per motivi di sicurezza, mentre la pressione di taratura delle sicurezze è di circa 175 bar e quella di prova di circa 230÷250 bar. Sulla testa delle bombole sono poste valvole di sicurezza del tipo con disco a rottura.

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Le bombole sono divise in batterie, ciascuna formata da un numero di elementi funzione delle dimensioni del locale in cui deve essere rilasciato il gas. Gli elementi di ogni batteria sono collegati fra di loro in modo da permetterne l’apertura simultanea a distanza.

Come noto infatti, per essere efficace (ossia per favorire il mescolamento con l’aria e ridurre le stratificazioni), l’immissione deve essere veloce. Per questo motivo nelle bombole è anche immerso un sifone in modo da collegare il collettore direttamente con liquido: la pressione del gas sovrastante il liquido fa da propellente e vi è minor rischio di congelamento. Gli ugelli sono costituiti da tubi forati posti entro un erogatore a campana.

In pratica l’intervento di apertura delle bombole consiste nell’apertura (manuale o a distanza con una bombola secondaria ad azoto) della sola bombola pilota, la quale rilascia gas in pressione che va a manovrare le valvole di sezionamento poste sulle teste dei singoli elementi della batteria. Quando il gas fluisce nel collettore delle bombole viene attivato automaticamente un segnale d’allarme tramite un interruttore a pressione.

Dopo l’apertura delle bombole, l’operatore deve collegare il collettore delle stesse al collettore principale che porta il gas nell’ambiente in cui si è sviluppato l’incendio: questa manovra consiste nell’aprire a distanza una valvola di sezionamento. La doppia manovra vuole garantire una maggiore sicurezza, dando tempo alle persone che sono nell’ambiente di uscirne dopo aver sentito l’allarme, infatti le due fasi della manovra di immissione vanno intervallate da un lasso di tempo standard di 30 secondi. La doppia protezione dovrebbe inoltre garantire da manovre accidentali. La console di comando inoltre è fatta in modo tale che quando lo sportello viene aperto per accedere ai comandi, automaticamente si disattiva il sistema di ventilazione e suona un primo allarme.

La ricarica non viene di solito effettuata a bordo, ma le bombole sono scaricate a terra se il loro peso non corrisponde a quello di riempimento previsto.

Nell’impianto refrigerato il gas viene mantenuto a bassa temperatura in un contenitore cilindrico resistente alla pressione, ricoperto da uno strato isolante di schiume poliuretaniche. Le serpentine di un impianto frigorifero sono poste nella parte alta del contenitore, per sicurezza le serpentine sono doppie e collegate a due impianti di refrigerazione identici ed indipendenti ognuno capace di produrre le frigorie necessarie allo stoccaggio in sicurezza del gas (funzionanti alternativamente). Il sistema è corredato da una serie di strumenti di misura della pressione, della temperatura e del livello (anche a spillamento su un tubo esterno al contenitore, collegato ad “U” al fondo ed alla parte alta: aprendo una valvola posta in basso il tubicino si riempie ed il

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livello viene evidenziato dalla formazione di un sottile strato di ghiaccio sulla superficie esterne, poi il gas evapora verso la parte alta del contenitore). Una doppia valvola di sicurezza preserva dallo sviluppo di pressioni eccessive scaricando il gas nell’atmosfera.

L’attivazione dell’impianto avviene in maniera analoga a quanto visto per il sistema ad alta pressione. La manovra è fatta per sicurezza in due fasi, ma in questo caso non serve evidentemente un sistema di sincronizzazione. Il gas viene pescato nella zona bassa del contenitore dove è liquido ed entra in una condotta di diametro adatto alla pressione di stoccaggio (il diametro è maggiore rispetto a quello delle tubolature dell’impianto ad alta pressione).

La ricarica viene effettuata a bordo, con una connessione doppia posta al ponte di coperta: ad essa fanno capo una condotta di caricazione ed una di compensazione della pressione. La quantità stoccata viene aumentata, rispetto al caso precedente, per compensare perdite (attraverso la valvola di sicurezza) dovute ad eventuali riscaldamenti.

Per entrambi i sistemi, le stesse tubazioni di scarico del gas si prestano per il sistema di rilevamento dell’incendio a campionatura dei fumi: i gas sono aspirati e mandati ad un analizzatore di fumi posto fuori dall’ambiente servito, per esempio nella sala di controllo.

Nelle navi cisterna per il trasporto di idrocarburi e di sostanze chimiche e nelle gasiere l’impianto di estinzione del fuoco all’interno delle cisterne è costituito dallo stesso impianto di inertizzazione usato per i servizi del carico. Il gas inerte prodotto a bordo, sia esso il frutto di una combustione controllata o di un generatore di azoto, viene utilizzato sia come sistema preventivo per ridurre il rischio di esplosioni, sia come sistema di estinzione degli incendi. Per essere adatto a quest’ultima funzione, esso deve rispettare alcuni parametri definiti dalle norme, relativi alla qualità del gas, alla portata ed al massimo funzionamento continuativo dell’impianto.

L’impianto di produzione del gas inerte può essere realizzato, in navi mercantili diverse da quelle sopra elencate, con il solo scopo di estinguere gli incendi (e non per l’inertizzazione) – anche se questa soluzione non è diffusa. In tal caso si tratta di impianti ad alta pressione in cui alle soffianti si sostituisce un compressore. Il gas prodotto viene immagazzinato in un contenitore in pressione che lo rende pronto per l’uso e che fa da polmone nel caso di intervento.

L’impianto antincendio ad Halon 1301 è simile a quello ad anidride carbonica. La minor quantità richiesta e la pressione di stoccaggio minore rispetto agli impianti ad anidride carbonica, rendono possibile l’utilizzo di contenitori di stoccaggio più piccoli e leggeri, anche di forma sferica.

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L’azionamento è realizzato con bombole pilota (a gas in pressione, per esempio azoto) e la manovra viene fatta per sicurezza in due fasi oppure con una valvola sezionatrice con temporizzatore per ritardarne l’apertura dopo che le bombole sono state connesse al collettore.

Gli impianti antincendio a schiuma possono essere di due tipi: quelli a bassa espansione sono usati per superfici piane (incendi di spillamenti da macchinari o dai cieli delle casse) come sistemi ausiliari per i locali con macchinari o come sistemi di protezione dei ponti delle navi petroliere e chimichiere, mentre quelli ad alta espansione sono alternativi agli impianti ad acqua ed a gas. I sistemi qui descritti sono del tipo a schiuma meccanica, utilizzata in luogo di quella chimica dal momento che la formazione della schiuma si ha solamente agli ugelli e non lungo le condotte.

Tali impianti sono costituiti essenzialmente dal miscelatore del reagente all’acqua, dalla rete di distribuzione e dagli ugelli generatori di schiuma.

Nell’impianto ad alta pressione il miscelatore è costituito da un venturimetro posto sulla condotta dell’acqua, acqua che deve fluire ad una pressione costante per garantire l’aspirazione della giusta quantità di reagente. Questo è contenuto in uno o due fusti. Due condotte di piccolo diametro sono collegate al collettore ed al venturimetro: la condotta posta a monte del restringimento va a terminare sul cielo dei fusti per generare una pressione costante alle spalle della condotta di alimentazione del reagente (la condotta che termina nel venturimetro).

Il sistema descritto si adatta a sostanze schiumogene più pesanti dell’acqua, quando però i due pesi sono simili, la pressione di immissione del reagente è controllata, sempre con il sistema meccanico a venturimetro, in maniera leggermente diversa. In alternativa infatti il reagente è contenuto in un sacco flessibile inserito nel fusto e l’acqua esercita la sua pressione sulla superficie esterna del sacco, facendo uscire il liquido reagente da un tubo verticale perforato calato dal coperchio.

Un’altra tipologia di impianto è realizzata stoccando la miscela d’acqua e reagente in un contenitore cilindrico collegato direttamente al collettore di distribuzione. L’espulsione della miscela viene realizzata con gas in pressione (anidride carbonica stoccata in bombole) inviata dal cielo del contenitore. Questo impianto è utilizzato quando non è agevole disporre di acqua di alimentazione.

Negli impianti per la produzione di schiuma sulle navi petroliere è richiesta una grande quantità di miscela ed i fusti in pressione non si prestano all’uso perché dovrebbero essere di grandi dimensioni e quindi molto pesanti. Per questo motivo il reagente viene stoccato in casse normali a pressione atmosferica e viene miscelato con un sistema particolare: dalla mandata della pompa una piccola condotta con portata regolata da una

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valvola comandata va all’eiettore per l’aspirazione del reagente (eventualmente regolabile) e la miscela così prodotta viene immessa nella linea principale tramite un miscelatore volumetrico a lobi mosso dallo stesso flusso d’acqua (oppure con un secondo eiettore). Si ottiene così un buon controllo della miscelazione, indipendente dal battente nella cassa. In questo sistema gli utilizzatori sono i monitori installati sul ponte di coperta capaci di flussi di 12 m3 di schiuma al minuto con gittate di 40 metri.

Agli impianti a schiuma fissi qui illustrati si possono affiancare anche impianti semi–fissi, costituiti da un fusto di reagente di qualche decina di litri e da una manichetta con lancia di miscelazione nella quale si mescolano acqua, reagente ed aria: la manichetta va collegata ad un idrante del sistema principale e pesca il reagente dal fusto con una canna flessibile. La sostanza schiumogena viene aspirata con l’uso di un venturimetro posto nella lancia oppure, a monte, in un punto qualsiasi della manichetta. Queste lance possono fornire flussi fino a 2 m3 di schiuma al minuto con gittate di circa 15 metri ma hanno autonomia limitata (dell’ordine della decina di minuti).

Negli impianti a schiuma ad alta espansione gli ugelli nebulizzatori spruzzano la miscela d’acqua e reagente (in percentuale di circa 1,5%) su una griglia affacciata su un ventilatore che invia una corrente d’aria tale da creare una schiuma molto leggera adatta per la saturazione degli ambienti. Alle spalle della griglia può essere posta una condotta di canalizzazione. Il sistema formato dal ventilatore e dalle condotte d’aria può essere quello di ventilazione dell’ambiente.

Anche in questo caso sono necessari una cassa di stoccaggio del liquido reagente ed una pompa di miscelazione (può essere anche un eiettore se si sfrutta l’acqua del sistema antincendio principale). I singoli generatori di schiuma hanno portate che arrivano a 30 m3 all’ora.

Gli impianti di estinzione a polvere chimica sono costituiti da bombole di azoto ad alta pressione che funge da propellente (la pressione dell’azoto è molto alta, fino a 200 bar, per vincere le perdite nelle condotte) collegate al serbatoio della polvere chimica. L’azionamento del sistema si realizza aprendo simultaneamente le valvole delle bombole ed il comando dell’impianto può essere fatto a distanza con sistemi simili a quelli visti per i gas (con bombole secondarie ad azoto), sempre con una manovra in due fasi. Gli utilizzatori sono costituiti da monitori e manichette.

Questo sistema può essere utilizzato in combinazione con un sistema a schiuma per interventi differenziati (sistemi twin–agent): in questo caso i contenitori di polvere e di soluzione schiumogena sono serviti da aria in pressione contenuta in una schiera di bombole.

Infine si vuole ricordare che il sistema di estinzione degli incendi con vapore acqueo è il più antico sistema utilizzato a bordo delle navi petroliere

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ma, pur essendo efficace, non viene più installato non essendo disponibile vapore dagli impianti principali.

7.5 – Gli impianti fissi di rilevazione

In conclusione si vuole fare un accenno ai sistemi di rilevazione (o anche di rivelazione) dell’incendio. Questi impianti hanno lo scopo di rilevare e segnalare l’insorgere di un incendio con avvisatori ottici ed acustici ed inviano inoltre ai pannelli di controllo (collocati nella control fire station) un segnale per l’individuazione dell’ubicazione dell’incendio.

I segnalatori d’incendio possono essere manuali o automatici. I primi sono apparecchiature azionate manualmente per dare l’allarme d’incendio, i secondi sono sistemi automatici che analizzano le condizioni dell’ambiente per valutare la presenza di un incendio. Essi sono divisi in due categorie: quelli che prelevano campioni d’aria controllandoli poi con analizzatori dei fumi, posti fuori dall’ambiente servito, e quelli che utilizzano elementi sensibili, in genere alla temperatura o al fumo, collocati nell’ambiente da controllare.

L’allarme dato dal rilevatore permette di prendere i provvedimenti necessari per lo spegnimento dell’incendio (a meno che non ci sia un sistema automatico del tipo a sprinkler) e per l’isolamento degli ambienti chiudendo le porte tagliafuoco, le serrande delle condotte di ventilazione, gli impianti stessi di ventilazione, spegnendo le pompe e manovrando le valvole di sezionamento dei servizi che mettono in circolazione liquidi combustibili.

Esiste una grande varietà di rilevatori utilizzabili nei vari ambienti della nave, tali da indicare la presenza di un incendio basandosi su diversi principi di funzionamento e prestandosi quindi specificamente alle diverse tipologie di incendio. Essi individuano la presenza di fumo, di calore, di prodotti di combustione, di fiamme oppure ogni combinazione di questi fattori.

Gli analizzatori dei fumi (sistemi a campionatura dei fumi) sono costituiti da impianti ad estrazione dei fumi formati da una serie di condotte alimentate dall’aria presente nei locali da servire tramite estrattori: il gas attraversa una condotta in cui è presente una lampada e viene controllato sia visivamente (appare chiaro, se sono presenti prodotti di combustione, per effetto della diffusione della luce), sia tramite un analizzatore di tipo ottico. Le norme richiedono che nel flusso sia posta una girandola per controllare che gli estrattori funzionino, e che venga effettuata una pulizia periodica delle condotte con aria compressa.

Le condotte possono essere quelle dell’impianto di estinzione a gas e devono terminare con una o più campane di aspirazione in ogni locale, posizionate in modo da trovarsi sul percorso dei gas prodotti dall’eventuale

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combustione, anche in considerazione della ventilazione meccanica o naturale effettuata nei locali. I sistemi a campionatura dei fumi sono spesso utilizzati per le stive, in modo da non lasciare elementi che possono danneggiarsi in zone non facilmente accessibili: il sistema è infatti il più affidabile in considerazione della destinazione d’uso di tali locali.

Gli impianti di segnalazione automatica possono essere così classificati in base al tipo di rilievo effettuato: • elementi sensibili alla temperatura – sono i rilevatori termici in cui il

contatto elettrico viene chiuso prima che la temperatura superi il limite di 78 °C, ma non al di sotto di 54 °C se il tasso di crescita è inferiore ad 1 °C al minuto; tali rilevatori vengono detti termostatici e possono essere realizzati con sensori bimetallici o con termistori. Sono sensori termostatici anche quelli a bulbo di vetro o a fusibile utilizzati negli impianti sprinkler. Un particolare tipo è rappresentato dai rilevatori (detti termovelocimetri) che, oltre a rilevare una temperatura fissa predeterminata, sono in grado di rilevare un gradiente termico.

• elementi sensibili al fumo – si tratta di rilevatori delle particelle in sospensione nei fumi prodotti da una combustione. I sensori sono di tipo ottico a rifrazione oppure sono a camera di ionizzazione.

• elementi sensibili alle radiazioni luminose emesse dal fuoco – i rilevatori sfruttano gli effetti prodotti su elementi fotosensibili dall’emissione di luce a frequenze prestabilite. I rilevatori che utilizzano una lamina bimetallica funzionano chiudendo

un circuito elettrico tramite un elemento che si flette per effetto della differente dilatazione termica dei due metalli con cui è costruito. Il gradiente di crescita della temperatura può essere rilevato facendo chiudere il circuito tra due lamine bimetalliche, delle quali una esposta al calore e l’altra schermata ed isolata: se la temperatura cresce lentamente le due lamine si spostano assieme e la prima, quella a minore inerzia termica, non riesce a raggiungere la seconda ed il circuito elettrico viene chiuso solo da quest’ultima su un contatto fisso. In questo modo il tempo di risposta aumenta quando la temperatura cresce lentamente. Questi rilevatori si utilizzano, per evitare falsi allarmi, in ambienti nei quali si prevedono variazioni di temperatura legate alle funzioni svolte (stirerie, etc.).

Le lamine bimetalliche sono oggigiorno spesso sostituite da termistori, ossia sensori fatti con materiali che aumentano significativamente la loro resistenza elettrica all’aumentare della temperatura. Essi vengono inseriti in circuiti elettrici anche per costruire termovelocimetri, infatti è sufficiente inserire due elementi, uno schermato ed uno esposto alla fonte di calore, per

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far rilevare al circuito elettrico (per confronto fra i segnali dei due sensori) la presenza di un incremento lento o veloce.

Un vecchio sistema di rilevamento del gradiente di crescita della temperatura è quello realizzato con una camera chiusa in cui l’aria può uscire da un piccolo ugello: se la temperatura cresce velocemente l’aria si dilata e non riesce ad uscire senza prima creare una pressione che va a lavorare su una membrana metallica che, spostandosi, chiude un circuito elettrico.

I rilevatori dei fumi di tipo ottico basano il loro funzionamento sulla riflessione della luce che si manifesta quando il fumo viene illuminato da una sorgente luminosa. In pratica, in una piccola camera con la superficie interna nera sono presenti una sorgente luminosa, che emette luce ad impulsi, ed un fotodiodo, sensibile alla luce. I due elementi sono posti in modo che la luce prodotta dalla lampada non raggiunga la fotocellula (sono orientati su direzioni diverse) se non per effetto della diffusione causata dalla rifrazione delle particelle in sospensione nel gas presente nella camera: l’aria pulita non ha particelle in sospensione, mentre i fumi portano particelle di diverse dimensioni, tali da generare l’effetto desiderato. Il fotodiodo, una volta illuminato, chiude un circuito elettrico. Per controllare il funzionamento del sistema una seconda fotocellula è affacciata alla sorgente luminosa in modo da rilevare con continuità il segnale.

Una variante del rilevatore ottico qui descritto è quella in cui il circuito elettrico che dà il segnale d’allarme si apre quando il fumo si interpone fra la sorgente luminosa e la fotocellula affacciate l’una all’altra in un tubo.

Un altro tipo di rilevatori di fumi è quello a camera di ionizzazione: esso è composto da due camere che contengono ciascuna una coppia di elettrodi, una aperta all’ambiente esterno ed una perfettamente stagna. Le due coppie di elettrodi sono poste in serie su un circuito elettrico, ed in ogni camera è collocata una piastrina radioattiva (per esempio di radio) che emette particelle alfa ionizzando l’aria e rendendola quindi conduttrice. Quando il fumo di combustione raggiunge la camera aperta, si introduce fra gli elettrodi ed ostacola il flusso di corrente (l’azione è quella di rallentare la combinazione degli ioni positivi e degli elettroni liberi nell’aria ionizzata): la maggiore tensione misurata fra gli stessi, comparata con quella mantenuta costante nella camera chiusa, provoca la chiusura di un circuito elettrico. Rilevatori più evoluti utilizzano una sola piastrina radioattiva per le due camere rese comunicanti: una piccola ed una grande, con gli elettrodi disposti in modo che le relative tensioni siano bilanciate finché non entra il fumo a sbilanciarle provocando una variazione del segnale nel circuito.

I rilevatori di luce sono in grado di registrare emissioni luminose aventi certe lunghezze d’onda generate da una sorgente pulsante: per evitare falsi

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allarmi il circuito elettrico d’allarme si chiude solo se la radiazione captata ha una fluttuazione con le frequenze tipiche della fiamma, la radiazione potrebbe infatti provenire da una sorgente fissa che non ha niente a che fare con l’incendio. Una fotocellula è posta nel fuoco di una lente ove converge la luce emessa dalla fiamma, questa è sensibile ad una certa banda di lunghezze d’onda (raggi infrarossi) e fa capo ad un amplificatore selettivo tarato per le frequenze tipiche della fiamma (comprese fra 1 Hz e 30 Hz), alle spalle sta il circuito elettrico che genera il segnale, comprensivo di un ritardatore (per intervenire solo quando il segnale viene mantenuto per un tempo minimo predeterminato). Il sensore è in grado di rilevare incendi incipienti anche molto lontani, fino alla distanza di qualche decina di metri, ma non funziona se il fuoco è schermato da un ostacolo.

Un’evoluzione di questa tipologia è rappresentata dai sensori nei quali è stata notevolmente ridotta la larghezza di banda a cui sono sensibili. Si tratta in particolare delle emissioni, nel campo degli infrarossi, centrate sulla lunghezza d’onda di 4.3 µm. In tal modo si ottiene un doppio vantaggio: si riduce la probabilità di falsi allarmi dal momento che tale lunghezza d’onda non è presente nella luce solare filtrata dall’atmosfera, e si migliora l’efficacia del sensore poiché a tale lunghezza d’onda corrispondono le emissioni del biossido di carbonio CO2 e si possono quindi rilevare incendi con fiamma nascosta (purché i gas di combustione siano sulla traiettoria dei raggi captati dalla lente).

Un’alternativa, sempre nel campo dei sensori ottici, è rappresentata da quelli sensibili alle lunghezze comprese fra 0.18 µm e 0.27 µm, corrispondenti ad onde nel campo dei raggi ultravioletti, onde che vengono assorbite dall’ozono e quindi non presenti nella luce filtrata dall’atmosfera. Il sensore è costituito da un’ampolla (trasparente ai raggi UV) che contiene due elettrodi fotosensibili ai raggi UV: quando gli elettrodi sono raggiunti dai raggi ultravioletti emettono elettroni e chiudono il circuito elettrico.

Per quanto riguarda gli usi di bordo, va osservato che: • i rilevatori dei fumi sono adatti per incendi con combustione lenta; • i rilevatori della temperatura si prestano ad incendi con combustione

veloce; • i rilevatori della luce messa dal fuoco sono efficaci solo quando il

fuoco si è già sviluppato e sono più delicati; sulle navi trovano minore impiego.

Nei locali alloggi e di servizio trovano applicazione prevalentemente rilevatori di fumi e di calore (ma solo di fumi se è presente un impianto sprinkler), nei locali con macchinari, dove gli incendi vengono causati da idrocarburi, i rilevatori di fumi sono i più adatti ed infine nelle stive è usuale la campionatura dei fumi.

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Fra tutti i tipi di rilevatori citati, i più sicuri ed utilizzati sono infatti quelli sensibili alla presenza di prodotti di combustione (fumi), funzionanti per rifrazione della luce o con camera di ionizzazione. Essi sono efficaci quando le particelle in sospensione nei fumi hanno diametro inferiore a 5 µm e si prestano quindi ai fuochi prodotti da idrocarburi liquidi, legno, rivestimenti vari dei ponti, etc. A loro svantaggio va detto che producono falsi allarmi in presenza di vapore d’acqua (rilevatore a camera di ionizzazione) e di polvere (rilevatore ottico a rifrazione), entrambi inoltre sono efficaci solo se posizionati sulla corrente dei fumi prodotti ed ovviamente solo se il fuoco produce fumi (non vanno usati per esempio nel rilevamento della combustione degli alcoli).

Un’alternativa è rappresentata dai rilevatori che basano il loro funzionamento su due principi diversi. Ad esempio risulta molto efficace il rilevatore termico a termistori (termovelocimetro) e con camera di ionizzazione.

In conclusione va citato anche il rilevatore di monossido di carbonio, adatto più alla salvaguardia della vita delle persone che si possono trovare nei locali lambiti da un incendio, piuttosto che per la rilevazione dell’incendio stesso. Esso è costituito da una cella elettrolitica nella quale uno dei due elettrodi è fatto di materiale poroso che, assorbendo l’ossido di carbonio, rilascia elettroni ed ioni idrogeno chiudendo il circuito elettrico.

7.6 – Gli impianti mobili di estinzione

Gli impianti mobili di estinzione sono la prima difesa in caso d’incendio e sono costituiti da estintori portatili, carrellati e di tipo semi–fisso.

Gli estintori semi–fissi sono sistemi a schiuma meccanica e per il funzionamento necessitano di essere collegati all’impianto principale antincendio della nave per l’alimentazione d’acqua, perciò sono già stati trattati parlando degli impianti fissi a schiuma.

Gli estintori carrellati sono generalmente estintori a schiuma a basso rapporto di espansione utilizzati per spegnere incendi di classe A e B nei locali con macchinari (obbligatori nei locali di classe A). Sono composti da fusti della capacità di 45 litri posti su un carrello e riempiti di miscela schiumogena (acqua e reagente), pronti all’uso tramite una bombola di CO2 fissata sul carrello e la cui mandata è collegata al fusto. Esistono in alternativa anche estintori a polvere chimica carrellati, ma non ad anidride carbonica a causa dell’elevato peso dell’involucro.

Gli estintori portatili sono piccole bombole di forma cilindrica dotate di un dispositivo per l’uscita dell’agente estinguente. L’azionamento dell’estintore è ottenuto mediante l’apertura di un otturatore – che deve

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essere facile da manovrare tramite una maniglia, un volantino, un grilletto o un pulsante – e la scarica può protrarsi in genere per non più di qualche decina di secondi. L’agente estinguente può essere CO2, Halon (non più ammessi), polvere chimica, acqua o schiuma – questi due ultimi tipi vengono detti estintori idrici. Le caratteristiche dell’estintore, così come il tipo di agente estinguente contenuto, sono riportate sull’involucro assieme all’indicazione delle classi di incendi per le quali esso risulta adatto (pittogrammi con le lettere identificative della classe) e all’indicazione della possibilità di utilizzo su apparecchi sotto tensione elettrica.

Essi devono essere posti in tutti i locali accessibili alle persone e sistemati a portata di mano per un impiego immediato. Il numero e la collocazione degli estintori è definita dalla normativa, così come il loro peso massimo, che non deve superare 23 kg. Anche la carica dell’estintore deve essere in quantità minima secondo le norme: gli estintori ad anidride carbonica ed a polvere chimica devono avere una carica di almeno 5 kg e quelli idrici di almeno 9 litri.

L’espulsione dell’agente estinguente dall’estintore viene realizzata per pressione di un gas ed a tale riguardo si distinguono gli estintori permanentemente in pressione e quelli che vengono mesi in pressione solo all’atto dell’impiego. Nel primo caso la pressione viene fornita dallo stesso agente estinguente (tensione di vapore sul gas liquefatto) o da un gas compresso nell’involucro ove è contenuto l’agente estinguente. Nel secondo caso la pressione è generata o a seguito di una reazione chimica o a seguito dell’immissione di un gas pressurizzato contenuto in un recipiente distinto (interno o esterno all’involucro).

Gli estintori idrici più comuni sono quelli a soluzione acquosa e quelli a cartuccia ed acqua pressurizzata. Nei primi la carica è costituita da una soluzione acquosa di bicarbonato di sodio e nell’involucro è presente un piccolo recipiente con acido solforico, girando sotto sopra l’estintore manovrando un interruttore le due soluzioni vengono a contatto e dalla reazione chimica si ha produzione di anidride carbonica a pressione sufficiente a provocare la scarica. In alternativa l’estintore contiene solo d’acqua e la pressione è esercitata da un cuscino d’aria o di gas in pressione (oppure da una cartuccia di gas in pressione).

Gli estintori idrici possono essere anche a schiuma: quelli a schiuma chimica portano due soluzioni che quando vengono in contatto producono sia schiuma che propellente (anidride carbonica), quelli a schiuma meccanica contengono una soluzione d’acqua e reagente e sono messi in pressione tramite una cartuccia di anidride carbonica.

Gli estintori a gas sono essenzialmente ad anidride carbonica: tale gas costituisce sia la carica, sia il propellente. Quelli ad Halon sono costituiti da

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una carica di Halon 1301 in pressione con un gas inerte oppure da una carica di Halon 2402 super–pressurizzata.

Gli estintori a polvere chimica sono costituiti da una carica di polvere pressurizzata con gas inerte.

Gli estintori più utilizzati sono quelli a polvere chimica in quanto hanno un elevato potere estinguente e sono universali, ossia sono adatti ad incendi di tutte le classi, e non sono soggetti a deterioramento, richiedendo così minore manutenzione e fornendo maggiore affidabilità nel tempo. Essi però, come tutti quelli a carica gassosa, non si prestano per incendi in luoghi ventilati, inoltre rilasciano sostanze soffocanti e comportano residui polverosi particolarmente pericolosi per i contatti elettrici.

Quelli ad anidride carbonica sono estintori consigliati per spegnere incendi di apparecchiature sotto tensione elettrica, a differenza di quelli a polvere chimica (infatti le polveri possono diventare buoni conduttori elettrici alle alte temperature) e di quelli idrici. Essi sono però piuttosto pesanti perché l’anidride carbonica a temperatura ambiente ha un’elevata tensione di vapore e quindi l’involucro deve essere molto resistente (inoltre per lo stesso motivo temono le alte temperature). Infine, tali estintori hanno il difetto di rilasciare sostanze soffocanti.

Gli estintori idrici sono poco usati anche perché soffrono le temperature estreme, sia basse (congelamento) che alte (deterioramento delle soluzioni schiumogene ed alte pressioni nelle cartucce di CO2).