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Redazione e impaginazione: Elàstico

I Edizione 2012

© 2012 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2012-2013-2014 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)

Titolo originale dell’opera: EverwildOriginal English language copyright © 2009 by Neal Shusterman.Italian language copyright © 2012 by Edizioni Piemme.Published by arrangement with Simon & Shuster Books for Young Readers, an imprint of Simon & Shuster Publishing Division.All rights reserved.

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Neal Shusterman

Traduzione di Elena Orlandi

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PARTE PRIMA

Un vapore di ultraluce

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1Una nuova devastazione

Si erano diffuse delle voci. Voci su cose terribili, cose meravigliose, eventi tanto incommensurabili che era impossibile tenerli per sé e così erano passati di anima in anima, un ultraluce dopo l’altro, finché tutti gli ultra-luce di Everlost non ne furono a conoscenza.

Si favoleggiava di una bellissima strega del cielo, che si librava in aria su un grande pallone argentato. E si sussurrava di un terribile orco fatto di cioccolata, che attirava le anime ingenue con quell’intenso odore allet-tante, solo per gettarle in un pozzo senza fondo da cui non c’era ritorno.

In un mondo in cui i ricordi scolorano dal tessuto del tempo, le dicerie diventano più importanti di ciò che si sa per certo. Sono il sangue vitale del mondo senza san-gue che sta tra la vita e la morte.

In un giorno come tutti gli altri a Everlost, un ragaz-zo stava per scoprire se quelle dicerie erano vere.

Il suo nome non è importante, così poco importante che lui stesso l’aveva dimenticato, e ancor meno impor-tante perché presto se ne sarebbe andato per sempre.

Era morto quasi due anni prima e, essendosi perso sulla strada verso la luce, aveva dormito per nove mesi e poi si era svegliato a Everlost.

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Il ragazzo era un vagabondo, solitario e silenzioso, che si nascondeva da chi incontrava sul proprio cam-mino, per paura di quello che avrebbero potuto fargli. Senza compagnia e amicizia a ricordargli chi fosse, aveva dimenticato la sua identità più velocemente della maggior parte degli altri.

Nelle occasioni in cui aveva incrociato gruppi di altri ultraluce, li aveva ascoltati dal suo nascondiglio mentre parlavano dei mostri, quindi sapeva, quanto ogni altro ultraluce, cosa c’era in serbo per gli incauti.

Quando il ragazzo era arrivato a Everlost, il suo va-gabondare aveva un obiettivo. Era in cerca di risposte, ma ora aveva addirittura dimenticato le domande. Tut-to ciò che gli rimaneva era una spinta a restare in mo-vimento, riposandosi solo quando incontrava una zo-na morta, un appezzamento di terra solido e luminoso che come lui era finito a Everlost. Aveva imparato mol-to in fretta che le zone morte erano diverse dal mondo sbiadito e sfocato dei vivi: lì ogni passo ti tirava giù e minacciava di farti affondare fino al centro della Terra se rimanevi fermo troppo a lungo.

Quel giorno il suo vagabondare l’aveva portato a un campo pieno di zone morte. Non ne aveva mai vi-ste così tante in un solo posto… ma quello che aveva colpito davvero la sua attenzione era stato il secchio di popcorn. Stava là, semplicemente, posato su una zona morta, di fianco a quell’enorme albero di Everlost, co-me se non avesse un posto migliore dove stare.

In qualche modo, i popcorn erano trapassati a Ever-lost!

Il ragazzo morto non aveva più avuto il lusso di man-giare da quando era arrivato a Everlost ma, solo perché non ne aveva più bisogno, non significava che non ne

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sentisse più il desiderio, quindi come avrebbe potuto resistere ai popcorn? Era il secchiello formato maxi, tra l’altro, del tipo che ordini con due occhi grandi così al cinema, e che pare non finire mai. Anche in quel mo-mento i popcorn brillavano di burro. Sembrava troppo bello per essere vero!

E, infatti, era proprio così.Appena mise piede nella zona morta e allungò la ma-

no verso i popcorn, sentì qualcosa stringersi intorno alla sua caviglia. In un attimo una rete si avvolse attorno a lui e lo sollevò da terra. Solo quando fu completamente intrappolato nella rete si rese conto del suo errore.

Aveva sentito parlare del mostro chiamato McGill, e delle sue trappole per anime, ma aveva anche sen-tito dire che il McGill se n’era andato lontano e stava causando nuove devastazioni nell’Oceano Atlantico. Quindi, chi aveva messo quella trappola? E perché?

Lottò un po’ per liberarsi, ma non c’era niente da fare a parte consolarsi con il fatto che il secchiello di popcorn era intrappolato nella rete con lui e, anche se metà del suo contenuto si era rovesciata a terra, rima-neva l’altra metà. Assaporò ogni singolo chicco e, quan-do ebbe finito, aspettò. E aspettò.

Il giorno diventò notte, ridiventò giorno e ancora e ancora, finché lui non perse il senso del tempo e co-minciò a temere che la sua eternità l’avrebbe passata legato in quella rete… Ma poi finalmente udì un flebile rumore monotono, come quello di un motore in avvici-namento da nord. Il suono echeggiava anche a sud, ma poi, quando entrambi i suoni divennero più forti, il ra-gazzo si rese conto che non si trattava di un’eco. I due rumori erano diversi. Qualcosa si stava avvicinando sui due lati.

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Stavano arrivando degli ultraluce per aiutarlo o era-no mostri? Sarebbe stato liberato o sarebbe divenuto una vittima della nuova devastazione?

La sbiadita memoria di un cuore rimbombò nel suo petto fantasma e, mentre il sibilo dei motori diventava più forte, aspettò di vedere chi l’avrebbe raggiunto per primo.

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2Vista dall’alto

«Signorina Mary, una delle nostre vedette ha indivi-duato una trappola scattata.»

«Ottima notizia! Di’ a Speedo di farci scendere più vi-cino, ma non troppo: non vogliamo spaventare il nostro nuovo amico.»

Mary Torralta era nel suo elemento a quella distanza da terra. Non in alto quanto volavano i vivi, dove anche le nuvole erano così in basso da sembrare dipinte per terra, ma nello spazio tra terra e cielo: lì si sentiva a ca-sa. Era la regina dell’Hindenburg, e le piaceva. L’enorme dirigibile argenteo, il più grande zeppelin mai costruito, era esploso in una palla di fuoco nel 1937, lasciando il mondo vivo per trasferirsi a Everlost. Mary, convinta che ogni cosa accadesse per un motivo, sapeva perché fosse esploso: doveva arrivare a Everlost per lei!

La passerella di tribordo, che correva per tutta la lun-ghezza dello scompartimento passeggeri, era il suo lus-suoso rifugio personale e il suo centro operazioni. Le sue finestre inclinate verso il basso le fornivano una vi-suale drammatica del suolo sotto di lei: le tonalità sla-vate del mondo vivo, punteggiate da forme sia naturali sia artificiali che risaltavano sullo sfondo. Erano i pun-ti trapassati a Everlost. Alberi e campi, edifici e strade.

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Sebbene gli ultraluce potessero ancora vedere il mondo vivo, questo appariva loro sfocato e confuso. Solo le co-se e i luoghi che si erano trasferiti a Everlost appariva-no vividi e a fuoco. Mary stimava che una cosa su cento tra quelle che morivano o venivano distrutte arrivasse a Everlost. L’universo era molto selettivo riguardo a ciò che sceglieva di tramandare.

Solo in quel momento, mentre passava i giorni caval-cando il cielo, si rendeva conto di essere stata ferma per troppo tempo. Si era persa così tante cose lassù nelle sue torri... ma d’altronde le torri erano state una for-tezza contro suo fratello Mikey, il mostro che si faceva chiamare McGill. Mikey era stato sconfitto. Era inno-cuo. E Mary non doveva più aspettare che gli ultraluce la trovassero. Poteva andare lei a cercare loro.

«Perché guardi sempre fuori da quelle finestre?» le chiedeva Speedo, quando faceva una pausa dal pilotare il dirigibile. «Cosa vedi?»

«Un mondo di fantasmi» gli rispondeva lei. Spee-do non aveva idea che i fantasmi di cui parlava erano i cosiddetti vivi. Quanto era inconsistente quel mon-do. Niente durava, non i luoghi, non le persone. Era un mondo pieno di occupazioni insignificanti che termina-vano sempre allo stesso modo: un tunnel e la resa. Be’, non sempre pensò felice. Non per tutti.

«Preferirei essere vivo» diceva sempre Speedo ogni volta che lei parlava di quanto fossero fortunati a essere a Everlost.

«Se fossi vissuta» gli ricordava Mary «ormai sarei morta da tempo… e tu saresti un ragioniere grasso e pelato.»

Allora Speedo lanciava un’occhiata al suo fisico asciutto gocciolante (avrebbe sempre gocciolato nel co-

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stume da bagno in cui era morto) per assicurarsi che non sarebbe mai diventato grasso e pelato, se fosse vis-suto. Mary però aveva ragione. Diventare adulti poteva essere una cosa terribile anche per le persone migliori. Mary preferiva di gran lunga continuare ad avere quin-dici anni per l’eternità.

Mary si prese un momento per rimettersi in sesto e prepararsi ad accogliere il nuovo arrivato. L’avrebbe fat-to personalmente. A modo suo, ed era il minimo che po-tesse fare. Sarebbe stata la prima a uscire dall’Hinden-burg, una figura sottile in un sontuoso vestito di velluto verde con una cascata perfetta di capelli color rame, e sarebbe scesa dalla rampa di un dirigibile a idrogeno incredibilmente grande. Era così che andava fatto. Con classe, con stile. Il suo tocco personale. Tutti i nuovi ar-rivati avrebbero saputo dal primo momento in cui l’in-contravano che amava ogni bambino di cui si occupava e che erano al sicuro sotto la sua attenta protezione.

Quando lasciò la passerella di tribordo, passò a fian-co di altri bambini nelle aree comuni della nave. Ne aveva raccolti quarantasette. Nei suoi giorni alle torri, ce n’erano stati molti di più, ma Nick glieli aveva por-tati via. L’aveva tradita, consegnando a ogni bambino la chiave della propria rovina. Aveva messo loro in ma-no una moneta. Le monete! Quegli orribili, minuscoli promemoria della vera morte che li attendeva tutti se erano sufficientemente stupidi da cercarla: solo perché c’era una luce in fondo al tunnel non significava che fos-se qualcosa da desiderare. Non per come vedeva le co-se Mary. Il cielo poteva brillare luminoso, ma anche le fiamme.

Mentre il dirigibile scendeva, Mary andò alla sala di controllo, la cabina di pilotaggio della nave che pen-

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deva dalla sua pancia. Da lì poteva avere la visuale mi-gliore mentre atterravano.

«Dovremmo toccare il suolo tra pochi minuti» le dis-se Speedo, mentre pilotava attentamente quel liscio bestione argenteo. Era stato uno dei pochi ultraluce a rifiutarsi di prendere una moneta il giorno in cui Nick l’aveva tradita. Questo gli aveva garantito un posto spe-ciale. Una posizione di fiducia e responsabilità.

«Guarda quel campo» indicò Speedo. «Vedi tutte quel-le zone morte?»

Dall’alto sembravano un centinaio di pois. «Dev’esserci stata una battaglia qui» suggerì Mary.

«Forse la guerra d’Indipendenza.»C’era un albero di Everlost, ritto sulla sua zona morta.

«La trappola è su quell’albero» le disse Speedo avvici-nandosi a terra.

Era un albero imponente con le foglie ricche di gialli e rossi, ben diverso dagli alberi del mondo vivo che era-no nel pieno del verde estivo. Per quell’albero sarebbero sempre stati i primi giorni d’autunno, ma le foglie non sarebbero mai cadute dai suoi rami. Mary si chiese co-sa gli era successo per arrivare lì. Forse gli amanti ave-vano inciso le iniziali su di lui e poi era stato colpito da un fulmine. Forse era stato piantato in memoria di qualcuno e poi era stato abbattuto. O forse aveva sem-plicemente assorbito il sangue di un soldato caduto ed era morto nella siccità di qualche anno dopo. Qualsiasi fosse la ragione, l’albero non era del tutto morto. Si era trasferito a Everlost, come tante altre cose che l’univer-so riteneva giusto preservare.

Il fogliame dell’albero era così fitto che Mary e Spee-do non riuscivano a vedere la trappola, anche dopo es-sere atterrati.

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«Vado per prima,» disse Mary «ma vorrei che venissi anche tu. Avrò bisogno di te per liberare il nostro nuovo amico dalla rete.»

«Certo, signorina Mary.» Speedo fece un sorriso un po’ troppo largo per la sua faccia.

La rampa fu abbassata e Mary scese dal dirigibile, mantenendo un passo aggraziato anche quando i suoi piedi affondarono nel mondo vivo.

A mano a mano che si avvicinava all’albero, però, ca-pì che c’era qualcosa di sbagliato. La rete era stata tira-ta giù e dentro non c’era nessun ultraluce. Tutto ciò che rimaneva era il secchiello vuoto dei popcorn per terra, l’esca che aveva lasciato esattamente come faceva suo fratello ma, mentre il McGill offriva la schiavitù ai suoi prigionieri, Mary offriva la libertà. O perlomeno la sua definizione della libertà. Comunque, quella volta nella rete non c’era nessun ultraluce che potesse ricevere il suo dono.

«Dev’essere uscito» disse Speedo arrivando alle sue spalle.

Mary scosse la testa. «Nessuno esce da queste reti.»E poi percepì un odore, che veniva dall’albero. Un

profumo dolce, inebriante, che la riempì con l’intensa miscela dell’amore avviluppato all’odio.

Quell’aroma proveniva dall’orma marrone di una ma-no impressa sul tronco dell’albero. Un’orma lasciata per prenderla in giro.

«È sangue secco?» chiese Speedo.«No» gli rispose Mary, mantenendo la compostez-

za nonostante la rabbia che montava dentro di lei. «È cioccolata.»

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