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Andrea Busfield Il bambino che corre nel vento Traduzione di Federica Merani

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Andrea Busfield

Il bambinoche correnel vento

Traduzione di Federica Merani

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Titolo originale: Born Under a Million Shadows© Andrea Busfield 2009

I Edizione Piemme Bestseller, marzo 2011

© 2010 - EDIZIONI PIEMME Spa20145 Milano - Via Tiziano, [email protected] - www.edizpiemme.it

Anno 2011-2012-2013 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)

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Mi chiamo Fawad e la mia mamma dice che sono nato al-l’ombra dei talebani.

Poiché non mi ha raccontato altro in proposito, all’inizioimmaginavo che si fosse allontanata dalla luce del sole e ran-nicchiata in un angolo buio per proteggersi la pancia che minascondeva, mentre un uomo armato di bastone ci tenevad’occhio, pronto a farmi venire al mondo a suon di legnate.

Ma poi sono cresciuto e ho capito di non essere l’uniconato all’ombra dei talebani. C’era mio cugino Jahid, per co-minciare, e poi Jamilla – insieme ci lavoravamo gli stranieria Chicken Street – e anche il mio migliore amico, Spandi.Prima che lo conoscessi, le mosche della sabbia gli avevanomangiato la faccia, procurandogli una piaga che gli era du-rata un anno e gli aveva lasciato sulla guancia un segnogrosso come un pugno. Ma lui non ci faceva caso, e noinemmeno. E mentre noi eravamo a scuola, lui se ne andavain giro a vendere spand ai grassi occidentali; per questo, an-che se il suo nome era Abdullah, lo chiamavamo Spandi.

Sì, eravamo tutti nati al tempo dei talebani, ma da miamadre ho sempre sentito parlare di loro solo come di uo-mini che facevano ombra, perciò credo che, se mai avesseimparato a scrivere, avrebbe potuto fare la poetessa. Invece,secondo il volere di Allah, spazzava i pavimenti dei ricchi

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per una manciata di afgani, che nascondeva tra i vestiti esorvegliava tutta la notte. «Ci sono ladri dappertutto» sibi-lava, un mormorio arrabbiato che le univa la punta dei so-praccigli.

E naturalmente aveva ragione. Io ero uno di loro.All’epoca, nessuno di noi lo considerava “rubare”. Come

spiegava Jahid, che di queste cose se ne intendeva, si trat-tava di “distribuzione etica della ricchezza”.

«Dividersi i soldi» aggiungeva Jamilla. «Noi non ab-biamo niente e loro hanno tutto, ma sono troppo ingordiper aiutare la povera gente, come è scritto nel sacro Corano,perciò dobbiamo aiutarli a essere buoni. In un certo senso,ci pagano per il nostro aiuto. Solo che non lo sanno.»

Naturalmente, non tutti gli stranieri ci pagavano per ilnostro “aiuto” senza accorgersene. Qualcuno, i soldi, ce lidava di proposito; o perché era contento di farlo, o perchési vergognava, o semplicemente per mandarci via, cosa che adire la verità non serviva a molto perché, quando in stradacircolano i dollari, disperso un gruppetto ne arriva subitoun altro. Però era divertente. Anche se eravamo nati all’om-bra, io, Jahid, Jamilla e Spandi passavamo le giornate al sole,a distribuire le ricchezze di coloro che erano venuti per aiu-tarci.

«Si chiama ricostruzione» ci informò un giorno Jahidmentre eravamo seduti sul marciapiede in attesa di una 4x4da prendere d’assalto. «Gli stranieri sono venuti qui per am-mazzare i talebani, hanno bombardato il nostro paese eadesso devono ricostruirlo. Ordine del Parlamento Mon-diale.»

«Ma perché volevano ammazzare i talebani?»«Perché erano amici degli arabi, e il loro re, Osama Bin

Laden, aveva una casa a Kabul dove faceva figli a centinaiacon le sue quaranta mogli. Gli americani odiavano Bin La-den e sapevano che, se continuava a scoparsi le mogli a quel

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modo, un giorno avrebbe avuto un esercito di migliaia, ma-gari milioni di figli, così hanno fatto saltare in aria dei pa-lazzi nel loro paese e hanno dato la colpa a lui. Poi sono ve-nuti in Afghanistan per ammazzare lui, le sue mogli, i suoifigli e tutti i suoi amici. Si chiama politica, Fawad.»

Jahid era forse il ragazzo più istruito che avessi mai cono-sciuto. Leggeva sempre i giornali che trovavamo per stradaed era il più grande di noi, anche se nessuno sapeva diquanto. In Afghanistan non festeggiamo i compleanni; ri-cordiamo solo le vittorie e le morti. Jahid era anche il ladropiù bravo che avessi mai conosciuto. Certi giorni, riusciva aprendere manciate e manciate di dollari dalle tasche di qual-che straniero che noi più piccoli avevamo infastidito finoalle lacrime. Se io ero nato sotto un’ombra, Jahid di sicuroera nato sotto lo sguardo del diavolo in persona, a giudicareda quant’era brutto. I suoi denti erano mozziconi marroni, eun occhio gli andava per conto suo, rotolando nell’orbitacome una biglia in una scatola. In più aveva una gambafessa, che doveva tirare con forza per tenerla in linea conl’altra.

«È uno sporco ladruncolo» diceva mia madre. Ma erararo che usasse parole gentili quando si trattava della fami-glia di sua sorella. «Sta’ alla larga da lui… è buono solo ariempirti la testa di sciocchezze.»

Come faceva a credere davvero che potessi stargli allalarga è un mistero. Ma è un problema frequente con gliadulti: ti chiedono l’impossibile e poi ti fanno fare una vitac-cia se non obbedisci. Il fatto è che io e Jahid vivevamo sottolo stesso tetto, insieme a quella grassona di sua madre, aquell’asino di suo padre e ai suoi due fratelli con la facciasporca, Wahid e Obaidullah.

«Tutti maschi» dichiarava orgoglioso mio zio.«E tutti brutti» bisbigliava mia madre da sotto il chador,

strizzandomi l’occhio; eravamo noi contro di loro e, anche

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se non avevamo niente, almeno i nostri occhi guardavanonella stessa direzione.

In sette ci dividevamo quattro stanzette e un buco nelcortile. Impresa non facile, dunque, stare alla larga dal cu-gino Jahid come pretendeva mia madre. Era un ordine cheanche il presidente Karzai avrebbe faticato a rispettare. Mamia madre non era una che dava spiegazioni, quindi non miaveva mai detto come tenere le distanze. A dire la verità,mia madre non era una che parlava, e basta.

Ogni tanto, molto raramente, alzava gli occhi dal cucitoper raccontare della casa che avevamo a Paghman. Ero natolì, ma eravamo scappati prima che le immagini avessero iltempo di imprimersi nella mia testa. Così, era con le paroledi mia madre che trovavo i miei ricordi, guardando gli occhiche le si spalancavano d’orgoglio mentre descriveva stanzedai muri dipinti, tappezzate di cuscinoni rossi; tende che co-privano finestre a vetri; una cucina così pulita che potevimangiare sul pavimento; e un giardino pieno di rose gialle.

«Non eravamo ricchi come quelli di Wazir Akbar Khan,Fawad, ma eravamo felici» mi diceva. «Naturalmente è statomolto prima che arrivassero i talebani. Guardaci adesso!Non abbiamo neanche un albero a cui poterci impiccare.»

Non che fossi un esperto, ma era piuttosto chiaro chemia madre era depressa.

Non parlava mai della famiglia che avevamo perso, solodell’edificio che un tempo ci aveva protetti – e neanchetanto bene, visto com’erano andate le cose. Ma di notte micapitava di sentirla sussurrare il nome di mia sorella. Alloratendeva le braccia e mi stringeva a sé. E così capivo che mivoleva bene.

In quelle occasioni, sdraiati come una persona sola suicuscini dove di giorno sedevamo, morivo dalla voglia di par-lare. Sentivo che le parole mi si affollavano nella testa, in at-tesa di sgorgarmi dalla bocca. Volevo sapere tutto: di mio

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padre, dei miei fratelli, di Mina. Avrei dato qualsiasi cosaper conoscerli, per farli rivivere nelle parole di mia madre.Ma capitava solo che sussurrasse il nome di mia sorella, e iocome un vigliacco me ne stavo zitto, nel timore che le mieparole spezzassero l’incantesimo e la mamma si staccasse dame, girandosi dall’altra parte.

Quando faceva giorno, mia madre non era più al miofianco. Già sveglia, si infilava il burqa e usciva di casa sbrai-tando una sfilza di ordini che sempre iniziava con «vai ascuola» e finiva con «sta’ alla larga da Jahid».

In genere erano ordini che cercavo di eseguire, per ri-spetto di mia madre (in Afghanistan le madri valgono più ditutto l’oro nascosto nei sotterranei del palazzo del presi-dente), ma non era facile. E anche se sapevo che non miavrebbe picchiato se avessi disubbidito, al contrario del pa-dre di Jahid che sembrava convinto di avere ricevuto da Dioil diritto di prendermi a schiaffi ogni volta che sorgeva ilsole, mia madre avrebbe avuto negli occhi quello sguardodeluso che mi pareva avesse dal giorno in cui ero sgusciatofuori dall’ombra.

Ero solo un ragazzino, però mi rendevo conto che la no-stra vita era difficile, anche se per me era sempre stata così,non avevo mai sperimentato niente di diverso. Ma lamamma, coi suoi ricordi di cuscini rossi e rose gialle, eraprigioniera di un passato che conoscevo appena, e io pas-savo quasi tutto il tempo fuori dalla sua prigione a guardarcidentro. Da che avevo memoria, lei era sempre stata così, ep-pure mi piace pensare che un tempo fosse felice, immagi-narla ridere con mio padre vicino alle acque limpide dellago Qargha: gli occhi verdi – gli stessi ereditati da me – chesorridono amorevoli, le piccole mani morbide e linde chegiocherellano con l’orlo di un velo dorato.

Un tempo mia madre era bellissima – me l’ha detto miazia in un eccezionale attacco di parlantina. Poi era calata

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l’ombra e, anche se mia madre non l’ha mai detto, io eroconvinto che desse la colpa a me. Le ricordavo un passatoche l’aveva trascinata nell’inferno senza fiori della casa disua sorella, e secondo me mia madre odiava sua sorella per-sino più dei talebani.

«È solo gelosa!» si era messa a urlare una volta, a voceabbastanza alta da farsi sentire da mia zia nella stanza ac-canto. «È sempre stata gelosa: gelosa del mio modo di es-sere, del fatto che ho sposato un uomo istruito, della vita fe-lice che avevamo un tempo… e io ho smesso da un pezzo discusarmene. Se Allah l’ha benedetta con la faccia di un’an-guria spaccata e un corpo che non è da meno, mica è colpamia!»

«Sono donne, sono fatte così» mi aveva detto Jahid unpomeriggio mentre, per l’ennesima volta, scappavamo dallegrida e dagli insulti che volavano in casa, per andare a deru-bare gli stranieri in centro. «Niente le fa più felici che liti-gare. Quando sarai più grande capirai meglio. Le donnesono complicate, mio padre lo dice sempre.»

Forse Jahid aveva ragione. Ma quell’ultima discussioneriguardava più i soldi che il fatto di essere donne. Mia ziavoleva che pagassimo l’affitto, ma noi potevamo a malapenapermetterci i vestiti che avevamo indosso e il cibo che met-tevamo in pancia. I pochi afgani che la mamma guadagnavafacendo le pulizie nelle case e i dollari che racimolavo perstrada erano tutto quello che possedevamo.

«Magari, se tu dessi qualche dollaro in più a tua madre,lei non sarebbe così arrabbiata con la mia» suggerii. Sugge-rimento sbagliato, evidentemente, visto che Jahid mi mollòun pugno in testa.

«Vedi, stronzetto, mia madre ha offerto a tua madre untetto quando non avevate dove stare. Siete venuti da noi amendicare come zingari schifosi, costringendoci a cedervi lanostra stanza e a riempirvi la pancia, merdosi vagabondi che

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non siete altro. Come credi che ci siamo sentiti, eh? Se nonci fossimo comportati da bravi musulmani tua madre adessovenderebbe le tue chiappe a ogni merdoso frocio che incon-tra. Vuoi davvero dare una mano? Venditelo, quel culo! Unbel maschietto come te dovrebbe guadagnare afgani a suffi-cienza da farle contente, le donne.»

«Dici?» gli risposi con rabbia. «E magari pagherebberoaltrettanto per togliersi di torno quel culo d’asino che hai alposto della faccia!»

E detto questo tagliai la corda e lasciai mio cugino lì, abestemmiarmi dietro strascicando come un forsennato lasua gamba morta.

Quel giorno scappai via da Jahid fino a non sentirmi piùle gambe. Arrivato al cinema Park riuscivo a malapena a re-spirare, e mi accorsi che stavo piangendo; per mia madre eper mio cugino. Ero stato crudele. Lo sapevo. Capivo per-ché metteva da parte i soldi, perché li seppelliva sotto ilmuro quando pensava che nessuno lo vedesse. Voleva unamoglie. «Un giorno mi sposerò con la donna più bella del-l’Afghanistan» si vantava sempre. «Aspetta e vedrai.» Eccoa cosa gli servivano i soldi, con una faccia come quellaavrebbe dovuto presentare una dote paurosa perché il suosogno si avverasse. E nemmeno poteva contare sul carattere,per conquistarsi una moglie. Dalla sua bocca uscivano le pa-role più oscene che avessi mai sentito, di quelle pronunciatedagli agenti che ingombravano le rotatorie della città, tutti aimprecare e a pretendere bustarelle, persino dai mendicantistorpi. In realtà, l’unica cosa che avrebbe potuto salvareJahid era la scuola, per la quale si era rivelato straordinaria-mente portato. Si era buttato sui libri come solo un ragazzosenza amici può fare. Ma poi il tormento e le percosse chesubiva, giorno dopo giorno, avevano finito per fargliela ab-bandonare e da allora era diventato sempre più insensibile.

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Può essere davvero dura abitare nel mio paese se sei po-vero, ma è ancora più dura se sei povero e brutto. E ormaiJahid sembrava di pietra; una pietra che sa di non poter tro-vare una donna che lo sposi perché desidera farlo, ma solouna il cui padre potrebbe accettare di darla in moglie al de-bito prezzo.

«Dai, Fawad, andiamo a Chicken Street.»Attraverso le lacrime vidi Jamilla, il sole che le disegnava

attorno l’aura di un angelo. Era piccola, come me. Ed eracarina.

Jamilla mi prese la mano e io mi tirai su da terra e asciu-gai la faccia con le maniche dei vestiti.

«Jahid» dissi a mo’ di spiegazione.Jamilla annuì. Non parlava molto, ma probabilmente

avrebbe imparato presto a farlo, se Jahid aveva ragione infatto di donne.

Jamilla era la mia rivale numero uno a Chicken Street.Lei ripuliva gli uomini stranieri che si scioglievano sotto losguardo dei suoi occhioni castani e io ripulivo le donne chesi innamoravano dei miei occhioni verdi. Eravamo una bellasquadra, ma il bottino dipendeva molto da chi passava perstrada, perciò se ci capitava di lavorare insieme ci divide-vamo i soldi a metà.

Il giorno più bello era il venerdì, però. Era vacanza, nonsi andava né a scuola né al lavoro e arrivavano gli stranieri,che scendevano dalle loro Land Cruiser per setacciare laKabul turistica in cerca di souvenir dall’Afghanistan “dila-niato dalla guerra”: portagioie di lapislazzuli; argento im-portato dal Pakistan; fucili e coltelli che sembravano risalireall’epoca delle guerre anglo-afgane; pakul, patu, coperte,tappeti, arazzi, veli dai colori sgargianti e burqa azzurri. Na-turalmente, bastava si facessero una ventina di minuti apiedi e nel gran casino del bazar sul fiume avrebbero tro-vato le stesse cose a metà prezzo, ma gli stranieri erano

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troppo spaventati o troppo pigri per compiere quel tragitto,e troppo ricchi per badare a quei dollari in più che avreb-bero sfamato una famiglia di afgani per una settimana. Ep-pure, come notava Jahid, la loro pigrizia faceva bene ai no-stri affari, e Chicken Street era la loro Mecca.

Insieme agli operatori umanitari, di quando in quandovedevamo dei soldati bianchi, curvi sui banconi dei negoziche vendevano argento, in cerca di anelli e braccialetti per lemogli che avevano lasciato nei loro paesi. Perlopiù eranouomini alti con fuciloni a proiettili blindati ed elmetti aforma di scodella. Venivano a gruppi di quattro o cinque e,mentre gli altri facevano acquisti, uno restava sempre diguardia per strada, attento ai kamikaze. «America buona!»gridavamo noi; un trucchetto che ci faceva sempre guada-gnare qualche dollaro. Dopodiché, con i soldi in mano, cispostavamo un po’ più in là, nel caso in giro ci fossero dav-vero dei kamikaze.

Ma non tutti gli stranieri erano americani o interessati al-l’America, così, per ottenere i loro dollari usavamo altre tat-tiche, li seguivamo di negozio in negozio, urlando tutto l’in-glese che ci ricordavamo: «Hello, mister! Hello, miss! Comestai? Io bodyguard! No, da questa parte. Trovo prezzobuono». E, prendendoli per mano, li trascinavamo davanti aun negozio che ci dava pochi afgani di commissione. Era-vamo quasi tutti al soldo di alcuni negozianti, che però pa-gavano solo se portavamo i clienti. Quindi, se gli stranierinon ci seguivano, entravamo con loro nei negozi e, attenti anon farci vedere dai proprietari, schioccavamo la linguascrollando la testa con aria preoccupata: «No, miss, lui la-dro, prezzo no buono. Vieni, io mostro prezzo buono». Così liportavamo nei negozi che ci pagavano, rivelando ai proprie-tari la cifra chiesta dai concorrenti, in modo che potesseropartire da una inferiore ma sempre vantaggiosa.

Intanto, mentre gli stranieri contrattavano per rispar-

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miare qualche altro dollaro, arrivavano le vecchie che bazzi-cavano la strada come noi, ma che non conoscevano l’in-glese, si piazzavano all’ingresso dei negozi per tendere leloro mani sporche, afferrare i gomiti della gente e piangeredentro il burqa. Appartengono tutte alla stessa famiglia, magli stranieri non lo sanno. Quando, una dopo l’altra, arriva-vano per mettersi a piangere implorando denaro per il lorobimbo moribondo, di solito gli occidentali non reggevanopiù e risalivano in macchina, cercando di evitare il nostrosguardo mentre l’autista li portava a tutta velocità via dallanostra povertà per restituirli alla loro vita di privilegi.

E mentre le Land Cruiser lasciavano sgommandoChicken Street per immettersi negli ingorghi di Shahr-eNaw, arrivava Spandi a battere sui finestrini con le dita nere,porgendo la latta di erbe acri e fumanti che chiamiamospand, il cui odore tanto nauseabondo si dice sia capace discacciare gli spiriti maligni. Quello è di sicuro il lavoro peg-giore di tutti, perché il fumo ti entra nei capelli, negli occhi,nel petto e finisci per assomigliare alla morte. Ma quanto aisoldi non è male, perché, anche se i turisti non sono super-stiziosi, è difficile ignorare un bambino con la faccia sfigu-rata color della cenere davanti al finestrino.

Però, quando era una buona giornata, a Chicken Streetnon dovevamo affannarci troppo. Le signore ci affidavanovolentieri i loro sacchetti mentre armeggiavano con il velo intesta cui dovevano ancora abituarsi, e io trasportavo i loroacquisti finché non mi dicevano basta, a volte guadagnandocinque dollari per il disturbo. Jamilla faceva dei bei sorrisi eotteneva gli stessi soldi senza portare niente.

«E tu come ti chiami?» mi chiedevano parlando lenta-mente. Belle facce bianche con sorridenti labbra rosse.

«Fawad» rispondevo.«Parli molto bene l’inglese. Vai a scuola?»«Sì. Scuola. Tutti giorni. Piace molto.»

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Ed era vero, a scuola ci andavamo tutti – anche le fem-mine, se avevano il permesso del padre – ma le giornateerano corte e le vacanze lunghe, con mesi di interruzione ininverno e in estate, quando diventava troppo freddo otroppo caldo per studiare. Però l’inglese che sapevamo civeniva solo dalla strada. Era facile da imparare, e agli stra-nieri piaceva insegnarcelo.

E anche se Jahid aveva ragione ed erano davvero venutiper bombardare il nostro paese e ricostruirlo, a me piace-vano gli stranieri con le loro bianche facce sudate e le taschegonfie. E meno male, perché quel giorno, quando tornai acasa di mia zia, mi dissero che saremmo andati a vivere contre di loro.

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Non ci mettemmo molto a lasciare la casa della zia, visto cheavevamo solo una coperta, qualche vestito e una copia delCorano. Ci saremmo portati via qualcos’altro, ma evidente-mente la zia pensava che quel po’ di pentolame che ave-vamo accumulato negli anni adesso appartenesse a lei.

Per fortuna, quel giorno mia madre non era in vena di li-tigare e si limitò a sputare sui piedi di sua sorella prima diabbassarsi il burqa e trascinarmi fuori dalla porta.

«Arrivederci, Jahid!» gridai alle mie spalle.«Ciao, Fawad jan!»Sorpreso dall’affettuoso jan che seguiva il mio nome, mi

voltai giusto in tempo per vedere mio cugino che si strofi-nava l’occhio buono.

«Non dimenticarti di noi, brutto stronzo!»Un’aggiunta improvvisa che gli assicurò un’altrettanto

improvvisa sventola sull’orecchio dalla grassa mano di suamadre.

Da Khair Khana, in periferia, ci mettemmo due orebuone per raggiungere a piedi Wazir Akbar Khan, dove sitrovava la nostra nuova casa, e in quelle due ore riuscii a sa-pere da mia madre che avremmo abitato con due donne eun uomo. Disse che sapeva solo il nome di una delle donne,quella che ci aveva invitati: si chiamava Georgie. Scoprii

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che la mamma lavava i panni di questa Georgie da setti-mane.

Non riuscivo a credere che non ne avesse mai parlato.«E perché le lavi i panni?» chiesi.«Per i soldi, no?»«Come, non se li lava da sola?»«Gli stranieri non lo sanno fare. Hanno bisogno di mac-

chine speciali.»«Che genere di macchine?»«Macchine lavabiancheria.»Roba da non crederci, eppure mia madre non avrebbe

mai mentito. Non parlava granché, d’accordo, ma quandolo faceva diceva sempre la verità. Sapevo anche che gli stra-nieri erano un popolo senza Dio, quindi c’era da aspettarsiche, oltre ad andare all’Inferno, non avessero nemmeno ri-cevuto in dono le normali capacità concesse a noi comuniafgani.

«Cuce?»«No.»«Sa cucinare?»«No.»«Ce l’ha un marito?»«No.»«Non mi stupisce.»La mamma scoppiò a ridere e, mentre continuavamo a

camminare, mi abbracciò. Io alzai gli occhi, ma attraverso larete del burqa non riuscivo a vederle la faccia, così le strinsipiù forte la mano, le orecchie in fiamme al pensiero diaverla fatta sorridere.

Quel giorno stava diventando rapidamente il più bellodella mia vita.

Anche se non avevo ricordi veri e propri della nostra vitaprima che andassimo ad abitare dalla zia, sapevo che, daquando avevamo lasciato Paghman, mia madre era molto

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infelice. Chiusi in una stanza, con un tappeto sottile che nonoffriva alcuna protezione dal freddo e ruvido pavimento dicemento, vivevamo, mangiavamo e dormivamo sotto il tettodi mia zia come prigionieri mal tollerati. Anche il gabinettoera un continuo supplizio per mia madre, imbrattatocom’era da quattro ragazzini sbadati che prendevano malela mira e da un uomo che aveva gli intestini allentati quantoquelli di una capra macellata. E poi eravamo tormentatidalle malattie, influenza d’inverno e malaria d’estate, pernon parlare dei vermi e dei parassiti che ci vivevano peren-nemente nella pancia. Tuttavia, dovevamo mostrarci ricono-scenti, perché mia zia ci aveva accolti la notte in cui ave-vamo perso tutto.

Ogni anno, intorno a noi moriva gente uccisa da malattie,missili, mine inesplose, morsi di animali grandi e piccoli, epersino dalla fame. E se pure avevamo da mangiare, nonc’era alcuna garanzia di arrivare vivi a sera. La mamma cuci-nava su un vecchio fornello a gas che tenevamo in un angolodella stanza e che minacciava di saltare in aria e staccarci latesta dal collo. Proprio com’era successo alla moglie di HajiMohammad, tre porte più in là. Stava cucinando dei ceciquando il fornello era esploso, trasformandosi in una palladi fuoco. Era schizzato da terra come un missile e le avevatagliato la testa di netto. Ci avevano messo settimane a ripu-lire da sangue e cervella i resti anneriti della cucina. Le pa-reti della casa portano ancora i segni lasciati dai ceci sca-gliati come proiettili, e Haji Mohammad ormai non mangiaaltro che insalata, frutta e naan. Insomma, qualunque cosanon abbia bisogno di cottura. Un grazie ad Allah va reso co-munque, però, perché Haji Mohammad ha ricevuto in donouna seconda moglie, più giovane della prima.

«Allora? Come l’hai conosciuta?»«Chi?»«La straniera, Georgie.»

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«L’ho trovata per caso.»«In che senso l’hai trovata? Come hai fatto a trovarla?»«Oh, Fawad! Quante domande! Bussavo di porta in

porta in cerca di lavoro e lei me ne ha dato un po’. Poi mene ha dato ancora, e dopo ci ha invitato a venire a stare dalei. Va bene?»

«Va bene.»Mentre continuavamo a camminare di buon passo evi-

tando le buche e le cacche di cane, con mia madre ormai de-cisa a non aggiungere altro su come ci fossimo guadagnatiuna libertà tanto inaspettata, io cercavo di immaginarmi lamisteriosa Georgie. Mi figuravo una donna dai lunghi ca-pelli dorati in piedi sotto un albero a Wazir Akbar Khan,che sorrideva serena, lo sguardo perso e le braccia carichedi panni sporchi che non aveva idea di come lavare. Ladonna che avevo in mente somigliava a quella di Titanic.Nella realtà, sembrava più afgana lei di me.

Svoltando a sinistra, appena prima del monumento aMassoud, incrociammo tre strade fiancheggiate da barrieredi cemento, erette a protezione di case enormi che sbuca-vano da muri di cinta con spirali di filo spinato in cima.Ogni dieci passi c’era un uomo armato di fucile che, pigra-mente sospettoso, ci seguiva con lo sguardo mentre ci ad-dentravamo nel quartiere residenziale dei ricchi. Arri-vammo finalmente di fronte a un grande cancello verde dimetallo. Una guardia con pantaloni neri e camicia azzurrauscì dal gabbiotto bianco di legno accanto all’entrata e sa-lutò mia madre. Poi aprì la porta laterale e gridò qualcosaall’interno. Al nostro ingresso ci venne incontro una donnadai capelli lunghi e scuri quanto quelli di mia madre. Indos-sava un paio di jeans e una camicia bianca, ed era bellissima.

«Salaam aleikum, Mariya!» cantilenò la donna stringen-dole la mano.

«Waleikum salaam» rispose mia madre.

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«Come stai? Tutto bene? Com’è andata per strada, aveteavuto problemi?»

Mentre mia madre rispondeva rapida alle domande, fissaila donna che doveva essere Georgie, stupito di sentirla par-lare una delle nostre lingue e di scoprire che, oltre a esserevestita come un uomo, era pure alta quanto un uomo.

«E questa bellezza dev’essere tuo figlio Fawad. Comestai, Fawad? Benvenuto nella tua nuova casa.»

Le tesi la mano e Georgie me la strinse. Per quanto misforzassi di dire qualcosa, la bocca mi restò indietro di qual-che passo rispetto al cervello, e non riuscii a trovare le pa-role per risponderle.

«Ah! Mi sa che è un po’ timido. Prego, venite dentro.»Mia madre avanzò e, una volta nel cortile, si sentì libera

di sollevare il burqa scoprendosi il viso. La mia prima im-pressione fu che fosse spaventata, cosa che certo non mitranquillizzò. Ma poi mi resi conto che, come me, non sa-peva cosa dire.

In silenzio, seguimmo Georgie fino a una piccola costru-zione dietro al cancello, sulla destra.

«Voi vivrete qui, Fawad. Spero ti piacerà.»Georgie indicò la costruzione, facendoci cenno di se-

guirla. E noi entrammo.C’erano due stanze divise da un bagnetto pulito com-

pleto di doccia. Quando Georgie aprì la porta della primastanza, vidi due letti con le coperte piegate e ancora avvoltenel cellofan. Dovevano essere nuove. Nell’altra stanza c’e-rano tre cuscini lunghi, un tavolinetto, un ventilatore elet-trico e un televisore: un vero televisore Samsung! E avevapure l’aria di funzionare! Avevo sempre sognato di avere latv, e a quella vista sentii le lacrime pungermi gli occhi comespilli.

«Venite,» disse Georgie con un sorriso «lasciate qui levostre cose, vi mostro il resto.»

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Il mio primo giorno nella nuova casa fu un miscuglio diimmagini, suoni e odori. Oltre alla nostra, c’era una costru-zione più grande che al primo piano ospitava Georgie e isuoi amici. C’era poi una cucina ampia come il cortile, dovemia madre avrebbe svolto la maggior parte del lavoro, e unsoggiorno con un altro televisore (molto più grosso del no-stro), uno stereo e un tavolo da biliardo. Sul retro della casac’era un immenso prato incorniciato da cespugli di rose.Quando le vidi esibire i loro bei colori al sole mi si allargò ilcuore al pensiero che mia madre fosse di nuovo circondatada una tale meraviglia.

Poi, in mezzo a quella meraviglia, vidi un uomo a pettonudo, come Pir il Pazzo quando giocava coi cani nel parcodi Shahr-e Naw, e cominciai a preoccuparmi seriamente perla reputazione di mia madre. L’uomo aveva un lungo ba-stone in una mano e una bottiglia di birra nell’altra, e tenevauna sigaretta tra i denti. Il bastone gli era servito per colpireuna pallina con l’intenzione di farla entrare in un bicchiererovesciato per terra, senza riuscirci.

«Salve, sono James» gridò quando, alzando lo sguardo, siaccorse che lo stavamo fissando.

Si avvicinò per porgere la mano a mia madre che, a ra-gione, lo salutò con un cenno ma non gliela strinse. Georgiedisse qualcosa di sgarbato in quello che riconobbi essere in-glese, e l’uomo si fece una risatina prima di prendere la ca-micia, poggiata sullo schienale di una sedia bianca di pla-stica.

«Lui è James» spiegò Georgie. «Fa il giornalista, perciòvi prego di perdonare i suoi modi.»

Quando James si fu rivestito, tornò da noi dicendo qual-cosa che non capii, prima di allungare la mano per scompi-gliarmi i capelli. Io scossi il capo per farlo smettere e gli lan-ciai un’occhiataccia per fargli intendere che attenzioni del

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genere non erano gradite; allora lui mi diede un pugno sulmento e scoppiò a ridere. Georgie disse ancora qualcosa, eJames alzò le braccia in segno di resa e si appoggiò la manodestra sul cuore mentre mi sorrideva. Un sorriso sincero chegli scavò due fossette a forma di luna attorno alle labbra, eio lo ricambiai. In quel momento capii che James mi pia-ceva. Era alto e magro, con la barba scura. Poteva passareper afgano se fosse riuscito a tenere addosso i vestiti.

Sentii aprirsi il cancello alle nostre spalle e una donnaavanzò con passo deciso verso il giardino. Aveva un’espres-sione arrabbiata e un po’ confusa ma, quando Georgie leparlò, sorrise e ci salutò con la mano.

«La nostra ultima coinquilina» la presentò Georgie.«May, fa l’ingegnere.»

May ci strinse la mano. Era bassa, con capelli biondi chele spuntavano da un velo verde. Aveva dei brufoli sul viso enemmeno lei somigliava alla donna di Titanic. L’uomo dinome James le offrì la propria birra e la cosa sembrò farlepiacere. E io, anche se mi sforzavo di non guardare, vidi chela camicia blu nascondeva il seno più enorme che mi fossemai capitato sotto gli occhi. Chissà se James l’aveva notato.

«Qui siamo tutti molto alla mano, molto tranquilli, per-ciò, finché avrete bisogno di restare con noi, fate pure comese foste a casa vostra» disse Georgie.

Allora mia madre la ringraziò e mi riportò nelle nostrestanze, lontano dagli stranieri che ci avevano invitato a vi-vere con loro e lontano dalla vista del petto di May.

Nei giorni seguenti, mentre la mamma lavava, cucinava efaceva praticamente tutto quello che gli stranieri sembra-vano incapaci di fare, osservai i miei nuovi padroni di casacon attenzione. Anche se ero contento di trovarmi lì, do-vevo proteggere mia madre, e per farlo mi serviva saperecon chi o cosa avevo a che fare. A preoccuparmi di più era ilgiornalista nudo.

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Per fortuna, la disposizione del luogo mi dava la possibi-lità di osservare quasi tutto senza essere visto. Il passaggiodietro la casa mi permetteva di tenere d’occhio il giardino;quando era buio e le luci erano accese, i finestroni mi offri-vano un’ampia visuale su quello che succedeva al piano disotto; e i muri alti e i balconi mi davano modo di vedereparte di ciò che accadeva di sopra. Ogni tanto mia madre mibeccava a spiare gli stranieri e scuoteva il capo, ma il suosguardo, anche se perplesso, non sembrava particolarmentepreoccupato. Aveva anche iniziato a ridere di più; speciequando una delle guardie, Shir Ahmad, si allontanava dalsuo gabbiotto per venire a riempire la teiera.

Annotai mentalmente di indagare su Shir Ahmad appenafinito con gli stranieri.

Impegnato com’ero a spiare, per le prime settimane dopoche ci fummo trasferiti a Wazir Akbar Khan mi tenni lon-tano da Chicken Street, nonostante morissi dalla voglia diraccontare a Jahid del nostro televisore, e di fare una testacosì a Jamilla con quello che vedevo e sentivo nella mianuova casa. Invece tornavo da scuola, mi sedevo all’ingressodella cucina, chiacchieravo con mia madre mentre faceva lefaccende e aspettavo che Georgie, James e May rientrassero.

«Come fa Georgie a conoscere il dari?» chiesi a mia ma-dre mentre pelava le patate per la cena di quella sera.

«L’ha imparato dai suoi amici, penso.»«Ha degli amici afgani?»«Pare di sì. Ti dispiace passarmi quella pentola, Fawad?»Presi il tegame, lo capovolsi per far cadere una mosca

morta e glielo passai.«E li hai mai visti, questi amici?» chiesi, tornando a se-

dere sul gradino d’ingresso della cucina.«Sì, una volta.»«Chi sono?»

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«Afgani.»«Questo l’ho capito!»Mia madre scoppiò a ridere, buttando le patate sbucciate

nella pentola. «Sono pashtun» mi concesse alla fine. «Di Ja-lalabad.»

«Oh, allora ha buon gusto.»«Sì.» Mia madre sorrise e poi aggiunse in tono miste-

rioso: «Per così dire».«Che significa “per così dire”?»«Che non sono… come faccio a spiegartelo? Non sono il

genere di amici che sceglierei per te.»«Perché no?»«Perché sei mio figlio e ti voglio bene. Adesso basta,

Fawad. Vai a finire i compiti.»Cacciato via e lasciato ancora una volta nell’incertezza

dai rompicapo di mia madre, tornai nella mia stanza a eser-citarmi con le tabelline. Immaginavo che, così come avreiscoperto tutto sull’ombra dei talebani, un po’ più avantinella vita avrei anche capito perché Georgie avesse degliamici “per così dire”. Ma ero contento che fossero pashtun,come me. Se fossero stati hazara le avrebbero già mozzato iseni da un pezzo.

Dato che adesso in casa nostra c’era l’acqua corrente,non dovevo più scapicollarmi fino al rubinetto più vicino,dove litigavo con altri bambini e cani rognosi per riempireun secchio che si sarebbe svuotato in cinque minuti. E cosìogni sera, finiti i compiti, il mio unico vero lavoro era cor-rere dal panettiere con una manciata di afgani per comprarecinque filoni appena sfornati.

A parte quello, di solito passavo il tempo in attesa deglistranieri.

Normalmente era Georgie a rientrare per prima, e moltospesso mi faceva sedere in giardino con lei mentre beveva il

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caffè. Anche se mia madre era sempre invitata, raramente siuniva a noi. Aveva fatto subito amicizia con una donna cheviveva dall’altro lato della strada ed era al servizio della mo-glie di un tale del ministero degli Interni. Si chiamava Ho-meira ed era piuttosto grassa, perciò immagino la pagasserobene. Ero contento che mia madre avesse trovato un’amicae non ero per niente geloso che passasse tanto tempo achiacchierare con lei, nella nostra stanza o nella casa dovelavorava Homeira. Anzi, più che contento, ero stupefatto.Era come se nella testa di mia madre si fosse aperta una ser-ratura segreta, liberando un fiume di parole che erano rima-ste chiuse là dentro per anni.

Ma ancora più stupefacente era che mia madre mi la-sciasse a casa da solo e mi permettesse di sedermi con gli oc-cidentali fino a che «non si stufavano». Forse pensava cheavrebbe fatto bene al mio inglese, anche se James non c’eraquasi mai, May sembrava sempre in lacrime e con Georgiedi solito parlavo in dari.

Dalle nostre brevi conversazioni venni a sapere cheGeorgie arrivava dall’Inghilterra, lo stesso paese di Londra.Era in Afghanistan da un bel po’ di tempo ed era venuta avivere con James e May due anni prima, perché erano di-ventati amici e James aveva bisogno dei soldi dell’affitto. La-vorava per una ONG e si guadagnava da vivere pettinandole capre; dal momento che conosceva il paese e viaggiavamolto, si era fatta molti amici afgani. In quel senso, e inmolti altri, era diversa dalla maggior parte degli stranieri cheavevo conosciuto, e credo di essermi innamorato di lei all’i-stante. Era gentile e spiritosa, e sembrava apprezzare la miacompagnia. Era anche molto bella, con quei capelli foltiquasi neri e gli occhi scuri. Speravo di sposarla, un giorno;una volta che avesse smesso di fumare e si fosse convertitaall’unica vera fede, ovvio.

L’ingegnere, May, di solito era la seconda a rientrare e,

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dopo un breve saluto, scompariva nella sua stanza. Georgiemi raccontò che era arrivata dall’America grazie a un con-tratto con uno dei ministeri, e che era «un tantino triste almomento». Non mi aveva detto altro e io non avevo fattodomande. Mi piaceva il mistero che avvolgeva le lacrime diMay.

James rientrava quasi sempre per ultimo e almeno duevolte la settimana tornava molto tardi, sbattendo contro lepareti e canticchiando tra sé. Più lo conoscevo, più ero con-vinto fosse imparentato con Pir il Pazzo.

«Lavora molto,» mi spiegò Georgie «soprattutto con lesignore.»

Georgie scoppiò a ridere, e io mi chiesi come facesseroqueste donne a ottenere dai mariti il permesso di lavorarefino a tardi con un uomo che mostrava liberamente i propricapezzoli al mondo intero come fossero medaglie al valore.

«Che lavoro fa con loro?» domandai, facendola ridereancora più forte. Un bel suono deciso, come un tuonoestivo.

«Faresti meglio a domandarlo a tua madre, Fawad» dissealla fine.

E chiudemmo il discorso.E visto che con gli adulti funziona sempre così – appena

le cose si fanno interessanti ti sbattono la porta in faccia –non avevo altra scelta se non quella di continuare le mie in-dagini, che mia madre avrebbe definito “ficcanasate”.

Dopo svariati tentativi e fallimenti, capii che il momentomigliore per osservare i miei nuovi amici era la sera, quandole luci erano accese, fuori era buio e tutti credevano che iostessi dormendo. Per fortuna la mamma mi era di grandeaiuto, perché aveva deciso di dormire nella stanza della tv, ilche significava che per la prima volta avevo una cameratutta mia ed ero libero di esplorare il circondario e i suoistrani abitanti senza Dio.

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Un’oretta dopo che avevo spento la luce, capitava chemia madre aprisse la porta della mia stanza, e la prima voltami venne un colpo per la sorpresa, visto che ero proprio sulpunto di andarmene. Ma era stata una di quelle sorpresepiacevoli che ti fanno formicolare le dita dei piedi e strin-gere il cuore perché, convinta che dormissi, mi aveva ba-ciato teneramente sulla guancia prima di tornare nella suastanza, soddisfatta che fossi al sicuro, immerso nei miei so-gni. Il che non era affatto vero, naturalmente. In seguito aquella prima dolce sorpresa, imparai ad aspettare un’orabuona finché mia madre non veniva a salutarmi, prima dimettermi le scarpe e lanciarmi nelle mie avventure.

Strisciando lungo le pareti e acquattandomi tra i cespu-gli, ascoltavo Georgie, James e May chiacchierare con i loroamici bianchi attorno al tavolo in giardino: discorsi pieni dimistero e magia, accompagnati da scoppi di risa. Natural-mente, non capivo un accidente di quello che dicevano, maquesto per me significava solo che dovevo imparare a deci-frare quel codice.

Sul serio, mi sembrava di essere stato strappato allefiamme dell’Inferno e piazzato in Paradiso. Durante quelleprime settimane non ero semplicemente Fawad di Pagh-man, ero Fawad l’agente segreto. In quei giorni Kabul pul-lulava di spie: omoni giganteschi che venivano dalla GranBretagna, dal Pakistan, dalla Francia, dall’Italia, dalla Rus-sia, dall’India e dall’America e portavano la barba lunga persembrare afgani. La missione che il presidente mi aveva affi-dato era semplice: dovevo verificare se c’erano spie nellacasa e scoprire l’identità dei loro capi.

Mentre strisciavo furtivo nell’afa di quelle serate estive,ammantavo le mie avventure di sogni e racconti eroici, trac-ciavo vie di fuga e concepivo piani complicati per evitare diessere scoperto, perché potessi riferire ai miei compagni, apalazzo, le informazioni raccolte con tanta cura. In quel mio

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mondo intravedevo un vago futuro di gloria, immaginan-domi eroe nazionale in virtù dell’ottimo lavoro svoltoquando ero solo un ragazzino.

«Era così giovane!» avrebbe detto la gente ascoltando ilracconto dei miei successi.

«Sì, ma afgano fino al midollo» avrebbe risposto sorri-dendo il presidente Karzai, compiaciuto di avermi pre-scelto.

«Così coraggioso! Così intrepido!» avrebbero esclamatomeravigliati. «Doveva avere due palle grosse come quelle diAhmad Shah Massoud.»

«Più grosse!» avrebbe precisato il presidente. «Il ragazzoera un pashtun!»

Per portare a termine la mia missione, registravo concura tutti gli spostamenti degli stranieri nel quaderno rossoche mi aveva regalato Georgie perché mi esercitassi a scri-vere. Visto che James non c’era mai e Georgie era troppobella per lavorare per il nemico, decisi di concentrarmi suMay.

Dopo che mia madre era andata a dormire, sgattaiolavofuori dalla mia stanza e, quatto quatto, mi arrampicavo super il muro del “passaggio segreto”. Da lì riuscivo a vederela porta della camera di May, a cui era appesa una lungagiacca di lana. Sulla parete di fondo c’era un pannello di le-gno con delle fotografie. Dovevano essere i suoi familiari,perché le persone ritratte nelle varie pose erano tutte basse ebionde, ma io immaginavo che fossero membri della reteterroristica appoggiata dagli sbirri pachistani. Quelli del-l’ISI, il servizio segreto pachistano, sapevano che il governoafgano non avrebbe mai sospettato che una donna occiden-tale, un’americana, fosse stata incaricata di realizzare i loroperfidi piani. Su quel versante erano stati furbi come il de-monio. Ma non abbastanza astuti per Fawad, il silenziosopaladino dell’Afghanistan.

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Sfortunatamente, però, May sembrava avere dei grossiproblemi. Scompariva quasi sempre in camera sua. E se nonsi chiudeva in camera, sbraitava nel cellulare. E se nonsbraitava nel cellulare, era al piano di sotto a spizzicare ilcibo che mia madre aveva impiegato l’intera giornata a pre-parare, o peggio ancora, stava piangendo. Anche se non èmai una bella cosa vedere piangere una donna, il suo visosembrava più arrabbiato che triste, e io non ci capivoniente. A essere sinceri, pensavo che May non fosse deltutto normale e, alla fine della seconda settimana, decisi diabbandonare le indagini sulle sue attività di spionaggio perconto dei pachistani e di dedicare il mio tempo a guardarlele tette.

Questa nuova missione, però, era ostacolata da un pic-colo problema. Dal muro riuscivo a vedere solo un terzodella camera di May e non era quello dove si spogliava.Dopo averci pensato su, mentre aspettavo che si spegnessela luce nella stanza di mia madre, arrivai alla conclusioneche l’unica alternativa era saltare sul suo balcone dal muro.Il che significava fare un balzo di un metro circa, cercandodi non pensare al vuoto che c’era sotto.

Dopo quindici giorni di operazioni segrete avevo sco-perto che il ronzio del generatore che dava luce alla casa aserate alterne, quando la corrente in città si prendeva ungiorno di vacanza, copriva qualsiasi rumore facessi mentremi aggiravo là attorno; così, senza alcun timore di allarmareMay, nemmeno se fossi caduto rompendomi l’osso del collo,mi arrampicai sul muro davanti al suo balcone e concentraila mia attenzione sulla ringhiera che avevo di fronte. Dodicisbarre orizzontali. Bastava saltare e afferrarne una con lamano.

Feci cinque respiri profondi, chiusi gli occhi, pregai Al-lah e staccai i piedi dal muro spingendo con tutta la forzache avevo nelle gambe. Di colpo, quasi non mi fossi ancora

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deciso a partire, sentii che la testa mi sbatteva contro la rin-ghiera e che, miracolosamente, le mani stringevano duedelle sbarre.

Stupito, quasi incredulo di trovarmi lì, restai un attimofermo a respirare perché il cuore smettesse di battermi al-l’impazzata. Con una piccola spinta, avrei potuto lanciare legambe sul bordo del balcone, per poi salirci e impadronirmidei segreti di May e delle sue forme a palloncino. Sarei riu-scito a vederle le tette, e forse qualcosa di più. Con un colpodi fortuna magari le avrei visto la…

«Ehem.»Un rumore mi fece drizzare le orecchie. Sembrava un

colpo di tosse e veniva dal basso.«E-ehem.»Eccolo di nuovo.Lentamente, sperando nell’impossibile, e cioè che mi

stessi immaginando tutto, guardai in basso, verso destra, evidi James che scuoteva il capo e mi faceva segno di no conil dito. Guardai la luce accesa in camera di May e poi dinuovo James. Non se n’era andato, il che sarebbe stato gen-tile da parte sua. Evidentemente aspettava una mia mossa.

«Salaam aleikum» sorrisi appena.Mollai la presa e caddi ai suoi piedi, raggomitolandomi

più che potevo mentre atterravo, per proteggermi dai colpiche stavo per ricevere. Dopo un silenzio che durò solo qual-che secondo, ma che a me sembrò durare almeno metà dellamia breve vita, sentii un altro colpo di tosse. Alzai losguardo e vidi James che sorrideva. Aveva gli occhi lucidicome vetro e oscillava lievemente. Indicò con la testa il giar-dino e mi fece segno di seguirlo.

Non avevo nessuna fretta di muovermi, ma decisi che lebotte sarebbe stato meglio riceverle il più lontano possibiledalla casa – e dall’eventualità che mia madre assistesse allamia vergogna e dopo ci aggiungesse le sue, di torture. Così,

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a testa alta come un vero uomo, seguii James fino alle sediedi plastica, simili a spettri immobili nel buio del giardino.

Senza dire una parola, mi invitò a sedermi accanto a lui.Poi allungò una mano di lato, prese una bottiglia di birra dauno scatolone, fece saltare via il tappo sbattendolo contro ilbordo del tavolo e me la passò.

Era un trucco, ovviamente, ma io la presi lo stesso.Allora James afferrò un’altra bottiglia, la aprì nello stesso

modo, la fece tintinnare contro la mia e farfugliò qualcosache non capii. Aveva l’alito che sapeva di formaggio stagio-nato.

Lo osservai cauto, senza osare muovermi, ma lui si portòuna mano alla bocca per farmi segno di bere. Così obbedii.

All’inizio la birra mi disgustò, frizzante e amara come Pe-psi andata a male; ma doveva essere quella, la punizione, edera sempre meglio che essere preso a legnate; così ne bevviun altro sorso, e poi un altro, e un altro ancora, e ancora.

In men che non si dica mi ritrovai la testa confusa. Avevocaldo, non come se avessi la febbre, però; un calore diffusoche mi scorreva nelle vene fino alle guance, tanto che misentivo gli occhi lucidi. Tutto ciò che avevo attorno parevaattutito da una coperta invisibile, e James parlava una linguache non capivo. Mentre continuavo a bere, anch’io comin-ciai a parlargli. Non riuscivo a trattenermi; le parole mi usci-vano di bocca come rotolando una dietro l’altra giù da unacollina. Una cosa era certa: nessuno dei due aveva idea dicosa dicesse l’altro, ma non aveva importanza. Era la con-versazione più bella di tutta la mia vita. Anche perché Jamessembrava capirmi davvero.

Alla fine della mia seconda bottiglia gli avevo raccontatotutto di Jahid, di Jamilla e del mio miglior amico Spandi.Gli avevo rivelato i segreti dei nostri guadagni; gli avevodetto dei giri che facevamo in città aggrappandoci dietro aicamion; di quella volta che avevamo trovato Pir il Pazzo che

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dormiva nel parco e gli avevamo riempito i pantaloni difango perché al suo risveglio pensasse di essersi cacato ad-dosso.

A notte inoltrata, e svaniti i contorni del mondo, confes-sai di aver spiato May. A sentire il suo nome, James si trac-ciò con le mani due grossi cerchi davanti al petto, sigarettada una parte e birra dall’altra. Poi scoppiò a ridere e io fecilo stesso, pur non sapendo bene perché, e un attimo dopoJames balzava dalla sedia, mi dava delle gran pacche sullaschiena, sbatteva la sua bottiglia contro la mia e mi scompi-gliava i capelli, senza che nemmeno ci facessi più caso.

Ma poi, così com’era iniziato, tutto finì all’improvviso.Come un cane randagio sorpreso dalla luce dei fari, Ja-

mes si girò e si bloccò, con la mano alzata che ancora reg-geva la bottiglia di birra sopra la testa. Tutto si fece immo-bile, persino l’aria che respiravamo, e io rimasi a guardareipnotizzato la cenere della sua sigaretta che fluttuando ca-deva a terra, e la sagoma scura che spuntava in lontananzadavanti a lui. Doveva essere Georgie.

Ci fissava e non aveva l’aria contenta.Indossava solo una lunga maglietta nera, aveva le gambe

nude, e i capelli scuri le si dimenavano attorno al capo comeuna massa di serpenti arrabbiati. Aveva un che di magico,più del solito, era furiosa, strabiliante, e io ebbi paura chemi si spezzasse il cuore di fronte a quella sua bellezza nera earrabbiata. Chissà se fu l’improvvisa emozione di vederla ar-rivare, o la vista delle sue gambe nude, o il battito furiosoche mi sentivo in petto, o il peso dei mille cammelli che dicolpo si erano messi a tirarmi per la testa; fatto sta che inquel preciso istante mi sporsi in avanti sulla sedia e mi vomi-tai sulle scarpe.

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