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Anno LX-n.7 /Luglio 2016 www.cittanuova.it 20 /Politiche per la famiglia 64 /Omosessualità e castità 74 /Cracovia e le Gmg Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/31/2012; “TAXE PERÇUE” “TASSA RISCOSSA” 5,00 euro contiene I.P. LE NUOVE FRONTIERE DELL’ALPINISMO, CON ERRI DE LUCA, ARMANDO ASTE E TAMARA LUNGER Vuoto e infinito

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I.P.

LE NUOVE FRONTIERE DELL’ALPINISMO,CON ERRI DE LUCA, ARMANDO ASTE E TAMARA LUNGER

Vuotoe infinito

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ANNO DI CITTÀ NUOVA mensile su carta e on line +5 inserti su: Economia di Comunione, Azione Famiglie Nuove, Azione per un Mondo Unito (AMU)

1

DOSSIER di 96 pagine su temi di attualità3

LIBRO per conoscere la nuova serie dei ROMANZI PASSAPAROLA*1

Chiara Andreola, FAME D’AMORE la mia anoressia con un saggio di Silvia Dalla Casa

Fernando Muraca, DIECI GIORNI storia di un amore con un saggio di Rino Ventriglia

Luca Gentile, ATTRAVERSANDO INSIEME LA NOTTE un padre, un figlio, la drogacon un saggio di Loredana Petrone

Michele Zanzucchi, NIENTE È VERO SENZA AMORE con un saggio di Anna e Alberto Friso

Tamara Pastorelli, L’ESTATE DI AGNESE con un saggio di Chiara Gambino

Michelangelo Bartolo, GIOIA E LE ALTRE con un saggio di Valter Giantin

* la collana dei romanzi Passaparola è disponibile anche in abbonamento

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A giudicare dall’impegno dei 200 sostenitori di Città Nuova incontrati a metà giugno, i 60 anni della nostra rivista, che festeggiamo in questo 14 luglio, sono in realtà molti di meno. Non si pensi però che parlando di sostenitori si intenda imprenditori, banchieri o benefattori danarosi che investono risorse finanziarie in un progetto che promette dividendi allettanti. I nostri lettori sono la nostra sola risorsa. Questa è gente che si impegna: si chiamano Eugenia, Luca, Cristina e Giovanni, ricchi di una dose congrua di buona volontà e di crescente professionalità, ma senza ricavare un euro dal loro impegno, anzi; e si chiamano pure Simone, Tiziana, Massimo e Pippo, con una dose altrettanto congrua di buona volontà, ma di questo lavoro vivono, soprattutto grazie alla commercializzazione dei libri della nostra editrice.È vero, l’editoria vive momenti di grande difficoltà, soprattutto quella cartacea, minacciata dalla crisi economica che induce gli italiani a “consumare” poca cultura e a risparmiare sulle spese per l’informazione; è vero, la rivoluzione digitale ci sta portando a fare a meno della carta per concentrarci nella lettura dei quotidiani e delle riviste, oltre che dei libri, su smartphone, tablet o computer; è vero, i ritmi stressanti della vita cittadina tolgono tempo al nostro svago e alla nostra formazione, portandoci a rinunciare a tante sedute di lettura. Tutto vero, ci mancherebbe, ma il nostro “piccolo popolo” di sostenitori, diremmo di

appassionati, non cessa di manifestare la propria soddisfazione nel potersi impegnare per diffondere una voce libera, indipendente, coraggiosa e chiara per una società più equa, solidale, unita. Tre nostri noti editorialisti ci hanno indicato alcune possibili piste di azione: il teologo Piero Coda, preside dell’Istituto universitario Sophia, ha ravvisato nella sinergia tra vita e pensiero la “cifra” dei prossimi anni; Ezio Aceti, pedagogista e psicologo, ha invitato a sviluppare una chiara “appartenenza libera”; Luigino Bruni, economista, ha sottolineato come la proposta della comunione sia “generativa” quando racconta storie che interessano alla gente. Professionalità e idealità in effetti su Città Nuova vanno di pari passo. L’idea del “mondo unito”, avanzata da Chiara Lubich negli anni ’60, espressione che potrebbe parere ormai desueta, in realtà è costitutiva del presente globale e particolare. E la professionalità non è più un obiettivo, è realtà (anche se sempre da migliorare) nelle nostre redazioni. Città Nuova continua ad aprire spazi di ascolto e condivisione, perché questa è la sua missione. Che si parli di immigrazione o di elezioni, di lavoro o di libri, il dialogo è un elisir di lunga vita. Maria Voce, presidente dei Focolari, e Jesús Morán, copresidente, hanno ricordato come Città Nuova sia essenziale per la vita del Movimento che si apre verso i diversi luoghi dell’agire umano.

60 e non li dimostra

di Michele Zanzucchi

il punto

3cittànuova n.7 | Luglio 2016

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16 /INTERVISTA Erri De Luca

ci svela il suo rapporto con la montagna.

74 /REPORTAGE In Polonia,

visita ai luoghi delle Gmg 2016.

32 /SIRIA Ad Aleppo si continua a morire.

La quotidianità è l’atto più eroico.

80 /CINEMA E TV Intervista

all’attore romano Giovanni Scifoni (al centro).

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Anno LX-n.7 /Luglio 2016 www.cittanuova.it

20 /Politiche per la famiglia 64 /Omosessualità e castità 74 /Cracovia e le Gmg

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I.P.

LE NUOVELE NUOVE FRON FRONTIEREDEDELL’ALPINISMO,CCON ERRI DE LUCA, ARARMANDO ASTE E TAMTAMARA LUNGER

Vuotoe infinito

10 /L’alpinismo è un’arte che si addice ai cercatori d’infinito.

7 /PING PONG di Vittorio Sedini. 27 /OLTRE IL MERCATO di Luigino Bruni. 35 /SCENARI MONDIALI di Pasquale Ferrara. 42 /PIANETA FAMIGLIA Barbara e Paolo Rovea. 55 /SE POSSO di Piero Coda. 71 /PENSARE

L’UNITÀ di Jesús Morán. 93 /GIBI E DOPPIAW di Walter Kostner.

In copertina

Opinioni

sommarioIl punto3 /60 e non li dimostra.di Michele Zanzucchi

Editoriali

8 /La rivoluzione dei municipi.di Marco Fatuzzo

/Iniziano le vacanze.

Che fare?di Ezio Aceti

9 /La fedeltà nelle

convivenze.di Maria e Raimondo Scotto

Politica lavoro economia

20 /Alleanza tra

famiglia e società. di Carlo Cefaloni

25 /Obiettivo voto

sereno.di Iole Mucciconi

Le regioni

29 /L’Italia che rischia

di sbriciolarsi.di Miriam Iovino

30 /Un referendum per chiedere due Province autonome.di Chiara Andreola

/Lotta agli sprechi in città.di Silvano Gianti

Pagine internazionali32 /Flash dal mondo.di Armand Djoualeu, Ivan

Danyliuk, Silvano Malini,

Rachele Marini

Famiglia e società

38 /Invidia, passione triste. di Pasquale Ionata

40 /Domande & risposte.di Marina Gui, Marco D’Ercole,

Maria e Raimondo Scotto, Ezio

Aceti, Federico De Rosa

Cantiere Italia43 /Cultura delle relazioni.di Rosalba Poli e Andrea Goller

44 /Benvenuto al binario 2.di Aurora Nicosia

47 /“Economia di Comunione”. L’unguento segreto.di Roberto Comparetti

48 /Coppia in crisi? Non mollare.di Marina e Gianni Vegliach

Storie

50 /A un passo da te.di Aurelio Molè

53 /Storie brevi.di Tanino Minuta, Vittorio Sedini,

Lina Pascarella Vigliotti

Spiritualità

56 /Dio piange con noi.di Maria Chiara De Lorenzo

59 /Parola di vita –

Agosto.di Fabio Ciardi

60 /Pienamente africani, veramente

cristiani.di Liliane Mugombozi

62 /La nostra attesa:

l’unità universale.di Chiara Lubich

SEGNALIAMO SU

IUVENESCIT ECCLESIA

La Chiesa ringiovanisce.

di Hubertus Blaumeiser

TENDENZE

Garden therapy, quando

fa bene occuparsi del

giardino. di Giulia Martinelli

WELFARE

Una legge sul

“dopo-di-noi”.

di Adriano Pischetola

Foto/ANSA

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Mensile di opinione del Movimento dei focolari fondato nel 1956 da Chiara Lubich con la collaborazione di Pasquale Foresi.

Direttore responsabile: Michele Zanzucchi

Caporedattore: Aurelio Molè

Redazione: Carlo Cefaloni, Sara

Fornaro, Maddalena Maltese, Giulio

Meazzini, Aurora Nicosia

Progetto Grafico: Humus Design

Impaginazione: Umberto Paciarelli

Segreteria di redazione: Luigia Coletta

Abbonamenti: Antonella Di Egidio,

Desy Guidotti, Marcello Armati

Promozione: Marta Chierico

Editore: Città Nuova della P.A.M.O.M.

Via Pieve Torina, 55 | 00156 Roma

T 06 3216212 F 06 3207185

C.F. 02694140589 P.I.V.A. 01103421002

Direttore generale: Stefano Sisti

Stampa: Arti Grafiche La Moderna

di Miliucci Marco e Floriana S.n.c.

Via Enrico Fermi, 13/17

00012 Guidonia Montecelio (Roma)

tel. 0774354314/0774378283

Tutti i diritti di riproduzione riservati

a Città Nuova. Manoscritti e fotografie,

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Città Nuova aderisce al progetto

per una Economia di Comunione

Associato all’USPI

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Autorizzazione del Tribunale di Roma

n.5619

del 13/1/57 e successivo n.5946 del

13/9/57

Iscrizione R.O.C. n. 5849 del 10/12/2001

La testata usufruisce dei contributi diretti

dello Stato di cui alla legge 250/1990

Idee e cultura

64 /Omosessualità e castità.a cura di Giulio Meazzini

67 /LoppianoLab 2016 è young!di Elena Cardinali

68 /L’avventura di Georges Lemaître.di Mauro Mantovani

72 /Il piacere di leggere. a cura di Gianni Abba

73 /In libreria. a cura di Oreste Paliotti

Arte e spettacolo82 /Televisione. di Eleonora Fornasari

83 /Cinema. di Edoardo Zaccagnini

/Moda. di Beatrice Tetegan

84 /Musica, radio e teatro. di Elena D’Angelo, Aurelio Molè,

Giuseppe Distefano

85 /Musica leggera. di Franz Coriasco

/Appuntamenti, cd, novità.

Fantasilandia

86 /Polvere di stelle tratto da BIG.

Pagine verdi

90 /Buon appetito con… di Cristina Orlandi

91 /Alimentazione. di Giuseppe Chella

/Educazione sanitaria. di Spartaco Mencaroni

/Diario di una neomamma. di Luigia Coletta

92 /Le bottiglie del futuro.di Lorenzo Russo

Dialogo con i lettori

95 /La nostra città.a cura di Marta Chierico

96 /Guardiamoci attorno.

Penultima fermata

98 /Christo che cammina sulle acque. di Elena Granata

88 /SPORT La storia di Fanny

Blankers-Koen, atleta del secolo.

Direzione e redazionevia Pieve Torina, 55 - 00156 ROMA

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Questo numero è stato chiuso in tipografia il 22-6-2016.

Il numero 6 di Giugno 2016 è stato consegnato alle poste il 13-6-2016.

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8 cittànuova n.7 | Luglio 2016

editoriali

Già in archivio le elezioni amministrative di giugno che hanno interessato un campione significativo di municipi: 1.342 (il 17% sul totale dei 7.999 comuni italiani). Circa 9 milioni gli elettori chiamati al voto nel secondo turno delle amministrative, con una affluenza alle urne di poco superiore al 50%. Al primo turno erano interessati al voto 13,3 milioni di elettori, con una percentuale complessiva di votanti del 62,09%. Dei 6 comuni capoluoghi di regione, 3 sono andati al centrosinistra, 2 al M5S, 1 al centrodestra; dei 14 comuni capoluoghi di provincia, 6 sono stati conquistati dal centrosinistra, 1 dal M5S, 7 dal centrodestra. Emerge un quadro articolato, un Paese politicamente frammentato, con una dinamica diversificata nelle varie città. Poche le conferme (Napoli, Cagliari e Bologna, su tutte). Molte le sorprese, con pesi e contrappesi (il Pd perde Torino e la Lega perde Varese, che erano loro feudi ininterrotti da 23 anni). I risultati più eclatanti sono quelli di Roma e di Torino: pur essendo contesti diversissimi,

queste due città si svegliano con una nuova identità, la stessa: due sindaci, entrambe giovani, entrambe donne, entrambe del M5S, con un risultato – anche numericamente – straordinario. Ondata di protesta che sale dal disagio delle periferie e dai ceti medi? Voto organizzato nei confronti di Renzi? Troppo semplice, troppo banale. Perché i rapporti di forza emergono modificati. Per il centrosinistra è complessivamente una débacle (escludendo Milano); il centrodestra, pur perdendo consensi e posizioni su scala nazionale, porta a casa un risultato comunque apprezzabile in alcune realtà territoriali dove da tempo governava il centrosinistra. Ma non ci sono dubbi che il vero vincitore sia il M5S: non solo si afferma (in forte recupero) a Torino e stravince a Roma (doppiando il Pd), ma si rivela imbattibile nei ballottaggi (ne vince 19 sui 20 in cui era impegnato). Un chiaro segnale nella prospettiva di elezioni politiche con l’Italicum. Adesso è tempo di azzerare i conflitti. Auguri di buon lavoro, di cuore, a tutti i neo-sindaci d’Italia, per il bene delle loro città.

Mi ricordo quando, alla fine della scuola, nei mesi di luglio e agosto, molta gente si preparava a partire per le vacanze. Era come un rito, un desiderio che si stava realizzando e, indipendentemente dal luogo dove si andava, l’importante era rompere con la routine del lavoro o della scuola, per vivere momenti di riposo e di socializzazione con altri.Ma oggi tutto è cambiato. Il mondo è cambiato e i tempi si sono accorciati, e soprattutto non c’è più l’esodo di massa verso le zone di villeggiatura.Per non parlare poi degli enormi problemi che viviamo in quanto il mondo è divenuto piccolo e i telegiornali sono lì a informarci dei continui problemi che si vivono.Però, forse, c’è una caratteristica comune che è rimasta e che rappresenta il verso motivo delle

vacanze: la vacanza è in sostanza un tempo per sé, per gli altri e soprattutto per la cura dei legami. Siamo persone e come tali possiamo essere felici se rispettiamo la nostra natura umana sociale.Mi sembra che possiamo vivere bene la vacanza se rispettiamo la nostra identità di esseri umani.Suggerirei: un periodo di riposo in un luogo (non importa se vicino o lontano) ove la mente e il corpo siano in movimento salutare spezzando la routine del lavoro o della scuola, o facendo semplicemente le attività in un modo rilassato; l’esercizio della socialità (verso sé e verso gli altri) volta al positivo, al bene, a nutrire la mente e la volontà di immagini o esercizi positivi ove venga rinforzato il legame con sé e con gli altri (esperienze di volontariato, l’impegno

Elezioni

La rivoluzione dei municipidi Marco Fatuzzo

Estate

Iniziano le vacanze, che fare?di Ezio Aceti

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Virginia Raggi, sindaco di Roma.

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9cittànuova n.7 | Luglio 2016

Recentemente abbiamo partecipato in Africa a una scuola di inculturazione. È stata la scoperta di tante perle preziose nella cultura africana. Siamo ritornati col desiderio di scoprire queste perle anche nella nostra cultura, apparentemente ormai così lontana dai valori della famiglia. In questo campo papa Francesco ci dà continue lezioni, perché non si stanca mai di cercare il positivo presente in essa. Nel giugno scorso, all’apertura del convegno ecclesiale della diocesi di Roma, ha risposto tra l’altro ad alcune domande; una di queste riguardava l’educazione al matrimonio. Non ci soffermiamo sull’intera risposta del papa, ma solo su quel che dice sulla convivenza di tante coppie non sposate. «Non dire subito: – dice Francesco – “Perché non ti sposi in chiesa?”. No. Accompagnarli: aspettare e far maturare. E fare maturare la fedeltà». Questa sottolineatura sulla fedeltà ci è sembrata importante, in tempi in cui si vorrebbe eliminare tale impegno dai matrimoni civili. In realtà la fedeltà è implicita in qualsiasi vero rapporto d’amore; nessuno vorrebbe essere amato “a termine”. Anche tra quelle coppie che si separano, non poche avrebbero desiderato rimanere insieme per tutta la vita, ma non ci sono riuscite. Ciò che fa il matrimonio

è il patto di fedeltà; una fedeltà che non è solo assenza di tradimento, ma continua creatività nell’amore, sull’esempio di quella di Dio, che rimane sempre fedele senza stancarsi mai di noi. «Fare maturare la fedeltà» è allora l’obiettivo più importante per la preparazione al matrimonio. Il papa deve, però, anche constatare con gioia: «Ho visto tanta fedeltà in queste convivenze, tanta fedeltà; e sono sicuro che questo è un matrimonio vero, hanno la grazia del matrimonio, proprio per la fedeltà che hanno». Ecco la perla preziosa trovata da Francesco: la fedeltà. Se essa è l’essenza del matrimonio, il papa guarda queste coppie con gli occhi di Dio. Non dimentichiamo che, per la Chiesa cattolica, i ministri del sacramento del matrimonio sono gli stessi sposi; è in effetti il patto d’amore che fa il matrimonio. Ciò non significa tuttavia l’inutilità della celebrazione del sacramento perché, quando il patto da privato diventa pubblico, allora la famiglia, anche attraverso la grazia sacramentale, può diventare cellula della Chiesa e della società e seme di fratellanza universale.

per gli oratori o per i nostri figli, viaggi di istruzione culturale per ampliare la conoscenza, o l’assistenza di un parente anziano, insomma a tutto quanto ci possa riconciliare con il senso di appartenenza alla gente e alla gente più bisognosa); infine, l’esercizio di ascolto della propria interiorità, mediante esperienze dove, un po’ isolati, riprendiamo in mano l’essenza della nostra vita, ricaricando le pile di valori essenziali per vivere. Penso a esperienze di fraternità in alcuni monasteri o di condivisione con altre famiglie dove la socialità venga formata anche con periodi di escursioni alternati a momenti formativi spirituali. Penso

anche a esperienze di deserto con Dio, insomma a tutto quanto riguarda l’afflato dello Spirito in noi.L’importante è che alla fine della vacanza possiamo ricongiungerci con la bellezza e l’armonia che alberga in ciascuno, perché in fondo la vacanza è il nutrire il bambino che c’è in noi.E infine, non dimentichiamoci di portare un buon libro o di visitare una bella città per nutrire di bene il nostro pensiero. In questo modo il bello, il buono e il bene saranno il nostro riposo. Buona vacanza a tutti.

Chiesa

La fedeltà nelle convivenzedi Maria e Raimondo Scotto

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Un anno fa il valtellinese Marco De Gasperi, campione del mondo di corsa in montagna, ha stabilito il nuovo record di velocità di salita e discesa della via italiana del Monte Bianco: dalla piazza di Courmayeur (1.224 metri di quota) alla vetta (4.810 metri) e ritorno in 6 ore, 43 minuti e 52 secondi. Più o meno il tempo impiegato da Francesco Petrarca, nel 1336, a salire il Mount Ventoux, 2.000 metri

scarsi, spelacchiato dal mistral, dai dintorni di Avignone dove il papa e la sua corte erano in cattività, un’impresa che qualcuno definisce la prima ascensione alpinistica. In mezzo, migliaia di storie, di sfide, di tentativi e di fallimenti, di pareti rocciose e di enormi massicci innevati sopra gli 8.000 metri, da salire per primi o da collezionare, hanno segnato la storia di quella che è l’arte della “conquista dell’inutile”, come la

definì la guida Lionel Terray. Tradizionalmente la nascita dell’alpinismo viene posta l’8 agosto 1786, data della prima ascensione del Monte Bianco, sognata da uno scienziato ginevrino, Horace-Bénédict de Saussure, ma realizzata da un medico, Michel Paccard, e da un cacciatore e cercatore di cristalli, Jacques Balmat, entrambi di Chamonix.

10 cittànuova n.7 | Luglio 2016

la conquistadell’inutile

IN MONTAGNAl’inchiesta

L’alpinismo, oggi come ieri, è un’arte che si addice ai cercatori di infinito. Uno di questi è Armando Aste, oggi 90enne, che ne ha segnato la storia

Una spedizione commerciale sull’Everest.

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11cittànuova n.7 | Luglio 2016

L’alpinismo è speciale sotto molti aspetti, a cominciare dalla sua narrazione. Nessuna attività umana senza scopo di lucro è stata mai così raccontata, documentata e scritta, in tutte le epoche e in ogni ambiente culturale e sociale. Le avanguardie delle scalate non avevano certo un ufficio stampa e molte prime ascensioni sono avvolte dal mistero. Oggi le grandi imprese alpinistiche non

solo avvengono in diretta online, ma sono i mass-media stessi a imporre obiettivi e ritmi. Il tempo ha cambiato molte cose: i materiali, le tecniche, l’approccio, le disponibilità economiche, la considerazione sociale. Ma l’alpinismo, amatoriale o professionistico, è rimasto una passione totalizzante alimentata dalla spinta verso l’ignoto. Pagine di letteratura, e oggi filmati in

diretta, cercano di rispondere alla solita vecchia domanda: perché scalare le montagne? Per conoscere sé stessi, per scappare dal mondo, per avvicinarsi a Dio... George Mallory, nel 1924, alla domanda: «Perché vai a scalare l’Everest?», rispose: «Because it’s there, perché è là!». Non vi fece ritorno e non sapremo mai se, nel tentativo di salita, avesse maturato altre motivazioni.

di Paolo Crepaz

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L’Everest (8.848 m), nella catena dell’Himalaya, al confine tra Cina e Nepal.

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12 cittànuova n.7 | Luglio 2016

«La rinuncia è un tesoro»TAMARA LUNGER e la prima invernale al Nanga Parbat

“«Sono una sognatrice innamorata delle montagne». Tamara Lunger ha vissuto

tutta la sua vita, 30 anni, sulle montagne. «Ogni momento che trascorro in

montagna, mi rende più consapevole di chi sono e più grata alla vita».

Dopo il Lhotse, il K2 e due vette nel Pamir, ha tentato, a fine febbraio, con

Simone Moro, la prima salita invernale al Nanga Parbat, 8.125 metri. Vi ha

rinunciato, fermata dai dolori legati anche a una caduta («credevo di morire»),

dal vento e dal freddo (-58°), a 70 metri dalla vetta, per non compromettere

l’impresa dei suoi compagni. «È la prima volta nella mia carriera di alpinista

che assisto a una dimostrazione tanto emozionante di generosità e di etica

applicata alla montagna – ha dichiarato Simone Moro al rientro –. Stava per

entrare nella storia, ma ha pensato a noi e ha rinunciato. Una delle cose più

incredibili mai vista da quando sono scalatore».

Per lei, Tamara, è stata una scelta dolorosa: «Essere la prima donna a scalare un

8.000 in prima salita invernale, era uno dei miei sogni più belli. Ma, nel tentativo

di realizzarlo, mi è stato regalato molto, molto di più. Avevo già rinunciato

ad altre cime e questo mi ha meritato la fiducia dei miei genitori: abbiamo

rinunciato a una vita e a un lavoro fisso e sicuro (i genitori gestiscono in estate

il Rifugio Santa Croce di Latzfons, a 2.305 di quota, accanto al santuario più

alto d’Europa n.d.r.) e ci è stata regalata una vita piena di gioia, di avventura e

di felicità. La stessa cosa è successa al Nanga: non posso parlare di rinuncia. Ho

imparato molto. Mi sembra questa la strada giusta per un futuro bello e felice»

Poi spiega: «Sono una persona normalissima: anche io ho paura, anche io sono

triste, anche io ho dei sentimenti. La fede è un valore molto grande per me,

mi dà sicurezza: quando vado su, prego, parlo con Dio e sono sempre sicura

che lui è sopra di me, mi guarda, mi aiuta e mi dà sicurezza. Senza fede non

sarei così forte in montagna. Ho pregato tutta la salita, chiedendo: “Fai calare il

vento, fai calare il vento!”. Di solito mi sente e mi ascolta, ma questa volta no. Il

vento non calava. Allora ho detto a Dio: “Ti do ancora 5 minuti. Se non smette

il vento, vuol dire che non è la mia cima. Era freddo e conoscendo molto bene

il mio corpo, ero consapevole di essere totalmente distrutta. E così ho capito:

accetto, ciao! In discesa mi sono resa conto di quanto stavo male. La rinuncia

che ho fatto, la custodisco come un mio tesoro personale perché mi ha dato

molto di più di ciò che mi ha apparentemente tolto».

l’inchiesta IN MONTAGNA

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13cittànuova n.7 | Luglio 2016

Pochi mesi fa ha compiuto 90 anni uno dei più grandi alpinisti italiani, Armando Aste, un uomo che ha segnato la storia dell’alpinismo non solo per le sue imprese (primo salitore

su innumerevoli pareti alpine, memorabile la via dell’Ideale, la direttissima della Marmolada, primo a salire la nord dell’Eiger, uno dei primi a scalare la torre sud delle Torri del Paine in

Patagonia) e per la sua penna felice, ma anche per il suo stile di vita e i suoi precisi richiami valoriali che lo rendono ancora oggi figura di riferimento.Chiedergli se e come è cambiato l’alpinismo è quesito scontato. «L’alpinismo di oggi è molto diverso, non solo per attrezzature e organizzazione, da quello del passato e non si possono fare confronti. Le motivazioni dipendono da diversi fattori: etici, culturali e anche pratici, e tutte vanno rispettate. L’alpinismo è sempre stato storie di uomini e di montagne, è ricerca di gioia, di bellezza, di poesia ed è una metafora della vita. L’uomo, grazie all’alpinismo, cerca di scalare sé stesso attraverso le difficoltà della montagna. Aldilà della componente edonistica e ludica, è una dimensione culturale, una corrente di pensiero. Non è un fine: è un mezzo di promozione umana, è un bisogno di elevazione spirituale dentro un contesto etico di ineffabile bellezza. Per me l’alpinismo è un’arte, non è uno sport. Ogni alpinista è, a suo modo, ma non tutti ne sono consapevoli, un cercatore d’infinito. È una persona che non si accontenta della banalità del quotidiano, che vuole andare avanti, che vuole andare oltre, sempre oltre, attratto da Lassù. L’alpinista si pone una meta, una cima, immaginandosi una via per salirla: quando arriva in cima è

L’alpinismo è sempre stato storie di uomini e di montagne, è ricerca di gioia, di bellezza, di poesia ed è una metafora della vita.

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Armando Aste mostra l’attrezzatura alpinistica d’epoca nella sua casa a Rovereto.

Armando Aste, primo a sinistra, con i Ragni di Lecco, in Patagonia.

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14 cittànuova n.7 | Luglio 2016

contento, ma allo stesso tempo è deluso, perché non ha raggiunto, in realtà, quella gioia che sa di poter raggiungere, perché la vera felicità, a cui ambiamo, travalica quella che si può sperimentare su una cima perché fa parte dello spirito, non della ragione. La vera e piena felicità non è di questo mondo: se no cosa ci starebbe a fare il paradiso?».

Che giudizio dà dell’alpinismo di “conquista” e di quello “commerciale”? L’alpinismo di “conquista” è un alpinismo professionistico, sostenuto dagli sponsor, da aziende o mezzi di comunicazione che richiedono certe prestazioni e certi successi. C’è chi fa alpinismo per orgoglio, per ambizione, per essere il primo, per la classifica. Il

mio è alpinismo dilettantistico nel senso che per me è sempre stato un diletto, un’esperienza che ho fatto per me stesso. Il mio sponsor era... la pacca sulle spalle di un amico alpinista! Oggi gli alpinisti di livello si allenano 4 o 5 ore al giorno, perché... non hanno altro da fare. Io lavoravo in fabbrica e alimentavo le caldaie: ogni giorno bruciavamo 120 quintali

l’inchiesta IN MONTAGNA

Il Nanga Parbat (8.126 m), in Pakistan.

Simone Moro e Tamara Lunger in tenda al Manaslu (8.156 m), nell’Himalaya.

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di carbone, tutti caricati a mano, con la pala. Io sono destro, ma per allenare entrambe le braccia le alternavo al lavoro. Usavamo corde di canapa che, quando si bagnavano, diventavano pesanti e così dure che non riuscivamo a sciogliere i nodi dell’imbrago. Partivamo la domenica all’alba dalla città, raggiungevamo la base delle montagne in bicicletta e a piedi, scalavamo una cima e, a notte fonda, tornavamo a casa in bicicletta. E la mattina dopo eravamo in fabbrica. L’alpinismo commerciale sugli 8.000, fatto di corde fisse, bombole, assistenza totale da parte degli sherpa, non è alpinismo, non è avventura: è una prestazione fisica e sportiva praticata sulle montagne dove paghi e tutto è noto. La vera

avventura è sfidare l’ignoto, è fare cose nuove, è fare opere d’arte. Chi compie queste imprese si illude di poter trovare la felicità, si illude di essere arrivato in vetta: ma la vera vetta è interiore, è Dio.

Lei è sempre stato un uomo di fede. Come l’ha conciliata con i rischi dell’alpinismo?Quando ho iniziato a praticare alpinismo estremo, solitario, capivo che stavo rischiando la vita, ma non volevo andare all’inferno per aver trasgredito il quinto comandamento. Ne ho parlato con un prete amico che mi ha spiegato: «Se rimani dentro i limiti nei quali puoi dominare la situazione, puoi farlo». Anche se mi rendo conto che sono stato egoista se penso alla sofferenza

che ho dato ai miei, a mia madre quando partivo per una montagna. La fede è la dimensione che dà un senso alla vita, che ti aiuta ad andare avanti, ma è un dono che va alimentato così come si alimenta il corpo. Ho sempre pregato, mattina e sera, e ho sempre recitato il rosario. Quando, prima di salire, mi facevo il segno della croce o, appeso in parete, in bivacco, di notte, recitavo il rosario, alcuni compagni di cordata rispondevano, altri tacevano. Molti, dopo anni, mi hanno dato ragione.

Le tappe che segnano la storia dell’alpinismo

8 agosto 1786 - prima ascensione del

Monte Bianco - Michel Paccard, Jacques

Balmat

28 settembre 1864 - prima

ascensione della Marmolada

- Paul Grohmann, Angelo e

Fulgenzio Dimai

14 luglio 1865 - prima

scalata del Cervino -

Edward Whymper (+ altri 6)

7 agosto 1925 - prima

arrampicata di 6° grado - parete

nord ovest del Civetta - Emil Soleder,

Gustav Lettenbauer

3 giugno 1950 - prima ascesa di un 8.000:

l’Annapurna - Maurice Herzog, Louis Lachenal

29 maggio 1953 - prima ascesa all’Everest,

tetto del mondo, 8848 metri - Edmund

Hillary, Tenzing Norgay

2 maggio 1964 - prima ascesa al 14°

8.000: lo Shisha Pangma - 10

membri di spedizione cinese

17 febbraio 1980 - prima

ascesa invernale di un 8.000:

l’Everest - Krzysztof Wielicki,

Leszek Cichy

16 ottobre 1986 - primo uomo

a salire tutti i 14 8.000 (senza

ossigeno) - Reinhold Messner

17 maggio 2010 - prima donna a salire

tutti i 14 8.000 (due con ossigeno) - Edurne

Pasaban

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erri de luca

INTERVISTA A

“Per me alpinismo è viaggio di superficie, scambio tra due epidermidi, la roccia e le falangi delle dita. Alpinismo è per me aria aperta”

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17cittànuova n.7 | Luglio 2016

Tra i più importanti e significativi scrittori italiani, molto amato anche all’estero, autore di libri di successo come “Non ora, non qui”, “Montedidio”, “Il giorno prima della felicità”, “Il peso della farfalla” e i recenti “Il più e il meno” e “La faccia delle nuvole”, l’autore ci svela il suo rapporto con la montagna

in cordata, l’alleanza stretta con un nodo ai due capi della stessa corda, poi sono diventato un praticante di alpinismo, membro di una comunità sociale. Prima ero un selvaggio di città. Venivo dalle lotte e dalla militanza rivoluzionaria del decennio ’70, ero uno dei dispersi. In montagna ritrovavo il mio passo d’inizio, di quando mi staccai ragazzo di casa, di città, di famiglia e mi inoltrai in uno sbaraglio individuale.

Nella scalata conta più il corpo o la testa?In parete è simpatico il fatto che la testa smette di essere il punto panoramico del corpo, la sua torretta di guardia. Sta invece alla

Nella visione di De Luca la crosta terrestre ha un’attrazione verso l’alto, dovuta agli urti colossali del sottosuolo, che innalzano le catene montuose. Sente, avverte (da poeta) che la terra vuole salire. Da qui la tentazione di seguirla fino in cima… in particolare sulle Dolomiti, le sue montagne ideali.

Erri De Luca, nato a Napoli e appassionato di montagna. Com’è potuto succedere?Mio padre napoletano è stato soldato nel corpo degli alpini durante la Seconda guerra mondiale, l’amore per le montagne gli ha salvato la gioventù, inguaiata dal fascismo e dalle stragi. Ho ereditato da lui le montagne e i libri.

Lei ha iniziato a scalare tardi, intorno ai 30 anni. Che ricordo ha di quelle prime arrampicate, di quel primo sentire la superficie rocciosa della terra?Ho iniziato a scalare in estate, erano le mie ferie da operaio e in montagna si pagava poco. Ho cominciato a salire in scarpe da città e impermeabile, salivo le ferrate così, senza imbracatura né attrezzatura. Le Dolomiti restano le mie preferite, il calcare anziché il granito. La varietà delle sue rocce, appigli, prese assomiglia a un gran vocabolario, scalo secondo l’ordine della frase scritta sulla roccia, il mio corpo legge la bella stesura aperta a libro. Ho poi imparato le tecniche della progressione

intervista a cura di Michele Francesco Afferrante

1950

nascea Napoli

il 20 maggio

2005

partecipa a una spedizione sull’Himalaya

con Nives Meroi

2002

è il primo ultra50enne a scalare un 8b+

alla Grotta dell’Arenauta

di Gaeta

2003

fa parte della giuria del Festival di Cannes

2015

è processato e assolto

per alcune frasi espresse contro la Tav

1989

pubblica il suo primo libro

“Non ora non qui”

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18 cittànuova n.7 | Luglio 2016

ERRI DE LUCAintervista a...

perché la montagna è una botola aperta sotto i piedi, il vuoto non è lì per sorreggerci i passi. Dispiacerà all’industria che fattura materiale di montagna, ma su ogni articolo venduto ci andrebbe la scritta: la montagna è rischio micidiale. Come per il tabacco, è per noi un vizio. Ognuno di noi è scampato un numero imbarazzante di volte a un pericolo, a un errore commesso. Dunque, niente lezioncine ai caduti da parte di chi ha solamente avuto finora più fortuna di loro.

Lei ha scritto che in montagna torna a stupirsi, a meravigliarsi…Lo stupore fa parte di una buona educazione sentimentale. Lo stupore verso il male e il bene che gli uomini si scambiano,

stessa distanza alla superficie dei piedi, della pancia. La scalata fa democrazia nel corpo, toglie la testa dalla sua altezza, la abbassa e manda in avanscoperta le braccia, le mani, le dita, aiutate dalle spinta dei piedi. In fondo scalare è regredire all’andatura a 4 zampe.

Lei ha detto che in montagna vuole sentirsi un passante e non vuole lasciare traccia. Cosa vuol dire?Sono uno di fuori, un forestiero in montagna, non mi sento autorizzato a battere di chiodo, a esultare su una cima, a lasciare traccia di bianco su grigio, non uso magnesite per migliorare la presa, non firmo libri di vetta. Sono uno di passaggio che ringrazia in silenzio per il lasciapassare ricevuto.

In cosa consiste la bellezza della montagna?La bellezza in natura non è lì per accoglierci a braccia aperte, non è fatta per infilarle un anello al dito e fidanzarsi. È l’immenso di forze che possono spazzarci via con la stesso sorriso con cui ci carezzano. Lo stesso vento che ci asciuga la fronte può sgambettarci con un colpetto e spingerci di sotto. La bellezza è un rischio aperto. È il movente per cui si va in montagna ma non si può ammansire con nessuna esperienza e attrezzatura. La montagna è bellezza e rischio spalancato. Mi spiacciono i commenti, dopo ogni incidente micidiale, che danno la colpa all’imperizia, all’approssimazione, all’irresponsabilità. Non stanno così le cose, muoiono spesso i più valorosi ed esperti, muoiono

Erri De Luca alla grotta dell’Arenauta, Gaeta, su un 8b+, un alto grado di difficoltà. Il massimo è il 9b+.

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che sta agli sgoccioli, lo sa, ma come tutti immagina di poterne avere ancora un poco dalla vita, di potersi affacciare oltre l’inverno che sta a sbarramento.

«I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi» (Johann Wolfgang Goethe). «La lotta che conduce verso le cime basta a riempire il cuore di un uomo» (Albert Camus). Due aforismi, un suo commento…Parole solenni, mi spiace guastarle, ma si è silenziosi in montagna perché il fiato serve tutto alla salita e in discesa si è troppo stanchi per mettersi a chiacchierare. Quanto al cuore dell’uomo mi basta sapere che è pieno di ossigeno e di sangue. Già così basterebbe a liberarlo di cattivi pensieri.

lo stupore per l’immenso e il minuscolo, lo stupore verso le bestie, gli alberi, l’acqua, il fuoco. Oggi lo stupore è censurato, bisogna far finta di essere indifferenti, occhi bassi, nessuna confidenza con quello che succede intorno. Vedo persone che vanno in montagna con tutto il corpo ancora prigioniero delle difese alzate nella vita in città. In montagna imparo di nuovo lo stupore, per esempio verso la magnifica andatura del camoscio su strapiombi, la sua corsa fulminea giù per ghiaioni e cenge. Imparo a spalancare gli occhi che incrociano in parete a pochi centimetri dal naso il raponzolo in fiore che si è radicato in un buco di spillo della roccia. Ho visto api sulla fioritura della sassifraga nel ghiacciaio della Marmolada, in montagna ritorno a commuovermi per lo stupore.

Lei è un assiduo e attento lettore e traduttore della Bibbia. Quale rapporto c’è tra la montagna e la scrittura sacra?La scrittura sacra dell’Antico Testamento è alpinistica. Grandiosi incontri con la divinità avvengono in quota. Noà atterra sull’Ararat Maggiore col suo barcone cesto, Abramo va sul Morià per obbedire all’ordine di sacrificare il figlio, Mosè sale sul Sinai/Horev tre volte e muore da alpinista sul monte Nebo. La divinità si rivela in luoghi appartati e ai suoi solitari che battono piste desertiche. La divinità si abbassa a quel confine tra cieli e superficie terrestre, lì dove l’uomo sale fino all’ultimo gradino possibile, oltre il quale comincia il cielo.

Lei ha marciato verso gli 8 mila metri del Dhaulagiri con la sua amica scalatrice Nives Meroi e il marito Romano Benet,

impresa narrata nel libro “Sulla traccia di Nives”. Quale nuovo sentimento della montagna ha maturato nel corso di quella straordinaria esperienza?La montagna, qualunque montagna, insegna i propri limiti fisici e insegna l’umiltà della ritirata. Con Nives e Romano ho condiviso giorni sui fianchi di cime colossali, ho imparato da loro la semplicità domestica delle loro imprese, la forza della loro alleanza basata su divisione del lavoro, dei carichi, dei rischi. Ho visto un alpinismo di coppia, che smentisce l’individualismo dello scalatore. Ho il ricordo della voce di Nives che raccontava a me, sprovveduto compagno di viaggio, le sue mosse, come a un suo pari, facendomi sentire uno di loro. Provo per lei, per Romano, per Luca Vuerich che è stato scippato alla vita da una valanga, gratitudine e ammirazione pura.

Il suo libro “Il peso della farfalla”, storia dell’antico duello tra il re dei camosci e il vecchio cacciatore, è nato dall’ascolto di racconti di montagna…Ho ascoltato racconti di animali e uomini di montagna da Mauro Corona, da Romano Benet, da Lois Anvidalfarei, da altri che ora non ricordo. Esiste lì come altrove una grandiosa tradizione orale di storie, disavventure, colpi di fortuna e di tempesta, che le persone si trasmettono volentieri quando stanno tra simili e col gomito sul tavolo. Ci sono come ovunque frottole che ingrandiscono e discrezioni che al contrario riducono il formato, la montagna tira fuori il meglio e il peggio dalle persone, anche nei racconti. Il bracconiere del mio racconto non è un sant’uomo, non è il Santiago de Il vecchio e il mare, è un esemplare della nostra specie

La bellezza in natura è l’immenso di forze che possono spazzarci via con la stesso sorriso con cui ci carezzano.

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politica lavoro economia OLTRE GLI SPOT

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Sulle riviste cattoliche, di solito, i nuclei numerosi appaiono sorridenti. Difficile documentare le notti agitate per i soldi che mancano. Ma non tutte le famiglie sono uguali. Ci sono i benestanti, la classe media che si contrae e tutti gli altri che rientrano nelle fasce della povertà relativa, quella di chi non sa come affrontare una spesa imprevedibile, o addirittura assoluta. Le umiliazioni subite da troppi nuclei familiari riflettono la crescita di quella diseguaglianza crescente in Italia che non si risolve con l’elemosina di Stato o la carità dei privati. Senza citare i numerosi articoli a favore di quella “società naturale” che precede lo Stato ed è “fondata sul matrimonio”, l’articolo 36 della Costituzione riconosce al lavoratore il diritto a «una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente

ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». In decenni di crescita economica e governi democristiani, l’Italia non ha adottato le stesse misure fiscali e previdenziali più eque per le famiglie previste da Paesi laicissimi come la Francia. Ha pesato inconsciamente il ricordo delle politiche fasciste a favore delle nascite da destinare alla guerra? Mistero da indagare. Ricordiamoci comunque, come ammoniva Ermanno Gorrieri, ministro del Lavoro nel governo Fanfani, che nel 1995 la riforma Dini sulle pensioni ha fatto man bassa dei contributi destinati al fondo per gli assegni familiari (passati dal 6,20 al 2,48%!).

Povertà e bonus bebèIl peso maggiore della crisi economica internazionale si è, così, scaricato sulle famiglie. Quelle con almeno 3 figli hanno visto erodere il 7,5% del reddito

Il crollo delle nascite è il segnale di un malessere profondo di un Paese diseguale

alleanza tra famigliae società

di Carlo Cefaloni

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negli ultimi 3 anni e il 9,3% di loro è precipitato nella fascia della povertà assoluta. Lo certifica, nel 2015, la Fondazione nazionale dei commercialisti assieme al Forum delle associazioni familiari. Davanti a questi numeri, non è accettabile la tattica dei governi di turno disposti a concedere le briciole. Poco è davvero meglio di niente? Da tempo il governo non convoca l’osservatorio sulle politiche familiari avviato nel 2011, dopo la seconda conferenza nazionale della famiglia che rimandava a quella “decisiva” del 2013, che poi non si è mai tenuta. Ce lo ricorda Riccardo Bonacina, presidente di Vita, direttore di quell’osservatorio che non si può autoconvocare; l’Italia resta così l’unico Paese

europeo senza una legge organica sulla famiglia, senza cioè la centralità di un «parametro fondamentale in molte delle decisioni socioeconomiche che deve prendere un governo». Si rischia di procedere a spot. Per la prossima legge di stabilità del 2017 il ministro della Sanità, Beatrice Lorenzin, ha detto di voler «rispondere al crac delle nascite» innalzando l’importo del “bonus bebè”, concesso in base al reddito dei genitori. Anche se generoso, l’incentivo, è semplicemente una misura temporanea antipovertà, ha detto Alessandro Rosina, professore di demografia alla Cattolica di Milano. Per la sociologa Chiara Saraceno, «pensare di incoraggiare la natalità concentrandosi quasi

esclusivamente sul sostegno al reddito nei primi anni di vita è un approccio sbagliato: un figlio costa denaro e tempo, non solo nei primi anni di vita, ma lungo tutti gli anni della crescita».

Tracollo demograficoNon si può rispondere in tal modo al tracollo demografico che ci ha visto sprofondare nel 2015 sotto il mezzo milione di nascite, mentre i 647 mila decessi hanno registrato un aumento anomalo di 50 mila unità. Ormai dal 1977 non assicuriamo il ricambio generazionale (fissato a 2,1 figli per donna) ma stavolta i numeri sono quelli della Grande guerra, come dice lo stesso Istat. Il buco non si copre neanche con il rimpiazzo degli immigrati perché siamo ormai un Paese di transito,

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mentre migliaia di giovani italiani migrano all’estero. Il bilancio demografico è però solo l’indice di un malessere più profondo che non si può curare con gli incentivi monetari. Non ci si salva da soli in un Paese dove, secondo il Censis, 11 milioni di italiani non si curano per i tagli al servizio sanitario pubblico. Prima di ogni serio intervento politico occorre un confronto aperto su cause e rimedi di tali evidenti ingiustizie. Ad esempio, per l’economista Gotti Tedeschi, è proprio l’inverno demografico maturato dagli anni ’70 il motivo strutturale della crisi e non viceversa. Ciò chiama in causa l’allarme ecocatastrofista che ora si continua a lanciare contro il boom delle nascite delle popolazioni subsahariane. Non si può certo ignorare una certa egemonia ideologica che ha visto nella famiglia la fonte di ogni male. È la tesi intrinseca di molta tv di massa.

ProposteLa famiglia, invece, senza retorica e con i limiti ben sperimentati, è il soggetto capace di guardare la realtà senza perdere nessuno. Non una parte chiamata a competere

con altri. In questo senso si spera che, a partire dalla prossima legge di stabilità, si apra un confronto che non separi le istanze delle associazioni familiari da quelle di giustizia sociale portate avanti dalle campagne che lottano contro le diseguaglianze inaccettabili. Si pensi al confronto sugli effetti dei 10 miliardi di euro distribuiti tramite gli 80 euro mensili per i redditi medio bassi, ma senza adottare alcun criterio di nucleo familiare e tralasciando le fasce più povere, quelle dei cosiddetti incapienti. Ma accettare un vero dialogo a tutto campo vuol dire entrare nel dettaglio dei problemi, non solo fiscali o previdenziali. Ad esempio, Alessandro Rosina, che ritiene necessario l’accesso alla casa e al lavoro stabile per ogni famiglia, vede nel jobs act un passo in questo senso, mentre, per altri analisti, gli effetti della riforma del lavoro sono negativi perché questa agevola i licenziamenti utilizzando, tra l’altro, incentivi all’assunzione destinati a terminare. Si deve riconoscere che il Forum delle associazioni familiari sta cercando un confronto a tutto campo. Come ci ha detto Roberto Bolzonaro, del direttivo del

Forum, lo strumento del “Fattore famiglia” non è solo una leva per abbassare il peso fiscale sulle famiglie, ma anche il perno di una diversa politica economica perché «il minore introito fiscale di 14 miliardi di euro verrebbe associato alla crescita dei consumi per 11,7 miliardi, recupero Iva per 2 miliardi e altri 3,2 miliardi da altre imposte con la conseguenza, relativa all’economia reale, di creare 200 mila posti di lavoro e far superare la soglia di povertà a un milione di famiglie». Nella conferenza nazionale del 2011 il nuovo meccanismo sembrava poter superare le obiezioni abituali rivolte al quoziente familiare di privilegiare i redditi alti e di sfavorire l’occupazione delle donne. Intanto si è perso molto tempo. Si può ancora cercare di recuperare partendo dai punti fermi della Costituzione che possono liberarci, come dice lo storico dell’educazione Fulvio De Giorgi, dal dominio, pluridecennale, «di una cultura neoliberale che esalta l’individuo e il mercato, mentre considera come “lacciuoli” negativi le forme di solidarietà sociale». Una politica per la famiglia diventa possibile, cioè, dentro l’orizzonte di un’economia del noi.

Contenuti aggiuntivi su cittanuova.it

Famiglia, diseguaglianza e Costituzione

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Manifestazione dell’Associazione delle famiglie numerose davanti Montecitorio.

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Questo 2016 volerà via ancor più velocemente degli anni che lo hanno preceduto, sbalzati come siamo già da un po’ verso l’autunno: ci attende l’ottobre caldo del referendum, che parrebbe dietro l’angolo, a giudicare dallo spazio che occupa nel dibattito pubblico. Pienamente meritato, intendiamoci. Però c’è tempo per meditare e questo tempo bisogna prenderselo tutto.Ricapitoliamo. Il 12 aprile 2016, con il voto dell’Assemblea della Camera dei deputati, si è concluso il complesso iter parlamentare della riforma della Costituzione, cui è seguita la richiesta di referendum, opportunità prevista dall’art. 138 nei casi in cui l’approvazione non abbia raggiunto i due terzi dei componenti le due Camere. È accaduto solo due volte nella storia repubblicana: nel 2001, per la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, che ha rivoluzionato il riparto delle competenze tra Stato e Regioni (e vinsero i sì); e poi nel 2006, in occasione del ben più ambizioso disegno riformatore, indirizzato alla revisione anche del bicameralismo, dei poteri del

capo del governo e altro (e vinsero i no).Ebbene, anche stavolta ci troviamo dinanzi a una corposa revisione della Carta costituzionale e va colta fino in fondo l’occasione che abbiamo di partecipare al processo legislativo, con libertà e consapevolezza. L’obiettivo infatti è quello di un voto sereno e meditato, lontano dai pregiudizi. Ciò significa che non ci sono scelte da demonizzare e questo deve essere ovvio nonostante si siano già formate le

fazioni del sì e del no, come tali a rischio di ottusità dialogica. La legge sottoposta al nostro voto è, infatti, talmente complessa e impegnativa che il personale percorso di approfondimento si può legittimamente concludere per il sì oppure per il no. Senza “scandalo” reciproco, ma a una condizione: che non si cada in nessun tipo di reduttivismo semplificatorio, sempre ingannevole. Fuggiamo quindi le volgarizzazioni del tipo: “voto sì per togliere poltrone!” oppure

obiettivo voto serenoA ottobre ci aspetta il referendum sulla riforma costituzionale. Il dibattito pubblico iniziato da tempo non ci impedisca di approfondire senza pregiudizi i termini della questione

politica lavoro economia SFIDE

25cittànuova n.7 | Luglio 2016

di Iole Mucciconi

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La ministro per le Riforme Maria Elena Boschi.

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26 cittànuova n.7 | Luglio 2016

“voto no così va via Renzi!”. Al contrario, dobbiamo aspirare a conoscere e a comprendere quanto più possibile il contenuto della riforma, valutandolo come ci appare giusto e in coerenza con le nostre premesse valoriali. Non di “poltrone” ma di istituzioni (la “casa comune”) si tratta. Che non sono intoccabili. Infatti da alcuni decenni si progetta di apportare delle modifiche allo scopo di eliminare il bicameralismo perfetto, sveltire l’iter legislativo e irrobustire i poteri del governo. Proprio la lunga lista di tentativi andati a male costituisce un forte argomento che sorregge molte scelte per il sì: riforma perfettibile, ma almeno fatta. L’obiettivo del governo che riceve la fiducia di una sola Camera è raggiunto; il governo ha maggiori possibilità di far approvare i propri disegni di legge riducendo drasticamente il ricorso ai decreti legge; inoltre il potere legislativo delle regioni è ridimensionato e in più si aboliscono province

e Cnel (il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, una specie di “terza camera” rappresentativa di quella che ci siamo abituati a chiamare “società civile”, munito di iniziativa legislativa), oltre a ridimensionare il Senato che scende a 100 componenti. Quindi si colgono anche obiettivi di risparmio. Questi risultati fanno pagare volentieri un prezzo alla, diciamo così, poca raffinatezza del testo e a qualche sua contraddizione (come la modalità di elezione dei senatori).C’è chi invece pensa che, trattandosi della Costituzione, le modifiche vadano sorrette da un disegno organico, che invece manca, a prezzo della funzionalità delle istituzioni. Le nuove Camere appaiono infatti a rischio di inefficienza, e nient’affatto armoniche; il procedimento legislativo, che doveva uscirne semplificato, rimane ancora troppo bicamerale e a tratti confuso; l’attribuzione al Senato della competenza su materie

elencate, rischia di spostare all’interno del Parlamento la conflittualità che si è avuta tra Stato e regioni; anche gli interventi sulle regioni stesse appaiono frettolosi. A questi e altri argomenti, si aggiunge l’impatto dell’Italicum, la nuova legge elettorale, che – come noto – porta a ballottaggio le prime due liste, conferendo così la maggioranza assoluta a una risicata minoranza di elettori nell’unica Camera che dà la fiducia.Insomma, di carne al fuoco ce n’è per tutti i gusti. L’importante è non rinunciare alla propria libera e ragionata opinione e scelta. Solo così potremo serenamente accogliere l’esito delle urne.

Segui e partecipa al dibattito su cittanuova.it

politica lavoro economia

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Una manifestazione contraria alla riforma costituzionale.

SFIDE

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La democrazia delle emozioniLuigino Bruni è professore di

Economia politica all’Università

Lumsa di Roma ed editorialista di

Avvenire. È tra i riscopritori della

tradizione italiana dell’Economia

civile e coordinatore del progetto

Economia di Comunione. Insieme

a Stefano Zamagni, è promotore

e cofondatore della Scuola di

Economia Civile.

L’arte, la musica, la letteratura, le scienze

umane sono molto importanti per la felicità

delle persone, soprattutto per gli anziani e

per chi soffre di disturbi depressivi. Saper

suonare uno strumento, gustare una sonata

di Chopin, dipingere o farsi amare da un

dipinto di Paul Klee, frequentare musei,

scrivere e leggere poesia, aumentano il

benessere, riducono le spese sanitarie,

fanno vivere più a lungo. Sono questi i

risultati di un convegno all’università del

Wisconsin, al quale ho partecipato nel mese

di maggio.

Perché, allora, un po’ tutti i governi

occidentali stanno riducendo lo spazio

dell’educazione artistica, musicale e delle

humanities in tutte le scuole di ordine e

grado? Perché si continua a pensare che

sia più importante l’informatica di saper

suonare uno strumento, l’inglese più

della letteratura? Poi, magari, veniamo a

sapere che la Cina, che in passato aveva

combattuto il confucianesimo come il

primo male di un Paese feudale, ha da

poco reintrodotto il confucianesimo nelle

scuole; o che in Corea c’è una grande

crescita di educazione musicale nei bambini

e nei giovani. E la ragione è semplice:

pragmaticamente, questi popoli asiatici

stanno capendo che le persone senza

una formazione etica e spirituale sono

emotivamente molto fragili e non sono

abbastanza creative.

La creatività, infatti. Se ne parla dappertutto.

Insieme a “innovazione” è la parola d’ordine

del nostro capitalismo. Ma si dimentica,

drammaticamente, che la creatività di primo

livello, diversamente da quella applicativa

di secondo livello, non si impara a scuola,

tanto meno nelle scuole per “creativi” o

nelle business school. Fiorisce quando i

bambini e i giovani crescono circondati dalla

bellezza, dalla gratuità, dalla natura, immersi

in valori alti non usati a “scopo di lucro”. La

letteratura, l’arte e la poesia sono essenziali,

poi, per formare nei giovani le emozioni e i

sentimenti più profondi e grandi. Impariamo

a indignarci per il male e a volere il bene,

quando ci raccontano le prime favole nella

culla, e poi con la letteratura, la storia, le

poesie più belle. È con il codice dell’anima

che scriviamo la grammatica delle azioni

sociali più importanti.

Un popolo i cui bambini sono cresciuti

da tv e videogiochi, dove le emozioni più

grandi sono quelle di mostri a 4 teste o

delle storielle banalissime delle nuove

telenovele per pre-adolescenti, diventa

presto un popolo senza anima civile e

democratica, e può svegliarsi un giorno

dentro una tecnocrazia meritocratica che

governa un mondo senza democrazia.

Senza che nessuno l’abbia voluto né cercato,

cresciuto nella nostra distrazione, mentre

ci intrattenevamo a imparare l’inglese e

l’informatica. Cose utilissime, purché non

sostituiscano Beethoven e Leopardi.

Eschilo con la tragedia I persiani riusciva

a far commuovere gli ateniesi per il pianto

di donne che loro stessi avevano reso

vedove uccidendo in guerra i mariti. Senza

questa specifica educazione delle emozioni

non sappiamo piangere più per le vittime

nostre e degli altri. Un giorno passeremo

per il ghetto di Varsavia ascoltando musica

mentre rispondiamo a qualche messaggio

con lo smartphone, perché non avremo

più il repertorio emotivo per riuscire a

vedere i luoghi e la storia. Per “rivedere”

il ghetto e i suoi 450 mila ebrei deportati

e uccisi, c’è bisogno di un’anima coltivata,

di un’interiorità ancora capace di soffrire

per un mondo sbagliato, di entrare nella

sinagoga e piangere per la vergogna e per

il dolore per azioni fatte da sconosciuti ad

altri sconosciuti. Per sentire le ferite di tutta

l’umanità. Ma per vergognarsi e piangere

così, c’è bisogno dell’anima – niente di più,

niente di meno.

Nel passato erano la natura, con la sua

vita e le sue leggi eterne, la pietà popolare

degli anziani e delle mamme, la guerra dei

nonni e dei padri, a formare negli uomini

le emozioni giuste, che ci fecero capaci di

inventare la democrazia e i diritti. Oggi ci

resta quasi soltanto l’arte e la poesia: non

priviamo i nostri giovani di questo immenso

patrimonio che può ancora salvarli.

Tutti i regimi hanno cercato di eliminare la

formazione umanistica (o l’hanno ridotta

a propaganda). Anche l’impero capitalista

sta compiendo la stessa operazione, ma è

abilissimo a non farcene accorgercene. Sta

in questa distrazione di massa molta della

sua forza e la sua capacità di manipolare la

politica, l’educazione, le nostre coscienze.

oltre il mercato LUIGINO BRUNI

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CALABRIAle regioni

l’italia che rischia di sbriciolarsi

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a cura di Sara Fornaro

Il rapporto di Legambiente “Ecosistema rischio 2016” evidenzia l’estrema fragilità della nostra Penisola e indica le vie da seguire per evitare nuove tragedie

Era il 12 agosto del 2015 quando un violento nubifragio colpì la fascia Jonica cosentina. Ci furono allagamenti, smottamenti, lo sgombero di camping e villaggi

turistici e l’evacuazione di residenti e turisti. Tra Rossano Calabro e Corigliano i danni furono ingentissimi. Ma la Calabria non è l’unica regione ferita da

alluvioni, frane, crolli: dalla Sicilia alla Liguria, fino alle regioni alpine, in troppi comuni italiani ci sono zone pericolose. Secondo l’ultimo rapporto di Legambiente

di Miriam Iovino

29cittànuova n.7 | Luglio 2016

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30 cittànuova n.7 | Luglio 2016

le regioni

(Ecosistema rischio 2016), infatti, sono ben 7 milioni i cittadini che vivono o lavorano in zone a rischio dissesto idrogeologico. Per Legambiente, sarebbe necessario promuovere serie politiche di mitigazione del rischio in tutta l’Italia. Gli interventi sporadici non sono sufficienti, anche a causa della costruzione di interi quartieri in zone a rischio frana, a ridosso di alvei o di altre aree idrogeologicamente instabili. «La prevenzione – ha dichiarato il responsabile scientifico di Legambiente, Giorgio Zampetti – deve divenire la priorità per il nostro Paese». Per essere efficace, però, deve prevedere un approccio complessivo, «che sappia tenere insieme le politiche urbanistiche, una diversa pianificazione dell’uso del suolo, una crescente attenzione alla conoscenza delle zone a rischio, la realizzazione di interventi pianificati su scala di bacino, l’organizzazione dei sistemi locali di protezione civile e la crescita di consapevolezza da parte dei cittadini».

Lotta agli sprechi in città

Tante iniziative per recuperare

il cibo avanzato nelle scuole

e nei negozi di Milano di Silvano Gianti

lombardia

Un referendum per chiedere due Province autonome

Già presentate 901 firme

in Regione di Chiara Andreola

friuli venezia

giulia

Il Friuli Venezia Giulia come il Trentino Alto Adige, diviso in due Province autonome – Udine e Trieste? Potrebbe non essere fantapolitica, dato che il 30 maggio sono state depositate in Regione le 885 firme – su 500 richieste – necessarie a richiedere un referendum regionale allo scopo; insieme a un’altra proposta di referendum – che ha raccolto 901 firme – per l’abolizione delle Unioni territoriali intercomunali (Uti), le 18 entità che la Regione sta a rilento istituendo allo scopo di gestire congiuntamente tra Comuni alcuni aspetti dell’amministrazione del territorio una volta abolite le Province. Alla storica contrapposizione tra Udine e Trieste si è, infatti, aggiunta la contrarietà di molti Comuni a una riforma percepita come imposta dall’alto, e che a un Friuli diviso in una decina di entità contrapporrebbe un capoluogo forte come Trieste, che diverrebbe città metropolitana: tanto che 56 Comuni hanno promosso il ricorso al Tar, con sentenza attesa per inizio luglio – che, se “bocciasse” le Uti, spariglierebbe nuovamente le carte. Il comitato promotore dei referendum, presieduto dal sindaco di Rivignano-Teor (ironia della sorte, due Comuni che si sono fusi) Mario Anzil, inserisce in un unico disegno le due proposte: abolire le Uti per ritornare a due Province “forti” all’interno di una stessa Regione. «Con due Province autonome potremo vedere valorizzate la vocazione mitteleuropea di Trieste e la natura policentrica del Friuli – ha affermato Anzil –, con vantaggi anche per tutte le minoranze linguistiche». «Il Friuli potrebbe contare su un ente forte che rappresenta storia e identità. Stesso dicasi

per Trieste – ha affermato il presidente della Provincia di Udine Pietro Fontanini, che vedrà l’ente dissolversi alla fine del suo mandato –. In questo modo potrebbero anche venir superate le storiche contrapposizioni tra Udine e Trieste, rimanendo nella stessa Regione, mai sanate visto che al capoluogo viene sempre riservato un occhio di riguardo». La Giunta regionale dovrà pronunciarsi entro fine giugno sull’ammissibilità delle proposte, deliberando all’unanimità; altrimenti a pronunciarsi sarà il Consiglio regionale. Secondo i promotori, si potrebbe arrivare a referendum nella primavera del 2017: considerando quanto il tema sia caro soprattutto ai friulani, c’è da credere che l’affluenza sarebbe consistente.

«C’è cibo per tutti – aveva detto papa Francesco nel messaggio per l’Expo 2015 –, ma non tutti possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo e l’uso di alimenti per altri fini sono davanti ai nostri

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31cittànuova n.7 | Luglio 2016

occhi». Milano, dopo l’esposizione mondiale dello scorso anno, cerca di sprecare meno cibo e in città si sta lavorando affinché presto si passi dalla teoria alla pratica. Una delle iniziative sorte recentemente è MyFoody, la rete che mette in contatto i punti vendita con i consumatori, indirizzandoli verso una spesa intelligente. Si digita l’indirizzo Internet www.myfoody.it e, prima di fare la spesa, è possibile consultare le offerte più convenienti proposte dai rivenditori vicini, e creare una “wish list” (lista dei desideri) personalizzata. Ai rivenditori si permette di migliorare le performance vendendo prodotti deperibili: pubblicando le offerte, con un solo click è possibile raggiungere migliaia di potenziali clienti. Altra proposta è quella di “smart city”, l’antispreco nata dal protocollo firmato tra

Assolombarda Confindustria Milano Monza Brianza, Comune e dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano. Partendo dal dato che solo a Milano le famiglie sprecano ancora una media di 450 euro di cibo l’anno, divisi per il 35% di prodotti freschi, 19% di pane e 16% di frutta, Assolombarda si occuperà di stimolare politiche virtuose, sensibilizzando e incentivando le 150 aziende del suo Gruppo Alimentazione. Il Comune metterà a disposizione risorse umane e rapporti istituzionali, mentre il Politecnico sfrutterà il suo know-how sui modelli di gestione della catena di distribuzione per favorire l’intero processo. Una prima stima sui tassi di recupero dice che si potrebbe recuperare tra il 30 e il 50% del cibo che attualmente si spreca e Assolombarda predisporrà

un “bollino antisprechi” per le aziende meritevoli. L’iniziativa deve aspettare il via libera formale, all’interno della proposta di legge contro lo spreco alimentare a firma della deputata Pd Maria Chiara Gadda. Intanto, l’intesa tra Palazzo Marino e Milano Ristorazione ha già dato vita ai “salva merenda”, sacchetti per il recupero dei pasti non consumati a scuola: ne sono stati distribuiti 23 mila unità in un centinaio di istituti. «È bene precisare – dicono a Palazzo Marino – che noi ci rivolgiamo principalmente a chi produce, ma è chiaro che ci saranno iniziative rivolte ai giovani o, comunque, a tutti i cittadini».

Su myfoody.it trovi prodotti a prezzo scontato, prossimi alla scadenza, che rischiano di essere sprecati.

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SIRIApagine internazionali/A

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aleppo anno v

33cittànuova n.7 | Luglio 2016

Due terzi della città sono in mano ai ribelli e nessuno si chiede più se appartengono ad Al Nusra, una delle fazioni in campo, se siano affiliati dell’Esercito libero, se recano le effigi dello pseudo Stato islamico. Quando al sibilo segue il boato, tutti sanno che nuovo sangue scorrerà per le strade e che lacrime amare scorreranno sui volti di madri, padri, figli, bambini e anziani: quelle schegge trapasseranno senza pietà chiunque ne incroci la traiettoria. La parte di Aleppo, sotto le truppe governative, alloggia un milione e mezzo di civili e un colpo di mortaio che arriva fa sempre centro. L’altro giorno è toccato a 3 operai che stavano ristrutturando una casa. Il loro sangue imbrattava le pietre che avrebbero dovuto cementare. «Questa non è una guerra di religione. Continuiamo a gridarlo da mesi ai media, ai rappresentanti delle istituzioni internazionali – ci dice con voce rotta dalla disperazione uno dei rappresentanti della Caritas locale –. La Siria è terreno di scontro di Paesi che hanno altri interessi: la divisione del Medio Oriente in Stati confessionali, il passaggio di un oleodotto che dai Paesi arabi conduca al Mediterraneo senza attraversare il Golfo Persico sotto controllo iraniano, la contrarietà della Turchia a

Nella città simbolo del conflitto siriano si continua a bombardare e a morire. La guerra però non uccide la solidarietà e i gesti di pace

La strada che porta da Homs ad Aleppo è vigilata 24 ore al giorno dai militari ed è l’unica arteria che collega la città martoriata da 5 anni di bombardamenti al resto della Siria. È la via di fuga di centinaia di siriani. È il palcoscenico macabro su cui talvolta anche i kamikaze si lasciano esplodere immunizzati alle conseguenze dei loro massacri. Questo nastro macilento di asfalto è anche il varco di transito di auto, taxi, camion di viveri, il legame con un filo di vita per chi ha scelto di restare e per chi non ha i mezzi per fuggire. Ogni passaggio ai check point richiede un controllo rigoroso e una mancia generosa al sorvegliante di turno, ingaggiato dopo due settimane appena di addestramento: non sono militari ma uomini in grado di imbracciare a stento un fucile, per uno stipendio misero che provano ad arrotondare come possono. Nelle scorse settimane e anche ora mentre stiamo scrivendo, Aleppo continua a essere martoriata da una tempesta di bombe: ne sono cadute duemila in 10 giorni. Le sganciano i russi a fianco del governo di Assad, le lancia la contraerea dei jihadisti. Le lasciano cadere Francia, Arabia Saudita e i cosiddetti amici della Siria, sostenitori di fatto dell’opposizione armata. Solo in un giorno in uno dei quartieri cristiani sono morte ben 40 persone.

di Maddalena Maltese

Secondo il rapporto del

Syrian Centre for Policy

Research sono 470 mila i

morti in guerra, il doppio della

statistica Onu dello scorso

anno, mentre i feriti sono

stimati sul milione e 900 mila:

l’11,%5 della popolazione

è vittima del conflitto.

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concedere uno Stato ai curdi sparsi sul proprio territorio e dispersi tra Siria, Iraq, Iran». Le parole non lasciano spazio a repliche. «Si convocano ai tavoli di pace personaggi che di fatto non rappresentano il Paese, ma solo una fazione militare e usano il paravento religioso sconfessato dalla vita stessa del nostro popolo, che vive insieme, ha vissuto insieme senza mai chiedere a quale fede si appartenesse. La guerra vorrebbe cambiarci, dividerci, ma noi siamo siriani prima di qualsiasi religione. Ci hanno

instillato la diffidenza, ma questa strategia non condurrà a vittoria». Già, perché in questa città il podio da conquistare ogni giorno è quello della sopravvivenza strappata all’orrore. Rula ha scelto di accompagnare 3 dei suoi studenti sordomuti per gli esami finali in una scuola vicina al fronte, consapevole dell’altissimo rischio che correva. Ce l’hanno fatta. Le bombe sono arrivate dopo il loro passaggio. La quotidianità di Wahel, invece, un ex commerciante di tessili e materassi, è distribuire saponi e detergenti agli ospedali e ai centri di primo soccorso: il suo guadagno è di appena un dollaro al giorno. Prima della guerra Samir

era un docente di scienze politiche. Colpito da un cecchino e dopo una lotta di mesi tra la morte e la vita, ha creato una rete di servizi sanitari e di prestazioni mediche con cui ha raggiunto più di 4 mila persone. Le comunità cristiane e anche quella dei Focolari, armate della speranza del Vangelo, consolano, assistono, incoraggiano, creano progetti per sostenere chi resta. La normalità quotidiana è l’atto più eroico: andare a scuola, fare la spesa, registrare gli esami all’università, passeggiare in

un parco. «Non vogliamo lasciare il nostro Paese e sappiamo che chi lo ha fatto per salvare la famiglia sta soffrendo parimenti. Siamo grati per gli aiuti, per gli operatori che sfidano con noi il rischio, per i religiosi, le religiose e i ministri della Chiesa che ci sostengono. Tutto questo ci fa sentire meno soli». Commuove la gratitudine di questi testimoni di pace. «Non vorremmo però che il piano umanitario prendesse il sopravvento. Serve fermare la guerra. Siamo stanchi di aver paura», concludono. La tregua che ha accompagnato il Ramadan aprirà anche una via di pace per Aleppo?

34 cittànuova n.7 | Luglio 2016

pagine internazionali

CAPIRE LA GUERRA201115 marzo: scoppiano

proteste contro il governo del

presidente Bashar al-Assad

che decide di reprimere il

dissenso

Luglio: nasce l’Esercito

siriano libero che si oppone

al presidente. Non è chiaro

chi abbia rifornito di armi

l’opposizione

2012Gennaio: Al-Nusra, fazione

di al-Qaeda, interviene nel

conflitto

Luglio: Il nord di Aleppo è in

mano ai cosiddetti “ribelli”,

oppositori e mercenari armati

Dicembre: l’Onu lascia la Siria

2013Aprile: L’Isis entra in Siria e

Raqqa diventa capitale del

califfato

Agosto: Attacchi alla

popolazione civile con il gas

nervino. Viene imputato ad

Assad, ma dopo due anni si

scopre che la responsabilità è

dei ribelli

2014Febbraio: Falliscono i primi

negoziati di pace noti come

Ginevra2

Giugno: Assad viene rieletto

con l’80% dei consensi

Maggio: Il sito archeologico di

Palmira viene distrutto e usato

dall’Isis come teatro di brutali

decapitazioni

Settembre: La Russia

interviene con raid aerei

contro i terroristi schierati a

Homs

Novembre: La Francia

dopo gli attentati di Parigi

bombarda le postazioni

Isis in Siria senza mandato

internazionale

2016Febbraio: Fallisce la nuova

conferenza per la pace di

Monaco

SIRIA

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Che fine ha fatto la questione israelo-palestinese?

Pasquale Ferrara, diplomatico e

saggista, docente di diplomazia

e relazioni internazionali alla

Libera Università Internazionale

degli Studi Sociali Guido Carli

(Luiss) e all’Istituto Universitario

Sophia (Ius).

Nella grave crisi che coinvolge gran parte

del cosiddetto “Medio Oriente allargato”

sembrano altre le questioni di rilevanza

strategica e i conflitti importanti per la

comunità internazionale. Il pericolo di

disfacimento di Stati come l’Iraq e la Siria,

la dura restaurazione in corso in Egitto,

la fragilissima situazione in Libia e le

tensioni che attanagliano molti altri Paesi

(non ultima la contrapposizione tra Iran e

Arabia Saudita) sembrano aver eclissato la

centralità di una questione storica, che per

molti decenni ha rappresentato il punto di

divisione o di riallineamento della comunità

internazionale. In effetti nel disordine

generalizzato che colpisce l’intera regione,

la vicenda israelo-palestinese rischia di

trasformarsi in una sorta di “conflitto

congelato”, anche perché appare quasi

completamente ferma ogni seria e credibile

attività negoziale.

Non sorprende perciò che recentemente

la Francia abbia avvertito l’esigenza di

riaccendere i riflettori su questo snodo

cruciale per la pace in tutto il Medio Oriente

convocando a Parigi, agli inizi di giugno,

una conferenza internazionale, che ha

rappresentato una coraggiosa iniziativa

diplomatica per far ripartire il dialogo tra le

parti.

Alla conferenza hanno partecipato una

trentina di Paesi, incluse le grandi potenze,

ma non c’erano israeliani e palestinesi.

La conferenza si è svolta dunque “in

contumacia” delle parti in causa. Nel

merito, si lavora ancora sul “piano saudita”

del 2002, che prevedeva che i Paesi arabi

riconoscessero Israele in cambio del ritiro

dei Territori occupati dal 1967 e la creazione

di uno Stato palestinese indipendente.

Per il resto, la conferenza ha riaffermato

il principio dei “due popoli, due Stati”,

limitandosi a segnalare “l’allarme” per gli

atti di violenza che si sono registrati negli

ultimi mesi (specie a Gerusalemme) e per

gli insediamenti israeliani che continuano

a espandersi mettendo a rischio la stessa

ipotesi dei due Stati.

Lo status quo, dice la dichiarazione finale,

non è più sostenibile, ma in realtà dura

ormai da anni. Il contesto internazionale – a

parte l’Isis e la minaccia del terrorismo – non

è particolarmente propizio, con le prossime

elezioni americane che rimettono ogni

plausibile iniziativa al nuovo presidente e

con la scarsa presa dell’Europa, verso la

quale è nota la diffidenza di Netanyahu.

Ma ben venga il nuovo impulso francese,

che prospetta, in varie tappe, la ripresa del

difficile cammino negoziale per il 2017.

scenari mondiali PASQUALE FERRARA

Federica Mogherini, il ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir e il segretario di Stato degli Usa John Kerry alla conferenza di pace sul Medio Oriente.

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36 cittànuova n.7 | Luglio 2016

nelle zone industriali o nelle riserve statali senza alcuna autorizzazione. Al problema dell’occupazione abusiva del suolo si aggiunge una cattiva gestione dei rifiuti (solidi, liquidi e anche tossici) che reca un degrado ambientale inevitabile.I governi africani, bene o male, cercano soluzioni a questa urbanizzazione “selvaggia”. Se ne è parlato anche al Forum nazionale a Yaoundé, in Camerun, dove è emerso che non basta più costruire strade, edifici o parchi di attrazione per sviluppare uno Stato, bisogna invece creare una politica di gestione dello spazio urbano pensata sia per la popolazione di vecchia residenza che per i flussi di nuovi cittadini attirati dal miraggio di una vita migliore ma di fatto alle prese con disagi d’ordine culturale, politico-economico e funzionale. I governi non sono adeguatamente attrezzati.

Ossezia del Sud e Abkhazia, il conflitto in Nagorno-Karabakh, sovrappongono agli scontri locali una serie di interessi globali e regionali dove si combatte anzitutto per una tradizione culturale e non per un territorio. E questo rende la soluzione del problema ardua e lunga. L’Europa ha di fatto congelato la guerra del Donbass, nel silenzio quasi totale dei media, ma la gente invoca una soluzione definitiva specialmente per chi ha perso tutto e ora non ha né patria, né casa.

Secondo il rapporto Habitat delle Nazioni Unite, nel 2050 quando l’Africa toccherà i due miliardi d’abitanti, il 60% della sua popolazione risiederà nelle città. Lo spostamento delle popolazioni rurali e anche le migrazioni interne al continente stanno conoscendo uno sviluppo imperioso e, per certi versi, inaspettato, non supportato purtroppo da una pari crescita economica.Le metropoli africane mancano delle infrastrutture e dei mezzi sufficienti per procurare a tutti i suoi abitanti servizi di base come la casa, l’elettricità e l’acqua. E in generale anche la mobilità interna a questi grossi centri è seriamente compromessa e molto difficile. Si assiste poi al fenomeno di intere masse che occupano terreni accidentati, zone ricche d’acqua e a rischio frane su cui si costruiscono centri abitati di fortuna, più simili alle bidonville. Altri segmenti di popolazioni si stabiliscono

Le ultime notizie sul conflitto ucraino parlano di un milione e 800 mila sfollati e mostrano il fallimento degli accordi di Minsk: missili e armi proibite continuano a essere usate in maniera indiscriminata soprattutto nella città di Avdeevka, a pochi chilometri da Donetsk, la provincia che si è unilateralmente dichiarata indipendente dal resto del Paese. Gli ucraini sono confusi e molto divisi perché c’è chi vuole restare fedele al governo e chi vorrebbe rientrare nell’area di influenza russa. In realtà dietro questa indecisione si cela la scelta tra due sistemi di valori: l’indipendenza o il comunitarismo e in questo momento nessun sistema sembra rispondere a entrambe le esigenze. La guerra in Ucraina si aggiunge a tutte le altre che in maniera palese o discreta si combattono in quella parte di Europa orientale considerata ancora sotto l’influenza russa, nonostante la dichiarata autonomia. Il contendere Transnistria,

In Angola, nel 2025, quasi

un angolano su 3 vivrà nella

capitale Luanda, mentre in

Senegal e in Costa d’Avorio,

un abitante su 4 vivrà nelle

metropoli di Dakar e Abidjan.

AFRICA

Il boom dell’urbanizzazione ha un’altra facciadi ARMAND DJOUALEU

UCRAINA

La guerra che sta cambiando l’Europa di IVAN DANYLIUK

pagine internazionali FLASH DAL MONDO

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37cittànuova n.7 | Luglio 2016

giudiziarie e alcuni sono in carcere, mentre altri hanno dovuto lasciare il Paese. Sotto la presidenza di Morales, il Paese però è cresciuto del 4,9% annuo, grazie alla nazionalizzazione degli idrocarburi (gas e petrolio), di alcuni stabilimenti minerari, dell’acqua e delle telecomunicazioni che consentono allo Stato di ricevere l’82% dei ricavi, prima in mano a investitori stranieri. La Bolivia poi è il Paese latinoamericano con più alto tasso di rappresentanza femminile, mentre gli indigeni hanno ottenuto pieno riconoscimento dei loro diritti e di un sistema giudiziario conforme alle loro tradizioni. Drastica la riduzione della soglia di povertà passata dal 59% nel 2005 al 39%, mentre sono migliorati gli indicatori di salute, abitazione, educazione e infrastrutture. Critica rimane la condizione dei minatori, mentre gruppi di indigeni contestano l’autostrada che taglierebbe in due la maggiore area verde protetta del Paese. Interroga la repressione di alcuni cortei di diversamente abili e i costanti attacchi alla libertà di stampa. La democrazia boliviana e una coscienza civica attenta esigono oggi maggiore trasparenza, pluralità e partecipazione. Erano i cavalli di battaglia di Evo. Non può ignorarli se a chiederli è la sua gente.

di secchi, sacchetti di plastica, bottiglie e contenitori offre dello zucchero. Metà dei soldi ricavati dal riciclo l’imprenditore li ha usati per ristrutturare un centro di ritrovo con piscina, palestra e sale giochi e per riaprire una casa per ragazze madri, che attraverso dei corsi di cucito sono riuscite a trovare un’occupazione. Sui volantini della Gbe si legge: «Sii responsabile e aiutaci a consegnare la risorsa preziosa della natura alla prossima generazione».

Dopo 3 mandati consecutivi a capo del governo in Bolivia, Evo Morales sembra deciso a indire un referendum costituzionale che permetta la rielezione a tempo indefinito del capo di Stato e di governo. Lo richiedono a gran forza i movimenti sociali che lo hanno eletto. Il primo tentativo, dello scorso 21 febbraio, si è risolto con una sconfitta dal margine stretto, 48,7% favorevoli e 51,3% contrari. Il risultato, dapprima riconosciuto da Morales, è stato poi rifiutato poiché viziato da una “menzogna raccontata al popolo”. Il presidente si riferiva a un’inchiesta giornalistica che aveva scoperto l’assegnazione illecita di contratti miliardari a un’azienda cinese di cui la sua compagna era direttrice commerciale. Il caso è ancora avvolto nel mistero perché il giornale è stato costretto alla rettifica, ma la donna è stata arrestata ed è stata avviata un’indagine parlamentare. Anche in Bolivia, quindi, il populismo di sinistra pretende di essere l’unica soluzione allo sviluppo della nazione?In realtà il partito al governo (Movimento al socialismo) si sta rivelando incapace di formare quadri dirigenti validi e in molti hanno abbandonato la formazione scontenti per l’abiura del progetto socialista e per il poco rispetto delle regole. Esponenti dell’opposizione, poi, sono stati oggetto di persecuzioni

Da 10 anni lotta con una forma di leucemia che lo costringe a ripetuti esami clinici, eppure John Douglas Coutinho usa «ogni singolo respiro della sua vita» per preservare attraverso una piccola associazione, la Gbe, l’ambiente naturale del suo villaggio: Chandor, nello Stato di Goa. Partito con due tricicli e due dipendenti che raccoglievano plastiche porta a porta, oggi la Gbe conta oltre 100 impiegati di cui molti volontari. John incoraggia tutti gli abitanti a differenziare e in cambio

BOLIVIA

Il fascino del populismo seduce Evo Moralesdi SILVANO MALINI

INDIA

Zucchero in cambio di spazzaturadi RACHELE MARINI

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38 cittànuova n.7 | Luglio 2016

Pettegolezzo e maldicenza per vendicarsi

di qualcuno ritenuto “troppo fortunato”.

Eppure rodersi il fegato non serve a nulla.

Qualche consiglio per liberarsi di questa

trappola mentale

Tempo fa, un giovane di neppure 20 anni mi confessava con vergogna di essere invidioso dei suoi coetanei allegri e sicuri di sé che vedeva in tv nella pubblicità della Coca Cola. Gli facevo notare che perfino Shakespeare, nelle sue opere immortali, nel suo “teatro dell’invidia” mette in luce la drammaticità di questo sentimento presente in tutti e fra tutti. Ma cos’è l’invidia? È la consapevolezza, dolorosa o risentita, del vantaggio goduto da un altro, unita al desiderio di possedere lo stesso vantaggio. Può concentrarsi su persone specifiche, o verso l’altro sesso o i ricchi. È un’emozione impotente, paurosa, incessante, come un tormento senza fine: fa pensare a un topo in trappola che si rosicchia la zampa nel tentativo di liberarsi. Provoca calunnia, maldicenza, delazione, rivalità, discordia, odio e gelosia. Il termine deriva dal latino in-video che significa “guardare storto”. L’invidia non agisce, si affida al pettegolezzo, alla maldicenza, alla parolina sussurrata, alla scorrettezza che opera alle spalle, viscida e subdola come un serpente, nel tentativo di umiliare e danneggiare qualcuno. La soddisfazione ricavata risiede

esclusivamente nel lavoro della fantasia: immaginare questa umiliazione, godere del dolore provocato al prossimo. È un piacere strano, che non serve né al soggetto né alla vittima. Per giustificarsi, l’invidioso tira spesso in ballo la fortuna: «Lui/lei non merita il successo, non è bravo/a, è solo fortunato/a, mentre io ho una sfortuna cosmica». Attenti dunque a chi parla spesso di fortuna a proposito degli altri. Nessun invidioso confessa la sua vigliaccheria, che talvolta si “somatizza” provocando disturbi funzionali a carico di organi come fegato e cuore. Non a caso, infatti, si dice “rodersi il fegato”.Ma come nasce l’invidia? Da un rapporto disturbato con genitori molto esigenti, dalla rivalità fraterna, dalla competizione scolastica (spesso l’odio per il primo della classe si trascina tutta la vita), dalla cultura dei consumi: la pubblicità infatti ci spinge a valutare le cose in base al prestigio che offrono. «Non essere da meno del vicino» è diventato un sistema di vita. Le persone cronicamente invidiose sono quelle che si vedono come inadeguate, convinte della propria inferiorità e incapacità di ottenere certe cose. Giustificano il proprio risentimento inventando

spiegazioni irrazionali per vendicarsi: «Non è giusto; se ci fosse giustizia, avrei io quelle cose al posto suo; lui non se lo merita, è disonesto, incapace, cattivo». Questo uso continuo delle “lamentele” dà all’invidioso il senso illusorio di essere in rapporto con l’altro. Infatti l’invidioso ha un enorme desiderio di essere amato e riconosciuto. Tipica è l’esagerazione della sofferenza allo scopo di accrescere l’importanza personale e attirare l’attenzione. Contro l’invidia un rimedio semplice è il buon senso: posso sentirmi inferiore a 10 persone con

PSICOLOGIAfamiglia e società

invidiapassione triste

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un’automobile più bella della mia; ma ne trovo facilmente altre 10 con una macchina più brutta. Posso anche cercare un parametro diverso in cui io risulti superiore: tu hai una Maserati ma io ho una laurea. Un altro rimedio, migliore, è l’aperta dichiarazione del proprio stato d’animo, con espressioni cariche di un’invidia che non potrà più nuocere perché cosciente e sfogata. Rimedio efficace è anche inscenare un incontro immaginario con l’individuo invidiato: rimproveratelo, ditegli perché non merita la sua buona sorte; poi però interpretate il “suo”

ruolo, mettetevi nei suoi panni. L’esperienza clinica suggerisce che un altro rimedio valido contro l’invidia è lo sport, che ci costringe a confrontarci coi nostri

limiti e ad accettare l’eventuale sconfitta. Dal punto di vista religioso, l’invidia è forse il più grave dei peccati capitali, perché è una “passione triste”, un’accusa diretta alla giustizia di Dio. Invece, chi sta meglio può anche suscitare la nostra invidia, ma non cessa di essere un misero mortale come noi: e non c’è nulla di più assurdo di una miseria che invidia un’altra miseria. Infine, quando qualcuno lo conosciamo bene, difficilmente lo invidiamo, e ciò conferma l’acutezza di Buddha che già 2600 anni fa diceva: «L’ignoranza è la causa della sofferenza».

di Pasquale Ionata

39cittànuova n.7 | Luglio 2016

L’invidioso ha un enorme desiderio di essere amato e di attirare l’attenzione.

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fine la vita non sia che una missione. Ognuno di noi è mandato sulla Terra per contribuire in qualche maniera. La morte va vista come il raggiungimento della propria missione e quindi anche il trionfo: il nostro compito è stato fatto, quindi non ci aspetta che una meritata vittoria, cioè il paradiso. Non c’è motivo di smettere di credere in Dio. Ciò non guarisce dal rancore per la morte della persona cara. Ma è proprio con Dio che si riescono a vivere meglio le situazioni brutte che richiedono forza.

di malati come lui ed era quello che teneva su di morale tutti, che spiegava (essendo medico), che incoraggiava e scherzava. Era contento se gli dicevo che ero andata in qualche santuario a pregare per lui.Anche ai bambini si può parlare della morte con la fede in un aldilà dove tutti ci ritroveremo. Il mistero della morte, a cui da giovani non pensiamo, ci fa paura; siamo preoccupati di cosa succederà quando non ci saremo più. È consolante il pensiero di un Dio fatto uomo che l’ha vissuta come noi, ma è risorto. Anche la preghiera a Maria «adesso e nell’ora della nostra morte» mi sembra un’assicurazione della sua presenza in quel momento, per tutti!Ci sono però distacchi laceranti, abissi di dolore come la perdita di un figlio o del compagno di una vita. Solo chi ha vissuto un’esperienza simile può parlarne. Anche Gesù ha gridato il suo «perché mi hai abbandonato?». Di fronte a questi dolori cerco di stare vicino alle persone come posso e di fare silenzio. Solo Lui potrà riempire il vuoto e rischiarare la notte.

È difficile continuare a credere in un Dio buono dopo la morte di una persona cara. Passano giorni in cui si mettono da parte molti ideali, e si trascorrono momenti di dolore. È proprio questa situazione che dobbiamo evitare. Prima o poi bisogna rialzarsi e ricominciare. Perché non farlo subito? Non dobbiamo farci abbattere, la vita va avanti. Quello che ognuno di noi deve capire, anche se difficile, è che la morte fa parte della vita. Per questo non c’è motivo di prendersela con chi è più grande di noi. Prima o poi ogni cuore cesserà di battere, ma non bisogna vedere quel momento con tristezza e spavento. Quando ho pensieri brutti e ho paura, mi ripeto e mi convinco di quanto alla

L’annuncio della morte di qualcuno caro è un colpo che ti cambia la vita. Tutto diventa relativo e si cerca una risposta sul senso della vita. Da sempre queste risposte vengono dalla parte della nostra umanità che guarda oltre il visibile, dalle religioni che ci svelano la possibilità di una vita che continua anche dopo, come interiormente bramiamo. Gesù stesso ha affrontato questo limite dell’umanità in modo atroce, ma ne è uscito vincitore con la resurrezione. Allora in questi momenti la fede porta la consolazione che salva dalla disperazione.Ricordo, di fronte al corpo di mia mamma, che sentivo quanto lei fosse ancora accanto a me con un rapporto d’amore purificato, e che mi aveva preceduto in un altrove dove ci saremmo rincontrate.Poi la malattia di mio fratello. A dispetto delle previsioni dei medici, che parlavano di mesi, abbiamo passato diversi anni con quella terribile sentenza. Mio fratello ci ha lasciato la testimonianza di vivere il presente con gratitudine, perché insperato. Abbiamo scoperto che faceva parte di un gruppo Internet

Nonni e nipoti

Di fronte alla morte di una persona cara, come si può continuare a credere in Dio?MARINA GUIla nonna

MARCO D’ERCOLE il nipote“

famiglia e societàf i li i à DOMANDE & RISPOSTE

40 cittànuova n.7 | Luglio 2016

Una nonna e un nipote

(non della stessa famiglia!)

si confrontano su uno stesso

tema. Per imparare gli uni

dagli altri.

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Vita di coppia

MARIA E RAIMONDO SCOTTO

Mariti bambini

Tante volte sento parlare del ruolo della donna come accoglienza, custode della tenerezza. Questo non potrebbe favorire nei mariti un atteggiamento di pretesa, un desiderio di essere sempre accuditi come bambini?Concetta - Napoli

L’ultimo documento del papa Amoris laetitia è un vero compendio per la vita familiare; in esso c’è la risposta alle principali domande che oggi affliggono la vita

degli sposi. A proposito di quello che tu dici, si sottolinea (n.172-177) che nella famiglia ci sono figure diverse e complementari, che si aiutano scambiandosi i doni specifici di ciascuno. La relazione di coppia è come una danza perenne, nella quale nessuno è sottomesso all’altro, in un intreccio di amore e attenzione reciproca. Il marito che pretende solo di essere accudito, certamente farà passi di danza catastrofici, anche per i figli che sono i principali fruitori dell’armonia della coppia. Premesso questo, teniamo presente che la capacità di accoglienza, propria

della donna e collegata alla sua potenziale maternità, può facilitare molto la maturazione di uomini prigionieri di loro stessi e di ruoli prestabiliti. Ma attenzione! Accogliere non significa sostituirsi, addossarsi tutte le responsabilità familiari, quanto piuttosto dare fiducia, continuare a credere nell’altro, nel suo processo di maturazione. Un marito che si sente amato e non criticato, che sente la fiducia della donna nelle sue potenzialità nascoste, fa emergere più facilmente le proprie qualità: il coraggio, il sostegno della donna, l’apertura

della famiglia verso il mondo ricco di sfide. D’altra parte bisogna anche ammettere che a volte può accadere il contrario, e cioè che sia la donna a porsi in un atteggiamento di dipendenza nei riguardi del marito. Il segreto consiste nell’aiutarsi a crescere nella propria autonomia.

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Lo psicologo

EZIO ACETI

Alfabetizzazione genitoriale

Sono un nonno di 65 anni. Non capisco i miei nipoti, sembrano diversi dai bambini d’un tempo. Arnaldo - Taranto

Tante persone, trovandosi a educare i bambini e i ragazzi, oggi si sentono scoraggiate e faticano a comprenderli. Allora si arrabbiano, usano comportamenti rigidi pensando che le punizioni siano la medicina; oppure si demoralizzano

lamentandosi per l’incapacità dei bambini a rispettare le regole e ascoltare i grandi. Noi educatori e genitori siamo rimasti fermi, mentre i ragazzi sono virtuali, crescono con la rapidità della Rete, della globalizzazione e di Facebook. Siamo in un’emergenza educativa: l’analfabetismo genitoriale. Occorre tornare all’uomo, alla sua conoscenza. È arrivato il momento di non lasciare ai soliti specialisti l’osservazione dello sviluppo evolutivo del bambino, ma renderlo alla portata di tutti.Pensando a una qualsiasi coppia che decide di

mettere su famiglia, constatiamo che per la cura dei figli si basa quasi esclusivamente sul sentito dire, sul buon senso: «Sono la mamma e so cosa è bene per mio figlio».Il risultato è sotto gli occhi di tutti: maleducazione, carenze educative, problematiche evolutive. Il bambino è come una pianta che, se ben curata, soprattutto quando è piccola, cresce bene e si sviluppa. Ma quanti genitori conoscono i bambini? Diffondiamo la cultura della genitorialità, anzi, rendiamola obbligatoria. Allora lo stupore tornerà a farci compagnia

e scopriremo che i bambini non sono solo una fatica, ma la bellezza dell’innocenza che aiuta noi grandi a crescere.

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41cittànuova n.7 | Luglio 2016

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famiglia e società

I Gas (Gruppi di acquisto solidale) sono una

realtà consolidata su cui anche Città Nuova

ha scritto più volte. Il nostro Gas ha 10 anni:

si chiama “Familygas” perché vuol essere

prima di tutto un’esperienza di famiglia

tra famiglie (siamo circa 120), le più varie,

che dimostrano quanta “potenza” possano

sviluppare se in rete e aperte agli altri.

Abbiamo lavorato un po’ sulla “G” (gruppo) e

la “A” (acquisti, rispettosi di salute-ambiente,

responsabili, critici), poi la “S” (solidarietà)

ha cominciato a tormentarci… La crisi

economica ha colpito tutti: se noi facevamo

fatica, chissà le famiglie già prima più fragili.

Così, siamo partiti.

Collaborazione con Caritas: a ogni acquisto

ciascuno di noi liberamente può ordinare un

po’ di più (anziché una cassa di arance, una

cassa e un po’). Il sovrappiù è utilizzato da

volontari Caritas sia per “borse alimentari”

distribuite a famiglie in difficoltà, sia per la

mensa dei poveri. Questo permette di offrire

anche prodotti freschi: così chi è in difficoltà

non mangia solo pasta col tonno o biscotti

secchi.

Iniziativa con una cooperativa siciliana (rete

di Libera). Acquistiamo agrumi e verdure

e, di concerto con un’altra associazione

locale di immigrati (“Mondoqui”, fondata da

un nostro “gasista”), si attua un progetto:

due ragazzi – un italiano e un ghanese

richiedente asilo – sono retribuiti per gestire

gli ordini del Gas e la distribuzione degli

agrumi. Su proposta proprio del presidente

della cooperativa, che ci fa uno sconto

ulteriore sui prodotti, col quale “paghiamo”

il lavoro dei giovani. Creare lavoro ha

significato essere solidali.

Sostegno alle difficoltà famigliari: la rete

ormai creata è un formidabile mezzo

di condivisione: tutto circola, oggetti,

conoscenze, tempo, necessità. Un esempio:

richiesta di aiuto per mettere su casa per la

badante della mamma di una “gasista”: si

è trovato subito alloggio e l’occorrente per

arredarlo.

Famiglie in rete: una potenza solidale!

pianeta famiglia BARBARA E PAOLO ROVEA

Famiglie in rete: potenza solidale

Integrare la diversità

FEDERICO DE ROSA

La sfida

Cosa deve fare il fratello o la sorella di una persona autistica?Leonardo - Roma

Essere il fratello o la sorella di una persona autistica può essere un’esperienza molto ricca e bella di apertura alla relazione e alla condivisione di vita con una diversità umana enorme, sicuramente meravigliosa anche se faticosa.L’autismo in una famiglia forma attorno a sé dei

campioni amorevoli dell’inclusione umana più estrema.Ma questa enorme ricchezza, il saper superare l’inquietudine della diversità estrema e il farlo con sorprendente naturalezza, non è facile da raggiungere e come tutte le ricchezze interiori non è gratis.Il primo scoglio è accettare che non si potrà mai essere una famiglia come le altre. La presenza di un autistico, soprattutto nei primi anni di vita, può rendere difficili e faticose anche le situazioni più ordinarie. La difficoltà è

costante e la crisi sempre dietro l’angolo. Allora proprio la quotidianità può essere vissuta come un paradiso perduto e l’autismo divenire il muro del pianto di una disgrazia senza speranza.È invece necessario lasciare il desiderio di una vita normale e accettare la sfida di una vita in salita. Solo dopo si potranno sperimentare le pienezze negate a chi vive nella pianura dell’ordinarietà.Fatto questo fondamentale passo interiore, cosa può fare un fratello o sorella? Studiare un

po’ l’autismo per saper gestire le situazioni, ma soprattutto coinvolgere e condividere, far correre la dimensione del vivere insieme.

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tDOMANDE & RISPOSTE

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AZIONI NEL PAESEcantiere italia

cultura delle relazioni /un impegno comune

Antonio Conte, più che sulle “star”, ha puntato su un gioco di squadra affidato a calciatori non di primissimo piano ai quali è stata data fiducia. «Qui non ci sono prime e seconde linee. Ci sentiamo tutti partecipi e chiunque scenderà in campo darà il massimo», ha commentato Matteo Darmian, che pure non è stato sempre titolare. E ha aggiunto: «Sbagliare è umano, ma tutti sappiamo che c’è un compagno pronto ad aiutarti, che ti copre le spalle». Anche ai Mondiali dell’82 e del ’96 eravamo partiti da sfavoriti per poi vincere la Coppa del mondo. Le critiche possono abbattere ma anche stimolare; molto dipende da chi le recepisce. Diverse squadre hanno conseguito risultati importanti negli ultimi minuti di partita. Conviene sempre crederci fino alla fine, in ogni “campo” in cui ci troviamo a correre.Rosalba Poli e Andrea Goller

Mentre scriviamo è in corso la prima fase degli Europei di calcio. Non sappiamo come proseguirà il torneo, ma dai primi risultati abbiamo imparato qualcosa. L’Italia non sembrava un granché ma alla prima partita ha vinto con il Belgio, che partiva come favorito. Il segreto? Forse più d’uno.

Gli azzurri e l’Italia

in questo numero

Firenze, Pula (CA), Loppiano (FI)

Iniziative avviate sul territorio italiano in campo sociale, politico, economico ed ecclesiale.

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SOLIDARIETÀcantiere italia

Benvenuto al binario 2

viene accolta provvisoriamente presso una signora. Si presenta all’Help center per fare il corso di italiano e qui, sentendosi accolta e sicura di essere aiutata, ci confida di essere stata violentata da un gruppo di uomini. L’abbiamo accompagnata ai Servizi sanitari e messa in contatto con il Centro antiviolenza Artemisia che le ha dato un sostegno psicologico. Illusa poi da un uomo violento e tossicodipendente che l’ha sposata, consentendole così di ottenere il permesso di soggiorno, è tornata da noi e abbiamo continuato ad aiutarla».«La signora S., senza fissa dimora (comunitaria Ue) e conosciuta da

«Il signor T. è un uomo italiano di 66 anni, con 20 anni di vita per strada, dimorante abituale della stazione di Santa Maria Novella a Firenze. Dopo la perdita prima della madre e poi della casa e del lavoro, trova la strada dell’alcool e del vagabondaggio. Segnato nel fisico e nella psiche, ha vari incidenti e pestaggi, rischiando la morte 3 volte in un anno. Lo abbiamo trovato a un certo punto, dopo averlo cercato, in un ospedale, nel reparto di rianimazione. Abbiamo preso contatto con i servizi sociali e dopo la degenza verrà inserito in una Rsa».«La signora P., arrivata in Italia da sola, clandestina e senza un lavoro,

ALLA STAZIONE DI SANTA MARIA NOVELLA UN HELP CENTER

IN RISPOSTA ALLA MARGINALITÀ SOCIALE. QUANDO L’INTEGRAZIONE

FRA PUBBLICO E PRIVATO FUNZIONA

FIRENZE

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45cittànuova n.7 | Luglio 2016

«Non è che riusciamo a soddisfare tutti i bisogni concreti – mi dice –, non di rado molto più grandi di noi, ma almeno diamo alle persone fiducia e speranza, le aiutiamo a risollevarsi e ci ringraziano anche solo per essere state ascoltate». Lui lavora qui grazie a un progetto di inclusione sociale avviato col Comune e finanziato dalla Regione che ha rafforzato la collaborazione, che c’è sempre stata, col territorio, la città, i servizi sociali. Qui la sinergia con le altre associazioni, laiche e religiose, è di casa. «Ogni giorno ci sono riunioni per affrontare le situazioni da vari punti di vista», aggiunge Tiraboschi.Il Centro, tenuto dall’Acisjf (la prima associazione internazionale con uno statuto all’avanguardia per l’aiuto alle donne di ogni razza, religione, ceto sociale), esiste dal 1902, prima nella stazione vecchia di Firenze, poi, dal 1936 in questa, in un locale molto piccolo e successivamente, in accordo con Ferrovie dello Stato, in concessione gratuita nei locali attuali. Le aree di intervento vanno dall’ascolto e orientamento al territorio alla ricerca di lavoro con la stesura dei curriculum, all’erogazione di beni (pacchi alimentari, indumenti, titoli di viaggio). E ancora l’accompagnamento sanitario, il sostegno per l’aspetto burocratico, l’assistenza nei progetti di rimpatrio, uno sportello legale, la mediazione familiare. Qui si svolgono corsi di italiano, di inglese (ad esempio per le persone che lavorano negli alberghi), si tengono convegni per la prevenzione del rischio sociale rivolti alle scuole e ai giovani. E non di rado sono le stesse persone approdate all’Help center in stato di necessità a “insegnare” con la loro testimonianza. Come Pompeo, un passato da tossicodipendente e alcolista, una persona dalla ricca umanità, di cui racconteremo la storia in seguito.L’Help center è strettamente collegato con Casa Serena e Camere Fuligno, spazi dati in gestione da Asp

molti anni dal nostro Help center, è stata spesso accompagnata verso i servizi sanitari volontari del territorio. Essendo ammalata e non potendo accedere ai servizi sanitari perché senza una residenza, le è stata concessa presso la nostra Casa di accoglienza Casa Serena. Tramite il progetto “Oltre la strada”, poi, abbiamo avuto un contributo per farle l’assicurazione sanitaria. La signora oggi è inserita in una struttura di accoglienza e gode di una vita più serena».Una storia tira l’altra e ognuna dice da sé quello che succede al binario 2 della stazione Santa Maria Novella di Firenze, come mi raccontano alcuni operatori. Basta stare qualche ora nella sede dell’Help center e si entra in contatto con… tutti i colori dell’umanità. Quando arrivo, ci sono due sedicenni albanesi giunti da poco in Italia, poi si susseguono una signora rumena da 25 anni nel nostro Paese, una giovane congolese, un

italiano separato e senza più contatti con la famiglia di origine. Situazioni le più varie, denominatore comune la persona, da accogliere, ascoltare, aiutare. Romano Tiraboschi, direttore del Centro dallo scorso settembre, conosce tutti quelli che passano, a volte anche solo per un saluto e per sentirsi incoraggiati a non mollare.

L’Help center rientra nel

più ampio progetto per

l’emergenza sociale, in

atto in 16 stazioni italiane,

promosso e realizzato dal

Gruppo Ferrovie dello Stato

in collaborazione con gli enti

locali e il terzo settore e in

collegamento con l’Onds

(Osservatorio nazionale sul

disagio e la solidarietà nelle

stazioni italiane). Un progetto

significativo che nel 2015 ha

fruttato sul territorio nazionale

520 mila interventi.

di Aurora Nicosia

Due ospiti dell’Help center col direttore Romano Tiraboschi.

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Montedomini, poco distanti dalla stazione, che accolgono mamme con minori, donne sole in cerca di occupazione o con alle spalle problemi di dipendenza superati, famiglie provenienti da sfratto esecutivo.Nel 2015 il monte ore del volontariato attorno all’Help center è stato di 10.511 ore. Fra lavoratori e volontari attivi sono coinvolte 57 persone. Tutta gente motivata, come Giannetta, non più giovane, in prima fila da anni. O come Eugenia, prossima alla laurea in Economia dello sviluppo, che mi confida: «Quello che ho imparato qui in due anni e mezzo dalle persone è molto più di quello che ho studiato. È il motivo che mi fa rimanere. Sono persone speciali, ti ringraziano per la cosa più semplice, diventi un punto di riferimento, ti raccontano le cose più profonde. E rimani ore in più di quanto previsto a parlare».L’anima di tutto, comunque, è Adriana Grassi, presidente dell’Acisjf Firenze. Una “giovanissima” 80enne, con una lunga esperienza alle spalle, alla scuola di don Milani e don Ciotti. «La stazione è veramente impegnativa – mi racconta –, perché è il primo punto dove le persone arrivano. Se dai le risposte adeguate, indirizzi le giovani donne sulla buona strada, non

tanto in un giro assistenzialistico, ma avviandole al lavoro, all’autonomia, all’integrazione, dove noi siamo fratelli e sorelle che le accompagnano. Puntiamo molto anche sul lavoro di rete fra pubblico e privato. Se le persone trovano una risposta immediata, è un costo minore anche per la società». Le chiedo il segreto di una continuità che dura negli anni, in termini di persone e di risorse economiche. «Quando sono stata eletta – mi risponde –, l’assistente presente in stazione allora, mons. Renzo Forconi, un uomo di grande valore, mi ha detto: “Adriana, cerca di lavorare bene, il resto viene da solo”. Abbiamo puntato alla serietà dell’impegno, come ci richiede l’essere cristiani, perché pensiamo che il bene comune non sia solo un impegno dei politici. Ho la mia età, conosco il dolore e ne capisco il valore, ma non conosco né la noia né la fatica perché viene supportata dalla passione per quello che fai, dalla gioia di lavorare con gli altri. I fondi sono stati trovati sempre probabilmente per il riconoscimento al nostro lavoro per cui si riesce a fare progetti, a non camminare da soli. Tanti lavorano bene, forse la capacità di lavorare insieme premia».

46 cittànuova n.7 | Luglio 2016

cantiere italia

Il direttore del centro

fiorentino racconta che

c’è sempre meno gente

che dorme in stazione

perché c’è un servizio di

sorveglianza, quindi tanti

dormono per le strade.

Da qui la collaborazione

con l’associazione “Oltre

la strada” che monitora la

situazione e interviene nei

casi più precari. «Firenze è

una città che attira tutti, gente

che ha avuto disavventure

finanziarie, professionisti

caduti in disgrazia, oltre a tanti

immigrati».

SOLIDARIETÀ

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diversamente. Infatti si poté procedere alla sperimentazione e seguire l’iter per ottenere le certificazioni in Sardegna: «Grazie al progetto Fase 1 di Regione e Sardegna Ricerche – afferma Carmelo – l’unguento veniva sperimentato per divenire un dispositivo medico di classe 2B». Da quel momento ha preso il via una start-up con un centinaio di persone coinvolte. Per Carmelo Piras e soci oggi la soddisfazione è davvero grande: aver reso disponibile a tutti quel prodotto è come aver amplificato il desiderio di fare del bene che caratterizzava Chiarina Lecca. «In questo quadro – conclude Carmelo –, quando sono venuto a conoscenza dell’Economia di Comunione, mi è sembrato naturale aderire, perché ricercare il bene degli altri e perseguire il bene comune sono ciò che ha sempre animato i soci, lo staff e tutti i collaboratori di MVT, che rispecchia anche quello che mia nonna ha sempre fatto nella sua vita».Nonna Chiarina (scomparsa alcuni anni fa) ne sarebbe certamente orgogliosa.www.aipec.it

Sono trascorsi 25 anni da quando Carmelo Piras, allora studente, aveva assistito nella casa della nonna, Chiarina Lecca, a Soleminis (Cagliari), a una guarigione da ustioni su una bambina scottata dal latte bollente. Anche in quell’occasione l’odore tutt’altro che gradevole di quel composto a base di rami secchi e spinosi aveva pervaso la casa: appena però il composto era stato disteso sulla cute bruciata, la bambina aveva cessato di piangere. Da qui la richiesta di Carmelo alla nonna di far conoscere a tutti le proprietà di quell’unguento. Un progetto presentato agli zii medici, ai quali nonna Chiarina trasmise il segreto di quel composto. Prima di arrivare alla situazione odierna, con la nascita dell’azienda MVT Group a Pula (Ca), sono trascorsi diversi anni. Carmelo in giro per l’Italia per lavoro nel 2008 aveva incontrato un chirurgo plastico americano, proponendogli un campione di quell’unguento, che una volta testato negli Usa, avrebbe avuto la possibilità di essere sperimentato oltreoceano. Ma le cose andarono

L’unguento segretoUNA BAMBINA USTIONATA È STATA GUARITA COL COMPOSTO

DI NONNA CHIARINA. GRAZIE AL NIPOTE CARMELO PIRAS

QUEL COMPOSTO È DIVENUTO UN DISPOSITIVO MEDICO DI CLASSE 2B

PULA (CA)

AIPEC - ECONOMIA DI COMUNIONEcantiere italia di Roberto Comparetti

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48 cittànuova n.7 | Luglio 201648 cittànuova n.7 | Luglio 2016

FAMIGLIAcantiere italia

Coppia in crisi? Non mollare

scappa il più lontano possibile, mentre la fatina di una volta sembra avere la bacchetta magica solo per gestire il quotidiano. Si fa strada il pensiero «ho sbagliato tutto!». Inizia una discesa verso smarrimento e buio. Anche noi ci siamo imbattuti nel buio e nell’angoscia di tanti amici e ci siamo sentiti interpellati. Come Movimento Famiglie Nuove abbiamo iniziato da qualche anno un percorso che mette insieme coppie in grave crisi relazionale con altre coppie disponibili, alcune con specifiche competenze. Insieme una

L’amore non finisce mai! Può essere il titolo di un romanzo rosa o il ritornello di una canzone romantica. Forse è il desiderio di chi avvia o porta avanti una relazione affettiva di coppia. Ma come si fa ad avere un simile pensiero quando la metà dei nostri amici è separata e la società si è impegnata per ottenere il divorzio brevissimo? Nella vita di coppia i momenti di crisi a volte si manifestano presto, altre volte dopo aver superato prove difficili come malattie, difficoltà economiche o con i figli. Il cavaliere azzurro che ci ha rapito ben presto

UNA SETTIMANA SULLE COLLINE DELLA TOSCANA.

UN PERCORSO PSICOLOGICO, UMANO E SPIRITUALE.

UNA PROPOSTA PER PROVARE A RIPARTIRE

LOPPIANO (FI)

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ma subentra la consapevolezza che non sono enormi come apparivano; che si può lottare per superare la crisi, si può ritrovare la scintilla da cui era partito il progetto comune. Da 7 anni proponiamo questo “Per-corso di luce” a coppie che non si rassegnano a soccombere; quasi tutte hanno sperimentato che si può ricominciare. Ogni giorno. Ne vale la pena.

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settimana sulle colline della Toscana per approfondire e confrontarsi su conoscenza reciproca, differenza uomo donna, comunicazione, affettività, segnali di crisi, nuova accoglienza, dinamiche di rabbia e perdono. Coppie in difficoltà, alle volte nel buio più profondo, affiancate da altre disposte a camminare assieme, nello stesso buio. Senza giudicare e dandosi la mano in una strada difficile. Un percorso psicologico, umano, spirituale dentro sé stessi e dentro la coppia. Un percorso impegnativo, spesso doloroso, con approfondimenti, condivisione, apertura e tanti silenzi, per scoprire che altre coppie vivono momenti simili; ma anche con momenti di svago in cui si riesce a ridere insieme. Alla fine si può intravedere che lontano, nel buio, c’è ancora una luce fioca che può guidare il cammino verso nuovi orizzonti. Spesso le difficoltà non spariscono,

Tutti ci siamo imbattuti in

momenti di crisi, anche forti,

ma non ci siamo fermati

alla prima difficoltà. Albert

Einstein affermava: «La crisi

è la miglior cosa che possa

accadere» e «l’unico pericolo

della crisi è non voler lottare

per superarla».

di Marina e Gianni Vegliach

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50 cittànuova n.7 | Luglio 2016

TEMPO PER GLI ALTRIstorie

a un passo da te

Il fratello Marco ha interrotto ogni relazione

con loro. Non sanno il perché, ma ora che è in

fin di vita, Andrea e Carla, sposati da 34 anni,

tentano a ogni costo di riconciliarsi con lui

di Aurelio Molè / illustrazione di Valerio Spinelli

Il viaggio si snoda in religioso silenzio. Non è paura. È senso del sacro rispetto di fronte al mistero del dolore. Con Carla solo sguardi e scambi di pensieri non detti. Una comunicazione efficace e una pausa interminabile di fronte allo scivolare veloce della vita. Attimi in cui tutto è fermo, ghiacciato in un’istante, fossilizzato nel presente. Salgo con affanno le scale del condominio dove abita Marco. Ora ho paura. Paura di essere rifiutato, non compreso, rispedito al mittente per disprezzo del destinatario. L’anima è sottovuoto. Il corpo in allarme. Un tremore invade la mano, mentre cammino impacciato. Non si è solo una

carne sola, ma un’anima sola. Carla coglie il mio disagio e mi tranquillizza. «Siamo qui solo per amare, il resto non conta».Il suono del campanello è come un proiettile del film Matrix. Attraversa lo spazio al rallentatore, sembra non colpire mai il timpano di mia cognata che, esterrefatta, apre la porta. Lo sapeva, ma l’emozione la assale. Mio fratello appare nel corridoio. Un fantasma irriconoscibile.

Il suono stridulo delle rotaie, il cielo plumbeo, i gabbiani sgraziati, la risacca anonima. Un’assenza di luce superiore al buio del tunnel in cui penetra il treno in viaggio verso Genova. Il mare triste deborda nel finestrino e ben si accorda con il mio stato d’animo inquieto. L’incertezza massima provocata dalla telefonata che ancora rimbomba nella mia anima e la inonda di dubbi. «Marco sta morendo di cancro». Le lapidarie parole. Poi solo singhiozzi e lacrime di mia cognata che avevano chiuso la conversazione. Marco è più piccolo di me. Neanche sembriamo due fratelli. Io basso e robusto, lui alto e slanciato. Un abisso fisico accompagnato da una profonda separazione relazionale. Da più di un anno nessuna notizia, nessun rapporto. Un pozzo oscuro in una notte senza stelle dove non si scorge il fondo senza che abbia mai conosciuto i reali motivi. La decisione è stata repentina, condivisa, immediata: con mia moglie Carla prendiamo un treno Roma-Genova. È un azzardo, un rischio che solo l’amore che scaccia il timore mi fa correre. E se mio fratello non vorrà vedermi, me ne tornerò a Roma. Tentare è meglio che rinunciare.

”Con mia moglie Carla viaggio sul treno dei rimorsi per provare a colmare quella distanza, ben superiore ai 500 chilometri che mi separano da Genova.

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51cittànuova n.7 | Luglio 2016

Magro, scavato, provato. Deformato nei lineamenti. Impassibile come una statua di marmo, un burattino di latta, un’armatura medievale con un cavaliere oscuro. Mi guarda e non dice nulla. Resta immobile. Mi avvicino. Non aspetto e lo abbraccio. Non si scompone. Non assorbe il mio calore, rimane freddo. Avverto la sua rigidità. A poco a poco si scioglie e corrisponde

al mio abbraccio. Trascorrono secondi interminabili senza parole. Non c’è solo il mio amore, il nostro legame di sangue, passa anche l’amore di Carla, dei mie figli, della mia famiglia d’origine. È un fiume che riprende a scorrere, una rosa che fiorisce, un muro che si polverizza. Istanti eterni che trasformano ogni incomprensione passata, presente e futura in amore e perdono, finalmente reciproco.

«Un riconoscimento – scriveva nel 1988 il regista russo Andrej Tarkovskij in Scolpire il tempo – della propria dipendenza dagli altri uomini, una confessione, un atto inconsapevole, ma che rispecchia l’autentico significato della vita: l’amore e il sacrificio. Perché nessuno vuol comprendere che l’amore può essere soltanto reciproco?».Un gesto, in apparenza così semplice, che consuma tutta

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TEMPO PER GLI ALTRIstorie

la nostra umanità. Non c’erano più domande da formulare, né risposte da fornire, né chiarimenti da fare. Si sedimentava solo il nostro desiderio di amare e di essere amati. Abbiamo trascorso tutto il tempo del fine settimana una famiglia accanto all’altra, senza mai lasciarci, come se il tempo si fosse cristallizzato nel per sempre, per recupere i passi perduti e riprendere il cammino insieme. Ogni fine settimana successivo siamo tornati a Genova con i nostri figli, un maschio e due femmine, che si sono prodigati senza fine per le loro 4 cuginette dai 4 ai 13 anni. Non lasciavamo mai Marco da solo, neanche la notte. Quando voleva gli facevo la barba, Carla gli lavava i piedi. L’ultima volta che ci siamo visti

Marco ci ha urlato tutto il suo dolore, non fisico, ma dell’anima. Le domande di tutti, sulla vita, sulla morte, sui grandi perché. Perché morire così giovane, perché lasciare 4 figlie piccole che non vedrà mai crescere? Non avevamo risposte da dare ma potevamo contenere in noi il suo dolore per non farlo esplodere, per non naufragare in un mare senza orizzonti di senso. Essere con lui, con il suo patire, per fare in modo che il grido di abbandono di Gesù sulla croce non fosse vano. Ti vogliamo bene, le uniche parole che Carla è riuscita a dire. Anch’io, ci ha risposto. È stato il suo saluto, il suo commiato, il suo testamento. Momenti in cui si assapora la vita con pienezza. In cui gli opposti coincidono. Sperimentiamo come l’amore

infinito possa convivere, nello stesso istante, con un dolore infinto. Anche se Marco non c’è più, la nostra storia di amore reciproco continua. Ci affida le sue bambine che, periodicamente, quando possiamo, andiamo a trovare. La vita non è questione solo economica, ma si alimenta di relazioni che sanano le ferite. Ne avvertiamo la mancanza, ma non l’assenza. È vivo Marco, non sappiamo dove, come, ma è vivo. A un passo da me.

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53cittànuova n.7 | Luglio 2016

Stavo svolgendo un tema sull’importanza e la necessità della solidarietà fraterna. L’ambiente che ospitava la serie di conferenze è al centro di Bratislava, in Slovacchia, ed è aperto al pubblico. Mentre parlavo, eravamo al cuore dell’argomento, entrò un uomo sulla quarantina, che con fare discreto si sedette nelle ultime file, uno dei posti liberi accanto ad altri dove qualcuno aveva lasciato il suo cappotto. Poi mi accorsi che quell’uomo, preso il cellulare, si allontanò improvvisamente dalla sala. A fine conferenza, mentre ci salutavamo, uno dei presenti fece notare che erano spariti i suoi documenti e il portafoglio.

«Chi non parla inglese è un povero diavolo». Meglio dirlo in inglese: «Chi non parla inglese è out». Vedete come si fa prima? Out, semplicemente. Chi parla inglese, invece, è in; e tutti sanno quanto sia importante essere in. Però bisogna stare attenti perché basta indossare una maglietta al posto di una T-shirt, che ci si trova subito out, e per di più si rischia di

Momento di sgomento e di profondo turbamento. Non ebbi dubbi: quel tipo aveva fatto il “suo lavoro”. La cosa peggiore era che quel fatto sembrava cancellasse ogni buon proposito maturato nella serata. In un cerchio di gente ancora rimasta accanto al defraudato abbiamo continuato a discutere se si può accogliere ed essere solidali con uno che ti fa del male. Ho visto quanto fosse difficile. Avevo ben visto in faccia quell’uomo. Il giorno dopo, d’accordo con i gestori del centro, mi sono appostato in attesa. Infatti non molto tempo passò che entrò l’atteso ospite con un comportamento discreto. Vestito con abiti casual, con gusto. Lo raggiunsi subito chiedendogli cosa desiderasse. Ha riconosciuto subito che ero io che la sera precedente avevo tenuto la conferenza. Tentò di fuggire, ma le porte erano chiuse e già qualcun altro stava aiutandomi a trattenerlo. Ci sedemmo in una stanza. Il tipo scoppiò in pianto. Spiegò subito che aveva bisogno di soldi per comprare la dose necessaria di droga. Ci confidò che aveva messo i documenti nella buca delle lettere di un

palazzo vicino, ma dei soldi non sapeva come restituirli. Aveva un braccialetto e un anello d’oro. Ce li consegnò sperando che fossero sufficienti a pagare il danno. «Sono l’unico ricordo di mia madre che con la mia condotta ho fatto morire di crepacuore».La persona a cui il tipo aveva rubato documenti e soldi è un medico. Gli telefonai per dirgli dove cercare i documenti e gli parlai del “ladro”. Il medico venne di corsa e si interessò all’uomo dicendogli che avrebbe potuto aiutarlo, se voleva, a uscire dalla dipendenza. In quella stanza l’aria divenne incandescente. Ho visto un volto passare dal terrore alla speranza. Il braccialetto e l’anello gli furono restituiti perché restasse viva la “presenza” della madre.

il ladro e il medico

Un furto inaspettato

durante una conferenza.

L’appostamento e il finale

a sorpresa

di Tanino Minuta

do you speak italian?

Ci vuole una grande

pazienza per sopportare

l’invasione dell’inglese

nella nostra lingua.

Soprattutto a una

certa età

di Vittorio Sedini

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cittànuova n.7 | Luglio 201654

TEMPO PER GLI ALTRIstorie

non essere trendy.Soltanto alcuni personaggi insignificanti e un po’ in là con gli anni (come me) insistono a parlare italiano. Le uniche parole inglesi che usano sono: sport e uìchend, e il fatto che si scriva weekend, non li riguarda affatto.Non riesco a dar torto a questi cari vecchietti che il pub lo chiamano osteria; quanto a me, una pausa caffé mi sembra più riposante di un coffee break. Mi evoca onomatopeicamente un disastro, un crollo, uno scontro automobilistico. Ci ho messo parecchio tempo (chiedendo cautamente qua e là) per riuscire a capire che cos’è un happy hour, ma ancora, per essere in, devo riuscire a scoprire cosa diavolo è un outlet. Insomma, si va a imbarbarire così il dolce linguaggio del “bel Paese dove il sì suona”. Bene: contenti voi, contenti tutti... anzi, no, perché se non si capisce quando qualcuno ci parla, si diventa nervosi, scorbutici e indisponenti, si tratta male il prossimo e si mandano tutti sulla forca. Penso che si dica on the gallows (prego qualche redattore abbastanza in di dare una controllatina). Non si dice di fare come i francesi, che chiamano ordinateur un coso che tutto il mondo chiama computer, ma c’è un limite a tutto! Anche gli inglesi e gli americani per dire pizza dicono pizza e per dire spaghetti o mandolino dicono spaghetti e mandolino (a proposito: il mandolino non è mica tanto trendy). Che mondo! Ma il colmo – che mi ha fatto venire l’orticaria – è stato leggere un annuncio che diceva: “Reading di poeti italiani del ’900”. No!!! Questa non può essere perdonata! A meno che non mi si garantisca di aver assistito a Londra a una “Lettura of english poets of ’900”. E intanto, mentre le signore, invece di fare la spesa,

fanno lo shopping, i mariti vanno al parco a fare jogging per fare andar giù la pancetta e speriamo che non la chiamino bacon! , mi sono lasciato prendere la mano!

l’incidente

Mio padre era ferito,

ma in buone mani.

Nessuno si occupava

dell’investitore in stato

confusionale

di Lina Pascarella Vigliotti

Un pomeriggio, mentre ero intenta ai lavori domestici (sono mamma di 3 bambini di 10, 8 e 6 anni), mi arriva una telefonata di mia madre che, in modo concitato, mi chiede di correre all’incrocio vicino casa mia perché era stata avvisata che mio padre aveva avuto un bruttissimo incidente d’auto ed era leggermente ferito.Ho lasciato tutto e sono andata di corsa all’incrocio a meno di cento metri da casa mia dove ho visto l’auto di mio padre in condizioni pietose e mio padre seduto su una sedia attorniato da tutto il vicinato che, conoscendolo, lo stava assistendo e si sincerava che stesse bene. Ho tirato un sospiro di sollievo quando mi ha assicurato che lo spavento è stato grandissimo, ma nessun danno fisico.Mi sono guardata in giro e ho visto, dall’altra parte dell’incrocio, completamente da solo, un signore che mostrava almeno 10 anni più di mio padre, immobile,

come fosse inebetito. Una statua di pietra senza alcuna espressione. Ho chiesto alla signora al mio fianco se lo conoscesse e lei mi ha detto che era l’investitore, proveniente dall’altra estremità di Santa Maria a Vico, il paese in provincia di Caserta, dove abito.Mi sono ricordata della frase del Vangelo che dice: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Ho dimenticato che era l’uomo che aveva rischiato di ammazzare mio padre, gli sono andato accanto e gli ho chiesto come si sentisse, ma lui non ha dato alcun cenno di aver percepito le mie parole. Ho chiesto a una delle vicine una sedia e un bicchier d’acqua, l’ho aiutato e sedersi e gli ho parlato dolcemente. Pian piano lo stato catatonico l’ha abbandonato, mi ha guardato e mi ha ringraziato. Visto che mio padre era accudito come meglio non si poteva chiedere e che nel frattempo erano arrivati altri familiari, sono rimasta a tener compagnia al signore che aveva provocato l’incidente, chiedendogli se volesse essere accompagnato in ospedale, finché non è arrivato un conoscente comune che, dopo aver sbrigato le pratiche per l’assicurazione, lo ha messo in auto e l’ha portato a casa.Ho sentito dentro di me un senso di leggerezza quando mi sono accorta di non aver provato alcun senso di rancore e di aver offerto un po’ di ristoro a quel mio fratello che, sebbene molto più anziano di me era, in quel momento, un mio fratello più piccolo.

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Sinodo è nome della ChiesaPiero Coda, teologo, è preside

dell’Istituto Universitario Sophia

a Loppiano (Figline-Incisa

Valdarno). Tra le sue tante opere

ricordiamo “Dalla Trinità” (Città

Nuova).

Nella Dichiarazione congiunta fatta da

papa Francesco e dal patriarca ecumenico

Bartolomeo a Gerusalemme, il 25 maggio

2014, si legge: «La ricerca comune non ci

allontana dalla verità, piuttosto, attraverso

uno scambio di doni, ci condurrà, sotto

la guida dello Spirito, a tutta la verità». È

un’affermazione che sottolinea la necessità

di abitare con consapevolezza, apertura

e accettazione del rischio che sempre

comporta l’ascolto dello Spirito Santo per

essere fedeli al Vangelo di Gesù, quello

specifico “tra” che connota la vita e la

missione della Chiesa.

Si tratta del “tra” in cui s’incarna, in fedeltà

alla Parola di Gesù, il disegno di Dio sulla

Chiesa nella storia: il “tra” tra l’ideale

proposto da Gesù e la sua concretizzazione

di tempo in tempo e, in correlazione a

ciò, il “tra” che si dischiude nel rapporto

tra coloro che dia-logano nell’esercizio

del discernimento comunitario in cui si

attualizzano il linguaggio e il significato di

verità, di libertà e di giustizia del Vangelo.

Di qui si può intuire la grande e inedita

portata della riforma cui papa Francesco,

nella scia del Vaticano II, invita oggi la Chiesa

cattolica e in cui di fatto la sta introducendo.

Un contesto quanto mai propizio – perché

all’evidenza provvidenziale – in cui prende

risalto e può trovare fertile terreno

d’illuminazione e d’incarnazione il carisma

dell’unità che – come intuì il futuro Paolo VI

nel primo colloquio avuto con Chiara Lubich –

mostra d’avere in sé le risorse per riplasmare

da cima a fondo l’esistenza cristiana nello

spirito più genuino del Vangelo.

In sintesi, e con una buona dose di

semplificazione, mi pare d’intuire nel

magistero delle parole, dei gesti e delle

decisioni di papa Francesco almeno 3 grandi

direttrici di marcia in questa direzione. Le

esprimo con 3 formule: sinodo è nome

della Chiesa; la verità si fa nella carità; il

dialogo è la via dell’evangelizzazione. Una

parola, questa volta, sulla prima di esse, per

soffermarmi poi, nei prossimi appuntamenti

di “Se posso”, sulle due altre.

La prima formula riprende un detto di

Giovanni Crisostomo, un Padre della

Chiesa a cavallo tra il IV e V secolo, che

papa Francesco ha richiamato nel discorso

del 17 ottobre 2015 in occasione del 50°

anniversario dell’istituzione del Sinodo dei

vescovi, una delle novità più rilevanti, sul

livello del governo della Chiesa universale,

introdotta da Paolo VI per dare attuazione

al Vaticano II. Essa afferma una verità

fondamentale: e cioè – per dirla ancora col

Crisostomo – che «Chiesa e sinodo sono

sinonimi» perché la Chiesa è «il camminare

insieme» di tutto il Popolo di Dio, nella

varietà dei suoi membri, delle sue vocazioni,

dei suoi carismi e dei suoi ministeri, sui

sentieri della storia a servizio dei fratelli e

incontro a Gesù risorto che viene.

E ciò significa (cito papa Francesco):

che nella Chiesa, «come in una piramide

capovolta, il vertice si trova al di sotto della

base»; che l’«unica autorità» è quella di Gesù

ed è «l’autorità del servizio»; che la via della

Chiesa è l’ascolto – «ascolto di Dio, fino a

sentire con Lui il grido del Popolo, ascolto

del Popolo, fino a respirarvi la volontà a cui

Dio chiama».

In qualche modo, l’Evangelii Gaudium è il

manifesto programmatico di questa prima

direttrice di marcia della riforma: riscoprire e

dare attuazione a una Chiesa tutta sinodale

per “uscire” a testimoniare e annunciare il

Vangelo di Gesù.

se posso PIERO CODA

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ARTEspiritualità

«Questo è il tempo di lasciarsi toccare il cuore», invita papa Francesco nell’anno giubilare. E un’immersione nel mondo dipinto da Michel Pochet nella mostra “Dio Misericordia” è un buon modo per farlo. Dialogo tra generazioni, lavoro insieme ad altri artisti, contaminazione con la città sono alcuni degli ingredienti che caratterizzano il percorso della mostra. Ne parliamo con la curatrice, Tatiana Falsini.

Il vostro lavoro è cominciato a maggio 2015 subito dopo l’annuncio dell’indizione dell’Anno della misericordia,

dio piange con noiLe tele di Michel Pochet in mostra a Latina, Firenze, Brescia, Trieste, Augsburg e prossimamente a Salisburgo. Opera centrale: il volto di Dio Misericordia

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Dio piange con noi.

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e ha coinvolto molte persone. Una presenza originale è senza dubbio quella dei bambini…Prima della mostra di settembre a Latina, abbiamo realizzato in alcune scuole elementari 3 laboratori con la scultrice Nicoletta Piazza, l’artista del vetro Antonino Casarin, il pittore Riccardo Chirici. Ne è scaturita una profonda esperienza di comunione fra gli artisti – cosa inusuale – e con i bambini, all’insegna della bellezza. I bambini hanno fatto un percorso sulle grandi tele di Michel Pochet a soggetto religioso, estrapolando i 4 elementi iconografici ricorrenti: il grande volto, i pesci, il cuore e le lacrime. Sentiamo che solo il bambino ha uno sguardo, come dice Kandinski, «non assuefatto», «riesce a percepire la risonanza interiore dell’oggetto» e può essere uno strumento per entrare direttamente nell’opera. Così la mostra di Latina era organizzata in modo tale che il visitatore dovesse prima ammirare le 74 formelle realizzate dai bambini e le loro frasi, arrivando così preparato nella sala dove erano esposte le grandi tele. Michel Pochet, dichiara lo storico dell’arte fiorentino d’adozione Timothy Verdon, «ha imparato a permettere allo spirito del fanciullo di guidare il suo pensiero e la sua mano nell’espressione della gioia che noi sentiamo, nonostante le lacrime, in queste opere».

Misericordia è il nome stesso di Dio, ricordano i papi. Prima Benedetto, adesso Francesco. Come si riflette questo mistero nell’opera di Pochet? Nella mostra “Dio Misericordia”, l’opera principale è stata composta in occasione del Giubileo della misericordia, quando Pochet si è chiesto quale immagine potesse rappresentare

la misericordia anche per una persona non particolarmente religiosa. Il grande volto è un elemento ricorrente nella sua opera: all’interno degli occhi ha altri due volti, simbolo della Trinità: Dio che guarda con lo sguardo del Figlio. Pensando al

tema della misericordia di Dio, Pochet ha colto dalle parole del papa come essa non sia una virtù, ma Dio stesso; e aggiungendo l’elemento delle lacrime ha capito che questa immagine poteva rappresentarne pienamente il significato, perché è Dio che piange con noi, e questo è il suo modo di curarci: Dio misericordia è quel Dio che piange con noi. E cura le ferite del dolore, del peccato, della disperazione di cui la vita è costellata, non ponendosi a giudice, ma avvicinandosi a noi, al punto di piangere. È un archetipo, un’immagine nuova che non c’è mai stata nell’iconografia religiosa. Una conferma è arrivata a Michel Pochet da papa Francesco, quando nell’omelia di Santa Marta del 29 ottobre ha affermato che “Dio piange” e “in quelle lacrime” c’è tutto il suo amore. Pochi giorni prima il papa aveva ricevuto il catalogo delle

di Maria Chiara De Lorenzo

57cittànuova n.7 | Luglio 2016

sue opere e gli aveva risposto con una lettera personale.

Un dietro le quinte delle opere di Pochet? Dietro ogni dipinto c’è una sua esperienza. Ma nel momento in cui conclude un’opera e se ne

Il Samaritano.

Il Trittico della Misericordia.

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allontana si rende conto che essa ha un significato più profondo. E anche nel rapporto con gli altri, scopre un nuovo punto di vista. In ogni mostra ci sono altre tele a soggetto religioso che appartengono anche ad anni passati, ma fanno tutte parte di un ciclo all’interno dell’opera di Pochet. A Brescia, oltre la mostra, nella città erano posizionate 19 opere nei luoghi-simbolo della misericordia (l’ospedale, il carcere, la Caritas…). Le tele su cui dipinge sono veri e propri lenzuoli, che hanno fatto parte di un corredo e raccontano già di per sé una storia preziosa di famiglie; la scelta di questo materiale povero è un segno del suo amore per l’umanità.

«Nelle parabole dedicate alla misericordia, Gesù rivela la natura di Dio come quella di un Padre che non si dà mai per vinto fino a quando non ha dissolto il peccato e vinto il rifiuto, con la compassione e la misericordia», scrive Francesco nella Misericordiae Vultus. Anche nelle tele di Pochet è presente la narrazione di queste parabole... Il ciclo delle Parabole della Misericordia rappresenta la misura dell’amore del Padre, espressa con l’originalità della sua arte. Per Il Samaritano, Pochet sceglie un personaggio scomodo nella nostra società contemporanea. L’Adultera è dipinta dentro un cuore che rappresenta la misericordia, composta da tutte le pietre che nessuno ha avuto il coraggio di gettare. Nel Bel Pastore ritrae un pastore bellissimo, che cammina con la pecora ritrovata: è felice e ballerà tutta la notte. Ne Il Ritorno del Figliol Prodigo la misericordia nasce dal buio illuminato da una luce che mette in movimento la

bellezza nascosta. Nel Trittico della Misericordia troviamo invece un concentrato della contemporaneità: Veronica, la Shoah, Aylan, raccontano dei drammi di oggi, accomunati ancora una volta dal grande volto

di Dio misericordia, la Trinità che piange. Piange davanti alla montagna dolorosissima di corpi accatastati uno sull’altro nei campi di sterminio, davanti al bimbo morto in mare nell’esodo dal suo Paese, davanti alla donna che mostra un panno su cui si riconosce un volto. Non è il volto di Gesù, ma quello di un uomo rinchiuso fra le sbarre, un uomo qualunque.

A Castel Gandolfo, nella Casa sul Lago

(via Pio XI, 37) è allestita una mostra

permanente che è possibile visitare per

tutto l’anno giubilare.

spiritualità

MICHEL POCHET, classe 1940, è

nato in Provenza (Francia) e scopre

la sua vocazione pittorica già all’età

di 13 anni. A 19 anni incontra Chiara

Lubich, un evento determinante per

la sua arte, che si caratterizza per il

profondo legame fra ricerca artistica

ed esperienza spirituale: una scelta

di vita radicale all’insegna della fonte

primaria della Bellezza, Dio.

“DIO MISERICORDIA”Il grande volto del padre che ha negli occhi lo sguardo del figlio cui

è legato da profondo amore, è icona della Trinità. Gli occhi grandi,

profondi richiamano la forma di un pesce, indicando la spiritualità insita

nell’immagine, che era usata come simbolo di riconoscimento tra i

cristiani al tempo delle persecuzioni. Da essi scendono copiose lacrime

che sembrano raccogliere tutto il buio, il dolore, i ricordi, le gioie, la

disperazione; tutto consumando e trasformando in amore: Dio ci cura

piangendo con noi.

ARTE

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È ormai da più di 70 anni che si vive la Parola

di vita. Questo foglietto arriva tra le nostre

mani. Ne leggiamo il commento, ma ciò che

vorremmo rimanesse è la frase proposta,

una parola della Scrittura, spesso di Gesù.

La “Parola di vita” non è una semplice

meditazione, ma in essa è Gesù che ci parla,

ci invita a vivere, portandoci sempre ad

amare, a fare della nostra vita un dono.

È una “invenzione” di Chiara Lubich, che

così ne ha raccontato l’origine: «Avevo fame

di verità, di qui lo studio della filosofia. Anzi

di più: come molti altri giovani cercavo la

verità e credevo di trovarla nello studio. Ma

ecco una delle grandi idee dei primi giorni

dell’inizio del Movimento, subito comunicata

alle mie compagne: “A che cercare la verità

quand’essa vive incarnata in Gesù, uomo-

Dio? Se la verità ci attrae, lasciamo tutto,

cerchiamo Lui e seguiamo Lui”. Così abbiamo

fatto».

Presero in mano il Vangelo e iniziarono a

leggerlo parola per parola. Lo trovarono tutto

nuovo. «Ogni parola di Gesù era un fascio di

luce incandescente: tutto divino! (…) Le sue

parole sono uniche, eterne (…), affascinanti,

scritte con divina scultoreità, (…) erano parole

di vita, da tradursi in vita, parole universali

nello spazio e nel tempo». Le scoprirono non

ferme al passato, non un semplice ricordo,

ma parole che Egli continuava a rivolgere a

noi, come a ciascun uomo di ogni tempo e

latitudine 1.

Gesù però è veramente il nostro Maestro?

Siamo attorniati da tante proposte di vita, da

tanti maestri di pensiero, alcuni aberranti,

che inducono addirittura alla violenza; altri

invece sono retti e illuminati. Eppure le

parole di Gesù possiedono una profondità

e una capacità di coinvolgerci che altre

parole, siano esse di filosofi, di politici, di

poeti, non hanno. Sono “parole di vita”, si

possono vivere e danno la pienezza della vita,

comunicano la vita stessa di Dio.

Ogni mese ne prendiamo una in rilievo,

così, lentamente il Vangelo penetra nel

nostro animo, ci trasforma, ci fa acquistare il

pensiero stesso di Gesù, rendendoci capaci di

rispondere alle situazioni più diverse. Gesù si

fa nostro Maestro.

A volte possiamo leggerla insieme.

Vorremmo che fosse Gesù stesso, il Risorto,

vivo in mezzo a quanti sono riuniti nel suo

nome, a spiegarcela, attualizzarla, suggerirci

come metterla in pratica.

Ma la grande novità della “Parola di vita”

sta nel fatto che possiamo condividere le

esperienze, le grazie nate dal viverla, così

come Chiara spiega riferendosi a quanto

accadeva agli inizi, che dura tuttora: «Si

sentiva il dovere di comunicare agli altri

quanto si sperimentava, anche perché si era

consci che donando l’esperienza rimaneva,

ad edificazione della nostra vita interiore,

mentre non donando lentamente l’anima si

impoveriva. La parola era dunque vissuta con

intensità durante tutto il giorno e i risultati

venivano comunicati non solo fra noi, ma

con le persone che si aggiungevano al primo

gruppo. (…) Quando la si viveva, non era più

l’io o il noi che viveva, ma la parola in me, la

parola nel gruppo. E questa era rivoluzione

cristiana con tutte le sue conseguenze» 2.

Così può essere oggi anche per noi.

1 Ibid., p. 128, 130.2 Scritti spirituali / 3, Città Nuova, Roma 1979, p. 124.

spiritualità PAROLA DI VITA di FABIO CIARDI

Agosto

«Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23, 8)

59cittànuova n.7 | Luglio 2016

testimoni del VangeloGiuseppe Moscati, nato a

Benevento nel 1880, visse quasi

sempre a Napoli. Si iscrisse a

medicina «per poter lenire il

dolore dei sofferenti». Salvò

alcuni malati dall’eruzione del

Vesuvio nel 1906; prestò servizio

negli ospedali riuniti durante

l’epidemia di colera del 1911; fu

direttore del reparto militare

nella grande guerra. Negli ultimi

10 anni prevalse l’impegno

scientifico, ma all’offerta di

divenire professore ordinario

rispose: «Il mio posto è accanto

all’ammalato». Morì d’infarto nel

1927. Fu proclamato santo da

Giovanni Paolo II nel 1987.

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CULTURA E FEDEspiritualità

Un po’ di pensiero sociale della Chiesa: l’inculturazione come terreno fertile per incorporare la cultura dei popoli nella vita della Chiesa, non processo a senso unico, ma interattivo. Un termine, questo di inculturazione, che viene inserito per la prima volta nei documenti pontifici da Giovanni Paolo II nella sua esortazione apostolica sulla catechesi (Catechesi tradendae) nell’ottobre 1979.Nel suo discorso ai vescovi durante la sua seconda visita in Nigeria nel marzo 1998, il papa polacco li incoraggiò a fare tutto il possibile «in modo che il vostro popolo si senta sempre di più a casa nella Chiesa, e la Chiesa si senta sempre di più a casa nel vostro popolo».La prima assemblea del Sinodo

dei vescovi per l’Africa nel 1994 considerò l’inculturazione una priorità urgente nella vita delle Chiese particolari, per un reale radicamento del Vangelo in questo continente. A conclusione era stato affermato

che l’inculturazione coinvolge «l’intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo», da un lato, e dall’altro, «il radicamento del cristianesimo nelle varie culture umane».

Il carisma dell’unità e l’inculturazioneConvinta di queste affermazioni, Chiara Lubich annotava sul suo diario il 7 maggio 1992 da Nairobi, in Kenya, durante una sua visita alle comunità dei Focolari del continente: «L’inculturazione, la grande via per l’evangelizzazione». Pochi giorni dopo, il 19 maggio, all’inaugurazione del nascente centro chiamato “Mariapoli Piero”, lei stessa mise la prima pietra alla fondazione di una Scuola per l’inculturazione, precisando: «Il suo scopo è quello di approfondire la vita del Vangelo cercando di dialogare – dalla prospettiva della spiritualità dell’unità – con le varie culture e prassi dei popoli africani». In quell’occasione indicò un metodo: il «farsi uno nel modo più profondo», mettersi nella pelle di ogni persona in modo da entrare nella sua cultura, nel suo modo di pensare e scoprirvi la presenza di Dio.Dal 1992 in poi si sono svolti 10 corsi per approfondire vari aspetti dell’inculturazione, un’esperienza che emerge sempre più come una delle possibili risposte alla grande questione dell’evangelizzazione.

La famiglia nell’Africa sub-saharianaL’undicesimo corso di questa scuola di inculturazione, svoltosi sul tema della famiglia nel maggio scorso, ha visto la presenza di Maria Voce e Jesús Morán, presidente e copresidente del Movimento dei Focolari, in visita alle comunità del Sub-Sahara.

pienamenteafricani,veramentecristianiIl tema dell’inculturazione continua ad alimentare confronti e ad attivare processi. Un contributo dai Focolari nel recente viaggio in Kenya della presidente, Maria Voce, e del copresidente, Jesús Morán

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Come capire la famiglia in Africa oggi? Questo si chiedeva il vescovo Salesius Muagambi di Meru (Kenya), accogliendo a nome della Conferenza episcopale del Paese i 304 partecipanti, studiosi ed esperti, clero e laici, famiglie e coppie provenienti da tutto il Sub-Sahara. Nei lavori dei 4 giorni, i partecipanti si sono confrontati su vari temi scottanti della famiglia in Africa oggi: il rapporto uomo-donna, l’educazione dei figli, i valori nelle tradizioni africane, la dote, il fidanzamento e il matrimonio, il rispetto, la fedeltà, l’onestà, e ancora situazioni economiche difficili, la crescente urbanizzazione, i conflitti… Alla domanda se serva ancora oggi l’inculturazione, Maria Voce e Jesús Morán ne hanno sottolineato la grande attualità in un mondo sempre più interdipendente e multiculturale.

«Chiara ha avuto una bellissima intuizione – spiega Morán –, ha fatto qui un’esperienza di Dio e l’ha proposta a tutto il mondo. Il più profondo farsi uno è

l’inculturazione focolarina che si fa in Africa, ma anche ovunque. Perché anche in Europa dobbiamo inculturarci gli uni con gli altri. L’inculturazione è decisiva, il carisma dell’unità deve veramente farsi cultura, deve farsi africano, messicano, ecc. Ogni sforzo in questa linea dell’inculturazione è più che mai necessario».Maria Voce ribadisce: «L’evangelizzazione è “guardate come si amano”, “che siano uno perché il mondo creda”. Cosa vuol dire questo? Vuol dire essere talmente inculturati da farsi uno con tutti i bisogni di ogni Paese e di ogni nazione. È una strada difficile perché significa farsi carico di tutta l’angoscia, di tutti i dolori, di tutte le realtà negative che si possono incontrare in questo cammino. Ma la strada è quella ed è la strada di Gesú: morire per risorgere».

di Liliane Mugombozi

Una fede che non diventa cultura non è completamente accettata, non interamente pensata, non fedelmente vissuta (Giovanni Paolo II)

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Maria Voce, presidente dei Focolari, e Jesús Morán, vicepresidente, nei pressi di Nairobi (Kenya).

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LA GRANDE ATTRATTIVAspiritualità

Spero di non “forzare” il pensiero di papa Francesco, ma mi pare di capire che il frutto più bello della misericordia, a cui è intitolato l’anno giubilare in corso, sia l’unità con Dio e di tutta la famiglia umana di cui parla Gesù. E la conferma a questo sguardo di vastissimo respiro la trovo in Chiara Lubich, che proprio parlando a dei giovani non teme l’impopolarità ricordandoci che il segreto per costruire questo “nuovo mondo” è quello di metterci al servizio gli uni degli altri.

la nostraattesa: l’unità universale

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I cristiani ambiscono all’ultimo posto. Danno prova di tolleranza e di sopportazione nella vita comune, sempre esposta agli attriti. Perdonano e anzi il loro atteggiamento supera la non violenza perché vincono col bene il male, quasi a voler riparare in sé stessi quanto è stato compromesso dai fratelli.Per questo modo nuovo di fare, i cristiani compongono e ricompongono la pace fra loro e quindi l’unità.Sì, l’unità è nel popolo di Dio.Ma qualcuno potrà obiettare: questo popolo è una realtà religiosa; che relazione può esserci fra esso e le nostre preoccupazioni di unità e di pace internazionale?L’unità nel popolo di Dio non può non influire sull’ordinamento politico. Il mondo può vedere, infatti, in esso un’anticipazione dello stato finale dell’umanità.E poi il cristianesimo porta qualcosa che cambia il mondo. E se questo comincia col reciproco amore fra i discepoli di Cristo, coll’evangelizzazione dei poveri, con la conversione dei peccatori, dovrà completarsi con la

restaurazione del mondo intero nell’unità e nella pace. E sarà proprio per mezzo del popolo di Dio che si compirà il destino dell’umanità all’unità.È vero: la storia cammina guidata dalle libere scelte non sempre buone e indovinate degli uomini. Dio non vuole farle violenza. Pur tuttavia un giorno l’unità ci sarà.Per mezzo dei cristiani la pace e l’unità penetrano nella storia

per elevarla, per trascenderla e trasfigurarla fino a far emergere un mondo nuovo.L’unità universale è quindi proprio ciò che Cristo attende e non può, dunque, non essere anche l’attesa nostra.

(Tratto dal discorso al Genfest

1985 - Molte vie per un mondo unito)

a cura di Donato Falmi

Chiara Lubich è stata fondatrice e prima presidente del Movimento

dei Focolari, nonché scrittrice prolifica. I suoi testi sono

un suo lascito e, ancora oggi, una fonte d’ispirazione per tanti.

Ogni mese Città Nuova ne propone uno stralcio.

Per mezzo dei cristiani la pace e l’unità penetrano nella storia per elevarla, per trascenderla e trasfigurarla

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cittànuova n.7 | Luglio 201664

Courage è uno dei servizi della Chiesa cattolica rivolti a persone con attrazione verso lo stesso sesso. Intervista ad Alberto Corteggiani

omosessualitàe castità

idee e cultura UNA PROPOSTA CONTROCORRENTE

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Qualche mese fa il settimanale l’Espresso ha pubblicato un’inchiesta su Courage, definendola una setta fanatica che vuole “guarire” gli omosessuali. Un giudizio sommario, che ci ha spinti ad andare alla fonte. Ne parliamo con Alberto Corteggiani, referente per l’Italia. Ripercorrendo la sua storia, cerchiamo di capire che cosa è Courage.

Come è arrivato a Courage?Il mio primo contatto risale a parecchi anni fa. Sono una persona che prova attrazione verso persone dello stesso sesso (Ass) e a quel tempo vivevo un profondo ripiegamento su me stesso, frustrato per l’incapacità di amare ed essere amato come avrei voluto. Desideravo costituire una coppia dello stesso sesso. Pensavo non ci potesse essere felicità al di fuori di una relazione esclusiva, di possesso e fusione, che doveva includere non solo l’aspetto emotivo, ma anche quello genitale. Una relazione simile a quella tra uomo e donna. Pensavo che le mie emozioni fossero la cosa più importante, confondevo desideri e bisogni. Soprattutto capivo di aver bisogno di aiuto. Credevo in Dio, ma non ne vedevo l’azione nella mia vita. A quel tempo facevo avanti e indietro col confessionale come fosse una lavanderia a gettoni. Finché un sacerdote mi pose un aut aut: o cambi stile di vita, o non posso darti l’assoluzione. Fu la molla decisiva: cercai aiuto, senza trovarlo in Italia. Allora scrissi a Courage, negli Usa, dopo averne letto in un libro. Mi sembrava una proposta coerente con l’insegnamento della Chiesa.Mi contattò un sacerdote a Roma. Con lui cominciai un percorso che mi ha portato a una nuova comprensione e accettazione di me stesso. Ho riscoperto la

dimensione dell’amicizia e del dono di sé attraverso il servizio. Un periodo di volontariato con persone portatrici di handicap fisico e mentale mi è stato utile per comprendere la dignità della persona umana. Adesso cerco di vivere in castità con l’aiuto della grazia di Dio.

Vive da solo?Sì, e non cerco relazioni di tipo romantico o sessuale. Vivo da solo, ma non sono solo. L’essere umano si realizza nell’amore e quindi nella relazione. Ma le relazioni vive, autentiche e nutrienti sono fondate sulla libertà che nasce dal rispetto dell’alterità. L’attrazione sessuale è un elemento importante, ma non definisce chi è la persona. La prima forma di solitudine che le persone sentono, specialmente quelle con Ass, è legata a un difetto nel loro rapporto con Dio, con sé stessi e con gli altri. Il difetto consiste nel non accettare la propria realtà, con la fragilità e i limiti che comporta.

Le persone con Ass devono accettare, come tutti, i propri limiti?Tutti siamo chiamati ad accettare la nostra realtà per quella che è. Accettare i propri limiti e la propria fragilità significa rispondere al dono che Dio ci ha fatto, anche nella sessualità. Naturalmente è un’accettazione critica. Se ho una tendenza sessuale incoerente con la mia costituzione biologica, non rivendicherò questa tendenza come qualcosa di positivo, ma non farò neanche finta che non esista. È una prova davanti a cui il Signore mi pone; mi chiede una risposta coerente con il suo progetto su di me. Il rapporto di vero amore tra due persone con Ass è l’amicizia.

a cura di Giulio Meazzini

Una manifestazione gay.

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66 cittànuova n.7 | Luglio 2016

idee e cultura

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Quindi per voi l’Ass non è malattia, né peccato, né dipendenza, ma una tendenza che può essere controllata, perché la felicità passa dall’armonia tra sessualità biologica e stile di vita?Sì. Il comportamento omosessuale è contrario al bene della persona. L’attività genitale utilizzata fuori del contesto per cui è stata creata può divenire infatti una forza autodistruttiva: nella mentalità moderna c’è un profondo inganno, una promessa che non viene mantenuta. Tutti abbiamo bisogno di amare ed essere amati, ne abbiamo diritto, vogliamo la felicità, ma questa non si realizza in maniera contraria alla nostra identità.

È una proposta minoritaria oggi, e rivolta solo a omosessuali cattolici…Non credo sia una posizione di minoranza. È basata sulla legge

naturale, che è scritta nel cuore di tutti, anche di chi non la riconosce. Non accettano questa posizione soprattutto alcune organizzazioni che pretendono di rappresentare la totalità delle persone che vivono questa condizione, ma che, numeri alla mano, sono minoritarie. E comunque il nostro rapporto è con le persone, non con le ideologie. Infatti fanno parte dei nostri gruppi anche ebrei, musulmani e non credenti. Non hanno problemi perché è chiaro fin da subito qual è la natura del gruppo, rispettoso della legge naturale.

Quante persone seguite?Nella città di Roma, in cui siamo presenti da poco, abbiamo avuto finora alcune centinaia di contatti. Bisogna superare lo stereotipo diffuso dai media che vorrebbe le persone con Ass felici solo in una coppia gay. Questo non corrisponde alla realtà che

incontriamo nelle persone. È un tentativo di ridurre la pluralità di esigenze diverse a modelli utili per la propaganda politica, ma inefficaci per comprendere le persone e aiutarle a realizzarsi. Anche la percentuale di unioni civili tra persone con Ass è molto modesta rispetto al totale della popolazione omosessuale, quindi forse non è una priorità, anche se resta segno di un bisogno di amore e di un desiderio di infinito a cui occorre dare una risposta.

Gay si nasce?No. Non c’è alcuna evidenza scientifica di questo. Non sappiamo quale sia la causa, al massimo si può parlare di predisposizione. La scienza afferma che dipende da una pluralità di fattori che si combinano tra loro producendo forme diverse di omosessualità. Per questo è così difficile parlare di questo fenomeno complesso.

Il manifesto di Courage.

UNA PROPOSTA CONTROCORRENTE

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L’Espresso vi accusa di “curare” le persone omosessuali…Assolutamente no. I nostri gruppi offrono solo un supporto spirituale a persone che si aiutano reciprocamente. Non c’è lo psicologo e l’attività del gruppo non è terapeutica. Questo viene chiarito fin dall’inizio. Per la Chiesa cattolica la condizione omosessuale non è una patologia. Ma non si può negare che ci sia una relazione tra condizione omosessuale e sofferenza psicologica. Le associazioni gay sostengono che sia causata dall’omofobia (interiorizzata) della società. Il dato scientifico suggerisce che una sofferenza psicologica può essere terreno fertile per lo sviluppo di una inclinazione omosessuale e che il comportamento omosessuale può a sua volta indurre una sofferenza psicologica. Ne parla anche uno psichiatra omosessuale militante come Mattia Morretta, nel suo libro Che colpa abbiamo noi. Un supporto terapeutico, coerente con l’immagine dell’uomo che ha la Chiesa, può quindi essere utile, a volte. Courage, comunque, non fornisce questo servizio.

Chi si avvicina a voi passa dalle parrocchie o online…Sì. Courage è l’espressione tangibile della sollecitudine pastorale della Chiesa nei confronti delle persone con Ass. Ogni vescovo può costituire il servizio nella sua diocesi, nominando i sacerdoti che seguono i vari gruppi. A volte sono le stesse persone con Ass che chiedono al vescovo di attivare il servizio. La partecipazione è gratuita e anonima, mentre la diocesi copre le spese di gestione. Chi ci cerca sono soprattutto giovani dai 18 ai 35 anni. Ogni gruppo è composto da un sacerdote e tanti laici con Ass, e

funziona sul modello di autoaiuto degli alcolisti anonimi. Quando possibile, i gruppi sono distinti in base al sesso, ma abbiamo anche gruppi misti.Abbiamo programmi diversi, sia per i laici che per i consacrati con Ass. E anche per i loro familiari. C’è speranza per tutti. Ho visto vite trasformate nel momento in cui si affidano all’azione della grazia. Per i genitori il messaggio è che non devono sentirsi colpevoli, in quanto nessuno sa con certezza cosa provochi lo sviluppo dell’omosessualità. Devono accettare la condizione del figlio e dimostrare concretamente che gli vogliono bene, anche se non ne approvano la condotta.

Cos’è “Coming home”?È una proposta controcorrente. Le associazioni gay spingono a fare coming out, cioè a identificarsi con una falsa identità gay, riducendo la persona alle sue emozioni. Ma una persona “ha” un’emozione, non “è” una emozione. Noi proponiamo a chi vive in questa condizione, e si pone interrogativi, di cercare le risposte nella loro vera casa, la Chiesa. Quindi tornate a casa. Tornate alla Chiesa. Coming home.

Chiesa e omosessualità

Per riflettere sulla “frontiera

esistenziale” di chi vive la

condizione omosessuale

da credente, ad aprile

2016 ad Albano si è svolto

il Forum dei cristiani Lgbt.

Alcuni partecipanti hanno

anche incontrato il vescovo

diocesano, Marcello

Semeraro.

LOPPIANOLAB 2016 È YOUNG!

X Factor, Italia’s Got Talent, The Voice… sono solo alcuni dei tanti talent show che impazzano in tv. Un autentico fenomeno mondiale rivolto a un pubblico di giovani e adolescenti – ma che ha conquistato anche tantissimi adulti – centrato sulla competizione tra talenti in erba nella speranza di scoprire e lanciare le promesse del mondo dello spettacolo di domani. Ben diverso lo spirito con il quale quest’anno LoppianoLab dedica ampio spazio nel proprio programma alle nuove generazioni. Mentre gli adulti prenderanno parte a laboratori, forum e tavole rotonde su politica, cittadinanza attiva, educazione, arte, economia e comunicazione, ragazzi e giovani dai 14 ai 25 anni potranno entrare in sala-prove fianco a fianco con le artiste del Gen Verde in workshop di teatro, danza, canto e percussione sui temi della pace e del dialogo. Già sperimentato in diversi Paesi dalla band internazionale, è un’occasione per sviluppare il proprio talento e scoprirne di nuovi, in un clima di collaborazione e di confronto positivi tra i partecipanti. Momento conclusivo di questo percorso di lavoro sarà la performance di sabato sera 1 ottobre. I giovani saliranno su palco dell’Auditorium di Loppiano con le artiste del Gen Verde offrendo al pubblico di LoppianoLab il prodotto di tante ore di studio e impegno. È già possibile prenotarsi indicando il workshop prescelto.Elena Cardinali

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68 cittànuova n.7 | Luglio 2016

della verità. Esso dona la consapevolezza di non poter essere mai autosufficienti, in un continuo bisogno di scambio e arricchimento reciproco, per cui insegnamento e ricerca scientifica contribuiscono alla vita e alla crescita spirituale. Se oggi sembra quasi impossibile vivere la fede e allo stesso tempo essere autentici

Se guardiamo alla sua “unicità di vita” e al suo impegno professionale in campi di studio assai distinti, il sacerdote, fisico e astronomo Georges Lemaître, uomo di Chiesa e insieme di scienza, rappresenta un esempio di quel legame fondamentale tra sapere e amore che deve animare ogni ricerca appassionata

ricercatori, figure come quella di Lemaître – così come Mendel, Pasteur, Lejeune, Medi, Tincani, Le Pichon – testimoniano che ciò non solo è possibile, ma è reale. Scienza e fede non sono necessariamente in contrasto e per il loro positivo rapporto la filosofia assume un importante ruolo di mediazione e di articolazione, per evitare sia gli scorretti discordismi, sia i facili ma altrettanto inadeguati concordismi. Anche il mondo della comunicazione, nel parlare di scienza, nel descriverne orizzonti e scoperte, ha il compito fondamentale di risvegliare le

idee e cultura A 50 ANNI DALLA MORTE

l’avventuradi georgeslemaîtreSacerdote, fisico, astronomo, amico di Einstein, è il padre della teoria del Big Bang. Una vita tra fede e scienza, in cerca della verità

Albert Einstein e Georges Lemaître.

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6969cittànuova n.7 | Luglio 2016

Belgio, questo scienziato che è considerato comunemente come il primo a capire – valorizzando la legge di Hubble – che la teoria dell’espansione dell’universo trovava una prova nello spostamento verso il rosso della luce delle stelle. Nel 1927 egli pubblicò la sua «ipotesi dell’atomo primigenio», e per questo viene ritenuto a tutti gli effetti come il “padre” della moderna teoria del Big Bang. Nato a Charleroi il 17 luglio 1894 in una famiglia che gli trasmise una fede profonda, ordinato nel 1923, condusse esemplarmente

domande insopprimibili del cuore dell’uomo sul senso dell’esistenza, appassionando alla verità e alla bellezza.Lemaître è stato testimone del dialogo tra fede e scienza anzitutto perché l’ha realizzato in sé, in quell’unica esperienza di vita che a partire dalla ricerca e dallo studio, accompagnati dalla preghiera e dalla testimonianza cristiana, ha animato le sue fatiche e gioie, il dono agli altri di sé, delle sue scoperte e delle sue conoscenze.Il 20 giugno di 50 anni fa (1966) moriva a Lovanio, in

la sua vita di sacerdote e pastore. L’appartenenza alla “Fraternità degli amici di Gesù” influenzò tutta la sua vita, sostenendolo nel suo essere ricercatore, insegnante ed educatore. Nelle attività con gli studenti e i giovani, Lemaître testimoniava continuamente la sua ricerca della verità vissuta sulla via della fede e su quella della scienza, senza confusione ma in profonda armonia, manifestando un prezioso connubio tra professionalità scientifica, competenza teologica e vita spirituale. Coltivò amicizie importanti, con relazioni in ambienti e contesti assai diversificati, dagli Stati Uniti alla Cina, prima tra tutti quella con Einstein.In occasione del 50° della morte, numerose sono le iniziative programmate presso istituzioni accademiche e culturali. Della figura di Lemaître si è parlato ai primi di maggio, in occasione di un seminario di studio presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, affrontando la domanda: “Vivere la fede all’interno della ricerca e dell’insegnamento della scienza è possibile?”. Tra i partecipanti il prof. Dominique Lambert, dell’Università “Notre-Dame de la Paix” di Namur, esperto a livello internazionale non solo sulla figura del sacerdote scienziato belga, ma anche sui principali modelli nell’intendere oggi il rapporto tra scienza e fede (vedi il suo Cultori di scienze e credenti - AUP): «Lemaître – ha affermato – è stato un testimone formidabile di come “allargare gli orizzonti della razionalità”, passaggio tanto auspicato dai più recenti pontefici e che permette di mettere in dialogo fecondo, sia teoretico che esistenziale, fede e scienza».

di Mauro Mantovani

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Vivere il conflittoJesús Morán è copresidente del Movimento dei Focolari. Laureato in Filosofia, è specializzato in antropologia teologica e teologia morale.

Come città aperta, la Mariapoli di Roma quest’anno si è svolta nel Galoppatoio di Villa Borghese, nel cuore della capitale. In questa cornice la visita a sorpresa di papa Francesco ci ha lasciato alcune perle su cui riflettere e accumulare esperienza vitale.Vorrei soffermarmi sul concetto di “conflitto”, una delle idee centrali della sua breve comunione con noi. Il papa ha rilevato che, secondo un’incerta etimologia orientale – sono considerazioni sue –, il conflitto comporta insieme rischio e opportunità. Sappiamo che la parola proviene dal latino conflictus, risultante dall’unione del prefisso cum (= con) e del participio passato del verbo fligere, colpire. Deriva da qui anche il termine afflizione (dispiacere, sofferenza). Per una persona che ha fatto della comunione e del dialogo la propria scelta di vita, ogni conflitto a livello interpersonale comporta un’esperienza di dolore, quindi negativa. Questo porta a evitare il conflitto, nella speranza che le cose si mettano a posto da sole o nella convinzione che invischiarsi ancor di più in esso non faccia altro che acutizzarlo. L’esperienza ci insegna invece che il più delle volte i conflitti non affrontati generano un groviglio di patologie relazionali che prima o poi avranno pesanti conseguenze. Una ferita non curata può degenerare in cancrena. È triste costatare la rottura di un rapporto, avvenuta per aver trascurato la maturazione nascosta e patologica di scontri precedenti. I conflitti vanno invece affrontati e portati alla luce. Non bisogna, cioè, nascondere il proprio dispiacere e i segni del colpo ricevuto. Al tempo stesso, però, occorre far diventare questa vicenda dolorosa un’opportunità, come raccomanda il papa. Perché questo accada servono però alcune premesse etiche. La prima è che in ogni conflitto entrano in gioco persone concrete, e la persona non coincide mai con i suoi atti, anche se essi la esprimono. La persona infatti trascende le proprie parole e azioni. Vediamo questo quando, nel mezzo di una discussione animata, uno degli interlocutori con rammarico esclama: «Non stare ad ascoltarmi, non sono io!». Quando si è al centro di un conflitto, occorre tenere

sempre lo sguardo fisso sull’intera persona dell’altro, invece che sulle sue parole. Questo atteggiamento è una prima protezione per assorbire bene i colpi verbali. La seconda premessa è che le parole non coincidono mai col pensiero e col vissuto reale dell’altro. L’essere umano, “animale simbolico” per eccellenza, si mostra spesso maldestro nell’uso di questa sua caratteristica: non c’è coincidenza tra persona e azioni, né tra parole e pensiero. Quindi è possibile sfruttare i conflitti come occasioni d’incontro.Ma non basta. Aver condiviso con qualcuno la sofferenza di uno scontro ci può avvicinare enormemente a lui, poiché il rapporto è diventato più vero. Pur nella loro inadeguatezza, infatti, le nostre parole o azioni hanno veicolato un messaggio di malessere reale, che comunque c’era e andava affrontato. Fare dei conflitti un’opportunità è una grande esperienza di liberazione e di crescita interpersonale. Da un’esperienza simile si esce dilatati nell’anima e nel pensiero, perché in definitiva il conflitto, se ben vissuto, mette in risalto il dono della differenza. I conflitti ci fanno prendere coscienza – spesso dolorosamente – della nostra fragilità, diversità e mediocrità, caratteristiche che vanno accettate interamente. Spesso si usa la parola conflitto in riferimento alle guerre. Queste però non sono semplici conflitti, ma combattimenti. Battuere in latino significa infatti colpire distruggendo l’altro. I conflitti bellici non rappresentano quindi un’opportunità.Partendo dai conflitti spesso si arriva alle guerre, che si potrebbero evitare se solo fossimo capaci di gestire bene i conflitti.

pensare l’unità JESÚS MORÁN

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IL PIACERE DI LEGGEREidee e cultura

Migranti minori non accompagnatiIl bagaglioLUCA ATTANASIO

Epocale, incredibile, senza precedenti… da 20 anni si ricorre agli aggettivi

più forti per definire l’escalation delle migrazioni dal Sud del mondo. Ma sul

drammatico e scioccante fenomeno dei migranti minori si è iniziato a insistere

solo di recente, davanti alle immagini dei bimbi morti di stenti o affogati

durante i “viaggi della speranza”. In un piccolo-grande libro Luca Attanasio

affronta questo argomento cruciale con oggettività e sensibilità, elaborando

un aggiornato rapporto sui minori non accompagnati che raggiungono sempre

più numerosi l’Italia. Fra il 2013 e il 2015 sono aumentati del 100% quelli entrati

da noi senza genitori, arrivando nel 2014 a 15 mila, partiti da Maghreb e Corno

d’Africa, ma anche da Siria, Bangladesh, Albania e perfino Afghanistan. Al di

là di dati, cifre e documenti, riportati e analizzati dall’autore con scrupolo e

passione, la parte più viva e toccante del volumetto sono le testimonianze

dei giovanissimi protagonisti, che hanno affrontato rischi mortali e sofferenze

inimmaginabili per fuggire la fame e altre realtà senza domani. Su tutti svetta

il racconto di Keita, fuggito a 16 anni dalla guerra civile in Costa d’Avorio e

sbarcato in Italia dopo un’odissea di due anni e mezzo, passando dal Sahara

più impervio ai marosi del Mediterraneo, dai “lager” maltesi ai disagi di certi

nostri centri di raccolta. Un piccolo romanzo, avventuroso e avvincente. Ma

soprattutto vero.

Al giardino ancora non l’ho dettoPIA PERA

Ponte alle Grazie, € 15,00

La conoscono bene

gli appassionati di

giardinaggio, i lettori dei

tantissimi articoli che per

anni ha tenuto su quotidiani

e riviste. Pia Pera ha

sempre raccontato, con

incanto quasi infantile, il

suo amore per la natura.

Ispirandosi ai principi

dell’ambientalista Vandana

Shiva, ha creato il suo

giardino nelle campagne

della Lucchesia. In

questo piccolo Eden, Pia

sognava di invecchiare

serenamente. Una grave

malattia degenerativa

l’ha costretta però a fare

i conti con un corpo che

non riconosce più. Il libro si

interrompe due anni fa e si

presume che lei sia ormai

nella totale immobilità. La

profondità del testo riflette

Albeggi Edizioni

€ 15,00

/recensione a cura di

MARIO SPINELLI

L’umorismoGIOVANNINO GUARESCHI

L’ora d’oro, € 18,00

All’inventore di Don

Camillo e Peppone avrei

dato tranquillamente il

Nobel, mentre lui, sublime

scrittore popolare, deluso

dell’Italietta ideologica del

dopoguerra, avrebbe voluto

mantenere sé e i suoi cari

con un lavoro manuale.

Andrea Paganini ci offre,

con la sua introduzione

capitalisti e benpensanti?

Così: con i 20 milioni di

copie dei suoi libri cari alla

gente vera, al popolo.

/recensione a cura di

GIOVANNI CASOLI

storico-critica, 5 introvabili

scritti del grande autore

dell’umorismo; che è

ben altro dalla satira: e

lo vediamo oggi, l’Italia è

piena di satira spesso greve

e quasi priva di umorismo.

Leggendo i raffinati umoristi

Manzoni e Pirandello, e

scrivendo le proprie argute

e umanissime pagine,

Guareschi sa due cose: che

l’umorismo in Italia è “reato”,

e che invece è la medicina

giustissima per evitare in

anticipo, con il suo sguardo

profetico, odi, schieramenti

ideologici rigidi, guerre.

Ma lui, con il suo soave e

forte (Paganini) umorismo,

come potrebbe sfuggire

alle condanne congiunte,

eppur opposte, di comunisti,

cittànuova n.7 | Luglio 201672

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in libreria a cura di ORESTE PALIOTTI

a cura di Gianni Abba

il viaggio interiore che

ella ha voluto percorrere

fino in fondo, con grande

lucidità e serenità, alla

ricerca del senso ultimo

della vita. Toccanti le sue

parole: «Contemplo, sento

di dovermi abbandonare a

Dio, accettare senza paura

quello che c’è, lasciarmi

cadere, fiduciosa che

se anche fosse il morire,

questo non può non essere

la cosa migliore per me».

/recensione a cura di

M. ROSA PRANDI BONAIUTI

Pedagogia delle diversitàANNA GRANATA

Carocci, € 19,00

Un libro che si legge

agilmente: non solo

buone prassi e ricerca

attuale, ma anche autori

classici della pedagogia.

Si rivolge agli insegnanti,

chiamati ad aprirsi alle

nuove domande di alunni

e famiglie, e a rapportarsi

con colleghi e istituzioni,

in un delicato equilibrio

sfidato dall’intreccio sempre

più fitto di culture. Il testo

è strutturato in “mesi”,

con la voce narrante di un

maestro che si confronta

con il mondo che cambia

guardandolo da un’aula di

scuola. Obiettivo dell’autrice

– giovane ma affermata

ricercatrice – è intercettare

le domande educative,

le questioni che girano

attorno a somiglianza

e diversità degli alunni,

identità nazionale e

conservazione delle culture

di origine, omogeneità ed

eterogeneità del gruppo

classe, esercizio di autorità

e apertura all’altro…

per rimettere al centro

le vere sfide e i valori

fondanti dell’educazione

interculturale.

/recensione a cura di

PATRIZIA BERTONCELLO

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La lettera pastorale (2001-2) del card. Martini alla chiesa di Milano: il suo testamento.

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MEMORIALI

La ragazza

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reportage GMG 2016

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A fine luglio, in Polonia, avranno luogo nella città di Giovanni Paolo IIle Giornate mondiali della gioventù ideate proprio dal papa polacco. Luoghi densidi storia, di tragedia e di bellezza

testo e foto di Michele Zanzucchi

la bellezzasfrontatadi cracovia

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76 cittànuova n.7 | Luglio 2016

Messa dell’Ascensione nella Cat-tedrale di Cracovia, nella piazza del mercato, la celebre Stare Mia-sto, o Rynek Glówny. Canti incan-tevoli, in un contesto culturale e artistico da urlo. Qui si capisce come il popolo polacco sia stato capace di divellere il socialismo reale come una leva. Qui si capi-sce altresì come il papa polacco abbia conquistato il mondo. Il ba-rocco polacco, che gioca sull’oro e sul nero, trasmette l’idea che il popolo polacco è paradossale, ca-pace di eroismi inauditi e di peno-si tradimenti, santo e dannato, in ogni caso mai banale. La storia di santi e di eroi, quella che traspare al Wawel, il Castello, e in quello straordinario mausoleo nazionale che è la Cattedrale di San Vence-slao e del santo vescovo Stanislao, è assolutamente unica al mondo. Sorretta dalla fede d’un popolo intero.

reportage

Al Wawel, il cuore della memoria polacca.

Al Collegius Maius, la più antica università di Cracovia.

GMG 2016

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77cittànuova n.7 | Luglio 2016

CracoviaVengo in Polonia, solo 4 giorni sulle tracce di Giovanni Paolo II, anticipando quelle di Francesco che in luglio parteciperà alle Gior-nate mondiali della gioventù 2016. Eccomi nella Piazza del mercato a Cracovia, al termine di 3 ore di visita della città. Dopo la pioggia mattutina, la giornata ci riser-va una straordinaria e soleggiata après-midi. Dalle campane di Si-gismondo il vecchio alla Vecchia sinagoga, dalle lapidi sbilenche del cimitero ebraico al coro angelico della cattedrale… C’è qualcosa di ineffabile nelle grandi città d’arte, un insieme di bellezza sfrontata, di savoir vivre, di imperitura memo-ria inscritta nelle pietre che rende un momento banale un antipasto del banchetto nuziale.

WieliczkaDa 700 anni da queste parti si scavava salgemma. Una ricchez-za industriale e artistica che sin dal 1978 è iscritta nel registro dei siti Unesco patrimonio dell’uma-nità. Il sito ricava il suo indubbio interesse dagli aspetti industriali dell’estrazione, ma ancor più dal fatto che gli stessi operai hanno poco alla volta trasformato galle-rie e sale in opere d’arte. La visita può durare dalle 2 alle 4 ore. A co-minciare dalla Kapila Antoniego,

Il barocco locale, che gioca sull’oro e sul nero, trasmette l’ideache il popolo polacco è paradossale, capace di eroismi inauditi e di penosi tradimenti, santo e dannato, in ogni caso mai banale.

Nelle miniere di sale di Wieliczka.

Auschwitz. La Shoah in un mucchio di scarpe.

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78 cittànuova n.7 | Luglio 2016

ancora vive nella politica e nella religione polacche. Per una parte della popolazione Giovanni Paolo II è stato “ingombrante”, identifi-cando il Paese con un certo catto-licesimo nazionalista, o forse sem-plicemente nazionale.

AuschwitzÈ la terza volta che visito questi luoghi. Posso così concedermi di non passare locale per locale per capire quel che è successo ad Auschwitz. Posso camminare più in libertà, cercando col telefonino di scattare foto ai dettagli, scoprendo in essi una nuova profondità delle terribili e disumane pratiche dei nazisti. Scopro così il «dettaglio» della schedatura con tatuaggio, un modo per marchiare come bestie degli esseri umani. E m’accorgo che la sorpresa negli occhi dei reclusi schedati rasenta la misericordia. La disperazione può raggiungere vette di straordinaria umanità. Anche i loculi dove i prigionieri erano costretti a passare la notte in piedi, in 4 in meno di un me-tro quadro, raccontano la terribile esperienza umana della promiscu-ità forzata, della mescolanza degli odori, della tragedia della sperso-nalizzazione. Ma anche della soli-darietà primitiva.

CzestochowaSi tratta del luogo simbolo della nazione polacca, per i tanti moti-vi che è quasi inutile elencare: la Madonna Nera in esso contenuta, la convergenza del popolo nei mo-menti di più grande difficoltà per la nazione, la simbologia dell’u-nità del Paese al di là delle occu-pazioni e delle guerre… Qui papa Bergoglio arriverà appena atter-rato a Cracovia. Padre Alberto ci conduce in una visita memorabile al monastero: dalla basilica alle 3 cappelle della Madonna Nera, alle sale più rinnovate e storiche,

la più antica, in parte distrutta, in parte ancora in piedi, in parte in bilico, che raccoglie statue dei santi Barbara, Clemente, Antonio, Francesco e Domenico… E poi la cappella dei minatori bruciati, cioè delle vittime del metano, gas infido perché leggero e altamen-te esplosivo che fa morire per il calore e non per le conseguenze dell’esplosione. Ecco la Grotta de-gli gnomi, ecco la Cappella della Santa Croce, con un crocifisso del 1600. Ecco le innumerevoli testi-monianze dell’incredibile nazio-nalismo polacco frammisto alla fede cattolica: lance e spade e fuci-li frammisti a crocifissi, reliquiari, statue votive. Fino a giungere a 101 metri di profondità alla cappella più grande dell’intero comples-so di Wieliczka, quella dedicata a Santa Kinga, costruita da 8 operai in 3 anni di lavoro.

Wadowice35 km da Cracovia, una città che più provinciale non si può, un luogo in cui sembra che la storia non possa che lasciare flebili trac-ce, perché ai margini della vicen-da umana. Eppure qui nacque un uomo che non solo lascerà tracce indelebili nella storia polacca, ma in quella universale. Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II. La città di Wadowice non ha nul-la di straordinario. Insegne ancora modeste e poco curate si pavesano ovunque. Le foto e le scritte, le sta-tue e i locali dedicati a Giovanni Paolo II sono dappertutto: c’è una visione solo trionfalistica qui, nella sua città natale, di Karol Wojtyla. Il filo conduttore della stessa sto-ria polacca dopo la Prima guerra mondiale è stato proprio lui. Ve-nuto a mancare, s’è creata una sor-ta di smarrimento collettivo che

reportage

Wadowice. Al museo di Giovanni Paolo II.

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al palco dove il papa celebrerà la messa all’aperto, fino alla biblio-teca dentro la clausura, un ampio locale interamente rivestito di legno di radica di noce. Sull’albo d’oro ecco le firme più celebri: dai cardinali Ratti e Roncalli, futuri pontefici, ai “veri” papi Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, passan-do per l’intera famiglia Kennedy e… per il generale Himmler, che si dice sia passato di qui assieme ad Adolf Hitler in persona.

ŁagiewnikiLa notizia più emozionante nella visita al santuario di Giovanni Pa-olo II, proprio dinanzi all’“astro-nave” di suor Faustina Kowalska sulla collina Łagiewniki, è quella di sapere che proprio in questo sito sorgeva il complesso indu-striale della Solvay, dove il giovane Wojtyla aveva lavorato per alcuni

anni. Dall’alto della torre cam-panaria di 63 metri di altezza il complesso del santuario impres-siona, opera dell’architetto Andr-zej Míkulskí: al centro campeggia il santuario propriamente detto, attorno al quale sono stati eretti degli imponenti edifici che servo-no per l’alloggio dei preti, per i loro uffici, per l’ospitalità, per vari cen-tri culturali e attività congressuali ed espositive. E qui verrà ospitato il «vero museo di Giovanni Paolo II», che dovreb-be seguire l’itinerario dell’amicizia tra il papa polacco e un suo amico ebreo. E per finire saliamo da suor Faustina Kowalska, che morì di tu-bercolosi il 5 ottobre 1938, a soli 33 anni di età, al termine di una vita di ripetute visioni. In questo luo-go suor Faustina visse solo 6 anni, quelli comunque in cui ebbe la maggior parte delle apparizioni tra

le 280 che sono da lei raccontate nel Diario. Tra le visioni preceden-ti, si ricorda in particolare quella del 22 febbraio 1931, quando suor Faustina era ancora in convento a Vilnius, in cui Gesù in persona le avrebbe ordinato di far dipingere quello che lei vedeva in quel mo-mento, cioè un Gesù dal volto ra-dioso, con una mano che benedice e con l’altra con cui si tocca il petto all’altezza del cuore, da cui sgorga-no due raggi: uno rosso, per simbo-leggiare l’Eucaristia, e uno bianco, per simboleggiare il Battesimo. Tutto questo vedranno i giovani delle Gmg 2016.

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80 cittànuova n.7 | Luglio 2016

L’abbiamo visto da poco con Gigi Proietti in Una pallottola nel cuore 2, a TV2000 con i monologhi a Beati voi. Una quarantina di lavori alle spalle, Giovanni è luminoso, profondo. Curioso della vita. Stare con lui fa bene.

Dal debutto nel 2003 nel film La meglio gioventù alle fiction. Come vanno cinema e tv in Italia?Oggi tutti vogliono fare cinema, convinti che sia il punto d’arrivo per avere successo. Non ci credo troppo: vedo dei comici che sul web funzionano, ma sullo schermo si trovano dentro a una macchina commerciale che non gli permette di esprimersi liberamente. Io credo di dare il mio meglio a teatro: davanti alla telecamera devi crearti una immagine estetica oltre che comunicare con il pubblico. A me invece importa il rapporto puro, la pura comunicazione che si fa a teatro. Da noi, poi, se il cinema sopravvive con qualche buon prodotto, in tv la serialità va rivoluzionata: è un’arte fresca, un attore vi può raccontare la vita alla gente con uno spazio e un tempo enormi, porre delle domande a chi da tempo ha smesso di porsele.

Hai girato l’Italia con i tuoi monologhi, che sono stati anche premiati: Le ultime parole di Cristo, Guai a voi ricchi!, un successo di pubblico.Io ho bisogno di creare. Tante cose che facevo mi andavano strette, ho iniziato a scrivere,

anche se a casa con 3 figli non è facile, ma per fortuna ho mia moglie Elisabetta (ride, ndr)… Così sono nati i monologhi: un po’ filosofici- teologici in chiave comica e surreale vanno bene per tutti, miscelo vita reale a riflessione. Li ho replicati, a Roma, per mesi con centinaia di persone. Ora sto lavorando ai nuovi per l’anno prossimo a TV2000, dove con Alessandro Sortino ci siamo capiti all’istante. Non ci importa dell’audience: siamo liberi, io scrivo cose nuove, le recito anche per 8 minuti: una follia televisiva, ma vanno.

Lavori pure con i giovani di Casal del Marmo. Un’esperienza forte…La prima volta mi hanno colpito le facce: visi consumati dalla vita, ragazzi dai 18 ai 25 anni, in genere dal Sud Italia e dalla Romania. Si sentono privati della libertà, della giovinezza: la vivono come un’ingiustizia, non si pentono, anzi se escono, è difficile non ricomincino. Con un amico, Marco Scicchitano, li vediamo una volta la settimana per il progetto “Libera-mente emozionarsi”. Il teatro serve a far finta di essere qualcun altro per fare quello che mai faresti nella vita reale, di provare nuovi sentimenti. È un lavoro difficile, non duriamo oltre un’ora e mezza, ma si divertono, mi abbracciano, dicono “ti voglio bene”, anche se la volta seguente sono da riconquistare: sono diffidenti, chiusi. Ma anche noi

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libero di creareÈ l’attore romano Giovanni Scifoni.

Sulla breccia tra cinema, fiction e teatro.

E i giovani detenuti di Casal del Marmo

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81cittànuova n.7 | Luglio 2016

fatichiamo a recitare la nostra parte nella vita, a liberarci dagli schemi in cui la società ci limita. Io, ad esempio, ora che ho 40 anni, sento il bisogno di maggior energia per ritrovare l’entusiasmo nel lavoro. Non sono ancora giunto al top come attore. Penso di poter trovare il gusto di recitare anche nelle piccole cose: si può sempre creare. Un attore è infatti uno che dà la vita, la fa nascere. A un testo udito mille volte, da come tu lo esprimi, gli ridai la vita. Perché tutto è diverso: tu, chi lo ha recitato prima di te, il pubblico, il tempo in cui viviamo.

Attore e credente. Come gestisci il rapporto con la fede?Il mio è il lavoro migliore (ride, ndr)! Ha tanto a che fare con l’incarnazione di Cristo, che è stata la più straordinaria “interpretazione” nella storia, recitata da una persona che è un Dio a cui viene anche chiesto di fare l’uomo. L’ha fatto così bene che in croce ci ha creduto sul serio e ha gridato a Dio: «Perché mi hai abbandonato?». Io vorrei essere tanto bravo un giorno, da raggiungere – si fa per dire – quel livello di interpretazione. Certo, è difficile mantenersi fedeli a un percorso cristiano, perché la fede ha bisogno di serenità, di sentirsi legati durante il cammino, stretti a un’alleanza fatta con Dio e con la tua comunità. Invece il mio lavoro ha fatto della mancanza di legami un valore aggiunto, come un’opportunità in più. Perciò, a tenere insieme lavoro e fede si fa fatica. Ma che importa? Io sono un attore che ama essere “legato”.a cura di Mario Del Bello

L’attore Giovanni Scifoni.

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82 cittànuova n.7 | Luglio 2016

Tempo di vacanze, anche per la regina della televisione Maria De Filippi. La conduttrice va in ferie, ma non abbandona i suoi telespettatori. Da fine giugno va infatti in onda su Canale 5 un altro dei suoi discussi programmi, di cui lei questa volta è produttrice, ma non presentatrice: Temptation Island, alla sua terza edizione. Il reality show, basato su un format americano e condotto da Filippo Bisciglia dal 2014, fu lanciato come esperimento televisivo, per affermarsi infine come uno dei programmi più visti dell’estate. Il gioco prevede che alcune coppie non sposate, alcune già note al piccolo schermo, altre sconosciute, vadano su un’isola e rimangano 3 settimane all’interno di due villaggi separati: gli uomini da una parte, le donne dall’altra. È proprio all’interno di questi

villaggi per sole donne e soli uomini che iniziano le tentazioni. Le donne infatti condividono le giornate con un gruppo di ragazzi single incaricati proprio di corteggiarle e lo stesso avviene nel villaggio degli uomini, affiancati da attraenti ragazze single pronte a farli cadere in tentazione. Il programma avrebbe lo scopo di mettere alla prova la solidità del rapporto di coppia: le coppie destinate a durare continueranno il loro percorso d’amore, le altre… scoppieranno! Temptation Island si presenta come un mix tra Uomini e donne e il Grande Fratello: molte delle coppie in gara si sono formate proprio all’interno del salotto televisivo della De Filippi, mentre il conduttore Bisciglia è stato uno dei concorrenti più discussi di tutte le edizioni del Grande

Fratello; da Uomini e donne il reality riprende l’elemento del corteggiamento e come nel Grande Fratello, i concorrenti vengono costantemente spiati dalle telecamere. Il falò sulla spiaggia, durante il quale le fidanzate verificano, attraverso dei video confezionati ad hoc, il comportamento dei loro fidanzati e viceversa, diventa l’evoluzione (o forse l’involuzione) del tanto temuto confessionale gieffino. Proprio perché the show must go on – lo spettacolo deve continuare –, quasi si fa il tifo perché qualche coppia cada in tentazione, non fosse che per il desiderio di dire la propria sull’argomento (anche attraverso le famigerate piattaforme social), scagliandosi contro i traditori e le tentatrici e compiangendo invece i traditi e le tradite. Questo tipo di programmi giocano sul nostro desiderio di spettatori di intrufolarci nella vita degli altri, di nutrirci dei loro dolori e desideri, di dire la nostra giudicando così il comportamento altrui. La differenza è che non stiamo guardando un film, e che coppie che si dichiarano “reali” nella vita quotidiana, accettano di mettersi in vetrina pur di apparire in televisione, gettando così in pasto la loro relazione al voyerismo collettivo. Un meccanismo a cui dovremmo sottrarci sia da spettatori, sia nella vita reale. Inoltre, in un’epoca in cui le tentazioni non mancano e le occasioni di incontri, reali e virtuali, si moltiplicano, la coppia è già messa a dura prova senza che intervenga la televisione con programmi che sviliscono e calpestano il reale valore dell’amore, restituendone un significato distorto.Eleonora Fornasari

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Earte e spettacolo

temptation islandAlla sua terza edizione il reality show per coppie

che accettano di mettersi in vetrina offrendo

la loro relazione alla curiosità del pubblico

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Presso Palazzo Pitti (Firenze), in esposizione fino al 23 ottobre, il raffinato progetto antologico di 200 foto di alta moda di Karl Lagerfeld, stilista, designer, editore, realizzate con tecniche varie, dal dagherrotipo alla serigrafia, alla stampa digitale, a cura di Erik Pfrunder e Gerhard Steidl. Le immagini provenienti da pubblicazioni su Vogue, Harper’s Bazaar, Numéro, V Magazine, tra mito della bellezza

greca ed eleganti ritratti, offrono un inedito rapporto con gli spazi espositivi: gigantografie di moda in un dialogo d’arte concettuale con l’importante collezione di dipinti di Palazzo Pitti. Al contempo, in omaggio a “Karl Lagerfeld - Visions of fashion”, sull’Arno, blocchi di ghiaccio sono diventati “ponte temporaneo”, fatto di padiglioni di garza bianca, dedicato ai rifugiati. Alla cena d’inaugurazione sono stati donati in beneficenza 30 mila euro all’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, e devoluto il ricavato

della vendita del gioiello di Chopard e dell’abito icona di Dolce & Gabbana, indossato dalla top model Bianca Balti.Beatrice Tetegan

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il piano di maggieBuonissima commedia di mezza estate. Fotografia pungente dei rapporti umani oggi. Soprattutto sentimentali. Arriva dall’America, da quel Sundance Film Festival che sforna sempre prodotti gustosi dall’autorialità sostenibile. Si intitola Il piano di Maggie, di Rebecca Miller, con Julianne Moore ed Ethan Hawke, oltre alla giovane e brava Greta Gerwig. È un romantico, irregolare e intelligente triangolo di vite, molto femminile perché “disegnato” da una donna, la stessa Rebecca figlia di Arthur Miller, anche lei scrittrice oltreché regista, e tutto centrato su una donna, Maggie, appunto, che desidera e non sopporta l’amore, che vuole diventare madre e finisce per innamorarsi di un uomo sposato subito dopo essere ricorsa all’inseminazione artificiale. Di chi è il figlio, quello che porta nella pancia? Della modernità o dell’uomo (già padre di due bimbi) per cui ha perso la testa? Non è questo il tema del film. O meglio, non è solo questo, perché l’originalità della pellicola sta nello stacco improvviso con

cui si compie un salto di 3 anni: lo spettatore piomba dentro una crisi di coppia che obbliga Maggie, ecco il suo piano, a rimettere in moto l’amore (secondo lei ancora vivo) tra il suo ormai ex amato e la moglie di quest’ultimo. In carriera, sì, ma donna fragile e bisognosissima d’amore. È fatta di cuori ballerini, di risate e di situazioni spiazzanti e credibilmente paradossali, questa sofisticata e intelligente screwball comedy che riaggiorna l’ormai classica lezione di Woody Allen. Attraverso l’affannata ricerca di verità di Maggie si osservano gli

adulti e i piccini prodotti dalla nostra società, non solo quella newyorkese dell’ambientazione, e ci si confronta con la confusione dei vari protagonisti. Siamo anche, però, dentro un film sull’imprevedibilità della vita, sulla bellezza di quella cosa, come diceva John Lennon, che capita mentre tu fai progetti. Proposta da non perdere, Il piano di Maggie, per godersi le grandi potenzialità della commedia e per riflettere, senza rassegnarsi all’esistente, sulla difficile condizione della famiglia contemporanea. Edoardo Zaccagnini

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napoli cambia

pascal andando per festival

Unica data estiva prima del tour autunnale, il 16 luglio nella splendida cornice di Castel Sant’Elmo, per il musical tutto italiano Change - Napoli cambia. Il progetto nasce dall’incontro del coro giovanile del Teatro San Carlo con Carlo Morelli, attuale direttore. I Sancarliani, così chiamati dagli affezionati fan, hanno il quartier generale nella periferia est di Napoli, nell’ex fabbrica Cirio. Il repertorio spazia dalla classica al pop, da brani moderni a composizioni rinascimentali. Un mix esplosivo che ha un unico intento sociale, gratuito e no profit: aprire il mondo della musica ai giovani, consentendo l’inserimento nel mondo del lavoro. La trama ricalca la storia vera, romanzandone alcuni passaggi: i giovani del coro dovranno scontrarsi con Don Ciccio, un boss mafioso che vuole distruggere il progetto. Il tema sociale è sostenuto da brani che abbracciano il panorama musicale mondiale da Aretha Franklin a Pino Daniele. Le coreografie, curate da Gennaro Cimmino e Chiara Barassi, imprimono vitalità e ritmo alla storia. Un bel modo per raccontare una Napoli che cambia.Elena D’Angelo

Matteo Caccia ci riprova. Il talento e il garbo ci sono. Pascal, in onda su Radio2 – ritornerà a settembre –, prende il nome dall’unità di misura utilizzata per misurare la pressione atmosferica. Diventa una metafora del tempo, interiore ed esteriore. La sigla si rifà al motivo musicale, con qualche piccola variazione, dello storico programma Rai Che tempo fa e il format prevede un tema che si esaurisce in ogni puntata declinato in 3 storie. La prima è un racconto di ordinaria quotidianità. Il conduttore in

modo asciutto, veloce, ci porta al centro della storia, il protagonista rivive un episodio, un’emozione sedimentata nel tempo che si attualizza con un’intervista in cui scopriamo il suo vissuto calato nella realtà di oggi. La seconda storia prende spunto da un fatto d’attualità contemporaneo e la terza ci fa viaggiare a ritroso nei secoli. Passato e presente così sono uniti in un’unica dimensione temporale dell’anima che non ha tempo e non passa. Per la prossima stagione si possono inviare le proprie storie tramite il sito web di Pascal e per l’estate si possono leggere le 150 storie pubblicate e scaricabili gratuitamente su un e-book.Aurelio Molè

Il luglio dei festival lungo la Penisola è ricco di compagnie e nomi celebri. Torna Roberto Bolle and Friends, il Gala con alcune stelle internazionali attorno al famoso ballerino, interprete e direttore artistico (a Spoleto il 13/7, e alle Terme di Caracalla di Roma il 25 e 26). Il Czech National Ballet sarà a Spoleto con Romeo e Giulietta: gioia di vivere e umanità dei personaggi permeano la coreografia di Youri Vàmos. Sempre a Spoleto, la Batsheva Dance Company presenta un programma creato proprio per il festival e tratto da Decadance, spettacolo composto da alcuni estratti delle creazioni di Ohad Naharin. Altro israeliano naturalizzato in Francia, Emanuel Gat, sarà a Bolzano Danza, il 25, con l’originale rilettura della Sagra della Primavera di Stravinskij, Sacre, e Gold, costruito sulle Variazioni Goldberg di Bach interpretate al pianoforte da Glenn Gould. Due lavori che indagano i rapporti umani, la complessità delle relazioni attraverso una danza astratta di connessione e sguardi. Al Ravello Festival, il 28, per i 400 anni dalla morte di Shakespeare, debutta Before Break ispirato a La Tempesta, coreografia di Michela Lucenti di Balletto Civile.Giuseppe Distefano

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capossela: di polvere e d’ombraVinicio è figlio d’immigrati. E le sue radici sono più che mai presenti in questo suo doppio album, atteso da anni e finalmente disponibile col titolo di Canzoni della Cupa. 16 brani nel primo disco, 12 nel secondo. Tutta roba buona e scorbutica – ci saremmo stupiti del contrario – dove fra chitarrine messicaneggianti, fisarmoniche e fiati da banda di paese, il più originale dei nostri cantautori rende innanzi tutto omaggio a uno dei suoi maestri di riferimento, Matteo Salvatore. Ma lo fa a modo suo, frantumando suoni e ricordi per poi reinventarli, lasciando che l’apparenza bassa e ruspante celi abissi di

cultura dentro l’incedere sbilenco e l’ubriachezza fascinosa di un altro dei suoi modelli, Tom Waits. Un’opera folk, ma priva d’intenti filologici e parimenti lontana dal becero folklorismo; frutto, piuttosto, di radici di cui il Nostro è ben consapevole e riconoscente, ma non schiavo.Certo, a tratti le atmosfere si fanno meno impervie come nella spumeggiante Padrona mia o in ballate come Componidori, ma nel complesso ciò che tracima dai solchi è l’istinto irregolare, quasi banditesco di un artista orgoglioso della propria distanza dai cliché imperanti, del suo lessico così anomalo, del suo riuscir a cavar soldi e spettacolo in un modo così sfacciatamente anticommerciale. Canzoni maturate in più di un decennio, che attingono – per usare parole sue – alla «civiltà

della terra, dove il sacro era immanente nelle cose», intrecciando il nostro Sud con quello più povero e rurale degli States (grazie anche alla presenza di band come Calexico e Los Lobos). Due dischi diversi nelle intenzioni più che negli esiti: il primo più dichiaratamente terrigno e polveroso, l’altro più ombroso e lunare. Storie e leggende

in suggestivo equilibrio tra menestrellismo e cantautorato, tra le cadenze dei vecchi cantastorie e la poetica di un troubadour postmoderno. Tutte insieme aggiungono un nuovo tassello al Vinicio fin qui conosciuto: per ribadire un imprinting senza stravolgere quel che nel frattempo è diventato.Franz Coriasco

David Garrett:“Garrett Vs Paganini” (Decca)

Il Trillo del diavolo, I Capricci

n.5 e n.21, la Sonata alla

turca del celebre Niccolò. Ma

anche il Rachmaninoff del

Concerto n.2 e il Capriccio-

Tarantella insieme a Bocelli: il

violinista germano-americano

interpreta con la zampata del

grande solista. M.D.B.

Beyoncé: “Lemonade” (Sony Music)

La diva di Houston prende le

distanze dai cliché del pop

patinato, e con la complicità

della sua crisi matrimoniale,

affronta la condizione

femminile delle afro-

americane. Un disco grezzo

e arrabbiato, stilisticamente

variegato, che segna una

svolta nel suo percorso. F.C.

Renato Zero: “Alt” (Tattica)

Un frullatone pop ben

confezionato e duro nei

contenuti, che tuttavia

il Renatone spesso

appesantisce con prediche e

semplicismi da capopopolo.

Ma Zero è sempre stato un

istrione e chi lo ama troverà

pane per le proprie orecchie. F.C.

Elena Ferrante:“Storia della bambina perduta” (Emons audiolibri)

Capitolo conclusivo della

tetralogia, letto da Anna

Bonaiuto. Elena torna a vivere

a Napoli. Qui ritrova Lila e

la loro amicizia torna quella

di un tempo. Una scrittura

avvincente, vicina alla vita. G.D.

cittànuova n.7 | Luglio 2016

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il giornalino dei bambini in gamba*

TRATTO DAn. 5 - MAGGIO 2016

POLVERE DI STELLELa principessa Stella era molto bella. Abitava in un grandissimo castello con cento stanze e tanti armadi, che la principessa riempiva con meravigliosi vestiti e grandi bauli pieni di gioielli scintillanti. Stella era gelosa dei suoi vestiti e dei suoi gioielli: le piaceva averne tanti e potersi cambiare ogni giorno per far splendere ancora di più la sua bellezza. La principessa, però, era anche molto buona. Amava il suo popolo e voleva che tutti vivessero bene. Per aiutare chi aveva bisogno, Stella aveva un segreto, che non rivelava a nessuno. Una notte, attirata dallo splendore delle stelle, era salita sulla torre più alta del castello. Era uscita dalla finestra e aveva posato il suo piedino delicato su una nuvola.

Piena di stupore, aveva cominciato a passeggiare, saltando da una nuvola all’altra, e si era messa a raccogliere la “polvere di stelle”: una sabbia finissima, dorata, che arrivando sulla terra si trasformava in polvere d’oro.

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Stella ogni notte raccoglieva due o tre sacchetti di polvere di stelle, si metteva un mantello rosso col cappuccio, usciva dal palazzo e passava per il villaggio lasciando pacchettini di polvere d’oro alle famiglie più povere del suo regno. Immaginate la gioia, al mattino, per la mamma che finalmente poteva comprare il cappottino al suo bambino, per il papà che poteva acquistare la medicina per la moglie ammalata… Stella era contenta di poter aiutare il popolo, ma quando tornava nel suo bellissimo castello si sentiva di nuovo triste e sola.Una notte successe una cosa strana: il cielo era particolarmente buio, senza luna. Stella salì lo stesso sulla torre più alta, ma fuori era talmente scuro che le venne paura di non vedere le nuvole su cui camminare.

Venne di nuovo la sera e cominciò una nuova notte,

ancora più buia: Stella era sempre più triste. «Cosa

posso fare?», pensò, mentre passeggiava nelle stanze

del castello. All’improvviso le venne un’idea: raggiunse

uno dei suoi tanti bauli e tirò fuori manciate di gioielli…

Cominciò a fare tanti pacchettini. Poi aprì gli armadi e

cominciò a tirare fuori un po’ dei suoi bellissimi vestiti.

Così, con la sporta carica di cose, uscì nella notte e

riprese il suo giro. La mattina dopo, poi, ritornando nel

suo bellissimo palazzo, per la prima volta la principessa

lasciò aperte le porte del parco per far entrare i bambini a

giocare. Da quel giorno Stella non fu più sola e sentì il suo

cuore pieno di gioia: aveva scoperto la vera felicità.

Così, la principessa scese dalla torre e andò nel villaggio, triste perché non aveva niente da portare. «Domani raccoglierò tanta polvere di stelle – pensò –, così potrò aiutare molta gente». Ma venne una seconda notte buia e triste e poi una terza e una quarta: così niente polvere di stelle! Fuori del castello il popolo non capiva cosa fosse successo e tante famiglie erano in difficoltà.

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SPORTpagine verdi

l’atleta del secoloTante le icone nella storia delle Olimpiadi, ma quanti ricordano l’olandese Francina Elsje Blankers-Koen, emblema di riscatto per un’intera generazione femminile?

Tanti hanno celebrato il mito di Carl Lewis, quel “figlio del vento” premiato quale il più grande “atleta del XX secolo” nel 1999 dalla International Association of Athletics Federations. Ma quanti ricordano la donna premiata accanto a lui quale “atleta del secolo” femminile? L’olandese Francina Elsje Blankers-Koen, per tutti Fanny, stupì il mondo non tanto per avere inanellato qualcosa come 4 medaglie d’oro ai Giochi di Londra 1948, ma soprattutto per averlo fatto da 30enne, sposata e madre di due bambini, fatto già inaudito per tempi in cui l’attività sportiva femminile era ancora a dir poco osteggiata. Specializzata in velocità negli ostacoli alti, non disdegnò altre discipline quali il salto in alto, in lungo, il getto del peso e prove multiple. Nata il 26 aprile del 1918, Fanny rappresentò, in un mondo piagato dalla Seconda grande guerra che riapriva i suoi stadi allo sport nel 1948, l’emblema di un riscatto

Fanny Blankers-Koen, nel 1949, insignita della medaglia di cavaliere

dell’ordine di Orange-Nassau, una decorazione militare e civile olandese.

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89cittànuova n.7 | Luglio 2016

possibile per un’intera generazione femminile e forse di più. Questo nonostante qualcuno le avesse intimato, in reiterate lettere di minaccia, di «stare a casa a badare ai figli e fare la moglie». Questo nonostante qualcun altro, come Jack Crump, segretario onorario dell’Amateur Athletic Association, manager della delegazione di atletica inglese ai Giochi, nonché commentatore sportivo per la Bbc e corrispondente del Daily Telegraph, l’avesse bollata come “troppo vecchia”. Fanny rispose con 4 ori: un risultato che i media, forse per pentimento, celebrarono paragonandola a Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino 1936. Amsterdam la ribattezzò “mammina volante” con un bagno di folla all’aeroporto, una carrozza per il giro d’onore, le lodi della

regina Juliana e il titolo di Cavaliere dell’ordine di Orange-Nassau. «Ma mia madre non è mai stata femminista – ha ricordato la figlia in un’intervista nel 2012, con riferimento all’icona di emancipazione che le femministe vollero vedere in lei –, piuttosto era un’agonista: anche allo stop del semaforo doveva essere la prima a partire». Una fame di vittoria iniziata presto, quando, pur di allenarsi con l’Amsterdam Dames’ Athletic Club, percorreva in bici più di 40 km, fino a meritare

la convocazione ai Giochi di Berlino 1936. Affinata dai dettami di Jan Blankers, ex triplista olimpico e coach della nazionale, che sposò nel 1940, quando Hitler marciava sull’Olanda alla conquista di Belgio e Francia. Una fame cresciuta tra gli allenamenti nei boschi della capitale, mentre leOlimpiadi venivano soppresse dalla guerra ma le competizioni, seppur interrotte dai bombardamenti, continuavano, vedendola nel 1944 battere prima il record inglese sulla

4x100, insieme a Jenny Adema, Netty Timmer, Gerda Joudijs, quindi quello tedesco sulla 4x200 con la stessa squadra, cui si unì Lies Sluyters subentrando alla Adema.Curiosa ma sempre maestra, la storia: mister Blankers pensava in gioventù che le donne non dovessero gareggiare (un’idea diffusa all’epoca), cambiò atteggiamento dopo essersi innamorato di Fanny, più giovane di lui di ben 15 anni. E pensare poi che all’epoca le atlete di alto livello sposate erano una rarità: ciò che era inconcepibile, ossia che una madre facesse agonismo, per i coniugi Blankers-Koen fu la pionieristica scelta di vita che alzò l’asticella dell’emancipazione femminile e non solo.Fanny guidò la nazionale di atletica dagli Europei del 1958 alle Olimpiadi del 1968. Celebre una sua dichiarazione arrivata pochi anni prima della morte, giunta il 25 gennaio 2004: «Nel 1936 mi feci firmare un autografo da Jesse Owens. Lo incontrai nel 1972 a Monaco di Baviera e mi presentai. Lui rispose che non era necessaria alcuna presentazione».

Contenuti aggiuntivi su cittanuova.it

Le Olimpiadi 2016 giorno

per giorno

di Mario Agostino

IAAF Hall of Fame

Fanny Blankers-Koen è membro dal 2012

REQUISITI:2 medaglie d’oro ai Giochi olimpici estivi o ai Campionati del mondo di atletica leggera e un record mondiale in una delle due competizioni EXTRA

Fanny Blankers-Koen alle Olimpiadi di Londra 1948, negli 80 metri a ostacoli.

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90 cittànuova n.7 | Luglio 201690 cittànuova n.7 | Luglio 2016

di Cristina Orlandi

Vellutata di ceci con sauté di cozze e vongole

INGREDIENTI PREPARAZIONE

Un piatto unico ricco e delizioso che sprigiona tutti

i profumi del mare, attraverso la cremosità dei legumi.

per 4 persone

› 1 barattolo di ceci da 400 g

› acqua

› 1 scalogno

› 1 costa di sedano

› 1 carota

› 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva

› timo

› 800 g di cozze

› 800 g di vongole

› 200 g di pomodorini ciliegia

› 1 spicchio d’aglio

› prezzemolo tritato

› q.b. di sale e di pepe

In un tegame unire ai

ceci tre barattoli colmi

di acqua, scalogno,

sedano e carota tagliati

grossolanamente e

sale. Portare a cottura,

quindi frullare il tutto

e profumare col timo.

Far spurgare i frutti

di mare e privare le

cozze del bisso e di

tutte le impurità. In

una padella con olio

d’oliva mettere uno

spicchio d’aglio, farlo

rosolare e unirvi cozze

e vongole. Saltare per

alcuni minuti, coprire e,

quando saranno aperte,

unire i pomodorini a

spicchi, cuocere per

un minuto, quindi

scolare, spolverare di

prezzemolo e tenere

in caldo. In una ciotola

filtrare il liquido di

cottura. Servire la

vellutata in un piatto

fondo con sopra i frutti

di mare, alcuni sgusciati,

un paio di fettine di pane

bruscato, olio, pepe

nero e qualche goccia di

liquido di cottura.

BUON APPETITO CON...pagine verdi

cottura30 min

preparazione 45 min

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91cittànuova n.7 | Luglio 2016

EDUCAZIONE SANITARIA di Spartaco Mencaroni

di Luigia Coletta

Sono circa una trentina le specie che vivono nel Mediterraneo. In Italia ne sono coltivate due: una filippina e una verace nostrana, ambedue molto apprezzate. Dal punto di vista nutrizionale questi molluschi hanno un ottimo contenuto di vitamine A, B (tra cui anche la B12), ecc. Notevole è la ricchezza di minerali: ferro, iodio, zinco (la cui presenza,

che caratterizza i molluschi, è molto importante per rinforzare il nostro sistema immunitario) e il selenio (considerato un fattore antinvecchiamento). Le vongole hanno un basso indice calorico: 100 gr. di parte commestibile hanno circa 70 calorie e una decina di grammi di proteine. Inoltre hanno poco tessuto connettivo e quindi si

digeriscono facilmente. Attenzione per chi soffre di ipertensione e malattie cardiache: sono ricche di sodio e di lipidi. È bene acquistare le vongole presso venditori che diano una certa garanzia sulla loro provenienza: possono essere veicolo di batteri e di virus patogeni (tifo, salmonella, epatite...), perciò devono essere consumate ben cotte.

Come prepararsi alle vacanze in spiaggia?L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di zone balneabili: ben 4867 marine e 644 interne, quasi un quarto del totale dei 28 Paesi membri. La buona notizia è che i dati sulla qualità dell’acqua, già molto positivi, sono quasi ovunque in continuo miglioramento: oltre il 95% dei siti è considerato “eccellente” o “buono”, ossia ben

al di sotto dei limiti minimi di inquinamento microbiologico. Una vera eccellenza nazionale, da esplorare anche su www.portaleacque.salute.gov.it, che permette di informarsi sui siti censiti, Comune per Comune, tramite l’utilizzo di una interfaccia grafica in stile “Google Maps”. Oltre ai risultati dei controlli svolti e al loro andamento nel tempo, si possono scaricare schede che

indicano le caratteristiche delle spiagge e la presenza di eventuali fattori che possono comportare limitazioni e divieti. Non mancano, nelle sezioni tematiche, notizie per vivere il mare in sicurezza: consigli per l’esposizione al sole, informazioni su fauna e flora marina potenzialmente pericolose, semplici regole per evitare incidenti.

Da quando mio marito ha piantato in balcone una pianta di aloe, ho sempre di più toccato con mano le sue proprietà “taumaturgiche”. In primis come rimedio naturale alle scottature (dai fornelli al balcone per fortuna il passo è breve). Per dare immediato sollievo ed evitare le classiche bolle d’acqua sulla pelle, basta

tagliare un pezzettino di foglia e sfregare il liquido gelatinoso sulla bruciatura, a meno che non sia grave, ovvio. Però della sua utilità mi rendo conto soprattutto d’estate, al presentarsi delle prime famigerate succhiasangue. Ne faccio infatti un uso cospicuo da quando ho visto la reazione della pelle di Michele alle punture di zanzara: grossi ponfi

rossi che, grattati, hanno già lasciato qualche cicatrice. Contemporaneamente, per prevenire invece che curare, oltre a usare cremine, spray e zanzariere, sono diventata campionessa di “zanzara fulminata con racchetta elettronica”. Ma questa è un’altra storia...

ALIMENTAZIONE di Giuseppe Chella

DIARIO DI UNA NEOMAMMA

ALOE, A PROVA DI ZANZARE

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ESTATE AL MARE?

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La plastica è stata la grande invenzione del secolo scorso. Ora però bisogna correre ai ripari contro l’inquinamento soprattutto dei nostri mari. E così uno studente islandese ha inventato la bottiglia fatta di alghe, testando a lungo la resistenza e la plasmabilità dei materiali: dalla lavorazione di acqua e polvere d’alga rossa, il composto 100% naturale e biodegradabile.Una materia prima del tutto naturale che potrebbe risolvere i danni provocati all’ambiente dalla produzione delle plastiche e dal loro riciclo.Ad Ari Jònsson, studente 32enne dell’Accademia d’Arte di Reykjavík, sono bastati due elementi per far scattare la scintilla e portare alla creazione di questa vera genialità. Due ingredienti completamente naturali: l’acqua e l’agar-agar, una polvere che si ottiene dalla lavorazione dell’alga rossa. Unendo questi componenti, infatti, si può arrivare in pochi istanti a realizzare un recipiente resistente: acqua e agar assieme formano una miscela dalla consistenza gelatinosa ma poco lavorabile; se, però, questa viene riscaldata a fuoco lento, diventa più elastica; mettendola, infine, per qualche minuto in congelatore dentro ad appositi stampi, si

riesce a renderla solida e riempibile. Ed ecco che nasce la “bottiglia d’alga”.Una delle caratteristiche più forti e interessanti della ‘’bottiglia ecologica’’ è che, fin quando resta a contatto con i liquidi al suo interno, mantiene intatte le sue proprietà. Il processo di decomposizione inizia solo quando questa viene svuotata del contenuto. A quel punto il composto diminuirà di volume piuttosto rapidamente, fino a scomparire del tutto.Le bottiglie tradizionali, se disperse nell’ambiente e non riciclate, hanno un impatto molto nocivo. La bottiglia eco invece si ricicla da sola e non rilascia agenti inquinanti. Unico difetto (dipende dai punti

di vista!) è il sapore di alga che assume il liquido all’interno dopo il contatto prolungato col materiale.Ma se vi piace, potete anche mangiare la bottiglia, o darla come pasto per i pesci del vostro acquario perché, come detto, la miscela di acqua e agar-agar è anche commestibile. La cucina vegana o quella orientale utilizzano infatti l’alga rossa in campo alimentare. Il dessert giapponese Anmitsu è proprio a base di gelatina di alghe rosse.

di Lorenzo Russopagine verdi

le bottiglie del futuroEcosostenibili e commestibili, sono composte di alghe invece che di plastica

AMBIENTE

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Cos’è l’agar?

Un sottoprodotto

della lavorazione

delle alghe rosse o,

più tecnicamente,

un polisaccaride già

utilizzato in cucina come

gelificante naturale per

dessert e aspic grazie

all’elevata quantità

di carragenina che

contiene.

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la vignettaGIBI E DOPPIAW

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Dialogo con i lettoriRispondiamo solo a lettere brevi, firmate, con l’indicazione del luogo

di provenienza.

INVIA A [email protected]

OPPURE via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma

nel lavoro, l’utile e il fine sono più in voga e fanno girare meglio l’economia. Mai esagerare col far funzionare troppo il proprio cervello, è un pericolo, davvero. Ormai, pur di lavorare siamo disposti, il più delle volte costretti, a tutto, nella solitudine. Una solitudine che non va bene. Bisogna unire quanto di sano è rimasto, in fondo chi ha potere continua ad averlo finché qualcuno glielo dà. È un circolo vizioso da spezzare.› Daphne Capobianco - Roma

Certamente c’è bisogno di un nuovo movimento sindacale, quello vecchio è purtroppo anch’esso troppo spesso corrotto e corrispondente all’identikit che la nostra lettrice ci scrive. La solitudine del lavoratore di fronte a chi gli dà lavoro è in effetti spesso e volentieri un modo per permettere soprusi e ingiustizie. Un sindacato che riparta da coloro che ci tengono troppo al bene comune per accettare certi compromessi. Grazie, signora Capobianco, della sua testimonianza.

Una giornata specialeTalora i sogni si avverano. A noi è accaduto domenica 29 maggio, in cui per la prima volta a Trieste

siamo riusciti a fare una “Festa della fraternità” nel quadro del progetto “Insieme per l’Europa” che in questa città va avanti da 12 anni. La fraternità è stata quest’anno esplicitamente annunciata come il collante che unisce la comunità dei Focolari con una ventina di associazioni proiettate nel servizio alla città, molte di ispirazione cristiana, altre con un forte timbro di passione umana e civile, altre di fedi diverse. Abbiamo così deciso che era possibile aprirsi di più, specialmente ai fratelli immigrati. C’è stato chi si è caricato del peso burocratico, chi dell’informazione, chi dei contatti con gruppi musicali e di danzatori, chi ha preparato le testimonianze, chi i rapporti con le autorità, chi ha inventato la locandina, chi si è occupato del momento conviviale. Ne è uscita un’armonia contagiosa tra i circa 300 partecipanti. Un esempio per tutti, l’arrivo di un deputato triestino noto a livello nazionale, venuto senza sapere di cosa si trattasse, che è rimasto sbalordito e ha dichiarato di essere commosso da questo incontro così vario e condiviso. › Elena e Silvano - Trieste

Città Nuova è testimone di centinaia di appuntamenti che, organizzati da comunità locali a geometria variabile, di diverse associazioni, movimenti e gruppi, vogliono mostrare che la società civile crede ancora al bene comune, alla concretezza del rimboccarsi le maniche perché le nostre città siano più vivibili. Non fanno notizia, ma sono “la” notizia, in un Paese preda troppo spesso del disfattismo e del disimpegno.

Giordani e la CostituzioneMi domando perché Benigni, parlando della Costituzione, non abbia mai citato Igino Giordani. Ha fatto così tanto e nessuno ne parla, perché? › Renato Guareschi - Milano

Giordani, il nostro primo direttore 60 anni fa, uno dei “padri fondatori” della nostra Repubblica, non è tuttavia tra i più noti, perché a suo tempo scese dal carro dei vincitori per rimanere fedele alle sue convinzioni di cristiano tutto d’un pezzo. Forse per questo non viene ricordato così di frequente. Ma la sua grandezza rimane. Verrà il momento in cui anche Benigni o qualche altro uomo di spettacolo si accorgerà di Giordani.

Ci vuole coraggio!Sono una psicoterapeuta e penso (questo è il primo problema!) che ci vuole coraggio! Senza andare lontano, nella vita di tutti i giorni. La corruzione fa ormai parte della nostra “s-cultura” e la “prassi” diventa la scontata “normalità”. Ma “normalità” per chi? Per chi ha il potere e ne abusa. Per fortuna c’è ancora chi, con la mia stessa ingenuità, ne rimane almeno sorpreso. Qualche mese fa ho lasciato un lavoro in cui le regole del gioco erano poco chiare. Pizzo, tangenti, lucro, interessi… Però non diciamolo, “pare male”, come si suole dire, e ne va della nostra immagine, di professionisti per di più. Poca roba mi veniva chiesta per lavorare, quasi da far sorridere, eppure il Vangelo mi ha insegnato che «chi è fedele nel poco, è fedele nel molto». Non sta a me giudicare, se non fosse per la slealtà in cui questi gesti vengono spesso fatti, per l’umiliazione che comportano, per la fiducia tradita, per la paura di sbagliare davanti a chi è pronto a ferirti. Una grande difficoltà nel riconoscerci come simili, esseri umani. La morale e la deontologia non vanno assolutamente nominate

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Proteste in FranciaSto seguendo con interesse quanto accade in questi giorni in Francia, cose d’altri tempi, vicino al mondo operaio della mia giovinezza. Un mondo scomparso, solo la classe operaia francese sta facendo un’ultima lotta stile cavalleria polacca contro il carro armato-job act di Hollande. Quando sarà sconfitta dai cannoni ad acqua di Valls, la Francia si butterà definitivamente a destra, nelle braccia dei populisti, pardon, degli xenofobi, come chiama le opposizioni Napolitano. Questi sprovveduti operai francesi non hanno capito nulla, non essendoci più il lavoro, il job act non può essere una riforma del lavoro, ma un banale modo per dare aiuti di Stato ad altri, a spese loro. › Giovanni Arletti

Le contestazioni di Francia sono soprattutto studentesche, di chi si affaccia in un mondo del lavoro devastato dalle crisi economiche e dallo spostamento dell’asse economico mondiale dall’Atlantico al Pacifico. Gli operai francesi, come quelli italiani, sono ormai pochi, parcellizzati in mille associazioni di protezione dei lavoratori che non incidono più sulla politica. Lo ripeto, credo che una certa rappresentanza sindacale debba mutar pelle e tornare a difendere non più una categoria particolare di lavoratori in forme corporative, ma i poveri, i derelitti, gli esclusi… Coloro che non hanno lavoro!

Beati voiMi prendo la libertà di segnalare questa bella trasmissione di Tv2000. Il conduttore Alessandro Sortino sa intrattenere gli ospiti con cordialità e competenza. Mercoledì 25 maggio la trasmissione era incentrata sull’immigrazione. È stata portata l’esperienza dei fotografi presenti a Lampedusa, ma anche in altri campi profughi come in Libano, dove si vive in maniera assurda. Poi hanno parlato profughi che hanno trovato accoglienza in Italia e che stanno lavorando in proprio e di altri che non trovano come sostenersi. E che dire dei 3 sacerdoti stranieri che sono parroci nelle periferie di Roma? Insomma, è una trasmissione, per me, davvero positiva, che incoraggia e dà una visione stimolante della realtà che stiamo vivendo.› Paola

Quando ci arrivano elogi per i colleghi più bravi esultiamo! Siamo in effetti una categoria professionale in grave difficoltà, che nella sua parte più giovane e intraprendente sta purtroppo riducendosi a “proletariato” e che ha bisogno di essere sostenuta.

Referendum costituzionaleSono rimasto molto sorpreso e amareggiato per l’articolo sul referendum costituzionale di Iole Mucciconi pubblicato sul sito il 19 maggio. Il parere del prof. Lanchester, anche se accattivante, mi sembra fuori luogo, soprattutto perché parla da un pulpito teorico.

Mario Calabresi, direttore de La Repubblica, in

una recente conversazione sul web, segnalava

la fiducia ai minimi storici nei confronti dei

giornalisti. «Oggi – aggiungeva – si acquista

un quotidiano perché c’è un amico che ti

consiglia articoli e riflessioni di qualità. Si

predilige il “metodo passaparola” e, quindi,

l’acquisto di un libro, di un quotidiano, di

una rivista passa attraverso la fiducia che

hai nell’interlocutore che te li segnala» (sono

parole che potete ascoltare cercando sul web).

Mi ricorda il sistema di marketing che Città Nuova ha adottato per 60 anni: la forza dei

lettori che sconvolge le regole del mercato

editoriale basato sulle 3 esse (soldi, sangue,

sesso…) perché cerca, segnala, vuole quelle

buone notizie che costruiscono “nuove città”

ed esige trasparenza e certezza delle fonti.

In una parola, la ricerca della “verità”. Quelli

di Città Nuova sono lettori contraddistinti da

passione, pazienza e perseveranza che può

arrivare, nel tempo, a “fare massa critica” e

incidere sull’opinione pubblica. Per questo

il nostro marketing è legato ai lettori e la

promozione estiva (pag. 2) vorrebbe essere

un volano per leggere – c’è più tempo – e

diffondere – quante amicizie nascono in

estate! – idee e proposte che potrebbero

essere agenti di cambiamento. «Siamo quello

che leggiamo», ci ricorda lo scrittore inglese

Aidan Chambers. E non si diventa lettori per

caso. C’è sempre qualcuno che ci trasmette la

sua passione, che può fare la differenza.

MARTA CHIERICO

[email protected]

PASSIONE E OPINIONE

La nostra città.

di Michele Zanzucchi

cittànuova n.7 | Luglio 2016

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di Michele Zanzucchi

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referendum, ma anche a coloro che dicono sì. Ci sembra importante creare spazi di dialogo in cui si riesca ad ascoltarsi senza demonizzazioni reciproche. Per quanto riguarda le alternative a Renzi, le elezioni amministrative hanno indicato che non pochi elettori vogliono cambiare, affidandosi ai pentastellati. Credo che troppo spesso noi italiani, cedendo a un certo fatalismo ingenuo, crediamo nell’uomo della provvidenza, che si chiami Silvio, Matteo o Beppe. Le nostre società sono complesse e hanno bisogno di risposte complesse, che non possono mai venire da una sola persona, per quanto geniale possa essere. Servono processi, non occupazione di spazi, come ripete Bergoglio.

Parola di vitaVolevo esprimere il mio pieno apprezzamento per il commento di Fabio Ciardi alla Parola di vita

di maggio. È riuscito, tra l’altro, a contenere la lunghezza del commento. Un testo la cui validità risalterebbe anche meglio se la Parola di vita, come in passato, venisse richiamata 2-3 volte all’interno del testo. Comunque, trovo meritevoli di attenzione le sue riflessioni sulla Presenza divina, che «non vuole abitare soltanto nella mia anima, nella mia famiglia, nel mio popolo, ma tra tutti i popoli chiamati a formare un popolo solo». Con Gesù risorto, è stato superato il concetto, divenuto anacronistico, di un solo popolo eletto. È questa la... globalizzazione virtuosa: «Un popolo composto da molti popoli». Ed è appropriata l’ampia citazione di Chiara Lubich, che, già nel 1959, auspicava una nuova era, nella quale, accanto all’amore reciproco tra i fratelli, sarebbe diventato possibile e necessario l’amore reciproco tra gli

Stati. Ciò avrebbe reso «vivo e presente Gesù fra i popoli». Oggi, essendosi aggravate la miseria e le lotte fratricide in più di due terzi dell’umanità, come cristiani dobbiamo saper esprimere accoglienza e solidarietà verso i tanti che cercano un futuro migliore nei nostri Paesi. › Sergio Borrelli

Approviamo e sottoscriviamo.

Giorgio MarchettiCi ha lasciati un altro testimone della prima ora dell’avventura dei Focolari, Giorgio Marchetti, medico, psicologo, moralista, sacerdote. Padovano, d’intelligenza geniale, un appassionato della vita, è stato anche per 50 anni autore per le riviste e i libri del Gruppo Città Nuova. Lo ricordiamo con affetto e riconoscenza. Profilo e scritti su cittanuova.it.

Tuttavia non entro nel merito, non potrei, ma nel metodo. Non capisco come in Italia, dove si fanno una pletora di leggi che nessuno rispetta, si abbia paura del referendum di Renzi. Lasciamo invece che la riforma si faccia, poi se non funziona si fa in tempo a cambiare ma almeno diamo un poco di fiducia a questo povero Renzi, mentre, in Italia, gli infiniti governi balneari e i 60 milioni di Soloni, che sanno tutto e vogliono insegnare a tutti, lasciano sempre il Paese in stallo. Senza accorgersi che sono 60 milioni di Don Chisciotte che fanno continuamente la lotta ai mulini a vento lasciando le cose come prima. È mia ferma convinzione, fra l’altro, che le alternative a Renzi ora sarebbero pessime. › Mario D’Astuto

Sul nostro sito siamo molto attenti a dar voce non solo a chi dice no al

cittànuova n.7 | Luglio 2016

IN UNA CASA ABBANDONATACarla, 35 anni, vive

in estrema povertà in

una casa abbandonata

insieme a un’altra donna.

I servizi sociali le hanno

allontanato sua figlia e di

questo soffre tantissimo.

Noi andiamo una volta o

più al mese per portare

un aiuto materiale con un

po’ viveri e un sostegno

morale scambiando

qualche parola di

speranza. Si chiede aiuto.

Guardiamoci attorno a cura dell’associazione Progetto Sempre Persona

Invia il tuo contributo tramite c.c.p. n. 34452003 oppure tramite bonifico bancario (Iban IT46R07601032000000 34452003) intestato a Città Nuova della PAMOM, specificando come causale “Guardiamoci attorno”. Oppure scrivi a Città Nuova, via Pieve Torina 5500156 Roma.Le richieste di aiuto si accettano solo se convalidate da un sacerdote. Scrivete a [email protected] o all’indirizzo di posta. Verranno pubblicate a nostra discrezione e nei limiti dello spazio disponibile.

Dialogo con i lettori

COL MARITO IN CARCEREGiulia vive con sua figlia

e la sua famiglia d’origine

(4 persone) in un piccolo

appartamentino in un

quartiere periferico di

Roma. Questa zona è

conosciuta per lo spaccio

di droga. Lei lavora

(pochissime ore) come

donna delle pulizie e

guadagna molto poco,

conta molto sugli assegni

familiari e qualche soldo

che il marito detenuto gli

manda dal lavoro in carcere.

POVERTÀ ESTREMAStefano cerca di

sopravvivere in una baracca

fatta di lamiere a ridosso

delle linea ferroviaria di

Ciampino, in provincia

di Roma, si arrangia per

guadagnare qualche soldo

nel fare dei lavori di fatica

per gli abitanti che vivono

nei paraggi. Saltuariamente

noi e la Caritas gli portiamo

dei viveri.

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Christo che cammina sulle acque

Venezia non è solo bella, è come sempre stupefacente, piena di sorprese e di incanto, soprattutto a visitarla nelle sue parti meno conosciute. Alla conclusione del viaggio di studi con i miei studenti propongo la visita al Guggenheim museum, uno dei gioielli della città, imperdibile scrigno di tutto quanto di bello ha generato l’arte del ’900. «Grazie prof, ma io sinceramente non sono interessato all’arte», uno studente si stacca dal gruppo e decide di partire prima. Dopo tanti anni di insegnamento scopro che uno studente di architettura può essere disinteressato all’arte e confessarlo con candore. Lo guardo e faccio mille ipotesi… in un crescendo di panico! Forse nessuno da bambino l’ha portato a vedere un bel museo, forse ha visto solo musei grigi e bui associandoli alla noia della scuola, forse ha avuto solo lo spudorato coraggio di dire quello che anche altri hanno pensato. Il suo disinteresse mi lascia mille domande.È chiaro che oggi l’arte debba trovare nuove strade e nuovi linguaggi. Perché l’opera di Christo, The Floating Piers, sul lago di Iseo ha attirato così tante persone? Persone che mai entrerebbero in un museo? Le immagini di questa passeggiata collettiva sulle acque hanno fatto il giro del mondo, rendendo noto al mondo il nome di uno dei nostri laghi meno conosciuti, ancorché molto bello, e soprattutto il nome del suo creatore. Ci vuole coraggio, e l’artista bulgaro ne ha da vendere, per mettere insieme 12-15 milioni di dollari, vendendo i propri

disegni di una vita, per realizzare un’opera senza finanziamenti, né sponsor, interamente gratuita per il pubblico, di quelle dimensioni e di quell’impatto mediatico. L’opera di Christo ha detto che l’arte è di tutti e per tutti, che si può osare, che si può lavorare con la natura giocando con la sua bellezza, che l’arte è una esperienza viva che coinvolge i sensi, il corpo, le emozioni. Quella passerella fatta di 200 mila metri cubi di polietilene giallo-arancione, lunga oltre 3 chilometri, ha consentito a migliaia di visitatori di camminare sulle acque. Un sogno ancestrale e insieme un gioco infantile, carico di simboli e di miti. Un’opera geniale, nella sua capacità di suscitare meraviglia, che attira e seduce. E in questo assolve pienamente al compito dell’arte.Ha fatto bene, tuttavia, Vittorio Sgarbi a lamentare che questa stupenda passerella «non porta da nessuna parte». Non conduce quelle migliaia di visitatori a vedere anche le sponde del lago, i suoi paesi, i suoi paesaggi punteggiati di viti, le centinaia di opere d’arte nascoste nei piccoli musei, non ricuce il passato con il presente. Arriva e poi lascia il vuoto. Calato il sipario e spente le luci dovremo immaginare altre mille passerelle per fare pace con le nuove generazioni e ricucire il loro legame con l’arte e con i paesaggi quotidiani.

ARTE

pen

ult

ima

ferm

ata

di Elena Granata

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Istituto Universitario

University Institute

POWERTÀLa povertà delle ricchezze e la ricchezza delle povertà Loppiano 30 settembre – 2 ottobreConvegno centrale 1° ottobre - Auditorium di Loppiano

2016

FOCUS:

Innovazione tecno-scientifica, modelli di sviluppo e povertà

La povertà delle ricchezze e la ricchezza delle povertà

I 25 anni del Progetto Economia di Comunione

LABORATORI:

SCENARI DI POVERTÀ E RICCHEZZA

- ecologia e povertà- stare nelle periferie - rifugiati e migranti- dialogo interreligioso - dis-Abilità- giornalismo e migrazioni - arte come riscatto

ARTE:

Performance artistiche

Performance letterarie

Musica

Workshop

Info e prenotazioni alloggi: 055 9051102 – [email protected]

Frontiere, risorse energetiche, idee di civiltà e di economie contrapposte prefigurano un futuro legato a doppia mandata allo schema vincitori e vinti. La settima edizione di LoppianoLab punta tutto su un cambio di prospettiva radicale: quella delle povertà. Un punto d’osservazione che si mette al fianco di chi l’indigenza la vive sulla propria pelle. Uno spazio di condivisione per scorgere e offrire le tante forme di ricchezza di cui spesso la povertà è portatrice per i singoli, il corpo sociale e popoli interi. Perché tutti possono “dare”.

Nella cornice di Loppiano, laboratorio di convivenza interculturale, LoppianoLab dà voce a quanti – cittadini attivi, imprenditori, comunicatori, giovani, educatori – cercano di costruire un’Italia migliore. L’Italia di domani che è già l’Italia di oggi.

FORUM:

I pionieri e i giovani nell’Economia di Comunione

Povertà di partecipazione e democrazia

Povertà e scuola

Un variegato mosaico di eventi a copertura di

tutto il week end: focus, forum, laboratori.

Per i pasti, punti ristoro e snack veloci.