5 AGOSTO 2012 ANNO II - N. 1 SUPPLEMENTO DI INFO@NEWS … · loro Pastori. Un ruolo di primaria...

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SUPPLEMENTO DI INFO@NEWS Edizione PRO LOCO Via Di Giulio - Pisticci Autorizzazione Tribunale di Matera n. 211 del 22-05-2003 • Direttore Responsabile: Giuseppe Coniglio • Stampa I.M.D. Lucana tel./fax 0835.581642 5 AGOSTO 2012 ANNO II - N. 1 «Fin dall’inizio del mio ministe- ro come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mette- re in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnova- to entusiasmo dell’incontro con Cristo». Con queste parole Papa Benedetto XVI nella lettera apo- stolica Porta fidei, con la quale ha indetto l’Anno della fede, spiegava il senso di questa scelta e, nello stesso tempo, rivelava un impegno costante di tutta la sua azione pastorale: fare in modo che tutti gli uomini, soprattutto coloro che hanno abbandonato la vita di fede, possano ritornare al Signore, sentano il desiderio di convertirsi nuovamente a Lui che è l’unico Salvatore dell’uo- mo. In quelle parole c’è anche il sen- so dell’impegno per la nuova evangelizzazione. Essa è la sfida che la Chiesa assume con nuovo vigore, in vista di individuare le forme adeguate per l’annuncio del Vangelo presso tanti battez- zati che non comprendono più il senso di appartenenza alla co- munità cristiana e sono vittime del relativismo, caratteristica dei nostri tempi. Questo è l’esito del secolarismo che ha portato l’uomo ad escludere dal proprio orizzonte Dio determinando una crisi che è innanzitutto di ordine antropologico: l’uomo è diso- rientato, ha paura, non vede più chiaramente l’obiettivo da rag- giungere. Parlare di nuova evangelizzazio- ne non vuol dire formulare un giudizio negativo sull’opera di evangelizzazione svolta finora o dichiararne il fallimento. Signifi- ca, piuttosto, fare riferimento alle mutate condizioni culturali e so- ciali, che richiedono un impegno nuovo. L’istituzione, da parte di Papa Benedetto XVI, del Pontifi- cio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, nel settembre del 2010, è la più recente di una serie di intuizio- ni e di scelte che si ricollegano al Concilio Vaticano II. Sin dal discorso di apertura dell’assise conciliare, Giovanni XXIII ne indicava l’obiettivo mostrando la necessità di incontrare l’uomo contemporaneo e usare con lui un linguaggio che rendesse ac- cessibile l’annuncio di Gesù Cri- sto e la verità immutabile della fede. Al Concilio ha fatto seguito il Sinodo dei Vescovi e la Evan- gelii Nunziandi (1975) di Paolo VI e poi Giovanni Paolo II, nel suo primo viaggio in Polonia, ha introdotto l’espressione “nuova evangelizzazione”, che nei suoi oltre 26 anni di pontificato ha declinato con una ricchezza sor- prendente. Tutto questo cammino ha contri- buito ad attivare grandi energie nella Chiesa: uomini e donne, religiosi, diocesi, parrocchie, movimenti di antica e nuova costituzione, nuove comunità e famiglie religiose si sono ricono- sciuti in questo invito alla nuova evangelizzazione, hanno seguito lo Spirito che li guidava ad intra- prendere strade nuove per dare attuazione alle indicazioni che man mano la Chiesa offriva. Per questo credo che il primo impegno sia quello di riuscire a far confluire i tanti rivoli di queste esperienze in un cammi- no condiviso, pur nel rispetto e nella complementarità delle va- rie esperienze. Un primo passo promettente è stato l’incontro dei Nuovi evangelizzatori con il Papa, che si è svolto nei giorni 15 e 16 ottobre 2011. Promet- tente perché ha messo in risalto che la nuova evangelizzazione è una realtà presente, e che l’invito del Papa ha già trovato terreno fertile in tanti cristiani che, in forza del loro Battesimo, si sono sentiti coinvolti in prima perso- na nell’impegno di annuncio del Vangelo, che è il compito fonda- mentale della Chiesa. La XIII Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che dal 7 al 28 ottobre si riunirà per riflettere sul tema La nuova evangelizza- zione per la trasmissione della fede cristiana, e la conseguente Esortazione apostolica del Papa costituiranno un punto di riferi- mento importante per dare con- cretizzazione a questo impegno nel quale tutti i cristiani sono chiamati a svolgere un ruolo da protagonisti, in comunione con i loro Pastori. Un ruolo di primaria importanza, in questo percorso che si intuisce lungo e tutt’altro che semplice, sarà svolto dalle parrocchie. Può essere capitato che si sia confusa la fedeltà al mandato missionario del Signore con la stanca ripeti- zione di forme pastorali superate. È invece urgente che, rimettendo al centro della vita della comu- nità cristiana l’ascolto della Pa- rola di Dio unito alla catechesi, e la celebrazione dei Sacramenti, ogni battezzato si senta impegna- to a vivere una fede consapevole, capace di «rendere ragione della speranza» (cf 1Pt 3,15) con «dol- cezza, rispetto e retta coscienza» (cf 1Pt 3,16). Questa è la prima e fondamentale “riforma” richie- sta affinché le comunità cristiane siano luoghi di comunione, ca- paci di dare vita a percorsi for- mativi che sappiano riscattare le persone dalla condizione di indi- vidualismo e di isolamento tipica del nostro contesto culturale. + Mons. Rino Fisichella Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione ALL’INTERNO Maria Marchetta pag. 2 Il Sacramento della Penitenza pag. 4 La reliquia di Santa Bernadetta pag. 5 Antonia Raco Una guarigione inspiegabile pag. 6 Joshua e il frate da Pietrelcina pag. 9 40° Anniversario del RnS pag. 12 Intervista a Marina Murari pag. 14 La nuova evangelizzazione: “Annunciare Cristo nei deserti dell’uomo”

Transcript of 5 AGOSTO 2012 ANNO II - N. 1 SUPPLEMENTO DI INFO@NEWS … · loro Pastori. Un ruolo di primaria...

  • SUPPLEMENTO DI INFO@NEWS Edizione PRO LOCO Via Di Giulio - Pisticci Autorizzazione Tribunale di Matera n. 211 del 22-05-2003 • Direttore Responsabile: Giuseppe Coniglio • Stampa I.M.D. Lucana tel./fax 0835.581642

    5 AGOSTO 2012 ANNO II - N. 1

    «Fin dall’inizio del mio ministe-ro come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mette-re in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnova-to entusiasmo dell’incontro con Cristo». Con queste parole Papa Benedetto XVI nella lettera apo-stolica Porta fidei, con la quale ha indetto l’Anno della fede, spiegava il senso di questa scelta e, nello stesso tempo, rivelava un impegno costante di tutta la sua azione pastorale: fare in modo che tutti gli uomini, soprattutto coloro che hanno abbandonato la vita di fede, possano ritornare al Signore, sentano il desiderio di convertirsi nuovamente a Lui che è l’unico Salvatore dell’uo-mo.In quelle parole c’è anche il sen-so dell’impegno per la nuova evangelizzazione. Essa è la sfida che la Chiesa assume con nuovo vigore, in vista di individuare le forme adeguate per l’annuncio del Vangelo presso tanti battez-zati che non comprendono più il senso di appartenenza alla co-munità cristiana e sono vittime del relativismo, caratteristica dei nostri tempi. Questo è l’esito del secolarismo che ha portato l’uomo ad escludere dal proprio orizzonte Dio determinando una crisi che è innanzitutto di ordine antropologico: l’uomo è diso-rientato, ha paura, non vede più chiaramente l’obiettivo da rag-giungere.Parlare di nuova evangelizzazio-ne non vuol dire formulare un giudizio negativo sull’opera di evangelizzazione svolta finora o dichiararne il fallimento. Signifi-ca, piuttosto, fare riferimento alle mutate condizioni culturali e so-ciali, che richiedono un impegno nuovo. L’istituzione, da parte di

    Papa Benedetto XVI, del Pontifi-cio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, nel settembre del 2010, è la più recente di una serie di intuizio-ni e di scelte che si ricollegano al Concilio Vaticano II. Sin dal discorso di apertura dell’assise conciliare, Giovanni XXIII ne indicava l’obiettivo mostrando la necessità di incontrare l’uomo contemporaneo e usare con lui

    un linguaggio che rendesse ac-cessibile l’annuncio di Gesù Cri-sto e la verità immutabile della fede. Al Concilio ha fatto seguito il Sinodo dei Vescovi e la Evan-gelii Nunziandi (1975) di Paolo VI e poi Giovanni Paolo II, nel suo primo viaggio in Polonia, ha introdotto l’espressione “nuova evangelizzazione”, che nei suoi oltre 26 anni di pontificato ha declinato con una ricchezza sor-prendente. Tutto questo cammino ha contri-buito ad attivare grandi energie nella Chiesa: uomini e donne, religiosi, diocesi, parrocchie, movimenti di antica e nuova costituzione, nuove comunità e famiglie religiose si sono ricono-sciuti in questo invito alla nuova evangelizzazione, hanno seguito lo Spirito che li guidava ad intra-prendere strade nuove per dare

    attuazione alle indicazioni che man mano la Chiesa offriva. Per questo credo che il primo impegno sia quello di riuscire a far confluire i tanti rivoli di queste esperienze in un cammi-no condiviso, pur nel rispetto e nella complementarità delle va-rie esperienze. Un primo passo promettente è stato l’incontro dei Nuovi evangelizzatori con il Papa, che si è svolto nei giorni 15 e 16 ottobre 2011. Promet-tente perché ha messo in risalto che la nuova evangelizzazione è una realtà presente, e che l’invito del Papa ha già trovato terreno fertile in tanti cristiani che, in forza del loro Battesimo, si sono sentiti coinvolti in prima perso-na nell’impegno di annuncio del Vangelo, che è il compito fonda-mentale della Chiesa. La XIII Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che dal 7 al 28 ottobre si riunirà per riflettere sul tema La nuova evangelizza-zione per la trasmissione della fede cristiana, e la conseguente Esortazione apostolica del Papa costituiranno un punto di riferi-mento importante per dare con-cretizzazione a questo impegno nel quale tutti i cristiani sono chiamati a svolgere un ruolo da protagonisti, in comunione con i loro Pastori.Un ruolo di primaria importanza, in questo percorso che si intuisce lungo e tutt’altro che semplice, sarà svolto dalle parrocchie. Può essere capitato che si sia confusa la fedeltà al mandato missionario del Signore con la stanca ripeti-zione di forme pastorali superate. È invece urgente che, rimettendo al centro della vita della comu-nità cristiana l’ascolto della Pa-rola di Dio unito alla catechesi, e la celebrazione dei Sacramenti, ogni battezzato si senta impegna-

    to a vivere una fede consapevole, capace di «rendere ragione della speranza» (cf 1Pt 3,15) con «dol-cezza, rispetto e retta coscienza» (cf 1Pt 3,16). Questa è la prima e fondamentale “riforma” richie-sta affinché le comunità cristiane siano luoghi di comunione, ca-paci di dare vita a percorsi for-mativi che sappiano riscattare le persone dalla condizione di indi-vidualismo e di isolamento tipica del nostro contesto culturale.

    + Mons. Rino FisichellaPresidente del Pontificio Consiglio

    per la Promozione della NuovaEvangelizzazione

    ALL’INTERNO

    Maria Marchettapag. 2

    Il Sacramento della Penitenza

    pag. 4

    La reliquia di Santa Bernadetta

    pag. 5

    Antonia Raco Una guarigione inspiegabile

    pag. 6

    Joshua e il frate da Pietrelcina

    pag. 9

    40° Anniversario del RnSpag. 12

    Intervista a Marina Murari

    pag. 14

    La nuova evangelizzazione: “Annunciare Cristo nei deserti dell’uomo”

  • MARIA MARCHETTA: Terziaria Francescana, donò la sua malattia a servizio per l’ecumenismo

    Maria Marchetta nacque il 16 febbraio 1939 a Grassa-no, un paese della provin-cia di Matera, conosciuto a livello nazionale, per-ché descritto, sotto alcuni aspetti nel famoso libro, “Cristo si è fermato a Ebo-li” dallo scrittore e medi-co, Carlo Levi, confinato in Lucania dalla dittatura fascista. Maria fu la pri-ma di cinque figli e i suoi genitori, Domenico e Filo-mena Borrelli erano colti-vatori diretti. Si può dire che Maria fin da bambina respirò nella sua famiglia aria francescana, perché le madrine del battesimo e della cresima erano donne molto attive nel Terz’Ordi-ne Francescano. Maria era una ragazza vivace, piena di vita e, come tale, amava correre, andare nei campi di suo padre e arrampicar-si sugli alberi per cogliere i frutti di stagione. Dopo aver frequentato le scuole elementari e aver supera-to gli esami di ammissio-ne alle scuole medie con buoni voti, Maria si rimise alla volontà dei genitori per quanto riguardava il proseguimento degli stu-di. A Grassano vi era solo una Scuola, di avviamento professionale ad indirizzo agrario; di conseguenza i ragazzi che avevano in-tenzione di frequentare le scuole medie dovevano iscriversi all’Istituto Prin-cipe di Piemonte di Poten-za, al Convitto Nazionale, al Seminario Regionale o frequentare come aspiran-ti, le scuole medie dirette dagli Ordini religiosi: i Mi-nori, i Teatini, i Discepoli o i Salesiani. Le ragazze avevano la possibilità di frequentare l’istituto “S. Chiara” di Tricarico, diret-te dalle Suore Discepole, il che comportava lasciare la casa e la famiglia e anche sacrifici economici da par-te dei genitori. Ma per Ma-

    ria non ci furono difficoltà, perché i genitori vedevano che era molto intelligente e desiderosa di continuare

    gli studi, e così un bel gior-no dei primi di ottobre del 1950 Maria, accompagnata dalla mamma, con vestito e cappotto nuovo, si avviò verso lo «Scalone» per an-dare a prendere il postale che l’avrebbe portata a Tricarico. Molti la videro e qualche amichetta la seguì con lo sguardo e con una punta di invidia, perché, al-lora, allontanarsi dal paese per andare a studiare, vo-

    leva dire diventare qualcu-no. Maria era felice e nello stesso tempo, pensierosa forse per un misterioso, in-conscio presentimento del suo futuro. Quando dopo tre mesi tornò a Grassano per le vacanze natalizie, tutti si complimentarono con Maria, diventata più snella e più signorile, ma si accorsero anche del suo viso pallido e del suo in-

    cedere un po’ strano. Tut-to, però, fu attribuito alla mancanza di sole e di aria ossigenata, per cui, quan-

    do Maria riprese a correre per i campi e a giocare con i compagni del suo rione Capolegrotte ritornò alle-gra e colorita come prima. Ma un giorno, mentre si recava a visitare la zia e i suoi cugini, proprio davan-ti casa sua, «là dove inizia-va la salita per la Chiesa Madre, Maria improvvisa-mente, senza inciampare, senza scivolare, cadde a terra e si sporcò il cappotto

    nuovo». Quando si rialzò non si preoccupò del mo-tivo della sua caduta, ma solo del cappotto e riprese a camminare: quella ca-duta, invece, era il segno manifesto del male che già minava il suo delicato or-ganismo. In verità le suo-re avevano già avvertito i genitori di Maria dei segni da loro notati del cattivo funzionamento degli arti

    inferiori della ragazza e che, perciò, era necessario farla controllare da un me-dico. Ma ciò non fu fatto e Maria tornò all’Istituto. La salute di Maria peggio-rava, le gambe reagivano con dolore ad ogni movi-mento e non riuscivano più a sopportare il peso del corpo. Maria rientrò in fa-miglia e solo nel febbraio del 1951 fu portata a Bari per una visita medica. La diagnosi fu preoccupante, tanto che il dott. Guarino volle che Maria fosse vi-sitata da uno specialista svedese, suo amico: Maria era affetta da paraplegia flaccida, per cui l’unico rimedio ai suoi dolori era la posizione orizzontale a letto. Le sue gambe ri-manevano inerti e lei era costretta a letto mentre il cuore cominciava a strin-gersi in una morsa di rab-bia e di dolore. Non c’era più speranza e, per di più fu costretta a tagliare i bei lunghi capelli che le piace-vano tanto, ma che le da-vano fastidio stando a let-to. Quante lacrime, quante parole amare anche contro Dio, che le toglieva così presto la gioia di una vita bella, sana e libera! Maria, adolescente, non riusciva ancora a vedere in quello

    strano episodio malefico l’entrata di Dio nella sua vita; la scelta che Dio fa-ceva della sua anima che, proprio nella sofferenza del corpo, avrebbe cantato per Lui l’inno dell’amo-re e della lode. Quando avvertì chiaramente in lei la presenza di Gesù Cro-cifisso riuscì a guardare in faccia il suo male con occhi e con animo diversi:

    paraplegia flaccida, paro-le incomprensibili per lei ancora tanto giovane, che le parlavano segretamen-te, ma chiaramente, di un male lungo e incurabile. Il pensiero di Cristo e della sua croce si faceva sempre più strada nei suoi pensieri e nel suo cuore; aiutata an-che dalla zia Anna Maria, donna molto pia. Maria in-cominciava a salire il Cal-vario con la sua croce con una disposizione d’animo diversa: non più pianto e ribellione, non più parole irriverenti nei riguardi di Dio, ma accettazione se-rena e fiduciosa della sua volontà. Svanivano i sogni della ragazza che partiva per Tricarico col cappotto nuovo e restava, invece, la dura realtà della vita da vivere a Grassano in un lettino di sofferenza. Ma, nonostante tutto, avvertiva che nella sua casa era en-trata qualcosa di molto più importante: era entrata la Grazia e, illuminata dalla sua luce, ella doveva con-tinuare a dare gioia e spe-ranza ai suoi genitori, ai fratelli e a quanti l’avreb-bero avvicinata. I semi del-la fede, piantati nel buon terreno della sua anima dai genitori, dalle persone che l’avevano preparata alla Prima Comunione e alla Cresima, davano ora la loro più bella fioritura. Maria stava diventando una creatura nuova, distesa sulla croce del suo lettino, ma serena e sorridente. Il biografo (Padre Michele Celiberti) suo coetaneo la vide così e così la descrisse nel suo libro “Non riusciva ad essere triste”. Maria en-tra abbastanza presto nella sua paraplegia flaccida e la fa sua amica e scala di redenzione. La zia Anna Maria le dava coraggio a camminare sulle vie di

    continua a pag. 3

    “Non riusciva ad essere triste”

    Santità, desidero confidarle che mi sono offerta vittima al Signore per l’unità della Chiesa.

    Al Papa Paolo VI

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  • Dio, che spesso non sono le nostre vie e, nello stes-so tempo, la incoraggiava a pregare per la guarigio-ne. E Maria, ascoltandola, nei primi tempi della sua malattia pregava sperando nella guarigione, ma poi, quando capì che quel male doveva essere valorizzato per quello che era come mezzo utile non solo per il suo bene e per il bene di tutti coloro che l’avvicina-vano, ma anche per la Chie-sa e per il mondo intero, il suo lettino si trasformò in un altare dal quale poteva e doveva continuamente elevarsi a Dio “l’incenso” della sua preghiera e del suo sacrificio quotidiano. Con Gesù Maria diventava anche lei un’ostia gradita al Signore. La sua casetta divenne come un Santuario dove le amiche e la gente del paese si recavano per pregare con lei, per riceve-re consigli e parole di in-coraggiamento per affron-tare le difficoltà della vita. Anche i sacerdoti invitati a Grassano per predicare durante le feste dell’anno, venivano accompagna-ti alla casa di Maria e la

    trovavano sempre serena e sorridente, come affac-ciata alla finestra della vita dalla sponda inferiore del suo lettino, sempre nella stessa posizione, poggiata sui gomiti. Quando, poi, a Grassano arrivarono i frati minori di S. Francesco, per prendervi stabile dimora e aprire un convento, furono anche essi accompagnati a conoscere Maria. E’ facile immaginare il suo entu-siamo e il suo desiderio di conoscere S. Francesco per entrare a far parte an-che lei della grande fami-glia francescana, mediante il Terd’Ordine. Con cura, poi, annotò nel suo diario le date dell’accettazione e della professione e con perfetta letizia affrontò il cammino della sequela di San Francesco, imparando da Lui ad assimilarsi a Cri-

    sto Crocifisso. Seguendo l’ideale dell’Azione Catto-lica, completato da quello francescano, Maria si tra-sformava di giorno in gior-no con la sua sofferenza in apostola e missionaria a largo raggio. Seguendo la trasmissione della Radio Vaticana, quando seppe che il Papa Paolo VI, nel

    gennaio del 1964, durante il suo viaggio in Terra San-ta, avrebbe incontrato Ate-nagora, capo della Chiesa Ortodossa, offrì al Signore la sua malattia perché con-cedesse l’unità della Chie-sa Cristiana a partire dal grande evento che vedeva il ritorno a Gerusalemme, dopo 20 secoli, di un suc-cessore di Pietro. Seguì, poi, per radio tutte le tappe del Papa, ascoltando tut-to ciò che diceva sempre in vista dell’unità almeno delle due Chiese sorelle, così come seguì con inte-resse ed emozione la visita del Primate della Chiesa Anglicana al Papa Giovan-ni XXIII il 2 Dicembre del 1960. Maria sapeva che erano questi i viaggi della speranza e per essi prega-va e offriva sempre le sue sofferenze. Non si sentiva

    né sola, né inutile, anzi, aveva un piano di vita quotidiana, ben nutrito e ordinato, preparato dal suo Direttore Spirituale, Padre Simplicio Cantore: le sue ore della giornata erano distribuite con saggezza tra la preghiera, la medita-zione, le visite dei parenti e delle amiche e poi quelle

    dello svago e del riposo con qualche interes-sante trasmissione ra-diofonica. Il pensiero della guarigione svanì del tutto, quando nel suo primo viaggio a Lourdes, fra tanti altri ammalati, non si sentì di chiedere alla Vergi-ne Santa la guarigione fisica, perché il cuore le suggerì di affidarsi a Lei, per cui con una cartolina ricordo, così scrisse a P. Simplicio, «Ho detto così alla Madonna: Come vuoi Tu!». Ritornata a Gras-sano, le sofferenze di anno in anno aumenta-vano, i gomiti sui quali era sempre poggiata

    nella sua posizione oriz-zontale, erano diventati come una massa callosa. Ai dolori fisici, poi, si ag-giunsero quelli morali, di cui parla lei stessa in una lettera, inviata a Papa Pa-oloVI a fine Marzo del 1966: «Accetto tutto dal-la volontà di Dio, sia le sofferenze fisiche che le sofferenze morali, anche se queste ultime mi fan-no soffrire di più». Qua-le siano state, poi, queste sofferenze morali di Ma-ria si possono solo intuire, perché non è stato trovato il suo Diario. Le soffe-renze morali sono tante in relazione alla sensibilità delle anime a al rapporto di unione con Dio: ansie, paura, coscienza di disagio procurato agli altri, incom-prensione, assunzione di problemi altrui, desideri di

    sentirsi inappagati, delu-sioni date al Signore per lo stato di inadeguata misura di completezza, indigna-zione per sofferenza non sofferta con la giusta ten-sione di amore e relativa forza testimoniante e altre. Naturalmente tutte queste angustie di animo le prova solo chi segue Gesù molto da vicino e non si sente mai sufficientemente degno di amarlo e di imitarlo. Resta il fatto che al Signore fu gradita quell’offerta fatta (aver offerto la sua vita in occasione dell’incontro del Papa Paolo VI con Atena-gora) con tanta semplicità e con tanta generosità così che la salute di Maria co-minciò a peggiorare con l’affievolimento del ritmo cardiaco e, poi, piano pia-no, con l’indebolimento di tutto l’organismo. Maria si preoccupava solo di non dare fastidio in fa-miglia e voleva che i suoi genitori non soffrissero per lei, perciò diceva sempre a tutti: «Non c’è niente, sto bene, non preoccupatevi,

    passerà presto». Intanto si preparava all’incontro col Signore, tanto che già da tempo aveva chiesto al Papa Paolo VI e poi a Giovanni XXIII una spe-ciale benedizione “In arti-culo mortis…”. I sacerdoti di Grassano si alternavano al suo capezzale. Maria ri-cevette con serenità l’olio degli infermi e, poi, duran-te la Settimana Santa del 1966 si aggravò a comin-ciare dalla Domenica delle Palme fino al Giovedì San-to, quando, dopo aver in-vocato l’aiuto del Signore con respiro affannoso ma con grande fervore, la sua anima «bella e innamora-ta di Dio» spiccò il volo verso gli spazi infiniti del Cielo per incontrare il suo Sposo Gesù. Maria, prima di morire, aveva espresso il desiderio di essere rivestita in morte, con un saio fran-cescano, ma i suoi vollero e decisero che fosse vestita con un abito bianco, quello delle vergini e delle spose. E così proprio come una sposa fu accompagnata alla Chiesa dei Frati Mino-ri, da tutta la gente del pae-se. In una foto di occasione si legge una scritta, a gran-di caratteri, sul muro di una casa del paese: «Tutta Grassano segue Maria per l’ultima volta». Ora Gras-sano e tutta la numerosa famiglia francescana at-tendono con ansia la sua beatificazione. Il Nunzio Apostolico, Mons. Romeo (oggi, Cardinale di Paler-mo), nella celebrazione del 22 Aprile 2006, ha usato queste parole per definire l’esistenza intera di questa ragazza: «Maria Marchetta è un “fiore” sbocciato nella nostra terra di Grassano, è una “stella” luminosa che ci indica la strada della santità laicale vissuta nella serena accettazione della Volontà di Dio».

    don Giuseppe DitolveMaria Grazia Giannace

    Antonietta QuintoRita Vicidomini

    Grazia Marchetta (Pro-cugina e madrina di Cresima di Maria)

    continua da pag. 2

    “Non riusciva ad essere triste”

    Ho detto così alla Madonna: come vuoi Tu.Lourdes, 23-8-1956

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  • Alla fine dell’ultima par-te del precedente articolo ho ricordato di trattare i tre atti del penitente più l’assoluzione chiamati an-che «parti» del sacra-mento della penitenza che ha quattro parti: il dolore dei peccati, l’accusa dei peccati, le opere di peni-tenza e l’assoluzione del sacerdote. Prima di questi quattro elementi è impor-tante, però, parlare anche dell’esame di coscienza. Che cos’è l’esame di co-scienza? La confessione è una medicina che non solo guarisce le malattie, ma anche previene le ricadute: vale anche come cura pre-ventiva. Nella confessione Gesù si presenta veramente come il medico delle ani-me, una volta presa la “me-dicina” della confessione, il malato, cioè il peccato-re, sente in sé una grande forza, una grande gioia e una grande pace. L’unica cosa veramente importante è salvare la propria anima. Infatti la conversione del cuore è prima di tutto un dono di Dio: «Convertici Signore e saremo conver-titi» (Lam 5,21). Gesù lo dice chiaramente nel Van-gelo: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo inte-ro se poi perde la sua ani-ma? O che cosa potrà dare l’uomo in cambio della sua anima?». Quindi, per salvare l’anima, dobbiamo vivere e morire in grazia di Dio. La grazia di Dio, come sappiamo ci viene data nel battesimo, ma può essere perduta con il pec-cato mortale, anche uno solo, si perde la grazia di Dio; e se muore in quello stato è destinato a perdersi eternamente, cioè va all’in-ferno, e vi rimane per tutta l’eternità. Di fronte a que-sta spaventosa prospettiva, la risposta per riacquistare la grazia di Dio è: «il sa-cramento della confessio-ne». Dunque, l’esame di

    coscienza è una diligente ricerca dei peccati che si sono commessi dopo l’ul-tima confessione ben fatta. Quando facciamo l’esame di coscienza dobbiamo avere sempre davanti agli occhi questa distinzione fra peccato mortale e pec-cato veniale. Il peccato mortale si commette quan-do si disubbidisce alla leg-ge di Dio in materia grave, con piena avvertenza e deliberato consenso della volontà. Quando si ha la materia grave? Chi stabili-sce la materia grave o non è grave? Soltanto la Chie-sa, basandosi sull’insegna-mento della Sacra Scrittu-ra e della Tradizione. Dice sant’Agostino: «Quae sint laevia, quae sint gravia peccata, non humano, sed divino sunt pensanda iudi-cio», e cioè: «Quali pecca-ti siano lievi e quali gravi bisogna valutarlo non con un criterio umano, ma con il criterio divino>, in base all’insegnamento contenu-to nella rivelazione divina. I peccati gravi(mortali), più frequenti sono: pratica-re in qualsiasi modo la ma-gia; bestemmiare; perdere la Messa alla Domenica o nelle feste di precetto sen-za un grave motivo; tratta-re male in maniera grave i propri genitori o superiori; uccidere o ferire gravemen-te una persona innocente; procurare direttamente l’aborto; cercare il piacere sessuale in qualsiasi modo fuori del matrimonio; nel matrimonio impedire il concepimento nell’atto coniugale; commettere adulterio; rubare una som-ma rilevante, anche sottra-endosi al proprio lavoro; sparlare in modo grave del prossimo o calunniarlo; coltivare volontariamente pensieri o desideri impu-ri; mancare gravemente al dovere del proprio stato; non accostarsi alla San-ta comunione nel periodo

    pasquale; acco-starsi alla Santa comunione in stato di pec-cato mortale; tacere volon-tariamente un peccato grave nella confessio-ne. L’esame di coscienza deve quindi riguar-dare innanzi-tutto i peccati mortali, di cui bisogna ricer-care, per quan-to possibile, anche il nume-ro. Infatti non basta dire: «ho mancato alla Messa alla Domenica», ma occorre anche dire quante vol-te. Tuttavia, per fare una confessione veramente buona è consigliabile an-che esaminare sui peccati veniali, soprattutto quelli più frequenti e più consi-stenti. Se siamo in peccato mortale “tutto” quello che facciamo non ha valore per la vita eterna! E’ come se camminassimo sull’orlo di un precipizio, col rischio di cadervi da un momen-to all’altro. La morte im-provvisa è sempre dietro l’angolo, il Signore verrà come un ladro di notte; vegliate e pregate, perché non sapete né il giorno, né l’ora… quante volte Gesù ripete nel Vangelo questo suo ammonimen-to. Confessiamoci al più presto non appena avessi-mo commesso un peccato mortale. La Chiesa, nostra Madre, ci conosce bene e sa quanto siamo pigri nella nostra vita spirituale, ci ha dato una scadenza; infatti il precetto della Chiesa ci dice di confessarci almeno una volta all’anno; notia-mo bene: “almeno”, che non vuol dire “soltanto”. Quindi, una volta all’anno è il minimo sotto il quale non dobbiamo mai scende-

    re, anzi, dobbiamo cercare di superare. Entriamo ora, sinteticamente, nel vivo del primo atto del peniten-te. Il dolore dei peccati: vie-ne chiamato «contrizione»; questa parola viene dal verbo latino còntero, che significa triturare, spez-zettare, come quando una pietra viene spezzettata e ridotta in polvere. Quindi, il cuore duro del pecca-tore, in un certo modo, si frantuma per il dolore di aver offeso Dio. Il Conci-lio di Trento definisce la contrizione così: «è il do-lore e la detestazione del peccato commesso con il proposito di non più pec-care». Quindi, il dolore dei peccati è la sincera dete-stazione dell’offesa fatta a Dio, un atto della volontà con cui si condanna e si rifiuta il peccato, poiché ci dispiace profondamente di averlo commesso. Occor-re, a questo punto, fare una distinzione di fondamenta-le importanza tra - dolore perfetto, o con-trizione, è il dispiacere di aver offeso Dio; perfetto, perché riguarda esclusi-vamente la bontà di Dio, e non il nostro vantaggio o danno; e anche perché ottiene subito il perdono dei peccati, restando però

    l’obbligo di confessarsi. Bisogna tener presente che una persona in questa si-tuazione non può accostar-si all’Eucarestia. Infatti, chi ha commesso un pec-cato mortale non può fare la comunione prima della confessione, anche se è profondamente pentito dei suoi peccati. E’ questa una precisa prescrizione del Concilio di Trento, ribadita dal Diritto Canonico e dal Catechismo della Chiesa Cattolica. - Dolore imperfetto, o attri-zione, quando ci pentiamo per motivi meno nobili, an-che se sempre ispirati dalla fede: per esempio, quando ci pentiamo per i castighi meritati in questa o nell’al-tra vita, o per la stessa bruttezza del peccato. In modo particolare quando ci pentiamo del peccato per il timore dell’Inferno. Il timore è il principio del-la sapienza. Diceva Pascal: «Una delle vie più sicure per non andare all’inferno è quella di parlarne spesso, e di pensarci spesso». Chi medita veramente sull’In-ferno e sulle terribili parole di Gesù nell’ultimo giudi-zio: «Via da me, maledetti, nel fuoco eterno, prepa-rato per il diavolo e per i

    continua a pag. 5

    Il Sacramento della Penitenzacontinua dal n. 2 del 08-12-2011

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  • teriore, non basta recitare l’atto di dolore con le pa-role, ma bisogna accom-pagnare le parole con il cuore e con la volontà. E il motivo è chiaro: come il peccatore si è allonta-nato da Dio con il cuore e con la volontà, così deve ritornare a Dio con il cuo-re e la volontà. Leggiamo nel profeta Gioele (2,12): «Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e con lamenti. La-ceratevi il cuore e non le vesti». Il dolore poi deve essere soprannaturale, cioè fondarsi su motivi di fede. Il fine, al quale, il dolore dei peccati ci dirige è al perdono di Dio, all’ac-quisto della grazia santifi-

    cante, alla felicità eterna, tutte realtà soprannaturali. Il dolore deve essere som-

    mo, il che significa, dob-biamo considerare il pec-cato come il sommo male,

    essendo esso offesa di Dio, che è il sommo bene. Il dolore che dobbiamo ave-

    re quando andiamo a con-fessarci non è un dolore che sta nel sentimento, ma nell’intelligenza, nel cuore e nella volontà. Come il peccato sta nella volontà, così anche il pentimento, che è il rifiuto del peccato, deve stare nella volontà. Infine il dolore deve es-sere universale, cioè deve estendersi a tutti i peccati mortali commessi. Il peccato mortale mette contro Dio, ci rende ne-mici di Dio. Quindi se noi non ci pentiamo anche di un solo peccato mortale, rimaniamo nemici di Dio e così non possiamo essere perdonati. Attenzione alle confessioni fatte per pura abitudine!

    don Giuseppe Ditolve(Nel prossimo numero continue-remo il nostro percorso di forma-zione spirituale trattando degli altri due atti del penitente più l’assoluzione del sacerdote)

    continua da pag. 4

    Il Sacramento della Penitenza

    Un evento eccezionale ha segnato la vita della Par-rocchia Sant’Antonio in Pisticci: il passaggio del-la reliquia di Santa Ber-nadette Soubirous dove è stata venerata prima a Matera dal 22 al 25 mar-zo u.s. nella Chiesa di San Francesco e alla residenza assistita Mons. Brancac-cio; il pomeriggio del 25 fino alla mattina del 26 ad Irsina, e nel pomeriggio fino al giorno seguente a Pisticci, per far tappa poi, a Marconia e Lagonegro. Il passaggio della reliquia

    è un’esortazione a metter-ci in cammino sulle orme della Santa per scoprire il messaggio che la Beata Vergine Maria, attraverso di lei, ci ricorda: Dio sce-glie gli umili ed i piccoli. Dimostrazione di questo è proprio il fatto che la Ma-donna apparve a Berna-dette che si definiva: “La più ignorante di Lourdes”, una ragazza intelligente, ma senza nessuna cultura, che non sapeva né leggere né scrivere. L’arrivo della reliquia è avvenuto alle 18 del 26

    marzo. L’accoglienza in Chiesa. La Chiesa traboccante di fedeli. Sguardi colmi di stupore, fede e curiosità. Preghiere e silenzio hanno accompagnato l’eccezio-nale arrivo. Poi i fedeli si sono avvicinati all’urna per renderle omaggio. Dopo la celebrazione del-la S Messa presieduta dal Parroco don Michele Leo-ne, recita del Santo Rosario che, oltre alla contempla-zione dei misteri gaudiosi, ha invitato a riflettere sui simboli ed il loro signifi-cato che si incontrano nel pellegrinaggio a Lourdes, come la roccia, l’acqua, la luce, i malati. Il simbolo rappresenta la relazione tra il signifi-cato ed il significante ed è la fede che permette di sentire queste differenze; se così non fosse sarebbe solo superstizione e ma-gia. Ed è questa la giusta pre-

    disposizione di animo per la venerazione di una reli-quia: aprire il proprio cuo-

    re ad una nuova e più vera conversione.

    Giovanni Palazzo

    La reliquia di Santa Bernadette a PisticciUn evento eccezionale ha segnato la vita della Parrocchia Sant’Antonio

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  • Mi chiamo Antonia Raco, risiedo a Francavilla sul Sinni, la mia vita è sempre stata piena di fede. Nelle decisioni importanti c’è sempre stato l’affidamento al Signore con la preghie-ra. Anche durante la malat-tia, la fede mi ha aiutato a superare i momenti più difficili. Ho girovagato per un anno tra medici e ospe-dali, fino a quando a Tori-no il prof. Adriano Chiò mi diagnosticò la “sclerosi laterale primaria”; è stato terribile dover affrontare il problema con la mia fa-miglia, perché ero consa-pevole delle limitazioni a cui andavo incontro (giu-gno 2005): non poter fare più le cose di prima: pulire la casa, cucinare, lavarmi, vestirmi. Le giornate erano tutte uguali con le terapie da fare aspettando il fisio-terapista. Suor Laura che il giovedì mi portava la co-munione; la solitudine mi faceva compagnia. A volte - non lo nego - mi chiedevo angosciata perché esiste la sofferenza? Non sareb-be meglio un mondo senza dolore? Ma poi, pensando-ci, come potrei sperimen-tare l’amore di Dio senza la sofferenza? Forse non sempre ci accorgiamo della presenza paziente di chi ci sta vicino e ci vuole bene. Nonostante le mie difficol-tà, volevo andare a messa, alla catechesi per gli adul-ti; mi sentivo viva! avevo bisogno di ascoltare la pa-rola di Dio e mi affidavo al Signore con la preghiera. Scrissi una testimonian-za nella nostra parrocchia sulla eutanasia: nessuno mi deve far morire, quando dovessi essere attaccata al respiratore, perché la vita è un dono che Dio mi ha fatto attraverso l’amore dei miei cari genitori. Solo Dio mi potrà togliere il respiro per farmi passare alla vita eter-

    na: io non lo farei mai per nessun motivo e cercherei nel limite del possibile di star vicino alla persona ma-lata, facendole sentire che è importante e che la sua sof-ferenza fa capire quanto sia fortunato chi le vive accan-to. Io pregavo ogni giorno che il Signore mi desse la forza per sopportare tutto quello che doveva accade-re. Ero felice e affidavo la mia sofferenza al Signore per il bene della mia fami-glia. Il 30 - luglio - 2009 andai in pellegrinaggio a Lourdes, con il treno bian-co della U.N.T.A.L.S.I. I malati salirono aiutati dai volontari; io ero nel vago-ne barellato, mi fece una brutta impressione, sapeva di ospedale, ma poi pensai alla Madonna e il treno par-tì. Subito una signora in-cominciò a gridare perché non voleva salire sul letto al secondo piano; le volon-tarie non riuscivano a con-vincerla, così chiamai una di loro e dissi che le avrei ceduto il mio posto; l’im-portante che mi aiutavano a salire sul letto; il viag-gio proseguì serenamen-te. I volontari erano molto gentili, sempre pronti ad aiutarci in qualsiasi mo-mento. Si partecipava alla Santa Messa, al rosario, venivano a trovarci i nostri compagni di viaggio, an-che S. E. Mons. Francesco Nolè. Arrivammo il giorno dopo verso le ore venti e

    trenta circa a Lourdes; mi accompagnarono al Salus, un ospedale, ma era un al-bergo bellissimo; cenai e mi portarono in camera al quarto piano, la caposala, Clara e le altre volontarie ci salutarono; io le chiesi se uscivamo per vedere la grotta, ma mi risposero che era troppo tardi; io insiste-vo e diventai triste e dice-vo “ho aspettato tutti questi anni e ora che sono a due passi dalla grotta devo dor-mire! Non avevo voglia di dormire”! Allora Clara e Rosa si resero disponi-bili di accompagnarmi e le ringraziai. Siamo passati dalla porta principale attra-verso un grande cancello dove si vedeva tutto il viale con all’inizio la croce della passione di Gesù e in fondo la Madonnina sulla co-lonna tutta illuminata, che sembrava mi chiamasse con le braccia aperte “vie-ni, vieni”; ero avvolta in una nuvola di pace bellis-sima, un’atmosfera legge-ra; quando arrivai sotto la colonna circondata da una aiuola di rose bianche mi accorsi che la Madonnina era girata con il viso verso il santuario; attraversam-mo il piazzale e arrivammo alle fontanelle; non avendo un bicchiere ci bagnammo le mani portandole alla bocca e andammo alla grot-ta: fu un’emozione bellissi-ma! sembrava che ci fossi stata sempre! feci il segno

    della croce e incominciai a pregare: “ Madonnina mia dammi la pace, la serenità, la forza per affrontare tutto quello che sarà della mia vita, dona la forza a mio marito e ai miei figli nello starmi vicino! accogli i loro desideri, guarisci questa bimba, che porgo nelle tue mani e tutte quelle persone che si sono raccomandate alla mia preghiera, porgi il tuo sguardo alle loro sof-ferenze, Madonnina mia, anche su quelli che non me l’anno chiesto: non vo-glio dimenticare nessuno, pensaci tu; e terminai la preghiera recitando l’ Ave Maria, il Padre Nostro, il Gloria al Padre”. Ero cosi contenta che ringraziavo continuamente il Signore mentre tornammo al Salus; Clara mi aiutò a sistemarmi per la notte. La mattina se-guente, dopo la colazione, sempre in carrozzella, ac-compagnata da una dama, Antonella, c’era la possi-bilità di andare alla Via Crucis oppure alle piscine. Io scelsi le piscine per fare il bagno. Ci incamminammo verso le piscine con molta emozione e continuavo a pre-gare e piangere di gioia; essendo in carrozzella passam-mo davanti agli al-tri pellegrini; entrati in uno stanzino mi aiutarono a spogli-armi e mi coprirono con un mantello az-zurro; appena pron-ti, tre volontarie mi aiutarono ad alzarmi e appoggiandomi un asciugamano bianco, una a destra e una a sinistra mi sorreg-gevano mentre l’altra mi spostava prima una gamba e poi l’altra per scendere i due gradini nella vasca. Ad un tratto avvertii un forte

    abbraccio sul collo pensan-do che fosse la volontaria, ma non era lei; le sue mani erano sulle mie gambe! su-bito sentii una voce bellis-sima, tenera, soave, dolce sul lato sinistro che mi diceva: “non avere paura, non avere paura, non avere paura”; in quel momento ho capito che mi stava suc-cedendo qualcosa, scoppiai a piangere, pregavo e pian-gevo e pregavo e mi senti-vo leggera; avvertivo una pace, una serenità come se mi stavo ribattezzando: ripetevo la mia preghiera dicendo i nomi dei miei famigliari e quello della bimba, mentre mi trovavo nella vasca sempre sorret-ta dalle volontarie; sentii un forte dolore atroce alle gambe che sembrava me le stessero portando via, ma non mi distolse dalla preghiera; arrivai davanti alla Madonnina la baciai e tornai indietro sempre con l’aiuto delle volonta-rie: uscita dalla vasca mi vestirono; una di loro mi

    chiese se quella magliet-ta che portavo sulle spal-le fosse di mia figlia o di mio nipote e io risposi di

    Il miracolo della fede Guarigione inspiegabile, guarita dalla sclerosi

    “Una voce mi diceva: Coraggio alzati!!!”

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  • no; allora mi chiese se era della bimba che nominavo e disse il suo nome. Allora capii che aveva ascoltato la mia preghiera; le diedi la maglietta e la calò nell’ac-qua, come se la bimba fos-se con me. Tutta contenta, ritornammo con Antonella nella prateria e con stupore partecipai alla Via Crucis che doveva ancora inizia-re; ringraziai il Signore per questo. Nel pomeriggio da-vanti alla grotta si recitava il Santo Rosario, come da programma. Io sentivo una grande pace e dicevo “Si-gnore fa che mi senta così nei momenti più bui della mia vita”; avevo molto do-lore alle gambe alternan-dosi con una leggerezza e poi di nuovo dolore. Il giorno seguente, dopo la Messa internazionale, da-vanti al Santuario, con tutto il gruppo della Lucania feci la foto ricordo. Il tem-po era molto freddo e umi-do, incominciai ad avere molto dolore, anche perché non facevo fisioterapia; chiamai Clara e Antonella per aiutarmi a muovere un pò le gambe e subito pas-savo dal dolore a una leg-gerezza che non mi faceva sentire nulla; ero immersa in una dolcezza infinita: era bellissimo! Nel pomeriggio andammo alla processione Eucaristica. E mentre pas-sava il Santissimo presi la maglietta nelle mani come se avessi la bimba in brac-cio, chiedendo a Nostro Si-gnore: “guariscila, porgi il tuo sguardo su di lei”. Il 03-08-09 appena alzata chiesi a Clara se poteva starmi vicino perché vole-vo inginocchiarmi. Non lo facevo da tantissimo tem-po, mi appoggiai al letto e le ginocchia si piegarono; mi alzai aiutata dalla vo-lontaria senza dire nulla; chiesi solo quando sarem-mo andati alla grotta e Cla-

    ra mi rispose “oggi pome-riggio”; chiesi dove potevo comprare dei fiori da porta-re alla Madonna. Uscii sempre in carrozzella e ac-compagnata da un volonta-rio andammo alla S. Messa davanti alla grotta; di ritor-no comprai dei fiori bianchi e tornammo al Salus per pranzare. Nel pomeriggio mentre Padre Tommaso ci illustrava i passi di Berna-dette arrivò don Franco, il mio parroco, che chiese alla mia dama di accompa-gnarmi con la carrozzella nel passaggio della grotta. Durante il percorso deposi-tai i fiori e le lettere che mi avevano consegnato. Subi-to dopo chiesi a Don Fran-co di essere portata di fron-te alla Madonnina perchè volevo inginocchiarmi. Lui rimase stupito e preoccupa-to disse: “se cadi, come facciamo?” Io risposi: “c’è tanta gente qualcuno ci aiu-terà”; mi portò vicino ad una panchina, appoggiai le mani e mi spostò la sedia e le ginocchia si piegarono; feci il segno della Croce e pregai sempre con la stessa preghiera, salutai la Ma-donnina pensando che non sarei più tornata da lei; mi alzai sedendomi sulla sedia a rotelle senza dire nulla; al ritorno ci fermammo a fare delle foto con il gruppo di Francavilla. La sera un vo-lontario Donato mi accom-pagnò alla processione del flambeaux prendendo una candela dicendomi di por-tarla anche per lui; io rispo-si: “la porto per te e per tut-te le persone che non sono qui con noi”; lui sorrise e disse: “prega per me”! Quando accendemmo la candela notai due fiamme e pensai che appena si bruce-rà il filo una si spegnerà e invece per tutto il percorso rimasero accese tutte e due. Donato mi disse: “questo è un segno! Vuoi andare alla grotta?” Risposi di si. Ero molto contenta di ritornare e incominciai a pregare. Presi di nuovo la maglietta della bimba e passando all’interno l’appoggiai alla

    roccia; ringraziai Donato e salutai nuovamente la Ma-donnina pensando di non rivederla più. Il giorno se-guente era una bellissima giornata, mentre ci siste-mavano con le carrozzine nel rettilineo davanti al Sa-lus per andare ad offrire il Cero, ci comunicarono che saremmo passati di nuovo davanti alla grotta. “Ma-donnina mia non me ne vo-glio proprio andare da qui, ti saluto sempre e sempre ti vedo, grazie! Fa che nei momenti bui della mia vita io possa sentire la pace che ho qui con te: è l’ultima preghiera che elevai alla Madonnina”. Arrivati in stazione, mi aiutarono a sa-lire sul treno nel barellato; non trovando le scale per salire sul letto, mi presero di peso e mi lussarono una spalla: i volontari erano molto dispiaciuti e io cercai di minimizzare anche se il dolore era forte; cercarono subito un dottore e rintrac-ciarono un ortopedico che mise subito a posto la spal-la e me la fasciò; erano tutti dispiaciuti ma dicevo “non è nulla, questo si aggiusta, (dopo avere accettato que-sta malattia il resto mi sem-bravano sciocchezze”). Ar-rivammo a Battipaglia dove c’era mio marito e mio fi-glio che mi aspettavano e con molta calma riferii loro quello che era successo; conoscendomi mi abbrac-ciarono e scherzarono; sia-mo saliti sul pulmino con don Franco, Carmela, Gio-vanna, Rosangela, Marian-gela e, durante il viaggio abbiamo pregato e raccon-tato la nostra esperienza. La prima fermata è stata a Senise dove è scesa Carme-la; giunti a Francavilla Giuseppe mi aiuta a scen-dere e a sedermi sulla se-dia a rotelle; lui andò ad accompagnare gli altri, mentre io e mio marito en-trammo in casa, appog-giandomi alla poltrona e poi sedendomi sul divano. Subito sento, di nuovo quella voce bellissima che mi diceva: “diglielo, diglie-

    lo, chiamalo, chiamalo”!, ma io non capivo cosa do-vevo dire e lei continuava”. diglielo, chiamalo, chiama-lo”!, c’era solo mio marito e cosi lo chiamai “Antonio, amò vieni è successo qual-cosa, ti devo dire una cosa”! subito mi alzai in piedi e camminai verso di lui facendo una giravolta; lo guardai per paura che si sentisse male perché è car-diopatico, lo abbracciai e continuavo a camminare; ci abbracciammo e cammi-navo, pregavamo e ci ab-bracciavamo. Nel frattem-po, arrivò mio figlio Giuseppe che mi vide in piedi e disse: “ ho pensato che qualcosa era successo perché quando ti ho presa per farti scendere dal pul-mino eri leggera”. Lo ab-bracciai e continuavo a camminare. Subito dopo arrivò anche mio figlio Lo-renzo; altra gioia fino a quando mi prese la paura di uscire, di affrontare questa situazione da sola chieden-domi: perché a me? Perché a me? Dovevo chiamare don Franco ma era troppo tardi e andai a dormire. La mattina mi alzai presto, pregai e ringraziai la Ma-donna per quello che era

    successo; chiamai don Franco al telefonino ma non era raggiungibile; pro-vai tante volte ma niente; io dovevo andare in ospedale per la spalla e non volevo uscire; mio marito insiste-va; allora gli chiese di pren-dere la sedia a rotelle, an-che se mi vergognavo da morire: la sedia era scomo-da, mentre prima mi ab-bracciava ora mi ingombra-va; andammo in ospedale e mi misero un tutore che do-vevo tenere per quindici giorni. Tornammo a casa, chiamai subito don Franco al cellulare che finalmente mi rispose e gli dissi che avevo bisogno di parlare con lui. Mi chiese se fosse urgente! Alla mia risposta affermativa mi domandò che cosa era successo, ri-sposi: “ è successo qualcosa a Lourdes!, io cammino”, a questa mia affermazione lui subito si precipitò da me. Quando arrivò a casa si fer-mò sulla soglia della porta ed io gli andai incontro sen-za sedia e senza stampelle; ci abbracciammo e ringra-ziammo il Signore: erava-mo tutti emozionati! Gli raccontai come mi sentivo,

    Guarigione inspiegabile,

    guarita dalla sclerosi

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    5 AGOSTO 2012 7

  • e gli manifestai la mia pau-ra di uscire. Lui mi chiese i documenti medici, li guar-dammo e disse che avreb-be chiamato il mio medico di famiglia il Dott. Giusep-pe La Rocca e insieme ver-so sera entrarono in casa. Ero seduta sul divano, mi invitarono a raccontare quello che era accaduto e mi alzai in piedi cammi-nando senza stampelle, in-ginocchiandomi e girando intorno al dottore che rima-se senza parole e mi diceva che non era possibile nella situazione che mi trovavo, ma che era possibile a Dio. Eravamo tutti emozionati e mi disse di continuare a

    prendere le medicine e nel frattempo avremmo avvi-sato i medici di Torino del-le Molinette, in cui ero in cura dal Prof. Adriano Chiò. Il giorno seguente, verso sera, venne a farmi visita S. E. Mons. France-sco Nolè, accompagnato da don Franco; ero emoziona-ta, gli raccontai quello che era successo e lui mi disse “tu domani devi uscire, perché devi testimoniare quanto è accaduto, il Si-gnore è entrato in questa casa, si è servito di te per darti questa grazia, ma que-sta grazia non è per te ma per tutti noi”. Io ho capito e mi sono lasciata guidare; mi ha chiesto dove volevo andare l’indomani mattina ed io ho risposto che non potevo andare da nessun al-tra parte, se prima non an-davo dalla bimba, accom-

    pagnata da Don Franco. E’ stato un momento di gran-de emozione nel vedere

    l’umiltà e la grazia di que-sti genitori della bimba nell’ accogliere questo mio dono, consegnatomi dalla Madonna e dal Signore Dio Padre Onnipotente. La bimba per cui ho pregato e prego ancora è molto gra-ve. Da quando ho ricevuto questo dono meraviglioso ogni momento della mia

    giornata: quando lavoro, cammino, parlo, mangio, si trasforma in preghiera di

    ringraziamento. Non mi basterà tutta la mia vita per ringraziare la Madonna per questo dono. La preghiera, la fede, l’eucarestia, ci uni-scono tutti nella speranza che il Signore Gesù Cristo, insieme alla Mamma cele-ste e Dio Padre Onnipoten-te, non ci abbandonano mai: in loro troviamo la

    forza per affrontare tutte le nostre paure, le difficoltà, le sofferenze e troviamo l’amore e la serenità neces-saria per la nostra vita quo-tidiana. Adesso mi occupo della mia casa, della mia famiglia, di due zie sorel-le di mamma che sono rimaste vedove e senza fi-gli, che sono allettate e bisognose di cure. Il mio parroco mi ha chiesto di di-ventare ministro straordi-nario dell’eucarestia, e quando porto la comunio-ne ai malati è un mo-mento meraviglioso: mai avrei immaginato di ritor-nare a vivere così, e rin-grazio la Mamma celeste per questo bellissimo dono.

    Antonia Raco

    Guarigione inspiegabile,

    guarita dalla sclerosi

    continua da pag. 7

    E’ trascorso oltre un anno (24 giugno 2011) dalla scomparsa di Agostino Dolce (Augusto per gli amici), venuto a man-care alla sola età di 40 anni e il nostro giornale vuole ricordare la sua nobile figura. Laureato in Scienze Politiche ad indi-rizzo amministrativo, presso l’Università di Bologna con il massimo dei voti, frequentò un corso di specializzazione in Diritto Tributario presso la “Luiss Management” di Roma. Funzionario della Banca Popo-lare del Mezzogiorno, era pa-recchio apprezzato per il suo costante impegno nel campo del lavoro, dove aveva in poco tempo conquistato simpatia e amicizia tra i colleghi ed era molto stimato dai suoi supe-riori, tant’è che in occasione dell’assemblea annuale della Banca, il Presidente ha voluto ricordare così la sua scompar-sa: “Prima di inziare i lavori di questo consesso, ritengo ol-tremodo doveroso di ricordare la scomparsa di un nostro va-lidissimo collaboratore, il dr. Agostino Dolce. Oltre all’im-

    pegno e alla diligenza che ne hanno sempre contraddistinto l’operato, di lui ricordiamo la bontà d’animo e lo spirito sereno e sempre disponibile ad aiutare il prossimo.Ai suoi familiari - ha concluso il mas-simo esponente della Banca - rinnoviamo il nostro cordoglio per la immatura perdita e nel contempo esprimiamo la no-stra vicinanza”. Ad un anno dalla sua scomparsa i familia-ri, i tantissimi amici e quanti altri lo avevano conosciuto, lo hanno ricordato con affetto anche attraverso una messa di suffragio celebrata dal parroco di San Pietro e Paolo don Roc-co Rosano.

    MICHELE SELVAGGI

    Ricordo indelebile di Agostino Dolce

    Riconsacrato l’antico or-gano, risalente alla fine del XVII secolo, nella chiesa conventuale, già Madon-na delle Grazie, oggi de-dicata al grande Santo di Padova.Tutto questo in una so-lenne cerimonia religiosa, presieduta dall’arcivesco-vo mons. Salvatore Ligo-rio, che ha officiato davan-ti a numerosi fedeli. Questi, dopo la cerimonia, hanno preso parte al con-certo, tenuto dall’organi-

    sta Pierre Perdigon, che ha inondato di armonia le navate del tempio, dove da pochi mesi i fedeli pos-sono ammirare i restaurati affreschi della cupola. L’organo, caratteristico strumento polifonico, dif-fuso nelle chiese a partire dal XVI-XVII secolo. Per il suo carattere poli-fonico ha trovato grande accoglienza e valorizza-zione nei templi cattolici. A partire soprattutto dal Seicento tale strumento (a

    tastiera ed aria) ha trova-to grandi musicisti come Soweellinck,B. Pasquini (1637-1710), J. Haydin (1732- 1809), Cabezòn, G. Frescobaldi, Couperin… e finalmente J.S. Bach.Il maestro organista ha eseguito all’organo (siste-mato dove si trovava an-ticamente, cioè in alto, al centro della navata princi-pale), brani di J. P. Soweel-lick, di Bernardo Pasquini, di Domenico Zipoli, di un poco conosciuto Johann

    Kuhnav, di Haydin, di Mozart e di Luigi Gue-rardeschi. Qust’organo (restaura-to grazie all’impegno del parroco don Miche-le Leone) fu suonato saltuariamente, fino agli inizi degli anni Cinquanta, dal sac. don Mimì Di Giulio. Il restauro è durato una decina d’anni.

    (AD)

    Riconsacrato l’antico organo nella Chiesa Sant’Antonio di Pisticci

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  • GUARIGIONE PRODIGIOSA, LA TAPPA DI UNA BATTAGLIA CHE SEMBRAVA PERSA IN PARTENZA

    JOSHUA E IL FRATE DI PIETRELCINAQuella di Elisabetta e del piccolo Joshua Emanuele è una storia di clamorose su-perficialità mediche ma an-che di medici straordinari; è la storia di una malattia in-dicibilmente dolorosa ma anche di una guarigione prodigiosa. E molto di più: senza ombra di dubbio per Elisabetta, per il suo com-pagno Manuel e per quanti hanno fede, è la storia di un miracolo. Per chi non crede resta comunque la vicenda di un bambino che quando aveva solo due anni di vita era stato dato per spacciato e che oggi è sano: sparite le metastasi, sparito il tumore, Joshua, anche secondo il parere della scienza, è in re-missione. Lo desideravano molto questo figlio, Elisa-betta e Manuel. Insieme da undici anni, lui è un attore di sit-com, volto noto delle televisioni private pugliesi, lei una bellezza meridionale poco più che trentenne, ca-scata di riccioli neri e occhi di brace, estroversa, energi-ca, positiva, nonostante un’infanzia difficile e la ne-cessità di farsi carico di re-sponsabilità troppo grandi per la sua età. Figlia di una coppia di sordomuti, di cui si è presa cura fin da quando era una bambina, e tre zii con lo stesso handicap, pur volendo fortemente diven-tare madre, Elisabetta nutri-va inevitabilmente ansie e

    timori per il bambino che sarebbe arrivato. Della sua fede parla come di una cer-tezza granitica, che tuttavia è rimasta a lungo un senti-mento molto intimo, quasi privato. Eppure, tanto la gravidanza tanto i primi mesi di vita di Joshua sono stati costellati da coinciden-ze e premonizioni. A partire proprio da quel nome scelto per il figlio, Joshua: che lei credeva significasse Gesù, e che invece in ebraico si tra-duce «Dio è la salvezza mia»; ed Emanuele, che nel-la stessa lingua sta per: «Dio è con noi». Elisabetta rac-conta di averli scelti tra mi-lioni di altri nomi prima di conoscerne la traduzione e senza sapere perché. Più tar-di, nonostante una schiera di medici incompetenti non avesse neppure lontanamen-te capito la gravità della ma-lattia che aveva colpito suo figlio, la giovane mamma vede, alla stregua di un’im-magine dai contorni nitidis-simi, «che io e il mio bam-bino avremmo trascorso molto tempo in ospedale, e lo immaginavo senza capel-li, tanto malato, malato di un tumore.» La parola mette i brividi ancora oggi, ma se riferita a un bambino, ancor prima che indicibile, risulta impensabile per una madre. Però, Elisabetta lo sa e ba-sta, e c’è qualcosa di inelut-tabile in quella sua consape-

    volezza, che si tiene per sé, impie-trita e allo stesso tempo rassegnata alla forza della pre-monizione. Joshua nasce a Putignano il 9 febbraio del 2007. Non è sordo-muto, come aveva temuto la mamma, ma la gioia della sua nascita trasco-lora immediata-mente in tristezza. La prima diagnosi parla di «sospetta cromosomopatia e plagiocefalia», tra-ducendo in lin-

    guaggio comune, si ipotizza che il neonato sia down e affetto da un torcicollo con-genito che lo porta a incli-nare la testa verso sinistra. Pochi giorni dopo, nella fa-miglia De Nicolò torna il sorriso: il bambino sta bene, il problema al collo è proba-

    bilmente dovuto a «ipopla-sia dello sternocleidoma-stoideo del muscolo sinistro del collo», e quell’occhio semiaperto e gonfio di cui si sono accorti è solo un raf-freddore. Ma non è vero. Una delle palpebre non si apre né si chiude del tutto a causa della sindrome di Horner, e quel che purtrop-po si scoprirà più avanti è che dietro quell’occhio c’è già una massa tumorale: cellule maligne hanno inva-so il corpicino fin dalla na-scita, colpendo anche i lin-fonodi del collo. «Se in quei primi giorni avessero effet-tuato una Tac o una radio-grafia, invece gli hanno fatto una banale ecografia, si sa-rebbe arrivati subito a una diagnosi corretta, e le tera-pie necessarie sarebbero ini-ziate allora» commenta amara Elisabetta ricordando la negligenza e la superfi-cialità dei medici. In realtà è stata lei, guidata dall’istinto materno e dalle sue premo-nizioni, a condurre Joshua nelle mani che avrebbero cominciato a salvarlo. Ma prima di arrivarci, sono tan-te le richieste pressanti dei due genitori di approfondire i problemi del bambino. «Siete ansiosi» li liquida in-

    vece il pediatra. «La mia rabbia è tanta, perché questo medico si è limitato a pre-scrivere a mio figlio dei col-liri, che ovviamente erano semplici palliativi, senza mai pensare a indagini più accurate.» Poi, Elisabetta e Manuel si rivolgono

    all’Ospedale Pediatrico Giovanni XXIII di Bari, al reparto di ortopedia e trau-matologia, e ancora a un fi-siatra di Noci: si sentono ri-spondere che la testa del bambino tende a piegarsi verso sinistra per una postu-ra da parto. Ma il 23 dicem-bre del 2008, dopo questo inseguirsi di supposizioni sbagliate e diagnosi aleato-rie, all’improvviso, sulla tempia sinistra del piccolo Joshua compare una pallina non più grande di un noc-ciolo. Sarà questo episodio, inizialmente sottovalutato come tutti gli altri, a salvar-gli la vita. «Non smetterò mai di ringraziare Dio, la Madonna e Papa Pio, come dice Joshua, perché nella nostra disgrazia abbiamo avuto la fortuna di notare questo bozzo e, soprattutto, che fuoriuscisse». Il 29 di-cembre, il bambino viene visitato privatamente e sot-toposto a ecografia: «si trat-ta di una ciste sebacea, un banale accumulo di grasso, che potrà essere asportata al quinto anno di età da un der-matologo» rassicura il me-dico. «Questo professionista mi era stato raccomandato dal nostro pediatra» raccon-ta Elisabetta. «Avevamo op-

    tato per una visita a paga-mento anche per non dover aspettare i tempi della sanità pubblica, non prima di feb-braio ci avevano detto, e dentro di me continuava a esserci quella consapevo-lezza, una voce che mi dice-va che allora sarebbe stato troppo tardi». La signora De Nicolò ricorda che era certamente preoccupata per il suo bambino, ma che non si sentiva mossa dall’ango-scia, piuttosto da un pensie-ro lucido, da certezze che lei oggi spiega dicendosi «gui-data dalla grazia della fede», come se già allora si stesse affidando completamente a un disegno divino che l’avrebbe condotta verso inaudite sofferenze e infine al «miracolo» della guari-gione di Joshua. Ma se la trascendenza è imperscruta-bile, il più terreno incontro con medici competenti, seri, capaci è indispensabile. In-contro che finalmente av-viene quindici giorni dopo, nel gennaio 2009: la tume-fazione dell’occhio sinistro aumenta ed Elisabetta e Ma-nuel non sono tranquilli. Così, decidono di rivolgersi all’Ospedale di San Giovan-ni Rotondo, la struttura sa-nitaria realizzata da Padre Pio, ma prima ancora, Ma-nuel chiede a un amico che abita nella zona la cortesia di metterlo in contatto con uno dei medici, per accele-rare i tempi della visita. E anche questa volta si verifi-ca una felice coincidenza. Il contatto telefonico non è, come si aspettavano Elisa-betta e Manuel, con un pe-diatra, ma direttamente con il Professor Saverio La Do-gana, primario del reparto di Oncoematologia, al quale basta sentire i sintomi che accusa il bambino, occhio semiaperto e bozzo alla tempia, per disporre una vi-sita immediata di Joshua. «Aveva già capito tutto, ecco perché penso che i pe-diatri dovrebbero fare ag-

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  • giornamenti oncologici, per non incorrere in errori che potrebbero risultare fatali. Joshua poteva morirmi tra le braccia se avessi ascolta-to il mio pediatra o quell’ecografista che aveva diagnosticato una cisti seba-cea, se non avessi seguito il mio istinto materno…» Dopo la Tac, quella dei me-dici di San Giovanni Roton-do più che una diagnosi, è una sentenza che mozza il fiato e non lascia speranze: Joshua ha una prognosi di cinque giorni di vita. È af-fetto da neuroblastoma me-diastinico al quarto stadio S, con infiltrazione midollare e metastasi allo scheletro. Il tumore ha attaccato le ossa del bacino, il midollo, le ossa del cranio, il retro dell’occhio sinistro, i linfo-nodi del collo e stava pene-trando nella parte sinistra del cervello, ed è questo, purtroppo, che spiega la po-sizione della testa inclinata fin dalla nascita. Non è fini-ta: dietro al polmone sini-stro c’è una formazione tu-morale che misura sette centimetri e mezzo. Non c’è altro da fare se non iniziare una terapia d’attacco, un vero e proprio bombarda-mento che prevede chemio-terapia, autotrapianto e ra-dioterapia. Una battaglia contro il tumore che durerà otto mesi. «Non dimenti-cherò mai quel momento. La diagnosi era terribile. Manuel piangeva. Io, dopo aver ascoltato il responso e le spiegazioni, mi alzai in piedi e ringraziai. Per la pri-ma volta, da quando Joshua era nato, mi trovavo di fron-te medici di cui avevo asso-luta fiducia, a persone di grande umanità. La dotto-ressa Lucia Miglionico, una donna meravigliosa che poi ci avrebbe seguito in quel lungo percorso, mi raggiun-se in corridoio. “Signora, lei ha capito qual è la diagno-si?” mi chiese. Il mio com-portamento, l’assenza di la-crime, l’apparente freddezza l’avevano disorientata. “Ho

    capito benissimo” le risposi. “Affido a voi e a Dio mio figlio”». La vita si trasfor-ma all’improvviso. Manuel ed Elisabetta si trasferisco-no a San Giovanni Rotondo, prendono un appartamento in affitto, ma la casa di Jo-shua e della sua mamma sarà per mesi l’ospedale, in isolamento per tre mesi: chiusi in una bolla di dolore, il più insopportabile, quello che è toccato in sorte a un bambino piccolissimo, indi-feso, che dovrà sottoporsi a terapie dolorose. C’è da af-frontare la solitudine, la paura. E mentre la moglie e il figlio sono nel buio del tunnel, Manuel, con un’in-credibile forza d’animo deve continuare a lavorare, e il suo lavoro consiste nel far ridere. In quei mesi, più che un attore di sit-com, lui si sente un clown, costretto a piangere dietro la masche-ra sorridente. «La crudeltà di quel responso mi aveva trovato incredula, smarrita, persa in mille domande sen-za risposte. Continuavo a chiedermi: «perché a me?». Mi è stato detto che la soffe-renza la si dà a chi ha la for-za di sopportarla, ma io non ero forte, ero una donna a cui avevano strappato l’ani-ma. È stato forte Joshua, in-vece, che riusciva a sorride-re persino in quei giorni. I suoi occhi brillavano nel ve-dermi, e quel suo sorriso fi-ducioso pretendeva il mio. È indescrivibile l’amore che si può provare quando si at-traversano prove del genere. Allora, la risposta che io mi sono data è che forse sba-gliavo a pensare a un figlio solo se fosse nato sano, per-ché i figli sono un dono di Dio, un’esperienza d’amore senza confini, e bisogna es-sere grati per averli avuti comunque con noi, anche solo un giorno, un mese o un anno». La fede di questa giovane donna è semplice e granitica allo stesso tempo. Racconta di essere cresciuta in un ambiente diffidente: chi non parla e non sente è sempre all’erta, non si fida. Era lei, fin da piccola, a par-lare con i medici, con gli avvocati, a mediare con il mondo dei «normali». E a

    scuola i compagni le face-vano il verso, la prendevano in giro. Ha sofferto molto Elisabetta, ha dovuto affron-tare molti momenti difficili. «Allora, quando mi sentivo veramente sola e perduta, invocavo Dio, il suo aiuto. La mia era una preghiera si-lenziosa che m’infondeva immediatamente calma e serenità. Quando mio figlio è stato male, ho provato quella stessa fiducia assolu-ta nell’affidarmi alla fede». Le chemioterapie e le tante terapie a cui ha dovuto sot-toporsi Joshua sono state un calvario, ed Elisabetta so-stiene che non si contano le volte che avrebbe mollato o sarebbe impazzita nell’assi-stere impotente alle soffe-renze del suo bambino se la fede non l’avesse sostenuta. Nessuno può, e forse nep-pure vuole, immaginare cosa significhi vivere per mesi in un reparto di onco-logia pediatrica, accanto a bambini malati che diventa-no un po’ anche propri e che spesso non ce la fanno; vici-ne ad altre madri, che a vol-te sperano, e sono le più for-tunate, o che resistono, sapendo che non c’è più niente da sperare. «Si strin-gono anche amicizie in quei lunghi ricoveri, s’intreccia-no legami specialissimi. A San Giovanni Rotondo, dove ho imparato che più delle medicine possono l’amore e l’umanità dei me-dici, ho conosciuto Rosa, una mamma straordinaria che ha trascorso dai 21 ai 35 anni in “via oncologia”, come chiamava lei il nostro reparto, assistendo sua figlia Benedetta, una quattordi-cenne dolcissima che era diventata grande amica di Joshua, una presenza fon-damentale per lui, la sua compagna di giochi… A marzo, Benny non ce l’ha fatta, è morta. E il mio bam-bino, non vedendola più, per giorni mi ha chiesto sus-surrando, come se avesse capito, “mamma, Benetta dov’è?” . Rosa, nonostante la sua tragedia, è stata, oltre ai medici, la persona che più mi è stata accanto in quei mesi, mi ha dato coraggio, mi faceva forza. So che

    sembrerà strano, ma io e Manuel abbiamo parlato di nostro figlio solo al decimo giorno del suo ricovero, per-ché ogni volta che ci guar-davamo in faccia scoppia-vamo a piangere…». Ma nonostante i pronostici, il loro bambino risponde alle cure oltre ottimistica previ-sione: dopo otto cicli di che-mioterapia e l’autotrapianto del midollo, a Giugno del 2009 viene dimesso dall’ospedale. Ci tornerà ad agosto dello stesso anno per sottoporsi a diciassette ra-dioterapie, tutte in anestesia generale, rischiando la tiroi-de e il polmone sinistro. Ma quando venti giorni dopo viene dimesso, la malattia ha cominciato la sua lenta ritirata. Joshua, che ha or-mai quasi quattro anni, è un bambino vivacissimo: line-amenti minuti e occhi che si muovono guizzanti, come se volesse registrare ogni più piccolo movimento in-torno a sé, ha però un’espres-sione quasi adulta sul viso. Un figlio stupendo, per la sua mamma, capace di par-lare il linguaggio dei sordo-muti, e sempre pronto al sorriso. «Da quando apre gli occhi al risveglio, un sorriso che esprime tutta l’allegria di vivere un nuovo giorno.» Hanno imparato tanto da lui, Elisabetta e Manuel, so-prattutto « la semplicità, l’attenzione alle cose vere, importanti della vita», e, se-condo i suoi genitori, è stato proprio Joshua a guidarli verso una dimensione so-prannaturale, riconoscendo presenze divine fin da pic-colissimo, e addirittura dia-logando con loro. «Aveva

    appena otto mesi ed era se-duto sul nostro letto» rac-conta emozionata Elisabet-ta. «A un certo punto, lo sentii parlottare, come se avesse davanti un interlocu-tore… “Joshua con chi par-li?” gli chiesi, e lui, sorri-dente, si girò verso il quadro di Padre Pio che avevamo sul letto e me lo indicò con la sua manina. Un’altra vol-ta, ancora durante il primo ricovero, il bambino si sve-gliò improvvisamente e guardando verso la porta della stanza, mi disse: “Mamma hai visto Pa Pio? Lui bacio mano casa”. Ave-va visto il Santo che gli ave-va dato un segno: era accan-to a lui e lo avrebbe portato fuori dall’ospedale guaren-dolo». I coniugi De Nicolò, dopo aver letto un’intervista a Paolo Brosio, devotissimo alla Madonna di Medju-gorje, decidono di andare lì in pellegrinaggio. Siamo a luglio del 2009, Joshua ha 29 mesi ed è stato da poco dimesso dall’ospedale di San Giovanni Rotondo. A giugno c’era stato bisogno di una prima trasfusione di piastrine, che sono pochissi-me, solo cinquemila, met-tendo a rischio di emorragia il bambino. E il giorno pri-ma della partenza è neces-saria la seconda. Le piastri-ne salgono a quarantamila: è già un risultato, ma i sani-tari sono contrarissimi al lungo viaggio che dovrebbe portarlo fino in Croazia, lo considerano ancora in peri-colo e avvertono i genitori che non daranno la loro au-torizzazione. Ma il giorno

    Joshua e il frateda Pietrelcina

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  • della partenza, il primo lu-glio, le piastrine risultano salite vertiginosamente a 160 mila, raggiungendo di fatto valori normali. Per i medici questo significa che c’è stata un’ottima reazione del midollo, per Elisabetta e Manuel, si tratta di un segno della Regina della Pace che stanno andando a pregare. «Appena giunti a Medju-gorje abbiamo conosciuto Miriam, una delle veggenti, e Paolo Brosio, al quale ab-biamo spiegato le ragioni della visita alla Madonna: lui è stato molto colpito dal-la nostra storia, ha preso su-

    bito in braccio Joshua e lo ha portato fin sotto la croce azzurra, in cima alla collina. Un’esperienza che non po-tremo mai dimenticare. Jo-shua non parla molto, ma sa scandire benissimo le paro-le: mamma, aereo, Madon-na, Paolo, albergo, andiamo. Nel corso del pellegrinaggio la mia fede è cresciuta. Pri-ma di partire, il bambino non riusciva a camminare bene, i medici mi tranquil-lizzavano dicendo che era dovuto alla terapia e al fatto che fosse stato per un mese a letto. Tra un mese, aveva-no aggiunto, suo figlio ri-prenderà una deambulazio-ne normale. Invece, appena arrivato a Medjugorje, mio figlio correva, sgambettava felice senza problemi». Quel che poi aggiunge Eli-sabetta, riguardo agli straor-dinari miglioramenti della salute di Joshua, è che non ha dubbi a considerarli frut-to di un miracolo intensa-

    mente invocato e infine con-cesso da quella Madonna croata alla quale si rivolgo-no milioni di devoti da ogni parte del mondo. «Prima dell’autotrapianto, mio fi-glio presentava metastasi ossee, linfonodi profondi alla gola, alla tempia e al fe-more, e una massa mediasti-nica di 5-6 cm di diametro dietro al polmone. Quando tornammo dal pellegrinag-gio, l’esito della Tac ci dice-va che la massa tumorale si era ridotta a poco più di tre centimetri e che il resto era scomparso. La dottoressa ci disse: “miracolosamente si è cicatrizzato tutto”». Resta però un’ultima battaglia da affrontare, ed è la più diffi-cile. Quel tumore nascosto dietro al polmone va opera-

    to, ma l’intervento presenta rischi altissimi. Che solo i medici dell’Ospedale pedia-trico Meyer di Firenze si di-chiarano disponibili ad af-frontare. Non senza prima avvisare dei pericoli i geni-tori di Joshua. «Il primario mi parlò dei rischi. Gli ri-sposi senza mezzi termini che mio figlio era come se fosse già morto: non erano più possibili altre chemio, quindi il tumore, se non fos-sero intervenuti, lo avrebbe comunque ucciso. Ecco, se c’è stato un momento in cui ho avuto coraggio, è stato quello». È il 27 novembre del 2009. I medici avevano previsto una durata dell’in-tervento che oscilla dalle quattro alle sei ore, e non meno di tre o quattro giorni in rianimazione. «Invece la Madonna e Gesù sono stati con noi anche questa volta. Pensare che sia ai medici di San Giovanni Rotondo che di Milano erano contrari

    all’operazione. Loro consi-gliavano di intervenire solo dopo una terapia chemiote-rapica di mantenimento. Jo-shua è stato sotto i ferri solo per un’ora e mezzo e si è svegliato nella mezz’ora successiva. In rianimazione è rimasto per due ore, a sco-po precauzionale. Quando ha riaperto gli occhi era feli-ce, e mi ha sussurrato di aver visto una luce bianca, le nuvole, che era stato in cielo con Gesù, che avevano riso insieme, che la Madon-na vegliava in lontananza, infine, che aveva ricevuto un regalo “grande grande”. Ingenuamente gli ho chiesto di cosa si trattasse, e lui, quasi stizzito per la stupidi-tà della domanda, ha rispo-sto: “Mamma, regalo!”. Come a dire: “ma non capi-sci, mi hanno ridato la vita”». Joshua resta tuttora monitorato. L’ultima terapia di mantenimento, durata sei mesi, è terminata il 20 giu-gno 2010, e quest’ultima tappa è stata festeggiata con il primo giorno in spiaggia: un bagno insieme al loro bambino, per Elisabetta e Manuel è stato come stap-pare mille bottiglie di cham-pagne. Perché fino a quel momento anche l’acqua del loro bellissimo mare aveva-no dovuto negargli: il cate-tere venoso centrale, attra-verso il quale venivano fatte tutte le terapie, non poteva bagnarsi. Troppo piccolo perché la chemio gli venisse iniettata ogni volta in vena. «Siamo contentissimi per il decorso che sembra essere positivo, sperando che non si presenti una recidiva» dice commossa la mamma. «Ma ciò non toglie nulla alla disperazione che abbia-mo provato in questi mesi, e anche se so che non tutti po-tranno capire, considerando il mio bambino un “soprav-vissuto”, provo un senso di colpa verso le mamme che i loro bambini non li hanno più. Ne ho conosciute diver-se in ospedale, entrate insie-me ai figli che avevano la stessa diagnosi di Joshua, e meno fortunate di me…». Elisabetta vuole raccontare ancora due episodi accaduti al suo bambino che, lei non

    ha dubbi, testimoniano la protezione di Padre Pio sul piccolo malato. Si succedo-no a pochi giorni l’uno dall’altro, nel febbraio del 2010. Il primo si verifica il 7 di quel mese: lei è nella cu-cina di casa che affaccia sul living, poco distante Joshua pedala sulla sua biciclettina. A un certo punto vede che il figlio si ferma e fa un gesto con le mani, come se stesse sollevando qualcosa da ter-ra. «Mannaggia» lo sente esclamare. Basta questa pa-rola perché sia lei sia Ma-nuel, che è in un’altra stan-za, accorrano: lo interpretano come un segnale di males-sere, e ormai, il minimo in-dizio di qualcosa che non va li mette in allarme. Quando gli chiedono cosa sia suc-cesso, Joshua spiega che «Papio è caduto». Con quel gesto il bambino non stava prendendo qualcosa, ma aiutava il suo Santo a rial-zarsi. «Papio ha detto: prega Dio» racconta ai genitori. Per i quali l’accaduto è il se-gno inequivocabile che il loro bambino vede e parla con il frate di Pietrelcina. Poi, due giorni dopo, arriva il compleanno di Joshua: compie tre anni. Per un bim-bo a cui avevano dato cin-que giorni di vita, ogni anni-versario è una conquista, la tappa di una battaglia che sembrava persa in partenza, un momento emozionante e niente affatto scontato per quanti lo amano. Natural-mente, ci sarà una festa, ma non una qualunque. Perché, come ricorda la mamma, «il 7 febbraio dell’anno scorso,

    io e lui eravamo in isola-mento, aveva appena fat-to l’autotrapianto; questa volta volevo che fosse circondato da amici e pa-renti, che per lui fosse una giornata speciale». Così, i De Nicolò invita-no ottanta persone, si fe-steggia fino a notte, e quando rientrano a casa Joshua ha con sé così tanti regali che molti non sono stati neppure aperti. È ormai l’una. E contra-riamente a quanto si aspetta Elisabetta, il bambino non si attarda ad aprire i doni, chiede

    invece di andare a letto. «Mi dai la mamma?» le do-manda. Non lo ha mai fatto prima. Poi vuole anche le statuette di San Michele e di Padre Pio. Guarda quest’ul-tima e gli dice: «però tu non parli come l’altro». «Vole-va dire che la statua era muta, mentre due giorni pri-ma, così come quando si era svegliato in ospedale, il bambino aveva sentito la voce del Santo» spiega Eli-sabetta con la sua fede sem-plice e perentoria. A un anno esatto dal loro primo pelle-grinaggio, nel luglio del 2010, la famiglia De Nicolò è tornata a Medjugorje. Per ringraziare. «Dodici mesi prima ero lì con un bambino ancora molto lontano dalla guarigione. Adesso andavo sul monte santo, verso la Croce, con un figlio guarito. Il giorno dell’apparizione eravamo accanto a Miriana, e Joshua, improvvisamente, alza gli occhi in alto e sorri-de. Gli chiedo il motivo, e lui mi risponde che in cielo accanto alla Madonna c’è Padre Pio, che dapprima ri-volge i palmi delle mani in alto in segno di giubilo al cielo, e poi li gira verso il basso, in segno di protezio-ne dei presenti. Per noi è un ulteriore prova della prote-zione che esiste da sempre sul nostro bambino. Il santo di Pietrelcina è il suo angelo custode dall’inizio del suo calvario e so che non lo la-scerà mai solo».

    Elisabetta e Joshua Emanuele

    De Nicolò

    Joshua e il frateda Pietrelcina

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  • È il 40° anniversario del Rinnovamento nello Spi-rito Santo in Italia! Come sembrano lontani quei primi anni ’70 del secolo scorso quando il Movimento cari-smatico metteva le sue ra-dici negli Stati Uniti per poi giungere sino in Europa e dalla fine del 1971 in Italia. Ma è ancora urgente la gra-zia di quel “rinnovamento spirituale” di cui parlavano Paolo VI e il card. Leo Jo-seph Suenens, primi con-vinti sostenitori della nostra corrente spirituale? I segni dei tempi ci dicono di sì e indicano proprio nel deficit di vita spirituale la madre di tutte le crisi che il mondo oggi soffre.Quest’anno giubilare è per il Rinnovamento tempo di memoria, in cui ripercorrere e ricordare una storia lun-ga 40 anni. Il Movimento è cresciuto e si è trasformato attraverso una comunione

    sempre più intima con la Chiesa e i Pontefici che si sono succeduti. Lo scorso 26 maggio, giorno della vi-gilia di Pentecoste, il Santo Padre Benedetto XVI ha concesso al Rinnovamento un’Udienza Speciale in oc-casione del 40° anniversario

    della nascita. Eravamo più di 30.000 in piazza San Pie-tro; 30.000 “colombe” sven-tolavano fazzoletti rossi di passione per Gesù e festeg-giavano insieme al Papa e al Presidente della CEI card. Angelo Bagnasco questa importantissima ricorrenza. Così il Papa si è rivolto a tutti gli aderenti presenti in Piazza San Pietro: “In que-sti decenni - quarant’anni - vi siete sforzati di offrire il vostro specifico apporto alla diffusione del Regno di Dio e all’edificazione della comunità cristiana, alimen-tando la comunione con il Successore di Pietro, con i Pastori e con tutta la Chiesa. In diversi modi avete affer-mato il primato di Dio, al quale va sempre e somma-mente la nostra adorazione. E avete cercato di proporre questa esperienza alle nuove generazioni, mostrando la gioia della vita nuova nello

    Spirito, attra-verso un’ampia opera di forma-zione e molte-plici attività le-gate alla nuova evangelizzazio-ne e alla missio ad gentes. La vostra opera apostolica ha così contribuito alla crescita del-la vita spirituale nel tessuto ec-clesiale e socia-le italiano, me-diante cammini di conversione che hanno con-dotto molte per-sone ad essere risanate in pro-

    fondità dall’amore di Dio, e molte famiglie a superare momenti di crisi. Non sono mancati nei vostri gruppi giovani che hanno genero-samente risposto alla voca-zione di speciale consacra-zione a Dio nel sacerdozio o nella vita consacrata. Di

    tutto questo rendo grazie a voi e al Signore! Cari ami-ci, continuate a testimoniare la gioia della fede in Cri-sto…!”. Non potevamo aspettarci augurio più grande e conso-lante; porteremo sempre nel nostro cuore queste parole benedicenti e il ricordo di una giornata indimenticabi-le. Anche il card. Bagnasco ci ha lasciati con un invito a fare del RnS una “testimo-nianza”: “Diffondete la cul-tura della Pentecoste, che è cultura di unità e comunio-ne. Essa non è frutto della presunzione umana - come nel caso della torre di Babe-le - ma è dono dello Spirito che scende dall’Alto.”.Il 2012 è, dunque, anche tempo di profezia, come abbiamo voluto ricordare in uno degli eventi più impor-tanti dell’anno, la XXXV Convocazione nazionale dei Gruppi e delle Comu-nità che si è svolta a Rimini dal 28 aprile al 1° maggio. Abbiamo voluto raccontare l’azione multiforme e inces-sante dello Spirito Santo che ha dato una nuova direzione alla nostra vita, ispirando e muovendo la crescita dei nostri 1900 Gruppi e Comu-nità. Nell’Anno della Fede, voluto da Benedetto XVI, vogliamo attualizzare la

    grazia del RnS e far sì che la nostra spiritualità carismati-ca sia sempre più autentica-mente vissuta e da tutti gio-iosamente incarnata. Le speciali iniziative di quest’anno sono pensate per coinvolgere anche quanti non conoscono il RnS e vo-gliono accostare questa spi-ritualità. È per questo che ci aspettiamo che tutti parteci-pino al grande evento di po-polo e di evangelizzazione che si svolgerà a settembre in 11 importanti città metro-politane d’Italia. 10 Piazze per 10 Comandamenti è un progetto di portata naziona-le del Rinnovamento nello Spirito Santo, patrocinato dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Vuole essere un momento gioioso, di coinvolgimento popolare e di testimonianza di fede, in un momento storico di smarrimento spirituale e di disagio economico e so-ciale. Si svolgerà in dieci principali città d’Italia e a Roma: sabato 1 settem-bre a BARI; sabato 8 set-tembre a MILANO, TORI-NO, CAGLIARI e ROMA; sabato 15 settembre a NA-POLI, FIRENZE, VERO-NA e GENOVA; sabato 22 settembre a PALERMO; sabato 29 settembre a BO-LOGNA in concomitanza

    con la festa patronale di San Petronio. L’idea di fondo è che ritrovare il senso del vivere comune e la misura buona delle cose, alla luce dei 10 Comandamenti – fondamento morale di tutte le legislazioni e delle costi-tuzioni democratiche vigen-ti – rappresenti in sé un atto d’amore e di responsabilità verso le nuove generazioni. Vogliamo essere presenti nelle “piazze”, luogo sim-bolo dell’agonismo sociale, così come nelle chiese, per ridare un’anima, una forza spirituale agli uomini e alle istituzioni. Ogni iniziativa che intra-prendiamo non sarebbe pos-sibile se non sostenuta dalla preghiera. È per questo che in quest’anno speciale tutto il RnS in Italia, attraverso l’articolazione diocesana, rimarrà in preghiera lungo un tempo di nove mesi, da febbraio a ottobre (fino alla XXXVI Conferenza Nazio-nale Animatori di Rimini), con l’intenzione di soste-nere l’anniversario giubi-lare attraverso un “Muro di Fuoco”. Con l’arrivo dell’estate non smettiamo di pregare perché la preghiera indica il cammino della no-stra vita. Più si cammina e più si avanza verso il cielo. Più si prega e più si entra nell’eternità, già su questa terra. È bello immaginare, che da ogni angolo della ter-ra si alza al cielo una grande muraglia, il solo muro che può davvero risultare gradi-to a Dio: è la muraglia degli oranti, degli uomini e delle donne che pregano.Santa Caterina da Siena, patrona di Italia e d’Euro-pa, un dottore della Chiesa, una donna del XIV secolo, di origini umili, analfabeta, trovò la sua grandezza nella preghiera. Dinanzi ai poten-ti della terra, a cui si rivol-geva per invocare la pace e

    40° anniversario del Rinnovamento nello Spirito Santo

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    La Preghiera: fonte d’amore

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  • la concordia tra gli uomini, esprimeva quella fermezza che solo dalla preghiera può derivare. Caterina chiedeva che si innalzasse sulla terra “un muro di fuoco, un muro d’amore”, che rendesse “la città prestata agli uomini la città di Dio”.Perché la preghiera è come la vita. E la vita, nonostante tutti i tentativi della scienza

    e della tecnologia, più che essere definita deve essere vissuta. Solo chi prega im-para a vivere: si conosce in quanto uomo, si riconosce in quanto persona, impara a riconoscere che l’altro è sempre un dono, mai un pro-blema per la sua diversità. Sì, per vivere veramente, bisogna pregare. Perché vi-vere è amare. Una vita senza amore non è vita. È solitu-dine vuota, è prigione, è tri-stezza. Vive veramente solo chi ama. Come la pianta che non fa sbocciare il suo

    frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore di ogni uomo, dell’uomo di ogni fede e credenza: il cuo-re umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore.Sono persuaso che gli uomi-ni e le donne della preghiera sono la più grande riserva di speranza per questo nostro mondo, una riserva inesau-ribile di sapienza divina e umana. Sono gli uomini e le donne della preghiera gli ambasciatori dell’amore e della pace, che solcano la

    storia aprendola ai sentieri invisi-bili di Dio.La preghiera “di-lata” la presenza di Dio dentro di noi e fuori di noi, nella storia; rende il nostro cuore il cuore del mondo. Nella preghiera le nostre mani vuote si riem-piono delle lacrime del mon-do e dei sorrisi degli ultimi; nel silenzio adorante si odo-no i gemiti di sofferenza di tutti i poveri del mondo; nei

    nostri canti di gioia gridano d’amore quanti hanno ritro-vato in Cristo il volto croci-fisso e risorto dell’amore.

    Salvatore MartinezPresidente Nazionale RnS

    40° anniversario RnS

    continua da pag. 12

    Dal 1° all’8 luglio la Par-rocchia Cristo Re di Pistic-ci ha celebrato, come ogni anno, la festa in onore di Cristo Re e della Madonna di Fatima.Numerosi sono stati gli appuntamenti che hanno dato vita ad una settimana

    densa di incontri, veglie e attività che hanno visto protagonisti sia i bambini che gli adulti di ogni età.Il ricco e articolato pro-gramma religioso è stato accompagnato da spetta-coli, concerti e attività lu-diche di tutto rilievo, non-ché da diverse iniziative di solidarietà. Tutto all’inse-gna di un rinnovato slancio che ha contraddistinto tutti

    coloro che hanno messo a disposizione il loro tempo e le loro energie per l’orga-nizzazione della festa, sot-to la guida amorevole e at-tenta del nostro carissimo Don Leonardo Selvaggi che, col suo immutato en-tusiasmo che da sempre lo

    contraddistingue, ha saputo, ancora una volta, coinvol-gere non soltanto i suoi parrocchia-ni ma tutta la co-munità pisticcese creando così occa-sioni di socializza-zione all’insegna dell’interparrocchia-lità. In particolare, quest’anno, si è potuto constatare, con grande gioia, la partecipazione di molti turisti e fedeli giunti da pa-

    esi limitrofi, tant’è che la festa ha assunto la forma di un grande evento per la massiccia partecipazione popolare.Tra gli incontri e veglie in onore di Cristo Re e Maria Regina che sono stati rea-lizzati, è da evidenziare il ritiro spirituale, avvenuto mercoledì 4 luglio, sulla regalità di Cristo Re e di Maria, predicato dal vica-

    rio Generale Mons. Pier Domenico Di Candia, se-guito dalla celebrazione della Santa Messa Solen-ne, con grande partecipa-zione di fedeli.Giovedì, 5 luglio l’AVIS, Mariano Pugliese Pistic-ci, ha animato la serata in piazzetta con “l’anguria-ta”, il tutto allietato da gio-chi che hanno coinvolto numerosi bambini.Venerdì, 6 luglio si è tenu-ta la 2° sagra del Ruccolo ( cavatello) a cura del Co-mitato feste e dell’ACR della parrocchia. La serata è stata allietata dal gruppo folklorico “Gli amici de U Bandon” di Tursi, i quali hanno dato sfoggio della loro bravura eseguendo canti popolari suonati con strumenti tradizionali.

    Sabato, 7 luglio si è potuto assistere al concerto musi-cale della grande artista Mariella Nava con la par-tecipazione del DJ Antonio Ma-lerba e le bellis-sime Radioline di Radio Norba.Infine domenica 8 luglio, in ricordo di Giuseppe Bru-no nel suo 2° an-niversario, è stato a lui dedicato lo spettacolo musicale dei meravigliosi ragazzi della “DIEM LIVE” con Gian-vito Di Marsico.Ma i momenti più sentiti della festa sono stati, cer-tamente, le processioni in onore della Madonna

    di Fatima e di Cristo Re, che si sono svolte per le strade cittadine, sabato 7 e domenica 8 luglio, se-guite da una folla nume-rosissima di fedeli e dalle note musicali della banda di Pisticci, segno della im-

    mutata devozione a Maria Santissima e della immutata fede in Cristo Re.Ancora una volta celebrare la festa è stato come ritornare alla fonte della no-stra fede oltre che occasione per met-tere in pratica valori come la condivisio-ne, l’accoglienza e l’ospitalità.

    Luciana Santamaria

    Il rinnovato entusiasmo per le feste in onore di Cristo Re e della Madonna di Fatima

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  • 1. L’infanzia, è stata una de-cisione personale quella di dedicarsi al canto, diventare soprano, è stata spalleggia-ta dalla famiglia, da amici e parenti?Il canto ha sempre fatto par-te di me fin da quando ero bambina. All’età di 15 anni ho iniziato cantando come solista nella Chiesa della mia Parrocchia. Da qui è nata la mia grande passione per la Musica Cristiana, per i canti liturgici dai quali ho imparato i vangeli e le scrit-ture. Ho scoperto di essere un soprano quando mi ven-ne proposto di cantare per la prima volta in occasione di un matrimonio la celebre “Ave Maria di F.Schubert”, in modo del tutto naturale ho impostato la voce e gli acuti, nonostante non avessi mai studiato lirica prima di allora. La scelta di iscriver-mi al Conservatorio “Gae-tano Donizetti” di Bergamo all’età di 18 anni è stata solo ed esclusivamente mia. La mia famiglia mi ha sempre seguito e sostenuto, ciò no-nostante non mi ha mai spin-to verso la carriera artistica, anche perche’ essendo la prima musicista in famiglia per loro era cosa del tutto nuova.2. La scuola e la musica, come è riuscita a trovare tempo per una e per l’altra? E poi... cosa è stato più im-portante, l’istituzione scola-stica o la Dea Musica?Ho iniziato Conservatorio una volta completati i miei studi di ragioneria, quindi non ho unito le due cose. A breve sarò laureata in Canto Artistico ed Arte Scenica.3. Quando è avvenuto l’in-contro con i gruppi di pre-ghiera, di Medjugorie e di altri centri del sacro? Come è stata la reazione del pub-blico alle sue canzoni, al suo canto?La Fede è un dono che mi ha sempre accompagnato fin da bambina. La prima volta che mi sono recata a Medjugorie è stato nel 2006 in occasio-ne del “Festival dei giova-

    ni”. Questa per me è stata l’esperienza decisiva, dove Maria Regina della Pace ha dato il via al mio cammino, mi ha fatto capire l’impor-tanza di trasmettere l’Amo-re di Dio attraverso il dono che Lui mi aveva dato. Dal 2008 ho effettuato frequenti tour nell’ambito del circu-ito CCM - Contemporary Christian Music che mi por-tano spesso a Medjugorje in Bosnia-Erzegovina e ai vari appuntamenti e concerti or-ganizzati ogni anno da varie Associazioni Internazionali nei luoghi sacri della cristia-nità (Assisi, Como, L’Aqui-la, Roma etc.). Devo dire che il pubblico ha dimostrato un grande interesse e coinvol-gimento nei confronti della mia voce e della mia musi-ca. La cosa più bella che mi dicono è che trasmetto forti emozioni.4. C’è chi non crede in nien-te, chi crede, chi si conver-te... nei miracoli ci crede? Forse che chi non viene mi-racolato nella vita tende ad allontanare da sé cose come la preghiera?La Fede è un dono che tutti possiamo avere e si