4098 - 1 settembre 2015 - Cons. Stato, Sez. IV - Pres...

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1 4098 - 1 settembre 2015 - Cons. Stato, Sez. IV - Pres. GIACCARDI, Est. TAORMINA - Lignani ed altri (avv.ti Abbamonte G. e O.) c. Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa (avv. St. Fedeli F.), Associazione nazionale magistrati amministrativi (avv. Pellegrino G.) ed altri (n.c.) - (Conferma T.A.R. Lazio, Sez. I, 17 novembre 2014 n. 11511). 1. - Interesse a ricorrere - Carenza sopravvenuta - Improcedibilità del ricorso - Presupposti. 2. - Procedimento giurisdizionale - Collegio giudicante - Assegnazione degli affari - Criterio - Delibera Consiglio di presidenza 18 gennaio 2013 - Legittimità. 3. - Leggi e decreti - Interpretazione - Principio di conservazione dell'ordinamento - Criterio di applicazione. 4. - Giudice - Principi generali - Precostituzione del giudice - Prevalenza sulla designazione discrezionale. 5. - Consiglio di Stato e Tribunali amministrativi regionali - Principi generali - Plesso giurisdizionale amministrativo - Nozione. 6. - Atto amministrativo - Motivazione - Criterio di sufficienza. 1. - La declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto d'interesse può derivare o da un mutamento della situazione di fatto o di diritto presente al momento della proposizione del ricorso che faccia venir meno la pronuncia sul merito della pretesa vantata ovvero dall'adozione da parte dell'Amministrazione di un provvedimento che - idoneo a ridefinire l'assetto degli interessi in gioco, pur senza avere un completo effetto satisfattivo nei confronti del ricorrente - sia tale da rendere inutiliter data la decisione. 2. - È legittima la delibera del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa 18 gennaio 2013, nella parte in cui dispone che "i presidenti predispongono ed estraggono a sorte pacchetti omogenei predeterminati di affari, compresi quelli cautelari, da assegnare ai singoli magistrati componenti del collegio per ciascuna udienza o adunanza e redigono processo verbale delle relative operazioni", con l'avvertenza che: a) "la delibera gravata non incide minimamente sull'atto di nomina del relatore delle cause e degli affari consultivi, che rimane saldamente in capo al presidente di sezione" (non già "liberamente" ma sulla scorta di criteri predeterminati); b) la delibera non esclude che - anticipatamente o successivamente alla estrazione a sorte di un relatore - lo stesso presidente ravvisi circostanze obiettive (e non agevolmente predeterminabili anticipatamente) che impediscano che una certa causa, ricompresa in un certo "pacchetto", venga attribuita proprio a "quel" relatore e possa operare in conformità sostituendolo; c) la delibera predispone criteri di natura minimale che consente elasticamente di rinvenire soluzioni anche per fattispecie ivi non espressamente normate, e che comunque, la responsabile discrezionalità del predetto Consiglio di presidenza potrebbe enucleare, al condivisibile fine di una ottimizzazione delle risorse e delle professionalità del

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4098 - 1 settembre 2015 - Cons. Stato, Sez. IV - Pres. GIACCARDI, Est. TAORMINA - Lignani ed altri (avv.ti Abbamonte G. e O.) c. Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa (avv. St. Fedeli F.), Associazione nazionale magistrati amministrativi (avv. Pellegrino G.) ed altri (n.c.) - (Conferma T.A.R. Lazio, Sez. I, 17 novembre 2014 n. 11511). 1. - Interesse a ricorrere - Carenza sopravvenuta - Improcedibilità del

ricorso - Presupposti. 2. - Procedimento giurisdizionale - Collegio giudicante - Assegnazione degli affari - Criterio - Delibera Consiglio di presidenza 18 gennaio 2013 - Legittimità. 3. - Leggi e decreti - Interpretazione - Principio di conservazione dell'ordinamento - Criterio di applicazione. 4. - Giudice - Principi generali - Precostituzione del giudice - Prevalenza

sulla designazione discrezionale. 5. - Consiglio di Stato e Tribunali amministrativi regionali - Principi generali - Plesso giurisdizionale amministrativo - Nozione. 6. - Atto amministrativo - Motivazione - Criterio di sufficienza. 1. - La declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto d'interesse può derivare o da un mutamento della situazione di fatto o di diritto presente al momento della proposizione del ricorso che faccia venir meno la pronuncia sul merito della pretesa vantata ovvero dall'adozione da parte dell'Amministrazione di un provvedimento che - idoneo a ridefinire l'assetto degli interessi in gioco, pur senza avere un completo effetto satisfattivo nei confronti del ricorrente - sia tale da rendere inutiliter data la decisione. 2. - È legittima la delibera del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa 18 gennaio 2013, nella parte in cui dispone che "i presidenti predispongono ed estraggono a sorte pacchetti omogenei predeterminati di affari, compresi quelli cautelari, da assegnare ai singoli magistrati componenti del collegio per ciascuna udienza o adunanza e redigono processo verbale delle relative operazioni", con l'avvertenza che: a) "la delibera gravata non incide minimamente sull'atto di nomina del relatore delle cause e degli affari consultivi, che rimane saldamente in capo al presidente di sezione" (non già "liberamente" ma sulla scorta di criteri predeterminati); b) la delibera non esclude che - anticipatamente o successivamente alla estrazione a sorte di un relatore - lo stesso presidente ravvisi circostanze obiettive (e non agevolmente predeterminabili anticipatamente) che impediscano che una certa causa, ricompresa in un certo "pacchetto", venga attribuita proprio a "quel" relatore e possa operare in conformità sostituendolo; c) la delibera predispone criteri di natura minimale che consente elasticamente di rinvenire soluzioni anche per fattispecie ivi non espressamente normate, e che comunque, la responsabile discrezionalità del predetto Consiglio di presidenza potrebbe enucleare, al condivisibile fine di una ottimizzazione delle risorse e delle professionalità del

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plesso; d) la delibera gravata non esclude, ad esempio, che talvolta un certo ricorso o gruppo di ricorsi possa essere motivatamente assegnato dal Presidente nominatim ad un singolo relatore in virtù di varie rilevanti circostanze quale quella, ad esempio, che un certo magistrato si sia in precedenza occupato di questione identica od assimilabile, e/o abbia avuto occasione di approfondire un certo aspetto giuridico particolarmente complesso, etc. 3. - In base al principio c.d. di "conservazione dell'ordinamento", allorché di una disposizione di legge (o di un complesso sistematico di norme) sia possibile fornire una pluralità di interpretazioni, il giudice della causa di merito è tenuto a prescegliere quella in virtù della quale la norma (ovvero il di un complesso sistematico di disposizioni) sottoposta a scrutinio sia costituzionalmente compatibile, piuttosto che quella che implicherebbe un possibile contrasto con la Carta fondamentale o con principi costituzionali dalla stessa ritraibili. 4. - L'"inconciliabilità" tra precostituzione del giudice e discrezionalità nella sua concreta designazione va "risolta" a vantaggio della prevalenza del principio della precostituzione del giudice (inteso non solo quale ufficio giudiziario, ma, anche quale "persona fisica"). 5. - Il Plesso giurisdizionale amministrativo (T.A.R., Consiglio di Stato e CGA) è, unitariamente ed anche singolarmente considerato "giurisdizione". 6. - Nessun potere, per quanto supportato da amplissima discrezionalità (con la esclusione dei c.d. "atti politici", liberi nel fine) può essere esercitato omettendo di dare contezza (seppur generica e succinta, quanto maggiore è il quantum di discrezionalità attribuito) dei presupposti in base al quale si è giunti ad una data soluzione. 3. - Cfr. Corte cost. 4 novembre 2011 n. 287, in questa Rassegna 2011, III, 873. 4. - Cfr. Corte cost. 17 luglio 1998 n. 272, in Cons. Stato 1998, II, 1008. DIRITTO. - 1.L’appello è infondato e merita di essere disatteso nei termini di cui alla seguente motivazione. 1.1. In via assolutamente preliminare si ritiene di evidenziare una circostanza: come segnalato da parte appellante, la sentenza di primo grado, nel respingere le censure, ha in larga misura fatto riferimento al contenuto complessivo della delibera del 2013 gravata, ed in minor parte (capo 6.1 e segg.) alla porzione di quest’ultima (art. 2 comma 7) che invece maggiormente, se non esclusivamente, aveva costituito oggetto delle censure della odierna parte appellante. Parte appellante, infatti, non ha criticato la delibera del 2013 ( e neanche, per quel che rileva in questa sede, le precedenti delibere) nella parte in cui essa aveva dettato i criteri di determinazione quantitativa del carico da assegnare ai relatori per la singola udienza od adunanza camerale. Parte appellante, anzi, (pag 13 penultimo cpv dell’appello) ritiene che tale disciplina degli aspetti ”quantitativi” non fosse preclusa al CPGA. Parte appellante si duole e critica quasi esclusivamente il comma 7 dell’art. 2 della citata delibera (“I presidenti predispongono ed estraggono a sorte pacchetti omogenei predeterminati di affari, compresi quelli cautelari, da assegnare ai singoli magistrati componenti del collegio per ciascuna udienza o adunanza e redigono processo verbale delle relative operazioni”). E peraltro – di ciò va dato atto a parte appellante – che tale fosse il punctum dolens oggetto delle censure è dimostrato già dalla illustrazione contenuta alle pagg. 3 e 4 del ricorso introduttivo di primo grado.

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In sostanza v’è una parziale (soltanto parziale, in quanto, come lealmente ammette parte appellante, la sentenza di primo grado non ha del tutto obliato la questione) divaricazione tra oggetto delle censure e “risposta” del Giudicante di primo grado: quest’ultima maggiormente dedicata alla illustrazione della asserita legittimità complessiva della delibera, piuttosto che allo specifico profilo censurato. Armonicamente con il contenuto delle censure articolate da parte appellante, quindi, l’esame del Collegio sarà dedicato principalmente alla tematica segnalata nell’appello. 1.2. Ciò premesso, ed al fine di perimetrare il novero delle censure esaminabili, va anzitutto scrutinato il primo motivo di appello; ivi ci si duole della decisione del Tar di dichiarare cessata la materia del contendere in riferimento alle impugnazioni proposte avverso le delibere CPGA intervenute sulla stessa materia poi regolata dalla sopravvenuta delibera CPGA 18 gennaio 2013 (trattasi delle delibere 1° luglio 2004, 26 settembre 2004, 11 marzo 2005 e 21 marzo 2005 impugnate con l’atto introduttivo del giudizio e con due seguenti motivi aggiunti nell’ambito del ricorso di primo grado n. 10977/2004). Ad avviso di parte appellante, la applicazione dell’art. 34 comma 5 del cpa sarebbe stata condizionata al positivo riscontro dell’eventuale sopravvenienza medio tempore di un provvedimento satisfattorio: così, tuttavia non era stato, in quanto il vulnus lamentato, ed ascrivibile alle gravate delibere 1° luglio 2004, 26 settembre 2004, 11 marzo 2005 e 21 marzo 2005 era stato invece reiterato mercè la successiva delibera CPGA 18 gennaio 2013. Parte appellante, quindi, nel sostenere che il Tar avrebbe dovuto pronunciarsi su detti motivi (e che il disposto di cui al comma 5 dell’art. 34 non poteva essere dal primo giudice utilmente evocato) li ha integralmente riproposti nella parte terza dell’appello. 1.2.1. Il Collegio non concorda con tale critica appellatoria, in quanto non aderente, in punto di fatto, al decisum del Tar: il primo giudice, infatti, non ha dichiarato la “cessazione della materia del contendere” ex art. 34 comma 5 del cpa ma la sopravvenuta carenza di interesse al ricorso principale ed ai due seguenti motivi aggiunti La statuizione del Tar è stata infatti la seguente: (capo 3.3.della gravata sentenza, che di seguito si riporta) “deve ancora essere delimitato l’ambito oggettivo della controversia, in adesione all’eccezione formulata dalle parti resistenti. Invero, la sopravvenuta delibera CPGA 18 gennaio 2013, gravata con i terzi motivi aggiunti, ha regolamentato ex novo, in corso di causa, l’intera materia oggetto del contendere, disponendo, al contempo, l’espressa abrogazione delle precedenti delibere CPGA intervenute sulla stessa materia (1° luglio 2004, 26 settembre 2004, 11 marzo 2005 e 21 marzo 2005), che erano state impugnate dai ricorrenti con l’atto introduttivo del giudizio e i due seguenti motivi aggiunti. Ne deriva che, allo stato, i ricorrenti non hanno più interesse a ricorrere avverso le predette ultime delibere, il cui eventuale annullamento non sarebbe comunque più in grado di arrecare loro alcuna delle perseguite utilità. Per tale parte, deve pertanto darsi atto della sopravvenuta carenza di interesse dei ricorrenti, con conseguente improcedibilità del ricorso principale e dei due seguenti motivi aggiunti.” Nel dispositivo, poi, il Tar ha dichiarato “ l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, dell’atto introduttivo del giudizio e dei due primi motivi aggiunti del ricorso n.r.g. 10977 del 2004”. 1.2.2. Ritiene il Collegio quindi, non soltanto infondata la critica appellato ria, ma, soprattutto, corretta la statuizione del Tar. Invero è incontestato che la sopravvenuta delibera CPGA 18 gennaio 2013 ha regolamentato ex novo, in corso di causa, l’intera materia oggetto del contendere, disponendo, al contempo, l’espressa abrogazione delle precedenti delibere CPGA intervenute sulla stessa materia (1° luglio 2004, 26 settembre 2004, 11 marzo 2005 e 21 marzo 2005). La sopravvenuta delibera CPGA 18 gennaio 2013 ha quindi integralmente dettato l’assetto di interessi asseritamente lesivo per parte appellante, seppure in sostanziale continuità con le precedenti delibere. 1.2.2. Parte appellante quindi, da un canto (non avendo lealmente, né prospettato, ma neppure ipotizzato, la sussistenza di alcuna problematica risarcitoria) non avrebbe interesse alla decisione in ordine alle censure infraprocedimentali specificamente dirette ad avversare le dette abrogate delibere, in quanto queste ultime non sono più vigenti. Quanto alle censure sostanziali esse sono state integralmente riproposte in occasione della impugnativa della sopravvenuta delibera CPGA 18 gennaio 2013.

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Di più: in occasione dello scrutinio sulle censure avversanti detta delibera in ultimo menzionata, il Tar ha preso in esame, cumulativamente, anche censure più direttamente afferenti la pregressa attività regolatoria culminata nelle delibere CPGA abrogate. Invero, allorchè ha esplorato il vizio di violazione di legge dedotto, non si è limitato alla disamina dell’art. 71 comma 6 del cpa, ma ha fatto riferimento (anche) alla ante-vigente legislazione la cui violazione era stata direttamente prospettata in occasione della proposizione dei mezzi avversanti le abrogate delibere(art. 41 del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054; artt. 51, 69, 72 e 91 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642; art. 41 del regio decreto 21 aprile 1942, n. 444; legge 6 dicembre 1971, n. 1034, “Istituzione dei tribunali amministrativi regionali”laddove richiama, all’art. 19, le norme di procedura stabilite per le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato). Parte appellante infatti, non si era limitata a prospettare il vizio di violazione di legge: con una argomentata e dotta disamina aveva fatto riferimento alla “tradizione storica” della Giustizia amministrativa, ed aveva enumerato gli (ormai abrogati) referenti normativi che nel tempo avevano regolato la fattispecie. Ebbene anche gli argomenti critici fondati sulla ante vigente legislazione sono stati esplorati dal Tar. 1.2.3. Una pacata disamina dell’iter motivo della gravata decisione consente di affermare quindi che tutte le censure sostanziali avversanti l’azione amministrativa spiegata dal CPGA sono state compiutamente scrutinate. Parte appellante, peraltro, non chiarisce né specifica quale sarebbe il suo concreto interesse ad una decisione incidente sulle pregresse delibere ormai abrogate. Armonicamente con il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui il ricorso al G.A. deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, quando, l'atto amministrativo impugnato abbia cessato di produrre i suoi effetti per il mutamento della situazione di fatto o di diritto presente al momento della proposizione del ricorso che faccia venir meno l'effetto del provvedimento impugnato, ovvero per l'intervenuta adozione di un nuovo provvedimento idoneo a ridefinire l'assetto degli interessi in gioco e tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza (ex aliis T.R.G.A. Trentino-Alto Adige Bolzano, 11-03-2013, n. 81, Cons. Stato Sez. IV, 06-07-2009, n. 4328 Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 31/07/2013, n. 695) il primo motivo di appello deve essere disatteso, e deve essere dichiarata la improcedibilità di tutti i riproposti motivi di censura contenuti nella “terza parte” dell’appello (pagg. 24-85) articolati avverso le abrogate delibere del CPGA che avevano preceduto quella datata 18 gennaio 2013. 2.Può adesso essere preso in esame il merito delle doglianze articolate avverso la delibera del CPGA datata 18 gennaio 2013. L’art. 2 comma 7 della medesima, così dispone: “I presidenti predispongono ed estraggono a sorte pacchetti omogenei predeterminati di affari, compresi quelli cautelari, da assegnare ai singoli magistrati componenti del collegio per ciascuna udienza o adunanza e redigono processo verbale delle relative operazioni”. 2.1.Parte appellante –come prima accennato- segnala che tale profilo della delibera è stato volutamente lasciato sullo sfondo dal Tar, che ha argomentato, principalmente, come se la gravata delibera avesse unicamente dettato una regolamentazione quantitativa dei carichi di lavoro: invece, a tale profilo in ultimo citato si accompagnava la totale espropriazione della prerogativa presidenziale di affidare il singolo affare al Giudice da esso discrezionalmente scelto. E ciò costituiva vulnus ad espresse previsioni di legge; straripamento di potere del CPGA; ingerenza nel concreto espletamento da parte dei Presidenti di una funzione giurisdizionale, e, anche, non condivisibile approdo in quanto impediva che i Presidenti potessero al meglio gestire le professionalità dei Magistrati. 2.2.Osserva in proposito, il Collegio quanto segue. Va premessa e ribadita la convinta adesione di questo Collegio al canone interpretativo imposto a livello ordinamentale dalla Corte Costituzionale. Il Giudice delle leggi infatti, come è noto, in numerose decisioni (in ultimo,si veda Corte cost. n. 46/2013) ha avuto modo di ribadire “il costante insegnamento - espresso soprattutto nei giudizi incidentali, ma che vale, per ciò che attiene alla decisione di merito, anche nei giudizi in via principale (sentenza n. 21 del 2013, ordinanze n. 255 del 2012, n. 287 del 2011 e n.110 del 2010) - che di una disposizione legislativa non si pronuncia l'illegittimità costituzionale quando se ne potrebbe dare un'interpretazione in violazione della Costituzione, ma quando non se ne può dare un'interpretazione conforme a Costituzione.”

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Tale insegnamento, diretta espressione del principio c.d. di “conservazione dell’ordinamento” costituisce vero e proprio jus receptum ed implica, ad avviso del Collegio, una stringente conseguenza: allorchè di una disposizione di legge (o di un complesso sistematico di norme) sia possibile fornire una pluralità di interpretazioni, il Giudice della causa di merito è tenuto a prescegliere quella in virtù della quale la norma(ovvero il di un complesso sistematico di disposizioni) sottoposta a scrutinio sia costituzionalmente compatibile, piuttosto che quella che implicherebbe un possibile contrasto con la Carta Fondamentale o con principi costituzionali dalla stessa ritraibili. 2.2.1.Muovendo da tale angolo prospettico, piace al Collegio, richiamare sinteticamente i termini del (risalente) dibattito incentrato sulla questione rilevante per la fattispecie oggetto di scrutinio e, insieme,alcune affermazioni – rese proprio dalla Corte Costituzionale- in subiecta materia. La questione devoluta al giudizio del Collegio invero – sotto il profilo sistematico- non è né nuova, né recente. Si ricorda in proposito che secondo qualificata dottrina se l’organizzazione dell’attività giurisdizionale consiste nella predisposizione di una serie di misure interne all’ufficio che regolano la distribuzione del lavoro ai magistrati ed il suo svolgimento, il principio fondamentale che regola l’assegnazione del lavoro ai magistrati deve essere quello enunciato dall’art. 25, primo comma, della Costituzione, secondo il quale “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” (c.d. principio del giudice naturale). Tale principio implica che il giudice di ogni controversia deve essere precostituito, ovvero deve essere determinato in base a criteri generali con riferimento a situazioni astratte che non si siano ancora verificate e che si realizzeranno solo in futuro. V’è concordia, in dottrina, nel sostenere che trattasi “di una norma fondamentale che mira a garantire l’assoluta imparzialità dell’esercizio della giurisdizione, escludendo ogni possibilità di arbitrio, che si realizzerebbe ove il giudice venisse designato a posteriori in relazione ad una determinata controversia. Una norma che tutela assieme la parte interessata alla controversia, ponendola al riparo da eventuali abusi, e la indipendenza del giudice che trova la sua investitura in un principio automaticamente operante e non nell’iniziativa di altro soggetto. Circa la portata di questo principio, come è noto, si è sviluppato negli anni un dibattito molto intenso che ha visto in parte contrapposta risalente giurisprudenza e la dottrina. La prima ha sostenuto che il principio dovesse essere riferito all’ufficio giudiziario (nel senso che la norma deve precostituire un criterio automatico di collegamento della controversia ad un certo ufficio giudiziario) pur mantenendo ferma la discrezionalità nella concreta composizione dell’organo giudicante fondata sul potere del capo dell’ufficio di distribuire gli affari. La seconda si è spinta più avanti, prospettando che lo stesso principio dovesse essere riferito alla persona fisica del giudicante. Secondo tale prospettazione, il “giudice precostituito” dovrebbe fare riferimento al “giudice persona fisica”. Con una efficace lapidaria espressione, fu detto in proposito, già nel 1963, che “impedire che un dato processo possa essere giudicato dal tribunale di Catania non vale niente, se non resta impedito anche che si costituisca il tribunale di Ragusa applicando i giudici del tribunale di Catania” Esaminando talune linee tendenziali, emerse con riferimento alla normazione primaria e secondaria riguardante la Giurisdizione Ordinaria, non appare al Collegio arbitrario affermare che tale risalente dibattito si sia avviato ad una soluzione nel senso più ampio di assicurare la precostituzione del giudice inteso come persona fisica. Il Legislatore infatti, non soltanto con l’art. 7-bis dell’ordinamento giudiziario (introdotto dal D.P.R. 22-9-88 n. 449) ha previsto che siano determinati ogni biennio i criteri per la destinazione dei magistrati alle singole funzioni giurisdizionali all’interno degli uffici giudiziari ( norma, quest’ultima, ricettiva a livello normativo del sistema di predeterminazione già proposto antecedentemente dal Consiglio Superiore, il quale in sede di normazione secondaria aveva previsto la formazione di “tabelle” biennali di composizione degli uffici giudiziari) Ma, con il successivo art. 7-ter del c.d. Ordinamento Giudiziario (“L'assegnazione degli affari alle singole sezioni ed ai singoli collegi e giudici è effettuata, rispettivamente, dal dirigente dell'ufficio e dal presidente della sezione o dal magistrato che la dirige, secondo criteri obiettivi e predeterminati, indicati in via generale dal Consiglio superiore della magistratura ed approvati contestualmente alle tabelle degli uffici e con la medesima procedura. Nel determinare i criteri per l'assegnazione degli

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affari penali al giudice per le indagini preliminari, il Consiglio superiore della magistratura stabilisce la concentrazione, ove possibile, in capo allo stesso giudice dei provvedimenti relativi al medesimo procedimento e la designazione di un giudice diverso per lo svolgimento delle funzioni di giudice dell'udienza preliminare. Qualora il dirigente dell'ufficio o il presidente della sezione revochino la precedente assegnazione ad una sezione o ad un collegio o ad un giudice, copia del relativo provvedimento motivato viene comunicata al presidente della sezione e al magistrato interessato. Il Consiglio superiore della magistratura stabilisce altresi' i criteri per la sostituzione del giudice astenuto, ricusato o impedito.”) ha stabilito che dovesse essere predeterminata la assegnazione degli affari ai singoli magistrati: al riguardo la previsione normativa è limitata ai soli affari penali ma come è noto, per ciò che concerne la Giurisdizione ordinaria il Consiglio Superiore della Magistratura ha previsto non soltanto il regime c.d. “tabellare”. E’ stato altresì previsto (ex aliis, già in un remoto passato si veda circolare C.S.M. prot. 6244 del 27-4-95) che si dovessero “proporre criteri di assegnazione degli affari oggettivi e predeterminati, in modo che il giudice venga determinato automaticamente, impedendo che la scelta del magistrato possa avvenire ad opera delle parti. Qualora, per concrete situazioni non determinabili a priori, debba procedersi ad assegnazione non automatica ma in base a criteri diversi da quelli oggettivi e prederminati fissati con le tabelle, il coordinatore dovrà motivare adeguatamente la ragione della diversa scelta . Qualora l’ufficio sia diviso in sezioni, quindi, il coordinatore dovrà indicare un doppio criterio, quello di individuazione della sezione e quello di individuazione del giudice all’interno della sezione. Ad avviso di qualificata dottrina la ratio della norma riposerebbe nella constatazione per cui “il principio del giudice naturale verrebbe vanificato ove fosse lasciata alla discrezionalità dei dirigenti la determinazione del lavoro da assegnare ad ogni giudice”. Per il vero, la giurisprudenza di legittimità ha ponderato la questione con molta cautela (è’ stato affermato infatti il principio per cui (Cassazione penale sez. fer. 01/08/2013 n. 35729 “ l'assegnazione dei processi in violazione delle tabelle di organizzazione dell'ufficio può incidere sulla costituzione e sulle condizioni di capacità del giudice, determinando la nullità di cui all'art. 33, comma primo, cod. proc. pen., non in caso di semplice inosservanza delle disposizioni amministrative, ma solo quando si determini uno stravolgimento dei principi e dei canoni essenziali dell'ordinamento giudiziario, per la violazione di norme come quelle riguardanti la titolarità del potere di assegnazione degli affari in capo ai dirigenti degli uffici e l'obbligo di motivazione dei provvedimenti -si veda anche , in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 18 luglio 2012 n. 4841 Cass. pen., sez. VI, 15 novembre 2012 n. 46244 Cass. pen. n. 17150 del 2004 Cassazione penale sez. fer 09/09/2010 n. 34244). 2.2.2. Dal quadro che se ne ricava, il Collegio trae un convincimento: l’affermazione contenuta nell’atto di appello secondo la quale l’art. 25 della Costituzione sarebbe stato evocato dal Tar a sproposito, in quanto la garanzia dell'art. 25 cost., secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge – vada (unicamente) “ riferita alla competenza dell'organo giudiziario nel suo complesso, impersonalmente considerato” trova tuttora adesione nella giurisprudenza di legittimità (ex aliis Cassazione civile sez. III 05/03/2009 n. 5342). 2.2.3. Ciò - però – non in via assoluta e senza condizioni, ma se ed in quanto siano state rispettate (rectius: predisposte) alcune “precondizioni”. E’ questo – lo si anticipa- il convincimento del Collegio, fondato su una disamina dei principi ritraibili dalle affermazioni della Corte Costituzionale che- come prima si è avuto cura di avvertire - ha avuto modo di pronunciarsi a più riprese su problematiche di interesse ai fini della risoluzione della presente controversia. 2.3. Il leading case in materia può a buon diritto rinvenirsi nella sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 7 luglio 1962: ivi la il Giudice delle leggi ha espresso il convincimento secondo il quale: “il principio della precostituzione del giudice tutela nel cittadino il diritto ad una previa non dubbia conoscenza del giudice competente a decidere, o, ancor più nettamente, il diritto alla certezza che a giudicare non sarà un giudice creato a posteriori in relazione a un fatto già verificatosi”. Con le successive sentenze nn. 143 e 144 del 1973 e con l’ordinanza n. 93 del 1988 la Corte Costituzionale –ad avviso del Collegio – ha con maggior forza sposato le sollecitazioni della dottrina di cui si è prima detto. Questa coerente progressione interpretativa è stata efficacemente tratteggiata dalla stessa Corte Costituzionale nella successiva decisione del 17/07/1998, n. 272 (sulla quale pure, a breve si tornerà)

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il cui capo 4.2. si riporta di seguito, senza ulteriori, superflui, commenti “in relazione al secondo dei menzionati profili la Corte, dopo aver rilevato l'inconciliabilità, in linea generale, fra precostituzione del giudice e discrezionalità nella sua concreta designazione (sent. n. 88 del 1962), ha avuto in prosieguo occasione di soffermarsi specificamente sul tema della discrezionalità spettante ai capi degli uffici per l'assegnazione degli affari, precisando che il relativo potere deve essere rivolto unicamente al soddisfacimento di obiettive ed imprescindibili esigenze di servizio, allo scopo di rendere possibile il funzionamento dell'ufficio e di agevolarne l'efficienza, restando, invece, esclusa qualsiasi diversa finalità (sent. n. 143 del 1973, sent. n. 144 del 1973; ord. n. 93 del 1988).” 2.4. Il punto fermo dal quale occorre muovere, quindi, ad avviso del Collegio va rinvenuto nella significativa, forte, affermazione del Giudice delle leggi per cui “precostituzione del giudice e discrezionalità nella sua concreta designazione sono criteri fra i quali non si ravvisa possibile una conciliazione”. 2.4.1. Occorre adesso indugiare, su una serie di versanti di indagine. In primo luogo, infatti, sarà opportuno dare conto del quomodo attraverso il quale la Corte Costituzionale ha riempito di significato il precetto prima illustrato. Secondariamente, si dovrà esplorare quali siano le prescrizioni di legge primaria che regolano la materia con riferimento al plesso giurisdizionale amministrativo. Di seguito –laddove si ravvisino eventuali differenze rispetto ad altre disposizioni di legge- dovrà accertarsi se, eventualmente, il plesso giurisdizionale amministrativo presenti peculiarità o differenze che sconsiglino l’estensione ad esso dei precetti desumibili dagli arresti del Giudice delle Leggi. Infine – ma l’eventuale disamina di tale profilo è condizionata dalla risoluzione dei pregiudiziali punti di domanda di cui s’è detto – occorrerà interrogarsi sulla fondatezza delle ulteriori censure in punto di (negata da parte degli appellanti) attribuzione al CPGA del potere di normare tali delicati profili. 2.5.Quanto alla prima problematica, la risposta si può agevolmente trarre dalla prima richiamata decisione della Corte Costituzionale nella successiva decisione del 17/07/1998, n. 272. Senza addentrarsi in una puntuale rivisitazione del decisum della Corte Costituzionale è sufficiente rammentare che in detta occasione, come è noto, è stato sottoposto a disamina l’ordinamento primario del Giudice contabile (si dubitava della legittimità costituzionale dell' art. 5, comma 3, del decreto legge 15 novembre 1993, n. 453 -disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti-, convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19 nella parte in cui detta disposizione affidava al presidente della Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei Conti la competenza a disporre, con proprio decreto motivato, sulla domanda di sequestro conservativo proposta dal procuratore regionale ed a fissare contestualmente l'udienza di comparizione innanzi al giudice designato, al quale spettava, con propria ordinanza, la conferma, la modifica o la revoca dei provvedimenti cautelari adottati). Il Giudice delle leggi, al punto 4 della citata sentenza ha preso in esame i dubbi di legittimità costituzionale prospettati con particolare riguardo alla lettera a), della citata disposizione, nella parte in cui non prevedeva che la designazione del giudice, al quale è demandato il riesame del decreto presidenziale di sequestro conservativo, venisse effettuata dal presidente della Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei Conti sulla base di criteri oggettivi e predeterminati (ad avviso del rimettente il carattere assolutamente discrezionale ed insindacabile del potere presidenziale non sarebbe compatibile con l'esigenza di obiettiva precostituzione del giudice, disattendendo, così, il principio di cui all'art. 25, primo comma, della Costituzione.). La Corte Costituzionale, come è noto, ha disatteso il rilievo, fornendo tuttavia pregnanti contributi motivazionali. Ha infatti fatto presente - quanto agli assetti che, sul piano ordinamentale, possono essere apprestati al fine di dare concretezza ed effettività ai richiamati principi (Trattasi dei principi prima esposti,e contenuti sub capo 4.2. della richiamata decisione della Corte Costituzionale) “il problema sia pur sempre quello di contemperare obiettività ed imparzialità con continuità e prontezza delle funzioni.”, ed ha evidenziato che fra le possibili soluzioni di un siffatto problema, il rimettente aveva richiamato “ la disciplina vigente per i giudici ordinari, che prevede l'applicazione del cosiddetto sistema delle tabelle e, più recentemente, a seguito di specifica disposizione legislativa, l'indicazione da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, in via generale, dei criteri obiettivi sia per l'assegnazione degli affari penali (art. 7-ter della legge sull'ordinamento giudiziario aggiunto dall' art. 4 del D.P.R. n. 449 del 1988), sia per l'applicazione dei magistrati ( art. 1 della legge 16 ottobre 1991, n. 321 di modifica dell'art. 110 della medesima legge sull'ordinamento giudiziario).”.

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Pur esprimendo il convincimento che tale regolamentazione, (mancante nell’ordinamento del Giudice Contabile) non valesse a dar fondamento alla richiesta di declaratoria di incostituzionalità, la Consulta –rammentato che il Giudice Contabile era dotato di un Consiglio di Presidenza- è “tornata” sul disposto di cui all’art. 25 della Costituzione, esprimendo il convincimento (che nuovamente si riporta espressamente) per cui “la connessione fra imparzialità e precostituzione che si ricava da detto principio, nell'escludere, che i poteri organizzativi dei capi degli uffici possano essere svolti in modo assolutamente libero o addirittura arbitrario, consente di ritenere che l'esplicitazione di criteri per l'assegnazione degli affari, in quanto espressivi di un'esigenza costituzionale, che opera in tutti i settori della giurisdizione, possa aver luogo proprio nell'ambito di detti poteri discrezionali, quale manifestazione ed esercizio dei medesimi, senza necessità né di una specifica previsione legislativa legislativa né, tantomeno, di un intervento additivo di questa Corte.“. Infine, la Corte Costituzionale ha così concluso la propria disamina: “In tal senso, come la stessa ordinanza ricorda, depone anche la prassi del Consiglio superiore della magistratura che, per gli affari civili, in assenza di norme analoghe a quelle della materia penale, richiede comunque che i capi degli uffici diano, in sede di proposte tabellari, indicazioni "sui criteri obiettivi e predeterminati" seguiti per le assegnazioni.” Un primo dato significativo, ad avviso del Collegio, può agevolmente trarsi da questa richiamata decisione: esso riposa nella esclusione della possibilità che “i poteri organizzativi dei capi degli uffici possano essere svolti in modo assolutamente libero o addirittura arbitrario”. Secondariamente, occorre porre in risalto che la Corte ha espresso il convincimento secondo il quale “l'esplicitazione di criteri per l'assegnazione degli affari” sia espressiva “ di un'esigenza costituzionale che opera in tutti i settori della giurisdizione “ possa aver luogo proprio nell'ambito di detti poteri discrezionali, quale manifestazione ed esercizio dei medesimi senza necessità di innovazioni legislative (“ ferma la facoltà del legislatore, ove lo ritenga, di intervenire per disciplinare la materia”). 2.6.Sotto un profilo più generale, il primo dato sopra evidenziato – con il quale il Collegio concorda pienamente- non collima con la “esigenza” prospettata nell’atto di appello di garantire ai Presidenti il loro responsabile e ponderato esercizio di discrezionalità nella nomina del relatore delle cause: quantomeno, occorre aggiungere, laddove non sia stato preceduto dalla anticipata “esplicitazione di criteri per l'assegnazione degli affari”. 2.6.1. Da quanto sinora esposto il Collegio ritiene possa serenamente trarsi un convincimento: la riscontrata “inconciliabilità” tra precostituzione del giudice e discrezionalità nella sua concreta designazione è stata dalla Corte Costituzionale “risolta” a vantaggio della prevalenza del principio della precostituzione del giudice (inteso non solo quale Ufficio Giudiziario, ma, anche quale “persona fisica”). L’adeguamento a tale “opzione” è avvenuta, per quanto concerne la Magistratura Ordinaria, sia mercè fonte primaria (il richiamato art. 7-ter del c.d. Ordinamento Giudiziario ) che mercè atti espressivi del potere di normazione secondaria dell’Organo di Autogoverno (id est: Consiglio Superiore della magistratura) 2.7. Quanto alla affermazione della Corte Costituzionale secondo cui la detta esigenza sia espressiva “ di un'esigenza costituzionale che opera in tutti i settori della giurisdizione “, è necessario riscontrarne il rispetto in rapporto alle prescrizioni normative primarie riguardanti il plesso giurisdizionale amministrativo. 2.8. A tale proposito, il Collegio non intende affatto disconoscere la fondatezza di due emergenze processuali, che vibratamente sono state affermate da parte odierna appellante: a)l’intera legislazione previgente alla entrata in vigore del cpa (e sulla cui scorta sono state adottate le delibere gravate con i ricorsi in appello dei quali è stata prima dichiarata la improcedibilità) affermava il potere presidenziale incondizionato di assegnazione dei ricorsi giurisdizionali e di quelli assegnati alla competenza delle Sezioni consultive; b)la “tradizione storica” dell’Istituto corrisponde al dato normativo prima indicato. 2.8.1. Il dato non è neppure contestato, ed alla ricostruzione normativa di cui alle pagg. 13, e 29-32 dell’atto di appello il Collegio ritiene di fare integrale riferimento (cfr: art. 64 del cpa). 2.9. Secondariamente, deve rilevarsi che la tesi di parte appellante (secondo motivo - primo “di merito”- dell’appello, pag 10, e restanti motivi, soprattutto quarto, pagg. 18 e segg. dell’appello) secondo cui il testo dell’art. 71 comma 6 del cpa sembri ( n.d.r. ovviamente la voce verbale

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“sembrare” è del Collegio, mentre nell’appello l’affermazione è resa in termini di assoluta certezza) confermare il contenuto della antevigente legislazione è esatta e tutt’altro che censurabile. Ivi, infatti, è dato leggere che: “ Il Presidente designa il relatore almeno trenta giorni prima della data di udienza”. 2.9.1. E parimenti deve convenirsi con la segnalazione critica a tenore della quale la motivazione contenuta nella sentenza del Tar, incentrandosi maggiormente sulla questione della determinazione dei criteri quantitativi dei “carichi di lavoro”, piuttosto che sul comma 7 dell’art. 2 della delibera del 2013 gravata (“I presidenti predispongono ed estraggono a sorte pacchetti omogenei predeterminati di affari, compresi quelli cautelari, da assegnare ai singoli magistrati componenti del collegio per ciascuna udienza o adunanza e redigono processo verbale delle relative operazioni”) abbia soltanto parzialmente concentrato il proprio esame sui profili di censura veicolati negli atti di impugnazione (massime, capo 6.1. della impugnata sentenza). 3.Ed allora, può e deve immediatamente darsi soluzione al primo e più rilevante quesito giuridico sollevato dall’appello in esame. Ritiene il Collegio che esso possa essere così formulato: “ la prescrizione di cui al comma 7 dell’art. 2 della delibera del 2013 gravata (“I presidenti predispongono ed estraggono a sorte pacchetti omogenei predeterminati di affari, compresi quelli cautelari, da assegnare ai singoli magistrati componenti del collegio per ciascuna udienza o adunanza e redigono processo verbale delle relative operazioni”) collide con la norma di legge contenuta nel comma 6 dell’art. 71 del CPA secondo cui “ Il Presidente designa il relatore almeno trenta giorni prima della data di udienza”? 3.1. Il Collegio ritiene vi siano più rilevanti ragioni per affermare che la tesi positiva prospettata da parte appellante non sia accoglibile. 3.2. Va premesso che né parte appellante ha mai anche solo ipotizzato che il Plesso amministrativo non possa essere ricondotto al novero delle “giurisdizioni” né il Collegio ciò ritiene . Deve ribadirsi quindi che Plesso amministrativo (Tar, Consiglio di Stato e CGA) è, unitariamente ed anche singolarmente considerato “giurisdizione”: ciò si ricava agevolmente dalla Carta Costituzionale; dalle pronunce della Corte di Giustizia, della Corte Edu e della Consulta; dalle disposizioni del cpa, che peraltro, quanto agli istituti direttamente riconducibili al Giudice “persona” significativamente, all’art. 17 del cpa (ma si veda pure l’art. 39 del medesimo testo normativo) richiama il codice d procedura civile, da sempre ritenuto koinè sistematicamente organizzata di principi processuali immanenti e trasversali al sistema. Ciò non è mai stato negato in passato (in sede di Assemblea costituente, com'è noto, Piero Calamandrei si era espresso in favore del giudice unico, con la conseguente soppressione delle giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, appunto presupponendo che tali fossero: il principio della pluralità delle giurisdizioni, rappresentato principalmente dalle posizioni di Costantino Mortati, che ebbe alla fine sostanzialmente il sopravvento, muoveva anch’esso da tale dato conclamato) e va ribadito oggi. 3.2.1. Muovendo da tale punto di partenza, si deve rilevare che neppure in concreto parte appellante spiega e chiarisce (se non facendo richiamo, come prima chiarito, alla “tradizione storica” ed al dato normativo preesistente al cpa e stratificatosi negli anni) per quali ragioni al Plesso Giurisdizionale amministrativo dovrebbero applicarsi regole diverse da quelle che la Corte Costituzionale ha affermato essere compatibili con la carta Fondamentale (rectius: doverose alla luce delle prescrizioni ivi contenute)e, soprattutto, esigenza sentita “per tutte le giurisdizioni”. Ed anzi, a tratti (pag. 6 secondo cpv.) la stessa parte appellante “accomuna” nella tradizione storica, il processo civile e quello amministrativo e, quindi, la Giurisdizione ordinaria e quella amministrativa. Neppure il Collegio, per il vero, rinviene alcuna pregnante ragione a sostegno di una supposta “specificità” della funzione giurisdizionale esercitata dal Plesso Giurisdizionale amministrativo che impedirebbe che allo stesso si applichino le suindicate regole e che anche per il plesso giurisdizionale amministrativa sia ravvisabile la “esigenza” indicata dalla Corte Costituzionale e, come da quest’ultima rilevato, “sentita per tutte le giurisdizioni”. Id est: se il Plesso amministrativo è “giurisdizione”; e se le altre “giurisdizioni” adottano regole tese a garantire la precostituzione di criterii automatici per la individuazione del Giudice “persona fisica” deputato a trattare un certo affare, in cosa riposerebbe la specificità del Plesso giurisdizionale amministrativo, per cui ad esso non potrebbero applicarsi dette regole, od altre rispondenti alla medesima esigenza (si veda Delibera plenaria CSM del 21 luglio 2011, recante “formazione delle tabelle di organizzazione

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degli uffici giudicanti per il triennio 2012/2014” Capo I-Tabelle degli uffici giudicanti” Le tabelle degli uffici giudicanti costituiscono il progetto organizzativo dei medesimi e concorrono ad assicurare l’efficienza dello svolgimento della funzione giurisdizionale. 1.2 – Le tabelle stabiliscono….omissis f) i criteri obiettivi e predeterminati per l’assegnazione degli affari alle singole sezioni, ai singoli collegi ed ai giudici;”)? Chè per il vero, quelle indicate da parte appellante (esperienza Presidenziale, prudente discrezionalità, etc) parrebbero al Collegio in via teorica valere anche per le altre Giurisdizioni e non certo essere “riservate” al Plesso Tar-Consiglio di Stato. Ed allora deve concludersi che il dato ostativo riposerebbe unicamente nella prescrizione positiva di cui all’art. 71 comma 6 del cpa. 3.2.2. Se è vero, quindi, che la Corte Costituzionale ha affermato che: “precostituzione del giudice e discrezionalità nella sua concreta designazione sono criteri fra i quali non si ravvisa possibile una conciliazione”; ha escluso che; “i poteri organizzativi dei capi degli uffici possano essere svolti in modo assolutamente libero o addirittura arbitrario”; ed ha ritenuto che: “l'esplicitazione di criteri per l'assegnazione degli affari” sia espressiva “ di un'esigenza costituzionale che opera in tutti i settori della giurisdizione “ devono affermarsi nell’ordine due conseguenze. Esse sono le seguenti: a)non sussistono elementi per ritenere che il Plesso giurisdizionale amministrativo si sottragga alla ricomprensione del medesimo nel concetto di “settore della giurisdizione” e quindi, dalle prime affermazioni precettive suindicate; b)l’art. 71 comma 6 del cpa, ove inteso in senso collidente con tali affermazioni – id est: nel senso patrocinato da parte appellante secondo cui esso avrebbe riaffermato l’assoluta discrezionalità e libertà presidenziale di assegnazione degli affari ai singoli relatori con preclusione di qualsivoglia anticipata regolazione mercè la fissazione di criteri per la individuazione del Giudice relatore - sarebbe disposizione della cui costituzionalità (in riferimento al parametro di cui all’art. 25 nella “lettura” fornitane dalla Corte Costituzionale) potrebbe fondatamente dubitarsi. 3.3. Ciò sarebbe sufficiente, probabilmente a respingere il mezzo, in parte qua, in ossequio al canone ermeneutico esposto al punto 2.2. della presente decisione(vedasi Corte cost. n. 46/2013). 3.3.1. Ma v’è una ulteriore ragione, fondata sul dato letterale della citata disposizione di cui all’art. 71 comma 6 del cpa che milita in senso contrario alla critica appellatoria: ivi si utilizza un termine “designa” identico a quello a più riprese utilizzato dal cpc (es: art. 702 bis cpc, art. 168 bis comma 1 cpc, etc): esso tuttavia non esclude (come non è escluso nel sistema processuale civile ordinario, dove, anzi si è dimostrato che avviene esattamente il contrario) che la designazione – pur sempre affidata al Presidente, si badi - possa avvenire sulla scorta di criteri prefissati, anche di natura automatica. Invero il termine “scelta”(libera) utilizzato nell’atto di appello ed ivi con forza patrocinato è soltanto uno dei possibili sinonimi del termine “designa” contenuto nel detto articolo. E d’altro canto è agevole osservare che, se così non fosse, si dovrebbe affermare che per il Presidente sarebbe precluso designare qual relatore se stesso in quanto nell’art. 71 comma 6 detta possibilità non è espressamente contemplata (il che, ovviamente, non è, e sarebbe conclusione contraria a logica oltreché – come è fatto notorio- ad una inveterata e lodevole prassi da sempre pacificamente seguita,e mai da alcuno contestata, a quel che è dato conoscere). 3.3.2. Sotto il profilo “storico”, poi, l’introduzione nel sistema della citata disposizione di cui all’art. 71 comma 6 del cpa risale al 2010, quando già erano noti gli approdi della Corte Costituzionale in subiecta materia, che prima si è cercato di sintetizzare: non appare persuasivo che il Legislatore abbia consapevolmente voluto porsi in collisione con tali precetti dettando una regolamentazione contraria a quella “esigenza sentita per tutte le giurisdizioni” scolpita negli arresti della Corte Costituzionale . 3.3.3. In ultimo, non va dimenticato, sotto il profilo sistematico, l’argomento segnalato dalla difesa erariale: l’art. 76 comma 4 del cpa richiama espressamente l’art.276 commi 2,4 e 5 del cpc e l’art. 118 disp.att. cpc (“Si applicano l'articolo 276, secondo, quarto e quinto comma del codice di procedura civile e l'articolo 118, quarto comma, delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile”).

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Dette norme in ultimo citate dettano i criteri di individuazione del Magistrato estensore (art. 276: [II]. Il collegio, sotto la direzione del presidente, decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e quindi il merito della causa. [IV]. Se intorno a una questione si prospettano più soluzioni e non si forma la maggioranza alla prima votazione, il presidente mette ai voti due delle soluzioni per escluderne una, quindi mette ai voti la non esclusa e quella eventualmente restante, e così successivamente finché le soluzioni siano ridotte a due, sulle quali avviene la votazione definitiva. Chiusa la votazione, il presidente scrive e sottoscrive il dispositivo. La motivazione è quindi stesa dal relatore, a meno che il presidente non creda di stenderla egli stesso o affidarla all'altro giudice”, art.118 comma 4 disp. att. cpc: “La scelta dell'estensore della sentenza prevista nell'articolo 276 ultimo comma del codice è fatta dal presidente tra i componenti il collegio che hanno espresso voto conforme alla decisione”). La piena applicabilità delle stesse al plesso giurisdizionale amministrativo, espressamente imposta ai sensi dell’art. 76 del cpa, rende evidente che si è ritenuto di stabilire regole precostituite al potere presidenziale di designazione del relatore: non si comprende perché l’art. 71 comma 6 debba essere interpretato nel significato patrocinato nell’appello secondo cui esso sarebbe insuscettibile della previa predisposizione di regole generali a “guida” della discrezionalità presidenziale. 3.4. Alla stregua di quanto sin qui esposto, ad avviso del Collegio l’argomento appellatorio fondato sul contrasto della delibera gravata con il testo dell’art. 71 comma 6 è infondato: la disposizione va interpretata in senso conforme agli arresti del Giudice delle Leggi prima citati e, semmai –lo si ripete- è convincimento del Collegio quello per cui si potrebbe dubitare della costituzionalità della stessa laddove interpretata in senso preclusivo della anticipata (rispetto alla “designazione” presidenziale) prefissazione di criteri di individuazione del giudice destinato a relazionare sull’ affare. 3.5.A quanto, detto, deve aggiungersi soltanto una considerazione: la sentenza di primo grado, come detto a più riprese, ha per il vero trattato velocemente ed incidentalmente detta tematica, soffermandosi maggiormente sul contenuto della delibera nella parte in cui individua quale sia il carico di lavoro attribuibile ai singoli giudici: va però richiamata una affermazione ivi contenuta – della quale parte appellante si duole – e riposante nella considerazione secondo cui “la delibera gravata non incide minimamente sull’atto di nomina del relatore delle cause e degli affari consultivi, che rimane saldamente in capo al presidente di sezione”. Va sul punto ricordato che spetta sempre al Presidente l’atto formale di nomina, che però avviene non già “liberamente” ma sulla scorta di criteri predeterminati; la delibera, poi, non esclude (almeno, questa è la lettura che ritiene di poterne dare il Collegio) che –anticipatamente o successivamente alla estrazione a sorte di un relatore- lo stesso Presidente ravvisi circostanze obiettive (e non agevolmente predeterminabili anticipatamente, il che non costituirebbe comunque compito spettante a questo Collegio ) che impediscano che una certa causa, ricompresa in un certo “pacchetto”, venga attribuita proprio a “quel” relatore e possa operare in conformità sostituendolo. E ciò peraltro lo stesso art. 2 della delibera che da un parte impone la predisposizione di “pacchetti omogenei” da assegnare automaticamente a ciascun magistrato e, dall’altra, comporta la necessità di effettuare delle compensazioni qualora vi sia un superamento del carico di lavoro (lungi dal costituire un elemento di “incoerenza” interna della delibera medesima, come pure non condivisibilmente ipotizzato) pare al Collegio espressivo del riconoscimento di una simile esigenza. In sintesi, pare al Collegio trovarsi al cospetto di una predisposizione di criteri di natura minimale, per così dire, (d’altro canto, il comma 6 dell’art. 2 della delibera gravata prevede in via anticipata deroghe al “criterio” dell’eguale carico di cui al precedente comma 5) che consente elasticamente di rinvenire soluzioni anche per fattispecie ivi non espressamente normate, difficili da prevedere anticipatamente, e che comunque, la responsabile discrezionalità del CPGA potrebbe enucleare, al condivisibile fine di una ottimizzazione delle risorse e delle professionalità del Plesso . In via di mera esemplificazione, è preciso convincimento del Collegio che il testo della delibera gravata non escluda, ad esempio, che talvolta un certo ricorso o gruppo di ricorsi possa essere motivatamente assegnato dal Presidente “nominatim” ad un singolo relatore in virtù di varie rilevanti circostanze quale quella, ad esempio, che un certo Magistrato si sia in precedenza occupato di questione identica od assimilabile, e/o abbia avuto occasione di approfondire un certo aspetto giuridico particolarmente complesso, ect,

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3.6. Insomma: la bella espressione contenuta a pag. 33 dell’atto di appello e che piace al Collegio riportare di seguito (“la valorizzazione delle attitudini proprie di ciascuno è interesse di tutti”) non è aspirazione che possa dirsi del tutto conculcata dalla vigente avversata regolamentazione. La avversata regolamentazione impedisce la assoluta discrezionalità della “nomina”,in assenza di alcuna predeterminazione di criteri, già ritenuta aspirazione non condivisibile dalle decisioni della Corte Costituzionale: ed in parte qua né collide con la legge primaria (art. 71 comma 6) né presenta profili diversi di illegittimità e o irrazionalità. 4. Respinto il primo (e principale) caposaldo dell’appello, devono essere esaminati i restanti motivi di censura. 4.1. La reiezione del sesto motivo –si anticipa- va pronunciata in via derivata, in quanto il presupposto della detta censura riposerebbe –secondo e terzo capoverso – nella supposta illegittimità della delibera per violazione di legge e per straripamento di potere ( quello, in tesi, autoattribuitosi dal CPA). Venuto meno il detto presupposto (per quanto si è finora detto con riguardo al vizio di violazione di legge, e per quanto si dirà immediatamente con riferimento alle altre censure dedotte) vale a giustificare la prescrizione contenuta nella delibera e concernente la conseguenza per la reiterata violazione delle disposizioni contenute nella medesima il richiamo ai precetti indicati dal Tar (es: art. 2 del d.lgs. 109/2006, previgente disciplina del r.d.l. n. 511 del 1946). 5.Restano a questo punto da esplorare due ulteriori macrocensure prospettate nell’atto di appello e riposanti, rispettivamente: a)nella affermata contraddittorietà della delibera al disposto di cui all’art. 1 comma 2 della legge n. 241/1990 ( nella parte in cui detta ultima disposizione vieta di aggravare il procedimento) e più in generale sulla violazione dei principi del “ giusto procedimento” nella fase di adozione della delibera; b)nel supposto “straripamento di potere” in cui sarebbe incorso il CPGA laddove avrebbe invaso una sfera (quella “giurisdizionale”) ad esso preclusa e si è richiamata la prospettazione (non espressamente riproposta, in realtà, ma contenuta nei precedenti mezzi di ricorso di primo grado, dichiarati improcedibili ed avversanti le “prime” delibere in ordine cronologico, ormai abrogate) secondo cui, a tutto concedere, detta prerogativa sarebbe spettata al Presidente del Consiglio di Stato. 5.1. Nessuna delle due richiamate censure persuade il Collegio. 5.1.1. Quanto alla prima di esse (art.1 comma 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 “la pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria.”) in disparte ogni ulteriore considerazione, deve osservarsi quanto segue. L’ottica della censura – se il Collegio non ha frainteso le affermazioni contenute nel secondo capoverso di pag 11 dell’appello- riposerebbe nell’avere imposto la formazione di pacchetti; la estrazione a sorte del relatore da “abbinare” ai pacchetti e la formazione di un processo verbale che dia atto dell’avvenuto espletamento di tali incombenti. Ora, pur potendo convenirsi della circostanza che tale attività possa comportare un dispiego di energie e di tempo, il punto rilevante su cui incentrare l’attenzione è che, in realtà, la norma de quo è stata non del tutto pertinentemente evocata. Essa infatti, vieta che vengano imposti, in fase “istruttoria” adempimenti in realtà non necessari. Nel caso di specie, l’unica “operazione” nuova e diversa ed ulteriore, rispetto al disegno che costituisce la filosofia dell’impianto critico contenuto nell’atto di appello, riposa nella verbalizzazione delle operazioni eseguite. Null’altro. Invero, la stessa parte appellante, nel postulare l’esigenza che il potere di assegnazione dell’affare al relatore si dispieghi liberamente avverte, che non trattasi di sostenere la libertà di una attività “a caso” ma di una complessa e responsabile, quanto discrezionale, attività valutativa, che individui il “più appropriato” relatore, per qual singolo affare. Non altrimenti possono essere intesi i richiami alla “esperienza”del Presidente (pag. 15) e la più approfondita disamina di cui alle pagg. 36-37 dell’appello (con il sapiente richiamo alla voce avverbiale “prudentemente”. Se così è, nel caso di specie non v’è incombente nuovo e diverso rispetto al passato (cioè all’epoca antecedente alle contestate delibere introduttive nel sistema dei criteri), ma soltanto la necessità che esso sia documentato.

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La delibera contestata non introduce a carico dei Presidenti l'obbligo di emanare atti amministrativi non previsti dalla legge, ma unicamente quello di verbalizzare un “procedimento” (quello di individuazione del singolo relatore per quel singolo’affare) prima parimenti esistente, sebbene non esternato se non con l’atto materiale di assegnazione. Non v’è alcun aggravio, se non quello discendente dalla verbalizzazione (ma nulla vietava in passato, e nulla vieterebbe attualmente, ove l’assegnazione degli affari venisse sottratta alla formazione prevista dalla delibera gravata) che il Presidente desse contezza del procedimento logico-valutativo che l’aveva condotto ad assegnare quel singolo affare a quel singolo Magistrato dandone succinta contezza in un atto idoneo ad esternare i presupposti della scelta. Di più: muovendo dalla richiamata affermazione della Corte Costituzionale secondo cui va escluso che “i poteri organizzativi dei capi degli uffici possano essere svolti in modo assolutamente libero o addirittura arbitrario” vi sarebbe addirittura da dubitare della possibilità che – anche in carenza della regolamentazione di cui alla contestata delibera- i Presidenti non dovessero (quantomeno) redigere un sommario processo verbale che desse conto dei canoni mercè i quali era stata esercitata la loro prudente e responsabile “individuazione” del singolo relatore. La giurisprudenza amministrativa ha insegnato che nessun potere, per quanto supportato da amplissima discrezionalità ( con la esclusione dei c.d. “atti politici”, liberi nel fine) possa essere esercitato omettendo di dare contezza (seppur generica e succinta, quanto maggiore è il quantum di discrezionalità attribuito) dei presupposti in base al quale si è giunti ad una data soluzione. La conclusione non dovrebbe essere diversa nel caso in esame, per cui nessun “indebito aggravio” rispetto al passato può ravvisarsi. 5.1.2. Anche tale articolazione della censura va pertanto disattesa, mentre nulla ritiene di aggiungere il Collegio a quanto affermato dal Tar in punto di insussistenza di vizi discendenti dalla omessa audizione dei Presidenti (soggetti, questi, poi chiamati ad applicare la delibera): l’istruttoria è stata compiuta, completa, e si è dipanata in numerosi atti; la tematica è stata a più riprese approfondita dall’ Organo di autogoverno, e la prova lampante di ciò risiede nella pluralità di delibere susseguitesi sul tema. E’ massima di esperienza quella per cui la più agevole condivisione di un deliberato si realizza quando maggiormente vi sono stati coinvolti i soggetti che – per primi- sono chiamati ad applicarlo: ma una omissione di tale consultazione non potrebbe condurre a dichiarare la illegittimità della delibera (che neppure parte appellante esplicitamente invoca nella parte dell’atto di appello diretto a criticare la delibera del 2013) involgendo unicamente valutazioni di opportunità e convenienza. 5.2. Resta da approfondire la critica incentrata sull’ asserito straripamento di potere in cui sarebbe incorso il CPGA allorchè si è risolto a regolamentare (con le avversate delibere) una “prerogativa” (in tesi quella, presidenziale, di individuazione del singolo relatore cui assegnare il singolo affare) di natura giurisdizionale (si veda pag. 19 dell’appello, laddove si rimprovera alla delibera di “interferire nel corso dei processi”, e, più diffusamente, pagg 35 e segg. recanti i riproposti motivi di censura ovvero le delibere abrogate) e di essere stata emessa in carenza di espressa od implicita attribuzione del relativo potere. 5.2.1. Il mezzo è certamente ammissibile, sebbene parte appellante non abbia gravato il capo della avversata decisione (ultima parte del capo 5.3.) “dedicato” a confutare la tesi del mezzo di primo grado secondo cui detta competenza, a tutto concedere, sarebbe spettata al Presidente del Consiglio di Stato (in sentenza è stata recisamente escluso il rilievo, nella presente controversia degli artt. 4 e 15 del d.lgs. 165/2001, norme che sono state ritenute “destinate a regolare esclusivamente gli organi e gli aspetti e burocratici-amministrativi delle istituzioni ivi elencate” e quindi insuscettibili di essere trasportate sul piano della attività strettamente e squisitamente connesse alla funzione giurisdizionale”); né abbia riproposto in appello (se non attraverso la reiterazione dei motivi dichiarati improcedibili dal Tar assorbiti ) detta “tesi alternativa” . E’ comunque ben possibile, legittimo, e quindi ammissibile, limitarsi a contestare che la competenza a disciplinare una determinata “materia” o financo un aspetto della medesima pertenga ad un certo Organo, senza per converso dovere indicare quale sarebbe l’Organo eventualmente competente (peraltro, come prima chiarito, parte appellante nega che la fattispecie necessiti di alcuna regolamentazione diversa da quella impressa ex art. 71 comma 6 del cpa, nella “lettura” dalla stessa fornita). 5.2.2. La censura, però, ad avviso del Collegio, è infondata, ed in parte contiene anche elementi di endemica contraddittorietà con la precedente censura prima scrutinata.

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5.2.3. La disposizione invocata dal Tar a comprova della sussistenza, in capo al CPGA, del potere di regolamentare la materia mercè le avversate delibere, è contenuta sub art. 13 della legge n. 186/1982. Il comma 1, n. 6 bis di tale norma (aggiunto dall' art. 19, L. 21 luglio 2000, n. 205) prevede che pertenga alla responsabile discrezionalità del CPGA, tra l’altro, il compito di determinare “ i criteri e le modalità per la fissazione dei carichi di lavoro dei magistrati”. Ad avviso di parte appellante (in particolare pag. 13 penultimo cpv dell’atto di appello) tale competenza del CPGA sarebbe stata “delimitata nel senso di stabilire i criteri di ripartizione dl lavoro tra i magistrati amministrativi”,ed anzi, il detto comma avrebbe confermato implicitamente il criterio della nomina dei relatori da parte dei presidenti. Il Collegio non condivide tale approdo riduttivo. Già sul piano semantico, è evidente che la disposizione in oggetto ha un grado di precisione e dettaglio significativamente superiore rispetto a quello di cui ai due numeri della elencazione che la precedono (“5 stabilisce i criteri di massima per la ripartizione degli affari consultivi e dei ricorsi rispettivamente tra le sezioni consultive e tra quelle giurisdizionali del Consiglio di Stato;6 stabilisce i criteri di massima per la ripartizione dei ricorsi nell'ambito dei tribunali divisi in sezioni;). Criteri e modalità per la fissazione dei carichi di lavoro dei magistrati, ad avviso del Collegio, è espressione idonea a ricondurre al potere dell’Organo di autogoverno, in funzione regolatoria, anche la indicazione delle modalità di abbinamento del singolo relatore al singolo ricorso contenuto nel singolo “pacchetto di ricorsi” predeterminato . E’ pienamente condivisibile, sul punto, il convincimento del Tar: tale potere pertiene pienamente all’Organo di Autogoverno (e parte appellante, ovviamente, in seno all’appello non nega che così sia avvenuto nelle altre Giurisdizioni, né rifugge decisamente dal parallelismo tra competenze e funzione del CPGA rispetto a quelle del CSM che è espresso nel ragionamento del Tar). Né dicasi che così opinando si consentirebbe che il CPGA intervenga su materia preclusagli in quanto la nomina del relatore costituisce atto “giurisdizionale”: la forzatura riposa proprio in tale punto di partenza. Se “atto giurisdizionale” implica uno “ius dicere”, la nomina del relatore di una causa non lo è certamente, e non v’è (ancora) esercizio di potere giurisdizionale: e d’altro canto non può affermarsi che ogni atto che si inserisca nel solco di un procedimento avente una certa matrice (in questo caso giurisdizionale) ne mutui le caratteristiche e finisca con l’assorbirne la natura: anche l’atto con cui si ordina l’allontanamento dall’aula di udienza di un soggetto disturbatore si connota per essere inserito nell’alveo di un procedimento giurisdizionale e di una funzione giurisdizionale: sarebbe davvero ardito, per ciò solo, considerare tale ordine “atto giurisdizionale”. 5.2.4. E peraltro, anche a volere seguire detta impostazione, la articolazione della censura si porrebbe in evidente conflitto con quella prima scrutinata laddove parte appellante si è doluta dell’aggravio procedimentale imposto dalla avversata delibera . Invero, delle due l’una: o l’atto di nomina del relatore è di “natura giurisdizionale” o non lo è (ed il Collegio propende per tale ipotesi); ma se si volesse ritenere che esso integri atto giurisdizionale, è agevole riscontrare la contraddittorietà sistematica della ipotesi appellatoria, che si spinge ad ipotizzare un “unicum” nel sistema (cfr art. 111 Cost): un atto “giurisdizionale” (la designazione del relatore) eppur totalmente libero, e financo scevro da alcun obbligo motivazionale e di documentazione dell’iter logico seguito per pervenire alla scelta. Sotto qualsiasi angolo prospettico la si guardi, la censura non persuade. 5.2.5. Può, concludersi questa disamina con una ultima considerazione. Nell’ultima parte del comma 4 dell’art. 2 della delibera gravata, si elencano, affiancandoli, due “interessi” che la normazione ivi contenuta tenderebbe a soddisfare: quello ad una equa ripartizione del carico tra Magistrati, e quello volto ad evitare che determinate materie siano affidate in via esclusiva ad alcuni relatori (così testualmente la delibera “ l’equilibrata ripartizione, per qualità e quantità, del carico di lavoro, evitando di norma che determinate materie siano affidate in via esclusiva ad alcuni relatori”). Tali esigenze rientrano certamente tra le esclusive competenze del CPGA e sono in massima parte di natura “interna”, . La delibera del 2013, non enuncia l’ulteriore presupposto della contestata regolamentazione, sotteso alla prescrizione di cui al comma 7: quella di garantire trasparenza assoluta, attraverso la anticipata predisposizione di un criterio che consenta di pervenire in modo anticipato e prefissato ( sebbene casuale, attraverso la estrazione a sorte) alla individuazione della persona fisica deputata alla

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trattazione del singolo affare ( in quanto inserito in un certo “pacchetto” di ricorsi) in ossequio ad una visione estesa del concetto di “giudice naturale precostituito per legge” (ed in questa sede si può solo rammentare che qualificata Dottrina individua il bene giuridico tutelato da simili prescrizioni riconducendolo alla effettività della terzietà e dell’indipendenza del Giudice) . Esigenza, questa, generale, scolpita, come prima si è cercato di dimostrare , nelle decisioni della Corte Costituzionale citate e parimenti rientrante nella responsabile competenza del CPGA. E la stessa parte odierna appellante, per il vero, da atto che (ultimo paragrafo di pag. 3 del mezzo di primo grado,e primo di pag 4) la delibera del 2004 era motivata da esigenze di assicurazione della trasparenza e di rispetto del principio ex art, 25 della Costituzione. 5.2.6. Né, si ripete –per venire all’ulteriore articolazione della censura- che risulti in senso contrario dirimente la considerazione secondo cui “l’assegnazione delle cause e degli affari consultivi è funzione di natura giurisdizionale, che l’ordinamento affida esclusivamente alle prerogative presidenziali“. 5.2.7. La ricostruzione di parte appellante manifesta un primo punto di debolezza “intrinseco”, per così dire allorchè propugna la tendenziale assolutezza ed ammette a propria volta che possa essere ammissibile un limite “quantitativo. Ne manifesta un secondo,laddove –come prima chiarito- insiste nel ricondurre l’atto di nomina alla funzione giurisdizionale, il che è considerazione non condivisa dal Collegio. 5.3.Anche tale censura, conclusivamente, va disattesa, potendosi in ultimo e conclusivamente formulare una aggiuntiva considerazione: come si è visto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 1998, “chiude” la propria disamina con la seguente considerazione, che di seguito si riporta nuovamente “Invero la connessione fra imparzialità e precostituzione che si ricava da detto principio, nell'escludere, come già detto, che i poteri organizzativi dei capi degli uffici possano essere svolti in modo assolutamente libero o addirittura arbitrario, consente di ritenere che l'esplicitazione di criteri per l'assegnazione degli affari, in quanto espressivi di un'esigenza costituzionale, che opera in tutti i settori della giurisdizione, possa aver luogo proprio nell'ambito di detti poteri discrezionali, quale manifestazione ed esercizio dei medesimi, senza necessità né di una specifica previsione legislativa né, tantomeno, di un intervento additivo di questa Corte. In tal senso, come la stessa ordinanza ricorda, depone anche la prassi del Consiglio superiore della magistratura che, per gli affari civili, in assenza di norme analoghe a quelle della materia penale, richiede comunque che i capi degli uffici diano, in sede di proposte tabellari, indicazioni "sui criteri obiettivi e predeterminati" seguiti per le assegnazioni.”. La tesi di parte appellante, nel sostenere che il CPGA non avrebbe avuto la competenza ed il potere di provvedere sull’oggetto in trattazione, oltre che non condivisibile in sé e per sé, come si è prima tentato di dimostrare, si pone peraltro in controtendenza rispetto alla ratio della legislazione vigente, seppur successiva al 2013. E’ appena il caso di rammentare, infatti, che a più riprese il Legislatore ha fornito indicazioni “unitarie” relativamente a compiti e poteri degli Organi di autogoverno della Magistratura (ex aliis si veda il comma 4 dell’art. 16 del dL 12/09/2014, n.132 in tema di ferie dei Magistrati: “. gli organi di autogoverno delle magistrature e l'organo dell'avvocatura dello Stato competente provvedono ad adottare misure organizzative conseguenti all'applicazione delle disposizioni dei commi 1 e 2.”) che collidono con il sostrato della tesi affermata da parte appellante secondo la quale il CPGA avrebbe competenze “minor” rispetto a quelle assegnate agli altri Organi di autogoverno, e, più specificamente, al CSM, ( ferma restando la rilevanza costituzionale di quest’ultimo, unico tra gli Organi di autogoverno). 6. Conclusivamente, l’appello va disatteso e la sentenza del Tar gravata va confermata, con le precisazioni rese in motivazione. 7.E’ evidente che la complessità, particolarità e novità delle questioni esaminate legittimano l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali del grado sostenute.

SULLA NOMINA DEI RELATORI NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

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SOMMARIO: 1. - Presentazione. - 2. - I contenuti della sentenza - 3. - Considerazioni sui contenuti della sentenza. - 4. - Possibili conseguenze. 1. - La sentenza che si annota ha rigettato le pur approfondite censure mosse verso la disposizione recata dal comma 7 dell’art. 2 della Deliberazione del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa del 18 gennaio 2013, concernente la assegnazione dei ricorsi ai magistrati delle Sezioni del Consiglio di Stato e dei T.A.R.. Essa contiene, però, delle precisazioni che possono avere conseguenze significative. La disposizione censurata ha stabilito che la designazione del relatore da parte del Presidente della Sezione del Consiglio di Stato o del T.A.R. prevista dall’art. 71, comma 6 del Cod. proc. amm. ai fini della trattazione dei ricorsi, debba realizzarsi dopo che questi abbia predisposto dei “pacchetti omogenei predeterminati di affari, compresi quelli cautelari da assegnare ai singoli magistrati componenti il Collegio” e all’esito della assegnazione di questi a sorte ai singoli magistrati, il tutto documentato da apposito processo verbale. La sentenza suscita interesse, in parte per il suo contenuto ed il suo modo di rapportarsi alla fattispecie oggetto del giudizio, in altra per le conseguenze nel futuro della disposizione sottratta all’annullamento, in particolar modo per la possibile esaltazione del ruolo del relatore (in convergenza con una tendenza della quale si sono riscontrati esempi nei commenti di stampa sulla sentenza della Sezione III del Consiglio di Stato 26 ottobre 2015, n. 4897 sulla trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, presentata come un risultato di scelte, più del relatore, che del Collegio di cinque persone che nei fatti, e secondo legge, la ha decisa). 2. - Come si ricava dagli atti di causa, la disposizione investita dal ricorso era stata decisa dal Consiglio di Presidenza sulla base dell’assunto che la scelta in merito ai criteri di assegnazione dei singoli ricorsi ai magistrati rientrasse nelle previsioni di legge, per le quali tale organo “determina i criteri e le modalità per la fissazione dei carichi di lavoro dei magistrati (v. art. 13, comma 1, n. 6-bis della L. 27 aprile 1982 n. 186). Si precisa che essa, riguarda la assegnazione del compito di relatore e non anche la composizione dei collegi e la fissazione dei ruoli di udienza. La sentenza ha condiviso l’assunto indicato poco fa. Ciò è avvenuto, in parte spiegando che individuare il relatore non è esercizio di funzione giurisdizionale (v. punti 5.2.3 e 5.2.4), meno che mai “provvedimento giurisdizionale”e quindi non è riservato agli organi giurisdizionali e che il Consiglio di Presidenza, avendo in base alla legge il potere di determinare il carico di lavoro, non solo delle Sezioni, ma anche, come specificamente indicato, anche dei singoli magistrati, ha il potere di stabilire, sia i criteri di determinazione quantitativa, sia di assegnazione ai singoli. E’avvenuto in altra parte, preponderante, sulla base della asserita necessità di congruenza rispetto

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alla ripartizione degli affari tra i magistrati ordinari, operata secondo tabelle fissate dai dirigenti degli uffici in conformità alle prescrizioni emanate dal CSM ai sensi dell’art. 7-ter della legge sull’ordinamento giudiziario, R.D. 3 gennaio 1941 n. 12, che conferisce a tale organo il potere di stabilire le regole per la assegnazione degli affari individualmente ai singoli magistrati. Tale necessità di congruenza è stata giustificata in generale con la esigenza di far valere la unicità dei principi riguardanti la funzione giurisdizionale e in particolare con il richiamo al principio della precostituzione per legge del giudice. La sentenza ha anche preso in considerazione il dettato dell’art. 71, comma 6 del Cod. proc. amm., il quale stabilisce che il Presidente della Sezione “designa il relatore”. Al riguardo ha escluso che tale espressione tragga significato dal modo in cui la individuazione del relatore era regolata dalla previgente normativa sul processo amministrativo (caratterizzata dalla scelta libera del Presidente della Sezione). Al contrario, ha sostenuto che la stessa trae senso dai contenuti della sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 1998, dai richiami da parte del successivo art. 76, comma 4 Cod. proc. amm. all’art. 276 del Cod. proc. civ. e all’art 118 delle disposizioni di attuazione del Cod. proc. civ. e, infine, dal modo in cui nel processo civile è in concreto attuato il dettato degli articoli 168-bis e 702-bis del Cod. proc. civ.. In particolare, ha rappresentato che: la prima aveva riguardato il potere di Presidenti delle Sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti di designare il giudice competente a decidere in via definitiva sui provvedimenti di sequestro conservativo dei beni da loro precedentemente disposti in via cautelare ed aveva, quindi, rilevato che i poteri organizzativi dei capi degli uffici giurisdizionali non possono essere svolti in modo completamente libero, stante la esigenza costituzionale di precostituzione del giudice, traendo poi la conclusione che una esplicitazione di criteri a priori per la assegnazione degli affari può essere realizzata senza la necessità di una specifica previsione legislativa; i secondi, riguardanti la scelta dell’estensore della sentenza da parte del Presidente del Collegio (normalmente nella persona del relatore, ma comunque rimessa al Presidente del Collegio, in particolare quando il Collegio non abbia accolto le soluzioni proposte dal relatore) esprimono un orientamento generale di rinvio alle disposizioni del Cod. proc. civ. circa il ruolo del relatore e comunque di limitazione della libertà di scelta presidenziale; gli ultimi – e, cioè, gli articoli 168-bis e 702-bis del Cod. proc. civ.- contemplanti la designazione da parte del Presidente del Tribunale, rispettivamente del giudice istruttore e del giudice competente alla trattazione delle cause con procedimento sommario di cognizione, sono applicati imponendo la osservanza delle prescrizioni di una tabella di assegnazione degli affari, a sua volta predisposta in anticipo sulla base di criteri stabiliti dal CSM. 3. - In ordine agli stretti contenuti della sentenza possono farsi sei gruppi di considerazioni:

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A. Il primo riguarda la qualificazione formale della nomina del relatore da parte del Presidente della Sezione. Nella sentenza è stata esclusa quella di provvedimento giurisdizionale (è usata la espressione “atto giurisdizionale”, ma il senso è questo, poiché la espressione è usata in un contesto che esprime la esclusione dall’obbligo di motivazione stabilito dall’art. 111, comma 6 della Costituzione per i provvedimenti giurisdizionali). Sembra, invece, preferita la iscrizione ad una generica attività di ordine del processo materialmente esecutiva. Su questo si è pienamente d’accordo, considerando che ogni apparato o istituzione che dir si voglia, quale che sia la sua attività principale, finisce per svolgere attività, sia di formazione, sia di giustizia, sia di esecuzione- amministrazione (v. F. MERUSI, Diritto privato della pubblica

amministrazione alla luce degli studi di Salvatore Romano, in Dir. amm., 2004, 650-657, con riguardo alla attività esecutiva svolta nell’ambito del diritto privato, ma con considerazioni valide anche per la attività esecutiva nell’ambito del processo). B. Il secondo riguarda la competenza da parte del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa. Secondo la sentenza questa comprende la predisposizione di procedure e sistemi predefiniti di assegnazione dei singoli affari (nel caso il riferire al Collegio sulla causa). Al riguardo si obietta che la disposizione recata dall’art. 7-ter dell’ordinamento giudiziario, per cui la assegnazione degli affari avviene “secondo criteri obiettivi e predeterminati, indicati in via generale dal Consiglio superiore della magistratura e approvati contestualmente alle tabelle degli uffici” è diversa rispetto a quella recata dall’ art. 13, comma 1, n. 6 bis della legge 27 aprile 1982, n. 186, per cui il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa “determina i criteri e le modalità per la fissazione dei carichi di lavoro dei magistrati”. Si tratta in un caso e nell’altro di attività ausiliarie rispetto alla funzione giurisdizionale e, quindi, salve diverse disposizioni della legge, dovrebbero essere attribuite per attrazione ai titolari di questa funzione. La disposizione scritta attribuisce all’organo di autogoverno, in un caso, con precisione, il potere di stabilire le tabelle e, cioè, di determinare in dettaglio la assegnazione degli affari, nell’altro, genericamente, il potere di stabilire i criteri per la distribuzione tra i magistrati del carico di lavoro, il che ha come oggetto la quantità di lavoro e il suo effetto in termini di spendita di energia, non anche la suddivisione e composizione di questi (in fisica la “quantità di lavoro” è una nozione precisa, che designa il peso complessivo trasportato ed esclude qualsiasi riferimento alla natura di esso). Manca per il processo amministrativo una disposizione scritta analoga a quella operante per il processo ordinario (risultante da successive, ripetute, integrazioni al testo originario dell’ordinamento giudiziario, delle quali una solo molto recente ha riguardato la estensione del sistema delle tabelle al processo civile) e conferente all’organo di autogoverno la competenza di entrare nel merito della assegnazione degli affari fino ad allora spettante ai capi degli uffici giudiziari per attrazione da parte delle

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loro competenze giurisdizionali. In tali condizioni sembra legittimo che per il processo amministrativo tali competenze restino ai Presidenti di Sezione, senza subire spostamenti. Per completezza si aggiunge che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 272 del 1998, ha in realtà ammesso che la assegnazione degli affari ai magistrati sia compiuta nell’ambito dei poteri discrezionali dei capi degli uffici giudiziari (tanto che ha rigettato la questione di costituzionalità relativa alla legge che ciò prevede), sottolineando solo la esigenza che essa si svolge con modalità tali da garantire la verifica della osservanza di criteri obiettivi (su tale sentenza e sugli esiti delle sue statuizioni presso la Corte di conti nel senso del differimento della adozione del sistema delle tabelle, v. M. SMIROLDO, La garanzia

costituzionale del giudice precostituito per legge nei giudizi dinnanzi alla Corte

dei conti, in w.w.w.anmcorteconti, 2007). C. Il terzo riguarda il testo dell’art. 71, comma 6 del Cod. proc. amm.. Esso è così formulato: “Il Presidente designa il relatore almeno trenta giorni prima della data di udienza”. La interpretazione che di esso dà la sentenza, presentando questa come l’unica “costituzionalmente compatibile” è nel senso che la designazione presidenziale costituisce solo “l’atto formale di nomina” del relatore, preindividuato attraverso il meccanismo del sorteggio (e solo in via di deroga, in presenza di circostanze specifiche da allegare, scelto dal Presidente stesso). Al riguardo si nota che nella normativa previgente (v. art. 41 del R.D. 26 giugno 1924 n. 1054 recante il Testo unico sul Consiglio di Stato, e art. 51 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642, recante il regolamento di procedura per il giudizio dinanzi al Consiglio di Stato ed efficace anche per il giudizio dinnanzi al T.A.R., in forza del richiamo contenuto all’art. 19 della L. 6 dicembre 1971 n. 1034) era stabilito che il Presidente della Sezione “nomina il relatore ed assegna il giorno dell’ udienza”. Si è detto che nella motivazione della sentenza questa interpretazione della designazione presidenziale è stato giustificata con il significato che è stato attribuito al termine “designa”, collocato in due disposizioni del Cod. proc. civ. e, cioè, gli artt. 168-bis e 702-bis (i quali prevedono che il Presidente del Tribunale “designa”, rispettivamente il giudice istruttore nel processo civile ordinario di primo grado e il giudice competente per la trattazione del procedimento sommario di cognizione). Non è stato ripreso ed utilizzato il senso in cui il termine “designa”, in modo consolidato, è inteso dalla dottrina e dalla legislazione con riguardo alla attività amministrativa, vale a dire come una scelta di carattere non definitivo, la cui produzione di effetti finali ha bisogno di un successivo atto formale, rappresentato dalla nomina (per la dottrina, v. per tutti A. M. SANDULLI, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940, 152-153 e, poi, più di recente, P. PIZZA, Le società per azioni di diritto singolari

tra partecipazioni pubbliche e nuovi modelli organizzativi, Milano 2007, 38 e ss.; per la normativa, oltre alle disposizioni citate da Sandulli, v. le più recenti,

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quali artt. 7 ed 8 del d.l. 8 luglio 2002, n.138, conv. in l. 8 agosto 2002, n. 178, sulla designazione dei componenti del Consiglio di amministrazione dell’ANAS e del Consiglio di amministrazione di CONI Servizi e art. 50, comma 8 del D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267 sulle designazioni dei sindaci per diversi organismi che fanno capo ai comuni). Si conviene che osservando il funzionamento effettivo del processo civile risalta che alla scelta di persone da parte del Presidente del collegio configurata come libera o relativamente libera (e quindi sottratta a tabelle rigide), corrisponde nelle disposizioni scritte del Cod. proc. civ. l’impiego del verbo “nominare” e non già “designare”. Si conviene, cioè, che nell’ambito del processo civile la parola “nomina” corrisponde ad un atto sia formale, sia sostanziale di proposizione di una persona ad un compito (nel senso che comprende una attività di scelta con significativi elementi di libertà sostanziale) e, invece, la designazione corrisponde ad un atto pressoché esclusivamente formale di proposizione di una persona ad un compito; si nota, infatti, che il relatore nei giudizi presso la Corte di cassazione e nei giudizi di appello sulle cause di lavoro è nominato dal Presidente dell’organo giurisdizionale al di fuori dello stretto sistema delle tabelle (v. rispettivamente artt. 377 e 435 Cod. proc. civ.; su ciò v. più ampiamente sotto, al punto E). Si osserva, però, quello che segue. Le disposizioni del Cod. proc. civ. che utilizzano il verbo “designare” sono state fatte oggetto di una integrazione da parte di ulteriori disposizioni dell’ordinamento giudiziario a più riprese modificate nel senso di rendere sempre più vincolante il sistema delle tabelle. In altre parole, se nel sistema del processo civile il verbo “designare” significa una attività di nomina quasi puramente formale, è in buona parte per un successivi interventi del legislatore che ha conferito esplicitamente al CSM il potere di stabilire i criteri di questa e, in particolare, di adottare il sistema delle tabelle. Ciò non è stato, però, per il processo amministrativo, giacché la disposizione di cui all’art. 13 comma 1 n. 6-bis della L. 27 aprile 1982 n. 186 sui poteri del Consiglio di Presidenza in ordine alla distribuzione del carico di lavoro tra i magistrati amministrativi non è paragonabile per grado di specificità a quella di cui all’art. 7-ter della legge sull’ordinamento giudiziario. Questo fa dire che il Giudice si è trovato di fronte al dilemma se intendere la espressione verbale “designa” allo stesso modo di come è intesa riguardo alle designazioni di cui agli artt. 168 bis e 703 bis del Cod. proc. civ. o, invece, allo stesso modo di come è intesa ormai consolidatamente da parte della dottrina e della legislazione riguardanti il procedimento amministrativo. La prima soluzione non era obbligata (successivamente si daranno elementi per concludere se errata o meno). Lo sarebbe stata solo se il rinvio esterno al Cod. proc. civ. stabilito dall’art. 39 del Cod. proc. amm. fosse stato assoluto e rigido tanto da comprendere interpretazioni delle singole parole di esso (con questo superando persino la nozione di rinvio materiale). Ciò, però, non è, in quanto tale rinvio è configurato solo come suppletivo rispetto a vere e proprie lacune

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del Cod. proc. amm. e comunque nei confronti di disposizioni del Cod. proc. civ. che esprimono principi generali e che risultano compatibili con l’impianto del processo amministrativo (condizioni tutte non dimostrate). All’opposto, diverse ragioni c’erano per utilizzare il significato del verbo designare che si è affermato nell’ambito del procedimento amministrativo. La giurisdizione amministrativa, infatti, quale che sia il suo oggetto (si può anche convenire che esso si sia spostato dall’atto amministrativo al rapporto amministrativo) giudica quasi sempre su motivi ed argomenti che attengono al procedimento della Amministrazione e, quindi, essendo vero che procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale appartengono entrambi al genere dei procedimenti pubblici, può essere opportuno che tale giurisdizione usi la stessa terminologia e le stesse convenzioni linguistiche nel considerare aspetti del procedimento amministrativo, materia normale del suo giudizio, e aspetti del processo, regola del suo giudizio. Non si aggiunge altro, perché una conclusione è possibile solo se si considerano gli istituti in modo completo e, quindi, comprendendo il loro modo di funzionare (come, del resto, è nel senso della norma di cui all’art. 39 del Cod. proc. amm. sul rinvio esterno). D. Il quarto gruppo di considerazioni riguarda un elemento di contenuto della sentenza che è in generale interessante e può condurre in direzione opposta rispetto a quella per cui è stato utilizzato. Nella sentenza, al punto 3.3.3 si sottolinea che all’art. 76 del Cod. proc. amm., riguardante le modalità della votazione delle sentenze del Giudice amministrativo, è contenuto un richiamo alle disposizioni di cui agli artt. 276 del Cod. proc. civ. e 118 delle disposizioni di attuazioni del Cod. proc. civ.. Tale richiamo è presentato nella sentenza come espressione di una volontà del legislatore di imporre le regole del Cod. proc. civ. al potere presidenziale di scelta dell’estensore della sentenza, che sarebbe idonea ad estendersi anche al potere presidenziale di nomina del relatore. Viene subito da osservare che i due poteri presidenziali cui la sentenza si riferisce sono innanzitutto diversi per la figura di Presidente cui sono attribuiti: il primo, quello di nomina dell’estensore della sentenza è di spettanza del Presidente del Collegio giudicante; l’altro, quello di scelta del relatore, è di spettanza del Presidente titolare della Sezione (l’uno e l’altro possono essere persone diverse, perché non è detto che il Collegio giudicante sia presieduto dal Presidente titolare della Sezione). Questa osservazione, evocante il ruolo di chi presiede il Collegio (in possibile dialettica con il Presidente titolare della Sezione cui è attribuita la nomina del relatore) conduce ad un’altra di portata generale, sul senso complessivo della disposizione dei cui all’art. 76 del Cod. proc. amm., che è di considerare e contemplare la ipotesi di un rovesciamento nel Collegio delle proposte del relatore in quanto non definitive e, viceversa, di una superiore libertà del Collegio nel valutare ed eventuale disattendere queste. Da questo punto di vista può dirsi che la disposizione di cui all’art. 76 Cod.

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proc. amm., così come integrata da quelle del Cod. proc. civ. e dalle disposizioni di attuazione di questo, se in piccola, trascurabile parte va nel senso di stabilire un criterio per la attribuzione di un compito all’interno del Collegio giudicante (il vincolo di tale criterio è, però, ridottissimo, giacché consiste solo nella necessità che l’estensore faccia parte del novero di quelli che hanno votato a favore della soluzione adottata, il che è del tutto logico), in altra, preponderante, parte va nel senso di affermare il superiore ruolo del Collegio, che vale a togliere peso e significato alla preventiva scelta del relatore. Si aggiunge che la disposizione di cui all’art. 76 del Cod. proc. amm., inserita nel contesto del Cod. proc. amm. e degli istituti del processo amministrativo costituisce una riaffermazione del principio di collegialità, che nel processo amministrativo vige con particolare forza, sia per consolidata prassi, sia per i numeri dei componenti dei collegi giudicanti (tre presso i T.A.R. e cinque presso il Consiglio di Stato), sia per le affermazioni esplicite del Cod. proc. amm. (v. artt. 5, comma 2, 6, comma 2 e 75) e che si esprime nella spettanza al Collegio di quasi tutte le decisioni e attività processuali, salve ridottissime attribuite al Presidente della Sezione e non mai al relatore (a quest’ultimo riguardo è illuminante il confronto tra le disposizioni di cui agli artt. 61 del Cod. proc. amm. e quelle di cui all’art. 669-tre del Cod. proc. civ., tra loro diverse) (su tali tematiche con interessanti argomentazioni di portata generale, si rinvia alla monografia di A. ROMEO, Collegialità e ruolo presidenziale nelle

sentenze amministrative, Milano 2012, mentre per quanto riguarda il processo davanti alla Corte dei conti, ed implicitamente anche il processo amministrativo, v. L. CASO, La disciplina processuale dei giudizi dinnanzi alla

Corte dei conti: criticità e limiti del ricorso alle norme del codice di procedura

civile, in w.w.w.corteconti.it, 2007, il quale collega la connotazione come giurisdizione superiore alla affermazione intensa del principio di collegialità e ulteriormente alla esiguità del ruolo del relatore). E. Il quinto gruppo di considerazioni è uno sviluppo del precedente e si appunta sulla figura del relatore nel processo amministrativo. Si osserva che questo è riguardato dal più volte ricordato art. 71 del Cod. proc. amm., sul conferimento della relativa veste formale, solo dall’ art. 76, comma 2, il quale stabilisce che il relatore sia il primo a votare, seguito dagli altri componenti del Collegio, in ordine di crescente anzianità di ruolo, fino ad arrivare al Presidente (completato dalla previsione, attraverso il richiamo all’art. 276 del Cod. proc. civ. che al relatore spetta in via normale di stendere la sentenza a meno che questi non abbia votato in senso difforme alla decisione risultata assunta e circostanziato dalla statuizione contenuta nel precedente art. 75 nel quale è affermata la pienezza della competenza del Collegio a decidere sulla causa). Né attività istruttoria, né attività cautelari spettano al relatore (v. artt. 52-62 e 63-69 del Cod. proc. amm., che attribuiscono la competenza al Collegio o, in casi circoscritti, al Presidente della Sezione).

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Non solo non è prevista la relazione e, cioè, la considerazione della attività del relatore in uno specifico atto processuale, ma non è neanche prevista in modo specifico la stessa attività del relatore e, cioè, il riferire al Collegio: gli articoli del Cod. proc. amm. che disciplinano la udienza di discussione e, cioè, il 73, 75 e 76, si limitano a prevedere una discussione delle parti nella udienza e poi la decisione in camera di consiglio. Può dirsi che nel c.p.a esista il sostantivo del relatore, ma che tale sostantivo, dal punto di vista logico, come soggetto, non sia legato ad alcun oggetto quale risultato della attività e, prima ancora, ad alcun predicato verbale indicante una attività: esso è un puro nome, ma non è legato ad alcuna funzione considerata rilevante dalla normativa disciplinante l’attività giurisdizionale nell’ambito del processo amministrativo. Questo significa che il relatore svolge, sì una attività (diversamente sarebbe nominato inutilmente), ma che questa è da considerare non giurisdizionale. Da ciò, come passaggio logico successivo, o, meglio, più semplicemente come esplicazione dello stesso concetto, può affermarsi che al relatore nel processo amministrativo non spetta una funzione giurisdizionale differenziata rispetto a quella che spetta a tutti gli altri membri del Collegio. Egli giudica allo stesso modo di questi ultimi e non in modo rafforzato. Evidenziato tutto questo, si prende in considerazione l’affermazione contenuta nella sentenza e rafforzata dalla riproduzione di un efficace passaggio di dottrina del 1963 (tratto da G. MOSCHINI, Giudici in nome del popolo e non

già commissari del capo della Corte, in Foro it., 1963, II, 167) per la quale il principio della precostituzione del giudice concerne l’intero organo giudiziario e, cioè, sia l’ufficio, sia la soggettività di questo e, cioè, le persone che di esso sono titolari. Nel farlo valere per il processo amministrativo occorre, però, tenere presente quello che si è svolto poco fa e, cioè, che in questo il relatore non è titolare di una funzione giurisdizionale diversa e, in particolare, più intensa di quella attribuita agli altri membri del Collegio. La individuazione del relatore è, quindi, priva di conseguenze sulla identità del Collegio giudicante. La osservanza del principio della precostituzione del Giudice è, quindi, da riferire unicamente al Collegio come struttura e ai componenti dello stesso indifferentemente considerati, a prescindere dalla qualità di relatore, che è del tutto priva di rilievo giurisdizionale (e dotata di rilievo solo dal punto di vista organizzativo interno, nel senso che, ad esempio, il mancato svolgimento del compito di relatore non inficia la validità dell’esercizio della funzione giurisdizionale, ma può avere rilievo disciplinare interno come inosservanza dei doveri di ufficio). La considerazione della disciplina del processo amministrativo vigente prima della entrata in vigore del c.p.a rafforza queste conclusioni. Essa si caratterizzava rispetto alla attuale per la attribuzione al relatore di un compito più delineato (al riguardo provvedevano gli articoli 41 e 56, rispettivamente del R.D. n. 1054 del 1924 e del R.D. n. 642 del 1907, l’uno, contemplante la “relazione”, l’altro disciplinante i contenuti di quest’ultima, ora abrogati senza che il contenuto fosse rifluito in alcuna disposizione del Cod. proc. amm.).

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Nonostante ciò lasciava (o almeno è stata pacificamente fatta lasciare) al Presidente della Sezione la scelta del relatore; configurati ora da parte del Cod. proc. amm. i compiti del relatore in modo più sfumato (e non già più marcato), sembra giusto non aumentare le garanzie circostanti la individuazione di questo, facendone un membro a sé del Collegio. Le osservazioni che si sono svolte sono confermate dalla considerazione del processo civile, con il quale nella sentenza che si annota ha cercato il parallelismo. In tale processo si nota una distinzione tra la figura del relatore-istruttore dotato di propri poteri processuali e quella del semplice relatore membro del Collegio, dotato del puro compito di riferire a quest’ultimo. Nella prima senz’altro rientrano quella delineata dagli artt. 168-bis e 702-bis Cod. proc. civ., richiamati espressamente dalla sentenza, così come rientra quella delineata dall’art. 669-ter Cod. proc. civ. competente alla adozione di provvedimenti cautelari anteriori alla causa (oggetto di riferimento da parte della sentenza della Corte costituzionale n. 272, con un esatto parallelismo con la funzione di magistrato della Corte dei conti competente a disporre provvedimenti cautelari di sequestro conservativo, delineata dall’art. 5, comma 3 del D.L. 15 novembre 1993, n. 453, conv. in L. 14 gennaio 1994 n. 19). Nella seconda rientra il relatore, o meglio il giudice componente il Collegio giudicante che nel processo di appello riferisce al Collegio sulla causa (figura che non è contemplata da alcuna disposizione, ma in via di prassi è comune nel processo di appello; v. M. DI MARZO, L’appello civile dopo la riforma, Milano 2013, 414, il quale distingue tra la funzione del relatore con rilevanza esterna e quella, invece, priva di essa), così come rientra il giudice componente il Collegio di appello, incaricato di svolgere la relazione (orale) nel processo di appello relativo alle controversie di lavoro (v. art. 437 del Cod. proc. civ.). Intermedia risulta la figura del relatore nel giudizio dinnanzi alla Corte di cassazione, giacché questo, seppure non dotato di poteri di decisione sul processo o di poteri istruttori, ha, però, ben circostanziata dall’art. 379 del Cod. proc. civ., la attribuzione del compito di svolgere una vera e propria relazione al Collegio. Con riguardo alla prima figura (del giudice istruttore) effettivamente nel giudizio civile vige il sistema delle tabelle. Con riguardo alla seconda, la scelta da parte del Presidente è libera e liberamente modificabile (v. Corte cass. 30 novembre 2009 n. 25229 e prima, 13 settembre 2003, n. 13467, in Mass. giur. lav., 2004,176, con nota di M. TATARELLI, entrambe riferite al processo del lavoro). Con riguardo alla terza, intermedia, del relatore nel giudizio di cassazione, opera un meccanismo di limitazione della possibilità di scelta da parte del Presidente della Sezione (o del Presidente della Corte di cassazione, nel caso del giudizio a Sezioni riunite), diverso, però, da quello impostato sulle tabelle e, quindi, non interamente determinativo della nomina.

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Stante questa varietà di situazioni, nel cercare e far valere il parallelismo con il processo civile, è da cercare e far valere quello con fattispecie corrispondenti a quelle che si presentano nel processo amministrativo, quali quella del relatore nel giudizio di appello (sia del rito ordinario, sia di quello del lavoro), rispetto al Collegio situato in rapporto del tutto simile a quello in cui si situa il relatore nel processo amministrativo. E’, invece, da evitare il riferimento a fattispecie processuali prive di corrispondenza con quelle che si presentano nel processo amministrativo, e cioè a quelle proprie del processo ordinario di primo grado riguardanti la nomina del relatore (la assimilazione del processo amministrativo, in specie quello dinnanzi al Consiglio di Stato, con quello ordinario di primo grado non è proponibile e, probabilmente, non è neanche da cercare). Nel processo amministrativo, la attribuzione dell’incarico di relatore non è fatto che costituisce il Collegio giudicante. La composizione del Collegio giudicante resta, quindi, identica, sia che il relatore ci sia, o che non ci sia, sia essa che resti immutata, sia che essa cambi. Volendo completare questo aspetto, della mancanza di elementi per dare al compito del relatore nel processo amministrativo una qualificazione specifica dal punto di vista dell’esercizio della funzione giurisdizionale, si cita innanzitutto la sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 1989, la quale, riguardo il regime della responsabilità dei magistrati, ha escluso che nel processo amministrativo il relatore rivesta una posizione ed un ruolo differenziato rispetto a quello degli altri membri del Collegio che pronuncia la sentenza, pur riconoscendo la probabilità di una conoscenza degli atti da parte di questo maggiore rispetto a quella degli altri membri del Collegio. Si avanza, inoltre la ipotesi che la concezione opposta (latente nella sentenza) di una specifica qualificazione della attività del relatore, sia conseguenza di una persistenza della configurazione del relatore come “giudice istruttore”, che stava affermandosi nella prima stesura del Cod. proc. amm., ma che poi non si è concretata nel testo definitivo (al riguardo e in particolare sull’abbandono del ricorso a tale figura, v. R. CHIEPPA, Il processo amministrativo dopo il

correttivo al Codice, Milano, 2012, 427). In sintesi, né è provvedimento giurisdizionale la scelta del relatore, né è provvedimento giurisdizionale (o semplicemente attività di giudizio e, quindi, di giudice) il riferire al Collegio da parte del relatore.. Assodato che il designare il relatore è al di fuori della funzione di giudizio, anche a ragione del suo risultato, giacché non porta ad individuare un “giudice” o titolare di una specifica funzione giurisdizionale (ed è piuttosto da assumere come una attività materialmente amministrativa servente al processo), completando quello che si era rappresentato al precedente punto C, si afferma che è del tutto giustificato sottrarsi dal dare al verbo “designare” il significato che possiede nella disciplina del processo civile e viceversa attribuire ad esso il significato che possiede nel diritto amministrativo sostanziale.

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E. Un quinto elemento della sentenza pure importante, seppure accennato, è quello contenuto al punto 3.5, laddove ammette un esercizio del potere di scelta da parte del Presidente anticipato rispetto alla estrazione a sorte. Può dirsi che ciò adombri una impostazione alternativa della procedura di nomina del relatore, nella quale la scelta del Presidente si colloca in un momento anteriore rispetto alla determinazione finale, in conformità al suo carattere di proposta o, se si vuole, di predeterminazione. Nella sentenza lo spunto non è sviluppato, ma si potrebbe prospettare in alternativa alla soluzione del sorteggio preventivo seguito dalla nomina formale da parte del Presidente, la soluzione di una scelta iniziale, eventualmente multipla, da parte del Presidente, seguita dal meccanismo successivo di garanzia di una deliberazione eventualmente in forma implicita da parte del Collegio e di un sorteggio tra più scelte alternative (al riguardo si richiama l’interessante saggio di G. SCARSELLI, Il sistema tabellare visto da un laico, in Riv. dir. processuale, 2014, 93 e ss, nel quale è prospettata la possibilità di contestare la nomina del relatore entro la prima udienza). G. Un sesto elemento della sentenza che si vuole sottolineare è costituito dai molteplici passaggi nei quali si afferma un parziale potere di scelta da parte del Presidente della Sezione. Difficile è, però, trovare una conciliazione con il sistema del sorteggio, il quale si snatura se subisce eccezioni successive al suo esito, giacché di ognuna può dirsi che è stata una voluta sottrazione alla casualità che è insita in esso e costituisce la ragione principale per cui esso è stato adottato. Resta che comunque sia compiuta la individuazione del relatore e, cioè, se interamente in base al sorteggio o se in parte in base ad esso ed in altra secondo le scelte del Presidente del Collegio, per come sono configurati i poteri del Collegio nel processo amministrativo, c’è sempre un’ ultima parola a disposizione del Collegio (che evidentemente fa apparire eccessive alcune delle preoccupazioni che hanno dettato la soluzione del sorteggio). 4. - Non ci si soffermerà a lungo sulle possibili conseguenze future della applicazione della disposizione sottratta all’annullamento. Ciò è affidato alle capacità di previsione di ognuno. Si è detto poche righe sopra che è possibile una interpretazione riduttiva della disposizione, nel senso di conservare uno spazio di scelta da parte del Presidente della Sezione, come di considerare l’esito del sorteggio (e la scelta del Presidente) superabile da una qualsiasi deliberazione o determinazione del Collegio. Esiste, però, anche la probabilità paventata nei motivi di ricorso riguardati dal punto 5.1.1 della sentenza, che la articolazione di passaggi per la nomina del relatore si risolva in aggravio della procedura di incardinamento del giudizio. Sicuramente le operazioni di sorteggio sono una attività aggiuntiva rispetto a

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quelle funzionali alla instaurazione e preparazione del giudizio, nel processo amministrativo tradizionalmente piuttosto semplici e snelle. La circostanza che essa possa considerarsi minima e irrilevante (anche economicamente) è escluso dalla consolidata operatività, per le assegnazioni ai magistrati ordinari, di un apposito sistema informativo denominato “valeri@”. Si considera ulteriormente che esse vanno ad aggiungersi ai diversi compiti di adozione di misure di smaltimento dell’arretrato e di gestione dei processi, contribuendo al formalizzarsi di una funzione giuridicamente rilevante di programmazione e direzione del lavoro giurisdizionale, suscettibile di costituire oggetto di autonoma valutazione e di riferimento per puntuali, specifici requisiti per l’accesso alla presidenza dei diversi uffici giurisdizionali (v. al riguardo F. ANCORA, Legge di stabilità: un aggravio di costi per il processo

amministrativo in Giurisdiz. amm., 2012, IV, 321 e ss., nonché le puntuali osservazioni di G. SCARSELLI, op. e loc. cit.), con questo facilitando la subordinazione degli sviluppi di carriera dei magistrati amministrativi alla soddisfazione di requisiti di valutazione solo soggettiva più o meno riservata, in una con la trasformazione del rapporto di presidenza con quello diverso di dirigenza e, quindi, del Presidente della Sezione in Dirigente (o Capo che dir si voglia) dell’ufficio della Sezione (per i presupposti teorici di questa distinzione, v. A ROMEO, op. cit., 33 e ss.). Infine si considera che il meccanismo del sorteggio, ove adottato in modo esclusivo, finisce per creare attorno al relatore un alone di specificità nell’esercizio delle sue funzioni rispetto agli altri membri del Collegio. Per un processo di inversione dell’effetto con la causa, del tutto frequente nel modo del diritto, spesso, infatti, si verifica che le garanzie e le tutele che circondano la acquisizione di una qualifica o di un compito vanno a dare una particolare connotazione di particolare importanza all’una come all’altro. Così ben può essere per la attribuzione del compito di relatore, nel senso che le garanzie nella individuazione dello stesso, che si prospettano come giustificate dalla specificità del suo compito (invece non rilevante giuridicamente), possono diventare giustificazione e causa di una specificità di posizione e di funzione, altrimenti non esistenti. Il problema è che in questo modo la collegialità della decisione giurisdizionale si sminuisce e la sentenza appare e diventa sempre di più risultato dell’opera di un relatore operante nell’ambito di un Collegio sempre più fidente, se non sulla esattezza, almeno sulla immunità da parzialità delle conclusioni di questi, in quanto scelto con le garanzie del sorteggio.

Felice ANCORA