4. MALINOWSKI E IL FUNZIONALISMO · finale che l’antropologo non dovrà mai perdere di vista...

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F. Garimoldi – Dispense di storia dell’antropologia 4 – Malinowski 23 4. MALINOWSKI E IL FUNZIONALISMO Malinowski fu l’iniziatore dell’osservazione partecipante in antropologia, un metodo di studio da lui stesso denominato in tal modo, che lo rese celebre presso il vasto pubblico dei non addetti ai lavori e fu in seguito adottato anche dalla sociologia. Per capire quale fosse l’impor- tanza, e la novità, di tale approccio occorre fare un passo indietro. Per tutto il XIX secolo la figura dell’antropologo si mantenne ben distinta da quella dello etnografo: mentre questi si occupava della raccolta dei dati, anche ricorrendo a mediatori o a questionari fatti compilare per interposta persona da gente che si trovava sul luogo dell’indagine, all’antropologo spettava il compito dell’elaborazione teorica; quasi sempre era un accademico che studiava popoli lontani senza mai spostarsi dal suo studio all’Università. Il problema era che spesso i collaboratori degli etnografi che si trovavano sul posto, ammi- nistratori locali o commercianti che entravano in contatto con le comunità indigene per i loro affari privati, mal si adattavano alle richieste dei ricercatori, e nella maggior parte dei casi portavano a termine il compito loro assegnato senza una vera comprensione degli scopi e dello spirito della ricerca, il che minava alla radice l’attendibilità dei dati raccolti. Preziosi informatori degli studiosi furono invece i missionari, in grado di fornire notizie dettagliate sulle culture locali grazie alla loro conoscenza diretta delle popolazioni. Tuttavia anche questa fonte di informazioni presentava degli svantaggi: lo scopo dei religiosi non era infatti scientifico, ma il loro intento era primariamente quello di evangelizzare, e per conseguirlo non esitavano a introdurre elementi nuovi nelle culture indigene, alterando le loro originarie strutture di significati. Di fronte a queste difficoltà, alla fine dell’800 crebbe fra gli studiosi l’esigenza di fronteggiare la «concorrenza» dei missionari raccogliendo notizie di prima mano, attraverso ricerche condotte direttamente sul campo che si avvalessero di procedure scientifiche e di metodi oggettivi per la raccolta dei dati. La prima spedizione condotta secondo questi principi fu quella allo Stretto di Torres, il braccio di mare che separa l’Australia dalla Nuova Guinea, promossa dall’Università di Cambridge nel 1898-99 e diretta da un biologo, Alfred Cost Haddon, che si era appassionato alle possibilità di contatto con i nativi e ai temi della ricerca etnologica nel corso di un precedente viaggio in quelle zone per ricerche sulla biologia marina. La spedizione ebbe un successo straordinario sia per le collezioni di oggetti raccolte sia per il riconoscimento che l’antropologia ebbe fra gli accademici e presso il grande pubblico; essa rappresentò inoltre una tappa fondamentale nella storia della disciplina perché da quel momento in poi si capì l’importanza di condurre ricerche sul campo, soggiornando a diretto contatto con i nativi e imparandone la lingua, requisito indispensabile per entrare in sintonia con la loro cultura.

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F. Garimoldi – Dispense di storia dell’antropologia 4 – Malinowski

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4. MALINOWSKI E IL FUNZIONALISMO

Malinowski fu l’iniziatore dell’osservazione partecipante in antropologia, un metodo di

studio da lui stesso denominato in tal modo, che lo rese celebre presso il vasto pubblico dei non

addetti ai lavori e fu in seguito adottato anche dalla sociologia. Per capire quale fosse l’impor-

tanza, e la novità, di tale approccio occorre fare un passo indietro.

Per tutto il XIX secolo la figura dell’antropologo si mantenne ben distinta da quella dello

etnografo: mentre questi si occupava della raccolta dei dati, anche ricorrendo a mediatori o a

questionari fatti compilare per interposta persona da gente che si trovava sul luogo dell’indagine,

all’antropologo spettava il compito dell’elaborazione teorica; quasi sempre era un accademico che

studiava popoli lontani senza mai spostarsi dal suo studio all’Università.

Il problema era che spesso i collaboratori degli etnografi che si trovavano sul posto, ammi-

nistratori locali o commercianti che entravano in contatto con le comunità indigene per i loro affari

privati, mal si adattavano alle richieste dei ricercatori, e nella maggior parte dei casi portavano a

termine il compito loro assegnato senza una vera comprensione degli scopi e dello spirito della

ricerca, il che minava alla radice l’attendibilità dei dati raccolti.

Preziosi informatori degli studiosi furono invece i missionari, in grado di fornire notizie

dettagliate sulle culture locali grazie alla loro conoscenza diretta delle popolazioni. Tuttavia anche

questa fonte di informazioni presentava degli svantaggi: lo scopo dei religiosi non era infatti

scientifico, ma il loro intento era primariamente quello di evangelizzare, e per conseguirlo non

esitavano a introdurre elementi nuovi nelle culture indigene, alterando le loro originarie strutture di

significati.

Di fronte a queste difficoltà, alla fine dell’800 crebbe fra gli studiosi l’esigenza di

fronteggiare la «concorrenza» dei missionari raccogliendo notizie di prima mano, attraverso

ricerche condotte direttamente sul campo che si avvalessero di procedure scientifiche e di metodi

oggettivi per la raccolta dei dati.

La prima spedizione condotta secondo questi principi fu quella

allo Stretto di Torres, il braccio di mare che separa l’Australia dalla

Nuova Guinea, promossa dall’Università di Cambridge nel 1898-99 e

diretta da un biologo, Alfred Cost Haddon, che si era appassionato alle

possibilità di contatto con i nativi e ai temi della ricerca etnologica nel

corso di un precedente viaggio in quelle zone per ricerche sulla

biologia marina. La spedizione ebbe un successo straordinario sia per

le collezioni di oggetti raccolte sia per il riconoscimento che

l’antropologia ebbe fra gli accademici e presso il grande pubblico; essa

rappresentò inoltre una tappa fondamentale nella storia della disciplina perché da quel momento in

poi si capì l’importanza di condurre ricerche sul campo, soggiornando a diretto contatto con i

nativi e imparandone la lingua, requisito indispensabile per entrare in sintonia con la loro cultura.

F. Garimoldi – Dispense di storia dell’antropologia 4 – Malinowski

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Bronislaw MALINOWSKI

Bronislaw Malinowski (1884-1942) «era polacco, ma aveva studiato antropologia a Londra e

nel 1914 si era recato a Melbourne per un congresso. Era cittadino dell’impero austro-ungarico, e

quindi un “nemico” quando lo scoppio della prima guerra mondiale lo sorprese in Australia.

Malinowski avrebbe dovuto essere internato dalle autorità australiane, ma fu lasciato libero di

compiere ricerche, prima in Nuova Guinea e poi più a est, nelle Isole Trobriand, in Melanesia»22

.

Soggiornò a lungo presso queste popolazioni, studiandone l’organizzazione sociale ed economica,

le credenze e i miti, imparò la lingua ed entrò con loro in un rapporto empatico che gli consentì di

cogliere il loro punto di vista sul mondo, giacché – come scrive lo stesso Malinowski – «l’obiettivo

finale che l’antropologo non dovrà mai perdere di vista (...) è, in breve, quello di afferrare il punto

di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita, di rendersi conto della sua visione del mondo»23

.

Questo obiettivo sarebbe stato perseguibile solo se lo studioso si fosse immerso, per così dire,

nella cultura indigena, solo se invece di limitarsi ad osservarla con lo sguardo distaccato del turista

fosse per un certo tempo divenuto lui stesso parte di quella cultura, se avesse appunto partecipato

ad essa, condividendo con gli indigeni tutti gli aspetti della loro vita quotidiana. Ciò è appunto

quello che Malinowski aveva in mente quando parlava di osservazione partecipante e quanto

egli stesso realizzò in prima persona24

:

Nella prima parte della mia ricerca etnografica sulla costa meridionale, fu soltanto quando fui solo

nel distretto che cominciai a fare qualche progresso e, in ogni caso, scoprii dove stava il segreto di un

efficiente lavoro sul terreno.

Cos’è dunque questa magia dell’etnografo, con la quale egli può evocare lo spirito autentico degli

indigeni, la vera immagine della vita tribale?

Come sempre, il successo può essere ottenuto solo mediante l’applicazione paziente e sistematica di

un certo numero di regole di buon senso e di principi scientifici ben noti, e non mediante la scoperta di

qualcosa di prodigioso che conduce d’un colpo ai risultati desiderati senza sforzo e senza difficoltà.

I principi metodologici possono essere riuniti in tre categorie principali: innanzi tutto, naturalmente,

lo studioso deve possedere reali obiettivi scientifici e conoscere i valori e i criteri della moderna etnografia;

in secondo luogo deve mettersi in condizioni buone per lavorare, cioè, soprattutto, vivere senza altri

uomini bianchi, proprio in mezzo agli indigeni. Infine deve applicare un certo numero di metodi particolari

per raccogliere, elaborare e definire le proprie testimonianze.

Poche parole vanno dette su queste tre pietre angolari del lavoro sul terreno, cominciando dalla

seconda che è la più elementare.

Condizioni appropriate per il lavoro etnografico.

Queste, come abbiamo già detto, consistono principalmente nel tagliarsi fuori dalla compagnia di

altri uomini bianchi e nel restare in contatto il più stretto possibile con gli indigeni, ciò che può veramente

ottenersi solo stabilendosi nei loro villaggi (...).

Vi è una bella differenza fra uno sporadico tuffo in mezzo alla comunità degli indigeni e l’essere

effettivamente in contatto con loro. Che cosa significa quest’ultimo caso? Per l’etnografo significa che la

sua vita nel villaggio, che è dapprima una strana avventura, a volte spiacevole, a volte profondamente

interessante, presto prende un ritmo abbastanza naturale che è in piena armonia con l’ambiente circostante.

Poco dopo che mi ero stabilito a Omarakana (isole Trobriand), cominciai a prendere parte, in certo

qual modo, alla vita del villaggio, a pensare in anticipo agli eventi importanti o a quelli festivi, a prendere

interesse personale ai pettegolezzi e agli sviluppi dei piccoli avvenimenti del villaggio, ad aprire gli occhi

tutte le mattine su una giornata che mi si presentava più o meno come agli indigeni.

Uscivo da sotto la mia zanzariera per trovare intorno a me la vita del villaggio che cominciava ad

22

U. Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna 2001, p. 99. 23

B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, Roma 1973, pp. 48-49. 24

Ibid., pp. 31-35, passim.

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animarsi o la gente già innanzi con la sua giornata di lavoro, a seconda dell’ora e anche della stagione,

poiché gli indigeni si alzano e iniziano a lavorare presto o tardi a seconda di come urge il lavoro.

Procedendo nella mia passeggiata attraverso il villaggio, potevo vedere i più intimi particolari della

vita familiare, della toeletta, della cucina e dei pasti; potevo vedere i preparativi per il lavoro quotidiano, la

gente che partiva per i suoi affari o i gruppi di uomini e di donne intenti a fabbricare qualcosa. Litigi,

scherzi, scene familiari, eventi di solito banali, a volte drammatici, ma sempre significativi, formavano

l’atmosfera della mia vita quotidiana come della loro.

Va ricordato che gli indigeni, a forza di vedermi tutti i giorni, smisero di essere interessati, allarmati

o anche imbarazzati della mia presenza, e io smisi di essere un elemento di disturbo nella vita tribale che

dovevo studiare, che la alterava per il fatto stesso di accostarvisi, come accade sempre con un nuovo

arrivato in qualunque comunità di selvaggi. Infatti, quando si resero conto che volevo ficcare il naso

dappertutto, anche dove un indigeno ben educato non si sarebbe mai sognato di impicciarsi, essi finirono

per considerarmi come parte e porzione della loro vita, un male necessario o una seccatura, mitigata dalle

elargizioni di tabacco.

Più avanti nella giornata, qualsiasi cosa accadesse era a breve distanza e non vi era nessuna

possibilità che sfuggisse alla mia attenzione.

L’agitazione per l’avvicinarsi dello stregone verso sera, una o due grosse liti veramente importanti

che spaccavano in due la comunità, i casi di malattia, le cure tentate e i decessi, i riti magici che si

dovevano eseguire: a tutte queste cose non dovevo star dietro, spaventato di perderle, perché avevano

luogo proprio sotto i miei occhi, davanti alla mia porta, per così dire.

E’ da sottolineare che ogni volta che si verifica qualcosa di drammatico e di importante è essenziale

indagarvi nello stesso momento in cui accade, perché allora gli indigeni non possono fare a meno di

parlarne, sono troppo eccitati per essere reticenti e troppo interessati per essere pigri nel fornire dettagli.

Più e più volte ho commesso infrazioni all’etichetta che gli indigeni, abbastanza in confidenza con

me, furono pronti a farmi rilevare.

Dovevo imparare come comportarmi, e in certa misura acquistai la «sensibilità» per le buone e le

cattive maniere indigene. Con questa e con la capacità di provare piacere in loro compagnia e di dividere

alcuni dei loro giochi e dei loro divertimenti, cominciai ad avere la sensazione di essere veramente in

rapporto con gli indigeni: e questa è certamente la condizione preliminare per essere in grado di portare a

termine il lavoro sul «terreno».

Dalle parole di Malinowski si comprendono i vantaggi dell’osservazione partecipante rispetto

ad altri metodi di studio: innanzitutto la lunga permanenza presso la popolazione studiata crea le

condizioni per l’instaurarsi di rapporti confidenziali e di una familiarità con gli indigeni che

sarebbe impensabile altrimenti. A loro volta confidenza e familiarità consentono al ricercatore di

essere accettato benevolmente come osservatore delle dinamiche della vita quotidiana, il che

significa che le persone osservate, essendosi abituate alla sua presenza, non si sentono a disagio e,

verosimilmente, si comportano con naturalezza.

L’antropologo sembra poter conseguire in tal

modo l’obiettivo principale del suo lavoro: racco-

gliere dati sulla cultura indigena senza introdurre

in essa alterazioni e farsi così un quadro oggettivo

della vita sociale del popolo studiato.

Nonostante i pregi di questa metodologia di

lavoro, Malinowski era ben consapevole anche

delle difficoltà che essa comportava. A parte i

problemi di natura familiare o psicologica che

doveva affrontare il ricercatore quando decideva

di intraprendere un simile studio, che avrebbe

richiesto il suo allontanamento da casa e

l’interruzione di tutte le sue relazioni sociali per

Bronislaw Malinowski alle Isole Trobriand.

F. Garimoldi – Dispense di storia dell’antropologia 4 – Malinowski

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mesi, se non per anni, una difficoltà notevole, almeno nel primo periodo di permanenza presso la

popolazione, era rappresentata dalla lingua. Nei primi tempi, non conoscendo la lingua del posto,

l’etnografo doveva cercarsi degli interpreti che facessero per lui da traduttori e da mediatori delle

esperienze indigene. Oltre alla difficoltà di trovare in loco persone in grado di svolgere tale

compito, un altro problema riguardava la loro affidabilità e la bontà delle traduzioni; inoltre la

presenza di un mediatore non dava garanzie circa l’oggettività dei dati raccolti, perché

l’interpretazione del mediatore, per quanto in buona fede, si interponeva fra la testimonianza

diretta e la comprensione dell’antropologo.

Un ulteriore problema era rappresentato dal grado di immedesimazione dello studioso nella

realtà culturale analizzata. Se la vita in mezzo agli indigeni consentiva il «decentramento»

dell’antropologo, rendendogli più agevole l’abbandono dei pregiudizi propri della cultura

d’origine, d’altra parte egli correva il rischio opposto, quello di immedesimarsi con la popolazione

studiata al punto da perdere di vista i propri scopi di ricercatore e da adottare integralmente il

punto di vista indigeno25

. La difficoltà, di cui Malinowski fu ben consapevole, consisteva dunque

nel cercare continuamente il giusto equilibrio fra due estremi opposti: fra un’osservazione

distaccata che non riesce a comprendere perché resta fondamentalmente estranea al proprio

oggetto, imbrigliata in una prospettiva etnocentrica che è quella della cultura in cui lo studioso si è

formato, e un’adesione incondizionata alla cultura «altra», ugualmente parziale e pertanto

ugualmente poco rispondente ai criteri di scientificità di una conoscenza oggettiva.

Al suo rientro in Europa, dopo la fine della guerra, Malinowski fu professore alla London

School of Economics; in questi anni, e prima di trasferirsi negli Stati Uniti (1938), pubblicò

diverse monografie dedicate al popolo delle Isole Trobriand. La prima di queste è il famoso

Argonauti del Pacifico occidentale, del 1922, in cui l’autore partiva dall’analisi di un aspetto

particolare della cultura melanesiana, per poi allargarsi alla considerazione di tutti gli altri.

Nel caso specifico, il tema centrale del libro è costituito da una speciale forma di scambio di

beni che veniva effettuato fra tribù diverse residenti in un

ampio cerchio di isole situate a Nord-Est della Nuova

Guinea: il cosiddetto Cerimoniale kula.

Lungo questa strada viaggiano continuamente articoli di due

specie, e solo di queste due specie. Uno di questi due tipi di

oggetti, delle lunghe collane di conchiglie rosse chiamate

soulava, si muove sempre nel senso delle lancette dell’orologio,

l’altro tipo, dei braccialetti di conchiglia bianca chiamati mwali,

si muove nella direzione opposta. Ciascuno di questi due oggetti,

viaggiando nella propria direzione lungo il circuito chiuso,

incontra sulla sua strada oggetti dell’altra categoria con cui viene

continuamente scambiato. Ogni spostamento degli oggetti kula,

ogni particolare delle transazioni è fissato e regolato da una serie

di norme e di convenzioni tradizionali e alcuni atti del kula sono

accompagnati da un elaborato rituale magico e da cerimonie

pubbliche26

.

25

A proposito del rischio di eccedere nell’immedesimazione con il gruppo studiato si ricordi la celebre ricerca del

sociologo William F. White fra gli italiani di Boston negli anni Trenta del ‘900. In quell’occasione White arrivò a

partecipare alla vita degli abitanti del quartiere con tale impegno da desiderare la loro ammirazione e al punto da farsi

coinvolgere in prima persona nelle loro dispute interne. Di se stesso ebbe a dire che per evitare di essere un «osservatore

non partecipante» stava, all’opposto, trasformandosi in un «partecipante che non osserva». 26

B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, Roma 1973, p. 100.

L’anello dello scambio kula.

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Accanto allo scambio rituale del kula, che comporta la circolazione di questi due tipi di

oggetti fra tribù sparse in un raggio di duecento miglia, avviene, al momento dell’incontro fra i

diversi gruppi, un «commercio ordinario» di beni utili e di necessità quotidiana, ma non reperibili

ovunque. Questo fatto ci permette di incominciare a capire cosa voglia dire

che Malinowski sia partito dall’analisi di un fenomeno particolare per

allargarsi alla considerazione della società nel suo insieme. Lo si capisce

ancor meglio, poi, se si considera che questi periodici contatti fra le isole

richiedevano la costruzione di piroghe adatte a viaggiare in alto mare, e

quindi lo sviluppo di conoscenze specifiche circa i materiali da impiegare e

le tecniche di lavorazione. Legati a questi viaggi vi erano inoltre una serie di

riti propiziatori per favorire la traversata. Lo scambio kula può essere inteso

dunque come fenomeno culturale emblematico, a partire dal quale le diverse dimensioni di una

cultura ci si offrono concatenate le une alle altre.

Il discorso si amplia ulteriormente se si considera anche il significato sociologico del

cerimoniale kula e le sue finalità. Fra queste, la principale sembra quella di rinsaldare i legami fra

tribù diverse, il che avviene certamente attraverso lo scambio di oggetti materiali, ma anche

attraverso la diffusione di costumi, canti e influenze culturali in genere. Da non dimenticare è il

valore simbolico dei «pezzi kula» che sono appartenuti a figure importanti e hanno stretto legami

fra gruppi diversi; il loro valore deriva dalla carica simbolica accumulata nel corso della loro

storia, che accresce il piacere di possederli nello stesso momento in cui, attraverso il ricordo di

personaggi e vicende memorabili, contribuisce a consolidare il legame fra tribù diverse.

In un testo pubblicato alcuni anni più tardi, Diritto e costume nella società primitiva (1926),

Malinowski si concentra sul principio di reciprocità, che a suo parere costituisce uno degli assi

portanti dell’organizzazione sociale della cultura trobriandese e di tutte le società «primitive». Si

tratterebbe di un principio ordinatore, capace di strutturare l’agire sociale determinando i

comportamenti degli individui, pur in assenza di codici normativi formalizzati. Scrive Malinowski:

[Nelle società primitive] il diritto non è contenuto in uno speciale sistema di decreti (...) il diritto è il

risultato specifico della configurazione di obblighi che rende impossibile all’indigeno di sottrarsi alla

propria responsabilità senza subirne in futuro le conseguenze27

.

L’importanza del principio di reciprocità per spiegare le dinamiche delle società tribali era

sottolineata anche, come si è visto, da Mauss (teoria del dono) e verrà ripresa in seguito da Lévi-

Strauss.

IL FUNZIONALISMO

La modalità con cui Malinowski affronta l’analisi della cultura melanesiana ci introduce al

funzionalismo, una delle teorie antropologiche e sociologiche più importanti del ‘900, di cui

Malinowski fu uno dei massimi rappresentanti.

A differenza delle teorie antropologiche precedenti, non si tratta più di spiegare le strutture di

una certa società e i suoi fenomeni culturali ricorrendo alla loro origine storica e riconoscendone la

peculiarità geografica ed epocale; il problema diventa piuttosto quello di analizzare la funzione di

tali fenomeni culturali nell’ambito del complesso della società di cui fanno parte, cioè di indagare

qual è il loro contributo alla complessione sociale dell’insieme e come sono reciprocamente

27

B. Malinowski, Diritto e costume nella società primitiva, Roma 1972, p. 94.

Bracciale mwali.

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interconnessi. La cultura, oggetto di studio dell’antropologo, viene concepita con una prospettiva

di tipo olistico, vale a dire come un tutto (gr. όλος) costituito da parti fra loro correlate in senso

funzionale. Essa consisterebbe dunque in un insieme di pratiche e comportamenti fra loro integrati,

tendenti al mantenimento dell’equilibrio in vista del funzionamento della società nel suo insieme.

In Teoria scientifica della cultura, del 1941, Malinowski presenta un’ulteriore definizione di

cultura, che apre a una considerazione più ampia, in cui le diverse manifestazioni sociali sono

esaminate anche in rapporto all’ambiente naturale entro il quale sono sorte. L’importanza

dell’ambiente è motivata dalla considerazione che in qualche modo tutte le manifestazioni culturali

sarebbero soluzioni elaborate dall’uomo come risposta alla necessità di adattarsi all’ambiente.

Nelle parole di Malinowski la cultura sarebbe allora:

Il tutto integrale consistente degli strumenti e dei beni di consumo, delle carte costituzionali per i vari

raggruppamenti sociali, delle idee e delle arti, delle idee e dei costumi. Sia che noi consideriamo una

cultura molto semplice o primitiva o una cultura estremamente complessa o sviluppata, noi ci

troviamo di fronte a un vasto apparato, in parte materiale, in parte umano e in parte spirituale con cui

l’uomo può venire a capo dei concreti, specifici problemi che gli stanno di fronte. Questi problemi

sorgono dal fatto che l’uomo ha un corpo soggetto a vari bisogni organici e vive in un ambiente che è

il suo miglior amico giacché fornisce i materiali grezzi del lavoro umano, e anche il suo nemico più

pericoloso poiché alberga molte forze ostili. (...)

L’analisi ora delineata, in cui noi tentiamo di definire la relazione fra un’azione culturale e un bisogno

umano, fondamentale o derivato, può essere chiamata funzionale28

.

Ritroviamo in queste parole la definizione di cultura proposta da Tylor (cultura come un

«tutto integrale») declinata nel senso di un «apparato strumentale», che consiste di beni in parte

materiali e in parte spirituali (idee, credenze, visioni del mondo) predisposti dell’uomo per far

fronte alle necessità imposte dall’ambiente esterno. Per cui: analisi di una cultura vorrà dire analisi

delle modalità con cui l’uomo ha risposto a tali bisogni e, nello specifico, i singoli fenomeni

culturali saranno interpretabili «in funzione» delle risposte che sono in grado di offrire.

Alfred R. RADCLIFFE-BROWN

Dal 1938, l’anno in cui Malinowski si trasferisce a Yale negli Stati Uniti, Alfred. R.

Radcliffe-Brown (1981-1955) diventa il principale punto di riferimento degli antropologi inglesi.

Con un’impostazione che risente ancora della cultura positivista ottocentesca e per certi aspetti è

affine a quella di Durkheim in sociologia, Radcliffe-Brown definisce l’indirizzo «sociale»

dell’antropologia, che sarà dominante in Gran Bretagna fino agli anni Sessanta del XX secolo.

Egli concepisce questa disciplina come «antropologia sociale» (così intende definirla) o

«scienza naturale della società»29

:

[Lo] studio storico della cultura ci fornisce solo una vaga conoscenza degli eventi e del loro ordine

di successione. Esiste però un altro tipo di ricerca che proporrei di definire «induttiva», dal momento che

per intenti e metodi è in tutto analoga a quella caratteristica delle scienze naturali o induttive (...).

La scienza induttiva ha raggiunto la padronanza su tutti i regni della natura, uno dopo l’altro: prima

di tutto essa ha scoperto e spiegato i movimenti delle stelle e dei pianeti e i fenomeni fisici del mondo che

ci circonda; poi le reazioni chimiche delle sostanze che compongono il nostro universo; poi vennero le

scienze biologiche che permisero la scoperta delle leggi generali che governano le reazioni della materia

28

B. Malinowski, Teoria scientifica della cultura, Milano 1971, pp. 44 e 46. 29

A. R. Radcliffe-Brown, I metodi dell’etnologia e dell’antropologia sociale, in Id., Il metodo dell’antropologia

sociale, Roma 1973, pp. 29-32.

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vivente; infine nel secolo scorso gli stessi metodi induttivi sono stati applicati alle operazioni che

riguardano la mente dell’uomo. Ai ricercatori dell’epoca nostra spetta il compito di applicare questi

metodi ai fenomeni della cultura e della civiltà, alle leggi, alla morale, all’arte, alla lingua, e ad ogni tipo

di istituzioni sociali.

Ci troviamo dunque di fronte a questi due metodi di ricerca, il cui modo di procedere nei riguardi

dei fatti della cultura è ben diverso. E considerata la differenza sia quanto ai risultati cui tendono, sia

quanto al metodo logico con il quale si propongono di raggiungere quei risultati, ci sembra opportuno

considerarli come studi distinti, benché indubbiamente siano connessi tra loro, e conferire loro nomi

differenti. (...) Proporrei di adottare il termine etnologia per lo studio della cultura secondo il metodo della

ricostruzione storica descritto sopra, e di adottare il termine antropologia sociale per le ricerche che

mirano a determinare le regole generali a cui soggiacciono i fenomeni della cultura. Penso, dando questo

suggerimento, di non far altro che, in realtà, rendere esplicita una distinzione già implicita nella maggior

parte dei casi in cui i termini vengono usati correntemente.

L’intento è chiaro: rafforzare la vocazione scientifica dell’antropologia facendole adottare il

metodo induttivo impiegato dalle scienze naturali. «Io concepisco – scrive Radcliffe-Brown –

l’antropologia sociale come la parte teorica della scienza naturale della società umana, cioè

l’indagine dei fenomeni sociali con metodi sostanzialmente simili a quelli usati nelle scienze

fisiche e biologiche»30

.

Una volta definita, nel nome e nel metodo, come «antropologia sociale», la disciplina che

studia popoli e culture potrà indagare «le regole generali, cui soggiacciono i fenomeni della

cultura», vale a dire i meccanismi fondamentali su cui si regge il funzionamento delle società

umane. Si tratta di individuare le strutture sociali, vale a dire le regole, le leggi, le ricorrenze, gli

aspetti formalizzati del comportamento che caratterizzano una cultura identificando la trama dei

rapporti esistenti fra gruppi e fra individui e gruppi all’interno della società.

Per questi motivi, con Radcliffe-Brown la prospettiva con cui si guarda alla cultura è

descrivibile come «funzionalismo strutturale»: del funzionalismo condivide l’idea che la società

consista in un insieme coordinato di attività, come un organismo vivente in cui ogni parte ha una

sua funzione determinata, necessaria alla preservazione del tutto (e in ciò vi è affinità con il

funzionalismo «ristretto» di Malinowski), mentre se ne discosta nei suoi obiettivi.

L’antropologia sociale di Radcliffe-Brown non si sofferma infatti su un’analisi dei significati

dei singoli fenomeni culturali, il che richiede costantemente il confronto con le interpretazioni

fornite dagli individui, ma intende assumere il punto di vista più generale delle strutture che

reggono le comunità umane, e guarda alle società in modo più impersonale, trascurando l’apporto

degli individui che ne sono parte. Si riconosce una reciproca interdipendenza fra i concetti di

funzione e di struttura: se in un tutto organico, quale di fatto la società è, ogni parte ha una sua

specifica funzione per garantire l’equilibrio generale, l’insieme delle parti costituisce una struttura

definita, le cui caratteristiche determinanti si impongono sui singoli individui orientandone visione

del mondo e comportamenti (si veda, molto forte, l’influenza della concezione dukheimiana dei

«fatti sociali»). Scrive Radcliffe-Brown31

:

Le strutture sociali sono altrettanto reali che i singoli organismi. Un organismo complesso è un

insieme di cellule viventi e di fluidi interstiziali aventi una certa struttura; una cellula vivente a sua

volta costituisce la struttura di molecole complesse. I fenomeni fisiologici e psicologici che

osserviamo nella vita degli organismi non sono semplicemente il risultato della natura delle molecole

o degli atomi che costituiscono l’organismo, ma sono il risultato della struttura entro la quale sono

30

A. R. Radcliffe-Brown, La struttura sociale, in Id., Struttura e funzione nella società primitiva, Milano 1968, p. 23.

Si ricordi, a tale proposito, la teoria dei tre stadi di A. Comte, cui il passo citato precedentemente ci richiama anche per

la successione delle discipline che, storicamente, hanno assunto dignità scientifica. 31

Ibid., p. 25.

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riuniti. La stessa cosa vale per i fenomeni sociali che si osservano in qualsiasi società umana; essi non

sono il risultato immediato della natura degli individui, ma sono il risultato della struttura sociale che

li unisce.

Lo studio delle strutture costituirà quindi l’obiettivo primario dell’antropologo; accanto al

metodo induttivo egli utilizzerà quello comparativo, per tracciare parallelismi o individuare

opposizioni fra differenti modelli strutturali in società diverse.

Edward E. EVANS-PRITCHARD

Continuatore dello struttural-funzionalismo, Edward E. Evans-Pritchard (1902-1973) è una

figura significativa per la storia dell’antropologia perché introdusse importanti innovazioni

precorrendo problematiche e impostazioni metodologiche che saranno tipiche della seconda metà

del ’900.

Negli anni Trenta svolse delle ricerche presso i Nuer, una popolazione di agricoltori e

allevatori di bovini che viveva nel Sudan meridionale. Si concentrò principalmente sull’analisi dei

rapporti di parentela e dell’organizzazione politica, secondo la prospettiva del funzionalismo

strutturale. La particolarità della struttura sociale nuer consisteva nel fatto che i rapporti politici

erano fondati su un complesso sistema di alleanze e di potenziali ostilità basate sul lignaggio, cioè

sulla discendenza da un antenato comune. A seconda dei gruppi che in un dato momento entravano

in conflitto, un sistema compensatorio di alleanze fra altri «segmenti» della società consentiva di

mantenere un certo equilibrio fra le forze in lotta. In tal modo era possibile una vita politica molto

articolata e complessa pur in assenza di un potere centrale dotato di autorità formale e funzioni

coercitive. Aiutandosi con uno schema come il seguente, Evans-Pritchard descrisse la dinamica

politica della società nuer: A e B rappresentano le «sezioni primarie» di una tribù e sono strutturate

al loro interno come nello schema (in ogni parte con lo stesso grado di suddivisione che dal

disegno risulta solo per Y2).

A B

X Y

X1 Y1

Z1 X2

Z2 Y2

Tale modello ha una portata generale infatti, sottolinea l’autore, «questo principio della

segmentazione e dell’opposizione dei segmenti è lo stesso in ogni sezione di tribù e si estende,

oltre la tribù, alle relazioni fra tribù32

:

Nella figura (...) quando Z1 combatte Z2, nessun’altra sezione [“segmento”] resta coinvolta. Quando

Z1 combatte Y1, Z1 e Z2 si uniscono, e la loro unità è indicata come Y2. Quando Y1 combatte X1, Y1 e

Y2 si uniscono, e così fa X1 con X2. Quando X1 combatte A, X1, X2, Y1 e Y2 si uniscono nell’unità B.

Quando A fa una razzia contro i Dinka [vicini dei Nuer,], A e B si uniscono.

32

E. Evans-Pritchard, I Nuer. Un’anarchia ordinata, Milano 1975 (ed. originale 1940), p. 199.

F. Garimoldi – Dispense di storia dell’antropologia 4 – Malinowski

31

Una nuova prospettiva, che si discosta dall’ideale struttural-funzionalista dell’antropologia

come «scienza naturale della società» si apre con le pubblicazioni di Evans-Pritchard sugli

Azande, una popolazione residente fra gli attuali Sudan e Congo presso la quale aveva soggiornato

a più riprese fra il 1926 e il 1930.

Nel 1937 esce il volume Stregoneria, oracoli e magia fra gli

Azande, in cui l’autore analizza il fenomeno della stregoneria riservan-

do un’attenzione particolare al significato che esso assume nel conte-

sto culturale di riferimento: il risultato è l’apertura a una visione del

mondo originale, ma in se stessa perfettamente coerente.

Fra gli interrogativi che si pongono all’antropologo emergono

allora almeno i seguenti:

1) Come parlare di mentalità irrazionale o «pre-logica» per i

popoli «primitivi» se le loro spiegazioni degli eventi costituiscono un

complesso dotato di una logica e una coerenza interna che non ha nulla

da invidiare a quelle delle società «civilizzate»?

2) Non si tratta forse piuttosto di riconoscere a tale logica piena dignità nell’ambito del

proprio contesto culturale, sebbene essa possa non rispondere ai criteri di vero-falsità cui è abituato

l’uomo occidentale?

3) Ma allora, quale margine di applicabilità può ancora avere il metodo comparativo? Se

l’antropologia ha il compito di collocare ogni fenomeno culturale all’interno del proprio sistema di

credenze per poterlo comprendere pienamente, il suo obiettivo sembra essere quello di spiegare le

differenze piuttosto che cercare le uniformità, giaché per rintracciare elementi autenticamente

comuni a più culture, o addirittura universali, si corre il rischio di elevarsi a un piano troppo

generale, in cui le specificità culturali si perdono nella vaghezza di formule totalmente slegate dai

fenomeni reali e, di conseguenza, assai poco informative.

Il metodo comparativo, che Evans-Pritchard ritiene tuttavia indispensabile all’antropologia

per garantirne l’unitarietà ed evitare la sua frammentazione in una serie di studi monografici fra

loro scollegati, dovrà allora limitarsi ad una applicabilità «su scala ridotta», vale a dire al confronto

fra società definite in base alla loro organizzazione (cacciatori,

nomadi ecc.) o situate entro aree geografiche circoscritte.

Notevole è, in ogni caso, l’anticipazione che Evans-

Pritchard offre delle moderne teorie interpretative in antropo-

logia. Egli sostiene infatti che l’antropologia sociale si avvicini

di più alle «scienze storiche» che alle scienze naturali e che, di

conseguenza, «studia le società più come sistemi morali che

non come sistemi naturali (...) e perciò essa va in cerca di

modelli più che di leggi scientifiche, ed interpreta piuttosto che

spiegare»33

.

Leggiamo ora una pagina del celebre saggio di Evans-

Pritchard sulla stregoneria presso gli Azande in cui l’autore

sottolinea come, di per sé, seguito secondo la propria logica

interna, il sistema di credenze azande sia perfettamente

razionale e riesca a spiegare il concatenarsi degli eventi in

modo non meno efficace della relazione di causalità cui ricorre

33

E. Evans-Pritchard, Essays in Social Anthropology, London 1962, p. 26.

Edward Evans-Pritchard fra gli

Azande, 1928.

F. Garimoldi – Dispense di storia dell’antropologia 4 – Malinowski

32

l’uomo occidentale. Come emerge dal testo, l’unica differenza sembra essere l’identificazione

della causa ultima di ciò che accade: che si tratti realmente di stregoneria, come dicono gli

Azande, oppure del volere divino, del destino o di tragiche coincidenze, secondo le nostre

spiegazioni più comuni, è una questione la cui decisione esula dai compiti dell’antropologo,

rientrando piuttosto nella sfera delle credenze più intime e soggettive. Scrive Evans-Pritchard34

:

Quando uno zande parla di stregoneria non ne parla come possiamo fare noi per la stregoneria

misteriosa e fatidica della nostra storia. Per lui, essa rappresenta un avvenimento del tutto banale e quasi

non passa giorno senza che egli non vi si riferisca. Laddove noi parliamo di raccolti, di caccia o delle

condizioni dei nostri vicini, lo zande introduce nell’argometno della conversazione il tema «stregoneria».

Dire che la stregoneria ha provocato il carbonchio alle colture di arachidi, che ha messo in fuga la

selvaggina, che ha fatto ammalare il tal dei tali, tutto ciò equivale a dire, nei termini della nostra cultura,

che le arachidi sono state danneggiate dal carbonchio, che la selvaggina in questa stagione scarseggia e

che il tal dei tali s’è preso l’influenza. La stregoneria prende parte a tutti gli infortuni: gli Azande ne

parlano e se li spiegano in questo idioma particolare. La stregoneria è una classificazione di infortuni che,

pur essendo per altri versi differenti tra loro, hanno un unico carattere in comune: il fatto di essere nocivi

all’uomo. (...)

Lo zande si aspetta di imbattersi nella stregoneria a qualunque ora del giorno o della notte. A non

venirne quotidianamente a contatto, egli sarebbe altrettanto sorpreso che a trovarvisi a confronto. Egli non

vi scorge alcunché di miracoloso. Un cacciatore si aspetta che la sua attività sia ostacolata o danneggiata

dagli stregoni, ma dispone anche dei mezzi per farvi fronte. Quando gli capitano dei malanni, lo zande

non cade preda del timore reverenziale davanti al gioco di forze soprannaturali. La presenza di un nemico

occulto non lo terrorizza. Al contrario, ne prova un estremo fastidio. Ciò significa per lui che qualcuno,

per fargli un dispetto, ha rovinato le sue arachidi o gli ha fatto venir meno la caccia o ha fatto prendere a

sua moglie un colpo di freddo e, di certo, ciò è per lui motivo di rabbia! Egli non ha arrecato male a

nessuno, e quindi quale diritto ha chicchessia di intromettersi negli affari suoi? (...)

Per ottenere la gamma completa delle sue idee sulla causazione, bisogna far sì che sia lo zande

stesso a colmare le lacune, altrimenti si rischia di essere fuorviati dalle convenzioni linguistiche. Egli

dice: «Il tal dei tali è stato stregato e si è ucciso» o semplicemente che «il tale è stato ucciso dalla

stregoneria». Ma quel che riferisce è la causa ultima della sua morte, non le cause secondarie. Se gli

domandi: «Come si è ucciso?» risponderà che si è ucciso impiccandosi al ramo di un albero. Se gli chiedi:

«Perché si è ucciso?» risponderà che si era adirato coi suoi fratelli. La causa della morte è stata

l’impiccagione ad un albero, e la causa della sua impiccagione ad un albero, la collera nei confronti dei

suoi fratelli. Se, a questo punto, chiedi a uno zande perché mai egli dovrebbe affermare che l’uomo è stato

stregato, quando in realtà si è ucciso a causa della rabbia coi suoi fratelli, risponderà che soltanto i pazzi

commettono il suicidio e che, se chiunque si adira coi suoi fratelli dovesse suicidarsi, presto non

rimarrebbe più nessuno al mondo; e che, se quell’uomo non fosse stato stregato, non avrebbe fatto quel

che invece ha fatto. Se insisti a chiedere perché mai la stregoneria ha fatto sì che l’uomo si uccidesse, lo

zande ti risponderà che, secondo lui, doveva esserci qualcuno che odiava quell’uomo; e se gli chiedi

perché mai qualcuno lo odiava, l’informatore ti risponderà che questa è la natura degli uomini.

In effetti, se gli Azande non sono in grado di formulare una teoria del rapporto di causalità in

termini a noi accettabili, descrivono però gli avvenimenti in un idioma che è esplicativo. Essi sono

consapevoli che la prova della stregoneria è costituita dalle particolari circostanze degli avvenimenti nel

loro rapporto con gli uomini, nella loro nocività ad una particolare persona. La stregoneria spiega il

perché gli avvenimenti sono nocivi all’uomo, e non come accadono. Uno zande percepisce il modo del

loro accadere esattamente come noi. Non vede uno stregone dare la caccia ad un uomo, ma un elefante.

Non vede uno stregone far precipitare un granaio, ma le termiti che ne corrodono i sostegni. Non vede una

fiamma immateriale che appicca il fuoco alle stoppie della capanna, ma un normalissimo mannello di

paglia accesa. La sua percezione della modalità di accadere degli avvenimenti è chiara quanto la nostra.

34

E. Evans-Pritchard, Stregoneria, oracoli e magia fra gli Azande, Milano 1976, pp. 102 sgg., passim.