38 — cantiere regia Un’«Elektra» per Salisburgo · munque nel testo di Hofmannsthal che a sua...

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D as Grosse Welttheater, «Il grande teatro del mondo»: titolo scespiriano per la trascorsa edi- zione numero novanta del Festival di Salisburgo (25 luglio – 30 agosto 2010). Una vocazione, quella per il teatro, che ha innervato la storia del festival estivo per an- tonomasia, e che si ritrova ben rispecchiata nella mostra allestita presso il museo cittadino, e testimoniata da un elegante volume che, in ordine alfabetico, punta il fuoco su parole-chiave – da Arkitektur , Barocke Feste, Dramatur- gie, Experiment, attraverso Hoffmannsthal e Jedermann, fino a Strauss, Tumult, Uraufführungen (szenisch) … – che conten- gono quasi nella natura lessicale dei sostantivi la noce del nostro tema. Pregnanti anche le parole che accompagna- no il piccolo catalogo: Wo Gott und Mensch zusammenstoßen, entsteht Tragödie (Dove Dio e l’uomo si scontrano, lì nasce la tragedia). Quasi un’epigrafe, che da sola sembrava ri- assumere la linea di condotta nella scelta dei titoli: Diony- sos (novità del compositore in residenza Wolfgang Rihm), Orfeo ed Euridice, Lulu, Elektra, Don Giovanni, Roméo et Juliet- te (di Gounod), Norma. Del capolavoro mozartiano, alle- stito con la regia di Klaus Guth e la direzione di Yannick Nézet-Séguin, ripreso dal 2008, ha parlato Paolo Petaz- zi nello scorso numero di VeneziaMusica e Dintorni ( cfr. pp. 36-37, ndr. ). Non intendo sovrappormi a quella testi- monianza critica, se non ribadendo quanto scritto a pro- posito di letture registiche che tendono a sottrarre ogni dimensione metafisica e mitica al dramma originale. Ne consegue un fatto, peraltro ormai sancito: le grandi par- titure del teatro musicale, e in particolare quelle costruite su personaggi (drammaturgicamente e) psicologicamen- te «forti», restano disponibili a sostenere sulla scena let- ture le più distanti fra loro. Ecco quindi che, per esem- pio, a fronte di un Don Giovanni come quello di Guth vi- sto a Salisburgo, dove l’aggiornamento del taglio registi- co fa leva, non senza belle intuizioni, sull’ understatement del gesto quotidiano, ma l’azione procede sovvertendo le coordinate spazio-temporali (si svolge per intero di not- te, in una buia foresta), ve n’è un altro – quello di Tcher- niakov ad Aix-en-Provence raccontato anch’esso da Pe- tazzi – tutto vissuto in interni e costruito su improbabi- li parentele fra i personaggi. Accomuna le due versioni il farsi un baffo delle indicazioni vergate in partitura. Inter- vento invasivo o meno? Giudicate voi. Come Don Giovanni, anche Elektra – e, by the way, il Woz- zeck berghiano – appartiene alla summenzionata famiglia delle grandi partiture. Con un distinguo. Pur fra echi Ju- gendstil (che la accomunano in ciò all’opera sorella Salome) e derive peplum (sempre in agguato!), il capolavoro straus- siano non si sottrae mai all’iconografia storica del tea- tro greco. E non potrebbe essere altrimenti, data la for- za magnetica del mito sofocleo e il cortocircuito che que- sta forza innesca a contatto con la lingua espressionista della musica di Strauss. Un vincolo al prototipo dell’ide- ale anfiteatro greco è forse rafforzato anche dall’eredi- tà di una tradizione che, dal teatro musicale neoclassi- co di Satie e di alcuni esiti dei Six, passa attraverso la pie- tra miliare dello stravinskiano Opéra-Oratorio Oedipus Rex. A conforto di tale convinzione, e sempre pensando a Elektra, vengono in mente, fra le molte, alcune produ- zioni. A partire dai possibili estremi: da un lato una indi- menticata edizione Abbado/Dodin del 1995 (Festival di Pasqua salisburghese e Maggio Musicale Fiorentino): to- ni scuri, stilizzati dell’anfiteatro luogo-dell’anima (scene di David Borowski), recitazione asciutta, resa vocale e di- rezione tesissime ma sempre misurate. All’estremo op- posto, l’anno precedente, la produzione che segna il de- butto scaligero di Sinopoli, regia di Ronconi. Allestimen- to nel quale mancava ogni riferimento storico (a Micene, ma anche alla Vienna di Strauss e Hofmannsthal), ma in compenso il colore espressionista della scena di Gae Au- lenti era macchiato di inchiostro nero e del rosso di quar- ti di bue e di una vasca di sangue. Gusti forti per palati disposti a tutto, e forse, o forse no – ribadiamo – anche per una partitura disposta a tutto. In posizione media- na, un’edizione di Götz Friedrich, dominanta da un’indi- menticabile scena che dipinge con acrilici colori primari lacerti che alludono a parti del volto o del corpo marto- riato di Agamennone, metonimia iconografica di un in- sanabile dramma della psiche. Produzione degli anni ot- tanta vista all’Opera Bastille di Parigi nel 1991. E a proposito dell’edizione diretta da Sinopoli, certa cri- tica di allora accusò il compianto maestro di aver sof- focato le voci in scena con soverchio volume orchestra- Un’«Elektra» per Salisburgo Al Festival l’opera straussiana secondo Nikolaus Lehnoff di Luigi Abbate 38 — cantiere regia cantiere regia

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Das Grosse Welttheater, «Il grande teatro del mondo»: titolo scespiriano per la trascorsa edi-zione numero novanta del Festival di Salisburgo

(25 luglio – 30 agosto 2010). Una vocazione, quella per il teatro, che ha innervato la storia del festival estivo per an-tonomasia, e che si ritrova ben rispecchiata nella mostra allestita presso il museo cittadino, e testimoniata da un elegante volume che, in ordine alfabetico, punta il fuoco su parole-chiave – da Arkitektur, Barocke Feste, Dramatur-gie, Experiment, attraverso Hoffmannsthal e Jedermann, fino a Strauss, Tumult, Uraufführungen (szenisch)… – che conten-gono quasi nella natura lessicale dei sostantivi la noce del nostro tema. Pregnanti anche le parole che accompagna-no il piccolo catalogo: Wo Gott und Mensch zusammenstoßen, entsteht Tragödie (Dove Dio e l’uomo si scontrano, lì nasce la tragedia). Quasi un’epigrafe, che da sola sembrava ri-assumere la linea di condotta nella scelta dei titoli: Diony-sos (novità del compositore in residenza Wolfgang Rihm), Orfeo ed Euridice, Lulu, Elektra, Don Giovanni, Roméo et Juliet-

te (di Gounod), Norma. Del capolavoro mozartiano, alle-stito con la regia di Klaus Guth e la direzione di Yannick Nézet-Séguin, ripreso dal 2008, ha parlato Paolo Petaz-zi nello scorso numero di VeneziaMusica e Dintorni (cfr. pp. 36-37, ndr.). Non intendo sovrappormi a quella testi-monianza critica, se non ribadendo quanto scritto a pro-posito di letture registiche che tendono a sottrarre ogni dimensione metafisica e mitica al dramma originale. Ne consegue un fatto, peraltro ormai sancito: le grandi par-titure del teatro musicale, e in particolare quelle costruite su personaggi (drammaturgicamente e) psicologicamen-te «forti», restano disponibili a sostenere sulla scena let-ture le più distanti fra loro. Ecco quindi che, per esem-pio, a fronte di un Don Giovanni come quello di Guth vi-sto a Salisburgo, dove l’aggiornamento del taglio registi-co fa leva, non senza belle intuizioni, sull’understatement del gesto quotidiano, ma l’azione procede sovvertendo le coordinate spazio-temporali (si svolge per intero di not-te, in una buia foresta), ve n’è un altro – quello di Tcher-niakov ad Aix-en-Provence raccontato anch’esso da Pe-tazzi – tutto vissuto in interni e costruito su improbabi-li parentele fra i personaggi. Accomuna le due versioni il farsi un baffo delle indicazioni vergate in partitura. Inter-vento invasivo o meno? Giudicate voi.

Come Don Giovanni, anche Elektra – e, by the way, il Woz-zeck berghiano – appartiene alla summenzionata famiglia delle grandi partiture. Con un distinguo. Pur fra echi Ju-gendstil (che la accomunano in ciò all’opera sorella Salome) e derive peplum (sempre in agguato!), il capolavoro straus-siano non si sottrae mai all’iconografia storica del tea-tro greco. E non potrebbe essere altrimenti, data la for-za magnetica del mito sofocleo e il cortocircuito che que-sta forza innesca a contatto con la lingua espressionista della musica di Strauss. Un vincolo al prototipo dell’ide-ale anfiteatro greco è forse rafforzato anche dall’eredi-tà di una tradizione che, dal teatro musicale neoclassi-co di Satie e di alcuni esiti dei Six, passa attraverso la pie-tra miliare dello stravinskiano Opéra-Oratorio Oedipus Rex. A conforto di tale convinzione, e sempre pensando a Elektra, vengono in mente, fra le molte, alcune produ-zioni. A partire dai possibili estremi: da un lato una indi-menticata edizione Abbado/Dodin del 1995 (Festival di Pasqua salisburghese e Maggio Musicale Fiorentino): to-ni scuri, stilizzati dell’anfiteatro luogo-dell’anima (scene di David Borowski), recitazione asciutta, resa vocale e di-rezione tesissime ma sempre misurate. All’estremo op-posto, l’anno precedente, la produzione che segna il de-butto scaligero di Sinopoli, regia di Ronconi. Allestimen-to nel quale mancava ogni riferimento storico (a Micene, ma anche alla Vienna di Strauss e Hofmannsthal), ma in compenso il colore espressionista della scena di Gae Au-lenti era macchiato di inchiostro nero e del rosso di quar-ti di bue e di una vasca di sangue. Gusti forti per palati disposti a tutto, e forse, o forse no – ribadiamo – anche per una partitura disposta a tutto. In posizione media-na, un’edizione di Götz Friedrich, dominanta da un’indi-menticabile scena che dipinge con acrilici colori primari lacerti che alludono a parti del volto o del corpo marto-riato di Agamennone, metonimia iconografica di un in-sanabile dramma della psiche. Produzione degli anni ot-tanta vista all’Opera Bastille di Parigi nel 1991.

E a proposito dell’edizione diretta da Sinopoli, certa cri-tica di allora accusò il compianto maestro di aver sof-focato le voci in scena con soverchio volume orchestra-

Un’«Elektra»per SalisburgoAl Festival l’opera straussianasecondo Nikolaus Lehnoff

di Luigi Abbate

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le. Stesso rilievo sollevato da altri alla direzione di Da-niele Gatti nella recente Elektra salisburghese allestita da Nikolaus Lehnoff. Ne parlo direttamente con il maestro al termine dello spettacolo. Condivisibile o meno, la sua lettura è suggestiva: la veemenza della sterminata massa sinfonica è come un commento devastante e devastato al solipsistico caos mentale della protagonista, una sorta – aggiungo io – di anamnesi sonora della sua stessa psico-labilità. Brillantezza e, fonicamente parlando, potenza di fuoco dei Wiener corroborano questa tesi con grande ef-ficacia. Pure efficace ma poco o nulla innovativa nel suo taglio naturalistico, la regia di Lehnoff. La lettura di una Elektra schizofrenica, ripeto, condivisibile o meno, è co-munque nel testo di Hofmannsthal che a sua volta veste la tragedia sofoclea con i panni della modernità del tem-po. Ed è, a fortiori, nella partitura di Strauss. Ciò basta a legittimarla. È pur vero che il rapporto di Elektra con la madre, agitandole di fronte i fantasmi del delitto e i sensi di colpa e lo spauracchio del fratello in realtà fa più pen-sare a una mente perfettamente lucida e financo raffina-ta. Così come è umanissimo il languore melanconico con cui la figlia di Agamennone parla del padre. Insomma, una volta di più: generosa disponibilità del grande testo ad accogliere letture diverse.

Venendo ai dettagli dello spettacolo, si scopre momen-to di autentica poesia teatrale l’incontro fra i due fratel-li: riconoscendo Orest (René Pape), Elektra (Iréne Theo-rin), dopo il caldo abbraccio iniziale, se ne allontana, an-zi, tenta disperatamente di allargare lo spazio della (già enorme) scena rasentando i muri perimetrali, timorosa di manifestare troppo affetto per il fratello e al tempo stes-so neuroticamente animata all’idea di aver finalmente al suo fianco il braccio armato del suo progetto risolutore, quel complice maschile che senza successo aveva cerca-to nella debole, troppo umana, sorella. E proprio il rien-tro in scena di Chrysothemis (l’ottima Eva-Maria West-boeck) dopo il compimento del misfatto viene segnala-to da un repentino, sensibilissimo abbassamento del vo-lume orchestrale, quasi Gatti, coerentemente con la li-nea interpretativa espressa sia dal podio che per verba, vo-lesse sottolineare la nota di buonsenso incarnata da que-sto personaggio di fronte dell’esasperato disordine men-tale della protagonista. Aegisth (Robert Gambill), in en-trambe le sue apparizioni è ben disegnato goffo soldati-no in abiti borghesi (senza riferimenti temporali, ma so-bri i costumi di Andrea Schmitt-Futterer), squallida vit-tima sacrificale di un rito vecchio come la storia dell’uo-mo. La scena (di Daniel Dooner), alla fine, dopo tanto umbratile, faticoso intravvedere, si illumina su un macel-lo sempre sghembo e instabile, piastrelle bianche spruz-zate di rosso, appeso a testa in giù il corpo di Klytämn-nestra (Waltraut Meyer). Ma Orest non ha addosso una macchia di sangue, e dal pavimento, in fondo, emerge lentamente un nugolo di pennuti neri, specie di enormi urubu che muovono in modo inquietante e assai sugge-stivo la scena come atra palude. Eccoci alle interpreta-zioni: il sangue è nello spazio dell’orrendo scempio, ma non è sul corpo dell’uomo, martire-testimone del pro-prio matricidio, le vesti monde come a intendere un sal-vacondotto concessogli dagli dei, non mai dalle imperfet-te leggi degli uomini, che gli permetta di fuggire dal pro-prio senso di colpa. La fine di Elektra, nella regia di Ni-kolaus Lehnoff come nella partitura di Strauss, è irrisol-ta, esattamente come la fine di Don Giovanni nelle sue

infinite interpretazioni registiche. E come, perché no, la fine di Wozzeck. Una cosa forse hanno in comune questi tre personaggi-prototipi del teatro di sempre: non muo-iono ma, vien da dire, in un certo senso si sottraggono al-la scena. Ecco perché il finale viennese del Don Giovan-ni di Guth lascia perplessi, e si spiega solo entro una lo-gica mortifera di tipo cinematografico (una fine del cat-tivo in mezzo alle fiamme fa sempre un effettone e, per di più, monda la coscienza del cattolico austriaco…). Ec-co perché nel momento conclusivo dell’Elektra di Gatti-Lehnoff, soffocato nel silenzio abitato da livida luce ar-tificiale, i macroscopici urubu prendono possesso dello spazio scenico, portandosi via anche il ricordo iconico di un’Elektra esausta ma ormai paga. Proprio come – mi si consenta una lembranza personale – durante una lontana corrida, scopertane la cecità, al toro fu risparmiata la vi-ta (certo, solo in scena!), e l’animale fu preso in consegna da un gruppo di enormi vacche pezzate che lo accom-pagnarono fuori, placidamente, nel silenzio assolato del-la bella plaza de toros sevilliana. Sevilliano anche il bo-vino, come il celebre Burlador mozartiano, nero come la straussiana luttuosa figlia di stirpe atride, maschio e pros-sima cavia per orrende vivisezioni come la büchneriana-berghiana vittima dei gratuiti «sperimenti» del Doktor. ◼

Immagini da Elektra di Richard Strauss, regia di Nikolaus Lehnoff, Salisburgo 2010 (foto di Hermann e Clärchen Baus).

Nella pagina a fronte: Elektra. Sopra: Oreste e Clitennestra.

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