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U NOPINIONE VULGATA, di rado soggetta a verifica, vuole che in Korngold esistano diversi composito- ri, in ragione di modi diversi di pensare la musica, di proporle un fine e una funzione pubblica. Ci si appella, per giustificare il giudizio e per trasformare in commiserazio- ne la sua iniziale severità, agli accidenti della vita e alla for- za tentatrice di facili occasioni di successo. Uno schema ap- prossimativo distingue un primo Korngold, enfant prodige e precoce autore di piccoli gioielli pianistici e cameristici, am- mirato con una punta di stizza e persino invidiato da mu- sicisti anziani ed esperti nel mestiere che accoglievano con oscuro disagio l’astro nascente; un secondo Korngold, poco più che ventenne ma già affermatissimo, direttore d’orche- stra e didat- ta alla Wiener Akademie für Musik sino al 1934, nel fer- vido clima viennese del primo dopo- guerra, ed è in quegli an- ni che nasce Die tote Stadt, op. 12 (1920): un terzo e ul- timo Korn- gold, emigra- to in Ameri- ca, che scri - vendo – con straordinarie gratificazio - ni in notorie- tà e in denaro – colonne sonore di film divenne un famulus di Hollywood e della sua routine, perdendo, in compenso, la fama che un tempo gli aveva arriso in Europa. Questa immagine di un compositore in frammenti si è formata in due fasi. Quarant’anni fa, quando l’ex enfant prodige morì ap- pena sessantenne, anche chi possedeva vaghissime nozio- ni della musica di Korngold era più o meno al corrente di una dicotomia, nella quale erano distinguibili grossolana- mente due Korngold, quello europeo e attivo fra i protago- nisti della grande musica austriaca del primo Novecento, e quello americano, professionista corrivo e versatile al servi- zio dell’industria cinematografica. Di tale dicotomia, molti hanno dato una lettura tendenziosa, dominante negli anni cinquanta, anni di purismo censorio (una sorta di maccar- tismo applicato all’arte in nome dell’antiedonismo) durante i quali fu reato apprezzare la musica per film, così come fu reato amare Cajkovskij o Rachmaninov: la musica di questi ultimi era guardata dai docenti istituzionali con supercilio- sa alterigia, poiché si diceva, appunto, che spesso Rachma- ninov o Cajkovskij «degradavano» nel cue sheet e nella colon- na sonora: prova irrefutabile di volgarità. Ogni artista, come ogni uomo, è frammentato dal tempo, e senza avvedersene diviene un altro uomo, ma lo diviene con l’impercettibile gradualità con cui diminuiscono i granelli del soreites nel paradosso di Eubulide. Tuttavia, avvengono emergenze in forza delle quali il divenire è rapido, tranchant, a scatti: non la natura, ma la storia facit saltus. L’unità dell’es- senza individuale (non ci piace l’aggettivo «personale», che ha una connotazione cristiana a noi sgradita) ha la meglio sulla frammentazione del divenire se l’individuo possiede forza e intelletto: in una parola, se la sua statura è alta. Alla fine della vita, egli si trova alius et idem (ancora Orazio, Car- men saeculare, 10), ma è più idem che alius se intelletto e for- za non gli sono mancati. Certo, un trauma può accentuare la mutazione. Quando Erich Wolfgang Korngold nacque a Brünn (oggi Brno) sabato 29 maggio 1897, l’anno in cui Gu- stav Mahler divenne direttore alla Hofoper di Vienna, esi- steva l’Austria-Ungheria, patria di molte nazioni in diffici- le e miracoloso equilibrio, ed è notevole che moltissimi fra i grandi «viennesi» di quell’epoca aurea, da Mahler a Freud, da Schönberg a Hanslick, da Hofmannsthal a Zemlinsky, fossero di origine cèca o galiziana o ebraica o magiara o mi- sta; e Korngold era moravo. Quando Mahler, nel novembre 1908 e poco prima di ripartire per l’America (ah, i presagi!) incontrò l’undicenne Erich Wolfgang e suo padre Julius, e del ragazzo lodò la cantata Gold profetizzando all’esordiente luminosi destini, il mondo esterno non era mutato di molto. Quando Korngold morì a Hollywood venerdì 29 novem- bre 1957, la trasformazione rispetto alla fin-de-siècle era, nel mondo, vistosissima. Sessant’anni non sono una vita lunga, ma collocati dalla fine del secolo XIX a poco oltre la metà del XX, sì da scavalcare le due guerre mondiali, la fine dei tre grandi imperi (Austria, Germania, Russia) che nel cuo- re d’Europa lasciarono un gran vuoto lasciando pullulare Stati effimeri o vitali ma travolti da sventure, il fascismo e il nazionalsocialismo, quei sessant’anni furono tanto pieni di eventi da sconvolgere l’essenza a tutto favore del diveni- re. Nel caso di Korngold e di altri artisti con simili conno- tati (lo ripetiamo: l’ebraismo, la Mitteleuropa d’origine), alla frammentazione dovuta al tempo e controllabile con l’ener- gia individuale si aggiunse la lacerazione dello spazio: emi- grazione e diaspora entrarono nel codice genetico di molta musica del Novecento, da Bartók a Zemlinsky, da Schön- berg a Berthold Goldschmidt, da Kurt Weill a Ernst Kren- ck, da Bruno Walter a Igor Stravinskij: diversi e diversamen- te accaniti i persecutori, diverso il grado di sradicamento e di malessere, simile la sceneggiatura dell’esilio. Una vita stabil- mente ambientata e radicata è definibile mediante due coor- dinate: il fluire del tempo, le opere dell’uomo. La dislocazio- ne dello spazio, oltre a produrre disagi nell’anima, complica la definizione: introduce una terza coordinata, anzi, molte altre, occasionali e ausiliarie. Nel primo caso, una biografia è una pagina liscia e distesa; nel secondo, grazie all’intrico di assi cartesiani, essa diventa un difficile problema topo- logico, come il foglio accartocciato che John Gribbin, nel suo In Search of the Edge of Time, assume a similitudine di un destino perturbato e instabile. Perciò a Korngold il tempo e lo spazio sottrassero molto, ma meno di quanto egli offrì in dono all’ascolto, e l’ascolto è la felicità che chiediamo al- la musica. Non è importante domandarci se la sua musica abbia guardato avanti o a ritroso nello stile, se essa sia sta- ta remunerata dalla nobile povertà o dalla facile agiatezza. La domanda sarebbe pura ideologia. Se la musica non an- dasse oltre ogni cosa, come ha scritto Rilke, che cosa sareb- be? Più giusto è domandarsi se l’arte di Korngold sia stata grande o mediocre, o, più esattamente, bella o brutta, poi- ché questo e non altro conta veramente. Quell’uomo, che nei ritratti appare sempre sorridente e felice, subì forse l’in- Verso «Die tote Stadt» di Quirino Principe 18 — all’opera all’opera

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Un’opinione vulgata, di rado soggetta a verifica, vuole che in Korngold esistano diversi composito-ri, in ragione di modi diversi di pensare la musica, di

proporle un fine e una funzione pubblica. Ci si appella, per giustificare il giudizio e per trasformare in commiserazio-ne la sua iniziale severità, agli accidenti della vita e alla for-za tentatrice di facili occasioni di successo. Uno schema ap-prossimativo distingue un primo Korngold, enfant prodige e precoce autore di piccoli gioielli pianistici e cameristici, am-mirato con una punta di stizza e persino invidiato da mu-sicisti anziani ed esperti nel mestiere che accoglievano con oscuro disagio l’astro nascente; un secondo Korngold, poco più che ventenne ma già affermatissimo, direttore d’orche-

stra e didat-ta alla Wiener Akademie für Musik sino al 1934, nel fer-vido cl ima viennese del primo dopo-guerra, ed è in quegli an-ni che nasce Die tote Stadt, op. 12 (1920): un terzo e ul-t imo Korn-gold, emigra-to in Ameri-ca, che scri-vendo – con straordinarie gratif icazio-ni in notorie-

tà e in denaro – colonne sonore di film divenne un famulus di Hollywood e della sua routine, perdendo, in compenso, la fama che un tempo gli aveva arriso in Europa. Questa immagine di un compositore in frammenti si è formata in due fasi. Quarant’anni fa, quando l’ex enfant prodige morì ap-pena sessantenne, anche chi possedeva vaghissime nozio-ni della musica di Korngold era più o meno al corrente di una dicotomia, nella quale erano distinguibili grossolana-mente due Korngold, quello europeo e attivo fra i protago-nisti della grande musica austriaca del primo Novecento, e quello americano, professionista corrivo e versatile al servi-zio dell’industria cinematografica. Di tale dicotomia, molti hanno dato una lettura tendenziosa, dominante negli anni cinquanta, anni di purismo censorio (una sorta di maccar-tismo applicato all’arte in nome dell’antiedonismo) durante i quali fu reato apprezzare la musica per film, così come fu reato amare Cajkovskij o Rachmaninov: la musica di questi ultimi era guardata dai docenti istituzionali con supercilio-sa alterigia, poiché si diceva, appunto, che spesso Rachma-ninov o Cajkovskij «degradavano» nel cue sheet e nella colon-na sonora: prova irrefutabile di volgarità.

Ogni artista, come ogni uomo, è frammentato dal tempo, e senza avvedersene diviene un altro uomo, ma lo diviene con

l’impercettibile gradualità con cui diminuiscono i granelli del soreites nel paradosso di Eubulide. Tuttavia, avvengono emergenze in forza delle quali il divenire è rapido, tranchant, a scatti: non la natura, ma la storia facit saltus. L’unità dell’es-senza individuale (non ci piace l’aggettivo «personale», che ha una connotazione cristiana a noi sgradita) ha la meglio sulla frammentazione del divenire se l’individuo possiede forza e intelletto: in una parola, se la sua statura è alta. Alla fine della vita, egli si trova alius et idem (ancora Orazio, Car-men saeculare, 10), ma è più idem che alius se intelletto e for-za non gli sono mancati. Certo, un trauma può accentuare la mutazione. Quando Erich Wolfgang Korngold nacque a Brünn (oggi Brno) sabato 29 maggio 1897, l’anno in cui Gu-stav Mahler divenne direttore alla Hofoper di Vienna, esi-steva l’Austria-Ungheria, patria di molte nazioni in diffici-le e miracoloso equilibrio, ed è notevole che moltissimi fra i grandi «viennesi» di quell’epoca aurea, da Mahler a Freud, da Schönberg a Hanslick, da Hofmannsthal a Zemlinsky, fossero di origine cèca o galiziana o ebraica o magiara o mi-sta; e Korngold era moravo. Quando Mahler, nel novembre 1908 e poco prima di ripartire per l’America (ah, i presagi!) incontrò l’undicenne Erich Wolfgang e suo padre Julius, e del ragazzo lodò la cantata Gold profetizzando all’esordiente luminosi destini, il mondo esterno non era mutato di molto. Quando Korngold morì a Hollywood venerdì 29 novem-bre 1957, la trasformazione rispetto alla fin-de-siècle era, nel mondo, vistosissima. Sessant’anni non sono una vita lunga, ma collocati dalla fine del secolo XIX a poco oltre la metà del XX, sì da scavalcare le due guerre mondiali, la fine dei tre grandi imperi (Austria, Germania, Russia) che nel cuo-re d’Europa lasciarono un gran vuoto lasciando pullulare Stati effimeri o vitali ma travolti da sventure, il fascismo e il nazionalsocialismo, quei sessant’anni furono tanto pieni di eventi da sconvolgere l’essenza a tutto favore del diveni-re. Nel caso di Korngold e di altri artisti con simili conno-tati (lo ripetiamo: l’ebraismo, la Mitteleuropa d’origine), alla frammentazione dovuta al tempo e controllabile con l’ener-gia individuale si aggiunse la lacerazione dello spazio: emi-grazione e diaspora entrarono nel codice genetico di molta musica del Novecento, da Bartók a Zemlinsky, da Schön-berg a Berthold Goldschmidt, da Kurt Weill a Ernst Kren-ck, da Bruno Walter a Igor Stravinskij: diversi e diversamen-te accaniti i persecutori, diverso il grado di sradicamento e di malessere, simile la sceneggiatura dell’esilio. Una vita stabil-mente ambientata e radicata è definibile mediante due coor-dinate: il fluire del tempo, le opere dell’uomo. La dislocazio-ne dello spazio, oltre a produrre disagi nell’anima, complica la definizione: introduce una terza coordinata, anzi, molte altre, occasionali e ausiliarie. Nel primo caso, una biografia è una pagina liscia e distesa; nel secondo, grazie all’intrico di assi cartesiani, essa diventa un difficile problema topo-logico, come il foglio accartocciato che John Gribbin, nel suo In Search of the Edge of Time, assume a similitudine di un destino perturbato e instabile. Perciò a Korngold il tempo e lo spazio sottrassero molto, ma meno di quanto egli offrì in dono all’ascolto, e l’ascolto è la felicità che chiediamo al-la musica. Non è importante domandarci se la sua musica abbia guardato avanti o a ritroso nello stile, se essa sia sta-ta remunerata dalla nobile povertà o dalla facile agiatezza. La domanda sarebbe pura ideologia. Se la musica non an-dasse oltre ogni cosa, come ha scritto Rilke, che cosa sareb-be? Più giusto è domandarsi se l’arte di Korngold sia stata grande o mediocre, o, più esattamente, bella o brutta, poi-ché questo e non altro conta veramente. Quell’uomo, che nei ritratti appare sempre sorridente e felice, subì forse l’in-

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felicità del sentirsi incompiuto. Sarebbe ingiusto vedere in lui i frammenti di un musicista, e negargli la continuità del suo intento: trasmettere generosamente, attraverso la mu-sica, l’energia di ciò che è semplicemente bello.

La drammaturgia musicale in «Die tote Stadt»Siamo d’accordo con un giudizio vulgato: Korngold ha da-

to il meglio di sé nel teatro. Diremmo meglio: nello spetta-colo, poiché anche le colonne sonore che egli scrisse a Hol-lywood sono fra gli esiti migliori della musica per film, al-meno per quanto riguarda il rapporto semantico ed espres-sivo tra musica e sceneggiatura cinematografica. Del re-sto, converge in questa direzione la palese teatralità delle sue composizioni orchestrali, compresi i concerti per stru-mento solista. Siamo d’accordo anche nell’indicare in Die tote Stadt il più felice fra gli esiti teatrali di Korngold, anche se Das Wunder der Heliane, lavoro eccentrico e condannato a morte dal nazismo, forma a nostro avviso una costellazio-ne binaria con il precedente. Certo, proprio l’eccentricità della più tarda fra le due opere fa sì che in Die tote Stadt s’in-traveda il nucleo tipico di una drammaturgia per musica in ciò che essa ha d’individuale e di originale. Una rapida e do-verosa ricognizione del teatro di Korngold valga come una sorta di accerchiamento della questione, lungo linee irra-dianti e convergenti.

Il lascito teatrale di Korngold comprende alcuni lavori iscritti in vari generi, dal balletto al musical alla Bühnenmusik, e quattro opere vere e proprie. Il primo gruppo comprende:

a) La pantomima Der Schneemann («L’uomo di neve»), com-posta nel 1908, orchestrata da Alexander von Zemlinsky e andata in scena alla Hofoper di Vienna nel 1910 con la me-morabile coreografia di Karl Godlewski. Fu la rivelazione del Wunderkind (dell’astro nascente, dell’enfant prodige) e fece del tredicenne Erich Wolfgang «l’uomo del giorno».

b) Musiche di scena op. 11 per la commedia Much Ado about Nothing di William Shakespeare (1918).

c) Kathrin (1939) una «Volksoper» che nasce da una curio-sa contaminazione di opera e operetta ed è, come ha scrit-to Brendan G. Carroll (presidente della Erich Wolfgang Korngold Society), «more like a lyrical Singspiel than a dra-matic opera».

d) La commedia musicale The Silent Serenade (Dortmund, 1954).

e) A partire dal 1929, una serie di adattamenti di operet-te, fra cui Die Fledermaus di Johann Strauss jr. data a Berli-no nella versione registica di Max Reinhardt e, sempre in versione di Reinhardt, La belle Hélène di Jacques Offenba-ch, per la quale Korngold scrisse un’ouverture ancora tal-volta eseguita.

Il secondo gruppo comprende:1) Der Ring des Polykrates, opera giocosa («heitere Oper»)

in 1 atto. Libretto di Leo Feld (pseudonimo di Leo Hir-schfeld) e di Julius Leopold Korngold (padre del compo-sitore), tratto dall’omonima commedia Der Ring des Polykra-tes («L’anello di Policrate», 1888) di Heinrich Teweles. Pri-ma esecuzione: Monaco di Baviera, Hoftheater, martedì 28 marzo 1916, direttore Bruno Walter, interpreti Maria Ivo-gün (Laura) e Karl Erb (Wilhelm), il 10 aprile di quell’an-no vi fu la première viennese, con Selma Kurz e Alfred Pic-caver nei due ruoli principali. Fu un grande successo di cri-tica: fece eccezione Karl Kraus, che sin dal 1910, sulle co-lonne della sua rivista «Die Fackel», aveva espresso riser-ve sul talento di Korngold, e questa volta usò giudizi aspri senza mezzi termini.

2) Violanta, opera in 1 atto. Libretto del poeta moravo Hans Müller (1882-1950), noto anche con il nome arricchi-

to da un’aggiunta di sua invenzione, Hans Müller-Einigen. Prima esecuzione (insieme con Der Ring des Polykrates): Mo-naco di Baviera, Hoftheater, martedì 28 marzo 1916, di-rettore Bruno Walter, interpreti Emmy Krüger (Violanta), Friedrich Brodersen (Simone), Franz Gruber (Alfonso), re-gia di Anton von Fuchs.

3) Die tote Stadt («La città morta»), opera in 3 atti: «atti» è termine corrente, ma l’indicazione originale è «in drei Bil-dern», in tre quadri. Libretto di Paul Schott (pseudonimo di Julius Leopold Korngold) con la collaborazione di Erich Wolfgang Korngold, tratto dal dramma Le mirage (1897) del-lo scrittore franco-belga Georges Raymond Constantin Ro-denbach nella traduzione tedesca (edita nel 1902) di Siegfried Trebitsch intitolata Die stille Stadt («La città silenziosa»). A sua volta, Rodenbach trasse il dramma Le mirage dal proprio romanzo Bruges-la-Morte (1892). Prima esecuzione: simulta-neamente, nella stessa serata di sabato 4 dicembre 1920, allo StadtTheater di Amburgo e all’Opernhaus di Colonia. In-terpreti: ad Amburgo, Anny Münchow (Marietta), Richard Schubert (Paul), Maria Olszewska (Brigitta), Josef Degler (Franck), direttore Egon Pollak; a Colonia, nello stesso or-dine di perso-naggi, Johan-n a K lem -perer, Karl Schröder, Ka-tharina Rohr, Karl Renner, direttore Otto Klemperer.

4) Das Wun-der der Helia-ne («Il miraco-lo di Eliana»), opera in 3 at-ti. Libretto di Hans Müller, tratto da Die Heilige, una sorta di sacra rappresenta-zione (Myste-rienspiel ) del poeta espressionista romeno Hans Kaltneker (o Kaltnec-ker, 1895-1919). Prima esecuzione: Amburgo, Stadt-Thea-ter, venerdì 7 ottobre 1927, interpreti Maria Hussa (Helia-ne), Sabine Kalter (Messaggera), Carl Günther (straniero).

I soggetti delle quattro opere di Korngold si accampano in diversissimi ambiti poetici: versatilità, curiositas, tendenza «alessandrina» (barocco asiana, apulciana, da romanzo elle-nistico), molto affine alle scelte drammaturgiche di Richard Strauss e lontanissima dalla monocorde fedeltà a un’aura e a uno stato d’animo, ravvisabile nelle due opere di Berg o nel teatro di Weill. Per non chiamare in causa Strauss, trop-po imponente come termine di riferimento, suggeriamo un rapporto di analogia tra il teatro musicale di Korngold e quello di un altro enfant prodige, Eugen d’Albert. In Violan-ta è l’Italia del Rinascimento, mondo poetico-drammatico assai caro all’opera austro-tedesca della sfera Jugendstil e di zone confinanti: qui è la Venezia del XV secolo, in Eine flo-rentinische Tragödie di Zemlinsky è Firenze, in Die Gezeichne-ten di Schreker è Genova. In Der Ring des Polikrates è la Sas-sonia del 1797. In Das Wunder der Heliane affiora un mondo senza tempo, vagamente medioevale e leggendario, in cui

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dominano fiaba e magia. Tutto ciò sembra una sperimen-tazione di vari terreni lontani dal presente, separati e vi-sti attraverso un filtro di simbologia realizzata nel diverso, nell’altrove e nell’autrefois, quasi a sgombrare il campo de-gli esperimenti e a preparare l’ambito spazio-temporale in cui si colloca Die tote Stadt, la grande letteratura contempo-ranea (contemporanea a Korngold, o precedente di pochi decenni), con un’ambientazione «ai nostri giorni», ossia al-la fine del secolo XIX.

Non sarà mai apprezzata a sufficienza, nella storia del tea-tro musicale, la funzione mediatrice dei librettisti, eroi oscu-ri e sempre sottovalutati. Fra quelli che collaborarono con il compositore di cui ci occupiamo e che furono tre in tutto, ossia suo padre Julius, Leo Feld e Hans Müller, quest’ultimo fu la personalità più estrosa. Müller, che in origine abbozzò anche il testo per Die tote Stadt ufficialmente ascritto a Julius Korngold (alias Paul Schott) e allo stesso Erich Wolfgang, era nato anch’egli a Brünn/Brno. Di ventidue anni più gio-vane di Julius, di quindici più anziano di Erich Wolfgang, rappresentava una generazione intermedia tra i due, e di pa-

dre e figlio fu, oltre che con-cittadino per nascita, inti-mo amico da sempre. I più lo ricordano come uno dei librettisti del-la celeberri-ma operetta Im weißen Rößl di Ralph Be-natzky (1930). Interessa po-co sape re che egli fosse omosessuale e di natura ipo-condriaca, e il fatto che egli portasse una

grossa sciarpa di lana anche in piena estate è irrilevante. Ci interessa di più, e ci convince poco, il giudizio noiosamen-te ripetuto sull’incompetenza poetica di Müller, sui suoi ec-cessi verbali e sul suo cattivo gusto. Bruttissimo è giudicato, abitualmente, il suo libretto per Das Wunder der Heliane, il suo più impegnativo contributo al teatro di Korngold. Proprio quel testo, a nostro parere, spicca per proprietà e senso della misura, e si attaglia perfettamente al carattere magico della musica ideata dal compositore in una fase di geniale ispira-zione e in possesso di un magnifico mestiere.

Si diceva: la grande letteratura contemporanea agli anni d’esordio di Erich Wolfgang. La fonte originaria da cui nac-que Die tote Stadt è illustre, e scrittore di alto rango è il suo au-tore. Georges Raymond Constantin Rodenbach (Tournai, 16 luglio 1855 – Parigi, 25 dicembre 1898), rappresentò, in-sieme con Maeterlinck, Verhacren e Van Lerberghe la rina-scita della letteratura belga di lingua francese dopo il 1880, e il suo stile si sviluppò partendo dall’esperienza del Parnas-se e procedendo, sotto l’influenza del Verlaine più maturo, verso il simbolismo. La maturazione era compiuta nel 1892, quando uscì il romanzo Bruges-la-Morte. Hugues Viane si tra-sferisce a Bruges per vivere nel ricordo della moglie morta, Ophélie, e nella città gli sembra di riconoscere la sembian-

za dell’amata. Una sera, nell’intrico delle vie di Bruges, vede una donna, Jane, il cui volto somiglia perfettamente a quel-lo di Ophélie. Ne fa la propria amante, ma Jane è una balle-rina petulante e volgare. Un giorno, in casa di Hugues, Jane va di stanza in stanza osservando beffarda i ritratti e le me-morie della defunta. Vede la treccia ambrata di Ophélie, te-nuta gelosamente da Hugues come sacra reliquia. Per scher-no, la afferra e se la avvolge al collo. Hugues ordina di po-sarla, ma al rifiuto della donna, impazzito d’ira e di dolo-re, strangola Jane con la treccia. Molto apprezzato da Mae-terlinck, il romanzo di Rodenbach influì, pochi anni dopo, su Henry James e su un suo lungo racconto, The Altar of the Dead (1896). Giova rammentare che dal racconto di Henry James, mediante una contaminazione con due altri più bre-vi testi narrativi dello scrittore americano (The Friends of the Friends e The Beast in the Jungle), François Truffaut trasse nel 1978, interpretandone il ruolo di protagonista, il macabro e raffinato film La chambre vert. Da Bruges-la-Morte emana un flusso acre e sottile che filtra in linguaggi artistici di varia natura: poesia, musica, teatro, cinema. Nel libretto abboz-zato da Müller e rielaborato dai due Korngold sono quasi immutate le funzioni narrative del romanzo e del dramma derivato, Le mirage: mutano però i nomi dei personaggi. Hu-gues, Ophélie e Jane diventano rispettivamente Paul, Marie e Marietta. C’è però, nel libretto, una differenza fondamen-tale, che si fa determinante nel rapporto con la drammatur-gia musicale: Marietta non è frivola, vacua e volgare, non è un «assoluto naturale» né pura e animale sensualità come la Jane di Rodenbach. È invece consapevole della profana-zione che compie toccando la treccia e deridendo Paul e il suo culto delle reliquie. È, propriamente, una figura demo-niaca, così come è infernale il Signore in Heliane. Lo stesso Korngold insistette nel porre in rilievo questo aspetto – del tutto nuovo rispetto a Rodenbach – quando scrisse nel 1921 una limpidissima sintesi della trama per un numero specia-le della rivista viennese «Blätter des Operntheaters», in oc-casione della première di Die tote Stadt a Vienna.

Korngold cominciò a lavorare a Die tote Stadt nel 1917. Il soggetto gli era stato fornito dal traduttore e drammaturgo Siegfried Trebitsch, e si trattava della versione tedesca (inti-tolata, come sappiamo, Die stille Stadt, 1902) del dramma Le mirage, che lo stesso Rodenbach aveva scritto rielaborando in forma teatrale il romanzo Bruges-la-Morte. La traduzione di Trebitsch era andata in scena nel 1903 al Deutsches Thea-ter di Berlino, ma con un titolo diverso, Das Trugbild, che tra-duce letteralmente Le mirage e si riferisce all’apparizione del fantasma di Ophélie (poi Marie in Die tote Stadt). Il dramma mantenne quel titolo anche nell’edizione tedesca dei dram-mi di Rodenbach curata da Trebitsch (München, 1913), e ciò è importante, poiché sottolinea l’intenzionale sposta-mento del centro poetico irradiante e del nucleo fantasti-co-drammatico rispetto al romanzo. Importante, in parti-colare, nell’ispirazione musicale di Korngold. Il ventenne compositore tracciò subito una sceneggiatura in 1 atto, en-tusiasmandosi per il soggetto. Intervenne Hans Müller, che ampliò il progetto facendone un’opera in 3 atti, cui avrebbe voluto dare un titolo quasi dannunziano per antifrasi, Der Triumph des Lebens («Il trionfo della vita»). Presto, però, l’ir-requieto Müller rinunciò alla collaborazione, e lo sostituì il cinquantottenne Julius Korngold, in strettissima intesa con il figlio. Erano i tempi in cui Erich Wolfgang ubbidiva an-cora ai gusti e alle posizioni teoriche del genitore in materia di teatro e di musica, e taluni hanno asserito che il giovane musicista fu spesso plagiato dall’anziano critico. Alcuni so-spettavano addirittura, stizziti dalla precoce genialità del-

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l’enfant prodige, che Julius scrivesse la musica per cui il figlio era ammirato: una falsa accusa, respinta da Julius drastica-mente: «Se io sapessi scrivere musica come questa, non fa-rei il critico!» («Wenn ich Musik wie diese schreiben könnte, wäre ich nicht Kritikor!»). Korngold padre, tuttavia, si celò dietro lo pseudonimo di Paul Schott. Il prenome fittizio al-ludeva al nome del protagonista dell’opera, Paul, sostituti-vo di Hugues Viane. Il fittizio cognome era allusivo alla ca-sa editrice Schott di Mainz, destinata a pubblicare Die tote Stadt. Al principale socio proprietario della Schott, Ludwig Strecker (Dieburg in Assia, 26 marzo 1853 – Mainz, 19 di-cembre 1943), fu dedicata dall’autore Die tote Stadt. Il 15 ago-sto 1920, Korngold ultimò la composizione della partitu-ra. Nell’ottobre 1920, Giacomo Puccini fu a Vienna, ed eb-be l’occasione d’incontrare il ventitreenne Korngold. Stra-no destino: fra i progetti operistici presi in esame da Pucci-ni tra il 1903 e il 1910 e mai realizzati, c’erano anche A Flo-rentine Tragedy di Oscar Wilde (messa in musica da Zemlin-sky nel 1916-1917) e, appunto, Bruges-la-Morte di Rodenba-ch. Korngold, al pianoforte, suonò e cantò per intero Die to-te Stadt in presenza di Puccini, il quale ne fu tanto impressio-nato da definire in pubblico Korngold come «la più grande speranza della nuova musica tedesca».

Se esaminiamo la già ricordata Handlung der Oper scritta da Korngold nel 1921, vediamo come l’azione in sintesi dia ri-lievo a una serie di eventi musicali, non puramente espan-sivi o decorativi rispetto alla sceneggiatura, ma nuclei es-senziali della drammaturgia. Fin dalle prime righe, l’imma-gine di Bruges, città morta, si apre con l’evocazione di un suono mesto e lugubre: «… le sue campane, le vecchie case in rovina, l’acqua stagnante nei canali, le chiese malinconi-che e i chiostri…». Quando in casa di Paul giunge Mariet-ta, ella «canta una canzone, accompagnandosi con il liuto, un canto di un “amore fedele votato alla morte”, che assu-me per Paul un grande significato. Marietta danza, eccitan-do i sensi del giovane. Cedendo alla seduzione, Paul tenta di abbracciare la donna. Respingendolo e allontanandosi da lui, ella resta impigliata nella tenda che cela il ritratto di Marie; tentando di districarsi, scopre il ritratto. Non è forse lei medesima, quella donna? Lo stesso scialle, lo stesso liu-to? Ora però Marietta deve andare alla sua prova teatrale: è Hélène in Robert le Diable di Meyerbeer». Quando Mariet-ta lo lascia, Paul è combattuto tra la fedeltà alla memoria di Marie e il nuovo incalzante desiderio. Percorso da una ten-sione che gli turba i sensi e l’anima, il giovane ha una visio-ne. Gli sembra che Marie esca dal ritratto: è un’immagine uscita dalla dolorosa e nostalgica fantasia o dai rimorsi della coscienza. Paul giura a Marie di esserle rimasto fedele, ma il fantasma lo esorta ad uscire, poiché un’altra lo chiama alla vita. All’improvviso, in luogo di Marie il giovane vede Ma-rietta che danza sfrenatamente.

Nel II atto, gli eventi musicali si avvicendano in modo ad-dirittura clamoroso, e sono ancor più essenziali all’azione scenica: anzi, tutt’uno con essa. Sulla sponda di un canale, Paul rivela alle campane di Bruges, «ferrei confessori», le ferite della sua coscienza. Quando la compagnia teatrale di cui fa parte Marietta si avvicina in barca, cantando allegre canzoni, la ragazza suggerisce di provare all’aperto la sce-na di Hélène da Robert le Diable. Victorin, direttore di scena, fischietta il motivo della Risurrezione dall’opera di Meyer-beer. Dalla cattedrale viene il suono di un organo, mentre le beghine appaiono spettrali alle finestre. Il cielo si copre di nubi violacee e minacciose, e le campane suonano a morto. La sceneggiatura è già in sé, nel suo gioco d’incastri sono-ri, una straordinaria drammaturgia musicale. Così, nel III

atto, la scena della processione sacra associa il coro dei fan-ciulli a un misterioso ritmo di marcia. L’invenzione musi-cale di Korngold procede tutta secondo la tecnica del mon-taggio e dell’ibridazione.

L’autore trae forza drammatica da due procedimenti in-ventivi. Il primo è l’elaborazione di brevi motivi fondati su intervalli di quarta e di quinta, caratterizzanti i diversi mo-menti dell’azione con lievi sfumature di linea melodica. Il secondo è l’improvviso turgore lirico che dilata l’espressio-ne musicale e sembra immobilizzarla in una sorta di estasi allucinatoria. Una spettrale e tragica sembianza nasce così, a tratti, da semplici e graziosi elementi di musica «già data»: la canzone popolare intonata da Victorin, «Ja, bei fest und Tanz», la romanza da salotto «Mein Sehnen, mein Wähnen» cantata da Fritz, il Pierrot della compagnia; l’aria di Mariet-ta, «Glück das mir verlieb» nello stile della giovane scuo-la italiana detta impropriamente «veristica». La scena del II atto in cui Marietta, spiata da un Paul geloso e tormentato, civetta con il ballerino Gaston, ci ricorda molto da vicino Il tabarro pucciniano. A volte, con efficace logica espressi-va fondata sul rovesciamento di situazione mediante inver-sione dei pro-c e d i m e n -ti musicali, il repentino in-turgidirsi del-la melodia è sostituito dal suo contrario: l’invenzione melodica si fa esile, diventa l’ombra di se stessa, si fran-tuma. Il moti-vo che emerge dall’orchestra nella scena in cui il fanta-sma di Marie esce dal ritrat-to (una scena che ci ricorda un’opera amatissima da Korngold, Les contes d’Hoffmann di Hoffenbach) assume la funzione di idée fixe nella coscienza di Paul. Quando la larva di Marie, rientrando lentamente nel ritratto in un alone di nebbia, pronuncia le terribili pa-role «Unsere Liebe war, ist und wird sein» («il nostro amore fu, è e sarà»), quel motivo si spezza in frammenti. Ma quan-do, alla fine dell’opera, il motivo suona per l’ultima volta, dilatato, nelle parole di Paul:

Leben trennt vorn Tod –grausam Machtgebot.Harre mein in lichten Höh’n –hier gibt es kein Auferstehn.

La vita si separa per sempre dalla morte –crudele volontà d’implacabile sorte.Tu nella luce arrendimi, lassù –risurrezione qui non c’è, mai più.

esso è di nuovo ricomposto, e la sua originaria unità è la memoria di un passato irrecuperabile. ◼

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Pier Luigi Pizzi firma regia, scene e costumi della Città morta di Erich Wolfgang Korngold, di scena alla Fenice dal 23 al 31 gennaio. In questo intervento illustra le linee generali del suo allestimento.

«Tutto nasce da Bruges-La-Morte di Georges Roden-bach, un romanzo

breve che raccon-ta la storia di au-toannientamen-to del protagoni-sta: costui, perdu-ta la moglie, si tro-va a vivere una in-quietante espe-rienza, credendo di riconoscere in una donna che in-contra per la stra-da una sosia della morta. Pensa in tal modo di poter ri-costruire il passa-to, cosa che si rive-la falsa e impossi-bile, per quanto la somiglianza tra le due donne sia per-fetta. Nonostante l’incredibile con-formità esteriore si rende progressiva-mente conto che la spiritualità, la sen-sibilità e i senti-menti della donna che aveva amato per dieci anni non possono essere gli stessi. Nel testo di Rodenbach la cit-tà che fa da teatro a questa vicenda è caratterizzata dalle sue atmosfere gri-gie e nebbiose, in-trise di mistero. La sposa perduta si identifica continua-mente con la città, anch’essa morta, che attraverso la sua impalpabilità riflette lo stato d’animo del protagonista, le sue angosce, i suoi smarrimenti e la sua inesausta ricerca di un amore perfetto che non si può più ritrovare. Inse-guendo questa utopia lui, come la città, affonda nelle ac-que morte.

Quest’ambientazione, così poetica e coinvolgente, ha suggestionato Erich Wolfgang Korngold, che ha com-

posto un’opera densa di atmosfere romantiche e liriche, che mettono in evidenza il senso di disfacimento vissu-to dal protagonista, descrivendo con la musica il suo sta-to d’animo altilenante, che oscilla perennemente tra slan-ci e ripiegamenti.

Questa è l’opera che mi trovo a dover allestire, senza tra-dirla e cercando una analogia tra la città e la storia narrata. In questo senso fondamentale è l’idea che questa città sia costruita sull’acqua, perché oltre a corrispondere allo sta-to emotivo dei personaggi fa nascere immediata una for-te similitudine con Venezia. Alla Fenice, è naturale pren-dere a modello proprio Venezia, tanto più che questa mia nuova esperienza segue in modo diretto quella dell’anno passato, quando diressi Death in Venice di Benjamin Brit-ten. Per molte ragioni questa è in qualche modo la conti-

nuazione di quel-lo spettacolo, qua-si formassero un discorso unitario. Come allora ave-vo posto l’accen-to su un’atmosfera lagunare fatta di nebbie, di smarri-menti, di angosce e l’annientamento del personaggio era messo a con-fronto con questa città proprio co-sì adesso in Korn-gold ripropongo il clima inquietan-te di un percor-so verso la morte e verso l’impossi-bile realizzazione dei propri ideali.

Per quanto ri-guarda la tradu-zione in immagi-ni di queste sen-sazioni, ho dato un ruolo da pro-tagonista al l’ac-qua, che sarà sem-pre presente sulla scena. Ma funzio-ne non seconda-ria avrà la nebbia, che simboleggia il comporsi e subito dopo il disperder-si, del percorso in-timo del protago-nista. Sono stati

d’animo di grande speranza che si alternano ad altri di cu-pa disperazione, quando si fa strada la consapevolezza che questo ritrovamento non ha riscontro nella realtà. Que-sta dicotomia sentimentale attraverso la musica raggiun-ge momenti di grande emozione, nei quali è facile ricono-scersi, perché ognuno di noi coltiva sogni impossibili. Ve-nezia, come accadeva in Death in Venice, è evocata attraver-so immagini della memoria, accenni ad una realtà onirica e riproposta in una dimensione mentale e poetica.» (l.m.) ◼

«La città morta»di Korngold secondoPier Luigi Pizzi

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Sul piano del peso strettamente drammatico-musi-cale si suol dire che Norma è di fatto un’opera a un solo personaggio: la protagonista. La giovane Adal-

gisa, infatti, è una deuteragonista destinata a venire pian piano fagocitata dalla personalità della Gran Sacerdotes-sa Norma, fino a scomparire del tutto nel momento in cui

il dramma raggiunge il suo culmine; Pollione è né più né meno quello che Guido Pannain ebbe a definire «un grul-lo di tenore», tutto muscoli e poco cervello; Oroveso in-fine non porta a compimento quella parte di monumen-tale imponenza che la sua prima apparizione sembrereb-be prometterci, rimanendo un personaggio sfuocato de-stinato allo sfondo della vicenda principale. A dispetto di tutto ciò, cantanti di prima sfera si sono alternati in qua-si due secoli nei quattro ruoli principali dell’opera, attira-ti evidentemente dalle peculiarità vocali messe in campo da Bellini.

Nella parte di Norma si susseguono uno dopo l’altro tut-ti i tratti canori del belcantismo primo-ottocentesco: c’è il canto estatico di «Casta diva» così come il canto vibrato di «Già mi pasco ne’ tuoi sguardi», l’effusione patetica di «Te-neri figli» come lo scatto d’ira di «Oh non tremare, o per-fido», la declamazione austera di «Sediziose voci» accanto

al virtuosismo leggero di «Ah! bello a me ritorna». Siamo insomma di fronte a un personaggio vocalmente caleido-scopico, di quelli fatti apposta per mettere in vetrina tut-te le doti canore e interpretative delle grandi primedonne che hanno avuto la forza d’affrontarlo, una parte che non richiede cioè soltanto perfezione tecnica sul piano musica-le, né forse una pasta vocale di particolare pregio timbrico, ma soprattutto un’interprete a tutto tondo, una grande at-trice capace di cantare in modo superbo.

Non per nulla Bellini scelse l’argomento dell’opera e co-struì la partitura su misura per Giuditta Pasta (1797-1865), colei che l’autore stesso ebbe a chiamare «l’Angiolo Enci-clopedico» (lettera del 28 aprile 1832): come dire, la voce

sovrumana capace di esprimere tutte le passioni della na-tura umana. Sul piano dell’estensione, la sua non doveva essere una voce propriamente sopranile, ma più centra-le, condividendo in ciò la natura canora di altri due gran-di cantanti dell’epoca: Isabella Colbran e Maria Malibran, emblemi per noi, oggi, del canto sopranile primo ottocen-tesco e nondimeno caratterizzate da una vocalità che di-remmo piuttosto mezzosopranile (per il fratello Manuel García jr., il più grande didatta del canto ottocentesco, la Malibran era da considerarsi senza meno un contralto). Ciò non impedì alla Pasta come alla Malibran di eccellere anche in parti che siamo abituati a etichettare da soprano leggero, Sonnambula innanzitutto, che l’una tenne a battesi-mo e di cui l’altra fece un cavallo di battaglia.

Secondo Stendhal, che le dedicò un intero capitolo nella sua Vita di Rossini, «La voce della signora Pasta ha una con-siderevole estensione. Essa rende in modo ancora sonoro

Le voci di «Norma»

Giuditta PastaGiulia Grisi

di Marco Beghelli

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il La sotto il rigo, e si alza fino al Do diesis e al Re acuto. La signora Pasta possiede il raro vantaggio di poter cantare la musica di contralto come quella di soprano. Oserei dire, malgrado la mia poca dottrina, che la sua voce è di mezzo-soprano. Il maestro che scrivesse per lei dovrebbe porre la tessitura ordinaria dei suoi canti nella voce di mezzosopra-no e servirsi poi, di passata, di tutte le altre note di un or-gano così ricco. Molte di esse sono non soltanto belle, ma producono una vibrazione sonora e magnetica la quale, io credo, per una miscela d’effetti fisici non ancora spiegati, s’impadronisce con la rapidità del fulmine dell’anima de-gli spettatori. Ed eccoci così a considerare una particolari-tà molto singolare della voce della signora Pasta: essa non è di un solo timbro, e questa differenza nei suoni di una stessa voce è uno dei più potenti mezzi d’espressio-ne di cui sa valersi tale ot-tima cantatrice».

Questa era dunque Giu-ditta Pasta; e questa, a ben guardare, è di fatto anche Norma, con la sua esten-sione ampia e impervia, con la necessità di modi-ficare il colore della voce al variare delle situazio-ni drammatiche e delle ri-spettive intonazioni cano-re, difficoltà che solo una grande cantante riesce a superare, grazie a un se-vero e incessante studio, come quello cui la Pasta si sottopose quotidiana-mente per dominare un organo vocale tutt’altro che duttile e omogeneo in natura.

Suo contraltare in quel 26 dicembre 1831 alla Sca-la – serata che rappresentò il debutto non solo di Nor-ma ma anche della stessa Pasta nel maggiore teatro milanese – fu Giulia Grisi (1811-1869), vero soprano al contrario della collega, che le cronache ci dicono per converso dotata di una vo-ce limpida e fluente, agile e omogenea in tutta la sua gam-ma, disposta a sacrificare sin l’articolazione verbale e la va-rietà espressiva pur di non intaccare la bellezza del suono: una dose di «superficialità» caratteriale che ben si sposava con il personaggio più giovane e per certi versi ingenuo di Adalgisa, come con quello di Elvira nei Puritani e di Nori-na nel Don Pasquale che più tardi Bellini e Donizetti scrive-ranno per lei: «Dagli la Sonnambula, i Puritani, la Gazza la-dra, e mille opere di genere semplice ed innocente, ti pos-so giurare che non sarà seconda a persona, ma nei carat-teri elevati, non li capisce, non li sente, perché non ha né tale istinto, né istruzione per sostenerli con quella nobil-tà ed alto stile che richiedono; dunque sarà mio sentimen-to che nella Norma sarà nulla, e la parte d’Agaldisa è la so-la che s’adatta al suo carattere», commentava lo stesso Bel-lini (1 luglio 1835) alla notizia che in Londra la Grisi si era

cimentata con il ruolo della protagonista, sortendone «un solenne fiasco».

Eppure la tradizione interpretativa dell’opera nei cento-cinquanta e più anni che seguirono tolse ad Adalgisa pro-prio quel manto di giovanile innocenza con cui l’aveva ri-vestita Bellini, man mano che la strada del teatro roman-tico procedeva sul sentiero della contrapposizione cano-ra fra le due rivali di un melodramma, etichettando in via automatica come soprano la protagonista, come mezzoso-prano la sua controparte amorosa: Elisabetta ed Eboli, Ai-da e Amneris, Gioconda e Laura. Ed ecco allora che anche Norma divenne presto appannaggio di soprani propria-mente detti (la stessa Grisi, come s’è visto) mentre Adalgisa

per contrapposizione tim-brica fu affidata ai mezzo-soprani, non senza inter-venti sulla scrittura belli-niana per adattare le vec-chie parti alle nuove in-terpreti a suon di traspor-ti tonali e scambio delle li-nee vocali nei pezzi d’as-sieme. Solo a partire da-gli anni settanta del secolo scorso una nuova consa-pevolezza filologica ha in-dotto alcuni spiriti illumi-nati a ripristinare gli equi-libri originali, a partire al-meno da quella produzio-ne di per sé storica voluta da Rodolfo Celletti al Fe-stival di Martina Franca (era il 1977), che affiancava per la prima volta in epoca moderna una Norma con voce brunita di mezzoso-prano acuto (Grace Bum-bry) a un’Adalgisa sopra-nile quanto mai chiara e delicata (Lella Cuberli). Quella che avrebbe do-vuto imporsi come l’occa-sione d’avvio per un nuo-vo corso esecutivo rimase tuttavia lettera morta per molti anni ancora, al pun-to che tutt’oggi suona co-

me eccezione e non come regola un’Adalgisa in voce di so-prano, tale e quale la previde Bellini.

Alla Scala, nel 1831, Pollione fu il tenore Domenico Donzelli (1790-1873), sul quale molte sciocchezze sono state scritte negli ultimi tempi: ad esempio, che si trattas-se di un «tenore centrale», praticamente un baritono, che saliva con voce robusta fino al Sol, oltre il quale emette-va gli acuti con la tecnica del falsettone. E tutto ciò in for-za d’una lettera scritta a Bellini mentre questi s’accingeva a comporgli la parte, in cui dichiarava: «L’estensione, dun-que, della mia voce è quasi di due ottave, cioè dal Re basso [Re2] al Do acuto [Do4]. Di petto, poi, sino al Sol [Sol3]; ed è in questa estensione che posso declamare con egual vi-gore e sostenere tutta la forza della declamazione. Dal Sol alto al Do acuto posso usare di un falsetto che, impiegato con arte e forza, dà una risorsa come ornamento» (3 mag-gio 1831). Ora, non è questa la sede per ripercorrere anco-

Giuditta Pasta Maria Callas

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ra una volta la storia sull’equivoco nato attorno al frainten-dimento moderno del termine falsetto, che all’epoca non si-gnificava per gli italiani lo sbiancamento caricaturale del-la voce virile, ma né più né meno che la gamma superio-re della voce, raggiungibile con il cosiddetto «passaggio di registro», cioè il cambiamento della modalità di emissio-ne, dal registro con risonanze «di petto» al registro con ri-sonanze «di testa»: un passaggio che qualunque tenore ha sempre dovuto attivare e sempre attiverà per raggiungere gli estremi acuti, con buona pace di coloro che si ostinano a parlare di «Do di petto» ed espressioni simili, del tutto insostenibili sul piano della fisiologia umana.

Con quella lettera, Donzelli comunicava semmai a Bel-lini di essere un tenore in piena regola, e non un baritono, come del resto dimostra ampiamente il repertorio ch’era uso a cantare, da opere rossiniane come L’inganno feli-ce e La Cenerentola (e Rossini scrisse espressamente per lui la parte del protagonista in Torvaldo e Dor-liska, nonché il Cavalier Belfiore del Viaggio a Rei-ms) a ruoli affatto tenorili come quelli del Pirata e della Straniera belliniani, della Parisina e della Lucia di Lammermoor donizettiane, della Muta di Portici di Auber. Certo, Bellini affermava che «Donzelli non potrà cantare il Pirata, perché gli si dovrebbe trasportare tre to-ni sotto» (2 agosto 1828), e sappiamo di fatto quanto gli interpreti dell’epoca fossero scaltri nell’adattare le parti vo-cali alla propria speci-fica tessitura; ma è an-che vero che quella del Pirata è una parte ipe-racuta, pensata a misu-ra di Giambattista Ru-bini, mentre Donzel-li parrebbe essere sta-to un tenore «norma-le». Sennonché pro-prio nel corso di que-gli anni trenta il buon Donzelli – al pari d’altri suoi colleghi, Gilbert Duprez in primis – sta-va procedendo verso una profonda modifica-zione timbrica dell’emis-sione, ottenuta sfruttando al massimo la cassa di risonan-za offerta dal cavo orale, alzando esageratamente l’arco del palato e arretrando il più possibile la radice della lingua per raggiungere quella posizione, detta «dello sbadiglio», che amplia notevolmente gli spazi vuoti all’interno della boc-ca. L’effetto ottenuto era una voce più potente e più scu-ra (voix sombrée) da cui l’apparente effetto di una emissio-ne tutta di petto fino agli estremi acuti (il sedicente «Do di petto», spacciato come presunta invenzione di Duprez): un’emissione che, abbandonate le esagerazioni della prima ora, è stata poi ereditata da tutte le generazioni successive, fino ai giorni nostri.

Tale ricerca spasmodica di un volume sonoro sempre più ampio e potente si ritorceva naturalmente contro altre componenti che il belcantismo d’inizio Ottocento aveva pur accarezzato: quello della pronuncia chiara e nitida, ad esempio, che l’abbassamento forzato della radice della lin-

gua inficiava invece notevolmente. Così scriveva nel 1842 Alberto Mazzucato sulla «Gazzetta Musicale di Milano»: «Qualunque artifizio di pronunzia, sia in raddolcimento di consonanti sia in ristringimento di vocali, sia persino nel-l’introduzione di alcune consonanti o vocali pienamente estranee alle parole sottoposte alla musica, tutto era ado-perato allo scopo del maggior volume vocale, al quale uni-camente sembravasi aspirare. E vogliamo lusingarci che non ci si griderà alla bestemmia se asseriamo – cosa in fat-to da noi scrupolosamente osservata – che Donzelli, a mo-do d’esempio, nella sua sortita del Bravo [di Mercadante, alla Scala nel 1839], dove si presenta colle seguenti paro-le “Trascorso è un giorno eterno, ecc.”, non altrimenti in-terpretava che così: “Troscuorso è un giuoreno etereno”. E più sotto: “Par che un nemico Iddio m’abbia sul petto /

nell’ira sua questo pugnal cacciato”, che egli precisamen-te verteva: “Por che un nemico Iddiho m’obbio sul

pettmuo | nell’iro suo questo pugniol cocciotmuo”. Dall’osservazione delle quali poche parole ognuno può inferire qual novella forma dovessero prende-

re i concetti del poeta».Pollione si trovò dunque a costituire una

delle tappe che condussero, con Donzel-li ed altri, a tali esagerazioni espressive, incontrando terreno fertile in un per-

sonaggio fiero e vibrante, come de-v’esserlo un vero proconsole ro-

mano. È del resto lo stesso Bel-lini a invitare l’interprete a

un’emissione forte e ma-schia, quando prescri-ve «Canto vibrato» nel-la cabaletta «Me proteg-

ge, me difende», men-tre in numerosi altri luoghi della partitura sembra prendere alla lettera le richieste del primo interprete che si diceva capace, in zona centrale, di «de-clamare con egual vi-gore e sostenere tut-ta la forza della de-clamazione». Persino l’occasionale Do acu-

to che in quella lette-ra Donzelli mette a di-

sposizione del compositore qua-le «falsetto che, impiegato con arte e forza, dà una risor-sa come ornamento» viene prescritto da Bellini nel tem-po lento della cavatina «Meco all’altar di Venere»: e pro-prio quale «ornamento», vale a dire come variante melo-dica della frase «eran rapiti i sensi» testé intonata, che in quanto variante può benissimo essere tralasciata (come capita nella maggioranza dei casi in sede esecutiva), ov-vero sostituita a sua volta con qualcosa d’altro. Questa è la vera filologia applicata al «belcanto» sette-ottocentesco, non già l’esecuzione supina del segno scritto, a dispetto del «malcanto» che potrebbe eventualmente derivarne! ◼

Per gentile concessione dell’editore Bongiovanni – Bologna

Domenico Donzelli

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Dal 20 febbraio al 3 marzo al Teatro Verdi di Trieste va in scena Norma di Vincenzo Bellini, con la direzione d’orchestra di Julian Kovatchev e la regia di Federico Tiezzi. All’artista toscano chiedia-mo di raccontare la sua interpretazione dell’opera.

Il mio allestimento di Norma risale al ‘91, quando mi ven-ne commissionato dal Petruzzelli di Bari poco prima del drammatico incendio. Fu la mia prima collaborazione con

Mario Schifano, e anche l’unica andata ad effetto, perché pur-troppo lui venne a mancare prima di completare il no-stro progetto per Madama Butterfly. In realtà fu anche il mio primo lavoro di teatro musicale: allora avevo por-tato a Bari la mia versione della Divina Commedia, alla quale avevo lavorato con poeti come Edoardo Sangui-neti, Mario Luzi e Giovanni Giudici. Quello spettaco-lo aveva un impianto di tipo “operistico”, con una spa-smodica attenzione alla musica, e probabilmente fu per questo che in quell’occasione mi fu chiesto di provarmi nella regia lirica. Accettai con entusiasmo, proponen-do di lavorare insieme a Schifano, che era da tempo un mio desiderio, e così nacque l’esperienza di Norma. Lo spettacolo andato in scena a Bologna questa primave-ra – che passerà per Trieste per poi infine approdare di nuovo a Bari, festeggiando anche simbolicamente la riapertura del Teatro – nelle sue diversità, conserva il disegno originario: si tratta cioè di una Norma al con-tempo neoclassica e ossianica. A Schifano avevo chie-sto di concentrare il suo lavoro su due elementi nordi-ci: una quercia, simbolo che richiama direttamente un certo tipo di natura, e la luna, elemento allo stesso tem-po naturale e rituale che presiede alla malinconia. Que-sto era per me molto importante, perché volevo legare Norma a quella lunacy che Shakespeare riferisce ad Am-leto, uno dei personaggi più amati dalla letteratura che sta a cavallo tra tardo Neoclassicismo e prime avvisa-glie del Romanticismo. La lunacy è una specie di lan-guore malinconico, una follia della mente, un’astenia che normalmente viene attribuita o ai pazzi oppure ai veggenti, un sentimento quindi assolutamente calzan-te per il personaggio di Norma.

Più di quindici anni dopo, insieme a Pier Paolo Bisleri, che an-che nel ‘91 aveva collaborato alla concezione delle scene, abbia-mo riconcepito tutta la scenografia – mentre i costumi, che era-no di Ruggero Vitrani, ora sono di Giovanna Buzzi – e ci sia-mo orientati su un’opera che ha qualche differenza rispetto al-la precedente, anche se molti restano i tratti co-muni. Abbiamo reimmerso di nuovo tutta Nor-ma dentro un blu profondo, il blu della notte, al-l’interno del quale si svolge per gran parte la vi-cenda. C’è una presenza ossessiva della luna e della luce lunare, che collegano la Norma di Bel-lini direttamente a Leopardi, un accostamento

che credo piuttosto inedito, anche se si tratta di un nesso pale-se, che sta davanti agli occhi di tutti, a cominciare dalle coinci-denze cronologiche. Tutta l’opera – per quanto avvenga in co-stumi neoclassici, per quanto i bimbi giochino con un trenino, un cerchio e un pallone, per quanto tutta l’imagerie sia fortemen-te tardoneoclassica e premoromantica, come se tutto fosse illu-minato da Friedrich – deriva il suo senso primario dalle notazio-ni che Leopardi ci ha lasciato a proposito della luna, o più pre-cisamente dalle riflessioni che la potenza energetica della luna ha suscitato in un poeta come lui. Partendo da questa “tavola di orientamento”, ho cominciato a lavorare sull’allestimento, nel quale, attraverso degli enormi screen blu, viene ricostruito uno spazio emotivo in cui la scenografia nei suoi movimenti dina-mici possa diventare espressiva della musica, ricongegnare cioè scenograficamente, spazialmente, e quindi nel movimento de-gli attori, l’espressività della partitura. Non mi interessa affatto che si illustri quello che dicono le parole: mi interessano inve-ce i conflitti che caratterizzano la musica, in modo particolare quella di Bellini e di Verdi.

Come riferimenti principali ovviamente mi sono rivolto alla Medea di Euripide e alla Velléda dei Martyrs di Chateaubriand. Ma questo sta sullo sfondo, la mia Norma è una maga, e per co-

struire la sua figura sono tornato con la memoria ai meraviglio-si gesti di Maria Callas: di questa incredibile gestualità nei pri-mi anni ottanta avevo discusso con Jerzy Grotowski, e ci era-vamo trovati d’accordo nel definirla una prova di grandissimo teatro interiore.

In questa nuova versione – oltre a utilizzare un mucchio di scene di Schifano – ho potuto anche ricostruire alcuni bellissimi fondali firmati da lui, che però non avevamo potuto utilizzare per-ché erano arrivati fuori tempo massimo. E in questo modo ho potuto riandare con il pensie-ro a tutte le nostre discussioni di allora… (l.m.) ◼

La «Norma» lunare e leopardiana di Federico TiezziIl capolavoro di Bellinial Verdi di Trieste

Trieste – Teatro Verdi20, 24, 26 febbraio, ore 20.30

21 febbraio, ore 16.0028 febbraio, ore 17.00

1 marzo, ore 16.003 marzo, ore 20.30

Norma nella versione di Federico Tiezzi

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Page 11: 18 — all’opera Verso «Die tote Stadt» - Coopcultureopera.pdf · giustificare il giudizio e per trasformare in commiserazio- ... da Schönberg a Hanslick, da Hofmannsthal a Zemlinsky,

Va in scena al Teatro Malibran, al-l’interno della programmazio-ne della Biennale di Mauri-

zio Scaparro, L’impresario delle Smirne di Carlo Goldoni, con la regia di Luca De Fusco e le musi-che che Nino Rota aveva compo-sto cinquant’anni prima per l’al-lestimento della Fenice firmato da Luchino Visconti. Francesco Lombardi, curatore dell’Archivio «Nino Rota» presso la Fondazio-ne Giorgio Cini di Venezia, ci parla di queste partiture.

«Rota era un uomo disordina-tissimo, ma conservava tutto, il che rende abbastanza scontato che quello che

non è stato perduto dopo la sua morte, o regalato in vita, pian piano riemerga. Per quel che riguarda le musiche teatrali è rima-sto davvero molto, contrariamente a ciò che a volte accade per altri autori, avendo questo tipo di repertorio una vita general-mente limitata alla produzione dello spettacolo. L’impresario del-le Smirne – allestimento molto ricco, come altrimenti non sareb-be potuto essere uno spettacolo di Visconti – debuttò alla Feni-ce l’1 agosto del 1957 per la direzione di Bruno Nicolai, maestro

spesso coinvolto nell’ambito della musica da film. Se si conside-ra il catalogo di Rota, tutto è connesso, quindi la musica per il ci-nema ha spesso dei riferimenti tematici che si sono travasati nel-le composizioni concertistiche. L’impresario delle Smirne ha al suo interno uno dei temi del Padrino, così come – seppure declinato in modo completamente diverso – Il padrino si ritrova anche in Fortunella di Eduardo De Filippo.

Negli ultimi anni di attività Rota era un musicista non solo molto affermato, ma anche oberato da impegni. Decidere di fare ancora musiche di scena, quindi, era una scelta certamen-te non dettata da motivi di interesse ma dal piacere di creare del-

la musica d’uso, “dedicata”, basata su un testo. E questo contribuisce a tratteggiare la figu-

ra di un compositore che ha comun-que sempre considerato l’aspetto

artigianale un elemento mol-to importante del proprio la-voro: una risposta persona-le e originale in un’epoca in cui sul creatore di musi-che si accalcavano respon-sabilità totalizzanti legate alla crisi dei linguaggi e al-

la necessità di inventare una musica nuova. La risposta di

Rota è dunque quella di aderi-re alla maggior fonte di commis-

sione commerciale del suo secolo: il cinematografo, limitando quindi di mol-

to la propria libertà creativa. Se infatti la musi-ca nel cinema è senz’altro importante, tuttavia l’autore della colonna sonora rimane sempre al-la stregua di un collaboratore, a volte sicuramen-te indispensabile come nel caso del connubio Ro-ta-Fellini, ma comunque mai nell’occhio di bue che invece sosta sul regista. E nel teatro il ruo-

lo è ancora più “di servizio”. Poi è ovvio che ci siano spettaco-li teatrali dove la musica ha certamente un ruolo determinan-te. Ed è proprio questo il caso dell’Impresario delle Smirne. Altre volte ancora è accaduto che le musiche siano state spunto di-retto di trasposizioni cinematografiche: è il caso per esempio di Romeo e Giulietta di Zeffirelli che prima è stato rappresenta-to in teatro a Londra e che successivamente lo stesso regista ha trasformato in film utilizzando le medesime musiche». (i.p.) ◼

1. Suite per pianoforte a quattro mani di accompagnamento alla lettura della favola di Nino Rota Storia del mago Doppio e della fata Giglia 19192. Musiche di scena per l’azione teatrale di Pietro Metastasio L’isola disabitata 19313. Musiche di scena per lo spettacolo di Sergio Tofano L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi 19364. Musiche di scena per la rivista di Giovanni Mosca Nuvolinaria, liberamente tratta da Aristofane 19415. Musiche di scena per la commedia di Eugène Labiche Si jamais je te pince!.… 19416. Musiche di scena per la commedia di William Shakespeare La dodicesima notte... o quel che volete 1944 7. Musiche di scena per la rivista teatrale Il suo cavallo di Steno, Renato Castellani, Aurel M. Milloss 1944 8. Musiche di scena per il dramma di Ugo Betti Spiritismo nell’antica casa 1950

9. Musiche di scena per Liliom Leggenda in 7 quadri di Ferénc Molnar 1950 10. Suite musicale per piccolo ensemble di accompagnamento alla lettura radiofonica della novella Cristallo di Rocca di Adalbert Stifter 195011. Musiche di scena per la commedia Il mondo della noia di Édouard Pailleron 195412. Musiche di scena per la commedia L’Impresario delle Smirne di Carlo Goldoni 195713. Musiche di scena per la commedia in tre atti di Katy Frings Veglia la mia casa, Angelo 195814. Musiche per il radiodramma La contadina furba di Cesare Vico Lodovici 195815. Musiche di scena per la tragedia Romeo e Giulietta di William Shakespeare 196016. Musiche di scena per L’Arialda di Giovanni Testori 196017. Musiche di scena per la commedia Dommage qu’elle soit un p… di John Ford 196118. Musiche di scena per la commedia Much Ado About Nothing di William Shakespeare 1965

19. Musiche di scena per la commedia Il Contratto di Eduardo de Filippo 196720. Musiche di scena per la commedia Il Monumento di Eduardo De Filippo 197021.Musiche di scena per la commedia Napoli Milionaria di Eduardo De Filippo 197122. Musiche di scena per la cicalata del tempo e del luogo Ogni anno punto e da capo di Eduardo De Filippo 197123. Musiche di scena per la commedia in tre atti di Eduardo Scarpetta Lu curaggio de nu pompiere napulitano 197524. Musiche di scena per la commedia in tre atti di Eduardo Scarpetta Li nepute de lu sinneco 197525. Musiche di scena per l’atto unico di Eduardo de Filippo Gennareniello 197826. Musiche di scena per l’atto unico di Eduardo De Filippo Quei figuri di tanti anni fa 197827. Musiche di scena per la commedia in 5 atti di William Shakespeare La dodicesima notte... o quel che volete 1979

Musiche per le scene di Nino Rota

La musica di Rota per l’«Impresario delle Smirne»Luca De Fusco allestisce alla Biennale il testo goldoniano

FestivalInternazionaledel Teatrodiretto da Maurizio ScaparroVenezia20 Febbraio–8 Marzo 2009

Nino Rota

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la Biennale del Mediterraneo

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Venerdì 12 dicembre il Bassano Operafestival ha presentato La Tra-viata nella versione di Denis Krief, che ha firmato anche le scene e i costumi. Con l’occasione chiediamo al regista di raccontarci gli elemen-ti della sua interpretazione in chiave contemporanea.

«Devo fare innanzitutto una premessa: non penso che l’innovazione sia legata neces-sariamente all’epoca o alla rappresenta-

zione storica della vicenda. La regia non è un traslo-co d’epoca. Spesso si vedono degli allestimenti co-siddetti “contemporanei” costruiti con l’ambizione di essere innovativi e che sono, in realtà, molto vec-chi e senza senso; allo stesso modo si vedono, spes-so, delle realizzazioni di impostazione più tradizio-nale che riescono a trasmettere una grande forza di sperimentazione. Dipende poi molto anche dal pub-blico; a mio avviso, il pubblico del teatro lirico non ha ancora raggiunto una vera maturità, né intellettua-le né critica, come invece è accaduto per il pubblico della danza o della prosa. La mia Traviata non è altro che una proposta, certo non definitiva, ma circostan-ziata rispetto al contesto e alle condizioni di regia, in particolare rispetto al budget che avevo a disposizio-ne. Ritengo che il pubblico sia interessato a questo, ad accogliere cioè proposte nuove, e ritengo al contrario che la morte del teatro stia invece nella routine. Il mio allestimento è frutto di una scelta molto mirata che ho compiuto rispetto al Veneto e alla lirica in Vene-to. Nella storia del teatro italiano c’è una sorta di om-bra malefica che incombe a ogni nuova interpretazio-ne di quest’opera: è l’ombra della Traviata di Viscon-ti, di cui peraltro non è rimasta alcuna incisione au-diovisiva. Si tratta quindi di una memoria di qualco-sa che nessuno, o pochissimi, hanno visto, ma che ha dato adito a un certo “ciarpame” postviscontiano. Io stesso mi sono confrontato con questa memoria in-gombrante e per l’allestimento verdiano di Catania ho voluto seguire quella tradizione. Ma non ero sod-disfatto, perciò a Bassano ho intrapreso un’altra stra-da. Spero di essere riuscito a formulare una proposta differente proprio in virtù del fatto di essermi libera-to dell’antica Traviata. A Bassano ho dovuto fare i con-ti con un budget piuttosto ridotto, ma credo sia neces-sario tenere conto delle circostanze e trovare un mo-do adatto alle medesime e allo stesso tempo soddi-sfacente. Spesso a causa delle scarse risorse vengono messi in scena degli spettacoli ridicoli, senza rigore e senza criteri di qualità. Il risultato è pessimo. Ho preferito te-nere conto di queste condizioni e su questa base inventare un allestimento contemporaneo. Del resto la storia della Traviata è assolutamente moderna: è la vicenda di una donna che con il suo charme riesce a sedurre uomini potenti. Nella nostra epoca ci sono moltissimi casi di donne che potrebbero assomigliare

alla protagonista. Una Violetta contemporanea potrebbe ad esempio essere una modella famosa che, in un mondo in cui regna la superficialità, riesce a ottenere i favori di uomini po-tenti. Questa storia è assolutamente attuale, perciò quello che mi interessava era restituire precisamente l’atmosfera raccon-tata da Verdi. La mia, in fondo, è una proposta di new economy del teatro d’opera, che ha un riferimento culturale molto for-te nel gesto innovatore della Nouvelle Vague francese. Ritengo che in questo periodo storico sia indispensabile creare un al-tro tipo di teatro, in cui non ci si occupi solo di gestire la tra-dizione ma di innovare e inventare allestimenti sinceri e one-sti. È indispensabile un modo diverso di gestione dei teatri: in Italia si cerca ancora di scimmiottare un teatro d’opera che non c’è più. Sarebbe davvero importante ci fossero dei politi-ci in grado di accogliere le novità. La politica è fondamentale per il cambiamento, mentre spesso quello che interessa è solo

l’aspetto di mondanità. In Italia ci sono tanti artisti giovani di talento, ma con un futuro professionale molto difficile. I can-tanti selezionati in questa versione sono tutti giovani davvero bravi e intelligenti, che mi hanno permesso di fare una vera re-gia di attori e di raggiungere un’enorme soddisfazione: nono-stante tutto, l’Italia è ancora un grande serbatoio di talenti». ◼

La «Traviata»secondo Denis KriefA Bassano un allestimento contemporaneoe sperimentale

di Arianna Silvestrini

Traviata, nella versione di Denis Krief

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