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Ragazza eritrea ortodossa in preghiera Alla scoperta del Canale delle Moline in gommone

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Via Saragozza

Processione della Madonna di San Luca

4 ottobre, Festa di San Petronio nella basilica a lui dedicata

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Sopra e a destra Pasqua nella Chiesa ortodossa di San Basilio il Grande

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Pasqua eritrea ortodossa nella chiesa di via De’ Fusari

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28 ottobre 2007. Inaugurazione della Chiesa Cristiana Evangelica nigeriana a Formica di Monteveglio

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Estate 2006. Campioni del mondo!!!

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Macelleria di Via Arno Rom bosniaci in Via delle Volte

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Rudere abbandonato occupato dai senza casa Ex fabbrica, occupata nel 1992, in Via Sebastiano Serlio

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Dopo le feste di Natale del 1992, alle 7 del mattino, una decina di

ruspe con targhe coperte, guidate da operai con passamontagna,

protetti da poliziotti e carabinieri, entrano nell’ex fabbrica di armi

di via Sebastiano Serlio occupata in primavera dagli autonomi e la

radono al suolo.

Per quasi un anno la “Fabbrica”, era diventata un centro dove

incontrarsi, fare serate di musica, poesia, ilm, politica, mostre fotograiche e anche la sede di “Senza Frontiere”, un comitato molto attivo nato per dare una mano agli stranieri più indifesi.

C’era anche un capannone, il più piccolo, occupato dai “freak”,

barboni di cui nessuno si preoccupava, nemmeno la polizia.

In questo capannone è stata vissuta l’esperienza più bella e

irripetibile di tutta la storia della “Fabbrica”. Nello stanzone, con

al centro una stufa a legna, una ventina di persone ormai abituate

a vivere la solitudine della strada e delle stazioni, lentamente,

faticosamente, impara di nuovo a convivere, a organizzarsi.

In un anno diventano gruppo. Avevano chiarito il rapporto con

l’alcol, si erano liberati dalla dipendenza di enti, mense comunali,

Caritas. Ricominciavano a cucinare, lavare i panni, scrivere,

disegnare, fare lavori di manutenzione, pulizie, raccogliere legna,

costruire cucce per i cani.

Poi una mattina, guidati dalle stelle di Natale, ruspe e uomini

mascherati, schiacciano sotto i mattoni una storia che nessuno ha

mai raccontato e che non interessava a nessuno.

Nella notte vennero giù 25 centimetri di neve. Dentro i cartoni,

sotto il portico del Baraccano, faceva molto freddo.

Mario Rebeschini

Il capannone occupato nel 1992 dai “freak” nella ex fabbrica di Via Sebastiano Serlio Stazione di Bologna

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Piazza Maggiore

Antimilitaristi alla Festa della Repubblica

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3 marzo 2007. Manifestazione contro il Ctp, Centro di permanenza temporaneo di Via Mattei

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12 aprile 2007. Sgombero di un campo di Via Triumvirato

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“Del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti” si legge nel Salmo 24. “Gli uomini non sono padroni della terra ma solo amministratori dei beni di Dio”, questa affermazione è ripetuta con insistenza dai padri della chiesa. Ma allora perché questa indifferenza verso i poveri? Questa ansia di appropriarsi di tutto, di succhiare il sangue dei poveri? La evoca il profeta Amos elencando i trucchi dei disonesti: bilance false, vendite ritardate, rialzo strumentale dei prezzi, incette, strozzinaggio. Si direbbe che la parola di Dio nella parabola dell’amministratore disonesto, voglia far giungere anche oggi un avvertimento grave, soprattutto alle categorie di persone che operano nell’industria, nel commercio, nelle banche, nelle inanziarie, nella politica e in tutti quei settori dove nascono e crescono i soprusi verso i meno garantiti, a volte in proporzioni gigantesche, senza battere ciglio. Quando Dio nell’Apocalisse dirà a coloro che verranno cacciati all’inferno: “Avevo fame non mi hai dato da mangiare, avevo sete non mi hai dato da bere, ero nudo, non mi hai vestito…” non si riferiva allo sbracciarsi in elemosine o elargizioni, quanto a retta amministrazione e addirittura restituzione. Ma pensare che la parola di Dio sia indirizzata solo verso i potenti della terra è sbagliato: è indirizzata anche a noi. San Basilio dice senza mezze misure: “Il pane che vi resta è il pane dell’affamato. Il vestito appeso nel vostro armadio è il vestito di chi è nudo. Le scarpe che voi non portate sono le scarpe di chi è scalzo. Il denaro che avete nascosto è il denaro del povero. Le opere di carità che voi non compite, sono ingiustizie che voi commettete”.

Don Giuliano Scalvini

Sacerdote della Parrocchia Don Bosco

Era l’alba quando arrivai. La città aveva un buon odore. Risuonava lo scorrere dei primi passi. Occhi lucenti attraversavano le strade. Ancora una volta i corpi si attrezzavano ad affrontare il nuovo giorno. Diverso e giovane, misurai gli sguardi osservato da coloro i quali il mestiere aveva roso le mani. Andavo incontro al mio destino nella terra ricca, altera e orgogliosa della propria forza collettiva. Ho visto degli zingari felici riconoscersi, capire e cercarsi in Piazza grande. Tanta gente, tante voci, tante musiche. Le corse. Dietro un angolo di strada perdemmo la nostra gioia. Un muro, di fori mai rimarginati. La città pulita si assolveva. Le pagine voltate strascicavano la memoria. Ora altri volti osservavano la città. Volti più scuri, più giovani, arrivati in qua per sfuggire alla miseria o inseguendo il sogno della ricchezza facile sfoggiata dalla grande macchina della pubblicità che supera tutte le distanze. I cartoni si affollavano sotto i ponti e dietro i cespugli. Il freddo torceva gli occhi. La città non sentiva vergogna. Era presa dallo sgomento per la vernice appena scrostata del Ponte 3. Chiese lo sgombero. Le ruspe occuparono il posto ai cartoni. Una fabbrica abbandonata ai margini della città apriva le porte, a chi non aveva più volto, nome, colore: Mohammed, Mustafà, Fabio, Camel, Fatima, Chadlia, Aisha, Abbudullha. Si apriva un mondo di speranze, amori, colori, odori. “Senza frontiere” toglieva dalla clandestinità uomini e donne che diventano visibili, dirompenti. I canti risuonano per le strade. “Eho mabrucalina edil bidea masel masel”. Anche stavolta la città s’infuria. Le ruspe seppelliscono le speranze. Tanti, ancora arrivano. Volti impauriti dalle angherie e dalle tempeste del mare. Occhi che ci scrutano cercando pace, pane e chissà quando le rose. Ma l’emergenza risponde con l’emergenza, seppellendo sempre la richiesta di esistere in una terra che appartiene a tutti e la città, inta sorniona, continua a dominare, preoccupandosi della vernice appena scrostata del Ponte 3.

Pino De Biasi

Del Collettivo Crash

Bologna, la città colorata che ho conosciuto nel 1990 e che mi faceva ricordare Marrakech nel mese di marzo, con il suo colore, la sua gente, disponibile, curiosa, generosa nel suo approccio solidale, anche se purtroppo, non preparata a tutti i cambiamenti che sarebbero avvenuti troppo in fretta. Mi rivedo seduto con altri immigrati davanti alla chiesa di San Petronio in piazza Maggiore, sentendoci parte integrante di questa città. Mi piaceva quando qualcuno mi chiedeva informazioni su una via. Ricordo le lotte fatte insieme ai ragazzi di “Senza Frontiere”. Persone alle quali dobbiamo molto. Corrette, serie, credevano in quello che facevano. Con loro abbiamo sollevato il problema della casa. Con loro organizzata la prima grande manifestazione di stranieri a cui hanno partecipato 5000 lavoratori immigrati.Oggi Bologna è cambiata. È diventata difidente, indifferente. I conlitti strumentalizzati dai mass media, stanno facendo di tutto per presentare l’immigrato come cattivo e delinquente. È vero, non sono tutti buoni. Esistono anche tra di noi persone che delinquono, spacciano e si comportano in modo scorretto. Se sbagliano è giusto che paghino.Ora tutti a discutere: moschea sì, moschea no. Politici e capi popolo fanno di tutto in cerca di applausi. Ma prima o poi, la moschea si farà. Siamo già alla seconda generazione di immigrati e un luogo riconosciuto in cui andare pregare è diventato una esigenza non prorogabile. Hamid Bichri

Membro fondatore dell’Unione Democratica delle Associazioni dei Marocchini in Italia

Ogni volta, quando dall’altare mi volgo per benedire e vedo la chiesa piena dei miei fedeli ortodossi venuti in Italia dall’Ucraina, dalla Moldavia, dalla Russia, dalla Georgia e dalla Ex Jugoslavia, ringrazio Dio della grande grazia che mi ha fatto. Capisco cosa signiica ritrovare, insieme alla fede, le radici della propria terra lontana. Grazie alle preghiere i miei fedeli ritrovano il calore delle tradizioni lasciate nella patria. Ricordano le famiglie e i igli rimasti a casa. Ritrovano, nella preghiera, la calma e la dignità che Dio ha dato a tutti gli uomini, nessuno escluso. In chiesa non si sentono più stranieri in una Italia dove, uomini senz’anima, hanno fatto leggi solo per poterli sfruttare. So bene quello che dico. Sono stato anch’io un emigrante. Quando sento parlare d’integrazione e sento sostenere che molti stranieri non vogliono integrarsi, sorrido. Ricordo ancora che a New York dove vivevo, c’erano decine di circoli italiani ben divisi per regione: abruzzesi, napoletani, veneti, emiliani, genovesi, frequentati da quattro generazioni d’italiani molti dei quali non ricordavano più la loro lingua d’origine, ma se chiedevi loro cosa si sentivano di essere, rispondevano sempre: “americani!”. Per questo ritengo estremamente nociva questa cultura della paura in cui ci stiamo avvolgendo, dando agli stranieri la colpa di tutti i nostri mali e allontanandoli dalla nostra quotidianità. È un peccato, perché queste donne e uomini che stanno ringiovanendo la nostra terra di vecchi, se saranno conosciuti, apprezzati, aiutati, porteranno la speranza nelle nostre case sbarrate. Ci libereranno da tutte le paure che abbiamo, dalla paura delle malattie, dei ladri, di diventare poveri e di rimanere soli, magari con la televisione sempre accesa.

Padre Marco

Archimandrita della Chiesa ortodossa di San Basilio il Grande