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Francesco Parenti Pier Luigi Pagani Capire e vincere LA DEPRESSIONE La protesta in grigio dei nostri giorni

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Francesco Parenti Pier Luigi Pagani

Capire e vincere LA

DEPRESSIONE La protesta in grigio dei nostri giorni

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Pro t e s t a r e in grigio è sentirsi inuti le , insufficiente, nu t r i re un o d i o d i spe ra to per la p r o p r i a en t i tà fisica e m e n t a l e e per i p rop r i simili . È a n c h e n o n avver t i re più l 'es igenza fisiologi­ca d i sopravv ive re , non p r o v a r e a lcun des ider io , n o n scorge­re , nelle p ieghe immaginab i l i del t e m p o , n e p p u r e un obie t t i ­vo che meri t i un i m p e g n o di lo t t a . ' P r o t e s t a in g r ig io ' , d u n ­q u e , è dep res s ione .

F rancesco Pa ren t i e Pier Luigi P a g a n i p e r c o r r o n o in ques t e pag ine i l l ab i r in to della depress ione , t r a c c i a n d o un r e p o r t a ­ge che scuote i l le t tore e lo co involge . La lo ro indag ine p a r t e dal s o t t o f o n d o psicologico del f e n o m e n o e si ravviva con l 'e­spos iz ione n a r r a t a d i mo l t e vicende u m a n e . A f f r o n t a qu ind i le radici s tor iche e cul tura l i del ma le , ne cerca i segni nella l e t t e ra tu ra e ne l l ' a r t e e d ip inge un r i t r a t t o a t tua l i s s imo della nos t r a società d i so r i en ta t a e incer ta sul d o m a n i , n e l l ' a m b i t o della qua le i m u t a m e n t i o r m a i si c r e a n o e si d i s t r u g g o n o con un r i t m o incredibi le .

Nel libro non c 'è sol tanto ques to . C ' è anche — sostenuta dalla g r a n d e esper ienza p rofess iona le degli au to r i — u n a serie di p r o p o s t e agg io rna t e per p reven i re e c o m b a t t e r e i l f e n o m e n o depres s ione . E, inf ine , una f o r m u l a per i l vivere a t t ivo : ac ­cet tars i e fare p roge t t i .

Francesco Parenti e Pier Luigi Pagani, medici, analisti e didatti, sono stati promotori nel nostro paese di un progressivo rilancio della psicologia individuale adleriana. Hanno già firmato assieme molti volumi scientifici, di saggistica è di costume, fra cui ricordiamo in particolare Ps ico log ia e d e l i n q u e n z a , I g u a r i t o r i , P s i ch ia t r i a d i n a ­m i c a e Lo stile di v i ta . Parenti è anche collaboratore fisso di un noto mensile di divulgazione medica e recentemente ha pubblicato una biografia di Alfred Adler.

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Indice

Prefazione alla prima edizione p. 5

Premessa alla seconda edizione » 9

Le ragioni di un 'indagine » 11

I. Lo stile depressivo » 15

L'espressione e il linguaggio, 15. L'autodistruzione, 17. L'an­sia, 19. L'opposizione al mondo, 21. Il senso di colpa, 23. Le os­sessioni e le fobie, 24. Il delirio, 25. L'improduttività, 27. L'a­stensionismo sessuale, 27.

II. La depressione nella letteratura, nella filosofia e nell'arte » 29

Lo stile depressivo nella letteratura, 31. Lo stile depressivo nella filosofia, 38. Lo stile depressivo nella pittura, 44. Lo stile de­pressivo nel cinema, 49. Lo stile depressivo nell'architettura e nell'urbanistica, 53.

III. Storia e geografia politica dell'ambiente depressivo » 55

Qualche esempio dalla storia, 56. L'autodistruzione al culmi­ne del progresso sociale, 59. Vitalità e rassegnazione: un con­fronto etnologico, 64. La depressione degli sconfitti, 68. La de­pressione degli spiriti liberi, 72.

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IV. Lo stile depressivo nel Paese dei paradossi: note di costume sull'Italia contemporanea p. 80

Una Babele senza torri, 80. L'ex leader dagli occhi di ghiaccio, ovvero la morte del superuomo politico, 82. Declino e rinasci­ta della comicità, 84. L'isolamento musicale: statico o ambu­lante, 89. I suicidi delle reclute, 93. Declino e sofferenza di una classe dirigenziale, 96. Le tappe della droga, 99. Prima fase: la droga come protesta, 100. Seconda fase: la droga come declino e rassegnazione alla morte, 102. I genitori dei drogati, 104. Il revival della cocaina, 108. L'Aids, fatalità, errore degli uomi­ni o punizione divina?, 110. Delle diete, del colesterolo, del mo­dello magro e di altri temi, 112. La fine dello sport come liber­tà istintiva, 116. L'orgasmo pianificato, ovvero la nuova sessua­lità, 118. La donna: in bilico fra passato e futuro, 121. Un revi­val terribile: gli stupri, 124. Il ritorno all'ascetismo, 126. La più minuta rinascita dell'occulto, 131.

V. Depressione e psicologia del profondo » 137

La psicoanalisi, 138. La visione adleriana, 142. La formazione dei dinamismi depressivi: il ruolo dell'individuo, della famiglia e dell'ambiente, 145. Il ruolo storico dei mutamenti e delle per­dite, 148.

VI. Per dissolvere il grigio » 150

Può esistere una cultura antidepressiva?, 150. Problemi e dif­ficoltà nella psicoterapia del depresso, 153. Come condurre il trattamento, 155. Analisi di un caso, 158. Accettarsi e fare pro­getti: una formula per il vivere attivo, 164.

Glossario di alcuni termini e concetti psicologici contenuti nel testo » 167

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Francesco Parenti Pier Luigi Pagani

Capire e vincere

LA DEPRESSIONE La 'protesta in grigio ' dei nostri giorni

ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI

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Le ragioni di un'indagine

Sentirsi inutile, insufficiente, incapace di affrontare il di­venire continuo della realtà. Non confidare più nell'inter­vento di una mano protesa ad aiutare o a sorreggere. Sen­tire spezzato il legame biologico con l'esigenza di soprav­vivere. Non provare alcun desiderio, non avvertire, nelle pieghe immaginabili del tempo, neppure un obiettivo che meriti un impegno di lotta. Nutrire un odio disperato per la propria entità fisica e mentale e per i propri simili. Tutto questo è depressione.

Tale abbandono autodistruttivo, se pure configurato co­me istinto da alcune ipotesi psicologiche devianti, contrasta con lo schema generale evolutivo non solo dell'uomo, ma di ogni essere vivente. Il lungo cammino di sviluppo civi­le delle collettività umane, sebbene cosparso di errori e per­versioni, lascia intravedere nella sua globalità una forza competitiva proiettata in avanti, generatrice di solidarietà o invece di ferocia, ma sempre con l'intenzione palese o se­greta d'imporre forme di dominio da parte di un individuo o di un gruppo d'individui. Le manifestazioni depressive comportano dunque un tradimento o almeno una rinun­cia nei confronti della spinta istintiva a sopravvivere. E ov­vio perciò considerarle come segno individuale o colletti­vo di malattia o decadenza.

La psichiatria tradizionale, un po' ingenuamente fidu­ciosa nella possibilità di trovare presupposti organici al comportamento dell'uomo, si è occupata in modo abba-

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stanza restrittivo dei ritmi biologici che sottendono il tono dell'umore nel singolo. La nuova psicologia dinamica ha intrapreso con ardore pionieristico l'esplorazione di sentie­ri occulti sempre nell'individuo, delineando meccanismi e contenuti inconsci che inducono una depressione reattiva, ossia una risposta abnorme al mancato appagamento di un bisogno o di un desiderio. L'una e l'altra scuola (ce ne oc­cuperemo più a fondo in un capitolo) hanno privilegiato la sessualità o le esigenze che nascono da una supposta ere­dità ancestrale o le istanze che derivano dalla competizione fra gli uomini, come fattori di frustrazione.

L'analisi sviluppata in questo libro scaturisce, con diver­sa ispirazione, da una lettura psicologica della storia e da un'osservazione del mondo attuale. Crediamo che la de­pressione maturi con incidenza limitata in soggetti già pre­disposti o condizionati da personalissime esperienze esi­stenziali, ma dilaghi come più preoccupante fenomeno col­lettivo, sollecitata dai fermenti mutevoli della cultura. A nostro parere sono i modelli di pensiero e di costume scan­diti dall'ambiente a influenzare la "protesta in grigio" co­me compensazione sterile per le frustrazioni del singolo, bloccando scelte alternative sicuramente più vitali.

Non siamo certo i soli a sostenere un'impostazione am­bientalista, che anzi si propone come bandiera di un nuovo conformismo e, talvolta, come strumento di potere. Le nuove correnti dell'antipsichiatria, d'indirizzo marxista, hanno affrontato in modo apparentemente analogo le ma­lattie mentali, inclusa la depressione, attribuendole alla so­cietà. L'analogia delle tesi è però solo parziale, poiché il marxismo tende a dogmatizzare delle verità limitate, con­siderando, con finalità extrascientifiche, solo i conflitti eco­nomici di classe come cause delle psicosi e delle nevrosi. Uno studio veramente obiettivo della civiltà e della cultura consente invece di acquisire, accanto alle tensioni econo­miche e senza escluderle, altre e più cospicue matrici di de­viazione, alcune delle quali proprio riferibili ai fermenti di-

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struttivi delle trasformazioni politiche. Così, più volte nel corso del tempo e ancora oggi, la dissacrazione di certi va­lori e ruoli, anche solo convenzionali e contingenti, ha fa­vorito lo scoraggiamento e la depressione, colpendo vasti strati o solo determinati settori delle collettività umane. L'esplodere della violenza si è dimostrato capace di depri­mere soprattutto le sue potenziali vittime, specie se già mi­nate nel loro vigore difensivo. In linea di massima la de­pressione si è diffusa più incisivamente durante le fasi di decadenza di ogni civiltà, sia che questa dipendesse da un logorio interno, sia che fosse crudamente sollecitata da at­tacchi esteriori.

La finzione letteraria del fatto depressivo è un fenomeno a sé stante, in cui la carenza di fiducia e di entusiasmo per ogni aspetto della vita ha il sapore artificioso di moda cul­turale ma contemporaneamente è un mezzo che valorizza i suoi propagandisti, in realtà assetati di gloria e di domi­nio e quindi tutt'altro che depressi. Con un effetto parados­sale, però, questo gioco fittizio ha assunto nel corso della storia il ruolo contagiante di stimolo depressivo, specie per gli elementi umani più ricettivi, come le generazioni gio­vanili o gli anziani spodestati o i detentori di funzioni mi­nate dai cambiamenti del costume.

L'impegno di duttilità non dogmatica, cui abbiamo cer­cato di attenerci nel rilevare questi fenomeni, è stato sor­retto dalla nostra formazione psicologica adleriana. La chiave interpretativa di Adler, infatti, fedele soltanto alle istanze fondamentali dell'uomo, sempre ambiguo fra il competere e il cooperare, e immune da schematismi come il pansessualismo di Freud, è tale da inserirsi senza forza­ture nel mutare degli eventi collettivi.

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CAPITOLO PRIMO

Lo stile depressivo

Ogni uomo rappresenta un'unità irripetibile, con un suo "stile di vita", fatto di opinioni e tratti emozionali, di scelte d'azione e di obiettivi prevalenti, di modalità espressive e di ritmi dinamici: uno stile suscettibile oltre tutto di un rin­novamento continuo, che sfugge a ogni previsione e rispon­de in modo personalissimo agli stimoli dell'ambiente.

Anche una condizione frequente come quella depressi­va, pur segnando la confluenza variabile di alcune carat­teristiche comuni, offre aspetti diversi in ciascun individuo e ancora nelle fasi mutevoli della sua esistenza. L'essere de­pressi può costituire inoltre un'impronta di base con alter­nanze di tono, una cadenza di episodi intervallati dalla nor­malità o dall'euforia, o invece una risposta transitoria a precise circostanze.

Per queste ragioni, nel ricostruire il quadro depressivo, abbiamo evitato di proposito le rassicuranti finzioni scien­tifiche basate sulla codificazione dei sintomi e abbiamo preferito illustrare aspetti e fenomeni attraverso alcuni ri­tratti umani, il cui limite individuale desse comunque ri­salto alle possibili confluenze.

L'espressione e il linguaggio

Una donna di quarantacinque anni, che lascia decadere polemicamente la sua trascorsa bellezza in una passività se-

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mantica densa di accuse al mondo, che accentua lo spe­gnersi della sua precedente vivacità espressiva nel grigio­re di una fissità mimica, come scolpita nel pallore del mar­mo. L'abbiamo conosciuta in passato tutta protesa verso la valorizzazione estetica, pronta a incanalare le sue tensio­ni nella presentazione di un personaggio di élite, capace di polarizzare sempre e comunque l'attenzione maschile. Il duro, inesorabile avvertimento dei segni dell'età ha spez­zato in lei la compensazione prevalente della sua insicurez­za di fondo. Il mutare impietoso del costume non le ha con­sentito di dar corpo a un modello sostitutivo, che inserisse la classe ammirata nella maturità.

Un'altra variazione clamorosa, che segna il passaggio dallo stile esistenziale di piena realizzazione a quello de­pressivo. Avevamo conosciuto il soggetto, un professore di lettere sessantunenne, ora da poco in pensione, in una sua precedente fase d'impegno gratificato. Allora il suo stile era sottolineato proprio dalla scioltezza e dalla creatività del­la comunicazione verbale, ricca d'improvvisazioni origina­lissime. Lo rivediamo preda di una sindrome da pensiona­mento, incapace di ravvivare la cessazione dell'attività di­dattica con il culto ancora vitale d'interessi liberi. E pro­prio la decadenza di ruolo dell'anziano a generare il qua­dro. Il mito della maturità avanzata come fonte di saggezza è oggi decaduto e sostituito dal prorompere dissacrante dei fermenti giovanili, che dequalificano per assunto le im­pronte del passato. Il nostro paziente non è preparato a compensazioni narcisistiche, proprio perché la sua armo­nia era prima fondata integralmente sulla comunicazione. Il fatto di non essere più ascoltato induce in lui una degra­dazione semantica, paradossalmente esasperata. Oggi lo scaturire delle sue parole è lentissimo, intervallato dall'e­vasione astensionistica nel buio della disattenzione. Anche il suo gestire, prima elegante e un po' teatrale, è scomparso e ribadisce la fenomenologia censurata del discorso. Che non si tratti di un decadimento fisico senile, ma di un fatto

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essenzialmente psicologico, è provato dalla gradualità po­sitiva degli eventi nel rapporto psicoterapeutico. Con l'a­nalista, infatti, egli riesce a stabilire sul tempo una più vi­vace anche se ristretta relazione, che non trova alternative nel contatto ormai spezzato con il resto della società.

L'astensionismo semantico dei depressi è talvolta gravi­do d'imprevedibili esplosioni negative. Di colpo, un "rap­tus" può far scatenare l'ira incontrollata dal grigiore del­la rinuncia. In una giovane donna di trent'anni, osservia­mo la drammaticità di questo brusco mutamento. Nella prima parte di una seduta con lo psicoterapeuta è condotta a ricapitolare stancamente, senza alcuna vivacità espressi­va, le fasi del suo fallimento esistenziale. Racconta con pa­role scarne le carenze affettive della sua famiglia d'origine e poi le vicende di un matrimonio sempre anaffettivo, che s'intuisce accettato "per uscire di casa". D 'un tratto la fi­gura del marito scatena e polarizza una sua rabbia impre­vista. E significativo notare in lei i drastici cambiamenti della mimica e del linguaggio. Il viso senza impronte emo­tive si contrae in una trasmissione d'odio. I frammenti di discorso, prima intervallati da lunghi silenzi abulici, acqui­stano rapidamente un incalzare vertiginoso. I contenuti de­solati e privi di scopo defluiscono senza pause di transizio­ne nel calore patologico e assurdo delle minacce di morte.

L'autodistruzione

E proprio l'autolesività che, a nostro parere, configura il depresso come il più grave malato psichiatrico. L'idea di distruggersi contraddice l'istinto e quindi ogni afflato di so­pravvivenza. Essa può elaborare sottili e continue linee di scavo o prendere corpo nella decisione estrema del suicidio.

Non si può ignorare che C. odia se stesso, anche se non lo esprime a grandi lettere. E un uomo di cinquant'anni, di aspetto ancora gradevole, ma lascia intendere a mezzi

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toni il disgusto per il proprio corpo e per i suoi dinamismi precocemente stanchi. Segnala in ogni occasione il difetto delle sue facoltà di pensiero e d'azione nei confronti degli obiettivi che deve affrontare e dell'efficienza altrui, presen­tandola come irraggiungibile. Non gratifica se stesso di al­cun piacere, negandosi polemicamente anche le piccole si­tuazioni in precedenza gradite, e per farlo ricorre ad arti­fici di ogni genere. S'inventa disturbi funzionali che gli im­pediscono di assaporare i cibi, stanchezze che gli vietano le lunghe serate piacevoli di un tempo. E paradossale come la sua intenzione autodistruttiva si travesta con la superfi­ciale ricerca di una protezione: non mangio per non star male, non esco perché non reggerei all'impegno. Ma il si­gnificato dell'operazione è trasparente.

Analizziamo tre tentativi di suicidio, in cui la depressio­ne lascia defluire i suoi temi autolesivi a un diverso livel­lo, con un totale distacco dal mondo di chi continua a vi­vere o invece con l'intenzione caparbia di utilizzare la mor­te per punire l'ambiente o per richiamarne l'attenzione. In tutti è possibile avvertire il carattere innaturale e contro-istintuale del suicidio, posto in atto per far cessare una sof­ferenza insopportabile o come arma disperata rivolta verso gli altri: in nessuno la fine della vita appare credibilmen­te come obiettivo primario.

La motivazione del primo caso è la solitudine associata al declino fisico. Una depressione senile in un vedovo, che non ha più una mano vicina da stringere la sera, che sen­te i figli autonomi e lontani, protesi in una ricerca esisten­ziale che lo esclude. E facile intuire in lui, più che il biso­gno di porre fine a una vita, il rimpianto per non poter più avere stimoli, emozioni, comunicazioni, speranze, la con­vinzione di non poter più chiedere impegni di conquista al­la propria entità psicofisica.

La spinta autodistruttiva, nel secondo caso, scaturisce dalla frustrazione affettiva, generatrice a sua volta di orgo­gliose rivalse fondate sull'aggressività. Una ragazza di ap-

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pena diciott'anni e di viva intelligenza, già in contrasto con i genitori, incompresa nella sua creatività da un ambien­te scolastico non congeniale e ulteriormente ferita da una relazione con un coetaneo che compensa con spunti sadi­ci e con alternanze di rifiuto la propria inferiorità intellet­tuale. Un colloquio con la giovane, appena riemersa dal co­ma barbiturico, lascia affiorare le sue fantasie punitive in­dirizzate verso coloro che l'avevano frustrata, il bisogno di colpevolizzarli con la propria morte.

L'ispirazione negativa, nel terzo caso, è l'ambizione spezzata dalla vita, che trova una sua assurda rivalutazione nella morte. Uno scrittore mancato sui quarant'anni tenta il suicidio (e non si tratta di un'azione puramente dimo­strativa) dopo l'ennesimo rifiuto di un suo manoscritto da parte di un editore. La base compensatoria della sua auto­distruzione è dimostrata da uno scritto intenzionalmente postumo, in cui la sofferenza non rifugge dall'esibizionismo estetico, elaborato anzi con un impegno perfezionista non privo di valori.

A fianco delle situazioni specifiche che condizionano questi episodi, l'ambiente umano di oggi lascia scorgere la sua impietosa indifferenza, la sua povertà di occasioni al­ternative, in contrasto con una cultura di superficie che esi­bisce per assunto una solidarietà sociale, in realtà fittizia o puramente burocratica.

L'ansia

Gli stati ansiosi esprimono una sofferta incertezza negli eventi futuri e sono tanto connaturali all'uomo da punteg­giare obbligatoriamente i suoi dinamismi psichici nell'am­bito di un'estrema varietà di esperienze. Esiste però un'an­sia positivamente proiettata in avanti, verso obiettivi desi­derati e intesi come raggiungibili, anche se difesi da una barriera di ostacoli. La locuzione latina timeo ut indica mol-

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to bene tale condizione emotiva, in cui l'individuo sembra spingere «perché qualcosa accada». Ben diversa è l'ansia che nasce dall'opposto timeo ne, ossia dal timore che qual­cosa di terribile o di avversato stia per accadere. Il bisogno ansioso non si dirige qui verso un appagamento, la speran­za è solo quella di sfuggire a un pericolo che incombe. L'ansia che compare nella depressione è appunto quella, avara di fiducia nel domani, che si sviluppa rodendo sot­to l'egida del timeo ne.

Una tipica depressione ansiosa da esame in una studen­tessa di medicina, molto intellettualizzata, introversa, sem­pre indirizzata a prefigurare il peggio. Non si tratta dell'a­bituale quadro d'ansia che precede ogni prova in tutti i candidati. Qui la situazione-esame vale come simbolo con­tingente nell'ambito di un più generale tedio della vita. Nelle sue fantasie, la ragazza configura già la frustrazione di un esito negativo e ne tenta una compensazione ancor più negativa. Dequalifica infatti il futuro ruolo di medico con artificiose argomentazioni sociologiche. La responsa­bilità di una cultura è in questo caso chiarissima. Ma l'o­perazione non mostra alcuna via di uscita, poiché il sogget­to la estende a macchia d'olio su tutte le possibili alterna­tive di scelta. La distruzione propria e dell'ambiente, volta a minimizzare una personale insicurezza, appare come scopo segreto di un intero stile di vita.

Osserviamo una diversa elaborazione del tema in un giovane non ancora trentenne, commerciante per necessi­tà, umanista mancato nell'intimo dei suoi sogni a occhi aperti. L'obiettivo maggiore della sua ansia è però quello affettivo-sessuale. I continui insuccessi negli approcci amo­rosi non hanno in apparenza piegato la sua caparbia com­petitività settoriale. Prova e riprova, ma sempre con la cer­tezza della sconfitta. Esibisce un'espressione timida e ri­nunciataria, una gestualità impacciata che neppure le ra­gazze d'oggi, più aperte al maschio debole, sono in grado di sopportare. Si avverte in tutto ciò la finalità occulta di es-

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sere abbandonato, per protrarre all'infinito la condanna inesorabile del timeo ne.

Decisamente inserito nella dinamica violenta del nostro tempo è un caso di angoscia fobica, in cui la componente depressiva si accentua col tempo sino a dominare. Il qua­dro è scatenato da un episodio oggi comune: uno studen­te liceale picchiato per un equivoco sulla sua appartenen­za politica. Ne nasce un camminare furtivo, un temere le ombre alle spalle; prende corpo poi la rinuncia totale a uscire, lunghe ore trascorse in casa senza più pensare al­l'interrogazione di domani, senza più desiderare il sorriso delle ragazze. Vi è certo, alla base del quadro, anche una problematica familiare, un'insufficiente guida ad affron­tare margini purtroppo correnti di rischio. Ma è altrettanto certo che l'impietosità dell'ambiente abbia giocato il suo ruolo sadico, uccidendo la speranza.

L'opposizione al mondo

Secondo Adler il depresso è quasi sempre un giudice, un accusatore. Considerare l'ambiente indegno di fiducia e re­sponsabile della distruzione propria e altrui è infatti un ar­tificio che legittima il difetto di speranza e consente di mantenere un minimo di valore alla propria individualità, intesa come vittima di una morsa oppressiva. E proprio la componente accusatrice, implicita o palese, a rendere co­sì sgradevole chi è affetto da depressione e ad accentuare il suo isolamento. Tutta la semantica depressiva suscita ne­gli altri angosciose ondate di rimorso, che incrementano la distanza o rendono fugaci i rapporti umani, poiché nessu­no gradisce il ruolo d'imputato.

Alcune volte i capri espiatori dell'operazione di accusa sono contenuti nell'ambito della famiglia o nella ristretta cerchia dell'ambiente più vicina al singolo. Per una giovane di ventiquattro anni, studentessa fallita, moglie fallita, più

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volte amante fallita, tutte le disgrazie di una vita senza vie di recupero sono riferibili al mancato affetto dei genitori e all'indifferenza delle due sorelle mai solidali con lei nelle sue rivendicazioni d'amore. La chiamata di correi si esten­de agli insegnanti, al marito, ai fugacissimi compagni di sessualità, sempre inquadrati come egoisti e come incapaci di comunicazioni arricchite da un minimo di calore. Per un uomo di trentott'anni, che trascina con stanchezza un'at­tività commerciale ereditata dai genitori, non congeniale alle sue attitudini, la rovina della sua esistenza è attribui­ta al fatto di non essere stato compreso nelle sue potenzia­lità creative in campo umanistico né dai familiari né dagli esaminatori che hanno per ben due volte deriso le sue pun­tate anticonformiste, impedendogli di conseguire la matu­rità classica. La rassegnazione sofferta e l'atteggiamento di accusa sono le sue compensazioni depressive a circostan­ze che avrebbe potuto superare o aggirare con l'autocritica e l'iniziativa.

Altre volte il giudizio acre e colpevolizzante del depresso coinvolge orizzonti più vasti, estendendosi a tutta la società. E il caso di un professore di liceo cinquantaduenne, che giunge alla decisione di ritirarsi dall'insegnamento, rinun­ciando a un'attività che aveva identificato in precedenza come ragione totale di vita. Qui non siamo ancora di fronte all'assurdità del delirio, di cui ci occuperemo fra breve. L'analisi del mondo contemporaneo che il soggetto ci of­fre è in realtà lucidissima, il suo pessimismo poggia su pre­cise constatazioni: non si sente più di operare in un am­biente che ha soffocato la cultura, che ha confuso il pro­gresso con la distruzione. Le sue critiche, però, sono così negative, così chiuse alla speranza e all'entusiasmo anche per piccole azioni, da suscitare il disagio e l'imbarazzo per­sino in chi condivide i suoi presupposti, precludendogli quegli scambi umani che avrebbero potuto arricchire con la solidarietà e la coincidenza creativa una prospettiva in­dividuale forzatamente protesa verso l'isolamento. La sua

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monotematicità di accusatore perenne fa inoltre da barrie­ra alle alternative di affetto, ostacolate dalla caparbia cen­sura di ogni diversa trasmissione di stati emotivi.

Il senso di colpa

Il termine "zitella" ha un sapore patetico di antiquaria­to, non è più congeniale al nostro tempo, poiché la donna evoluta sa gestire oggi con disinvoltura e talvolta con impli­cazioni di sfida la libertà dal matrimonio. Eppure la parola si addice ancora alla signorina C, poiché il suo stile rifiu­ta l'aggiornamento. Ha dedicato la vita a sua madre, ri­nunciando alla professione (ha una laurea non utilizzata), alla sessualità, a ogni altro affetto. Questa dedizione volon­taria e totale ha provocato però un accumulo di frustrazio­ni, scaricate per compenso nevrotico in un'aggressività ge­stuale e verbale che ha riempito di tensioni la routine del piccolo nucleo familiare. Ora, dopo la morte della madre, avvenuta da quasi un anno, la signorina C. non è più ag­gressiva: è anzi caduta in una depressione fondata sul ri­morso, poiché attribuisce al suo precedente comportamen­to la scomparsa della mamma, in realtà dovuta a una pre­cisa malattia organica. La sua sofferenza ipertrofizzata con intenzione, il suo abbandono dei pochissimi piaceri corren­ti prima coltivati, ad esempio quello del cibo e specie dei dolci, le valgono come fattore di espiazione e perseguono una linea segreta e assurda di autovalorizzazione deconta­minante.

Osserviamo, in questo caso, tutte le caratteristiche del senso di colpa nevrotico, che distingue alcune depressioni reattive. Una colpa grave e ben definita non sussiste (l'uo­mo, paradossalmente, compensa soggettivamente assai me­glio azioni davvero lesive). Non si configura neppure un vero e proprio delirio, poiché le idee autocolpevolizzanti si appoggiano a elementi concreti, emotivamente interpretati

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e ingigantiti. A tutto ciò si abbina l'intenzione, ancora più occulta, di trovare un alibi morale per non affrontare, in circostanze particolari della vita, l'uscita da una posizione protetta, anche se frustrante, e l'assunzione di nuove re­sponsabilità, con il rischio intuibile derivante dall'auto­nomia.

Le ossessioni e le fobie

Un uomo di sessant'anni, un ipocondriaco come tanti, ma con qualcosa di cupo, di rinunciatario in più. Teme di essere malato di cancro o almeno di poterlo più facilmen­te contrarre per una specie di predestinazione biologica (al­cuni suoi familiari sono morti per tumore) e non crede alle parole rassicuranti dei medici. Osserva una dieta partico­lare, attuata con precisione ossessiva, ma non è proteso con ansia verso la salvezza, non ricorre a farmaci e consultazio­ni che si rinnovano con gettate di speranza, come fanno in­vece altri patofobi. Si abbandona alla sua terribile prospet­tiva di morte con uno stile tipicamente depressivo.

L'ossessività nella cura dei figli è un tratto assai comu­ne nelle giovani madri, non ancora collaudate dall'espe­rienza e perciò bisognose di rassicurarsi con la ritualità e con la ripetizione delle cautele. In genere, però, quel tan­to di coatto che c'è nelle loro azioni è tutto proteso verso l'efficacia dei risultati e si alterna positivamente con il com­piacimento amoroso per lo sviluppo dinamico della nuova vita. Osserviamo invece, in una madre appena ventenne, un difetto di speranza che toglie ogni valore rasserenante, anche transitorio, alla gestualità automatizzata con cui al­leva la sua bambina. Ne pone in rilievo la gracilità, il pal­lore, la tendenza a rifiutare il cibo con un senso terribile di predestinazione negativa. E offre così una connotazione depressiva, ribadita da segni che abbiamo già descritto, co­me la costanza immota dell'espressione mimica, il tono

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sommesso della voce, i riferimenti impliciti di accusa al de­stino, che sembrano attribuire scontate incidenze dello svi­luppo a una congiura impietosa della sorte.

In linea generale, secondo la psicologia di Adler, i sinto­mi fobici e ossessivi sono un mezzo di pressione sull'am­biente o un artificio antico per raggiungere una sicurezza simbolica. Essi presentano infatti analogie chiarissime con la ritualità superstiziosa dei primitivi, ossia con una finzio­ne diretta a rendere meno terribile la scarsa conoscenza della natura e della sue forze segrete. Come la magia e la stregoneria primordiali davano all'uomo di un tempo una convinzione illusoria di sicurezza, capace almeno di atte­nuare l'impatto negativo con il rischio, così gli automati­smi di pensiero e d'azione del nevrotico ossessivo sono in­ventati anche oggi dal singolo per rendere meno terribili le conseguenze di un sentimento d'inferiorità e d'insicurezza e inducono transitorie neutralizzazioni dell'angoscia che nasce dall'impressione della propria insufficienza. Nel con­testo della depressione, però, anche l'ossessività non è so­stenuta dalla speranza, è una difesa abulica che ha il sapore di ultima trincea. Le fobie della maggior parte dei nevro­tici sono una chiamata di soccorso o un trucco che evita gli eccessi di responsabilità, e lasciano scorgere un minimo di fiducia nella sopravvivenza. Nel depresso, invece, la strut­turazione del terrore fobico è un grido d'allarme con im­plicazioni d'inutilità, in quanto non presume ascoltatori di­sponibili all'aiuto.

Il delirio

Uno sguardo che esprime la diffidenza e il rancore in modo totale, inappellabile. Un uomo senza età definibile, non collocabile nel tempo (in realtà ha solo trentasei anni). L'ambiente: una camera di una casa di cura per malattie mentali, le cui concessioni al comfort e ai valori estetici

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contrastano con il personaggio, incapace di assorbirle. Ci vogliono tutta l'esperienza e la duttilità di uno psichiatra con impostazione psicologica per stabilire un rapporto umano e un colloquio articolato con il paziente, che da principio tace con ostilità o risponde a monosillabi. Poi, sul tempo, affiorano con stanchezza i pensieri che gli fermen­tano dentro. Motiva con parole sussurrate il suo precedente silenzio: è certo che, nella stanza, vi siano dei microfoni na­scosti che registrano non soltanto il suo discorso, ma anche le sue idee. Il soggetto, però, non combatte per difendersi con la pertinacia assurda e in qualche modo vitale di cer­ti paranoici, le cui accuse sono recepite talvolta persino dai tribunali. Il soggetto devalorizza se stesso e gli altri, trasci­na la sua sofferenza senza spinte d'energia verso nessun fi­ne. Neppure il rifugio nell'altra dimensione della follia vale a compensare con credibilità interiore il suo antico disadat­tamento.

Le idee deliranti sono l'estremo rifugio dell'uomo alie­nato, strutturano il massimo della "distanza" fra l'indivi­duo e l'ambiente, abbattendo persino il sottile terreno co­mune d'intesa con gli altri che prende corpo nella logica e nel riconoscimento dei dati reali. E possibile sempre rico­struire dei sentieri dinamici anche per queste massime espressioni della malattia mentale, risalire a circostanze, rapporti umani, esempi che diano una ragione psicologi­ca al delirio. Persino le più drastiche assurdità di pensiero inseguono scopi di autovalorizzazione, di dominio o di di­fesa. Resta però un interrogativo che la scienza cerca an­cora di approfondire, a seconda della sua impostazione, dando rilievo alle caratteristiche biologiche del terreno o agli influssi dell'ambiente: perché la maggior parte delle persone reagisce ai traumi esistenziali con manifestazioni nevrotiche che conservano almeno in parte la critica e so­lo alcune ne varcano i confini?

Nel caso che introduce questo tema è possibile avverti­re, con sicure analogie verso i settori già esposti, le differen-

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ze che configurano lo stile depressivo. Nelle psicosi deliranti non depressive, il distacco dal reale raggiunge paradossal­mente le sue finalità di compenso, valorizzando l'individuo e dandogli qualche motivazione di vita: si osservano idee di grandezza o distorsioni del pensiero e distacchi capaci al­meno di porre un freno alla sofferenza. Nelle psicosi de­pressive, per contro, i deliri elaborano ipotesi di persecu­zione non rimediabile o di colpa in cui s'intuisce sempre l'autodistruzione.

L'improduttività

Un tratto costante del depresso è la rinuncia a produr­re con efficacia in tutti o in quasi tutti i settori dell'impe­gno umano. Lo abbiamo visto sempre negli esempi sin qui riportati. La ripresa della produttività segna in genere, an­che se non è ancora sostenuta dalla speranza e dalla fidu­cia nel riconoscimento altrui, un primo passo verso pro­spettive di recupero. Il depresso che riesce a produrre alme­no per se stesso è un depresso minore, in genere sensibile ai trattamenti psicologici: accordargli ascolto e credibilità contribuisce quasi sempre a elevare il suo tono emotivo, a facilitargli la messa a punto di uno scopo d'azione, il che rappresenta di per sé l'antitesi della condizione depressiva.

L'astensionismo sessuale

La psicologia individuale adleriana, superando la con­cezione riduttiva della psicoanalisi basata solamente sull'i­stinto, inquadra la dinamica della sessualità collegandola al grado di armonia nei rapporti interpersonali. I disturbi e le perversioni sessuali presumono sempre, secondo il no­stro punto di vista, una "paura del partner" e una conse­guente necessità di compensi innaturali fondati sulla ridu-

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zione della comunicazione erotica o sull'appagamento so­litario o distante o sulla sua abolizione frustrata. L'abbi­namento fra l'atto erotico e l'integrazione affettivo-emotiva presume infatti una confidenza in se stessi e "nell 'altro" e quindi il massimo di armonia nel settore.

Se si tiene conto che il depresso è per assunto un isola­to, carente di autostima e carico di rancore verso i suoi si­mili, si comprende la ragione per cui lo stile depressivo si accompagna d'abitudine all'impotenza nell'uomo e alla frigidità nella donna. Ciò non significa però che tali distur­bi implichino sempre la depressione. A volte infatti la non partecipazione nell'erotismo elabora compensi con impli­cazioni aggressive e polemiche, dirette, se pure in modo di­storto, a influenzare l'ambiente a proprio vantaggio. Ci sembra utile, a questo punto, la comparazione fra due casi d'impotenza.

Un uomo di quarant'anni, sino a poco tempo prima ca­pace di notevoli prestazioni erotiche e di gratificare in tal senso la moglie. In lui un'impotenza basata sull'eiaculazio­ne precoce è comparsa come manifestazione reattiva a se­guito di un conflitto con la sua compagna per ragioni economico-professionali. Non è difficile avvertire nel di­sturbo un intento segreto punitivo. Un altro uomo della stessa età soffre di un'impotenza dovuta a perdita della ere­zione prima del coito, dopo un tradimento della moglie, cui è seguita un'apparente riconciliazione. In realtà il soggetto non ha fiducia in se stesso, si considera inferiore al rivale e ripiega verso un astensionismo inconsapevole, poiché non sa reggere all'impegno di una presumibile e continua com­petizione, cui preferisce una rinuncia frustrata. E chiaris­simo qui lo stile depressivo.

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CAPITOLO SECONDO

La depressione nella letteratura, nella filosofia e nell 'arte

Le capacità creative e critiche dell'uomo, che si realiz­zano nella produzione letteraria, artistica e nella formula­zione di nuove linee di pensiero, hanno espresso ed espri­mono con frequenza contenuti depressivi, improntati cioè al pessimismo e all'astensionismo scoraggiato e sofferto. Esse inoltre, per la loro particolare carica suggestiva, pos­sono influenzare in modo negativo l'ambiente umano ed essere quindi matrici di depressione.

Chi produce creazioni depressive può essere condiziona­to in questo senso da precise circostanze o da una più ge­nerica crisi esistenziale. In determinate epoche, però, alcu­ne forme dell'espressione creativa portano in sé quasi d'ob­bligo l'impegno alla depressione, che viene inteso come connaturale al genere: si pensi, ad esempio, a vasti setto­ri e periodi della letteratura poetica. Il fenomeno, allora, assume le stigmate di una moda culturale e può prescinde­re anche largamente dalle caratteristiche psicologiche del­l'autore, costretto a un adeguamento che offre garanzie di successo. Esistono poi periodi storici e strutture sociali che coltivano germi autodistruttivi tanto spiccati da condizio­nare verso la depressione non una forma specifica, ma tutta la produzione culturale.

Esce dal nostro proposito una vera e propria indagine storica sugli aspetti che ha assunto nel corso del tempo il fe­nomeno che stiamo affrontando. Ci limiteremo quindi a

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presentare qualche esempio di analisi come premessa alla ricerca socio-psicologica sul nostro tempo, che seguirà e che più ci interessa. Ci sembra giusto insistere soprattutto sugli effetti di plagio della produzione depressiva.

In alcuni autori appare chiarissimo il limite della depres­sione e quindi il limite del plagio. Essi esprimono una sof­ferenza soggettiva per certi eventi personali, per desideri ambiziosi o affettivi frustrati, ma lasciano intuire in traspa­renza che l'appagamento di questi darebbe speranza o fe­licità. Altri delineano, pur nell'assunto pessimistico, per­cezioni positive e gratificanti, con tanta convinzione da neutralizzare involontariamente lo stile depressivo. Altri ancora si compiacciono palesemente della loro retorica e offrono così l'impressione di privilegiarla, il che dimostra il perseguimento di un fine affermativo e quindi euforiz-zante, in ambivalenza con i contenuti. Tali tipi di produ­zione sono assai poco contagianti in senso depressivo per chi legge o assorbe, giungendo talora sino a stimolare en­tusiasmi e finalità positive.

Ben diversa e assai più incisiva è la suggestione pessimi­stica esercitata dagli autori che negano per l'uomo o addi­rittura per ogni essere vivente tutte le possibilità di comu­nicazione affettiva, di curiosità, di desiderio e di appaga­mento. Qui la depressione, infatti, è presentata come una condizione universale, cui nessuno si può sottrarre, ed esclude perciò l'efficacia di ogni artificio di recupero. Uno speciale ruolo ha l'appiattimento demitizzante delle perce­zioni, che toglie all'individuo anche le briciole di piacere offerte dalla sensorialità, una via di compenso molto spesso così efficace da garantire la sopravvivenza emotiva anche in circostanze traumatiche. Questa spinta costrittiva ver­so il grigiore può essere esercitata da romanzi, costruzio­ni filosofiche, immagini figurative o astratte. Si tratta so­lo di un filone della cultura che però, confluendo con altri, può rivelarsi determinante in modo negativo. Un aspetto paradossale del fenomeno è rappresentato dal fatto che l'ef-

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fetto distruttivo sussiste sia quando l'autore esprime con genuinità il suo senso della vita, sia quando egli è soltan­to uno strumento del costume imperante, reso credibile nel suo gioco da una sicura dotazione.

Vedremo ora, analizzando esempi tratti dai vari settori, come e con quali gradazioni l'invito alla depressione si rea­lizzi a livello di chi recepisce.

Lo stile depressivo nella letteratura

Ecco un esempio dal passato, in cui la depressione reat­tiva di un uomo sempre disponibile a riserve di entusiasmo, si esprime con le immagini retoriche congeniali a un'epo­ca. Ugo Foscolo, un personaggio fortemente emotivo, un'e­sistenza protesa verso mete personali e collettive: l'amore, il nazionalismo, il pregnante rapporto sensoriale degli es­seri umani con la natura. E anche uno scrittore compiaciu­to del suo stile, capace di gratificarsene persino nella descri­zione del dolore. Il protagonista della sua narrazione più depressiva, Ultime lettere di Jacopo Ortis, offre larghe risonanze autobiografiche con l'Autore. La sua vicenda si conclude nel suicidio non già perché la vita non meriti di essere vis­suta, ma per il crollo contingente di alcune idealità, addi­tate agli uomini come obiettivo raggiungibile negli stessi momenti dell'autodistruzione.

L'analisi psicologica del testo deve prescindere dai con­fronti di linguaggio e non cedere agli impulsi d'irrisione generati dal tramonto della teatralità semantica, allora na­turalissima a chiunque scrivesse. Notiamo anzitutto che, in un romanzo dedicato alla delusione amorosa, il culto del­l'illusione è protratto sino alle ultime pagine. La trama, in­somma, ci comunica che l'appagamento affettivo, negato all'eroe, mantiene il suo ruolo esaltante per chi sia favorito nel raggiungerlo.

Leggiamo in dettaglio i momenti della realizzazione:

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... Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s'abbellisca a' miei sguardi...

Leggiamo ora invece i momenti della disperazione e tro­viamo in essi ancora il tentativo di mantenere vitale la ca­pacità affettiva:

... Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolen­za: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele...

Ci preme sottolineare soprattutto in queste parole il ri­getto totale dell'apatia, di quel silenzio emozionale, la cui realistica descrizione avrebbe potuto avere una funzione di contagio alla fuga depressiva.

Ancora più significativi, sul piano psicologico, sono i passi in cui il protagonista esibisce tutta la sua sofferenza, ma continua suo malgrado a gustare il rapporto fisico con la natura, denso di un piacere estetizzante.

... Vado correndo come un pazzo senza saper dove e perché; non m'accorgo, e i miei piedi mi strascinano fra' precipizi. Io domino le valli e le campagne soggette; magnifica ed inesausta natura!...

Se pensiamo alle possibili reazioni emotive di un letto­re del tempo, e in quanto tale sensibile a queste forme di espressione, dobbiamo concludere che egli, pur partecipan­do ai dolori dell'eroe, abbia continuato a gustare la ricor­renza di tanti stimoli al piacere e alla speranza, da non po­ter ricevere, leggendo, un plagio depressivo.

Presentiamo ora una voce poetica depressiva, sulla cui genuinità non si può discutere. Sergio Corazzini morì in­fatti ventenne di tisi, un termine medico che ha sapore di passato, di un tempo in cui la grave malattia non era sor­retta come oggi dall'efficienza tecnicistica, ma suscitava so­lo la compassione e il distacco che si concedono appunto ai morituri. Appare nelle sue liriche una sofferenza tutta in-

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dividualizzata, che non giudica la realtà, ma un rapporto privato e inesorabile con la realità.

La lirica del Corazzini che meglio si è offerta alla nostra analisi psicologica è stata Desolazione del povero poeta sentimen­tale. In essa l'Autore sembra dissociare, provandone ango­scia, la condizione di poeta da quella di uomo destinato in breve tempo alla morte, come se l 'una e l'altra non fosse­ro compatibili e l'inesorabilità della morte trova in lui un paradossale compenso in una finzione di desiderio per la morte stessa. Leggiamone qualche verso.

Io voglio morire, solamente perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d'amore e d'angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

Anche se c'è una punta di retorica, qui essa si affievoli­sce con l'afflato più sommesso del decadentismo. Le per­cezioni, come abbiamo detto, sono utilizzate per inserire un piacere struggente nell'attesa della morte che così si tra­sforma e si nobilita un poco, indossando venature roman­tiche. La chiusura della poesia lascia intravedere però il ca­rattere fittizio del gioco e la vera desolazione di chi lo ha impostato. Al termine, infatti, morire non è più una scel­ta edonistica decadente, ma un'insufficienza. E il non po­ter essere poeta una rinuncia sofferta.

Oh, io sono veramente malato! E muoio un poco ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.

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Tentiamo ora un'analisi dei brani riportati, alla luce di una loro possibile azione di contagio depressivo. I versi non distruggono sul piano generale le potenzialità positive della realtà, ma ne delineano un assorbimento melanconico le­gato a una situazione soggettiva. L'Autore lascia compren­dere che un poeta sorretto da un'energia vitale potrebbe leggere in ben altro modo la natura e il suo divenire crea­tivo di persona. Il testo, dunque, può generare un'iden­tificazione sofferta in chi sia già soffocato da prospettive terribili, chiuse alla speranza. Ma lascia aperte più chia­re dimensioni del futuro in chi abbia invece davanti a sé una continuazione credibile dell'esistenza, sollecitando in lui una compassione differenziata, sostenuta dalla vita­lità. La depressione dunque, qui, è presentata come pro­blema del singolo e non coinvolge obbligatoriamente ogni lettore.

Con il proseguire dell'evoluzione stilistica e la conqui­sta di un comunicare scarno, ultrasintetico, la letteratura poetica, esprimendo in modo essenziale i contenuti emo­tivi, si presta ancor più all'analisi psicologica, essendosi li­berata dai doveri un po' contorti della retorica. Vediamo quello che, a nostro parere, è il massimo esponente di ta­le indirizzo: Giuseppe Ungaretti. Le sue liriche sono un di­stillato della mutevolezza dei sentimenti e alternano perciò con maestria lo scandirsi e l'alternarsi del tono emotivo, di volta in volta compiaciute del meraviglioso, depressivamen­te ripiegate sulla sua negazione, tenacemente riaggrappate all'anelito della vita. La lettura complessiva di Ungaretti, dunque, ricostruisce il sentire dell'uomo, non imposta ob­blighi né depressivi né euforici, ma prende atto del grafi­co emotivo a singhiozzo che tutti noi tracciamo dentro la nostra psiche.

Ecco due esempi, molto significativi. Nel primo appare qui come fenomeno nuovo un inquadramento depressivo delle percezioni non puramente legato alla soggettività, ma tremendamente capace di appiattire con crudezza la strut-

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tura del reale. Questo tipo di comunicazione distingue la lirica Sono una creatura:

Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata come questa pietra è il mio pianto che non si vede. La morte si sconta vivendo.

Come esempio di contrapposizione emotiva, leggiamo un'altra poesia di Ungaretti: Veglia. Qui l'immagine di par­tenza della morte, sollecitata dal dramma bellico, si presen­ta quasi senza appello, ma poi desta con rabbia nell'osser­vatore poetico un richiamo del sentimento e dell'istinto di sopravvivenza, entrambi ricchissimi di vitalità e di spe­ranza:

Un'intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d'amore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita.

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Giungiamo ora, col trascorrere degli anni, alle consta­tazioni più amare, che appaiono dunque come frutto di un'epoca. Quale rappresentante significativo della distru­zione di ogni speranza per mezzo della letteratura abbia­mo scelto Alberto Moravia. La nostra selezione non è ca­suale. Moravia, infatti, indossa convinto gli abiti di una ca­tegoria: quella degli intellettuali che hanno fatto il nostro costume, nello stile, nella politica, nel diradarsi del senti­mento, nella demitizzazione persino del piacere sensoria­le. Proprio da quest'ultimo punto desideriamo partire, poi­ché togliere agli uomini il gusto del percepire significa neu­tralizzare freddamente in essi ogni possibilità di compen­so immediato nei momenti immancabili della tristezza.

La nostra analisi non vuol essere una critica letteraria e ne rifiuta pertanto l'eleganza sussiegosa e astratta. Inten­diamo presentare delle constatazioni dirette sul piano psi­cologico, anzi diremmo meglio quasi fisiologico. Leggiamo assieme un brano del romanzo La Noia, dedicato appunto alla dimostrazione impietosa che gli oggetti cui si rivolgono i nostri sensi sono cose povere, glaciali, deludenti per ine­sorabilità. Osserviamo il passaggio dalla percezione nor­male a questa che noi riteniamo distorta e plagiante:

... La mia noia potrebbe essere definita una malattia degli ogget­ti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repen­tina; come a vedere in pochi secondi per trasformazioni successi­ve e rapidissime, un fiore passare dal boccio all'appassimento e alla polvere.

L'Autore cerca di persuadere chi legge che sono gli og­getti ad essere insufficienti e immeritevoli di essere perce­piti. La depressione che nasce da tale processo, se assorbita, diviene perciò irrecuperabile. Un'ulteriore conseguenza dello stato "non emotivo" che stiamo analizzando è, come conclude lo stesso scrittore, l'obbligo dell'incomunicabilità:

Per esempio, può accadermi di guardare con una certa attenzione un bicchiere. Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente

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di cristallo o di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di rap­presentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esi­stenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bic­chiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo, col quale non ho al­cun rapporto, cioè, in una parola mi appaia come un oggetto assur­do, e allora da questa assurdità scaturirà la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo, non è che incomunicabilità e in­capacità di uscirne.

Questo è l'aspetto del Moravia narratore che colpisce in modo più fine e incisivo noi psicologi, in quanto diret­to a distruggere la gratificazione percettiva. L'influsso cla­moroso di Moravia sul costume è però legato alla sua con­cezione della sessualità, nella quale intravediamo qualco­sa di puramente meccanicistico, che inibisce la comuni­cazione emotivo-affettiva nel rapporto erotico. Il danno sociale è qui molto più marcato. Esso deriva però, a no­stro parere, dall'impostazione percettiva che abbiamo esa­minato. Anche il partner amoroso, insomma, è quasi "de­vitalizzato", inserito in quella sterilizzazione emotiva de­gli oggetti, che con grande e perciò pericolosa efficacia l'Autore definisce "avvizzimento". Ancora figlio del me­desimo processo è l'amoralismo di fondo di questo scrit­tore, che non si limita ad aggredire certe convinzioni eti­che, effettivamente in parte superate, ma disattiva ogni possibilità di rapporto emotivo-spirituale fra gli esseri umani.

Su Moravia, uomo e scrittore, vorremmo fare un ultimo e più rasserenante commento. Prendiamo atto che Mora­via, sulle pagine di uno dei più diffusi quotidiani del nostro paese, pubblica ora corrispondenze di viaggio e proprio dall'Africa, un continente dalla sensorialità ricca e pre­gnante. In questi articoli egli vede e descrive, mostrando senza equivoci di aver percepito. Come interprete, poi, ten­de a razionalizzare, mostrando un rifiuto delle astrazioni

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intellettualistiche che gli erano prima abituali. Si tratta cer­to, dobbiamo rilevarlo, di un rifiuto della morte e di una vittoria forse personale sui ripiegamenti distruttivi.

Lo stile depressivo nella filosofia

È nostro parere che la filosofia pura, non pragmatica, tutta protesa verso il dipanarsi autocompiaciuto del ragio­namento, abbia esercitato un plagio depressivo assai mino­re rispetto alla letteratura. Il narcisismo di chi prospetta e di chi assorbe il concatenarsi della logica sorregge infatti sempre la volontà di potenza e gratifica l'individuo con l'avvertimento di saper pensare o almeno di saper com­prendere. In linea subordinata, comunque, tale compen­sazione solitaria, se vissuta in modo integrale, può sostitui­re la comunicazione del sentimento nel rapporto interper­sonale e incrementare con ciò quella "distanza" fra indi­viduo e individuo che segna l 'impronta della distorsione psichica e quindi anche della depressione. Il fatto di vive­re l'impegno filosofico in modo esclusivo è però una scel­ta negativa che non può nascere solo dalla presa di rappor­to con un'idea o dalla sua formulazione: esso deriva da una tematica conflittuale già strutturata: al più servirà a con­solidare una linea direttrice che ha già preso corpo.

Quando invece la filosofia, divenendo applicata, intera­gisce con la sociologia, con l'economia e con la politica, esercita un'azione assai più intensa sul costume, sino a mo­dificare lo stile di vita della collettività e di molti individui. In tal modo alcuni influssi filosofici possono incrementa­re anche la depressione.

Un classico esempio di stile depressivo nell'ambito della filosofia teorica è rappresentato dal pensiero di Schopen­hauer. Il suo spunto più interessante sotto questo profilo coincide per noi con il concetto di "divisione". Ne deriva infatti un'acquisizione tragica, predestinata, ineluttabile

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dell'esistenza in tutte le sue forme. Secondo Schopenhauer l'unico principio che produce il mondo genera infinite pic­cole sue parti in continuo, reciproco conflitto. Questa ob­bligata, crudele competitività coinvolgerebbe sia la mate­ria inorganica, costituita da forze contrastanti, sia le forme di vita vegetali e animali, anch'esse protese a lottare per soffocarsi. Il destino dell'uomo non si sottrae a questa ter­ribile interpretazione poiché, nella filosofia che stiamo ana­lizzando, ciascun individuo è condannato a cercare di es­sere il tutto, distruggendo gli altri individui che perseguono la medesima esigenza.

La teoria di Schopenhauer sulla divisione competitiva sembra proporre in apparenza qualcosa di attivo e perciò in contrasto con la depressione. Siamo però qui di fronte a un'ipotesi che si differenzia radicalmente da quella di Nietzsche sulla volontà di potenza, attiva e antidepressiva anche se immorale, poiché in Schopenhauer il processo di lotta non è realmente individuale, ma guidato da un'uni­cità trascendente che annulla la credibilità di ogni indivi­duo, appiattendolo nell'essere parte non autonoma di una fermentazione globale. E facile comprendere come questo tipo di filosofia, dal punto di vista psicologico, possa ave­re incanalato le problematiche personali di alcuni depressi intelligenti senza però avere il mordente pragmatico per condizionare il modo di pensare e di vivere degli uomini impegnati in più sanguigne, emotive e concrete competi­zioni esistenziali.

Un altrettanto classico esempio di filosofia pragmatica, e quindi più condizionante sull'uomo, è costituito dalla dottrina di Karl Marx. E possibile comprendere il suo ruo­lo socio-psicologico, tenendo presenti il suo disprezzo per gli "ideologi" e la sua affermazione che l'importante non è interpretare il mondo, bensì cambiarlo. Esce dalla nostra formazione e in particolare dal programma di questo libro ogni impegno di critica del marxismo sul piano concettua­le. A noi psicologi interessa piuttosto analizzare quali siano

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state e siano le possibili conseguenze del pensiero marxi­sta sul comportamento e sul tono emotivo dell'uomo mo­derno e contemporaneo.

L'intenzione di Marx nel formulare la sua dottrina fu quanto mai lontana dalle ispirazioni depressive e si orientò piuttosto verso un'impegnativa speranza a lungo termine. Tale obiettivo euforizzante prese le mosse dal progetto di riportare ogni cosa a basi economiche, dalla critica spietata delle strutture capitalistiche e delle loro sovrastrutture so­ciali, culturali, artistiche, di costume, per ipotizzare un'ar­monica meta finale. Fra la realtà contingente ipercritica-ta e quella ideale ipotizzata, Marx delineò però inevitabili e distruttive fasi conflittuali.

E chiaro che il semplice assorbimento intellettuale del pensiero marxista non può generare di per sé una reazio­ne depressiva. Questa può presentarsi solo se si verifica un incontro fra il contesto storico-culturale e certi particola­ri condizionamenti emotivi dell'individuo.

Per chi vive in una società competitiva e consumistica, il marxismo può offrirsi come una prospettiva alternativa e utopistica, forse rasserenante per coloro che, pur essen­do critici, sono ragionevolmente integrati nel qui e nell'og­gi. Se invece un individuo è gravemente frustrato nell'af­fermazione lavorativa e negli affetti, l'utopia marxista ela­borata soggettivamente può apparire nel contempo idea­lizzata e irraggiungibile, favorendo la depressione come protesta. Il momento attuale, in cui anche i paesi così detti socialisti stanno vivendo una crisi di revisione, può gene­rare un senso di perdita particolarmente intenso e depres-sivizzante in chi viveva "quella" utopia con valenze fan-tasmatiche di fanatismo.

Otto anni fa avevamo registrato la depressione di colo­ro che, vivendo sotto una dittatura giustificata dal marxi­smo, sentivano frustrate la loro creatività e la loro ansia di libertà. Oggi, nei paesi d'oltre cortina che stanno affron­tando una faticosa e meravigliata apertura al liberismo, ab-

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biamo avvicinato persone che vivevano in due modi diversi questo processo di trasformazione: con un compiacimen­to permeato di speranza o invece con un senso sofferto, e perciò depressivo, d'incompletezza. Ci è bastata una con­versazione appena approfondita per avvertire, come sotto­fondo dell'uno o dell'altro modo di atteggiarsi, delle dina­miche personali: negli uni un'attesa ottimistica favorita da appagamenti nell'amore e nelle relazioni d'amicizia, negli altri una vita vuota di soddisfazioni negli affetti o nel la­voro.

Ecco un esempio, forse più comprensibile per i lettori, di depressione politica nostrana. Fausto ha sempre vissuto per il partito, per il proletariato, per la lotta di classe. Oggi, or­mai vicino alla sessantina, non accetta il "nuovo corso" della sinistra, le strizzatine d'occhio al riformismo gli ap­paiono come dei tradimenti, nelle assemblee di sezione i suoi interventi sono accolti con una bonaria condiscenden­za. Non ha alternative alla perdita di ruolo in politica, poi­ché gli altri settori della vita gli hanno consentito solo in­vestimenti poco incisivi. Magrissimo, sgraziato, con un vi­so affilato e irregolare, ha trovato una moglie priva di fa­scino, soltanto paziente e remissiva, che ancora oggi cerca di vincere il sonno per ascoltare i suoi comizi casalinghi senza comprenderne il senso. Non ha figli e il suo lavoro è monotono, ripetitivo. La pensione, ormai prossima, gli pre­para una patetica, accorata decadenza.

Altre persone, ben note nella vita pubblica, hanno diver­samente sfrondato il marxismo delle sue implicazioni filo­sofiche e sociali, ma lo hanno utilizzato pragmaticamente per dare voce alla loro ambizione. Assai raramente tali in­dividui si attengono ai principi che professano nella loro vi­ta privata, ma in merito accampano una giustificazione impeccabile: «non esistono ancora le condizioni obiettive». Si tratta di soggetti pochissimo ricettivi alla depressione. Non facciamo esempi, sarebbe indelicato.

Il superamento filosofico del marxismo e la sua rielabo-

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razione non dogmatica o il suo tradimento deviazionista hanno generato altre teorie, alcune delle quali si prospet­tano come ancor più drastiche matrici di depressione. In questo settore dedicheremo la nostra analisi al pensiero di Jean-Paul Sartre, che ci sembra il più significativo.

Il contributo culturale di Sartre, pur rigoroso e dettaglia­tissimo nella sua parte filosofica, si differenzia da quello de­gli altri filosofi perché arricchito da una parallela produzio­ne narrativa, densa di cariche emozionali. A noi pare che il pensatore francese risulti particolarmente efficace nel da­re una ragione teorica al fenomeno psicologico che abbia­mo rilevato in Moravia. Egli infatti, descrivendo l'esperien­za de La Nausea, presenta un estraniamento conflittuale fra coscienza e oggetto: nelle sue pagine, la prima si distingue per una libertà vuota, inutile e intesa come condanna; il se­condo diviene gelido e indifferente. Ritornano qui il fiore e il bicchiere di Moravia, destinati inesorabilmente ad av­vizzire in un processo percettivo distorto da una depressio­ne apatica. Da ciò discende un appiattimento inevitabile di tutte le determinazioni della libertà, tanto che a un certo punto Sartre afferma che divenire un condottiero o ubria­carsi in solitudine sono la stessa cosa. Di qui ancora l'im­pulso a scelte stravaganti, che non riescono neppure a gra­tificare per il loro anticonformismo poiché sono considerate fondamentalmente inutili. Terribile è inoltre il concetto sartriano dell'individuo prigioniero delle situazioni, che appare, ad esempio, con effetto pregnante e distruggente, in queste sue parole:

... Io nasco operaio, francese, sifilitico per eredità o tubercolotico. La storia di una vita, qualunque essa sia, è la storia di una sconfit­ta. Il coefficiente d'avversità delle cose è tale che sono necessari de­gli anni di pazienza per ottenere il più piccolo dei risultati...

Sorge spontaneo in noi un paragone con il pensiero adleriano. Nella psicologia individuale, l'uomo è largamen­te frenato dalle influenze negative ambientali, ma cerca

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sempre di porre rimedio a tali ostacoli elaborando una "compensazione" attiva o passiva, positiva o negativa, che rappresenta però comunque almeno un tentativo di lotta contro le cose. In Sartre invece le cose sono ineluttabili e l 'uomo vive tra di esse, condannato a una libertà inconsi­stente. Il plagio depressivo di questa filosofia risulta dun­que eccezionalmente efficace, poiché propaganda appunto l'inutilità dell'agire. Aggiungiamo che il sartrismo non è ri­masto, come altre filosofie, pura dottrina, ma è riuscito a improntare, in un certo periodo almeno, alcuni settori della società e del costume, attuando una dissacrazione senza precedenti nella sua sterilità, poiché vuota di una vera pas­sione. Non si può non rilevare che una condizione umana di questo tipo predispone a fughe antivitalistiche, come quella oggi dilagante del fenomeno-droga. Le generazio­ni influenzate direttamente da Sartre sono ormai invec­chiate, ma quelle successive portano più di un segno del­la sua eredità.

Dalla filosofia sartriana è nato paradossalmente un frut­to non privo di aspetti positivi, insomma una specie di ri­scatto del pensatore e dei suoi seguaci anche posteriori: la psicoanalisi esistenziale. Questo complesso teorico-pratico ha rappresentato un acuto superameno delle concezioni freudiane: sul piano critico esso è incomparabile. Conflui­sce ad esempio con la psicologia individuale nel rinnega­re la forzata suddivisione della psiche in tre zone e nel so­stenere la sua totalità. E ancora ricco di spunti credibili quando propone un'analisi non limitata alle profondità convenzionali di un inconscio diviso in categorie, ma vi­talmente estesa in un'operazione globale alla ricostruzio­ne dello stile dell'individuo (ritorna l'analogia adleria-na), compenetrato di significazioni nascoste e di tratti com­portamentali coscienti. La sua ricerca della "scelta fonda­mentale", che ne costituisce il vero obiettivo, smentisce fra l'altro il nichilismo rassegnato dei suoi presupposti fi­losofici.

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Lo stile depressivo nella pittura

La rappresentazione artistica della percezione visiva che assume sostanza e senso psicologico nella pittura ha in sé delle implicite gratificazioni estetiche che sembrano con­trapporsi per assunto al plagio depressivo. Gustare un qua­dro, quali siano il suo contenuto e le sue tecniche espressi­ve, coincide sempre con un momento di felicità sensoria­le. La pittura è però anche un processo di comunicazione emotiva fra l'artista e il suo pubblico, capace di trasmette­re, a volte con incidenze terribili, la condizione psichica e il senso della vita di chi dipinge. Nell'osservare un'opera pittorica, quindi, si può essere, se pure conquistati dall'ar­monia, contagiati in modo sottile o clamoroso anche in senso depressivo.

La raffigurazione diretta dell'uomo, nella sua mimica e nella sua plasticità gestuale, è forse il modo più semplice e immediato con cui il pittore può elargire la sua protesta in grigio. Questo mezzo semantico trascende il tempo e le mode artistiche, superando le convenzioni allegoriche, con­cettuali e stilistiche che hanno cercato di imbrigliare i pit­tori di certi periodi storici. La disperazione di un viso può comparire infatti tanto in un soggetto religioso o epico, quanto nel dipingere naturalistico, quanto nelle interpre­tazioni soggettive, lontane dalla realtà, della pittura moder­na e contemporanea.

Un primo esempio fra i tanti possibili: L'assenzio di Ed­gard Degas. In questo quadro, che risale al 1876, la rinun­cia totale al pulsare attivo della vita da parte di chi è sog­getto alla droga o all'alcool è impressa sulla tela con tragica evidenza. La donna che funge da personaggio centrale ha un'espressione mimica immota e abbandonata alla tristez­za, una debilità muscolare con sapore di rinuncia e non di rilassamento. Davanti a lei, sul tavolino del vecchio caffè, fra gli arredi squallidi pur nella loro cromaticità, spicca il verde veleno della bevanda nella lucidità del bicchiere. Ac-

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canto a lei, vicina e distante, crudamente convinta dell'i­nutilità di ogni intervento, si staglia una figura maschile più consapevole. E una scena ottocentesca, che segnala con equilibrio di spazi una situazione umana purtroppo non tramontata.

Lo psicologismo pittorico scaturisce ancor più dramma­tico nel Ritratto di Herwath Walden di Oscar Kokoschka. Il di­pinto fa parte di una serie di ritratti che risalgono al primo Novecento, nei quali l'Autore inserisce un sondaggio ana­litico tanto sentito da lasciar sospettare una proiezione di propri contenuti. Sulla tela, lo sfondo buio e sfumato dà ri­salto al pallore di un volto atteggiato a malinconia senza speranza, accompagnata però dall'angoscia e non dall'apa­tia come nel quadro precedente. Tale condizione emotiva è confermata dall'atteggiamento delle braccia e soprattutto delle mani: scarne, con le dita aggrovigliate l'una all'altra, spasmodicamente contratte in una lotta autodistruttiva. E impossibile non riconoscere qui alcuni fra i tratti psicolo­gici della depressione, che abbiamo descritto in apertura.

Il paesaggio, nella pittura, si presta a contaminazioni de­pressive più lievi, che nascono con varia incidenza sia dalla scelta dei luoghi, sia dalla loro introiezione in un vissuto personale sofferto. Giocano qui un ruolo determinante la diluizione dei colori, più spesso cupi o evanescenti per que­sta significazione, la natura, anch'essa selezionata con un proposito deprimente, le costruzioni dell'uomo tese verso la sua crudeltà oppressiva o verso l 'abbandono desolato.

Dall'arte figurativa dell'ultimo Ottocento presentiamo un quadro di Arnold Bòcklin: L'isola dei morti. Il frammento di terra che sta al centro dell'opera è contornato da acque scurissime, percorse da una barca su cui si erige una bianca figura spettrale. Sulla piccola isola sorgono costruzioni fa­tiscenti, ferite da una sequela di monotone finestre. Fulcro del tutto sono lunghi, gotici, neri cipressi. Il dipinto elabora il tema della morte nelle sue implicazioni più allusive e dense di minaccia: non come liberazione dalla sofferenza

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e neppure come fine accettata dei processi vitali, piuttosto come condanna e decadenza punitiva per l'uomo. L'isolot­to vale come immagine di luogo di pena senza ritorno, agli alti fusti degli alberi sorge spontaneo attribuire il ruolo di giudici impietosi.

Yves Tanguy è un pittore surrealista, capace di generare sulla tela sfondi evanescenti, punteggiati da forme non fi­gurative ma tanto bizzarre e armoniose da suscitare nel­l'osservatore propensioni struggenti e gradite verso la ma­gia. In un suo quadro del 1929, Le plan des sources, il paesag­gio è impiegato invece con una maestria discreta, valida so­lo per un pubblico in grado di avvertire le più segrete sfu­mature percettive, quale fonte di comunicazioni depres­sive. Qui le immagini sono un poco più realistiche di quan­to usi l'autore nelle altre sue opere: un susseguirsi di col­line distese, appena emergenti dal piano, linee ipnotizzanti sul terreno, creature ameboidi che volano o strisciano agli estremi di contorno. L'impressione generale che infonde la tela è quella di una rassegnazione sofferta, poiché gli oriz­zonti percepibili o ipotizzabili del paesaggio non offrono al­cuna garanzia di realtà sensoriale. Vi è, nell'assieme, un si­curo richiamo simbolico all'impossibilità della speranza che ci è trasmessa da certi sogni.

Il surrealismo, che rifiuta per impegno orgoglioso l'os­sequio alla realtà, è la corrente artistica che si assume più di ogni altra il ruolo di portavoce dell'inconscio. Il suo lin­guaggio è intenzionalmente simbolico e perciò le sue im­magini devono essere lette oltre l'apparenza, per giunge­re all'ispirazione profonda degli autori o invece ad altri, personalissimi contenuti profondi degli osservatori. L'eva­sione dal presente e dal tangibile presume sempre un disa­dattamento creativo e vale come compensazione di fuga dalla realtà obbligata. Talora le vie di compenso surreali so­no gravide di una speranza almeno immaginata, esibizio-niste, clamorose, fondate sul divertimento: ne fanno testo molti quadri di Salvador Dalì, vere e proprie sfide scintil-

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lanti alla convenzione. Altre volte, per contro, consentono sguardi velati nelle zone più buie della psiche, dove fermen­ta appunto la depressione.

Un esempio: L'oeil du silence, un dipinto di Max Ernst che risale al 1944. Al centro del quadro stanno ancora le ac­que scurissime di un laghetto, un simbolo di profondità che ricorre nel surrealismo. In primo piano, sulla destra, una delicata figurina femminile, che unisce la grazia alla ma­linconia. Attorno giganteggiano e dominano psicologica­mente forme mostruose di pietra, con occhi in cui non si può escludere una vitalità negativa. Non conosciamo l'idea di fondo che ha ispirato l'Autore, ma ci rendiamo conto, direttamente coinvolti, che l'opera può destare richiami morbosi in ogni persona sensibile. Il suo linguaggio segreto è quello della fobia, della paura irrazionale perennemen­te infantile, che continua a galleggiare nell'adulto, alimen­tata dall'insicurezza e radicata alle sfumature trascorse del­l'esistenza.

Più vicina ai temi depressivi del nostro tempo è la pittu­ra di René Magritte, la cui precisione figurativa svela le in­cognite e le crudeltà, che rappresentano la faccia non visi­bile del reale nell'universo burocratico e tecnologico in cui siamo costretti a vivere. Così, nel suo quadro La tempête, nu­bi ovattate, semplicissime ma cariche di allusioni, s'infil­trano in una finestra squadrata, fra cubi lineari di cemento. Non fidatevi - sembra dire l'Autore - dell'apparente ra­zionalità, dell'illusorio materialismo del nostro mondo.

Non riteniamo che i pittori sin qui analizzati abbiano esercitato un plagio depressivo con effetti di rilievo sul co­stume generale. Hanno avuto modo, al massimo, di riba­dire, con una struggente percezione, uno stato d'animo già radicato in persone sensibili, capaci di recepire una comu­nicazione emotiva. Hanno però sempre elargito assieme una gratificazione estetica, in ambivalenza positiva, e una forma evoluta di solidarietà nella sofferenza o nel rifiuto di certi schemi contingenti, contribuendo forse a togliere

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qualcuno dalla solitudine intellettuale. Certe ispirazioni contenutistiche, come quella di Magritte, sono poi chiara­mente scaturite dal conflitto fra una minoranza ribelle alla massificazione e certe impronte costrittive, superburocra-tiche e supertecnologiche della società attuale.

Altre volte invece anche la pittura è direttamente condi­zionata da una pressione autoritaria, che le impone una monotematicità osannante in ossequio a determinati temi ideologici. Fenomeni di questo tipo si sono verificati sotto l'egida di alcune dittature del passato e di regimi oppres­sivi purtroppo ancora in atto in una larga parte del mon­do. Gli scopi intenzionali dell'arte dittatoriale non sono mai protesi verso la sollecitazione dello stile depressivo: cer­cano anzi d'incrementare un entusiasmo acritico, di spin­gere la popolazione, mediante forme estetiche molto sem­plici, sulla via di un'obbedienza fanatica. Ne risulta però un appiattimento collettivo delle immagini e ciò finisce per produrre risultati paradossali: la monotonia, la ripetitività, la censura delle libere espressioni creative, infatti, plagia­no depressivamente gli individui più evoluti e inventivi, de­stando in essi l'angoscia, un senso di limitazione e d'impo­tenza che genera l'apatia e l'isolamento affettivo.

Osserviamo, a questo proposito, gli stereòtipi del così detto "realismo socialista". In esso prevalgono due tema­tiche. La prima è l'esaltazione del lavoro d'assalto o della lotta armata in favore degli ideali collettivistici, i cui pro­tagonisti figurativi sono uomini e donne dal piglio atleti­co ed efficiente, dallo sguardo fanatico o deciso, che posso­no vivere altre emozioni (a volte sono rappresentati l'amo­re o la maternità) solo in linea subordinata all'impegno so­ciale. E possibile che ciò, per i cittadini integrati in modo acritico nel sistema, abbia valore di conferma gratificante. Chi nutra in sé almeno delle potenzialità anticonformiste, sul piano dell'affettività, dell'intelligenza o anche solo del­l'edonismo, ne riporta però un'impressione d'inesorabilità glaciale, di condanna senza speranza alla uniformità, sicu-

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ra fonte di depressione. Il secondo filone del realismo so­cialista svolge un'azione di propaganda distruttiva verso le forme tradizionali di convivenza civile ed elabora quindi con emotività didascalica i temi della fame, della repressio­ne dei moti rivoluzionari, del lavoro degradante al servizio del capitalismo. Queste immagini si propongono un effetto euforizzante e rassicurante per chi vive sotto i regimi neo­marxisti. Perseguono invece d'intenzione lo scopo di pro­vocare reazioni depressive o d'insofferenza rabbiosa nei cit­tadini del resto del mondo, lungo la linea di una guerra ideologica, condotta per la verità con efficacia contagian­te, anche per l'adesione sempre più vasta da parte degli ar­tisti dei Paesi liberi.

Lo stile depressivo nel cinema

Il film rappresenta oggi la via di comunicazione artistica che racchiude in sé le più intense capacità di plagio. Men­tre infatti la letteratura e la pittura, che abbiamo prima esaminato, raggiungono l'attenzione di una percentuale ri­dotta della popolazione, il cinema offre a quasi tutti i cit­tadini il suo linguaggio e i suoi contenuti, ora portati in ogni casa anche dalla televisione.

La creatività cinematografica scandisce con maggior forza d'urto i temi depressivi già analizzati. Essa raffigu­ra, con l'aiuto convincente del movimento, tutta la gamma delle sofferenze umane legate a particolari situazioni indi­viduali e sin qui conserva dei limiti di contagio, aggreden­do solo chi, per il suo vissuto, sia spinto a identificarsi con i protagonisti. Assai più grave è l'azione distruttiva di al­cune recenti tendenze della cinematografia, che sembrano voler dimostrare l'impossibilità per l 'uomo di oggi (o di sempre?) di comunicare affettivamente con i suoi simili, dissacrando ciò che ieri era stato esaltato forse con un ec­cesso di retorica. Il fenomeno prende corpo a diversi livelli

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di qualità, sia nei film d'arte che in quelli di consumo, con abilissime e variabili scelte di stile, centrate sulla recettività delle differenti categorie di spettatori.

Cominciamo ad analizzare l'operazione di plagio nella tematica sessuale, una delle più prorompenti. La nostra non è una critica moralistica: non siamo contrari alla libera rappresentazione del corpo e di atti erotici sostenuti dalla compartecipazione emotiva, insomma di immagini grati­ficanti senza lesività. Pensiamo che persino il problema omosessuale possa essere affrontato con una levità esente da traumi, come è stato fatto da pochi registi di classe. Sta esplodendo però nel cinema una sessualità "cattiva" o ri­pugnante di ben altro significato. In queste immagini, la gratificazione nasce dal fatto di ledere il partner o di gusta­re situazioni sordide per obiettività, non per convenzione. Nel tessuto del film, anche al di fuori dell'atto erotico che ne costituisce il culmine, i rapporti umani sono impietosi, diffidenti, ironici, senza speranza. Ne scaturisce ovviamen­te la depressione, poiché si cancella così dall'erotismo quel­lo scambio fondato sul dare e ricevere stimoli graditi, pos­sibile come evento momentaneo anche senza una stabiliz­zazione affettiva. La lotta fra individui appare dunque ine­sorabile per l'uomo.

Diversi anni fa avevamo avvertito, in modo estremamen­te evidente, la concezione negativa della sessualità in un film di Pier Paolo Pasolini: I racconti di Canterbury. In esso, la crudeltà sembra un presupposto obbligato dell'erotismo, si dipana nei sentieri inventivi di scherzi permeati di sadismo, fondati sul piacere che nasce dall'osservare l'umiliazione altrui. L'apparenza e la gestualità disgustose di alcuni per­sonaggi non servono a inquadrare con solidarietà affettiva una certa tipologia umana, ma si propongono chiaramente di trasmettere allo spettatore il gusto perverso che nasce dalla degradazione. Un successivo film dello stesso Auto­re, che elabora una storia di torture negli ultimi giorni della repubblica di Salò, si nasconde dietro il paravento fittizio

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di una denuncia, ma lascia intravedere al di là del falso sco­po come il regista si compiaccia, ad esempio, nel vedere al­cuni ragazzi e ragazze costretti al ruolo di animali e piegati alle voglie sadiche degli aguzzini. La perfezione estetica delle scene, anziché nobilitare l'assunto, lo rende più inci­sivo e contagioso. La convinzione che l'uomo sia una bel­va e che l'erotismo sia una sua espressione non può che ri­manere come traccia depressiva nei settori del pubblico più sensibili.

Vediamo oggi nel film Nove settimane e mezzo i temi della sessualità sado-masochistica elaborati in un modo più as­surdo e quasi surreale. La pellicola dipana la storia di una breve relazione fra un uomo e una donna che sembrereb­bero collocarsi nel sofisticato mondo "yuppie". I due si in­contrano per caso e con estrema rapidità lui fa di lei una schiava erotica. C'è meno crudezza e meno volgarità, qui, rispetto al film di Pasolini. Nelle torture manca il sangue e non si avverte neppure l'enfasi popolare o militaresca che avevamo sottolineato. Sul corpo della donna scorrono ghiaccio e miele, non fruste o lame di coltello. La soggezio­ne femminile è più totale, perché partecipe. E poi diventa­no erotismo anche azioni che con il sesso non sembrano aver nulla a che vedere. Come quando la protagonista rac­coglie con la bocca dei dollari sparsi per terra. O quando, a occhi bendati, è stimolata e frustrata in veloci successioni con la tentazione del cibo. I corpi degli attori - s'intuisce - sanno di dopobarba e di deodorante, anche nel corso delle scene più perverse.

Nove settimane e mezzo è un film americano, ma noi vor­remmo rapportarlo alla nostra cultura. Cercheremo di analizzare le reazioni del pubblico italiano alla diffusione televisiva dello spettacolo. L'indice di ascolto è stato altis­simo e ha falcidiato gli altri canali. Il giorno seguente tutti parlavano di quel programma e quasi sempre molto male: secondo il livello di cultura, con scandalo o con irrisione. Eppure, la sera prima avevano trascurato altre amatissime

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trasmissioni. Come si spiega tutto questo? In modo ripar­tito, secondo le categorie. Pensiamo che molti uomini ab­biano vissuto una rivalsa contro i nuovi ruoli della donna e che le donne, con sottili ambivalenze, abbiano interior­mente agitato bandiere di protesta, ma anche provato qual­che inconfessata nostalgia, subito respinta nelle scene fina­li, mentre la protagonista si ribellava alla schiavitù.

Gli schemi della dissocialità e della violenza sono stati modificati in modo assai pericoloso in alcuni settori della recente cinematografia. La violenza filmica del passato o si vestiva con i panni antichi dell'eroismo, sterilizzandosi, o si configurava come "atto cattivo" e perciò meritevole di punizione a tutela dei cittadini indifesi. Oggi invece la di­struttività umana è presentata come fatto scontato e inevi­tabile, spogliato di ogni retorica e quindi di ogni nobilita­zione e oltre tutto liberato dalle prospettive di castigo che concludevano un po' ingenuamente le pellicole di un tem­po. Non resta allo spettatore psicologicamente debole e po­co autonomo, che identificarsi in modo frustrato con le po­tenziali vittime o in modo perverso con i distruttori. L'u-na e l'altra soluzione immaginativa delineano come impos­sibile la positiva compartecipazione emozionale fra indivi­duo e individuo, che suona a garanzia sociale contro la depressione.

Molto più tenue, allusivo, rallegrato dalla vis comica è il miniplagio depressivo dei film brillanti all'italiana. Le sto­rie che vi compaiono, spesso narrate con vera maestria, di­spongono sul telone una tipologia umana, la cui sopravvi­venza è legata di necessità alla truffa o all'imbroglio e al­tre figurine patetiche perpetuamente vittime o dei prota­gonisti della prima categoria o di un potere vessatorio e in­sensibile, contro cui sono inutili tutti gli appelli. Anche qui il lato impietoso dell'operazione si nasconde dietro la de­nuncia e non manca per la verità di motivazioni obbietti­ve: in effetti il costume italiano scandisce tale fenomenolo­gia. La ricostruzione dell'ambiente è però parziale e poco

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attendibile, anche se accattivante. Non mancano infatti nelle nostre città e nei nostri paesi, travolti dalla decadenza civile, esempi antitetici di solidarietà interpersonale, di amore, di comprensione, che qui sono del tutto taciuti. L'effetto dei film del filone comico-dissacratorio è quindi ancora quello di togliere la speranza e di avviare allo stile depressivo.

Lo stile depressivo nell'architettura e nell'urbanistica

Gli edifici in cui l 'uomo vive, studia, lavora e sviluppa le sue relazioni pubbliche, attraverso la loro impronta este­tica, le loro dimensioni, la loro disposizione nello spazio, hanno in genere caratteristiche condizionate da particolari significati e finalità e, a loro volta, condizionano emotiva­mente chi li occupa in armonia con gli scopi per cui sono stati costruiti o rivelando invece potenzialità assai diverse e persino contrastanti. Anche oggi, come sempre, le ten­denze ufficiali dell'architettura come arte riescono a pren­dere corpo solo in alcune costruzioni pubbliche e in poche private, sorrette da impegnativi stanziamenti economici e dirette più verso l'edonismo estetico che verso l'utilità. Le abitazioni che formano il tessuto più esteso delle città se­guono più largamente esigenze pragmatiche anche casuali, ma sono entro certi limiti ugualmente influenzate dal gusto architettonico generale dell'epoca, cui si adeguano di so­lito con soluzioni peggiorative.

Le matrici psicologiche e sociali dell'architettura odier­na attingono alla linfa della tecnocrazia, della pianificazio­ne intenzionalmente razionale e quindi producono una semplificazione delle forme, che rifiuta ogni ornamento, e uno sfruttamento integrale dello spazio al servizio di preci­se finalità. E nata così l'architettura organica funzionalista, che sviluppa il concetto di "edificio come macchina". An­che se la genialità inventiva di alcuni progettisti ha tradi-

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to sporadicamente la freddezza dell'ispirazione obbligata generando creazioni quasi inconsapevolmente arricchite dalla poesia o dal misticismo, l'incidenza statistica ha pri­vilegiato purtroppo l'orientamento impietoso e disumano dei principi base. E significativo che la crudeltà del plagio architettonico si sia incrementata contemporaneamente nei due opposti sistemi economico-politici che si stanno fronteg­giando. L'uno infatti ha sacrificato il calore dell'habitat umano in ossequio al mito della produttività economica, mentre l'altro lo ha immolato sull'altare della massificazio­ne fanatica. Emblematica è l'analogia di molte soluzioni costruttive che si osservano nei due settori del mondo.

In sintesi, dobbiamo constatare che gran parte degli uo­mini nel nostro tempo, appunto, abita, studia, lavora e svi­luppa le sue relazioni pubbliche nel contesto di edifici non creati per l'individuo e per i suoi affetti, ma per gli ingra­naggi di un gigantesco macchinario. Che ciò favorisca una depressione legata alla carenza di stimoli per la comunica­zione emotiva è tanto ovvio da non richiedere spiegazioni di dettaglio.

La negatività della situazione è stata per la verità rileva­ta sul piano teorico e inserita in quel movimento critico ecologico che cerca di dare nuovo spazio alla spontaneità della natura. La tematica è stata adottata, come spunto di propaganda, anche dai politici, che si limitano però a trar­ne fermenti per una polemica puramente verbale. Fra le poche realizzazioni pratiche che seguono questa ispirazio­ne, ricorderemo alcune scuole materne "ecologiche", sorte negli ultimi tempi: costruzioni basse, luminose, circondate da un po' di verde, in cui si sviluppa genuinamente il gio­co. Le paragoniamo d'istinto agli edifici burocratici e gla­ciali di certi istituti medio-superiori.

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CAPITOLO TERZO

Storia e geografia politica dell 'ambiente depressivo

Che la cultura possa esercitare sull'uomo un plagio de­pressivo è già apparso dall'analisi di alcuni filoni della let­teratura, della filosofia e dell'arte. L'influenza depressiva dell'ambiente scaturisce però anche da molti altri fattori. Alcuni derivano dalla stessa natura e dal clima: il freddo, la monotonia dei luoghi, la carenza di luce, ad esempio, tendono ad abbassare il tono emotivo, così come la man­canza delle risorse essenziali per la sopravvivenza. La po­polazione umana, comunque, è capace in molti casi di ri­vitalizzarli con la sua creatività, sino a trasformarli com­pletamente.

Assai più grave è l'effetto negativo di alcune degenera­zioni del costume, che segnano un processo involutivo degli stessi uomini, scandendo temi incombenti di pericolo, dif­fidenza, oppressione, rassegnazione fatalista, esaurimen­to per stanchezza dei desideri fondamentali, persino in condizioni di prosperità.

Poiché la nostra inchiesta ha per obiettivo l'ambiente at­tuale, prima di affrontarlo, comparandone i vari settori, ci limiteremo a trarre dalla storia pochissime radici esempli­ficative di civiltà gravide di fermenti depressivi, valide co­me termine di confronto con la società contemporanea.

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Qualche esempio dalla storia

Inizieremo con l'analisi parallela di due civiltà dell'an­tico oriente, nella convinzione che esse siano state in par­te matrice anche del divenire dell'occidente: l'Egitto e l'India.

La società e la cultura dell'Egitto faraonico furono im­postate sul tema preminente del culto dei morti. Eppure, in apparente contrasto, ci sembrano pervase da fermenti vitali, sempre agganciati alla gratificazione dei sensi e as­sai poco contaminati dallo stile depressivo. Dedicare l'esi­stenza all'impegno di conservare il proprio cadavere, assi­curandogli il massimo d'integrità fisica, predisponendogli una dimora accogliente, circondandolo di oggetti capaci di gratificare i sensi, in vista di una sua rinascita, è una for­ma caparbia di rifiuto della morte intesa come fine del pia­cere, un'illusione tenace diretta a perpetuare la fiducia ap­punto nella continuazione del piacere. La magia su cui si basò il costume dell'antico Egitto nei periodi più maturi fu sempre un'arte pragmatica, con l'obiettivo di allontanare il dolore, la sofferenza, la malattia, ogni ostacolo alla feli­cità contingente. Raffinate discipline solo in apparenza fu­tili, come la cosmetica, furono coltivate dagli egizi proprio per caratterizzare l'esperienza esistenziale quotidiana con il massimo di gratificazioni percettive. Che il culto egizio della morte non fosse rinuncia alla vita è provato anche dal grande sviluppo che ebbe in quella civiltà la medicina pra­tica, preoccupata non tanto di teorizzare quanto di porre rimedio concretamente ai mali dell'uomo, frenando la sua corruzione fisica ed esaltando la sua efficienza.

Osserviamo, in negativo, un'altra grande civiltà dell'an­tico oriente, quella indiana. Non a caso essa fu matrice di un pensiero filosofico-religioso assai evoluto e ancora og­gi pregnante, ma tutto proteso verso la liberazione dello spirito dalle catene del corpo. Ciò implica una svalutazione rassegnata della felicità sensoriale contingente, uno scettico

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abbandono delle gratificazioni legate alla realtà, un rifugio nell'ascesi, astensionista sul piano dell'azione e quindi con implicazioni depressive. La scarsa confidenza degli anti­chissimi abitanti dell'India nelle potenzialità autonome dell'uomo prese corpo, come attestano i remoti testi vedi­ci, nella ricerca di droghe quale sostegno: si pensi al "So­ma" , la pianta-divinità che risale alla preistoria, dotata di proprietà inebrianti per gli uomini e persino per gli dei. La dottrina indiana della metempsicosi, basata sulla trasmi­grazione delle anime in una serie di corpi viventi, può ap­parire negatrice della morte come quella egizia, ma è inve­ce tutta spirituale, rarefatta, demitizzante e piena di di­sprezzo nei confronti dei piaceri esistenziali. Il divario con la mentalità occidentale è molto chiaro sul terreno dello yo­ga, di cui l'occidente ha privilegiato le tecniche corporee, svuotandole del loro significato di preparazione all'ascesi. Solo oggi l 'Europa e l'America del Nord si aprono, specie nei loro settori umani più disadattati, verso il misticismo non volitivo dell'estremo oriente. Questo fenomeno, ancora una volta, si accompagna spesso all'uso di droghe, segnan­do la sconfitta dell'uomo, il suo ripiegamento abulico di fronte alle prospettive concrete immaginabili.

La storia d 'Europa offre un esempio a noi più vicino, documentando il passaggio da una cultura sanguigna, a tratti edonistica ed estetizzante e a tratti pragmatica nella crudeltà ma sempre assetata di fermenti vitali, a una suc­cessiva cultura notturna e cupa nei suoi simbolismi, tanto rigida e astensionista in certe sue fasi da caratterizzarsi in senso depressivo.

La civiltà greca, dopo i suoi primordi ancora legati a in­fluenze orientali, elaborò in Atene propri schemi impron­tati al culto dell'armonia percettiva e della linearità civile e scientifica. Essa fu quanto di più antidepressivo si ricor­di nel corso dei tempi. Le colonne ben spaziate dei suoi templi, con lo sfondo di un cielo euforizzante, ebbero lu­ce di giorno e segnarono uno stile, avviando i popoli a gu-

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stare piaceri evoluti. I suoi dei furono tanto legati alla sen-sorialità dell'uomo comune, da condividerne i piccoli, pa­tetici difetti esistenziali. Essa si basò largamente sull'arte del comunicare (si pensi alla retorica), negatrice per assun­to della depressione. Altrettanto poco depressiva, anche se profondamente diversa all'origine, fu la civiltà romana. Es­sa coltivò la legge, divenendone maestra, e quindi mostrò la fiducia in convenzioni che presumono la vita, poiché con la morte esse perdono consistenza e realtà. Perfezionò un'arte della guerra certo immorale, ma tutta protesa verso il piacere del dominio e il suo esercizio esibizionista anche nell'esteriorità. Si contaminò poi con l'eredità greca, per­dendo parte del suo vigore, ma acquistando in evoluzione. La stessa decadenza dell'era greco-romana, sul defluire dell'impero, ebbe toni edonistici e corrotti, feroci ma sem­pre legati al piacere. Il cristianesimo originario, che la per­vase prima delle invasioni barbariche, non ebbe alcun to­no depressivo. Anche se polemico verso l'edonismo, lo so­stituì con l'amore e con una fratellanza patriarcale, simboli di vita e di fiducia. Il passaggio ai toni ombrosi del Medioe­vo fu condizionato, come vedremo, da un intervento ester­no, scaturito da un'assai differente cultura.

I mutamenti indotti nella nostra vita collettiva dalle in­vasioni barbariche possono essere compresi, nel loro dra­stico significato psicologico, attingendo alle tradizioni dei Celti, radicate in Francia (dove furono per la verità schia­rite dalla romanità), in Britannia, in Irlanda, in Belgio, nella Germania occidentale e persino nella Spagna del Nord. Queste popolazioni furono influenzate dal grigiore dei luoghi e dal dominio, ad essi congeniale, della casta sa­cerdotale druidica. Il druidismo fu qualcosa di più di un culto e di una religione. Esso giunse a improntare, median­te la pressione ferrea degli iniziati, molti e complessi aspetti dell'esistenza, certo garantita in parte dalla sapienza em­brionale dei sacerdoti, ma continuamente minacciata dal­l'incombenza tetra che essi irradiavano. Le pietre semplici

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e allusive dei dolmen, che si stagliavano su cieli quasi sem­pre filtrati dalle nubi, erano così contrapposte al terso sim­bolismo dei templi greci e delle morbide colline su cui que­sti sorgevano, da visualizzare il potenziale depressivo di tut­ta una cultura.

Fra i Cimbri del Galles si celebrava, la notte del primo novembre, un orrendo e sanguinoso rito, basato sulla di­struzione e sulla successiva ricostruzione, da parte delle sa­cerdotesse, del tetto di un tempio. Se una delle druidesse la­sciava cadere parte del materiale trasportato, le compagne si gettavano su di lei, in preda a furore mistico, facendola a brandelli. Vi è qui tanto incisivo il concetto di punizio­ne inesorabile connesso alla religiosità, da far comprendere la revisione depressiva che i nordici impressero al cristia­nesimo, appena attecchito nel Sud e da loro adottato solo in apparenza, ma poi inserito nel perpetuarsi di abitudini antiche. L'isolamento della vita monastica, il divampare segreto della caccia alle streghe, il senso autoprotetto del­le microcomunità feudali e altro ancora nel costume del Medioevo ebbero sentore druidico, non privo di fascino oc­culto, ma generatore di furtività, di toni spenti, insomma di stile depressivo.

L'autodistruzione al culmine del progresso sociale

Ci imbarchiamo in un porto scandinavo per un breve viaggio marittimo, di sole cinque ore. La nave è piccola, pulitissima, confortevole. Assieme a noi salgono a bordo, gradualmente, due o trecento persone. L'apparente atmo­sfera iniziale è quella di una gita festiva, ma senza l'im­pronta dopolavoristica clamorosa di quelle italiane o tede­sche. Il pubblico è molto vario e dà un'impressione di ci­viltà che ci riempie d'ammirazione: nel solito stile italia­no siamo portati a fare confronti un po' autodenigratori. La curiosità del viaggiatore e il condizionamento psicolo-

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gico ci spingono a attente e indiscrete osservazioni umane. Siamo attratti da una coppia di adolescenti. Il ragazzo

e la ragazza sono biondi, diafani e belli, molto molto nor­dici. Stanno abbracciati a poppa a guardare la partenza. Offrono un'immagine accattivante di fuga sentimental-sessuale. Un folto gruppo di uomini sulla trentina sembra accomunare diverse individualità in qualcosa di standar­dizzato, forse il lavoro. Notiamo anche degli anziani di en­trambi i sessi, non accoppiati, coloriti da un vestire un po' esibizionista che stupirebbe nel nostro Paese e che sembra sfidare l'età. Al bar scambiamo qualche parola con un si­gnore distinto, vestito di blu scuro, assai più formalista de­gli altri. Di sua iniziativa allaccia con noi una conversazio­ne di maniera, superficiale e cortese. Il suo ragionare sul clima, quel giorno eccezionalmente temperato, lo caratte­rizza quasi con una stigmata anglosassone, sebbene sia del luogo.

Lungo il proseguire della navigazione, il mutamento del quadro è subdolo ma incalzante. Da principio sfiora appe­na la nostra consapevolezza, poi la incide sempre più a fon­do. La nave è straordinariamente ricca di tavolini e banchi di mescita, come se fosse un grande caffè. Le passeggiate e i ponti sono quasi deserti, il pubblico affolla le sale inter­ne, si siede ai tavoli e ordina da bere. Ciò sembra contrad­dire la passione tutta scandinava per il sole. Notiamo che la gente ordina quasi esclusivamente superalcoolici e ripete le ordinazioni una dopo l'altra con un "crescendo" da sin­fonia. Sul tempo gli occhi si appannano, le teste si reclina­no, le conversazioni si spengono. Il signore in blu, che nel frattempo ha dimostrato un'ottima cultura, un po' imba­razzato chiede scusa e si allontana. Va a sorbirsi il suo li­quore e poi i suoi liquori in un tavolo appartato. Imbaraz­zati anche noi, facciamo quattro passi per la nave.

Scorgiamo quasi subito i due giovanissimi innamorati, che ci erano parsi alla Peynet. Sono addormentati, sbronzi, con la testa sul tavolino. L'impressione di silenzio, con un

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sentore d'incubo, s'intensifica. La nave rigurgita di corpi abbandonati, riversi, mossi appena da un respiro innatu­rale, nel quale l'alcool spegne l'autocoscienza. Non aveva­mo mai osservato questa maniera di ubriacarsi assieme, ma senza comunicare. L'ebbrezza alcoolica collettiva ha in genere tonalità festose, puerili, importune, talvolta violen­te. La silenziosità triste non le è abitudine congeniale, ca­ratterizza piuttosto la sbronza solitaria dell'infelice, lontana dalla folla.

Un membro dell'equipaggio ci vede stupiti e ci spiega tutto. A terra, le bevande alcooliche sono gravate da impo­ste assai pesanti, stabilite d'intenzione per contenere il vi­zio. Sulla nave invece, fuori dalle acque territoriali, gli al-coolici sono venduti a prezzo accessibile. Di qui l'afflusso di tanta gente che non sbarca neppure al porto d'arrivo, ma ritorna a quello di partenza, in condizioni tali da dover essere spesso ricoverata.

Nello stesso Paese, facciamo un giro turistico organizza­to in una delle maggiori città. La nostra guida è una gio­vane signora di origine italiana, che ha sposato un inse­gnante nativo del luogo. Notiamo subito che ha un'espres­sione turbata, malinconica, che sembra sforzarsi a parla­re. Durante una breve sosta la vediamo appartarsi e pian­gere in silenzio. Ci avviciniamo a lei, rompendo il pudore, e le offriamo la nostra solidarietà. Ci ringrazia e si lascia andare.

«Scusatemi... non avrei dovuto. Può sembrare assurdo, ma piango perché mio marito ha avuto una promozione che non può rifiutare e un aumento di stipendio. Per voi sa­rà difficile crederlo, ma così, per via del fisco e del cumu­lo dei redditi, incontreremo dei grossi problemi economici. Dovrò rinunciare al mio lavoro, che sarebbe del tutto im­produttivo perché assorbito dalle tasse. D'altra parte il solo stipendio di mio marito, aumentato di ben poco, non ci consentirà di mantenere gli impegni che abbiamo preso di recente... Scusatemi ancora».

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Un terzo, piccolo flash perfeziona l'immagine psicolo­gica del costume locale. Facciamo amicizia con un operaio italiano immigrato e parliamo a lungo con lui. Lavora a un certo livello come specialista in un settore dell'ottica. Vi­ve in una casa più che dignitosa di proprietà della moglie, profuga da un Paese nordico ora sotto il dominio sovieti­co. Ma non è contento. Racconta i lunghi pomeriggi inver­nali che sanno di notte, con i negozi che chiudono prestis­simo e la gente perbene che rincasa a leggere (per strada ri­mangono solo gli ubriachi). Frequenta la famiglia di un pa­store protestante e alcuni connazionali, isolati come lui. Il discorso cade e si allarga sull'incapacità dei suoi amici ita­liani di adattarsi all'ambiente. Fa delle osservazioni mol-to acute su un fenomeno che ci interessa. E psicologo e so­ciologo senza saperlo.

«Quando sono arrivato qui, sapevo già che c'erano mol­ti suicidi nel Paese. Ero convinto che fosse una specie di malattia ereditaria di questi popoli. Mi dicevo: loro sono freddi, chiusi, bevono molto e parlano poco. Non sanno gustare la vita. A noi non capiterebbe mai, abbiamo il san­gue caldo e siamo allegri, per questo le donne del posto ci cercano sempre. Ma poi è successo qualcosa che mi ha fat­to cambiare idea. Anche tre italiani che conosco hanno ten­tato di uccidersi, forse non hanno sopportato il clima, il buio, la gente, le abitudini. Allora non è l'eredità, è qual­cos'altro che c'è qui a fare questo effetto. Anch'io riman­go per mia moglie e per la casa, altrimenti andrei in Ger­mania, dove pagano di più e dove la vita è più divertente».

Il nostro interlocutore si è dimostrato inconsapevolmen­te ambientalista, come noi. Ha compreso insomma, per in­tuizione, che il tono emotivo dell'individuo può essere dra­sticamente influenzato dalle caratteristiche dei luoghi e del clima, dal costume della collettività in cui l'uomo vive, dal­lo stile affettivo delle persone con cui ha rapporto.

Le nostre osservazioni sulla nuova società nordica sono maturate soprattutto in Svezia e in Norvegia (in Danimar-

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ca abbiamo avvertito toni espressivi più clamorosi, nella gioia o nell'aggressività, e non conosciamo la Finlandia). Diciamo subito che nutriamo una viva ammirazione per alcuni aspetti di quelle civiltà, che sono riuscite a pianifi­care con efficienza senza ledere troppo la libertà del singo­lo. Ma, sul piano psicologico, abbiamo dovuto prendere at­to che in esse stanno germogliando, in parallelo all'evolu­zione, cospicui fermenti depressivi. Il fenomeno non col­pisce certo strati molto larghi della popolazione, in preva­lenza capace di vivere socialmente con armonia e con rispetto reciproco, ma si localizza su settori umani per varie ragioni più disponibili a compensazioni depressive, con un'incidenza però senz'altro più sensibile rispetto ad altri Paesi europei. Su questa base cercheremo di analizzare il processo storico che, a nostro parere, ha generato il quadro attuale.

La mitologia e le più antiche tradizioni scandinave ci of­frono l'immagine di un popolo capace di compensare l'im­pietosità del clima e la durezza, peraltro affascinante, della natura, mediante ipotesi fantastiche ricche di creatività e di poesia e mediante il culto epico del coraggio e dell'av­ventura, il che implica un atteggiamento intellettuale ed emotivo che contraddice la depressione. Il fatto che i Vi­chinghi siano stati grandi navigatori, protesi alla scoperta del mondo, conferma istanze antidepressive di curiosità, di ricerca del nuovo. Anche il primo impatto con la civiltà tec­nologica ha mantenuto negli scandinavi tracce vitali degli antichi fermenti: si pensi agli esploratori polari dell'inizio del secolo e al collaudo ginnico e sportivo dell'uomo con la natura invernale, inteso, nelle tradizioni locali, come genui­no piacere percettivo.

Un'opinione che è divenuta un luogo comune e che non ci persuade affatto attribuisce l'impronta depressiva della Scandinavia odierna a una saturazione dei desideri dell'uo­mo comune, che sarebbero interamente appagati dallo Sta­to assistenziale. Quei popoli hanno tutto, si afferma insom-

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ma con un giudizio semplicistico formulato a distanza, e quindi non hanno più nulla da desiderare. Un'analisi con­dotta in luogo ci ha portato a ben diverse conclusioni. A nostro parere, infatti, le socialdemocrazie nordiche non hanno evaso i bisogni più intimi, ma li hanno concretizzati e standardizzati, sterilizzandoli del loro sottofondo di fan­tasia e inserendoli in una lucida macchina burocratica. Il perfezionismo organizzativo ha positivamente liberato il singolo dalla lotta per le necessità essenziali. Esso ha però tracciato per il cittadino binari obbligati, capaci di condur­lo a una sessualità disinibita, ma un po' meccanicistica e priva di mordente; a un lavoro retribuito in giusta misura, con scelte di carriera già ben codificate e quindi alquanto carenti d'imprevisto; a una sicurezza esistenziale di stile materialista, fondata su moduli da compilare e sul corri­spettivo di un prezzo tributario piuttosto pesante, accessi­bile con sacrifici ragionevoli, ma limitatore di quelle inizia­tive avventate, ansiogene e suggestive, di cui l'uomo ha ta­lora bisogno. Tale impeccabile operazione non è stata nep­pure sostenuta dall'azzardo pionieristico che si è prospet­tato altrove, poiché in linea di massima le nazioni scandi­nave avevano già raggiunto traguardi economici rassicu­ranti. Si può comprendere dunque che delle popolazioni con ascendenti d'avventura e con un'antica sete di surreale comincino a coltivare in sé germi di dissenso individuale non ben chiariti, resi inattuabili dall'organizzazione e per­ciò destinati marginalmente a defluire in una fuga distrut­tiva dalla realtà.

Vitalità e rassegnazione: un confronto etnologico

Ci alziamo all'alba in una caotica città del Centro Ame­rica, dopo una notte resa agitata dalla perplessità schizzi­nosa del condizionamento civile. Abbiamo dormito in un albergo di dubbia collocazione e non abbiamo retto al lun-

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go trascorrere delle ore. Vagabondiamo per le vie deserte del centro e poi sconfiniamo in un quartiere che da prin­cipio ci incuriosisce e infine ci sconcerta. Vi si ammassa­no vecchissime case di legno, corrose, scure, che sembra­no reggersi appena. Fra l'una e l'altra vi sono pertugi irre­golari, non vere strade. Non è una bidonville, è qualcosa di più antico e terribile, che lascia trapelare la consunzione di una dignità perduta. Assorbiamo dal luogo un'impressione di scoraggiamento, tetra e sicuramente depressiva.

Assieme allo schiarirsi mattutino del cielo, il quartiere si risveglia di colpo e si trasfigura, disegnando un quadro di­namico inaspettato. Le finestre si aprono l 'una dopo l'al­tra e lasciano scorgere un fervore di preparativi. La popo­lazione delle case è tutta negra, vivacissima. Vediamo e ascoltiamo gente che si veste, chiacchiera, canta, grida. Al­l'aperto, di fianco a un'abitazione, una madre giovanissi­ma lava una bambina in una tinozza di legno e ci sorride. Con progressione incalzante, dalle porte sconnesse escono frotte di negretti e negrette, tutti con un grembiulino aran­cione e una cartella uguale, di cartone, fra le mani. I ma­schi hanno il capo rasato o i capelli cortissimi, le femmine dei curiosissimi bigodini colorati che fanno commedia mu­sicale. L'identità del vestiario non riesce a pianificarli: ognuno è diverso dagli altri e prorompente nel comunicare propri contenuti emotivi. Rallegrano anche noi rapida­mente, mentre li osserviamo correre in piccoli gruppi verso la scuola. Un poco più tardi escono gli adulti, diretti al la­voro: le donne con vestiti stampati appariscenti, gli uomini con camicie bianchissime, dinoccolati e pronti al sorriso. Lo spirito vitale delle entità umane, dunque, ha sconfitto in fretta la depressione del luogo. Ne prendiamo atto.

Un'altra città del Centro America, nel pieno del traffico pomeridiano. Le strade sono gonfie di un'umanità compo­sita, distribuita o intrecciata in razze diverse, commistio­ni, sfumature di ogni genere. Notiamo, agli angoli dei mar­ciapiedi, il ricorrere di una figura femminile stereotipa, im-

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mutabile, come prodotta in serie. E proprio il fatto che queste donne siano tutte uguali, copie di un medesimo mo­dello, a richiamare la nostra attenzione. Hanno un corpo pingue, accovacciato sull'asfalto, e un viso dalla mimica inespressiva, con gli occhi obliqui che sembrano fissare il vuoto. Davanti a loro, esposti alla meglio sopra un foglio di carta, stanno pochi dolci appiccicosi, che presumiamo in vendita, sebbene le presunte venditrici non lo diano a ve­dere in alcun modo: non gridano, non parlano, non recla­mizzano la merce, se ne stanno lì ferme e silenziose. Accan­to alle donne, di tipica razza india, c'è sempre un'enorme scatola di cartone. Al terzo o al quarto incontro la curiosità ci spinge a guardare nello scatolone. Ciò che vediamo è in­credibile: nel contenitore sono sistemati dei bambini, an­ch'essi silenziosi, sporchi e immobili.

Abbiamo di nuovo occasione di osservare questo modo depressivo di far commercio in altri Paesi abitati da indios centroamericani. Un mercato coperto, in particolare, ci colpisce per la sua oscurità e per l'assenza del clamore che avrebbe dovuto risuonare in così poco spazio. Nello stesso luogo ci rendiamo conto di quanto incidano sui frequenta­tori le persone affette da malformazioni fisiche di ogni ge­nere: vediamo in gran numero gobbi, sciancati, paralitici. Abbiamo insomma l'impressione di una razza in decaden­za organica e psichica, carente di entusiasmo, di vivacità, e chiusa alle comunicazioni espressive. Per intuizione l'ap­parenza ieratica di questa gente non ci sembra assimilabile a quella degli indiani d'Asia, che mostra il suo abbeverarsi alla ricerca ascetica. Qui si scorge piuttosto un ripiegamen­to rassegnato, senza fiducia in un futuro neppure trascen­dente.

La vitalità dei negri e la depressione degli indios che ab­biamo presentato non sono certo generalizzabili: anche a noi è capitato di osservare manifestazioni opposte in en­trambe le razze. I fenomeni comunque sussistono, se pu­re localmente, con incidenze reali. La nostra formazione

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adleriana (quanto di meno razzista si possa proporre) ci porta ad escludere nell'interpretazione ogni ipotesi biolo­gica di predestinazione etnica. A nostro parere sono stati gli stimoli ambientali a produrre rispettivamente l'ansia di sopravvivere e la degenerazione fisiopsichica. Cercheremo di ricostruire storicamente i processi.

Gli eventi più lontani dei popoli d'Africa e d'America, ricostruiti dalle ricerche archeologiche e dai diari d'esplo­razione, offrono dati antropologici tanto diversi dalla situa­zione attuale, da consentirci di attribuire il quadro che oggi si può osservare soprattutto al condizionamento imposto da parte dei conquistatori bianchi. Uno studio degli ulti­mi secoli di storia illumina, infatti, senza ambiguità lo svi­luppo civile dei due gruppi etnici, consentendone una in­terpretazione comparata. I colonizzatori mantennero a lungo diffidenza e ostilità timorosa verso gli autoctoni ame­ricani e verso le loro tradizioni, tanto da rifiutarne in parte persino l'utilizzazione come forza di lavoro. A queste po­polazioni fu consentita una limitata sopravvivenza inattiva in ristrette aree territoriali. Gli invasori, inoltre, favoriro­no in ogni modo l'uso di droghe e di bevande alcooliche, per garantirsi contro eventuali rinascite bellicose di popo­lazioni che erano riusciti a sconfiggere grazie a una supe­riorità tecnologica e organizzativa. Proprio per tale ragione essi importarono degli schiavi africani, che furono costretti a mantenere in condizioni di efficienza fisica, se pure umi­liati, per potersene servire. Il lento progredire dell'eman­cipazione civile trova dunque oggi, in media, questi ultimi in condizioni di maggiore vitalità rispetto agli indigeni americani. Il fatto che i bianchi d'occidente, dopo avere usato le tossicomanie come arma distruttiva di conquista, le lascino ora dilagare con rassegnazione nei loro figli ha ri­sonanze agghiaccianti di ritorsione storica.

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La depressione degli sconfitti

Sbarchiamo di primissimo mattino in un'isola greca, la cui dignità naturale è stata in apparenza vivacizzata, in realtà appiattita dal consumismo turistico. Dormono tut­ti a quell'ora, le vie della cittadina portuale sono vuote e si­lenziose. Dopo una curva a gomito, stretta fra le case in ri­va al mare, ci troviamo improvvisamente di fronte una spiaggetta appartata ma non deserta, anzi gremita di corpi immobili. Scendiamo sulla rena grigiastra per osservare da vicino. L'atmosfera mattutina è gelida, malgrado la stagio­ne estiva. Moltissimi giovani, forse un centinaio, sono co­ricati nella sabbia, avvolti nei sacchi a pelo o riparati alla meglio da qualche coperta. E chiaro che non sono greci: i loro visi offrono variazioni cosmopolite con prevalenza del­la tipologia anglosassone o nordamericana. Si svegliano uno alla volta e tremano per il freddo, ma non si muovono e non parlano. Non sono aggressivi, non proviamo alcun timore camminando fra loro. Hanno visi caratterizzati da un estremo pallore e sguardi fissi, come spaventati ma sen­za capacità di reagire. L'ipotesi di una gita di gruppo in povertà di mezzi, rovinata dall'inclemenza imprevista del clima, ci sfiora ma non ci convince.

Usciamo dalla spiaggia e proseguiamo verso il centro dell'abitato. In meno di un'ora lo scenario locale si ravviva. Il sole sale e scalda sempre di più, le strade si popolano, i caffè e i negozi si aprono. Facciamo anche noi i turisti, va­gabondiamo fra le case bianche, ci sediamo al tavolino di un bar. La cittadina dà un'impressione di una alacrità per­sino eccessiva: protesa verso un piacere standardizzato nei villeggianti e verso il suo sfruttamento negli indigeni, che ci paiono evoluti e operosi. A metà mattinata, in tacito ac­cordo, torniamo alla piccola spiaggia.

I cento giovani sono ancora lì, riversi sulla sabbia ruvi­da, sempre silenziosi, immoti, abulici. Eppure il clima si è fatto decisamente estivo e, a pochi metri di distanza, turisti

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e paesani passano a frotte e vivono intensamente. L'ipotesi di una reazione al freddo è ormai caduta. Resta, più pro­babile, quella della droga. Il portiere di un albergo vede il nostro stupore e ci si avvicina, desideroso di parlare o me­glio di sfogarsi, come capiremo ben presto. Critica quel frammento di umanità con un disprezzo un po' compia­ciuto, s'intuisce in lui la soddisfazione di sottolineare la de­cadenza di persone appartenenti a nazioni più ricche. E un uomo giovane, sui trent'anni, eppure il suo discorso riba­disce l'abisso che si è creato fra la sua e le generazioni ve­nute dopo. È uscito, con spirito d'iniziativa e tenacia, dalla condizione di povertà contadina della sua famiglia d'ori­gine. Gli risulta perciò incomprensibile che degli adole­scenti, più privilegiati di lui se non altro perché nati in un ambiente più evoluto e forse anche per più marcati vantag­gi economici di partenza, arrivino a distruggersi in questo modo, rinunciando a garanzie di prosperità e piacere. Si capisce che, nonostante una certa compassione, provi nei loro confronti un sordo rancore perché non hanno saputo utilizzare quegli elementi favorevoli che a lui sono man­cati.

Gli americani dicono che New York non è l'America. Hanno probabilmente ragione, ma questa città rappresen­ta ugualmente un fenomeno "mondiale" meritevole di at­tenzione antropologica, poiché esaspera il pulsare ambizio­so e decadente dell'odierna civiltà occidentale. D'altra par­te New York, come l'America, è a sua volta composita, frammentabile in settori assai distanti di umanità che, pur incontrandosi in vortici comuni, hanno una vita autonoma e aspetti non sovrapponibili. Così, se pure New York intesa globalmente non è una metropoli di stile depressivo, anzi coloratissima, feroce, allegra e interessata, essa nutre nel proprio corpo isolate zone di malattia, di un grigiore esa­sperato.

La scena ci appare inaspettata, senza un 'aura di atmo­sfera che la preannunci. Avevamo già notato che nella città

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il contenuto umano delle vie tende a cambiare drastica­mente, pur nella continuità delle costruzioni e degli spazi. Anche questa volta è così. Sul marciapiede, davanti a noi, giacciono abbandonate delle figure umane. Non sono ve­ramente immobili, ma tanto lente nei movimenti da sem­brarlo, come certe scimmie di grande e naturale pigrizia che si chiamano bradipi. Hanno apparenza di clochard, in­somma di barboni. Da principio non ci stupiamo: ce ne so­no anche da noi e a Parigi e a Londra. Ma poi, proseguen­do, notiamo altre figure simili, che caratterizzano tutta la strada. Abbandoniamo dunque l'idea del clochard, che per assunto è un individualista, con una sua dignità libertaria avvolta negli stracci. Questi invece stanno a gruppi e digni­tà non ne hanno affatto. Chiedono stancamente l'elemosi­na e scolano le ultime gocce di liquore da vecchie bottiglie tascabili. Osservati da vicino offrono nuove sorprese. Non sono sempre vecchi come ci aspettavamo, lo si capisce scru­tandoli attraverso la sporcizia e i segni del declino. Allora sono degli alcolizzati. Ma perché tutti assieme e tutti in quella via? E innegabile che il fenomeno sia cospicuo, pur nella sua settorialità, e abbia importanza sociale.

Se paragoniamo questi alcolizzati agli scandinavi con cui abbiamo aperto la nostra rassegna, notiamo alcune so­stanziali differenze pur nella costante depressiva. Lassù il vizio era esibito nel quadro della vita collettiva, senza ap­parenti discriminazioni per chi ne era affetto. Invece qui è relegato in un ghetto e presume una messa al bando da parte della popolazione integrata. Ci chiediamo ancora: è proprio l'alcoolismo la causa dell'emarginazione? L'ipo­tesi è contraddetta dal ricordo di altri bevitori e ubriachi, visti un po' dovunque nella città e inseriti senza traumi nel suo ritmo vitale. La ragione è un'altra. Se il bere rappre­senta una pausa del ciclo produttivo di un individuo, è tranquillamente accettato, talvolta costituisce anzi una pro­va di virilità. Se invece l'alcoolismo è una condizione sta­bile e ostacola perennemente la capacità di produrre e di

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consumare, smentisce concettualmente uno dei presuppo­sti base di quella società e richiede quindi l'isolamento.

L'impegno nel lavoro e l'edonismo gastronomico sono impronte caratteristiche dell'attuale Germania dell'Ovest. Siamo da qualche giorno in una grande città di quel Pae­se e abbiamo incamerato sino alla saturazione immagini di persone coinvolte, con diretta partecipazione emozionale, nella grande macchina produttiva e di altra gente, uomi­ni, donne e bambini, intenti a mangiare e a bere birra in tutte le ore del giorno, anche in quelle per noi assai poco congeniali ai pasti. Di notte abbiamo osservato un quadro estroverso, ben differente da quelli depressivi che abbiamo prima descritto: l'ondeggiare di un'umanità affratellata nell'atmosfera fumosa delle birrerie. Ma i nostri passi ci conducono in una zona dell'agglomerato urbano che non sembra assolutamente Germania. Qualcosa di cupo e di­messo nelle abitazioni, qualcosa di triste e scuro nei volti della gente. Gli uomini: visi affilati di predoni, incarnato bruno, rughe di stanchezza e di rinuncia nel volto. Le don­ne: soprabiti lunghi sino alle caviglie, malgrado la stagio­ne calda, fazzoletti neri che incorniciano il volto accennan­do al tema arcaico del velo islamico, sguardi ancora più spaesati e privi d'attenzione. Non c'è dubbio, sono turchi. Ma in questi turchi, nonostante i segni di un certo benes­sere acquistato, non c'è la dignità bellicosa, la fierezza po­lemica palesata in terra d'origine. Ci sono, con sicurezza, le stigmate della depressione. Sono lavoratori, inseriti nella ben oliata macchina dell'industria locale, con i loro fami­liari, qui affrancati dallo spettro della povertà. Eppure si comprende che non sono partecipi della grande competi­zione economica, che non assaporano il gusto del consumi­smo. La loro malinconia nasce dalla consapevolezza di es­sere estranei a quelle nuove forme di lotta per il potere, troppo distanti dai valori presenti nella loro tradizione.

Ecco una possibile traccia per comprendere i fenomeni appena descritti. Nell'occidente neocapitalista la depressio-

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ne è limitata, ma denuncia le conseguenze di alcune sue re­gole dinamiche. Esso apre a tutti le porte dell'appagamen­to, ma pone delle condizioni. Per essere gratificati occorre partecipare a una grande corsa collettiva e non rimanere indietro, accettare la competizione e ragionevoli dosi di fa­tica, con tutte le salvaguardie offerte dal progresso socia­le. Nel suo ambito esistono certe differenze. Nei Paesi più poveri c'è ancora il problema dell'esclusione dal lavoro, in parte rimediato dalla possibilità di migrazioni, che impon­gono a loro volta non facili necessità di adattamento. Nei Paesi più ricchi anche gli esclusi dal lavoro hanno dignitose tutele di sopravvivenza. Gli individui più dotati e duttili possono incontrare momenti di successo e di fallimento, ma hanno sempre occasione di recupero e trovano a loro disposizione, come premio alla lotta, perfezionate fonti di piacere. Tutto ciò comporta ansia, ma non depressione. Anche per i mediocri c'è spazio e vitalità: si abbassano solo i limiti degli obiettivi di conquista. Lo stile depressivo si presenta invece come una condanna per chi non compete. La non adattabilità distingue in linea di massima chi è an­cora agganciato al passato e chi rifiuta il presente, pur mantenendo legami e obblighi con l'umanità inserita. Per quanto riguarda poi le ultime generazioni, l'analisi della fenomenologia depressiva nell'occidente è alquanto più complessa. Alle suddette motivazioni si deve aggiungere in­fatti un contagio distruttivo che proviene dall'esterno e fa proseliti. Entrare nella "quinta colonna", però, impone co­strizioni di lotta non meno impegnative: anche qui gli astensionisti e gli abulici sono puniti con la depressione.

La depressione degli spiriti liberi

Un episodio che risale agli Anni Cinquanta esemplifica molto bene le conseguenze depressive dell'applicazione acritica o imposta dall'esterno dell'ideologia. Racconta un

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nostro amico, ingegnere idraulico, che ha tenuto, per ragio­ni di lavoro, rapporti frequenti con la Cecoslovacchia.

«La ditta da cui dipendevo, che stava realizzando un mio impegnativo progetto, aveva commissionato del mate­riale a una grande fabbrica cecoslovacca, che vantava dal­l'anteguerra tradizioni di serietà ed efficienza. Purtroppo il materiale era risultato difettoso per errori di calcolo. Ero stato perciò inviato sul luogo per ottenerne la sostituzione. Le mie prime conversazioni con i tecnici del Paese erano state cariche d'imbarazzo, poiché gli ingegneri locali ave­vano cercato di negare i difetti delle apparecchiature com­missionate. Ma poi, dati e calcoli alla mano, ero riuscito a ottenere quanto desideravo. Prima della mia partenza, uno dei direttori della fabbrica produttrice mi aveva invitato a cena, con iniziativa personale, in un ristorante cittadino.

« Mentre si cenava, avevamo parlato del più e del meno con un tono cordiale ma distaccato. Poi era arrivato il ca­meriere con il conto e l'aveva consegnato al mio ospite, che l'aveva scorso e, improvvisamente, era scoppiato a piange­re, con il capo appoggiato alla tovaglia e il corpo scosso da sussulti. Intuibile il mio disagio. Il collega cecoslovacco si era infine ripreso e aveva confessato di non avere il dena­ro per pagare: l'invito non era ufficiale e non poteva, quin­di, addebitarne le spese allo Stato imprenditore. Era segui­to un suo sfogo umano, sulla scia di parole rotte dall'emo­zione.

«"Non ne posso più", mi aveva detto con l'intensità del­l'introverso che rompe il suo ritegno, "ho uno stipendio di poco superiore a quello degli operai e obblighi d'orario e di lavoro molto più costrittivi. Non mi è consentito di ap­pagare la mia inventiva, perché sono legato dai program­mi dei politici, che seguono linee misteriose per me incom­prensibili. Vivo nel terrore di essere accusato di trasgredire l'ortodossia ideologica, mi sento osservato e spiato da tutti, soprattutto dai miei dipendenti, che invidiano la mia po­sizione e non sanno che invece è molto più scomoda e dif-

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ficile della loro. Oggi mi pento di avere accettato la carica e non mi sento neppure di chiedere un declassamento, poi­ché sarei accusato di tradire la causa socialista. Neppure gli svaghi del tempo libero mi sono di sollievo: ero appassio­nato di teatro, di cinema e di letteratura, che qui sono fio­renti anche se ripetono sempre gli stessi temi. Da principio credevo in queste idee, ma ora mi hanno soffocato, sono ar­rivato a odiarle..." ».

Sappiamo che oggi la situazione del settore tecnologico è parzialmente mutata in quei Paesi. Si è dato un maggiore riconoscimento economico alla capacità, ammettendo così il fallimento di principi teorici ritenuti prima indispensa­bili. La cultura umanistica e l'arte sono però ancora prigio­niere della politica e i loro cultori o accettano il ruolo di cortigiani o sono costretti alla rinuncia e alla depressione. Due personali ricordi di viaggio ci aiutano a documenta­re la comparazione fra una prima fase, rigida e del tutto acritica, di applicazione del marxismo, e l'introduzione di settoriali libertà consumistiche e competitive, in un Paese che continua a manifestare un ossequio formale alla piani­ficazione collettivistica, pur essendosene pragmaticamente allontanato.

Un viaggio in una città iugoslava sulle soglie degli An­ni Cinquanta. Al confine controlli rigorosi, gravidi di una atmosfera di sospetto e con qualche brivido di timore non razionale. Entriamo nell'agglomerato urbano verso sera: è contraddistinto dal grigiore, nelle case, negli uomini, nei locali pubblici vecchiotti nell'esteriorità, ma senza alcun fa­scino regressivo. Scesi in un albergo, usciamo quasi subi­to e passeggiamo qua e là. Notiamo una lunghissima coda davanti a un negozio con i vetri smerigliati (l'insegna non ci dice nulla, vista la nostra ignoranza della lingua locale). Per spirito di scoperta, decidiamo di metterci in coda pu­re noi. Gli occhi dei nostri compagni di fila sono amiche­voli, però ci osservano con stupore: forse perché abbiamo chiare stigmate di stranieri e indossiamo abiti non certo

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esibizionistici, ma un poco più adattati al corpo di quelli delle altre persone, che pendono come divise da coscritti. Non ascoltiamo conversazioni ad alta voce, solo qualche parola sommessa, scambiata con discrezione. Sembra un popolo introverso - ci diremo poi - ma molto educato. L'attesa è lunga e comincia a infastidirci, ma teniamo duro sino in fondo, dopo aver acquisito inconsapevolmente un po' della tristezza del luogo. Entriamo finalmente nella bottega e scopriamo la ragione della coda. Tutti comprano dei biscotti secchi, uguali, che una commessa, anche lei di­screta, toglie da un vaso di vetro simile a quelli delle nostre nonne. Li acquistiamo per adeguarci e così ci guadagnia­mo un paio di sorrisi più aperti. Li assaggiamo subito: non sono cattivi, ma sanno ancora di guerra.

Torniamo di recente nella stessa città e stentiamo a rico­noscerla, poiché oggi si differenzia ben poco dalle nostre. Già al confine c'era aria di trasformazione, poiché non ave­vano quasi guardato i nostri passaporti. Le vie del centro sono affollate: ragazzi e ragazze in jeans, gente alacre, at­tenta, comunicativa, l'introversione di una volta, decisa­mente, non c'è più. Entriamo in un grande magazzino e osserviamo, senza variazioni, gli articoli della Rinascente e dell'Upim, i richiami accattivanti dei saldi, le suggestioni rosate delle estetiste che fanno dimostrazioni pubbliche. Lungo le strade corrono le abituali nostre utilitarie e, in percentuale non trascurabile, alcune grosse cilindrate. I chioschi dei giornali scintillano di rotocalchi. Notiamo an­che un settimanale italiano particolarmente polemico verso tutto ciò che ha sapore di sinistra. Dalla porta di una disco­teca scaturisce la stessa musica rock che campeggia in te­sta alle nostre classifiche.

Un raffronto fra i due quadri, per essere obiettivo, non deve cedere alle tentazioni del semplicismo. Non siamo di fronte a una pura variazione di tenore economico. Si è ac­quisita oggi, evidentemente, la possibilità di scambiarsi emozioni, di comunicare lungo le linee del consumismo

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senza troppa paura, di competere pragmaticamente per conquistare dei beni e del piacere. Arrivano in luogo per­sino alcune voci estranee al sistema. Eppure sappiamo che la conquista della libertà ideologica, in quel Paese, è spo­radica e contraddittoria. Non esistono organi di stampa lo­cali autorizzati a contrapporsi in una vitale battaglia di idee, non esiste un pluralismo partitico né sindacale. E pre­sumibile che questa situazione parzialmente limitativa in­duca ripiegamenti depressivi solo in chi abbia impostato la propria vita sulla rivendicazione di una libertà intellettuale, ma non intacchi il tono emotivo della maggior parte della popolazione, assai più sensibile alle variazioni dei prezzi e all'immobilismo degli stipendi.

In altri Paesi d'oltre cortina abbiamo avvertito di recente imprevedibili alternanze fra il nuovo corso del costume e tracce di un controllo ferreo non ancora dissolto, tanto da riportarne uno sconcerto che ci impediva di comprendere e d'interpretare. Ecco, come esempio, due ricordi percet­tivi dalla Bulgaria. Un ristorante-cottage ai limiti di un'au­tostrada. All'interno la musica vivace di un'orchestrina, cameriere graziose, brusio di chiacchiere lievi dai tavolini, ottimo cibo piccante. Tutto sommato, assai meglio di alcuni nostri grill autostradali, permeati di automatismo e di fret­ta. Ma poi, terribili e incombenti, certe strade di Sofia, do­minate da cartelloni politici ripetitivi, punteggiate dalle di­vise dei militi, popolate da un nereggiare di folla silenziosa in attesa dei tram. E ancora, in Ungheria, una Budapest festaiola, con le strade rumorose e affollate sino a tarda not­te, ma con i negozi in pieno centro dalle vetrine più che modeste, nei quali gli acquisti dovevano seguire lunghi ri­tuali burocratici. Infine, in Romania, una campagna intri­sa di passato e ignara dell'oggi, cui si contrapponeva una Bucarest dallo splendore mitteleuropeo, neutralizzato dalle divise dei poliziotti, presenti con una densità mai osservata altrove. Le persone: anche qui impressioni contrastanti. Qua e là, senza una regola per tracciare delle categorie, in-

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dividui sfuggenti e guardinghi e altri pronti a criticare sen­za apparente timore le strutture dei loro Paesi: alcuni con evidente speranza di cambiamento, altri con una rassegna­zione un po' scettica.

Ammettiamo che la nostra carrellata di avvertimenti troppo rapidi non consente un'indagine seria, approfondi­ta. Ne abbiamo tratto però l'impressione di un contesto culturale percorso da filoni diversi, tali da impedire la si­curezza, e forse psicologicamente popolato da brevissime felicità fatte di piccole cose, poi smentite da incertezze an­siose per il domani. Un terreno, certo, che può favorire la sopravvivenza attiva dei più forti e i ripiegamenti depres­sivi di chi non è stato preparato dal suo vissuto ad affron­tare l'imprevisto.

Non abbiamo mai visitato l 'Unione Sovietica. Privi di esperienze personali, azzarderemo un'indagine sociologica basata su elementi indiretti, riferita naturalmente alla Rus­sia di Gorbaciov e non a quella più cupa che avevamo trat­tato nella precedente edizione del libro. Dopo qualche in­certezza abbiamo deciso di accantonare i dati passati attra­verso il filtro di una qualunque soggettività, sempre per­meata dal desiderio di schiarire o da quello di rivolgere ac­cuse. I racconti dei viaggiatori, dunque, non ci hanno convinto proprio perché in reciproco contrasto. Ci siamo basati invece sulle fotografie: quelle pubblicate dai giornali e quelle offerteci da alcuni privati. Ecco, in una sequenza un po' confusa, alcune immagini.

Una sfilata di moda che presenta modelli non troppo dissimili dai "prét-à-porter" nostrani. Dei suonatori di jazz, con il viso entusiasta e un po' ingenuo, sullo stile Anni Cinquanta. Una via di Mosca, di primavera, con gente ve­stita come da noi e con un tono abbastanza borghese (la stagione favorisce l'affinità per l'assenza dei colbacchi). Degli agenti di polizia che reprimono duramente una dimo­strazione, per la verità poco affollata. La classica sfilata mi­litare sulla Piazza Rossa: forse qualche missile in meno, ma

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sempre soldati molto impettiti e attorno a essi ali di una fol­la altrettanto rigida e immota. Un'aula parlamentare po­polata da signori anziani, sulle cui giacche campeggia da ambo i lati un'incredibile esibizione di medaglie. Un cro­nista italiano che sta intervistando persone giovani che, per la foggia nel vestire e per le espressioni dei visi, potremmo benissimo collocare in piazza San Babila a Milano. Dei fanti di marina che picchiano rabbiosi un gruppo di ecolo­gisti o pacifisti che siano, anch'essi riuniti in un gruppo sparuto. Nella via di una città alcune contadine dal viso bo­nario, con lo scialle sul capo, vendono frutta e ortaggi e si differenziano dai passanti più attuali nel vestire. L'inter­no di una chiesa ortodossa illuminata per una funzione, opulenta di dorature e affollata da fedeli dall'aria paesana. Le strade brulicanti di una città della Russia asiatica, sullo sfondo una moschea, dovunque gente dagli occhi obliqui, turbanti, caffetani e abiti occidentali che si confondono. Un'atleta dal viso angoloso, sorridente, e dal corpo tena­ce e poco femminile. Una campionessa di ginnastica arti­stica, giovanissima, nel contempo fine, delicata e scattante.

In questo magma di figurazioni, solo in superficie incoe­renti, non è difficile scoprire tre impronte di cultura, che segnano una successione temporale disturbata da soprav­vivenze. L'antica Madre Russia, fatalista, rassegnata, di­gnitosa. Una generazione figlia della rivoluzione, che ha prodotto sue classi senza precedenti, rituali rigidi, un en­tusiasmo legnoso e una silenziosa diffidenza. L'invasione di fermenti libertari e del costume occidentale, che sta co­municando il gusto, prima proibito, della polemica.

L'immenso terreno di coltura che abbiamo sorvolato nelle sue immagini fotografiche può favorire adattamenti o depressioni, secondo le infinite varianti dei vissuti indi­viduali. Con qualche invenzione attendibile e senza lasciar­ci influenzare dai nostri punti di vista ideologici, facciamo agire dei personaggi di scena esemplificativi.

Un qualsiasi uomo politico, collocabile alla periferia o ai

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vertici, può avere gustato la struttura rivoluzionario-conservatrice del suo Paese come garanzia di ruolo e ora può sentire il suo piedestallo di idee e di potere che sta va­cillando, riportandone depressione. Un altro può applicare agli attuali, prevedibili cambiamenti lo stesso trasformismo attivo che gli ha consentito di sopravvivere in passato men­tre si altenavano tanti capi.

Un giovane, anticonformista nel suo contesto ambien­tale, può avere gustato gli attuali accenni di rinnovamen­to con la speranza di un loro rapido sviluppo e avere poi ri­portato una frustrazione depressiva avvertendone i limiti, la contraddittorietà, la lentezza evolutiva. Un altro, condi­zionato da esperienze personali positive, può apprezzare l'aria nuova come piacere immediato e contingente, sen­za rimanere deluso dai suoi limiti.

Un cittadino sovietico, che pratichi con fervore la reli­gione ortodossa, può sentirsi emarginato da un materiali­smo che il nuovo corso non sembra avere ancora scalfito. Un altro può confinarsi appagato nella minoranza comu­nitaria che condivide la sua fede.

Un soldato reduce dall'Afghanistan può assorbire come tradimento delle ragioni per cui ha combattuto le attuali, prudenti aperture all'occidente, configurando una sindro­me di disadattamento analoga a quella dei reduci america­ni dal Vietnam. Un altro può invece vivere con sollievo l'allontanarsi dello spettro della guerra.

Anche qui dunque, come nelle molte varianti del mondo occidentale, è presumibile un fondersi o un differenziarsi dell'individuale con il collettivo, che induce di caso in ca­so la depressione o l'euforia o una disincantata accettazio­ne degli eventi.

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CAPITOLO QUARTO

Lo stile depressivo nel Paese dei paradossi: note di costume

sull'Italia contemporanea

Una Babele senza torri

I filoni sociali del fenomeno depressivo nel mondo civi­lizzato di oggi, come si è visto nella precedente panorami­ca, sono essenzialmente due: la frustrazione degli sconfitti nel processo competitivo dei Paesi neocapitalisti e la repres­sione che appiattisce il senso creativo e critico nei Paesi neomarxisti. L'Italia in cui viviamo, però, sfugge ad en­trambe le categorie di classificazione e non perché sia stata in grado di sviluppare proprie scelte. A differenza di qual­che anno fa, l'uno e l'altro indirizzo coesistono in essa, ma hanno perso il mordente, sono dichiarati o smentiti ogni giorno lasciando trasparire un trasformismo furbesco che esclude ogni soluzione coerente.

Ne deriva, come nella mitica Babele, una confusione di lingue. Ma qui non si osserva neppure il tentativo di co­struire una torre, orgogliosamente proiettata verso l'alto. Gli scontri verbali e d'azione senza vinti né vincitori, le ambizioni frustrate e il dubbio sofferto sono per ora il so­lo risultato della conflittualità interna. Chi cerca di svilup­pare onestamente la libera iniziativa in ogni campo è ca­stigato da una scoraggiante pressione burocratica, costretta a colpire solo chi è limpido e scoperto, e invidia rabbiosa­mente chi ha il coraggio di commettere impunito clamoro­se infrazioni; i cultori un tempo fanatici della pianificazio-

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ne provano paradossali nostalgie per il privato e proseguo­no perplessi in una linea in cui non credono più; chi ha proceduto sinora sulla strada dell'irregolarità comincia a intravedere la fine della sua impunità e tenta angosciato gli ultimi colpi di mano.

Questa fucina di desideri inappagati e di perdite im­provvise dovrebbe, stando alla teoria, indurre gravissime incidenze di depressione. Ma ciò non accade da noi, per il momento. Vediamone le possibili ragioni, che crediamo so­stenute dalla storia locale.

Pensiamo che, nel corso dei secoli, gli italiani abbiano subito una robusta vaccinazione contro le attese ideali fru­strate, dovuta all'alternarsi in casa loro, con imprevedibili conseguenze, di padroni e invasori di ogni razza, tipo e pensiero. Sono stati così allenati nel tempo a esigenze di trasformismo e a uno scetticismo di fondo verso il potere. Hanno inoltre acquisito la capacità di vivere, nella ristretta cerchia delle loro relazioni umane, l'antico motto latino car­pe diem, proponendosi obiettivi limitati e validi sotto ogni regime, nell'ambito di passioni spicciole, di modesti rivo­li di guadagno e di rancori competitivi estremamente per­sonalizzati. Tale garanzia di adattamento, se ha contenu­to e contiene la sofferenza con la ricerca di qualche piacere, ha impedito e impedisce però che la vivace intelligenza no­strana prenda corpo in realizzazioni civili corali e impe­gnative.

Chi crede alla duttilità immutabile delle "soluzioni al­l'italiana" e continua a fidarsi della nostra tradizione di furberia paesana non deve però illudersi: quelli di oggi so­no forse i suoi ultimi respiri di vitalità. La storia non segue più ristrette piste regionali e comincia a disegnare piani senza confini. Così, se pure l'Italia non è ancora global­mente un Paese di stile depressivo, i fermenti della prote­sta in grigio iniziano a serpeggiare nel suo corpo. La pic­cola inchiesta di costume che seguirà nelle prossime pagi­ne, fatta di avvertimenti intuitivi, di notazioni ambienta-

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li e umane a guisa di flash, si propone appunto di sottoli­neare un fenomeno che sta nascendo e che per ora parla con voce sommessa.

L'ex leader dagli occhi di ghiaccio, ovvero la morte del superuomo politico

Per dimostrare come il tempo cambi rapidamente gli uomini e il costume, inventando nuovi temi per la prote­sta in grigio, ripresentiamo un personaggio descritto nel­la precedente edizione di questo libro, riproponendolo quindi com'è oggi, radicalmente modificato dal divenire della cultura. L'episodio di apertura risale a una decina di anni fa.

Una cena a casa di amici. Dopo il caffè la conversazio­ne si polarizza sul figlio dei nostri ospiti, che non è anco­ra rientrato e compie proprio quel giorno diciott'anni. Non lo vediamo da più di un anno e ascoltiamo i genitori par­lare di lui con un orgoglio perplesso, che a tratti sfiora la re­verenza e a tratti sembra invece venato di preoccupazione. Ora si occupa di politica - dicono - e trova anche il tempo per continuare gli studi, compatibilmente con i suoi impe­gni quest'anno darà la maturità classica. Il rumore di una chiave nella serratura e della porta che si apre: il ragazzo arriva nel pieno del discorso e si unisce a noi con una cer­ta degnazione.

E magrissimo, i jeans bene aderenti al corpo, e ha uno sguardo fermo, serio, con la diffidenza immune dall'imba­razzo di chi si sente superiore. La conversazione devia e fi­niamo per discutere di un film che tutti abbiamo visto. Le sue opinioni sono elargite con spirito concessivo, prive di entusiasmo, fredde, pronte a reggere a ogni obiezione. Il padre e la madre le bevono in silenzio, è chiaro che si sen­tono detronizzati come esseri capaci di pensiero, ma indi­rettamente valorizzati dalla loro continuazione genetica.

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La discussione, di conseguenza, si restringe fra noi e il gio­vane.

Il nostro interlocutore si accorge ben presto che sfuggia­mo alla sua standardizzata classificazione degli adulti (facili avversari da sconfiggere e patetici imitatori cui vanno se­gnalati i propri limiti) e ne rimane sconcertato. Del film, ol­tre tutto, più che la componente ideologica ci interessa il substrato affettivo, il che risulta per lui incomprensibile. Con una certa difficoltà riusciamo a mantenere il discor­so appunto sul tema degli affetti. In breve affiorano, dietro il paravento esibizi'onistico del modello sociale perseguito, le frustrazioni di fondo del ragazzo.

Ha una basilare sfiducia nella credibilità di ogni "com­partecipazione amorosa" individualizzata: il tentarla, oltre tutto, gli sembra degradante. Ammette una sessualità vis­suta nello spirito di gruppo, decisamente povera, ci pare, per l'appagamento di esigenze personali. Non può esaudire quindi una delle istanze essenziali dell'uomo. Riesce però a evitare conclamate reazioni depressive esercitando un ruolo di potere e confidando nell'afflato di una utopia col­locata nel futuro e raggiungibile mediante una lotta che rappresenta la vera ragione di vita del ragazzo. Il suo par­ziale equilibrio, dunque, si regge sull'esistenza di conflit­ti sociali e delinea un quadro che potremmo definire con un colorito neologismo psichiatrico come "sindrome di Che Guevara o del rivoluzionario permanente".

Rivediamo oggi il figlio dei nostri amici. I suoi occhi so­no sempre privi di calore, ma il suo sguardo non ha più la gelida durezza di un tempo: è come spento, perso nel vuo­to. Ora è possibile parlare con lui di ogni argomento, pa­catamente, senza che la conversazione s'infranga contro la sua convinzione di superiorità. Con lui si prova, però, un'altra forma di disagio. Non ci contraddice mai, spesso anzi approva assentendo col capo, ma non partecipa vera­mente alle emozioni che cerchiamo di trasmettergli, sem­bra che il suo consentire sia dovuto a una cortesia distac-

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cata. La sua vita è cambiata, inserita in una routine per­vasa da rassegnazione. Il giovane, che oggi ha ventott'anni, ha interrotto gli studi universitari e lavora in banca, senza ambizioni di carriera: deride bonariamente, senza acrimo­nia, il mondo dei bancari. Ha pochi amici, che paiono se­lezionati per affinità nell'abulia e nel pessimismo: sono quasi tutti, come lui, orfani del sessantotto. Se si discute di politica si astiene e ci ascolta con un sorriso particolare, fra il triste e il disincantato. Ha comunque un abbozzo di vi­ta affettiva, trascina da tempo una relazione con una ra­gazza paziente, disposta a tollerare i suoi lunghi silenzi.

Il ripiegamento depressivo di questo personaggio è certo dovuto alla perdita di un ruolo che era stato costruito con troppa rigidità e che proprio sulla rigidità basava la sua for­za di presa. Forse il fatto di essere stato quasi divinizzato dai genitori gli ha impedito di acquisire quella duttilità che ha consentito ad altri orfani del sessantotto di inserirsi in un potere di segno diverso.

Declino e rinascita della comicità

Nella cultura ricreativa del nostro Paese, prima e dopo l'ultimo conflitto mondiale, campeggiava la figura del "grande comico" di rivista. Dopo la terribile ventata della guerra, i contenuti della comicità consumistica si erano ar­ricchiti con un po' di satira politica, ma lo stile era rima­sto quello di prima: colloqui confidenziali con il pubblico sui bordi della passerella dei teatri, un filone di barzellet­te allusive, personalizzate dal dicitore, il gusto ancora pre­sente di infrangere gli ultimi tabù sessuali, ma sottovoce, perché lo scandalo rimanesse fra amici.

Nell'ambito della vis comica, il vero cambio di costume era avvenuto con la rivoluzione culturale del sessantotto. La fine dei tabù aveva distrutto il gusto delle allusioni. La generazione cultrice della rivista si era ritirata in un silen-

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zio timoroso, lasciando uno spazio rancoroso o plaudente alla retorica dei figli. E questa era priva di humour. Tutto ciò configurava una depressione da perdita, almeno per chi si sentiva sorpassato.

E di quel tempo anche il declino di un altro filone del­la comicità: quello goliardico. La goliardia, con i suoi "pa­piri' e i suoi canti pervasi da una pornografia medievalista, riproponeva il sapore dell'infrazione, ma con più coraggio e in un modo più scoperto, sostenuto dalla forza del grup­po. Con il sottinteso scontato che "il giorno dopo" gli stu­denti si sarebbero reinseriti nella morale comune. Come sempre, da generazioni. Il nuovo clima, seriosamente ideo­logico, non permette più agli studenti di abbandonarsi a evasioni vuote di ideologia. Inoltre gli universitari, con la prospettiva di una laurea che condurrà inesorabilmente al­la disoccupazione, hanno perso l'orgoglio protervo e gio­coso di chi si sentiva predestinato a divenire classe dirigen­te. Ancora, dunque, vissuti di perdita che incentivano la depressione.

Oggi i rapporti fra cultura e comicità sono ancora una volta sovvertiti. Sono bastati dieci, quindici anni perché i cittadini del nostro Paese riconquistassero il diritto alla ri­sata aperta, non più frenata dalla paura, estesa a tutte le generazioni. È nato così un nuovo senso del comico, para­dossalmente generato dalla caduta delle illusioni rivoluzio­narie. Si tratta però di un fenomeno completamente diver­so dalle evasioni ingenuamente peccaminose del passato. Vediamone prima i contenuti e poi alcuni esponenti fra i più rappresentativi.

L'erotismo è ormai divenuto estraneo alla comicità, poi­ché non rappresenta più un'infrazione, si ritrova senza bri­vidi in ogni edicola, in ogni spiaggia, in ogni sala cinema­tografica, sui banchi di ogni farmacia, in ogni volume ac­quistato in libreria. Si può affermare anzi, decisamente, che la comicità non si basa più sull'infrazione, poiché le contravvenzioni alle regole sono entrate a far parte della

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banalità quotidiana e non sollecitano più il gusto del pec­cato. Si ride, invece, prendendo atto con rassegnazione di­vertita della caduta di tutti gli ideali, di tutti i punti fermi, di tutte le sicurezze.

Quella che è risorta è allora una comicità politica? In un certo senso sì, ma non ha nulla a che vedere con la satira politica di un tempo, che era spudoratamente di parte e presumeva quindi un odio e una fede contrapposti. Dieci anni fa era possibile deridere a voce alta miti e personag­gi con una certa collocazione, ma ogni attacco a miti e per­sonaggi di altro segno richiedeva prudenza, doveva essere furtivo e sussurrato. Oggi invece si può tranquillamente e senza rischi dissacrare Reagan o Gorbaciov, Almirante o Natta, De Mita, Pannella o Craxi. Chi lo fa in modo par­ticolarmente efficace, alternando le sue vittime, riesce a sol­lecitare un'ilarità che presume una sconsolata constatazio­ne: «Visto a che punto siamo arrivati? Non si può più cre­dere a nulla, non ci si può più fidare di nessuno! ». Abbia­mo scelto alcuni esempi, selezionati da un'analisi più va­sta, che ci sono sembrati dimostrativi del carattere abulico e depressivo dell'odierna comicità.

Lo schermo televisivo ha sostituito il palcoscenico dei teatri per dare figura e voce ai neo-comici scoraggiati e sco­raggianti, vittime e persecutori, masochisti e dissacranti. Due fra questi ci hanno specialmente colpito per la loro grinta comunicativa. Il primo, intensamente ligure nell'ac­cento e nella mimica, recita d'abitudine uno stupore da cui siamo coinvolti, di fronte al crollo generale di ogni credi­bilità civile e umana. Il suo personaggio distrutto e appun­to stupefatto mette paradossalmente k.o. gli ex potenti, a loro volta sgretolati, che hanno travolto la sua totale inge­nuità. La sua indubitabile presa deriva dal fatto che colo­ro che lo osservano vedono rappresentate con esasperazio­ne comica le proprie disillusioni. Il secondo, toscano e ma­ledetto in un senso che supera la cattiveria intellettuale di Malaparte, espone un turpiloquio senza limiti, una sfida

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agli ultimi baluardi della morale. L'effetto che ne deriva non è affatto erede dell'antiquato coraggio goliardico, ma frutto di una rassegnazione sconcertata che si trasforma in divertimento. Le esplosioni di ilarità che abbiamo evoca­to potrebbero essere acutamente definite "risate fra le ma­cerie".

Entriamo ora in un altro settore dell'umorismo nostrano e attuale: quello, decisamente rinnovato, della vignettistica satirico-politica. Si tratta, ma solo in apparenza, della con­tinuazione di un filone antichissimo. Un tempo le carica­ture politiche servivano a condurre una battaglia in favo­re di una tesi e cercavano di inattivare con la derisione la tesi opposta. Oggi invece le vignette umoristiche si rivolgo­no contro "tutte le tesi" e sottolineano quindi, con impli­cazioni ovvie, che non vi è più alcuna tesi sostenibile. Sia­mo ancora di fronte al fenomeno già rilevato a proposito dei comici televisivi.

Al di fuori del clima elettorale, i disegni satirici cercano di ravvivare il grigiore della prima pagina dei quotidiani, appesantita dal linguaggio cifrato degli articoli di fondo. I lettori non troppo coinvolti - ossia la maggioranza - dedi­cano ai disegni uno sguardo distratto e reagiscono con un sorriso ai più graffiami. Nelle serate di attesa dei risultati elettorali davanti al teleschermo, però, la proiezione delle vignette di Forattini (citiamo solo la firma grafica più no­ta) ha un suo effetto emotivo, testimone del cambiamento avvenuto di questi tempi in chi trasmette e in chi osserva. Può essere interessante, al riguardo, un confronto transcul­turale.

Prima scena: una decina di anni fa. In un appartamento medio, siede davanti al televisore una famiglia media, in compagnia di alcuni amici invitati per l'occasione. I risul­tati che si susseguono di tanto in tanto, interrompendo le sussiegose discussioni degli "esperti", suscitano nei presenti reazioni compiaciute e un po' aggressive o risposte impron­tate a un disappunto polemico, manifestazioni di una spe-

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ranza che scioglie il timore, tentativi capziosi di negare un'evidenza o rassegnazioni pessimistiche a un inesorabile domani.

Seconda scena: oggi. La medesima famiglia nella mede­sima occasione, con qualche amico in meno, il che denun­cia una certa caduta d'interesse. L'atteggiamento dei pre­senti è alquanto modificato, assomiglia di più a quello di chi assiste allo spettacolo di varietà del sabato sera. Il sus­seguirsi dei risultati induce espressioni di uno scetticismo vero o recitato: ogni segno di coinvolgimento squalifiche­rebbe chi lo manifesta. La comparsa delle vignette, invece, scatena un gradimento compiaciuto, un'ironia esibita sen­za più remore, ha insomma un ruolo disinibente. Compa­re, inevitabilmente, la caricatura di Spadolini, sempre nu­do e vergognosamente obeso, assimilato alla Fiat Uno con allusione ai mutamenti di percentuale; l'immagine di De Mita con un fumetto che pone in rilievo la sua incredibi­le dizione; il viso scavato di un Natta abbacchiato; un Pan-nella sorpreso e schiacciato da una Cicciolina esagerata­mente procace; un Almirante astenico, con il fez penden­te, che regge con fatica un manganello; un Craxi assai più mussoliniano, con il torace gonfio e la mascella protesa. In superficie, tutti gli spettatori sono felici e rilassati. Un os­servatore più attento noterebbe che qualche vignetta ha colpito residue zone vulnerabili generando un po' di sof­ferenza, subito compensata da una rivalsa vendicativa sol­lecitata dal disegno seguente. Ancora risate fra le macerie, questa volta dipinte di rosa.

Vorremmo parlare ora di un argomento patetico e for­se troppo scontato: le barzellette sui carabinieri. Ci sem­bra che anche questo tema consenta qualche osservazione più sottile. Portiamo come esempio una storiella classica e brevissima, che può valere come materiale per un'analisi psico-culturale.

«Un carabiniere, rientrando in caserma, vede un com­militone chino su un quaderno, con il viso preoccupato. Gli

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si avvicina e lo ascolta mormorare: "Quattro per quattro venti, cinque per sei ventotto, sei per sette quarantuno, otto per otto novanta...". Stupito, gli chiede: "Che cosa ti è suc­cesso? Che cosa stai facendo?". L'amico risponde, con la voce rotta dalla disperazione, che il medico gli ha prescritto di fare degli esami! ».

L'irrisione della più rigida e militaresca fra le forze del­l'ordine potrebbe prospettarsi come una compensazione vendicativa da parte di avversari politici o da parte di chi si identifica con la criminalità comune. Ma il contenuto della barzelletta sembra colpire soprattutto delle carenze di cultura ed esibire in chi deride una superiorità di classe. La nostra ministatistica personale sembra confermare tale ipo­tesi: abbiamo infatti acquisito il gusto delle storielle sui ca­rabinieri particolarmente in una fascia di opinione solida­mente borghese, ossia in coloro che dovrebbero vedere nel­le forze dell'ordine una tutela per la loro sicurezza. Qual è dunque il sottofondo inconsapevole di questa dilagante li­nea della comicità?

Formuliamo, in merito, due ipotesi non dimostrabili, ma con diversi spunti di attendibilità. Forse alla base del feno­meno sta la protesta di chi non si sente a sufficienza dife­so; o di chi prova rancore verso uno Stato che sta affossan­do la meritocrazia ed esercita un cieco potere burocratico. Entrambe le interpretazioni suonano a conferma del ma­sochismo scoraggiato che continua a emergere dalla nostra indagine.

L'isolamento musicale: statico o ambulante

Ascoltare la musica è un bisogno connaturale all'uomo sino dai tempi più remoti. Il suo appagamento, nelle cul­ture primitive, dava corpo a rituali collettivi, nei quali tutta la tribù scaricava i suoi fermenti erotici e aggressivi. L'evol­versi delle civiltà trasformò queste esperienze, rendendo-

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le più raffinate, mantenendo il loro carattere di gruppo e articolandolo in rapporti sociali complessi, ma aggiungen­do a questi un piacere personalizzato della musica, non di rado permeato dalla malinconia. Di qui un ricorso all'eva­sione musicale per ricaricare le proprie energie nei mo­menti difficili o invece per accentuare il proprio isolamento da una realtà non accettata.

Nel nostro tempo e da noi, la prima rivoluzione giova­nile esplose sulla scia di ritmi musicali provocatori, gesti­ti dalla nuova entità sociale del "gruppo", che aveva sosti­tuito il potere di presa della famiglia in crisi. Ora, dopo il declino della ribellione culturale, molti giovani non pro­vano più il calore della fusione neppure nel gruppo e si abbandonano a un annullamento nella musica del tutto privato e certo non esente da depressione. Il fenomeno ha comportato dapprima lunghe ore di autoreclusione in un'altra entità caratteristica della nostra epoca, questa volta spaziale: "la camera del giovane", avulsa dal resto dell'appartamento genitoriale e costellata da manifesti, le cui figurazioni sono gradualmente passate dalla rappresen­tazione di eroi rivoluzionari (primo fra tutti Che Gueva­ra) alla reclamizzazione consumistica dei cantanti rock. Da poco il rituale dell'isolamento musicale si è ulterior­mente trasformato con il supporto di un'innovazione tec­nologica. E uscito di casa, è divenuto itinerante, scanden­do un nuovo modo di camminare automatico, robotico, avulso dall'ambiente sotto l'egida di due auricolari e di un'antenna eretta sul capo. Prima di analizzare queste for­me di comportamento, ecco due esempi per comprender­le meglio.

S., una ragazza appena quattordicenne, è passata attra­verso una serie di deviazioni alternanti. Una psicoterapia ha bloccato un suo rapporto sporadico con droghe mino­ri e poi maggiori da fiuto. Il recupero ha avuto un prezzo probabilmente non troppo gravoso, che ha lasciato però perplesso il terapeuta. S. si è costruita la sua stanza di iso-

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lamento musicale, come spazio privato anche di pensiero e di emozioni. Al terapeuta parla di tutto, gli porta i suoi ricordi e i suoi sogni, ma ogni sondaggio discreto sul suo vissuto interiore o sulle sue fantasie durante l'ascolto del­la musica suscita lunghi, scontrosi silenzi. L'origine dei suoi problemi emerge comunque a grandi linee e dimo­stra una confluenza di fattori familiari e ambientali: il con­fronto con una sorella maggiore, più brillante negli studi e nei rapporti sociali e poi l'incontro casuale con alcuni ra­gazzi sbandati del quartiere, nei cui confronti si sentiva ancora inferiore e impacciata. L'uso incostante delle dro­ghe le serviva per darsi un tono, per non sentirsi troppo di­versa da loro. Forse la sua reticenza parziale nasconde qualcosa di consapevolmente represso. O invece non vi è nulla di censurato e l 'abbandono alla musica è solo una fuga in un'altra dimensione obnubilata, lontana dalla realtà.

Il secondo personaggio che presenteremo è più total­mente misterioso, anche perché non è un paziente di ana­lisi. Frequenta l'ultimo anno del liceo classico, ce ne ha parlato con stupore una sua insegnante. Ogni giorno arriva in classe con le sue cuffie e la sua antenna, che si toglie quando inizia la lezione. Ha un rendimento scolastico di buon livello medio, è sempre accurato nell'osservare i suoi impegni. Con i compagni ha cordiali, ma superficiali rap­porti, non è veramente amico di nessuno. Non ride mai, sorride soltanto con un suo sorriso che forse è ingenuo o forse nasconde un po' d'ironia. Quando esce dalla scuo­la, indossa di nuovo le cuffie e l 'antenna, allontanando­si da solo. I genitori hanno riferito all'insegnante che il ra­gazzo, a casa, è molto educato, parla talvolta di argomen­ti banali, non si confida mai davvero e non ascolta mai musica. Quando esce da solo, per qualunque motivo, estrae sempre la sua attrezzatura e se la pone sul capo. Questo caso, non analizzato, in cui i fenomeni sono estremizza­ti nella loro astratta precisione, ci offre forse paradossal-

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mente le indicazioni più significative per la nostra inda­gine.

Dobbiamo interpretare anzitutto l'ascolto della musica esasperato e continuativo nell'ambito dei gruppi giovani­li, senza gli eccessi osservati nei due casi precedenti. Anche così questo fenomeno di costume si propone come una via di compenso fondamentalmente depressiva, se pure non veramente patologica, poiché sospende per tempi lunghi la comunicazione fra i membri della collettività. Alla sua base è intuibile una carenza relazionale soprattutto verbale, che induce una regressione a schemi di comportamento di ti­po primitivo.

I casi d'importanza maggiore, in cui l'ascolto è indivi­duale, non condiviso con nessuno, rivelano quasi sempre all'analisi dei precoci confronti negativi in seno alla fami­glia d'origine e poi nei primi rapporti extrafamiliari. Ne deriva una caduta dell'opinione di sé e un conseguente bi­sogno compensatorio di estraniarsi da una realtà sgrade­vole, caratterizzato da automatismi auto-ipnotici solitari e quindi eccezionali rispetto all'impronta sociale della nostra specie.

La più recente abitudine a portare fuori di casa, me­diante apparecchi per l'ascolto, il proprio isolamento mu­sicale non può essere valutata secondo schemi standardiz­zati, congeniali a tutti i protagonisti. Essi rivelano infatti, individualmente, sfumature assai diverse. In alcuni si può avvertire un esibizionismo pseudo-valorizzante, come se i soggetti volessero segnalare il loro aggiornamento a una moda e anche il possesso elitario delle apparecchiature: ci troviamo qui nell'ambito di un patetico neoconformismo. In altri il comportamento riveste il ruolo di una sfida aso­ciale, ossia di una dichiarazione provocatoria sul tipo del­la seguente: basto a me stesso, non ho bisogno di voi! Nei casi più devianti, infine, si può riscontrare una vera e pro­pria "sociofobia", cioè una paura morbosa dei rapporti umani.

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I suicidi delle reclute

Quelle notizie terribili cominciarono ad apparire qual­che anno fa sulle pagine di cronaca dei quotidiani, dappri­ma sporadiche e poco osservate. « Un militare di leva sui­cida nella caserma di... », « Una recluta si spara mentre è di guardia». Poi il loro ritmo di incidenza è divenuto incal­zante, tanto da sconcertare persino coloro (e non erano po­chi) che cercavano di minimizzare il fenomeno. Sulla stam­pa gli interventi degli esperti che abitualmente commenta­no le lacrime della cronaca sono stati molto rari e piutto­sto evasivi, il che prova la difficoltà d'inserire l'accaduto negli schemi prefabbricati della psicologia e della sociolo­gia. Una nostra accurata ricerca in merito ha dimostrato che la frequenza dei fatti rende inattendibile l'ipotesi del­le coincidenze. Sembra acquisito, dunque, che lo shock del­la vita militare sia risultato insopportabile, in un dato mo­mento storico, per una certa percentuale di giovani. Ci è parso inoltre che la resistenza degli esperti ad analizzare a fondo gli episodi esprimesse il rifiuto di comparare alcuni aspetti della nostra cultura alle caratteristiche nello stesso settore delle culture precedenti. Abbiamo proceduto quindi proprio in questo senso, ponendo a confronto il vissuto del servizio di leva in tre epoche assai vicine, eppure molto di­verse.

Ecco il nostro Paese prima dell'ultimo conflitto, in pie­na era fascista. I ragazzi sono cresciuti in un clima familia­re e poi scolastico che dava per scontato il principio di au­torità, nei suoi aspetti coerenti ma anche nelle sue impli­cazioni illogiche, assurde. Per sopravvivere è codificato che si debba obbedire, ma è anche possibile fingere di obbedi-

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Allora l'ascolto solitario vale come meccanismo di dife­sa, adottato durante l'esecuzione di compiti sociali non evi­tabili.

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re, commettendo infrazioni segrete e sussurrando derisioni del potere, che generano un particolare gusto della compli­cità nei rapporti con gli amici. La parsimonia e un certo di­sagio fisico fanno parte del costume e perciò non sono nep­pure avvertiti: le mance settimanali dei genitori sono molto modeste, occorre risparmiare a lungo per concedersi un piacere; solo poche famiglie possiedono l'auto, spostarsi si­gnifica camminare, attendere a lungo i tram, le gite si fan­no in bicicletta quando il tempo lo permette; in genere ogni cosa piacevole ha un suo prezzo ed è sempre aleatoria. Il modello dell'uomo duro e ipervirile è politicamente impo­sto: che lo si accetti, traendone esaltazione, o che lo si de­rida di nascosto, occorre comunque fare i conti con la sua immagine.

L'allenamento alla scomodità e al dovere che abbiamo ricordato non impedisce che l'impatto con la "naia" sia se­vero e sgradevole. I comandi dei sottufficiali sono più sec­chi e impietosi di quelli dei genitori e degli insegnanti, il rancio provoca la nostalgia per il minestrone di casa, gli scherzi dei "nonni" sono umilianti, i quaranta chilometri di marcia stroncano le gambe. Ma esistono per tutte o qua­si tutte le reclute validi meccanismi di difesa. Chi è coin­volto dal patriottismo stringe i denti perché si sente un po' eroe, chi è critico verso il sistema deve comunque difendere il suo orgoglio, non può sfigurare. E poi la pause e le libere uscite con i commilitoni ritemprano lo spirito, l'attesa delle licenze induce fantasie meravigliose.

Ecco ora il nostro Paese nel primo dopoguerra. I ragazzi crescono in un'atmosfera di ricostruzione, in cui sono tra­montate le fantasie eroiche, ma nella quale i genitori lavo­rano per l'impegno caparbio di raggiungere obiettivi che paiono ancora stimolanti, almeno sul piano della pratici­tà e dei piaceri consumistici. A scuola il principio di auto­rità è scalfito ma non ancora tramontato, la politica ha un sapore nuovo che incuriosisce, la progressiva caduta dei ta­bù sessuali induce continue scoperte. Soprattutto vige an-

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cora il concetto che tutto ciò che si desidera deve essere conquistato con fatica. In tale ottica, anche il servizio mi­litare si presenta come una pausa fastidiosa, ma non estra­nea al ricordo di molti prezzi già pagati nella vita, come una sequela di giorni da contare alla rovescia, in attesa di tornare a progetti non facili già tracciati.

Il nostro Paese, com'è oggi, lo conosciamo. I giovani so­no cresciuti senza una guida genitoriale credibile, dalla so­cietà hanno ricevuto abbondanti indicazioni sui loro diritti e assieme la convinzione che questi non saranno mai appa­gati. Sono stati addestrati a protestare, in ogni occasione, e quasi sempre senza ottenere risultati. Alcuni hanno avuto privilegi in ogni campo, pur restando insoddisfatti perché ne avrebbero voluti di maggiori; altri hanno vissuto osser­vando con rancore i vantaggi altrui, nutrendo così un'in­soddisfazione aggressiva. Le fatiche fisiche sono per qua­si tutti un'esperienza ignota, con l'eccezione di quelle spor­tive sorrette dai miti residui del nostro tempo. La libertà è stata acquisita come argomento per richieste da avanzare, in un crescendo dai confini sfumati.

Si può comprendere che, per chi ha vissuto in questo cli­ma, il servizio militare appaia come un collaudo sconvol­gente. Pensiamo che, per i giovani di oggi, il suo aspetto più incredibile sia la fine improvvisa del diritto alla prote­sta, dell'autorizzazione a differenziarsi e a stupire, provo­cando traumi negli adulti. Anche le scomodità e i disagi si propongono alla maggior parte delle reclute come espe­rienze ingiuste e mai provate. Infine la prospettiva di un lontanissimo ritorno a casa non può sorreggere chi non è abituato all'attesa e non offre temi per fantasie positive, già minate da un saldo scetticismo. Tutto ciò è certo sufficiente per generare diversi livelli individuali di depressione. La sua massima espressione, il suicidio, richiede però l'esisten­za di fattori personali latenti, abitualmente controllati, ma pronti a scatenarsi in circostanze relativamente e soggetti­vamente eccezionali. Si tenga presente che il suicidio è, per

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l'uomo, la "massima protesta", suscettibile di emergere in modo particolare quando le usuali forme di protesta sono impedite.

Mentre scriviamo queste pagine, prendiamo atto che, da qualche mese, le notizie di suicidi di reclute si sono di­radate. Un superamento della fase critica? Forse. Si può anche ipotizzare che, da principio, la diffusione degli epi­sodi abbia agito come fattore di contagio e in un secondo tempo abbia indotto una salutare paura preventiva.

Declino e sofferenza di una classe dirigenziale

Una crisi di senilità dirigenziale in un uomo appena quarantenne. Sorprendente, ma reale e attualissima. Il no­stro paziente ha fatto carriera dalla "gavetta", come si di­ceva una volta (la locuzione è stata abbandonata in osse­quio all'antimilitarismo). Un rapidissimo iter di promozio­ni, sospinto da un'intelligenza pragmatica e dalla caparbia volontà di arrivare: operaio specializzato, capo operaio, ca­po intermedio e infine dirigente con ruolo di prestigio. Poi, di colpo, l'impatto crudele con una nuova, impietosa cate­goria di competitori," entrati nella ditta con la carta di cre­dito di una formazione tecnicizzante di tipo americano. So­no poco più che ragazzi, ma parlano un gergo da iniziati, l'inglese manageriale, seguono il linguaggio misterioso de­gli organigrammi, applicano abilissimi compromessi tra un progressismo di copertura e l'interesse della proprietà. I vecchi criteri di conduzione, fondati sul buon senso e sul­la capacità di decidere caso per caso, anche improvvisan­do senza troppe regole, non reggono più nell'ambiente di lavoro, divenuto allergico alla spontaneità come la scheda perforata di un computer. Di qui un preoccupante episo­dio depressivo, un lungo periodo d'inerzia e infine il ripie­go verso un'attività "vecchia maniera", al servizio di una ditta artigianale.

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Il secondo dirigente della vecchia leva, di cui esporremo la crisi, ha percorso una carriera sin dall'inizio con tutte le carte in regola. Cresciuto in una famiglia medio-borghese, si è laureato con il massimo dei voti in economia e com­mercio presso una prestigiosa università privata, il che gli ha consentito subito l'accesso a un buon impiego. I suoi passi avanti nell'ambito dell'azienda sono stati progressi­vi, ma non rapidissimi, collocati sul filo impegnativo di un continuo aggiornamento, sia teorico che pratico. Mirava al­la dirigenza in un settore ed era certo di raggiungerlo, esi­bendo rigore e preparazione. Egli consegue la sua meta a cinquantatré anni e ne è pienamente soddisfatto. Assapora il successo mantenendo l'autocontrollo e continuando ad aggiornarsi. Ogni giorno si compiace del suo ufficio ampio e confortevole e si preoccupa anche di gratificare i suoi col­laboratori: come Napoleone non dimentica di far capire a ciascuno che nel suo zaino vi è il bastone di maresciallo. I suoi cinquantacinque anni coincidono con un avvenimento imprevisto e terribile. La ditta in cui lavora è assorbita da un'altra assai più grande che, per un misterioso gioco di politica economica, decide di ridimensionarne l'attività. Ciò comporta uno sfoltimento del personale, anche diri­gente. La pillola, certo, è addolcita. Gli offrono una super-liquidazione, gli fanno notare che la sua pensione sarà qua­si uguale al precedente stipendio e gli fanno balenare lo specchietto di possibili consulenze. Gli fanno anche capi­re che, se s'interstardisse a restare, la sua vita in azienda di­verrebbe difficile. Le dimissioni sono inevitabili.

La nuova vita di pensionato di lusso presenta all'inizio qualche sfumatura di piacere: parecchi viaggi all'estero, il tennis ancora praticato, in effetti alcune consulenze. Ma l'energia vitale del personaggio, ancora attivissima, non tollera i pomeriggi d'inverno davanti al televisore (immu­tabili sia a Milano che a Rapallo), la lettura delle pagine economiche dei quotidiani come qualcosa di estraneo, l'as­senza di quella grande scrivania, simbolo di potere. È la

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depressione. Ma è per fortuna anche l'inizio di un'anali­si, lunga e faticosa, che preparerà comunque un uomo nuovo, capace di gestire una coraggiosa attività in proprio.

I due episodi ci sono sembrati significativi per sottoli­neare la crisi odierna del dirigente italiano e i fatti depres­sivi individuali che la punteggiano. Sono ovviamente più colpiti dal fenomeno i capi d'azienda di vecchia formazio­ne, che risentono del ringiovanimento dei quadri. L'abbas­samento progressivo dell'età media dei dirigenti è una con­seguenza dei privilegi consumistici e politici che la socie­tà di oggi elargisce alle nuove generazioni. In un ambiente collettivo in cui la produzione, la vendita, i programmi dei partiti, lo spettacolo, i mezzi d'informazione audiovisiva si rivolgono con più larga incidenza addirittura agli adole­scenti, è comprensibile che la direzione delle varie attivi­tà sia affidata a chi abbia appena raggiunto la maturità, sia perché lo si presume più vicino ai gusti e alla sensibilità del nuovo pubblico, sia perché si pensa che abbia ricevuto una formazione tecnica al passo con i tempi. Ai fermenti nega­tivi che nascono nel luogo di lavoro si aggiungono poi, per il capo maturo, quelli che si assorbono in famiglia e nella vita privata, attraverso la constatazione di un calo di pre­stigio generazionale.

Il secondo caso che abbiamo portato segnala un gravis­simo fenomeno, che per la verità non riguarda solo i diri­genti: quello del prepensionamento forzato. Secondo ogni previsione, fra pochi decenni un terzo della nostra popo­lazione sarà costituito da persone mature e anziane. In­serire d'imperio nell'anzianità degli individui che stanno esprimendo al meglio le loro capacità è, secondo noi, un vero e proprio crimine sociale e per due ottimi motivi: la sofferenza depressiva degli interessati e la rinuncia da par­te della società a usufruire dei frutti dell'esperienza. Ci stu­piamo soprattutto che ciò stia avvenendo sotto l'egida di uomini politici in gran parte radicati a vita alle loro pol­trone.

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Le tappe della droga

Le tossicomanie esistono da che mondo è mondo e han­no assunto nel corso del tempo un significato e una perico­losità che variavano con il variare delle culture. Le tribù primitive usavano droghe per trovare la forza di lottare contro entità mal conosciute e per evadere da una vita gra­vida di rischi ignoti. Nel secolo scorso, in un'Europa deca­dente e gravida senza saperlo della rivoluzione tecnologi­ca, si drogavano isolatamente gli sconfitti della vita con una forma indiretta di suicidio e assumevano orgogliosamen­te droghe gli artisti e i letterati che si collocavano in una élite autodistruttiva, ma ricca di fascino. Nei primi anni della nostra professione abbiamo avvicinato il fenomeno droga come manifestazione minoritaria, non davvero preoccupante sul piano sociale e ancora ristretta nell'am­bito di vissuti individuali disastrosi e di un elitarismo emar­ginato.

Abbiamo poi assistito a una vera e propria esplosione: quella delle tossicomanie come fenomeno dilagante giova­nile, non più legato solo alle deviazioni dei singoli, ma sca­tenato da una gigantesca operazione di plagio e di spaccio, le cui finalità vanno probabilmente oltre quella del profitto economico e sono assai difficili da interpretare. Questo di­segno diabolico, per altro condotto con abilità magistrale, ha diffuso sostanze diverse e prodotto differenti dinamiche collettive, adattandosi ai mutamenti della storia e del co­stume.

L'eroina è apparsa sulla scena anche del nostro Paese come grande dispensatrice di morte. La cocaina si è so­vrapposta con una falsa euforia, contagiando chi cercava il successo.

Nuove misture a basso prezzo, già presenti altrove, si av­vicinano a noi come prospettiva ancora peggiore.

Vediamo assieme, per ora impotenti ma non privi di spi­rito di battaglia, alcune fra le tappe della droga.

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Prima fase: la droga come protesta

Una quindicina di anni fa, una seduta di gruppo sul te­ma droga in una scuola media superiore privata. Lo psico­logo ha illustrato ai ragazzi i pericoli delle tossicomanie, presentando anche diapositive e filmati di grande effetto, che documentano con crudezza la degradazione fisica e psichica delle vittime degli stupefacenti.

Al termine del suo intervento galleggia nell'aula per qualche minuto un silenzio reattivo: i visi dei giovani espri­mono imbarazzo, disagio, preoccupazione. Lo scopo pre­ventivo sembrerebbe raggiunto, mediante una vaccinazio­ne emotiva basata sulla paura.

Dagli altri si differenziano però due ragazzi e una ragaz­za, che manifestano quasi subito il loro bisogno di polemiz­zare. Il primo a prendere la parola è un adolescente che ha gestualità e spigliatezza verbale da leader.

Ascoltiamolo. «Che differenza c'è, secondo lei, fra la droga e l'al­

cool?». «Sul piano dell'abuso, nessuna», risponde lo psicologo,

sorridendo appena e mostrando così di essere preparato al­la domanda, « un alcolizzato e un drogato sono in fondo la stessa cosa. Esiste invece una sicura diversità sul piano del consumo moderato, possibile senza danno per le bevande alcooliche e invece sempre pericoloso nel campo degli stu­pefacenti. Secondo te, qual è il corrispettivo innocuo del grappino che si beve in una gita in montagna? Forse l'inie-zioncina? ».

«Glielo dico io che cosa c'è», ribatte pronto il ragazzo, «c'è lo spinello che si fuma in compagnia e che forse è an­cora meno dannoso. Già dal secolo scorso l'alcoolismo è stato tollerato apposta dai capitalisti per tenere buono il proletariato. Anche oggi la vostra generazione fa le sue campagne contro la droga e continua a permettere l'abu­so di alcoolici. Sappiamo bene il perché: lo spinello, per noi

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giovani, è una bandiera di libertà, l'insegna di una rivolu­zione, una sfida al vostro perbenismo! ».

Il gruppo comincia a drizzare le orecchie, a liberarsi dal­le paure evocate, ad ascoltare con una nuova attenzione più disposta alla polemica. Lo psicologo è bravo, ma un poco in difficoltà. Spiega di condividere appieno la lotta all'al-coolismo. Ma aggiunge che un pericolo sociale non deve es­sere combattuto con un altro pericolo. Polemizza poi sul­la presunta non pericolosità della marijuana e dell'hashish, affermando che queste droghe, al di là della loro azione su­gli organi, strutturano una vera e propria mentalità tossi-comaniaca, anche perché sono assunte proprio dai giova­ni nello spirito sterile di un distacco dalla realtà concreta. Inoltre queste sostanze, sul tempo, deludono, lasciano in­soddisfatti. Di questo fenomeno si servono gli spacciatori per introdurre le droghe più lesive. Sin qui l'atteggiamento del pubblico è ancora perplesso, forse diviso in due campi. Ma infine la voce della prevenzione, utilizzando l'umori­smo, riesce a ottenere un successo di misura. Lo psicologo, contestando lo spinello come bandiera di lotta, esclama che una rivoluzione di drogati si disperde a calci nel sedere. Si tratta purtroppo solo di una boutade, anche se utile in quel momento.

Abbiamo riportato l'episodio soprattutto come dimo­strazione di comportamento. I protagonisti dell'episodio, che ormai ha sapore di antico, erano consumatori alle pri­me armi di droghe leggere. La loro citazione in questo li­bro può sembrare non pertinente. Essi infatti, allora, non mostravano alcuna manifestazione depressiva, erano anzi eccitati, battaglieri, protesi ed efficienti nella loro ansia di contestare. Riteniamo invece che chiamarli in causa sia sta­to più che legittimo. Per noi è chiaro che i ragazzi stavano vivendo inconsapevolmente la prima fase di un più lungo e infausto processo, forse predisposto ad arte da mani se­grete. Compiremo il dovere spiacevole di seguire gli ulte­riori passi della loro involuzione.

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Seconda fase: la droga come declino e rassegnazione alla morte

Lo psicologo di cui abbiamo parlato nelle pagine prece­denti e uno dei giovani che contestavano in favore delle droghe leggere s'incontrano dopo qualche anno. Il ragazzo è giunto al colloquio su insistenza del padre e dopo tre ap­puntamenti mancati per dimenticanza. Vediamo la sua trasformazione. E magrissimo, ha il viso coperto da forun­coli, non mostra più la baldanza polemica di un tempo, esi­bisce un sorriso abulico e accoglie senza resistenze l'invi­to a parlare della sua situazione. Ascoltiamolo.

«Che cosa vuole che le dica... sì, mi buco, due iniezioni di eroina al giorno. Certo, lo so che dovrei smettere, un mio amico è morto, altri due sono in carcere... ma subito non me la sento, sto troppo male. Mio padre non capisce nien­te, si arrabbia, con lui non si può parlare. Mia madre, po­verina, piange e non sta bene. Devo sbrigarmela da solo, non c'è altro da fare. Il problema sono i soldi, se continua così finisco dentro anch'io».

Dopo una pausa comprensiva, lo psicologo lo interroga sui temi della sua vita: lo studio, le ragazze, la politica, gli amici.

«Per il momento mi sento vuoto, non c'è niente che m'interessi davvero... o forse sì, una ragazza. Con lei sta­vo bene, ma i genitori non la lasciano uscire, la controlla­no. Adesso ne ho un'altra, ma solo per interesse, è una che spaccia, mi serve per quello e basta. All'università non va­do quasi mai, l 'anno scorso però ho dato due esami, sono andati bene. Con la politica ho finito, fanno chiacchiere e nient'altro. Nella mente io la concepisco solo come terro­rismo, ma ho troppi guai personali per occuparmene. Gli amici? I migliori, come le ho detto, sono finiti male. Vedo qualcuno, anche loro si bucano, ma non sono veri amici, non ci capiamo».

Interrogato sul perché continui a drogarsi e sul tipo di

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piacere che prova facendolo, risponde ancora di buon grado.

« Piacere? No, ormai non provo più niente. Ma sto male, malissimo, se non prendo la droga».

Quando lo psicologo gli chiede se immagina quali saran­no le sue prospettive continuando su questa strada, il ra­gazzo abbassa il capo e mormora:

«Certo che lo so, ne ho visti troppi finire così. Sono mor­ti per quelle porcate che aggiungono adesso all'eroina o so­no finiti in prigione».

Nel suo atteggiamento, nel suo tono di voce, nelle sue parole, c'è tutta l'essenza, abulica e scoraggiata, di un dramma già segnato.

Non è questa la sede per trattare a fondo il vasto proble­ma della droga, di cui ci interessano qui solo gli aspetti so­ciali legati alla depressione. E certo, come abbiamo appe­na documentato, che le tossicomanie generano sempre, nella fase di consumo abituale, l'autodistruzione e uno stile depressivo. Nella genesi di fondo del fenomeno agiscono si­curamente fattori collocabili nella grande protesta in gri­gio, tipica soprattutto delle nuove generazioni. Il fatto che un settore della popolazione ricorra su vasta scala agli stu­pefacenti significa che è particolarmente ricettivo nei loro confronti, il che significa a sua volta che è bisognoso di compensazioni basate sul distacco dalla realtà e sulla ri­nuncia a un ruolo attivo nella vita singola e collettiva. Le notazioni di costume che abbiamo esemplificato con la vi­vacità immediata di alcuni episodi scandiscono a grandi li­nee gli influssi culturali che possono spingere specie i gio­vani a una scelta di morte. Il carattere di gruppo di tale de­generazione risulta ancora comprensibile analizzando la complessa crisi dei modelli familiari, della scuola, degli ideali civili, della sessualità, del costume in genere. L'affra­tellamento dei deboli prima in una protesta sterile e poi nell'attesa della morte è un simbolo così chiaro di decaden­za collettiva da non richiedere ulteriori delucidazioni. L'in-

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terpretazione del fenomeno droga solo in base a questi dati non ci risulta però convincente. Vediamone i motivi.

Non crediamo che il rilancio delle tossicomanie possa es­sere ragionevolmente spiegato come un prodotto sponta­neo del tessuto umano odierno. I nostri adolescenti (è pro­prio dall'adolescenza che parte nella maggior parte dei casi il triste cammino verso la morte chimica) hanno caratteri­stiche polivalenti di debolezza, aggressività e vulnerabili­tà. Da tale situazione avrebbe potuto nascere al massimo il consumo allargato di quelle minidroghe artigianali che avevano appunto contrassegnato il primo periodo della contestazione giovanile, astenicamente musicale, ingenua­mente ecologico, ripiegato verso un primitivismo di manie­ra. Ma droga oggi significa eroina, ossia la più terribile fra le sostanze stupefacenti, un prodotto non certo di prepara­zione spicciola e oltre tutto un oggetto obbligatoriamente d'importazione. Non si può negare, dunque, che le droghe mortali si consumano perché si vendono. Tutto ciò presu­me un intervento esterno, organizzato con cura e propa­gandato con grande abilità psicologica. Siamo perciò di fronte a uno sfruttamento intenzionale delle caratteristiche del terreno. Le misteriose, intoccabili figure che stanno die­tro l'operazione agiscono senza dubbio per fini di lucro, ma forse non solo per quelli.

I genitori dei drogati

Un padre e una madre già in età, privi di cultura, pie­ni di amore come pochi, integralmente proiettati a proteg­gere e stimolare il divenire di una figlia unica, fonte di rea­lizzazione indiretta per le loro speranze ormai sopite. La ragazza ha mostrato prestissimo un'intelligenza non comu­ne, senso estetico e una sicura predisposizione per il dise­gno. Ora ha diciassette anni e frequenta il liceo artistico, mantenuta agli studi dai sacrifici dei genitori, verso cui non

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sembra grata, anzi spesso esibisce insofferenza nei loro confronti, considerando quanto riceve come dovuto. Li tratta dall'alto della sua superiorità culturale e del suo "scetticismo" di maniera, taccia di conservatorismo loro che hanno dedicato una vita al lavoro. Esige una libertà to­tale e, quando vi sono obiezioni, se la prende con aggres­sività.

L'iniziazione e l'addestramento della giovane alla droga sono avvenuti nel solito modo: il contagio da parte del gruppo, gli spinelli, poi qualche cocktail da fiuto, infine l'e­roina. L'abitudine acquisita costa cara, ma la ragazza è troppo orgogliosa per prostituirsi. Oscilla quindi, insieme al suo ragazzo del momento anch'egli drogato, nell'ambito della piccola criminalità: furti d'auto e di radio, spaccio mi­nuto di stupefacenti. Quando riesce vende qualche suo quadro nelle vie del centro (sono molto belli, di un surrea­lismo caldo e infelice, ma non sempre ha voglia di dipin­gerli).

I genitori vengono a conoscenza della situazione tramite un medico, che ha ritenuto opportuno informarli, vista la minore età della figlia. Da principio non credono alle sue parole: «Non è possibile, la nostra figliola è così intelligen­te, così matura, tanto brava a scuola... ». Poi, di fronte al­l'evidenza dei fatti, sostenuta da un'incriminazione per un piccolo reato, sono schiacciati d'improvviso dalla realtà. Hanno passato da poco i cinquant'anni, ma piombano di colpo in una senilità precoce e depressiva. Si sentono trop­po inferiori culturalmente alla figlia per reggere a un col­loquio con lei, che tentano in modo maldestro e interrom­pono per poi abbandonarsi a un pianto rassegnato. I fatti segnano la fine di ogni vitalità nella loro esistenza.

Altri due genitori, un diverso ambiente sociale. Un pa­dre piccolo industriale ex paracadutista, giunto al succes­so con le sue forze e con la sua volontà caparbia di fronte agli ostacoli. E un dittatore anche in famiglia, sebbene ag­giornato, inserito con disinvoltura nel nostro tempo. La

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madre è una donna fine, esile, ancora ricca di fascino, com­piaciuta di essere stata accolta in un ambiente di élite. E sottomessa in tutto al marito, che le lascia poco spazio per i compiti educativi (le risulta comodo, d'altra parte, ricor­rere alla sua forza d'urto per risolvere le situazioni difficili). Tre figli maschi, di cui solo l'ultimo presenta dei problemi. Il primogenito ha interrotto gli studi, ma collabora attiva­mente con il padre nell'azienda e la prospettiva è che ne di­venti un valido continuatore. Il secondogenito studia me­dicina con ottimo profitto, rifiuta ogni interesse economico e tecnologico, ha salde e selezionate amicizie fra i compa­gni di università, è già legato stabilmente a una ragazza molto seria, accettata di buon grado dai genitori anche se di condizione sociale un poco inferiore (« Non ho pregiu­dizi», dice il padre, «quello che conta è la persona»). Ana­lizzeremo a parte, in dettaglio, la situazione dell'ultimoge­nito.

Il suo è stato il tipico vissuto del beniamino viziato, coc­colato da tutti, ma nel contempo posto sempre di fronte a paragoni da cui emergeva la sua inferiorità. Persino il pa­dre, con lui, è stato più tollerante e permissivo, rudemen­te intenerito dalla sua iniziale dolcezza e dalla sua graci­lità. Oggi ha vent'anni e segue ancora l'ultimo anno di ra­gioneria, aspettando con abulia la terza bocciatura. Sino allo scorso anno ha frequentato le amicizie dei fratelli, ac­contentandosi di un ruolo marginale e soffrendo un po­co solo per la scarsa attenzione delle ragazze. Da qualche tempo, però, si è intruppato con un gruppo di ragazzi dis­sociali del quartiere e ne ha adottato il costume protervo. Si è aggiunto infine il problema droga: la madre ha sco­perto dell'eroina in un suo cassetto e ne ha informato il marito.

Il padre prende in mano la situazione con la sicurezza che gli è abituale e la moglie, come sempre, si tranquillizza un poco, confidando nella sua decisione. Degli investigatori privati assumono l'incarico di seguire il ragazzo. Il loro la-

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voro è ottimo: in breve tempo confermano la tossicomania e forniscono alla famiglia persino il nome e la descrizione di un piccolo spacciatore della zona, da cui il giovane ac­quista la droga. A questo punto, scatta tempestiva l'azio­ne d'urto del genitore. L'uomo, rinverdito nella sua tra­scorsa bellicosità, attende sotto casa e affronta direttamente lo spacciatore. Lo prende a pugni e, quando è a terra san­guinante, lo diffida dal frequentare ancora suo figlio, mi­nacciandolo di conseguenze ancora più gravi. La sera parla al figliolo con un nuovo tono autoritario.

«Non ti permetterò di rovinarti», gli dice con una voce che non ammette repliche, « ti salverò anche contro la tua volontà. Da oggi uscirai solo con me, ti accompagnerò a scuola e ti verrò a prendere di persona. Il tempo libero lo passerai in casa, fino a che mi darai la prova di esserti libe­rato dalla droga».

Il ragazzo non risponde e si rinchiude in un mutismo to­tale. Da principio sembra dominato, ma, dopo una setti­mana, fugge di casa durante la notte. E ritrovato dopo due giorni dal padre, che lo picchia duramente e lo rinchiude a chiave nella sua stanza. Ma il ragazzo pone in atto un se­rio tentativo di suicidio con un sonnifero trovato nella far­macia di famiglia. Appena uscito dal coma, si rivolge ai ge­nitori con una calma cattiva e determinata, affermando che non riusciranno a piegarlo, che scapperà ancora o tenterà di nuovo il suicidio alla prima occasione.

Il padre è costretto a prendere coscienza della sua scon­fitta, forse la prima nella sua vita che non offra possibilità di recupero. La rassegnazione per lui è insostenibile. Perde ogni interesse anche per il lavoro, defluisce in un grave sta­to di depressione che, dopo un inutile ricovero, si trasfor­ma in decadenza.

I casi che abbiamo presentato documentano le due ri­sposte estreme dei genitori con figli drogati. Nell'uno e nel­l'altro apparivano precedenti errori di fondo nell'educazio­ne familiare (per carenza di modelli evoluti nel primo e

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per il confronto con modelli inferiorizzanti nel secondo). Abbiamo avuto però frequenti occasioni di osservare lo svi­luppo del fenomeno droga anche nell'ambito di nuclei fa­miliari in giusto equilibrio fra l'impegno formativo e la tol­leranza connaturale ai nostri tempi: il plagio intenziona­le esterno è oggi infatti così dilagante ed efficace da travol­gere ogni positivo influsso anteriore. Per i genitori la sco­perta di un figlio tossicomane agisce quasi sempre come fattore scatenante di grande intensità, capace di dramma­tizzare una perdita di ruolo generazionale già radicata o di scompensare all'improvviso l'ansiosa finzione di si­curezza che parecchi adulti cercano ancora di mantene­re di fronte ai nuovi giovani. Che ciò induca con notevo­lissime incidenze reazioni depressive, basate sul trauma af­fettivo e sulla perdita di autostima, è dunque comprensi­bile.

Il revival della cocaina

Forse in base al principio che una grande operazione commerciale deve lanciare sul mercato prodotti alternativi (o in base a quello che per distruggere una civiltà si devo­no usare contemporaneamente armi diverse), i venditori di morte chimica, senza interrompere lo spaccio di eroina, stanno diffondendo nel mondo occidentale e anche da noi un'altra droga, eccitante, che finge di stimolare l'efficien­za: la cocaina.

Anche questa tossicomania evoca in noi immagini di un passato in cui il fenomeno si presentava limitato ed elita­rio. I ricordi sono intensamente letterari e dipingono figure allucinate di poeti e artisti "maledetti", protesi a recitare un personaggio e a sorreggerne la creatività con ogni arti­ficio. Oggi il consumo di cocaina parte ancora da una éli­te - questa volta soprattutto economica - ma dilaga robu­stamente oltre i suoi confini, intaccando per desiderio d'i-

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mitazione coloro che aspirano a un ruolo di successo sen­za possedere davvero le capacità di raggiungerlo. Al con­trario dei modelli già saldamente aggrappati alla fama, i patetici imitatori si gettano nella droga senza autocontrollo, sospinti a incrementarne l'uso dagli insuccessi nella scalata al potere. Quando l'assuefazione avrà distrutto i momenti di euforia, li attenderà una discesa depressiva verso la fine. Ascoltiamo il racconto rassegnato di una giovane, partner di un cocainomane per ansia di successo:

«Renzo era un compagno meraviglioso, nei momen­ti della tenerezza, del sesso e del tempo libero. Quando parlava del suo lavoro, faceva il rappresentante, diventa­va però un'altra persona, era insoddisfatto e cattivo. Aspi­rava a qualche cosa di più, ma non aveva le idee chiare, il suo modello era un magnate dell'industria, la sua in­vidia più concreta e vicina si rivolgeva a un gruppo di co­noscenti molto più ricchi di lui. Poi è venuta quella sera, quella maledetta festa. "Pensa - mi ha detto con esalta­zione - mi hanno invitato i G., a casa loro, è incredibi­le!". Ha voluto portare anche me, ma io mi sono tenuta in disparte, quella gente non mi piaceva, ho assistito a tut­to come all'inizio di una tragedia. Quando ho visto cir­colare quel vassoio d'argento colmo di una polvere bian­ca, ho cercato di fermare Renzo, ma lui mi ha mormora­to sottovoce un insulto. Il resto è stato come un incubo, che ora vedo rapidissimo anche se è durato più di due an­ni. Renzo ha lasciato il suo posto sicuro e si è fatto coin­volgere in quel tentativo azzardato, impegnando tutti i suoi risparmi. Guadagnava meno di prima e quel poco lo spendeva per la coca. Ma "frequentava" e questo con­tinuava a esaltarlo. Otto mesi fa mi ha lasciato, oggi dico per fortuna, ma allora ero disperata e ferita dalle sue pa­role "non sei all'altezza". Ho appreso gli ultimi avveni­menti da altre persone: il processo, una condanna con la condizionale e sempre la coca. Due giorni fa l'ho visto passare in una via del centro e l'ho riconosciuto appena;

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pallido, emaciato, con il vestito che gli pendeva addosso, camminava come uno spettro».

Una storia come tante, una storia di droga e di depres­sione.

L'Aids, fatalità, errore degli uomini o punizione divina?

La fantasiosa ipotesi elaborata dai popoli primitivi, che attribuisce l'origine di alcune malattie a una punizione per peccati commessi violando i tabù tribali, sta ritornando pa­radossalmente attuale nel nostro mondo in apparenza di­sincantato. Responsabille di questo ritorno alla preistoria è l'Aids. L'attuale diffusione di questa malattia, se pure ancora relativamente limitata, ha innescato un fenomeno culturale di più vasta portata per le caratteristiche delle ca­tegorie a rischio iniziali: gli omosessuali e i tossicodipen­denti. Il rischio di contrarre l'Aids suscita in certi settori della popolazione e in certi soggetti vissuti di colpa e di de­gradazione, paura dell'ignoto, ripensamenti angosciati a esperienze trascorse, reazioni depressive con un senso in­combente del destino.

Il modo di reagire a questo virus enigmatico, che sta sfi­dando tutte le sicurezze della scienza, appare estremamen­te differenziato secondo la tipologia umana. Porteremo qualche esempio tratto dalla nostra esperienza professio­nale.

Larghi strati dell'opinione pubblica elaborano una ras­sicurazione fittizia che sembra negare la sua esistenza. Ciò appare comprensibile nelle categorie fuori rischio, ma è di più difficile interpretazione in persone non esenti da occa­sioni di contagio che si nascondono dietro la barriera di un pensiero inconsapevole: "a me non può capitare".

I tossicodipendenti abituali, ormai arrivati a forti dosi quotidiane, sono così vicini all'inesorabilità della morte da ignorarne la minaccia con un'apatia proterva, forse indotta

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in parte dalle sostanze. Per alcuni tossicomani sporadici il timore dell'Aids è divenuto paradossalmente un fattore di recupero. Quando però essi sono raggiunti dalla sieropo-sitività o dalla malattia, le reazioni psichiche sono intense e scoraggiate.

In media gli omosessuali italiani non tossicodipenden­ti sono preoccupati e attenti al problema e si sottopongo­no a frequenti controlli. I clienti della prostituzione tran­sessuale sono invece spesso così coinvolti nella loro devia­zione da non sapervi rinunciare, affrontando rischi assurdi di contagio.

Le reazioni più intense e drammatiche si osservano in chi è stato contagiato da un partner di cui ignorava la tos­sicomania. E in questa fascia che si rilevano soprattutto l'angoscia scoraggiata dell'isolamento, l'incubo del doma­ni, la vergogna che impedisce il sollievo mutuato dalle con­fidenze. In questi casi, però, la solidarietà e gli interventi psicologici possono essere di aiuto.

Abbiamo osservato con stupore che i nevrotici affetti da fobie estranee al tema malattia tendono a ignorare il peri­colo potenziale dell'Aids, rimanendo trincerati nella loro paura degli spazi angusti o aperti, del buio, della polvere o di altre inconsistenti minacce, che evidentemente hanno una forza simbolica capace di resistere alle interferenze. Gli ipocondriaci invece inseriscono più spesso anche il nuovo virus in una posizione di parità nella gamma delle loro fobie.

Recenti episodi di cronaca hanno segnalato il suicidio di soggetti non a rischio, assurdamente convinti di avere con­tratto la nuova malattia. Abitualmente questi individui presentavano un radicato complesso di colpa, sotto forma di nevrosi o più drasticamente di psicosi delirante.

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Delle diete, del colesterolo, del modello magro e di altri temi

Dopo argomenti terribili come la droga e l'Aids, conce­diamo una breve pausa agli aspetti maggiori dell'angoscia, entrando nei sentieri più minuti e apparentemente futili dell'ansia, che però, a nostro parere, meritano anch'essi at­tenzione psicologica.

Ci ritroviamo per una cena con vecchi compagni e com­pagne di università. La lista del ristorante, ben scelto, è pingue di suggestioni. Noi ordiniamo secondo il nostro abi­tuale edonismo gastronomico, che osserva il culto della qualità e della varietà, censurando solo l'abbondanza delle porzioni. Lo giudichiamo un compromesso regressivo con il costume del momento. Una collega, che regge all'età con sorprendente tenuta estetica, comanda invece del primo un'insalata spartana condita con olio di semi e poi un filet­to ai ferri senza aggiunta di grassi. « Questa sera faccio uno strappo», commenta, «di solito prendo solo un tè». Le altre signore, con l'esclusione di una, la imitano con modeste va­rianti. L'atmosfera, prima distesa e allegra, si fa un po' greve. Due o tre fra gli uomini, che stavano studiando la li­sta con sguardo voglioso, cominciano a mostrare perples­sità. Uno chiama in causa con imbarazzo il suo colesterolo e dichiara: «O il primo o l'antipasto». L'inibizione si fa co­rale al momento dei dolci, che tutti rifiutano, noi compresi. La fase del caffè trasforma furtivamente la tavola in un banco di farmacia. Quasi tutti i commensali estraggono dalle tasche e dalle borse minuscole scatole metalliche e sussiegose bustine. Sembra scontato e codificato che la be­vanda non si debba dolcificare con lo zucchero.

Il piacere dell'alimentazione (essenziale obiettivo della psicologia, che alcuni interpretano in chiave sessuale e altri in chiave aggressiva) non è fatto solo di contenuti, ma an­che di apparenza, di vitalità gestuale, di luci, colori e pro­fumi. Fra i nostri ricordi giovanili si staglia l'immagine do­menicale di una grande pasticceria del centro cittadino. La

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ricordiamo gravida di folla, occupata a nutrirsi con clamo­re e con avidità. Mangiavano di tutto: dalle tartine gelati-nate ai cannoncini alla crema, che rendevano lucide e sen­suali le labbra degli avventori. I cibi erano messi in mostra con un consumismo d'avanguardia, vivido e accattivante. La grande azienda che gestiva il locale era fra le più pro­spere sul piano economico. I nostri commenti, allora, era­no improntati alla censura elitaria di quel fenomeno collet­tivo, basata sull'orgogliosa autodifferenziazione.

Oggi ci differenziamo di nuovo, ma per motivi diversi, dai più clamorosi connubi fra cibo e folla esibiti dal centro della nostra città. Vogliamo alludere - i lettori l 'avranno capito - al fenomeno dei "fast-food". La denominazione si collega a un'effettiva esigenza del suo luogo d'origine: gli Stati Uniti. Laggiù quei locali sono proprio fatti per man­giare in fretta e sono frequentati da persone di ogni gene­re, che hanno stabilito un compromesso fra i loro impegni pressanti e il bisogno di nutrirsi. In America siamo entrati anche noi senza imbarazzo in quei contenitori di umani­tà efficiente, gomito a gomito con fattorini e vecchiette, bancari e studenti, commesse e poliziotti. Nella nostra città invece, specie di sera, nei fast-food la fretta non l'abbiamo trovata. E non abbiamo trovato neppure campionari di umanità. Sul piano antropologico abbiamo riscontrato una monocultura: tanti ragazzi che elaboravano tre o quattro simbologie standard nel vestire e stazionavano lì a lungo. Non erano ostili, ma un poco protervi, farsi largo tra l'u­no e l'altro per raggiungere il banco di ordinazione non era un'esperienza rilassante come quella che avevamo prova­to, ad esempio, a Burlington (Vermont) fra le vecchiette, i poliziotti e gli studenti. Poi ci siamo accorti che, noi e gli al­tri, stavamo guardandoci come se fossimo allo zoo e cre­dendo, sia noi che gli altri, di stare al di fuori della gabbia. Ci siamo persino guadagnati qualche sorriso, mordendo con finto interesse un panino molliccio che sapeva di pla­stica. All'uscita, navigando fra un mare di cartacce, abbia-

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mo evitato con agilità un ragazzo lungo e magro che sfrec­ciava sugli schettini e abbiamo gettato i resti del panino in un cesto per i rifiuti.

Sulla via del ritorno a casa, abbiamo fermato la macchi­na davanti a un altro locale: un bar più piccolo ma sempre affollato. Gli avventori erano sempre, in prevalenza, gio­vani, però meno pittoreschi nel vestire. C'era anche qual­che persona matura, che non stonava. Aleggiava nell'aria un profumo fragrante, un calore accattivante. Tutti man­giavano panini con evidente piacere. Li abbiamo subito imitati, il cuore ci si è aperto: erano eccezionalmente buo­ni, avevano un sapore antico, forme e contenuti diversi. Nel complesso l'atmosfera, in cui ci siamo naturalmente inseriti, era quella rituale e silenziosa di una religione proi­bita.

Abbiamo visitato, utilizzando un buono propagandistico inviato ai medici, un club "ginnico-dimagrante", uno dei tanti che prosperano nella nostra città. L'ambiente ci è parso subito confortevole, elegante, efficientissimo per quanto riguarda le metodologie fisiche applicate. Il nostro interesse di psicologi ci ha indotti però, durante la visita, a trascurare i dettagli tecnici e a sondare invece con una cu­riosità più genuina le motivazioni e le reazioni intime della vasta e varia clientela che animava i locali. Abbiamo visto uomini e donne, in media dai trenta ai cinquant'anni, coinvolti dagli attrezzi, dalle apparecchiature e dalle azioni, in genere ripetitive sino alla monotonia e rigorosamente preordinate, con un impegno e una determinazione che oggi è raro osservare negli altri settori della vita collettiva, ad esempio nel lavoro, nello studio o anche nel divertimen­to. Il sudore sottolineava, nei volti, una mimica totalmente protesa verso una finalità, il che non è cosa da poco in un'epoca che ha visto cadere quasi tutti gli ideali. Si legge­vano su quei visi alternanze ritmiche di soddisfazione nar­cisistica e di scoraggiamento. La tipologia umana propo­neva, in alcuni casi, scontate ragioni per quella libera scel-

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ta di fatica e lasciava, in altri, riserve di perplessità per noi ricche di stimoli.

Ci è sembrato inutile chiedere ai soggetti obesi perché affrontassero quei volontari supplizi, evidentemente tera­peutici. La nostra inchiesta si è fissata quindi sulle perso­ne dal fisico apparentemente normale o appena sfumato da tenui sospetti di sovrabbondanza adiposa. La maggior par­te delle interviste è risultata chiarificatrice dal punto di vi­sta psicologico. Quegli uomini e quelle donne, prima di compiere la grande scelta, avevano vissuto gravi frustrazio­ni e temi interiori depressivi per una ragione che li acco­munava: la loro mancata coincidenza con il "modello ma­gro", che oggi suona come requisito indispensabile per una serie vastissima di obiettivi. I frequentatori del club ritene­vano tutti che fosse indispensabile essere magri per appa­rire giovani o ancora giovanili, per conquistare o conserva­re un partner sessuale, per garantirsi una carriera nel lavoro, per avere rispetto di se stessi. La caparbia operazione che stavano compiendo apriva certo speranze e transitori com­piacimenti, ma delineava sempre sull'orizzonte nebbioso del futuro lo spettro di un possibile ritorno dei chilogrammi perduti. Uno spettro sicuramente di stile depressivo.

I lievi bozzetti di costume che abbiamo tratteggiato se­gnalano coralmente un fenomeno discreto e contradditto­rio dell'Italia contemporanea: la decadenza dell'edonismo. Può sembrare paradossale che il fatto si manifesti proprio in coincidenza di una decolpevolizzazione del piacere. Ma esiste una spiegazione psicologica che abolisce il paradosso. Se si toglie al piacere il gusto del proibito, la gratificazio­ne aggressiva che nasce dall'aver infranto un tabù, esso di­viene ben poca cosa. Si può anche prospettare l'ipotesi che l'uomo non tolleri l'assenza di regole e di costrizioni, sof­frendo inconsciamente per la loro mancanza, sino al punto di doversene creare delle altre, a volte con una compensa­zione nevrotica personale e a volte lungo un filone del co­stume che vale sempre come compenso collettivo.

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La fine dello sport come libertà istintiva

Noi, autori di questo libro, abbiamo entrambi impara­to prestissimo a nuotare. Siamo entrati da bambini nell'ac­qua dei fiumi, dei laghi e dei mari così alla buona, senza prendere lezioni da nessuno, pasticciando in qualche modo fra gli spruzzi e acquistando compiaciuti il senso natura­le di potenza che deriva dall'avvertimento incredibile di es­sere capaci di restare a galla. Uno di noi ha praticato l'e­quitazione, senza sottintesi di snobismo, anzi con una com­ponente che oggi si direbbe ecologica. L'altro ha fatto dello sci, usando appena i rari mezzi di risalita allora disponibili e arrancando al freddo verso limitate cime per concedersi una discesa. Il tutto ravvivato dal piacere di farlo con de­gli amici, di fraternizzare con loro nella fatica, d'interrom­pere quando ne provava il desiderio. Per entrambi i risul­tati stilistici sono stati assai modesti, ben compensati però dal divertimento.

Un nostro piccolo paziente, di appena otto anni, è man­dato dai genitori a lezioni di nuoto. L'accompagnano d'in­verno in una piscina riscaldata, indossa il costume in uno spogliatoio esemplare per il suo nitore, pratica ogni volta, in gruppo e secondo regole precise, dieci minuti di ginna­stica pre-natatoria. Dopo una doccia altrettanto pianifica­ta, arriva infine per lui il momento di entrare in vasca. Un istruttore qualificato guida rigorosamente i movimenti suoi e dei compagni, li corregge di continuo, li plasma sino al­la perfezione. E un individuo con molta grinta, la sola per­sona capace di imporre una disciplina che il bambino ab­bia incontrato fino a quel momento, poiché a scuola la di­sciplina è considerata antipedagogica.

Questo ragazzino ci è stato inviato perché presentava dei disturbi psicosomatici, fra cui faceva spicco un vomito chia­ramente funzionale (tutti gli accertamenti clinici erano ri­sultati negativi). In sede di colloquio psicologico la sua di­sinibizione non è stata facile. Prima di toccare i temi di

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conflitto abbiamo dovuto giocare con lui, inventare assie­me delle storie, stabilire insomma un rapporto di reciproca amicizia. Il suo quadro nevrotico era complesso e non ci sembra necessario parlarne a fondo in questa sede. Dire­mo soltanto che nei sogni, nelle associazioni di parole e in altre occasioni di stimolo per l'analisi è risultato un chia­ro abbinamento fra il concetto di nuoto e quelli di frustra­zione, timore, rabbia contenuta. In effetti il piccolo pazien­te presentava un certo impaccio motorio e la comparazione rigida dei suoi movimenti con quelli degli altri durante la lezione di nuoto costituiva per lui un motivo di confronti negativi.

Dopo aver risolto il quadro nevrotico con una lunga se­rie di spiegazioni e di interventi che esorbitano dal nostro tema, ci è rimasto da risolvere il problema del rapporto condizionato negativamente fra il bambino e la "situazione nuoto" (avevamo fatto sospendere subito le lezioni). La­sciarlo timoroso dell'acqua non ci sembrava positivo, poi­ché avrebbe radicalizzato in lui un settore d'insicurezza e d'inferiorità. Ci è stata d'aiuto un'intuizione illuminante. D'accordo con i genitori di altri due ragazzini che presen­tavano un simile blocco, abbiamo favorito, con una finta casualità, il loro incontro in una piscina estiva all'aperto, senza istruttori, né ombre paventate di rituali preparato­ri. Siamo particolarmente orgogliosi del fatto che i tre bam­bini abbiano finito per giocare assieme nell'acqua e poi per nuotare in qualche modo, uscendone non certo pronti per l'agonismo, ma sicuramente più felici e più preparati alla vita.

L'esempio che abbiamo riportato offre una situazione peculiare che non fa testo sul piano generale. Esso contri­buisce però a delineare alcune reazioni individuali a un fe­nomeno collettivo, tipico del costume contemporaneo. Sia­mo ancora di fronte a una società che ha distrutto polemi­camente le regole in determinate sedi, creandone poi altre, cariche di rinnovato rigore, in sedi diverse. Rimane il fat-

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to che la pianificazione dello sport, specie infantile e ado­lescenziale, contribuisce a ridurre la spontaneità di una gratificazione edonistica, un tempo assai florida. Si tratta in fondo di un'altra modalità di quella decadenza del pia­cere di cui abbiamo appena parlato. Aggiungiamo inoltre che le pratiche sportive così articolate neutralizzano ulte­riormente la comunicazione fra individuo e individuo, già minata da molti aspetti del costume, come ad esempio, nel­l'ambito delle famiglie, l'adorazione serale collettiva del fe­ticcio televisivo. E superfluo notare che piacere e comuni­cazione erano fra le più sicure salvaguardie contro lo stile depressivo.

L'orgasmo pianificato, ovvero la nuova sessualità

Una giovane donna di venticinque anni, sposata da quattro, si rivolge a noi lamentando problemi sessuali di coppia. Le rivolgiamo le domande di rito e per qualche tempo siamo incapaci di comprendere. La paziente nega di essere frigida e nega pure, nel marito, sia l'impotenza che l'eiaculazione precoce. Non affiorano neppure, nell'u­no e nell'altro coniuge, forme di blocco psicologico verso la situazione erotica. L'affettività e la tenerezza espressiva nella coppia (punti sui quali insistiamo particolarmente) sono dichiarate ottime. Solo con un interrogatorio più sot­tile arriviamo a capire l'origine della frustrazione. Le cir­costanze esposte, evidente frutto di un plagio da parte della nuova cultura, meritano una trattazione più dettagliata.

La giovane racconta che dall'epoca delle esperienze pre­matrimoniali sino a qualche mese prima del colloquio "credeva" di essere soddisfatta dei rapporti sessuali con il suo partner. Infine era arrivata per lei una conoscenza il­luminante, nata dalla lettura di un periodico specializza­to, dalle spiegazioni di un'amica appassionata di sessuolo­gia e dall'ascolto di una conferenza. Era sorta allora in lei

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la convinzione che il suo appagamento precedente fosse so­lo illusorio: «Pensi - sono parole della paziente - che il mio orgasmo e quello di mio marito non coincidevano! Ho cronometrato il tempo di permanenza in vagina del pene di mio marito - è un'altra sua affermazione - e sono ri­masta malissimo constatando che era molto inferiore a quello dichiarato ideale dalla rivista... ».

Non si tratta di un'invenzione polemica, garantiamo la veridicità dei fatti riportati.

X. Y. è un dirigente d'azienda trentottenne, attualissi­mo, efficiente, del tutto ligio al modello citato nel nostro precedente paragrafo sulla categoria. Anch'egli viveva sog­gettivamente un'esperienza erotica senza problemi (que­sta volta varia e al di fuori del matrimonio) sino alle eve-nienze che stiamo per esporre.

La tragicommedia ha inizio quando l'azienda, sulla scia di un iter formativo, invia il nostro protagonista a seguire delle sedute di gruppo, con finalità programmatiche di fu­sione interpersonale e disinibizione. Da principio egli si sente a disagio, disorientato, poiché la comunità psicologica elabora situazioni che gli sembrano assurde, molto lonta­ne dalla sua praticità razionale, ponendo in discussione la sicurezza che gli deriva dal ruolo di manager. A un certo punto, però, i membri del gruppo si spogliano e comincia­no a massaggiarsi, ad accarezzarsi, coinvolgendolo e de­stando in lui un'intensa eccitazione sessuale, che non sfocia comunque in veri e propri atti erotici. Dopo le sedute, la sera, fra i partecipanti si formano spontaneamente delle coppie, che si appartano con ovvie intenzioni. Nessuna del­le ragazze presenti, tutte molto più giovani di lui, mostra di gradirlo come partner, il che gli provoca un angoscioso stato d'isolamento e una grave frustrazione.

Abbiamo avuto occasione di seguire questo soggetto co­me paziente proprio a causa dell'episodio. E depresso, ha perduto la sua disinvoltura nei rapporti con l'altro sesso, l'amore individualizzato e i legami precedenti non lo sod-

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disfano più. All'analisi, egli evidenzia un'acuta e frustra­ta nostalgia per l'erotismo di gruppo, probabilmente do­vuta al bisogno inconscio di riscattare la sua sconfitta. An­che se il trattamento psicoterapeutico ha consentito poi un buon recupero, in tempi comunque non troppo bre­vi, il fatto resta più che significativo sul piano del costu­me.

Ecco ora una storia più lieve, che si riassume in una sco­perta sessuale imprevista, gradita, ma non sconvolgente. G. è una giovane di ventitré anni, nel contempo immatura e disincantata. Gravita nell'università - un esame ogni tan­to, senza troppo impegno - e frequenta un gruppo di per­sone sbandate, vagamente artistoidi, senza un programma di vita. Non è diventata neppure una vera tossicomane, an­che se fuma qualche volta uno spinello in compagnia e le è capitato di provare la coca, ma senza ricavarne alcun pia­cere. Ha avuto e ha ancora esperienze sessuali, tanto per riempire una serata, con dei ragazzi come lei annoiati di vivere, incapaci di passione. Forse proprio nel sesso risie­de il suo cruccio segreto: ha dovuto constatare di essere fri­gida e ciò le crea un disappunto in apparenza non esaspe­rato. Ogni tanto ci pensa e accantona subito questo tema, anzi ogni contenuto della mente: è un esercizio psichico che la tranquillizza, forse una specie di yoga.

L'incontro con T. avviene sotto il segno di una curiosità concessiva: è un piccolo borghese, non ha nulla in comu­ne con lei, ma forse potrebbe nascerne un gioco diverten­te. T. è un esemplare umano in arretrato con il tempo, è ro­mantico, appassionato, anche il suo lavoro è patetico: fa il rappresentante di giocattoli. G. lo fa soffrire d'intenzione, non si concede o gli concede pochissimo e poi si ritira. Quando il gioco si sta ormai saturando e ha perso morden­te, T. cambia d'improvviso e fa scaturire un'aggressività offesa, che però non è priva di dolcezza. G. si lascia andare e poi... dentro di lei comincia a manifestarsi qualcosa che prima non aveva mai provato. Piacere, ribellione e tenerez-

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za assieme. Un gioco antico, anche se lei non lo sa, e anche il desiderio di farlo, ancora, all'infinito...

Gli esempi portati non pretendono di provare che le mo­dalità odierne dell'erotismo offrano deviazioni peggiorati­ve, e quindi fonti di maggior depressione, rispetto a un pas­sato recente. Essi contribuiscono però alla constatazione che, sul piano psicologico, il problema non è stato risolto, sebbene si siano propagandate, con una certa sufficienza, soluzioni ritenute miracolistiche. Si può affermare con obiettività che i traumi e le frustrazioni non sono stati neu­tralizzati, ma sostituiti da altri. Così, un tempo la sessua­lità era avvolta da tabù che la morbosizzavano in segreto e posta sotto l'egida di un privilegio maschile. Negli ultimi anni i rapporti sessuali sono stati dapprima un po' inge­nuamente tecnicizzati e privati della loro passionalità; un successivo riflusso, neoromantico con prudenza, è compar­so sulla scena, creando ambivalenze e alternanze. Ne è de­rivata una situazione ambigua e irrisolta, che non coinci­de né con il passato remoto, né con quello recente. Ne pos­sono derivare, accanto ad appagamenti teneri o entusiasti, situazioni di solitudine non immuni da depressione.

La donna: in bilico fra passato e futuro

Gli anni ruggenti del femminismo, quelli dei cortei e del­le dichiarazioni provocatorie, sono tramontati da poco, ma sembrano ormai lontani nel tempo. Come seguaci di Adler, che fu un precursore nella difesa dei diritti della donna, ri­conosciamo che il movimento femminista esprimeva in modo paradossale ed esasperato alcune rivendicazioni ineccepibili. Esso fu quasi ignorato dagli uomini e ridimen­sionato dall'insufficiente consenso femminile, ma contri­buì certo a ottenere dei risultati positivi e parziali. Sui pro­blemi della sua posizione nell'ambiente sociale e dei suoi rapporti con il sesso maschile, la donna riceve oggi una

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grande quantità di stimoli compositi e insieme contraddit­tori, che non contribuiscono a generare un orientamento basato sulla chiarezza. In alcune attività professionali ha raggiunto una piena parità con l'uomo o almeno un avan­zamento di ruolo, in altri settori lavorativi è ancora grave­mente discriminata sui piani della carriera e della retribu­zione. Nei campi dell'amore e della vita familiare, la nostra società di transizione continua a nutrire filoni diversi. La cultura tradizionale, dominata dal maschio, è in crisi pro­fonda ma continua a elargire una parte dei suoi messaggi più minuti, specie per quanto riguarda la sessualità e l'af­fettività.

Molte donne lottano per un cambiamento, mentre altre - forse la maggioranza - mostrano nostalgie di subordina­zione o preferiscono competere con le armi del passato. Non di rado le due scelte coesistono, innescando un conflit­to interiore. L'immediatezza di qualche esempio facilite­rà la comprensione dei problemi.

M., donna e ingegnere, vive intensamente entrambi i ruoli, che ripartisce in diverse ore della sua giornata, il che non attenua le sue intime contraddizioni. Nell'ambito del lavoro svolge funzioni direttive con polso fermo, anche nei confronti dei dipendenti di sesso maschile. Da qualche an­no si è separata da un marito debole e sin troppo devoto, che la irritava con le sue assiduità. Da qualche mese ha ini­ziato una relazione con un uomo più giovane di lei, dal pi­glio virile, disincantato, ma decisamente inferiore per cul­tura. E gelosissima del suo nuovo partner, che cerca di trat­tenere con una seduttività tenera e tradizionale.

Dopo quindici anni di un matrimonio iniziato sotto il se­gno della passione e defluito in una routine avara di appa­gamenti emotivi, F. ha ripreso a frequentare di sera il liceo classico. Il marito sopporta male questo suo revival intel­lettuale: in superficie non oppone divieti, ma si rinchiude spesso in un mutismo polemico e riduce le sue attenzioni sessuali. Una figlia quattordicenne tiene apertamente per

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la madre, il che innesca una silenziosa conflittualità fami­liare. Il tempo darà ragione al fronte femminile, provocan­do una resa dell'uomo, incapace di reggere all'isolamento. Alla fine l'emancipazione della donna darà un nuovo rit­mo creativo anche ai rapporti di coppia.

Due esempi opposti nell'ambito della medicina. Una donna chirurgo, con grandi qualità ma condannata dal suo sesso a mansioni minori. Nella struttura dove lavora, per fare carriera occorre essere maschi. Si è vista passare avanti tutti i coetanei e poi i colleghi più giovani. A quarantacin­que anni si ritira, frustrata, non perché la professione non le piaccia. Decide di darsi alla medicina generale, tenendo dentro di sé come fantasia inevasa il ruolo di protagonista nella sala operatoria. Un'altra donna, psichiatra e psicoa­nalista. Non vi sono preclusioni per lei. La sua strada sa­le rapidamente verso il successo. La sua rubrica di appun­tamenti è colma, anche in campo teorico ha un nome. Nei congressi, le sue relazioni sono ascoltate nel silenzio più at­tento. Cerchiamo di interpretare i due fenomeni, entrambi confermati dalle statistiche. Forse è una questione di sim­boli culturali. La figura del chirurgo è una metafora tipi­camente virile, anche se le mani femminili, così precise nel ricamo per tradizione, potrebbero esserlo anche nella de­licatezza delle minuzie operatorie. Parlare con un malato psichico, invece, è oggi più che mai offrirgli un sostegno che può avere un significato materno. E poi, nell'analisi, alcuni pazienti maschi desiderano inconsciamente rendere magi­ca e possente la figura femminile, mentre alcune pazienti hanno, consapevolmente o inconsapevolmente, bisogno di un modello femminile come punto di riferimento per l'e­mancipazione.

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Un revival terribile: gli stupri

La cultura a volte si tinge di perversioni incredibili, che sembrano smentire tutte le intelaiature che la sorreggono e anche tutte le analisi che la giustificano. Se pensiamo alla violenza carnale come fatto di costume e non come isola­ta manifestazione psicopatologica, la nostra mente corre a epoche lontane che nulla hanno a che vedere con la nostra. Immaginiamo dei soldati, coperti di cuoio e metallo, mac­chiati di sangue, che saccheggiano una città appena con­quistata. Oppure dei feudatari, baffuti e massicci, che eser­citano l'antico jus primae noctis. O anche certe feroci fasi ri­voluzionarie, in cui la donna rappresenta per chi è insor­to un simbolo del sistema che vuole distruggere.

Il sesso, oggi e da noi, sembrerebbe essere tutt'altra cosa, riassunto in ben altre immagini. Coppie di giovani pubbli­camente abbracciati, come per dire che i tabù sono scom­parsi. Edicole che esibiscono un erotismo scoperto e poli­cromatico. Genitori e insegnanti che spiegano pacatamente ai bambini "come si fa quella cosa", sottintendendo che il farlo è pulito e permesso. Di conseguenza ci sovviene un luogo comune psicoanalitico, secondo cui la violenza sca­turirebbe pressoché esclusivamente da una società che re­prime l'erotismo.

Eppure, proprio mentre noi scriviamo, i mass-media ri­portano quasi quotidianamente sorprendenti e raccapric­cianti episodi di stupro, commessi da uomini comuni, con una vita normale, che dovrebbero fruire del clima libera­torio in cui tutti crediamo di vivere.

Escluderemo dalla nostra indagine le violenze commesse dagli psicopatici, poco influenzate dalla cultura del mo­mento e allineate sui percorsi distorti di sempre. Gli altri stupri, la cui spiegazione sfugge alla psichiatria convenzio­nale, sono oggi d'abitudine un fenomeno di gruppo e si ar­ticolano in due modalità tipiche. La prima, più frequen­te, è premeditata e pianificata con cura seguendo una fur-

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beria elementare e feroce. Le vittime sono irretite con un invito che si presenta innocente o al più come prospettiva di un'avventura romantica. Poi sono condotte di forza in un luogo isolato o in un casolare, dove in genere attendo­no altri uomini pronti a violentarle. La seconda modalità, che non ha preliminari, è subito spietata: un'aggressione improvvisa a una donna che transita in una via deserta. Non di rado ne scaturisce un omicidio o per il carattere acuto dell'impulsività o per evitare un riconoscimento de­gli aggressori, che non possono trincerarsi neppure dietro una parvenza di consenso dell'aggredita.

Vediamo ora le figure dei violentatori. Dalle cronache giudiziarie emergono in media personaggi quanto mai co­muni, con alle spalle un comportamento inseribile in una routine paesana o rionale, in parte maggiore adolescenti o molto giovani, solo talvolta guidati da uno o due uomini più maturi. Le fotografie scandiscono l'assenza di difetti estetici di un certo rilievo. Spesso gli interessati hanno mo­gli o fidanzate. Non si propone quindi nessuna attenuan­te che inquadri il misfatto come l'unica via di accesso pos­sibile alla donna.

Abbiamo ripartito le figure delle vittime in due grandi categorie, pur riscontrando alcune eccezioni. Alcune fra le donne aggredite presentano caratteristiche di reale o pre­sunta superiorità culturale, rispetto ai carnefici. Qualche esempio: delle turiste straniere provenienti da Paesi del Nord, inquadrabili come più evoluti e prosperi nei con­fronti del contesto ambientale dei persecutori; delle studen­tesse con i libri sotto il braccio e con un tono almeno piccolo-borghese, tali da suscitare invidia o confronti de­valorizzanti in una fascia maschile più grezza e socialmente frustrata. Un altro prototipo femminile, scelto come ogget­to di violenza, delinea invece un'estrema fragilità o condi­zioni di palese svantaggio. Anche qui esemplifichiamo: bambine o preadolescenti, orfane, giovani comunque prive di un sostegno familiare.

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Sulla base della tipologia umana che abbiamo descritta, avanzeremo alcune ipotesi interpretative. Sottolineiamo in apertura che gli uomini oggi in età giovanile hanno ricevu­to un'educazione ufficiale alla non bellicosità, scarsamente bilanciata da occasioni di incanalamento gratificanti e non lesive dell'aggressività (fa eccezione lo sport, che da noi pe­rò vede più tifosi che adeti). Abbiamo già parlato della pro­gressiva emancipazione femminile e qui la richiamiamo in causa. Notiamo infine la progressiva scomparsa dal costu­me corrente di quelle finte resistenze femminili, che un tempo riempivano di un ardore di conquista ogni approc­cio del maschio.

A questo punto sorge in noi un dubbio intuitivo. Forse il revival degli stupri scandisce una ribellione assurda e squilibrata di giovani maschi particolarmente nostalgici di un passato che assegnava privilegi e potere al loro sesso. Forse questa rivolta dei frustrati infierisce come protesta sulle protagoniste dell'emancipazione femminile o invece sceglie vittime così indifese da ricreare in quegli attimi il mito dell'uomo possente. Tutto ciò ha un taglio chiaramen­te depressivo, poiché nasce da un vissuto di perdita e inne­sca un meccanismo di compenso grigio, crudele e inconsi­stente. Come corollario, non possiamo trascurare le com­ponenti di contagio e d'imitazione che la diffusione degli episodi potrebbe esercitare su soggetti psicologicamente e culturalmente predisposti.

Il ritorno all'ascetismo

Una famiglia della media borghesia milanese, fino a una certa fase della sua evoluzione pragmaticamente impostata sul culto del successo economico. Un padre, appunto, com­mercialista, consulente affermato, con le idee chiare e forse un po' limitate ai temi della sua professione. Una madre che domina con morbidezza, apparentemente rinchiusa nei

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suoi compiti tradizionali arricchiti da un certo prestigio so­ciale, ma che in realtà condiziona il comportamento este­riore e le finalità del coniuge. Due figli maschi, distanzia­ti da appena due anni di età e cresciuti per continuare la strada paterna: prima ragioneria e poi la facoltà di scien­ze economiche e commerciali, amicizie superficiali e non troppo impegnative, appena sfiorate dall'edonismo di con­sumo, qualche ragazza dello stesso ambiente. Poi, d'im­provviso, la crisi che si dipana in modo imprevedibile. Ve­diamone in breve la storia.

Una serata diversa dalle altre, una scelta effettuata per pura curiosità, sullo stimolo di alcuni manifesti appiccicati un po' dappertutto nel centro cittadino. Un santone india­no espone la sua dottrina ai suoi seguaci e a coloro che ne sentano la suggestione. L'incontro ha un valore di rivela­zione. I ragazzi rincasano entusiasti, i genitori li ascoltano con scetticismo bonario. Ma il fenomeno si sviluppa con progressione e spezza gradualmente i cardini di una vita standardizzata. Le letture si spostano dai giornali sporti­vi a divulgazioni annacquate degli antichi testi vedici, l'a­limentazione esclude la carne, l 'importanza del denaro si attenua o piuttosto assume il ruolo di un doveroso sostegno alla setta, appare persino, sfumata, un'esigenza di castità.

Osservando da lontano l'accaduto siamo stati portati da principio a interpretarlo secondo schemi psicologici che poi sarebbero risultati errati, ammonendoci sulla relatività del­la nostra scienza. Avevamo pensato a una protesta dei fi­gli contro la rigida predeterminazione da parte dei genito­ri, sentimento comune in ogni tempo e oggi anche come prassi. Ma la successione degli eventi risulterà tale da pro­porre ben altre tematiche interpretative. Intendiamo rife­rirci al successivo coinvolgimento dei genitori, del tutto im­previsto da parte nostra. La madre è la prima nel seguire i figli e ciò potrebbe spiegarsi con le sue venature di snobi­smo, un'interpretazione confutata però dal modo rigido con cui si attiene alle regole e dalle sue molte rinunce. Ul-

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timo, ma davvero sconcertante, l 'adeguamento paterno. Oggi quella famiglia riproduce ogni giorno un frammen­to imitato e un po' distorto dell'India arcaica. Ci guardia­mo bene dall'irridere con semplicismo e non siamo certi che si possa parlare di regressione. Forse il mutamento pre­senta anzi qualche aspetto di evoluzione, almeno sul pia­no culturale, ma è certamente reso poco credibile dalle punte di fanatismo acritico.

L'esempio trova posto in queste pagine poiché non è iso­lato. Sebbene il fenomeno in Italia non sia esteso, il ritor­no all'ascetismo e specificamente a quello orientale interes­sa alcuni ambienti, tanto da costituire un fatto culturale meritevole di analisi. A dimostrazione, citiamo un altro caso.

Protagonista è un giovane medico, serio e introverso, professionalmente impegnato sulla strada iperrazionale della ricerca e con qualche difficoltà nell'approccio all'al­tro sesso. E proprio questo problema, che punteggia nega­tivamente una ragionevole soddisfazione di vita, a dare l'avvio alla trasformazione. Il giovane pensa che un perfe­zionamento sia fisico sia interiore potrebbe incrementare la sua sicurezza, rendendolo più virile e quindi più accet­tabile dalle donne. Si iscrive, perciò, a corsi di yoga. Anche qui, come sempre, si distingue per la sua intelligenza, tanto che il suo istruttore si spinge oltre il puro meccanicismo ginnico e lo inizia anche ai fondamenti teorici, antichi e po­steriori, del movimento spirituale yogico. La trasformazio­ne che avviene in lui è assai diversa rispetto a quella della famiglia che abbiamo prima esaminata. Egli non acquisi­sce particolari regole di alimentazione o d'igiene o di com­portamento, ma cambia totalmente il suo orientamento spirituale e quindi il suo senso della vita. Il problema dei rapporti con la donna perde in lui importanza, diventan­do irrilevante. La vita professionale e scientifica continua, con l'abituale efficienza, ma il significato delle sue scelte è coerente con i principi della nuova filosofia. Le sue poche

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amicizie si diradano, poiché nessuno riesce a sopportare il prevalere dell'astrazione nei suoi interessi e nei suoi discor­si. Non si può negare che il nostro collega abbia raggiun­to così una particolare forma di serenità, in apparenza abu­lica, ma pregnante nei contenuti. Il giovane, insomma, ac­cetta di sopravvivere, riduce i rapporti umani selezionan­doli per affinità e pratica un culto molto intellettualizzato dell'ascesi, che diviene una ragione esistenziale. Anche qui evitiamo ogni critica fondata sul luogo comune e su concet­ti statistici di normalità. Adlerianamente assegniamo il va­lore di compensazione all'accaduto, ma siamo consapevoli che tale ruolo può essere attribuito anche a indirizzi di vita molto più comuni. Sul piano culturale ci interessa invece lo sviluppo non raro di fenomeni antichi di questo tipo nel­la società di oggi.

Il principio base dell'ascetismo indiano, cui si rifanno anche le manifestazioni attuali qui descritte, se pure in par­te corrotte dal trascorrere del tempo, è quello della libera­zione dello spirito dalle catene del corpo. Un'interpretazio­ne storico-etnologica del fenomeno può essere effettuata, a nostro parere, tenendo conto dei due fattori remoti e col­lettivi che lo hanno determinato. Le popolazioni di allora si trovarono di fronte a grosse difficoltà reali di sopravvi­venza, quali la carenza di risorse naturali, le epidemie, le migrazioni, la perenne bellicosità dell'uomo. Nell'impos­sibilità di controllare o dirigere tutto questo, esse utilizza­rono spontanee attitudini d'intelletto, fondate sulla tenden­za all'astrazione e all'elaborazione mistico-filosofica, in­ventando un modo geniale per ridurre il livello d'impor­tanza della sofferenza umana. L'impostazione ascetica che ne nacque ebbe risultati sorprendenti sul piano spirituale e forse psicologico, ma fermò la realizzazione del progresso civile, sviluppato invece altrove. Se poi le popolazioni de­dite all'ascetismo siano più o meno felici, nella loro mise­ria carnale e nella loro creduta elevazione interiore, rispetto a quelle dedite a culti più fattivi, è problema tanto grande

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da superare i limiti della scienza, nel cui modesto ambito ci collochiamo.

Il ritorno dell'ascetismo, non certo generalizzato ma sensibile, in una civiltà burocratica, tecnologica, edonisti­ca, competitiva, legatissima ai palpiti della carne, è in ap­parenza un paradosso non facile da interpretarsi. Comun­que ci proveremo. Non è certo possibile, oggi e da noi, chiamare in causa le difficoltà, i rischi e le carenze di allora e laggiù. Particolarmente nella nostra fase civile, anche se perdurano problemi legati ad esempio alla povertà, il per­fezionismo del vivere e le garanzie scientifiche sono tanto più evoluti rispetto ai fatti generazionali precedenti da non proporre, certo, l'ipotesi di un rifugio nella spiritualità co­me compensazione all'impotenza pragmatica. Si affaccia in noi, però, un'altra credibile supposizione. La nuova cul­tura contemporanea ha così profondamente dissacrato i so­stegni idealistici del progresso precedente, da indurre per­plessità e sfiducia almeno in una parte di coloro che si tro­vano costretti ad operare sulla scia di finalità ormai deri­se o infamate dalla critica collettiva. Di qui, forse e specie negli individui, nelle classi e nelle generazioni più colpiti dalla cultura dissacrante, la riesumazione degli antichi obiettivi ascetici ha potuto nobilitare l'astensionismo che inevitabilmente si associa all'impossibilità di scegliere.

Il contrasto fra le scelte di minoranza di tipo ascetico e gli aspetti prevalenti della società e della cultura è certa­mente più accentuato e quindi più traumatico nell'am­biente italiano, rispetto ad esempio al mondo anglosasso­ne la cui tradizione, sia pure seguendo linee diverse, affon­da maggiormente le sue radici nel favoloso, nel magico, nel trascendente. I nuovi adepti nostrani, di conseguenza, o hanno largamente snaturato la genuinità mistico-filosofica del fenomeno, inserendovi patetiche impronte locali, o in­vece hanno risentito in modo più grave della loro "diver­sità", scadendo nella patologia psichica. Lo stile collettivo del nostro Paese, infatti, è largamente pragmatico, furbe-

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sco, esibizionista, emotivo, provinciale anche nella gestione della sessualità. Vediamone più in dettaglio le influenze specifiche.

Alcuni giovani e meno giovani italiani, divenuti in ap­parenza seguaci del distacco ascetico dalla vita terrena, ne hanno in realtà adottato solo le forme esteriori, soprattutto nel vestiario e nelle caratterizzazioni di superficie, trascu­rando però le implicazioni spirituali e razionali dell'anti­ca cultura indiana e coltivando sempre con vigore l'utili­tarismo spicciolo e quel gallismo amoroso che sono proprio la negazione del substrato etereo, evanescente, della stra­da verso il "nirvana". Per contro coloro che, con una buo­na fede anche interiore, hanno imboccato più convinti le vie dell'ascetismo hanno avvertito con sofferenza il rifiu­to o la derisione o la non comprensione da parte degli al­tri. Il predicatore di una nuova religione si colloca con una sua dignità accettata o almeno rispettata in un parco lon­dinese, ma stride, e in modo così drastico, nei viali colorati di Villa Borghese, da subirne una grossa frustrazione. Che ciò possa essere matrice di depressione, tramite l'isolamen­to psichico dai propri simili, è intuibile e ne giustifica la menzione in questa sede.

La più minuta rinascita dell'occulto

Non ci è mai capitato di partecipare a un convegno più eterogeneo e imprevedibile di quello che stiamo per descri­vere. L'episodio risale a una decina di anni fa. Abbiamo accolto l'invito di una nostra conoscente, pittrice, scultri­ce e altro ancora, che ce lo ha proposto con queste parole accattivanti e un po' misteriose: «Venite da me questa se­ra? Vi garantisco che ne vale la pena, vi farò conoscere al­cune persone... no, non vi dico niente, è meglio che sia una sorpresa». Appena entrati, notiamo un collega primario patologo e in più studioso di scienze bibliche. Riconoscia-

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mo poi un altro medico, cui siamo legati da amicizia e con­suetudine. Ci presentano per prima una donna semplice sulla cinquantina: il suo cognome desta in noi qualche ri­sonanza e riusciamo presto a collocarlo, è quello di una no­ta guaritrice che opera nella provincia di Milano. Segue l'impatto con altri visi e con altre presentazioni, senza nul­la di comune, anzi con marcati elementi di disparità. Un giovane sui vent'anni che sembra uno studente, un uomo di mezz'età con i capelli riportati e con l 'impronta tipica dell'impiegato statale e altri ancora in rapida successione. Uno dei presenti riprende la lettura di un foglio, che ave­va interrotto al nostro ingresso. Ascoltiamo con attenzio­ne sempre maggiore.

Sembra un testo religioso, piuttosto retorico e intriso di luoghi comuni. Vi si propaganda la fratellanza fra gli uo­mini, si condanna la loro bellicosità e si prevede una cata­strofe, salvo che... A questo punto s'intrecciano gli inter­venti e i temi si arricchiscono di altre implicazioni. Udia­mo parlare di astronavi atterrate sulle pendici dell'Etna, di messaggi trasmessi per telepatia. Concorde è la condanna delle autorità, di tutti i governi civili che non vogliono prendere atto di una realtà ormai innegabile. Ci sembra le­gittimo avanzare pure noi qualche domanda e la situazione infine si chiarisce. I convenuti, fatta eccezione dell'ospite, dei colleghi e della guaritrice, appartengono tutti a una confraternita che asserisce di aver preso contatto con degli extraterrestri e di trasmettere un loro messaggio religioso e di salvezza per l 'umanità.

Il nostro condizionamento professionale ci impegna in una serie di osservazioni non espresse. Gli intervenuti non hanno alcuna connotazione psicopatologica, sebbene le lo­ro idee paiano deliranti. Gli insegnamenti religiosi da lo­ro propagandati sono quanto mai terrestri e comuni, con radici semplicistiche tratte soprattutto dal cristianesimo, dall'ebraismo e dal buddismo. I membri della setta hanno livelli di cultura e posizioni professionali senza alcuna af-

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finità, sono tutti maschi e appartengono a varie generazio­ni (apprendiamo poi che la loro reciproca conoscenza è av­venuta tramite inserzioni o notizie pubblicate su periodi­ci). Nessuno di essi sembra possedere le caratteristiche di vita (molto denaro, noia, solitudine affettiva, lontananza dal mondo del lavoro) che di solito predispongono a que­ste forme di suggestione. Sono tutti bene inseriti, in gran parte sposati, hanno affetti e amicizie anche al di fuori di questo ambiente.

Sottolineiamo le differenze che esistono fra questa situa­zione e quelle appena descritte a proposito dell'ascetismo indiano. Là i contenuti facevano parte di una cultura seco­lare, qui invece siamo di fronte a ipotesi costruite oggi in base a contatti venati di assurdità. La mancanza di tratti patologici nelle persone che abbiamo conosciuto non ci stu­pisce: è abbastanza frequente che individui normali subi­scano la suggestione di qualche paranoico dotato di fasci­no. A questo punto la finalità dell'analisi entra nel sondag­gio di costume e nella sociologia. Il fenomeno non è tanto diffuso da preoccupare veramente, ma il fatto che sogget­ti ben integrati sentano il bisogno di aderire a una fuga nel non credibile mostra come le nostre strutture stiano per­dendo il loro ruolo di sostegno. Per quanto riguarda il no­stro tema, possiamo certo escludere nei fatti una compo­nente depressiva. Pensiamo però che queste scelte rappre­sentino una difesa abnorme contro la depressione. In una cultura dissacrante, che non lascia spazio ai progetti, aven­done minato tutte le basi preliminari, si può comprende­re che riacquistino peso e fascino gli antichi fondamenti dell'occulto, paradossalmente rielaborati con il supporto fantascientifico della nuova tecnologia.

Una spiegazione analoga, quindi sempre nell'ambito di una difesa contro la depressione, può essere trovata per un altro filone dell'occulto che oggi sta proliferando. Intendia­mo riferirci al crescente ricorso alle medicine alternative e ai guaritori di ogni tipo. Questi ultimi possono essere clas-

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sificati in due grandi categorie, con qualche reciproca con­taminazione. La prima comprende gli ultimi palpiti della medicina popolare, che si vale ancora largamente della ri­tualità e degli "oggetti feticcio" e agisce sui pazienti con il principio automatizzato e immutabile della certezza non spiegata. Essa ha in prevalenza una clientela poco cultura-lizzata, che ripete un'abitudine antica, trasmessa di gene­razione in generazione con tradizioni verbali. La seconda sfrutta doti particolari di operatori sganciati completamen­te o quasi completamente dai presupposti della magia e ri­tenuti capaci di emettere radiazioni o fluidi in grado di normalizzare l'organismo umano. E in questo settore che si verifica oggi il "boom" più cospicuo. Il ricorso ai guari­tori per fluido si sta diffondendo anche negli strati sociali più evoluti. Qui non vogliamo entrare in merito all'atten­dibilità delle doti paranormali, che forse in alcuni casi non può essere negata, pur alternandosi all'utilitarismo furbe­sco. C'interessa piuttosto analizzare le motivazioni che por­tano al tradimento della medicina ufficiale.

Le insufficienze e le deviazioni dell'attuale medicina ita­liana derivano a nostro parere soprattutto da due sue im­pronte ipertrofizzate: il tecnicismo e la burocratizzazione. Da un lato la superspecializzazione e l'impiego di mezzi tecnologici hanno certo perfezionato la professione sanita­ria, ma le hanno contemporaneamente tolto l'ancestrale carattere di "ar te" . È stato un prezzo inevitabile pagato al progresso, che ha neutralizzato però almeno una parziale componente del fenomeno di guarigione: quella più emo­tiva, suggestiva, quasi metapsichica. D'altro canto la me­dicina si è vastamente pianificata, aggravandosi di compiti fiscali e burocratici, che hanno anch'essi contribuito a spo­gliare l'operatore sanitario dei suoi più sottili elementi di fascino, anche perché egli è così divenuto l'oggetto quoti­diano di una "rivendicazione di diritti". Il paziente ha ac­quisito potere e il medico lo ha perso, ma il malato ha per­duto contemporaneamente quella possibilità di aver fiducia

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che rappresentava una sua esigenza trascurata dai pianifi­catori.

E perciò comprensibile, tenendo conto di questi presup­posti, come molti cittadini, e non tutti culturalmente sprov­veduti, consapevolmente delusi dagli inevitabili limiti della scienza e più sottilmente insoddisfatti, di solito a livello in­conscio, per la dissacrazione (di cui sono loro stessi artefici) degli operatori medico-burocratici, sentano una spinta emotiva verso qualcosa di più segreto, forse di più irrazio­nale, certamente di più magico e rinnovino l'ancestrale ri­corso alle figure degli "iniziati". I guaritori, insomma, de­tengono ancora frammenti di quel "potere" che può gene­rare fiducia, speranza e un rispetto talvolta un po' scetti­co, ma intriso di timore.

Un terzo settore dell'occulto che sta prosperando nella nostra società è quello che appaga il bisogno, naturalissi­mo nell'uomo, di proiettarsi in avanti, di programmare in qualche modo gli eventi futuri. Vediamo così incrementarsi il ricorso ai professionisti della profezia: cartomanti, chi­romanti, veggenti, astrologi, ecc. È soprattutto significativo che il fenomeno si sia esteso largamente anche fra le per­sone di buona cultura, uscendo dai limiti in cui finora era stato relegato: quelli cioè della gente minuta.

Ci sembra interessante proporre una nostra interpreta­zione socio-psicologica anche di questo aspetto della rina­scita dell'occulto. La società di oggi, dopo aver lanciato con un grande battage politico-propagandistico le relazioni di gruppo, sostituendole ai rapporti interpersonali più auten­tici e individualizzati, ha fatto naufragare nella delusione il mito del collettivo. Ora il fenomeno del riflusso sta ripro­ponendo con prudenza le comunicazioni personalizzate, ma sta anche esasperando una competizione sfrenata e pragmatica, ormai priva di ogni sostegno teorico. Ne sono derivate dinamiche complesse e contraddittorie, che abbi­nano i sentimenti al pudore di provarli, il bisogno di con­fidarsi a una diffidenza di fondo. Inoltre non è più riemersa

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l 'immagine del "potere benevolo" e gli individui manca­no di solidi punti di riferimento con ruoli di guida e pro­tezione. In questo clima i "consiglieri segreti" sono dive­nuti un polo di attrazione per chi desidera aprirsi senza paura e avere un indirizzo in un'esistenza troppo gravida di conflitti. Nella luce discreta dei loro locali di consulta­zione, fra le mura e gli oggetti dei loro vecchi appartamen­ti, scompare per qualche attimo l'inibizione che, d'abitu­dine, impedisce le confidenze. Il fenomeno, non clamoroso ma più significativo di quanto appaia, vale come rimedio minore per la crisi di una civiltà che ha esaurito tutti i suoi modelli.

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CAPITOLO QUINTO

Depressione e psicologia del profondo

Come il lettore si sarà già reso conto, questo libro affron­ta il tema dello stile depressivo nella società contempora­nea sia dal punto di vista psicologico sia da quello cultura­le. Esso si rivolge pertanto a un pubblico con diversi inte­ressi, suscettibili di privilegiare l 'uno o l'altro settore.

Il collegamento con la psicologia del profondo, che qui tratteremo, potrà dunque affascinare alcuni e apparire invece ad altri un po' troppo teorico, privo di quel vivace agganciamento ai fatti e agli uomini osservati che distin­gue le pagine precedenti. La decisione di soffermarsi a fondo o di sorvolare sarà perciò una libera scelta di chi legge.

Precisiamo ancora di non aver voluto, neppure in que­sta sede, scrivere una trattazione nozionistica. Ci siamo li­mitati a paragonare lo "spirito" dell'approccio al fenome­no depressione da parte degli psicoanalisti ortodossi, ligi al rigore dell'istintualismo, e da parte nostra, ossia di due li­beri seguaci della psicologia individuale adleriana. Il testo non si occuperà volutamente della cosiddetta "depressio­ne endogena", per cui una parte della psichiatria ipotizza cause biologiche, costituzionali o dismetaboliche. Terremo presente in prevalenza la "depressione reattiva", che s'in­tende come risposta abnorme dell'individuo a stimoli ne­gativi maturati nel corso delle sue esperienze personali e quasi sempre influenzate da certe caratteristiche dell'am­biente, senza trascurare la componente psicologica che

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s'inserisce d'abitudine, con vario rilievo, anche nelle for­me organiche, tanto da rendere assai sfumata la distinzione fra le due categorie.

La psicoanalisi

Freud, padre padrone della psicoanalisi, anche per quanto riguarda la depressione aveva preso le mosse, nel-l'inquadrarla, da uno dei suoi acutissimi avvertimenti, per inserire poi la sua geniale intuizione primaria in un castello elegantissimo e perverso di elaborazioni intellettuali, che peccava però purtroppo, a parere dei suoi critici e nostro, di scarsa aderenza con la realtà.

Nella sua opera Tristezza e melanconia (Trauer und Melancholie, 1917) egli aveva notato la fondamentale analogia che esiste fra il quadro depressivo patologico e la situazione obietti­va di " lut to", conseguente perciò alla perdita di una per­sona amata. Il passaggio a ipotesi analitiche era però osta­colato dal fatto che la sindrome depressiva, salve alcune si­tuazioni particolari reattive, poteva largamente non colle­garsi a vere situazioni di lutto. Freud ideò allora la teoria che il depresso viva un senso di perdita non per una perso­na reale, ma per un oggetto introiettato puramente fanta-smatico. Cerchiamo di spiegare meglio il concetto psicoa­nalitico dell'introiezione, che proprio qui prese corpo. Esso comincerebbe nella prima fase evolutiva della sessualità, quella orale, in cui il bambino proverebbe un piacere libi­dico succhiando il capezzolo materno. Il concetto di perdi­ta, che potremmo definire pseudoluttuosa, è complicato da ipotesi di ambivalenza, ossia di odio-amore per l'oggetto introiettato, così che nella depressione l'individuo sarebbe spesso in sofferta contraddizione fra l'idea di aver distrutto l'oggetto introiettato e l'incapacità di sopravvivere senza di esso. Questa, in sintesi, l'origine della depressione (cfr. Charles Rycroft, Dizionario critico di Psicoanalisi, Roma, 1970).

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Il difetto di questa teoria sta nella scarsa scientificità del­l'ipotesi totalmente soggettiva dell'introiezione e ancora nel suo dogmatico collegamento con temi esclusivamente erotico-libidici. Per noi, più concretamente clinici e attenti a quanto accade nella vita, è doveroso constatare che la de­pressione insorge come risposta patologica a un'infinita gamma di stimoli personali e ambientali, in cui la sessua­lità vive relazioni non preminenti di buon vicinato con si­tuazioni di orgoglio frustrato, di affettività non appagata, di rapporto interpersonale e sociale traumatico e così via. Resta però valida, lealmente lo riconosciamo, la constata­zione del senso di perdita, sfrondata del suo dogmatismo sessuale e resa duttile da un grandangolare psicologico.

S'inserisce nella tematica depressiva anche l'ipotesi freu­diana, elaborata più tardivamente, dell'istinto di morte, contrapposto alla vitalità dell'Eros. Per quanto ci riguar­da, non ci sembra coerente avvertire l'autodistruzione fra le spinte istintuali, che riteniamo protese verso la conser­vazione del singolo e della specie. Il suicidio, ossia la più drastica manifestazione autodistruttiva quasi sempre in­quadrabile nella depressione, è interpretato dagli psicoa­nalisti appunto come derivante dal thanatos, l'istinto di mor­te, o come un attacco rivolto contro l'oggetto introiettato (vedasi il già citato Dizionario critico di Psicoanalisi di Charles Rycroft). Parleremo più avanti, in contrapposizione, del­l'analisi adleriana del suicidio, inteso come artificio di do­minio indirizzato verso l'ambiente, con precise e variabi­li finalità.

Melanie Klein è un personaggio affascinante, che desta in noi risonanze di compartecipazione emotiva per la sua vita anche sofferta. La dottrina di questa psicologa oggi molto seguita specie dai neuropsichiatri infantili, che pro­segue con radicali innovazioni creative la linea di Freud, desta però in noi perplessità ancora più profonde. Le sue ardite e ben concatenate ipotesi intellettuali ci richiamano infatti alla mente certe lucide invenzioni dell'antica filosofia

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greca, che tentavano d'imbrigliare aspetti della natura an­cora sconosciuti in un casellario puramente teorico di ca­tegorie, poiché mancava loro il supporto della futura impo­stazione sperimentale della scienza. Vediamo in sintesi al­cuni concetti della Klein che includono anche i fenomeni depressivi.

La prima fase dello sviluppo psichico infantile, come era stata ipotizzata da Freud sulla traccia del divenire libidico, fu frammentata ulteriormente da Melanie Klein in due successive sottofasi, definite "posizioni". Secondo l'Autri­ce, ben citata e riassunta dall'Enciclopedia della Psicoanalisi di Laplanche e Pontalis (edizione italiana, Bari, 1973), nei primi tre o quattro mesi di vita il bambino si troverebbe in una "posizione schizo-paranoide", distinta dai seguenti tratti: «... le pulsioni aggressive coesistono immediatamen­te con le pulsioni libidiche e sono particolarmente forti; l'oggetto è parziale (principalmente il seno materno) e scis­so in due, l'oggetto buono e l'oggetto cattivo; i processi psi­chici prevalenti sono l'introiezione e la proiezione; l'ango­scia, intensa, è di natura persecutoria (distruzione da parte dell' oggetto cattivo) ».

Sempre secondo la Klein, alla precedente seguirebbe una "posizione depressiva", di cui riprendiamo le carat­teristiche ancora dall'Enciclopedia della Psicoanalisi: «... il bam­bino è ormai capace di percepire la madre come oggetto to­tale; la scissione tra oggetto buono e oggetto cattivo si at­tenua, mentre le pulsioni libidiche e ostili tendono a rife­rirsi allo stesso oggetto; l'angoscia, detta depressiva, è ri­volta verso il pericolo fantasmatico di distruggere e di perdere la madre a causa del sadismo del soggetto; questa angoscia è combattuta con diversi modi di difesa... ed è su­perata quando l'oggetto amato è introiettato in modo sta­bile e rassicurante».

Qui, come si vede, alcune caratteristiche delle malattie mentali maggiori sono inserite come processo normale, fi­siologico, nello sviluppo del bambino. A noi, naturalmente,

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interessa soprattutto la posizione depressiva, nella cui ana­lisi la Klein si ricollega a quanto dice Freud circa il timo­re di perdere l'oggetto introiettato. Secondo molti psicoa­nalisti odierni, traumi scatenanti della vita adulta potreb­bero far ripiombare l'individuo nella depressione infantile, esasperandola.

La concezione morbosizzante kleiniana dello sviluppo infantile è tale da sconcertare persino coloro che, per obiet­tività psicologica, hanno superato l'immagine angelica, edulcorata, del bambino inteso dalla tradizione. Il princi­pio che turba di più il nostro indirizzo basato sull'osserva­zione è l'ipotesi della dissociazione da parte del bambino del seno materno, assorbito invece della personalità della madre. Il ruolo determinante del seno è stato ormai da an­ni detronizzato dall'avvento del poppatoio, senza che ciò abbia determinato grosse variazioni nei tratti della psiche infantile. Ci sembra che il bambino anche piccolissimo, pur se capace solo di percezioni parziali, subisca influssi essen­ziali dal "comportamento" materno, reagendo non tanto agli oggetti, quanto alla tenerezza, alla durezza, all'indif­ferenza, all'alternanza delle dinamiche emotive. Non ab­biamo poi ravvisato particolari aspetti depressivi nei pic­coli dai quattro mesi in poi, che anzi mostrano segni di gra­dimento verso gli stimoli piacevoli e di opposizione o dife­sa solo verso gli stimoli dolorosi o frustranti. Comincia forse a intuirsi, in queste nostre parole, il ben diverso con­cetto di un bambino finalisticamente indirizzato verso la conquista del mondo in tutti i suoi aspetti, aiutato o inve­ce ostacolato da intermediari a lui vicinissimi, fra cui cam­peggia la figura della madre, che si prospetta sin dalle pri­me fasi come "persona". Torneremo fra poco sull'argo­mento.

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La visione adleriana

Ci sembra più efficace sul piano della documentazione, prima di illustrare secondo la psicologia individuale i pro­cessi dinamici che conducono alla strutturazione di uno sti­le di vita depressivo, offrire la citazione diretta di alcuni brani, tratti dagli scritti di Alfred Adler, che affrontano i più significativi aspetti della depressione.

Un paragrafo della fondamentale opera di Adler dedi­cata alla conoscenza dell'uomo (Psicologia individuale e cono­scenza dell'uomo, Roma, 1975) sviluppa un tema tipicamente depressivo: quello del pessimismo. Leggiamone alcuni passi.

[i pessimisti] passano tutta la vita cercando di provare di essere colpiti dalla sfortuna e non riescono a portare a termine nulla di ciò che intraprendono. A volte sembrano compiacersi del proprio fal­limento, come se questo derivasse da una forza soprannaturale [...].

Queste forme di esagerazione sono tipiche di chi si considera il centro dell'universo. E una fissazione persecutoria che potrebbe es­sere confusa con la modestia. In realtà è un aspetto più clamoroso dell'ambizione. I pessimisti, infatti, pensano che le forze ostili tra­scurino gli altri per occuparsi esclusivamente di loro [...].

[...] sono uccelli di cattivo augurio, capaci di rovinare la propria vita e quella altrui. Tutto ciò cela costantemente la vanità, si con­figura di nuovo come una forma di esibizionismo.

E' facile avvertire in queste parole, scritte con lo stile asciutto e immediato caratteristico dell'Autore, che la for­mazione dei concetti psicologici nasce qui direttamente dall'osservazione e dall'analisi del comportamento e segue perciò un criterio sperimentale, il che si differenzia dall'in­tellettualizzazione astratta della psicoanalisi.

Appare anche, nei brani citati, l'orientamento finalistico che distingue tutta la psicologia adleriana. Affiora infatti la preoccupazione di comprendere "lo scopo", a volte in­conscio, verso cui si dirigono i sintomi e i tratti comporta­mentali e di pensiero devianti: in questo caso un appello sofferto e caparbio rivolto all'ambiente, da cui il sogget-

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to esige il massimo di attenzione e cui rivolge le proprie ac­cuse.

In un altro paragrafo dello stesso libro, che si occupa della tristezza, l'analisi della depressione ribadisce i mede­simi spunti e si fa più precisa e approfondita. Eccone alcuni passi.

[...] La tristezza presenta alcune analogie con l'ira; essa però si manifesta in circostanze diverse, si serve di altre disposizioni e di al­tri metodi. Possiamo ravvisare comunque anche qui la medesima aspirazione alla superiorità e alla valorizzazione [...].

[...] Chi è triste si pone infatti essenzialmente come accusatore. Se questo sentimento giunge alla sua massima intensità comporta sempre un certo grado di ostilità e un certo impulso di distruzione verso l'ambiente.

[...] E possibile riconoscervi [nella tristezza], come tratto caratte­ristico, l'esigenza. L'ambiente è dunque sempre di più chiamato in causa. La tristezza è infatti un'argomentazione che tende a coin­volgere gli altri, una forza che si propone di piegarli.

E' interessante paragonare gli spunti analitici di Adler con quelli di Freud e della Klein. Per i due psicoanalisti la depressione si ricollega sempre a un rapporto, puramente istintuale, sensoriale, parziale, con oggetti, resi ancora più improbabili dal concetto teorico dell'interiorizzazione. Per Adler il fenomeno nasce dal rapporto fra l'individuo e al­tri individui, già intesi come "persone" sino dalle prime fa­si della vita.

La psicoanalisi è costantemente ripiegata verso il passa­to, anche quando analizza il presente, e si preoccupa in modo limitativo di risalire ad agganciamenti con processi molto ristretti, racchiusi nel singolo. Nella psicologia indi­viduale affiora invece la concezione di un individuo proteso a esercitare una pressione, a volte artificiosa e improdutti­va, sull'ambiente umano. La sua deviazione da uno stato di armonia e felicità si manifesta quando le relazioni inter­personali, influenzate da esperienze negative, divengono conflittuali, non sono in grado di strutturare quella com­partecipazione emotiva che costituisce, in equilibrio o in

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urto con il bisogno di affermarsi, una delle due esigenze fondamentali dell'uomo.

L'argomento "suicidio", che si trova all'acme della fe­nomenologia depressiva, è trattato con efficacia da Alfred Adler nel suo volume Il temperamento nervoso (Roma, 1971). Ne esporremo alcuni fra i passi più incisivi.

Ho già avuto modo di dire che il suicidio rappresenta una del­le forme più intense della protesta virile, una disposizione di dife­sa contro l'umiliazione e la svalorizzazione e una vendetta dell'uo­mo nei confronti della vita [...].

[...] Uno dei tratti di carattere più frequenti in questi candida­ti al suicidio è il desiderio di affermarsi mediante uno stato morboso permanente o transitorio e la soddisfazione che provano nel pensa­re al dispiacere dei genitori nel caso essi dovessero morire. E per questo che il nevrotico giunge a identificare il suicidio con l'unico mezzo a sua disposizione per evadere da una situazione umilian­te e per vendicarsi della famiglia che non condivide, a suo avviso, il suo amore. Egli passa dall'idea all'azione quando il sentimento di umiliazione e di svalorizzazione ha raggiunto un grado così ele­vato da impedire al soggetto di vedere la contraddizione esistente tra il gesto che egli medita di compiere e il suo scopo [...].

Che anche questi concetti di Adler nascano da acquisi­zioni sperimentali e non da ipotesi soggettive è provato, fra l'altro, da una nostra ricerca personale.

Abbiamo raccolto, in un reparto psichiatrico d'urgenza, le fantasie raccontate e preliminari al gesto autodistrutti­vo di alcune persone che avevano effettuato tentativi di sui­cidio. Ebbene: nei loro sogni ad occhi aperti campeggiava il compiacimento aggressivo di prefigurare la punizione e il rimorso dei familiari o di altri individui a loro vicini, da cui ritenevano di non aver ricevuto sufficiente affetto o pro­tezione o attenzione.

In altri casi abbiamo ascoltato fantasie di tipo "eroico-autodistruttivo" nelle quali l'immaginario suicida si valo­rizzava per così dire post mortem.

Il confronto con l'interpretazione psicoanalitica del sui­cidio, basata sulla distruzione di ipotetici oggetti introiet-

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tati o su di un presunto piacere istintuale di morire, sugge­risce valutazioni intuitive tanto evidenti, da non richiedere corollari esplicativi.

La formazione dei dinamismi depressivi: il ruolo dell'individuo, della famiglia e dell'ambiente

Il bambino, inteso come il cucciolo dell'uomo, affronta il mondo esterno e il processo di maturazione psichica nel suo ambito in condizioni di particolare inferiorità rispetto ai piccoli di altre specie. E debole, indifeso, funzionalmen­te immaturo, privo di protezioni fisiche contro gli agenti at­mosferici, insomma è quanto di meno autonomo si possa immaginare. Il suo lento cammino verso l'autonomia ri­chiede di necessità l'aiuto di intermediari, il primo dei qua­li è d'abitudine la madre, la quale provvede a nutrirlo (che lo faccia con il proprio seno o con altri mezzi non ha per noi particolare importanza), a coprirlo, a proteggerlo dai pericoli, ad allontanare da lui gli stimoli spiacevoli e a pro­curargliene altri gratificanti. Da tutto ciò deriva che il bam­bino avverte un primitivo senso d'inferiorità del tutto fisio­logico, suscettibile di essere superato con maggiore o mi­nore efficacia in rapporto a due ordini di fattori che sem­pre interagiscono: la propria dotazione organica di base e il comportamento di chi lo cura.

In particolari situazioni di sfavore, il naturale sentimen­to d'inferiorità si accentua in modo abnorme sino a dive­nire "complesso d'inferiorità". Esaminiamone alcune. Se il bambino è fisicamente menomato (per qualche malfor­mazione, perché frequentemente malato o gracile, perché esteticamente sgradevole e così via) finisce per sentirsi in­feriore nel confronto con i suoi simili, a meno che la ma­dre prima e un numero crescente di persone poi collabori­no con lui per aiutarlo a superare l'handicap di partenza. La psicologia individuale definisce quella che abbiamo de-

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scritto come "inferiorità d 'organo" e le attribuisce un va­lore relativo, in quanto soggetto a minimizzazione o esa­sperazione secondo gli influssi dell'ambiente umano. Il complesso d'inferiorità può manifestarsi però anche in sog­getti fisicamente ben dotati, a causa dell'apporto negativo scaturito dalla madre e da altre persone. Se l'affettività e la protezione, concesse in giuste dosi, sono elementi essen­ziali per la formazione di un armonico stile di vita, esse di­vengono paradossalmente fattori d'inferiorità quando pec­cano per eccesso o per difetto o quando si alternano nella loro intensità secondo dinamismi imprevedibili. Il bambi­no viziato si scontra di necessità con i comuni ostacoli am­bientali che non è stato allenato a superare. Analoghe fru­strazioni riceve chi non è stato guidato con amore e chi è stato costretto a paventare con ansia le reazioni illogiche di chi lo cura.

Grande importanza hanno per la psicologia individuale i rapporti tra i fratelli, trascurati invece dalle altre scuole. Nel loro ambito si dipanano scontri e confronti che a vol­te, appunto, ribadiscono e morbosizzano l'inferiorità. La palestra di collaudo della scuola e altre circostanze fortuite della vita agiscono in modo variabile, consolidando solu­zioni già provate o invece neutralizzandole o addirittura ro­vesciandole. La vita sessuale è uno dei capitoli d'azione e d'emozione più significativi ma non ha, secondo noi, un ruolo autonomo, in quanto resta sempre condizionata dallo stile di vita già strutturato con cui l'individuo l'affronta. Sesso e affetti, nella loro normale espressione, sono sempre un rapporto fra persona e persona e scandiscono perciò un'estesa gamma di temi: tenerezza e odio, solidarietà e competizione, subordinazione e prepotenza, piacere e do­lore.

La psiche del singolo è adlerianamente sempre proiet­tata in avanti come matrice di ipotesi, progetti, azioni, ri­piegamenti di fuga. Così, quando un complesso d'inferio­rità ha ormai preso corpo, la volontà di potenza non si ras-

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segna e cerca di creare artifici per restare a galla o almeno per fingere una sopravvivenza, secondo un inquadramento di se stesso e degli altri che è quasi sempre un "come se", ossia una visione condizionata da certi scopi. Gli artifici di compenso a volte riescono in effetti a trovare rimedi per l'inferiorità e riescono a riequilibrare la persona nei suoi rapporti con il mondo. Altre volte invece i trucchi compen­satori sono delle finzioni improduttive e peggiorano addi­rittura la situazione di partenza. Sono questi i casi in cui nascono le nevrosi e persino le psicosi.

La depressione non sfugge a questo inquadramento, al­meno quella reattiva e nevrotica. Si tratta insomma di un artificio sbagliato, con cui il singolo esige, protesta e con­danna, seguendo l'assurda illusione, in gran parte dei casi inconsapevole, che la sua autodistruzione serva a sensibi­lizzare l'ambiente, mentre invece, purtroppo, provoca qua­si sempre negli altri risposte di rifiuto. Gli accusatori, in­fatti, i giudici, i grilli parlanti, le cattive coscienze sono av­vertiti come insopportabili, il che aumenta ancora di più la distanza patologica fra il depresso e il resto dell'umanità.

Può essere interessante un'esplorazione psicologica di­retta ad appurare quali siano le situazioni capaci di solle­citare con maggior frequenza vie di compenso depressive. Un'analisi accurata non consente conclusioni semplicisti­che. Se il depresso è colui che esige e giudica, frustrato per­ché non ottiene quasi mai nulla, perché non è amato né ammirato, si può comprendere che giungano alla depres­sione soprattutto i figli che ricevono poca attenzione, i "ca­pri espiatori" che fanno da parafulmine alle tensioni fami­liari, per cui la scelta della protesta in grigio rappresenta l'ultima risorsa dopo una serie più o meno variata di fal­limenti. Però la scelta depressiva insorge talora anche in chi abbia avuto occasione di osservarla in altri componenti del­la famiglia o in persone vicine nel corso della vita, nei rap­porti amorosi, di lavoro, di amicizia. Essa costituisce allora una modalità di compenso fondata sull'imitazione, proces-

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so che condiziona non solo questo, ma molti tratti dello stile di vita. Abbiamo visto che diverse scuole della psicologia del profondo concordano nel riferire la depressione a un senso di "perdita": la psicoanalisi, ad esempio, chiama in causa il timore di perdere un oggetto sessuale introiettato, mentre la psicologia individuale è disposta a recepire con ampia libertà elementi perduti di ogni genere: sessuale, af­fettivo, intellettuale, lavorativo, sociale. R. Spitz ha coniato il termine di "depressione anaclitica" (vedasi, fra gli altri scritti dell'Autore: La première année de la vie de l'enfant, Pari­gi, 1953) per definire i sintomi depressivi che si manifesta­no nel bambino che sia privato di una madre ben vissuta durante i primi sei mesi di vita. La forma può essere am­messa dagli studiosi di ogni indirizzo: alcuni la vedranno come perdita di un oggetto sessuale, altri, fra cui ci collo­chiamo, come perdita di affetto, protezione, garanzia di si­curezza. L'ambiente, infine, fornisce modelli depressivi con particolari impronte culturali plagiami, che abbiamo esaminato in un precedente capitolo, e ancora mediante trasformazioni, specie se drastiche e rapide, influisce sul­le strutture sociali e sul costume. Pensiamo che l'argomen­to meriti una sua evidenza.

Il ruolo storico dei mutamenti e delle perdite

Che i cambiamenti delle situazioni economiche in senso peggiorativo determinino reazioni depressive in una par­te talora notevole della popolazione è un fatto largamente riconosciuto, specie nella nostra epoca in cui il marxismo è un indirizzo culturale dominante: si pensi alla grande cri­si finanziaria del 1929, matrice di un'epidemia di suicidi, e a tutte le circostanze storiche in cui si estende la disoccu­pazione. Può apparire invece un'affermazione assurda e polemica che anche i mutamenti in senso progressista in­ducano sensibili incidenze della protesta in grigio. Ma il fe-

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nomeno sussiste e ci sentiamo in dovere di rilevarlo, senza che ciò implichi genericamente una condanna del progres­so sul piano politico. Pensiamo che forse sollecitino scorag­giamento nelle minoranze attive le modalità iniziali, a volte ingenuamente e poco logicamente fanatiche, delle trasfor­mazioni.

Alcuni esempi sono stati forniti nel capitolo iniziale sullo stile depressivo. Chi ha raggiunto con fatica un ruolo socia­le di prestigio, con un'ascesa a volte scorretta, ma a volte invece sostenuta da indubbi meriti, tende oggi a reagire con la depressione al proprio declassamento, già in atto o solo esposto nei programmi a breve scadenza. Ancora l'a­scesa culturale, politica e consumistica delle nuove genera­zioni, abbinata alla contestazione e alla derisione delle pre­cedenti, può generare nelle persone mature ed anziane un calo del tono emotivo, un lasciarsi andare precocemente al­la senilità, che sono tipiche espressioni della protesta in grigio.

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CAPITOLO SESTO

Per dissolvere il grigio

Può esistere una cultura antidepressiva?

A questa domanda conclusiva, che sorge spontanea do­po aver analizzato i fermenti depressivi della cultura con­temporanea e le loro matrici segrete, dobbiamo rispondere purtroppo in modo negativo. L'ambiente e la convivenza umana che in esso si sviluppano ci sembrano destinati a ge­nerare, comunque in una certa misura, quelle spinte ver­so lo scoraggiamento e la protesta che stanno appunto al­la base della depressione. La nostra inchiesta, riletta da noi stessi in negativo, ci ha condotto però a riassumere alcuni stimoli vitalizzanti, che possono scaturire dalla società, dal­l'azione e dal pensiero degli uomini, il cui grado d'inciden­za può almeno in parte contenere le opposte influenze che danno avvio alla protesta in grigio. Vediamone alcuni.

Assegniamo intenzionalmente il primo posto alla comuni­cazione fra persona e persona. Lo stile depressivo può essere infatti ragionevolmente e genericamente interpretato come un artificio abnorme che cerca di compensare l'incomuni­cabilità. Per essere efficaci, le occasioni che una collettività offre di comunicare devono consentire rapporti umani non solo di gruppo, ma anche individualizzati; devono essere per quanto possibile immuni dal timore e dalla diffidenza, così da non creare eccessi d'inibizione autodifensiva; devo­no essere fondate sulla solidarietà reciproca, senza che que­sta soffochi una competizione mantenuta entro linee civili;

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devono realizzare un sensato equilibrio fra alcune regole di comportamento (per impedire ogni genere di abusi e so­praffazioni) e un ampio spazio lasciato alla libertà e alla spontaneità d'espressione. Non si dimentichi che il depres­so diviene tale proprio perché non riesce a trovare, vicino a sé, nessun individuo che gli conceda attenzione affettiva, che gli offra il modo di condividere in un afflato di com­prensione le sue sofferenze e le sue frustrazioni.

La seconda garanzia di vaccinazione psicologica antide­pressiva è rappresentata per noi dallo spazio sociale per la curiosità e per lo spirito di scoperta, ossia dalla possibilità cre­dibile di fare progetti. Tutti gli esseri viventi, e l'uomo più de­gli altri perché più evoluto, per sopravvivere devono pro­tendersi verso finalità capaci di ricrearsi, di non esaurirsi nella rassegnazione abulica. Per procedere ancora in nega­tivo, osserviamo che una società dinamicizzante non do­vrebbe imporre norme tanto restrittive da censurare ogni desiderio e non dovrebbe offrire in modo acritico appaga­menti estesi e pianificati, tanto da chiudere tutte le ipote­si di cambiamento attivo. Una delle caratteristiche fonda­mentali del depresso è infatti l'indisponibilità a progetta­re. Le depressioni reattive, ossia le risposte patologiche ad avvenimenti carichi di dolore, sono infatti tanto più inten­se, quanto meno esistono canali di scelte parallele, fonti di ricambio per l'energia frustrata.

La terza garanzia culturale antidepressiva che proponia­mo è la ricchezza quantitativa e qualitativa dell'area del pia­cere. Questa affermazione ci apparenta solo in modo mar­ginale agli psicoanalisti freudiani, poiché essi riducono lo spazio ipotizzato per il piacere alla pura sessualità, mentre noi lasciamo al piacere amplissime aperture, contemplan­do sì l'erotismo, specie se unito all'affettività, ma anche le gratificazioni intellettuali, estetiche, lavorative, generate dall'acquisire ammirazione o almeno apprezzamento, e vissute con modalità non egoistiche e narcisistiche, ma con­divise emotivamente con altre persone. L'opposta rinuncia

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all'edonismo dei depressi è tanto evidente da non richiede­re nuovi commenti.

Il quarto fattore di prevenzione sociale che ci piace sot­tolineare è costituito dalla mobilità fisica e psichica e perciò dalla duttilità di azione e di pensiero e dall'antiautomati-smo. In negativo, infatti, depressione significa immobilità, rigidità, ritualità anticreativa. Abbiamo visto, nell'anali­si comparata delle varie civiltà di oggi, che operano in sen­so costrittivo immobilistico sia le società iperegualitarie che censurano e puniscono ogni anticonformismo, sia le strut­ture ipercompetitive che castigano con l'astensionismo ob­bligato le minoranze sconfitte. All'immobilismo conduce per la verità anche il dominio della tecnologia, che sussiste e s'incrementa purtroppo in entrambi i sistemi socio­economici che oggi si affrontano. Ci sembra assurdo un ri­torno al primitivismo, poiché l'uomo contemporaneo non saprebbe rinunciare ai vantaggi acquisiti per merito della scienza, ma riteniamo che si possano ricreare, parallela­mente alle convenzioni del progresso, spazi per le dinami­che emotive del singolo.

Come ultimo antidoto del plagio depressivo, suggeriamo una dote culturale molto impegnativa e certo un po' uto­pistica, di cui basterebbero dosi moderate per ottenere ef­fetto: la capacità di polemizzare senza odio. Ammettiamo che il progresso richiede mutamenti e critiche razionali al pre­sente, ma facciamo osservare che le implicazioni dissacran­ti e persecutorie disturbano il cammino in avanti anziché servirlo. Ogni riforma intellettualmente evoluta presume una comprensione del ruolo storico e del substrato emotivo delle strutture che intende modificare. Persuadere è assai più efficace che punire. Al contrario, l'incremento dell'o­dio assegna ai cittadini, inquadrati nell'una e nell'altra parte in lotta, una posizione drammatica di vittime che sol­lecita la depressione. Si ricordino le interpretazioni psico­logiche adleriane che dipingono il depresso come un accu­satore frustrato.

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Problemi e difficoltà nella psicoterapia del depresso

Affronteremo qui esclusivamente la cura psicologica del­la depressione, poiché il tema dei farmaci esorbita dal ca­rattere prevalente d'interpretazione culturale della nostra opera.

Chi è affetto da una forma depressiva è quasi sicura­mente il paziente più difficile e impegnativo per colui che conduce un trattamento analitico. Ciò è comprensibile se si pensa che la psicoterapia è basata essenzialmente sulla comunicazione e che il depresso si caratterizza invece per l'incomunicabilità, o in subordine per modalità di comu­nicazione sgradevoli e accusatorie. Si prospetta dunque al­l'analista, in questi casi, il primo compito di allacciare con gradualità e senza traumi, neppure involontari, un rappor­to emotivo che consenta uno scambio verbale, mimico, ge­stuale, espressioni tutte queste di un'accettazione reciproca.

Un più profondo aspetto della comunicazione è costitui­to dal "transfert", ossia dal sottile legame emotivo che uni­sce l'analizzato al terapeuta. La strutturazione di un tran­sfert positivo è condizione indispensabile perché il tratta­mento abbia successo. Ora, se da un lato il depresso è ta­le, in quanto privo di valide relazioni affettive di cui ha per­ciò un grande bisogno, dall'altro tutto il suo castello di finzioni e di proteste si basa su giudizi negativi rivolti a un mondo di cui avverte soggettivamente il rifiuto. La sua re­sistenza al transfert positivo, spesso all'inizio veramente drastica, deriva dalla difesa strenua degli artifici, che ha elaborato e radicato in sé con tenacia. D'altra parte il sen­tirsi accusato per più e più sedute, il non avvertire richie­ste d'aiuto e conseguenti espressioni di gratitudine incido­no negativamente sul "controtransfert", ossia sulla dispo­sizione emotiva del terapeuta verso l'analizzato. Quest'ul­timo è per la verità un problema un poco meno grave, poi­ché gli analisti efficaci sono d'abitudine preparati da una precedente analisi personale e in certo qual modo vaccinati

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contro le forme di aggressività palesi o silenziose dei loro pazienti. Le sedute con i depressi sono, ad ogni modo, fra le meno accattivanti di una giornata di lavoro psicologico.

Ogni psicoterapia si costruisce, capitolo per capitolo, co­me un lungo progetto, intessuto di ripensamenti, modifi­che, innovazioni creative. Vi sono pazienti, come gli ansiosi puri o gli isterici, che sono già integralmente protesi ver­so una progettazione sbagliata; una progettazione che mo­stra comunque vitalità e che mette in evidenza una clamo­rosa carica di energia disponibile per diversi scopi. Il duello curativo è in questi casi faticoso, ma sempre dinamico, e capace di riempire attivamente il tempo dell'analisi. Il de­presso, per contro, manifesta con protervia il suo immobi­lismo, che fa derivare dalla cattiveria, dall'anaffettività, dall'insensibilità vere o presunte dell'ambiente. Il dovere di renderlo capace di progettare non può essere rinviato al­la fase conclusiva del trattamento, anche se solo in questa egli dovrà fattivamente cambiare il proprio stile di vita. Anche le fasi iniziali di esplorazione in profondità, infatti, non possono procedere senza un minimo di fiducia nella meta finale. Mancherebbero altrimenti gli stimoli che spin­gono il paziente a raccontare, a ricordare i propri sogni, ad associare liberamente le proprie idee, operazioni tutte che richiedono una propulsione emotiva di fondo, necessaria­mente finalistica.

Abbiamo visto che il suicidio è il corollario massimo e più terribile della depressione. La minaccia di suicidio è di conseguenza un 'arma di grande efficacia, sempre a dispo­sizione del depresso. Nella sua finzione patologica egli se ne serve con lo scopo intenzionale di dominare il mondo e quindi anche il terapeuta che, durante l'analisi, è il rappre­sentante del mondo che si trova più vicino al paziente. Si tratta di una forma di ricatto che può influenzare l'anali­sta, caricandolo di responsabilità e di un'ansia struggente. Il tecnicismo professionale può costituire una difesa con­tro questo pericolo, ma può a sua volta inattivare il tran-

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sfert, riducendo il rapporto analitico a un confronto razio­nale inefficace. Occorre quindi purtroppo che chi condu­ce la psicoterapia delle depressioni paghi un suo ragione­vole e controllato prezzo d'angoscia.

Come condurre il trattamento

Seguiamo la traccia degli ostacoli appena delineati, per proporre qualche orientamento diretto a superarli. All'i­nizio il paziente depresso offre al terapeuta silenzio o co­municazioni molto scarne e stenta ad allacciare con lui un legame emotivo poiché, nella sua finzione rafforzata, pre­sume che il mondo esterno gli sia ostile o indifferente e me­riti perciò solo dei messaggi accusatori di protesta. L'ana­lista dovrà dimostrare l'inconsistenza di queste due ipotesi prima di tutto per quanto riguarda la sua persona e la sua disponibilità solidale a comprendere e a partecipare. In una fase successiva dovrà far capire al malato l'utilità di of­frirgli non soltanto lamentele e critiche, ma anche dei da­ti che gli consentano di ricostruire i perché di un'infelici­tà provocata e rimediabile. E facile rendersi conto che l'ap­proccio tradizionale della psicoanalisi, con il soggetto diste­so sul divano e l'analista non visto che sta silenzioso ad ascoltare libere associazioni mentali, comporti un frequen­tissimo fallimento della disinibizione preliminare. Un te­rapeuta vicino e visibile, disposto a offrire un immediato incoraggiamento, come quello adleriano, ha maggiori pos­sibilità di ottenere positivi risultati, sin dalla fase iniziale del trattamento.

Grande importanza ha il ruolo emotivo giocato dallo psicoterapeuta. Non è sufficiente che egli offra disponibi­lità e solidarietà, poiché potrebbe in tal modo trasformarsi in una specie di masochistico capro espiatorio su cui si sca­ricano le tensioni del soggetto, che ne riporterebbe un certo sollievo, ma consoliderebbe ulteriormente il suo stile d'ac-

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cusa nei rapporti con l'ambiente. Questo pericolo deve es­sere spiegato con instancabile ripetitività, assieme ai van­taggi che derivano dalla rinuncia ad accusare sempre e comunque e dall'offrire agli altri segnali affettivi più gra­devoli. L'indirizzo, limpido sul piano teorico, è disturba­to nella realtà dal fatto che queste spiegazioni suscitano un'aggressività di rivalsa nel paziente, poiché demolisco­no tutto il suo castello di difese. La soluzione, quando è possibile raggiungerla, può essere trovata nel rivestire la presentazione dei contenuti analitici con garanzie seman­tiche d'amicizia e di affetto, da inserirsi nel tono della vo­ce, nella scelta delle parole, nella gestualità e nella mimi­ca di chi conduce il trattamento. Anche qui la posizione dell'analista adleriano, così orientata, risulta più efficace, ma decisamente più impegnativa e nello stesso tempo vul­nerabile. E un altro prezzo da pagare, che richiede una lunga preparazione emotiva negli operatori, garantita ad esempio dall'avere a loro volta superato un'analisi perso­nale e didattica, in cui tali situazioni siano state già vissute e corrette con un maestro.

Il viaggio analitico a ritroso nel tempo, se ben condotto, fa emergere con gradualità i remoti conflitti che stanno alla base della depressione. Quasi sempre alcune figure fami­liari (genitori o fratelli) ne escono responsabilizzate in mo­do negativo. Il chiarimento è senz'altro utile al paziente, che può giungere a capire come il suo attuale odio contro il mondo non sia che la continuazione e il trasferimento fit­tizio di un antico odio più limitato, in quanto rivolto a sin­gole persone. A questo punto la primitiva avversione può esasperarsi e ciò, a nostro parere, resta come ostacolo a una vera guarigione. Sorge di conseguenza un nuovo compito difficoltoso per il terapeuta: far comprendere al soggetto che il padre, la madre o i fratelli "cattivi" erano costretti ad essere tali a loro volta per una sofferenza meritevole di compartecipazione emotiva. Anche questa tesi suscita re­sistenze e turbe del transfert. A tale proposito si rivela assai

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utile illustrare all'analizzato che il superamento dei remoti odi familiari è una forma di valorizzazione adulta e una premessa indispensabile per poter gustare le gratificazio­ni contingenti che rendono accettabile la vita.

Un'ardua premessa al recupero è rappresentata dalla di­mostrazione di quanto sia artificiosa e controproducente la tendenza polemica ad autodistruggersi. Gli argomenti non mancano. La colpevolizzazione dei familiari o dei nemici è quasi sempre un insuccesso, poiché nessuno accetta senza reagire l'ipotesi di essere responsabile della morte di una persona a lui legata e si difende con controipotesi nelle qua­li il suicida appare come un tarato. Anche la valorizzazione post-mortem è quanto mai fittizia, tanto che nessuno può assaporare la felicità che deriva da una gloria postuma. An­che qui, però, la distruzione dei castelli di nebbia suscita reazioni aggressive verso il terapeuta, reazioni che solo la sua dolcezza e la sua solidarietà possono neutralizzare.

Restituire al paziente la capacità di fare progetti è l'ul­timo dovere del terapeuta, collocabile nella fase di recupero attivo. Conoscere le ragioni profonde della propria depres­sione (come di ogni altro disturbo psichico, d'altra parte) non significa affatto essersene liberati. Si deve inoltre tener conto che lo stato depressivo è una condizione terribile e sofferta, ma ovattata dall'abulia e dalla deresponsabilizza­zione. Tornare a essere dinamico è, al contrario, faticoso e quasi ripugnante per chi si sia a lungo adagiato nell'asten­sionismo. Entra a questo punto nella psicoterapia adleriana una componente pedagogica e d'incoraggiamento diretto, che la maggioranza delle altre scuole di psicologia del pro­fondo respinge con sdegno. Proprio da questo processo sca­turisce invece la guarigione. Per realizzarlo occorrono fi­nezze diagnostiche che esorbitano dall'analisi dell'incon­scio, ma non si contrappongono a essa, anzi la completa­no. E indispensabile scoprire le potenzialità di riserva dei soggetti. Ogni uomo, anche se d'intelligenza inferiore, ha doti sepolte che gli consentono in qualche modo di agire e

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di gratificare sé e gli altri. La decisione sulle scelte opera­tive, per garantire una tenuta, deve essere però, per quanto possibile, comune e non imposta. E proprio nella fase con­clusiva che analista e analizzato hanno la possibilità di tra­sformarsi in una specie di binomio attivo simbiotico, quasi una persona sola finalmente capace di vivere. Se il tutto riesce, e ciò non avviene sempre purtroppo, la fatica e le sofferenze del trattamento defluiscono nel premio finale.

Analisi di un caso

La protagonista del trattamento che abbiamo scelto co­me esempio è una giovane di ventiquattro anni, già citata in sintesi nel capitolo sullo stile depressivo. Si presenta alla prima seduta, denunciando con distacco scontroso un in­successo esistenziale polivalente. Per lei tutti i compiti vi­tali sono falliti: ci dice in poche e scarne parole di non es­sere stata amata nella famiglia d'origine, di aver interrotto gli studi cui da principio teneva, di avere rotto un matrimo­nio e poi altre relazioni amorose, sino a distruggere in sé ogni speranza. Eppure c'è qualcosa in lei che sembra con­traddire i suoi fallimenti. Ha un viso interessante, con oc­chi profondi e scuri, la cui intensità emotiva riesce ad af­fiorare persino attraverso la mimica inerte suggerita dalla depressione. Le sue comunicazioni distruttive, il suo di­sprezzo per il mondo scaturiscono da un linguaggio evoluto e dissacrante, anche se velato dalla rinuncia a curarsi del suo aspetto esteriore.

Nelle seguenti sedute la paziente lascia intendere che la sua scelta di un trattamento psicoterapeutico, del tutto spontanea, non è sorretta da speranze di recupero. Sembra piuttosto che abbia voluto trovare un ascoltatore obbliga­to per le sue accuse a un mondo ostile, un interlocutore pa­ziente da sconfiggere con la superiorità dei suoi argomenti. La sua tesi è che tutte le persone con cui ha avuto un rap-

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porto, dall'infanzia al momento attuale, le hanno procura­to soltanto infelicità, lasciandola priva di energie per lottare e con la sola prospettiva di un suicidio. Desidera, insomma, una specie di notaio psicologico per un testamento verbale, poiché tutti verso di lei sono insofferenti, negandole persino la possibilità di spiegare le sue motivazioni autodistruttive. Descrive in poche frasi, dipinte in grigio, la sua esistenza chiusa alla comunicazione. Da un anno è separata dal ma­rito, che non le offre alcuna possibilità di colloquio, neppu­re telefonica. I genitori, benestanti, le concedono un aiu­to economico, ma si sottraggono a ogni richiesta di solida­rietà morale, attribuendole la colpa della sua solitudine. Le sorelle hanno loro amicizie e legami affettivi in cui non am­mettono interferenze. Gli uomini che ha incontrato occa­sionalmente sembrano mostrare per lei un esclusivo inte­resse sessuale, dileguandosi di fronte a ogni ipotesi di sta­bilizzazione affettiva.

La continuazione del trattamento vede la nascita di un transfert, ma distorto. La giovane esce gradualmente dal­l'iniziale apatia, diventa più emotiva, più ricca nel comu­nicare, ma nella prima metà delle sedute le sue comunica­zioni sono intenzionalmente distruttive e colpevolizzanti per il terapeuta. Ha qualche nozione di psicologia e con­testa il lunga attesa dei risultati che l'analisi comporta, esprimendo questa sua protesta con parole aggressive:

«Io sto male adesso, lo vuol capire! Ho bisogno di un uomo, di un affetto, subito, altro che aspettare! Vorrei ve­dere lei nella mia situazione, lei non mi può capire perché non ha sofferto come ho sofferto io. E inutile, non mi resta che uccidermi».

L'analista reagisce al ricatto emotivo cercando di evitare sia il distacco professionale, che irriterebbe ancor più l'am­malata, sia il coinvolgimento frustrato che lo dequalifiche­rebbe, togliendogli ogni possibilità di essere d'aiuto. Fa ca­pire alla paziente di partecipare davvero alla sua sofferen­za. Aggiunge che, se gli fosse possibile, le offrirebbe solu-

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zioni immediate, ma che queste purtroppo non sussistono. Le spiega che potrà aiutarla solo portandola a modificare il suo modo attuale di concepire i rapporti umani. E ag­giunge che ciò presume la scoperta delle cause e degli scopi inconsapevoli che sottendono il suo stile di vita.

L'operazione riesce con lenta progressività e con alter­nanze imprevedibili. L'affettività del soggetto si manifesta da principio solo al termine delle sedute, al momento di la­sciare l'operatore, con un "grazie" pieno di pudore e di scontrosità. Poi si estende via via a tutto il colloquio. A que­sto punto il transfert sembra positivo e abbastanza conso­lidato. Ma sopravviene un inconveniente. La paziente la­menta la ristrettezza del tempo trascorso con l'analista e manifesta di nuovo rancore nei suoi confronti per la sua li­mitata disponibilità. E necessaria una spiegazione analitica anche di questo fenomeno: la giovane ha trasferito sull'o­peratore la sua rivendicazione affettiva, esprimendola con l'aggressività che fa parte del suo stile. Il terapeuta offre comprensione anche per questa esigenza, ma si vede co­stretto a sottolineare come questo tipo di relazione burra­scosa renda inoperante l'analisi e quindi allontani ancor di più il recupero.

Il lungo susseguirsi di fasi che abbiamo descritto ha mo­nopolizzato sino a qui le sedute, lasciando pochissimo spa­zio all'acquisizione di dati sul vissuto dell'analizzata. Si tratta quasi sempre di avvenimenti attuali e specificamente di minirapporti amorosi, iniziati con cauta fiducia e finiti di nuovo in richieste d'affetto tanto aggressive e punitrici da indurre l'allontanamento del partner. Tutto ciò è illu­strato con precisione e pazienza, assieme al bisogno ana­litico di sviscerare le situazioni remote che hanno avviato il soggetto verso la sua distruttività.

C'è una chiara resistenza da parte della giovane a rievo­care pieghe più intime e lontane della sua vita. Rammen­tarle e parlarne le sembra improduttivo, una perdita di tempo che rinvia le soluzioni incombenti e oltre tutto la fa

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soffrire. Ma poi si giunge a una convinzione parziale e a una collaborazione frammentaria, spezzettata, comunque utile al trattamento. E impossibile rendere con efficacia la tensione dinamica del processo terapeutico. Offriremo piuttosto una sintesi degli elementi raccolti.

La paziente è primogenita, con due sorelle minori, ri­spettivamente di due e quattro anni. Al momento della sua nascita il padre e la madre erano emotivamente immatu­ri e vivevano un loro idillio romantico e sganciato dalla realtà, nel cui ambito il ruolo di genitori era vissuto come un fattore di disturbo. Il padre era un uomo brillante, sim­patico, attraente, contraddistinto da una virilità convenzio­nale e puramente esibizionistica. La madre era una don­na debole, insicura anche se molto graziosa, tutta protesa a tenersi un marito così ricco di fascino. Di qui un atteggia­mento distaccato e poco affettivo verso la prima figlia. La secondogenita e la terzogenita erano nate invece dopo una relativa maturazione dei genitori, che si erano occupati di loro con maggior senso del dovere e con più ampia dispo­nibilità di attenzione emotiva.

La nostra paziente era cresciuta così con l'impegno ad esigere anche in modo sgradevole. Ciò le aveva lasciato un'impronta di scontrosità, palese fattore d'isolamento. Al­trettanto ineccepibile la sua competizione sfiduciata con le sorelle, più aperte e accattivanti per le gratificazioni rice­vute.

Le frustrazioni familiari si erano trasferite, per un con­dizionamento di riflessi comportamentali, nelle esperien­ze scolastiche e nelle relazioni con i coetanei. Il soggetto aveva affrontato gli insegnanti e i compagni dando per scontata la loro ostilità o almeno la loro indifferenza, e per­ciò provocandole paradossalmente mediante un'ossessiva colpevolizzazione. Altra conseguenza paradossale era stata l'interruzione degli studi medio-superiori, in conflitto sof­ferto con i bisogni della ragazza, ricca di intelligenza crea­tiva e anticonformista.

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L'inizio della vita amorosa era stato per la paziente assai precoce, rivelatore della sua ansia di conquistare e tener­si ad ogni costo un maschio gradevole e desiderato, con ca­ratteristiche simili a quelle del padre. Teniamo a precisa­re che questa analisi è assai più gravida di sfumature ri­spetto al tradizionale edipo freudiano, fermo alle sole ri­chieste istintuali. Sono risultati infatti in gioco sfaccettati conflitti basati certo sulla sessualità, ma anche sull'orgoglio ferito, sull'affettività, sulla competizione, sul ruolo femmi­nile. La disponibilità erotica del soggetto non aveva avuto premi, ma solo punizioni involontariamente indotte. Il suo stile depressivo, ormai già maturato, contemplava prelimi­narmente l'ipotesi dell'abbandono e una colpevolizzazio-ne assurda, rivolta verso obiettivi fantasmatici. E quan­to di peggio esista per consolidare situazioni amorose, poi­ché l'innamorato che chiede inutili conferme è quasi sem­pre vittima di abbandono. L'episodio matrimoniale non era stato altro che una ripetizione un poco più lunga dei brevi antefatti. E così pure i tentativi seguiti alla separa­zione.

Vi sono basi attendibili per l'interpretazione. Il quadro depressivo ha preso corpo per gradi: le richieste d'affetto inevase ai genitori, l'aggravamento delle frustrazioni per il confronto perduto con le sorelle più amate, il pessimismo generatore di dubbio e premessa alla sconfitta in ogni rap­porto umano, la trasformazione aggressiva delle richieste in accuse e infine, a seguito degli ultimi fallimenti, l'estre­ma ipotesi dell'autodistruzione come punizione simbolica dei genitori, del marito e degli amanti tiepidi e come valo­rizzazione postuma pseudoeroica.

La fase di rinnovamento dello stile di vita procede sul­la scia di questa interpretazione e ha come modello e col­laudo diretto il rapporto con il terapeuta. Si tratta soprat­tutto di un'analisi e di una modifica della comunicazione interpersonale. Questa, com'è strutturata al momento, aliena alla paziente la simpatia degli altri, in cui non sol-

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lecita la compartecipazione emotiva, ma un'aggressività di rivalsa. L'analista fa osservare al soggetto come sia più fa­cile, anche per lui, svolgere il suo ruolo di aiuto e guida quando riceve messaggi sottili di gratificazione, sottolinea le espressioni polemiche indotte dalla depressione, le ana­lizza ancora di volta in volta e apprezza in alternativa i mo­menti di relazione armonica. Quando il rapporto interno alla situazione terapeutica è positivamente mutato, la tra­sformazione, la correzione e il collaudo si estendono con gradualità agli incontri umani che la giovane struttura con l'ambiente esterno.

L'inizio di un nuovo rapporto amoroso sopravviene, per circostanze fortuite, sin troppo rapidamente. Da principio sembra che la circostanza sia favorevole: la paziente riesce a gestire assai meglio il nuovo legame e attenua drastica­mente tutto il suo stile depressivo. Ma poi una tensione ap­parentemente futile scatena per riflesso condizionato il vec­chio comportamento accusatorio, colpevolizzante, negativo dell'ammalata, provocando prima la sorpresa e poi la fu­ga anche di questo partner. Di qui una seria ricaduta nel quadro precedente di depressione, che apparentemente inattiva i risultati ottenuti.

Si deve ricominciare con possibilità di recupero migliori di quelle della fase iniziale. Si ripete, in sintesi, il trascor­so lavoro d'interpretazione e di modifica, con l'incoraggia­mento dell'operatore che fa osservare come l'ultima rela­zione sia sopravvenuta prima che il rinnovamento dello sti­le di comunicazione fosse completato. Anche in questa fase il transfert, con le sue fonti di solidarietà, gioca un ruolo di primo piano. Il trattamento è ancora in atto, sotto l'egida di una ritrovata speranza e ravvivato dalla capacità ricom­parsa di fare progetti. Tale disponibilità a progettare è da considerarsi un più ampio segno di recupero psicologico, poiché si è estesa, dal primo settore dominante dell'affet­tività e della sessualità, anche nei campi dell'amicizia, del­l'intelligenza e del lavoro.

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Accettarsi e fare progetti: una formula per il vivere attivo

Viene a farci visita un collega poco più che cinquanten­ne. E un uomo di aspetto vigoroso, lo ricordiamo dotato di un'estroversione un po' ingenua ma sempre accattivante. Sappiamo che lavora in un settore della medicina pubbli­ca, alle dipendenze di un ente parastatale. La conversazio­ne inizia con un certo calore, manifesta all'inizio il piace­re di ritrovarsi e di evocare vecchi ricordi. Si intristisce (o ci intristisce) però quasi subito, quando affronta i temi del presente. L'amico di un tempo non raccoglie agganci sui piccoli piaceri della vita quotidiana, sulla cronaca dei no­stri giorni, sulla politica, sullo spettacolo, sui filoni compo­siti della cultura. Sembra indossare una grande etichetta simbolica su cui spicca la parola "Orma i " . Pare stupirsi che questi argomenti ci interessino ancora. Appaiono ben presto i due contenuti che in lui prevalgono: l'emancipa­zione dei figlioli, che sta ponendo fine ai suoi compiti edu­cativi, e alcuni misteriosi (per noi) calcoli burocratico-eco-nomici che potrebbero accelerare con particolari artifici la fase del suo pensionamento. Le sue progettazioni, insom­ma, sono rivolte allo scopo di non far più progetti. Dopo averlo salutato, prendiamo atto del disagio sottile che ci ha comunicato. Abbiamo avvertito la costruzione inconsape­vole di fondamenta per un inesorabile edificio depressivo.

Il fortuito alternarsi delle circostanze umane ci ha pro­posto, nella stessa giornata, un altro, più benefico incontro. Con un anziano pittore (ha da poco compiuto gli ottan-t'anni), coinquilino di uno di noi. Lo abbiamo visto di par­tenza, mentre caricava sulla sua utilitaria tele, colori e ca­valietti. Ci ha parlato con entusiasmo quasi adolescenziale di certi paesaggi, di certe luci allusive, che aveva scoperto in una di quelle vallate premontane che la Lombardia an­cora nasconde dietro il suo esibizionismo consumistico. Ci ha trasmesso, questa volta con positivo contagio, il piace­re di una progettazione senza fine, alla ricerca di nuovi

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obiettivi e di nuove tecniche per riprodurli, dopo averli in­teriorizzati e soggettivamente trasformati. Un uomo, dun­que, ancora capace di accettare se stesso e di giocarsi, co­me possibile carta vincente, fra i tanti rischi della grande partita esistenziale.

Ci piace concludere il nostro libro offrendo la semplice formula contro la depressione che nasce dal confronto degli ultimi due esempi umani riportati. L 'uno e l'altro sono modelli di finzione, poiché l'uomo è costretto a elaborare sempre le immagini di se stesso e del mondo con interpre­tazioni e modifiche personali, che riflettono il suo senso della vita.

Esaminiamo le strutture fittizie del medico cinquanten­ne, fondamentalmente depressive. Il culmine della matu­rità, per altri ancora gravido di ricchezze intellettuali ed emotive, vissuto come preludio al declino. La rinuncia ad accettarsi come elemento attivo nella società contempora­nea, come persona capace ancora di proporre soluzioni, nella certezza abulica che queste sarebbero considerate inattuali. Un piano di totale abdicazione, anche educati­va, nei confronti dei propri figli, considerati come maturi per la piena successione. Un distorto scarico d'ansia in questa cessione di ruoli, in questa liberazione dalle respon­sabilità condizionanti. Come conseguenza: la messa a pun­to di progettazioni ridotte allo scopo di ottenere regressi­ve garanzie di vita, con l'impegno formale sottoscritto dalla grande madre collettiva. La fine, soprattutto, dei rischi quotidiani che nascono dal confrontare le proprie idee con quelle degli altri, le proprie qualità di lavoro con l'impre­vedibile e amplificata serie di ostacoli che ad esse si frap­pongono. Ma anche la fine del piacere sempre rinnovato d'inventare qualcosa, d'influire sugli altri, di elargire o ri­cevere solidarietà e polemica, ironia e comprensione, fer­menti di aiuto e di lotta.

Ecco invece la finzione del pittore ottantenne, forse an­cor più lontana dalla valutazione del reale, ma orgogliosa

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e magnifica, permeata assieme d'illusione e fattività. Vi­vere gli ottant'anni come se fossero quaranta. Desiderare ancora cambiamenti di luogo e di ritmo esistenziale, soste­nendoli con un mai sopito spirito di scoperta. Accettarsi appieno e di conseguenza proporsi per l'accettazione al­trui. Impostare modifiche anche interiori, trasformando l'autocritica in nuova capacità produttiva, in un rinnova­mento mutevole dei propri mezzi di espressione. Ciò anco­ra senza porre limiti al tempo e "come se" la sua ipotizza­bile vicina scadenza non fosse invece da ipotizzarsi.

La formula è tutta qui, nelle grandi lettere di questo esempio, vergate con caratteri di energia. Un esempio che ogni giorno proponiamo (perché no?) per dare fiato e spe­ranza anche ai giovanissimi, alcuni dei quali paiono oggi inconcepibilmente invecchiati. Un modo antico e nuovis­simo per prevenire e combattere la protesta in grigio: ac­cettarsi e fare progetti nella sessualità, negli affetti, nel vi­vere civile, nell'impiego duttile, insomma, di tutte le pro­prie doti.

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GLOSSARIO DI ALCUNI TERMINI E CONCETTI PSICOLOGICI

CONTENUTI NEL TESTO

Questo libro ha per tema i rapporti fra depressione e cultura e si rivolge, oltre che agli studiosi di psicologia, psi­chiatria e sociologia, a un pubblico più vasto di persone sensibili al problema. Abbiamo ritenuto quindi utile ag­giungere un breve glossario di alcuni termini e concetti psi­cologici contenuti nel testo, spiegandone con semplicità il significato e senza maggiori ambizioni di approfondimento specialistico. I concetti esposti si ispirano in prevalenza alla psicologia individuale di Alfred Adler, che ci ha orientato nell'analisi, fatta esclusione di alcuni termini con valore ge­nerale e di pochi altri collocabili nella psicoanalisi freudia­na e kleiniana, con cui sono stati effettuati confronti inter­pretativi nel corso dell'esposizione. Il glossario è ovviamen­te incompleto, poiché si limita d'intenzione a termini e concetti che appaiono nel volume.

AGGRESSIVITÀ Abbraccia tutte le manifestazioni psichiche e di comportamento che si rivolgono verso l'ambiente con intenti di affer­mazione e competizione. Comprende quindi sia le espressioni mante­nute nell'armonia dei rapporti interpersonali e sociali, sia le azioni di­rettamente lesive sull'uomo, per cui può essere impiegato il termine "violenza".

AMBIENTE È il complesso degli obiettivi e degli stimoli esterni a sé che l'uomo deve affrontare e che gli sono offerti dalla natura e dagli al­tri individui.

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AMBIVALENZA Coesistenza in un individuo di orientamenti emo­tivi in reciproco contrasto verso un medesimo obiettivo.

AMICIZIA Secondo la psicologia individuale è uno dei tre compiti vitali dell'uomo e si collega al bisogno innato, presente in ogni indivi­duo, di compartecipare emotivamente con i propri simili.

AMORE Il concetto adleriano di amore si estende oltre la pura ses­sualità e supera anche il semplice desiderio, poiché implica un coinvol­gimento sia affettivo che fisico, protratto nel tempo.

ANALISI Il termine è usato nel testo con l'accettazione limitata di un'interpretazione psicologica approfondita ai dinamismi inconsci.

ANALISTA Anche questo vocabolo è impiegato in senso specifico per indicare l'operatore che si dedichi a una psicoterapia analitica.

ANGOSCIA Aspetto particolarmente intenso dell'ansia, accompa­gnata da un corteo di sintomi funzionali a carico di vari organi.

ANSIA Stato di tensione e di sofferenza, sostenuta anche da disturbi neurovegetativi e generata d'abitudine dal timore e dall'incertezza ne­vrotica circa eventi futuri.

AUTODISTRUZIONE D'accordo con Adler, non accettiamo il con­cetto freudiano di "thanatos" o istinto di morte. Riteniamo pertanto che la tendenza all'autodistruzione sia una deviazione patologica che tradisce l'istinto ed è appunto caratteristica di alcune forme di depres­sione.

COLPA (SENSO DI) Stato di sofferenza psichica, disagio e autode­prezzamento che si collega alla vera o presunta infrazione di una re­gola morale. Il senso di colpa nevrotico è di solito inquadrabile in una "finzione", che sopravvaluta o ipotizza con carenza di obiettività azio­ni o pensieri dell'individuo.

COMPARTECIPAZIONE EMOTIVA Concetto originale della psico­logia adleriana, che si riferisce a un processo psichico mediante il quale un individuo si sente emotivamente coinvolto nelle emozioni di un al­tro individuo o di un gruppo.

COMPENSAZIONI Secondo la psicologia individuale sono moda­lità e artifici di pensiero e d'azione con cui la volontà di potenza cer-

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ca di superare o aggirare un sentimento o un complesso d'inferiorità. Le compensazioni possono essere positive e raggiungere quindi le loro finalità o invece possono prendere corpo in un comportamento devian-te e nei sintomi di una nevrosi o di una psicosi, che aggravano anziché neutralizzare la situazione di partenza.

COMPITI VITALI La psicologia individuale definisce così i tre prin­cipali canali d'integrazione dell'individuo fra i suoi simili e nella co­munità umana: amore, lavoro e amicizia.

COMPLESSI In psicoanalisi: gruppi di idee sostenuti da un'inten­sa carica emotiva e parzialmente o totalmente inconsci. In psicologia individuale: atteggiamenti emotivi collegabili ai modelli ideali del sin­golo (vedansi le voci: Edipo e inferiorità).

COMPORTAMENTO Assieme delle modalità con cui l'individuo agisce o reagisce nei confronti dell'ambiente.

CONTROTRANSFERT Orientamento emotivo di particolare inten­sità, positivo o negativo, che può avvincere al suo paziente chi conduce una psicoterapia analitica.

CULTURA Comprende tutte le modifiche che l'uomo ha indotto nell'ambiente in cui vive e i simboli che le rappresentano. La cultura a sua volta tende a esercitare condizionamenti sull'uomo.

DELIRIO Produzione di idee assurde, in contrasto con la realtà e con il giudizio razionale, da parte di un individuo (si escludono ovvia­mente le idee acritiche che possono far parte di una determinata cul­tura). Il delirio è un sintomo tipico di molte psicosi.

DEPRESSIONE Stato psichico abnorme, caratterizzato da abbassa­mento del tono affettivo-emotivo, caduta della sicurezza e dell'auto­stima, sfiducia e odio per il mondo esterno, tendenza all'isolamento e carenza o assenza d'impegno nei compiti vitali. La distinzione psichia­trica tradizionale fra depressione endogena (dovuta a cause organiche) e de­pressione reattiva (indotta da fattori ambientali) è oggi superata, poiché si è constatato che le due motivazioni tendono spesso a confluire. E più attuale la classificazione sostenuta da Silvano Arieti in depressione lieve e depressione grave, basata sull'entità del disturbo.

DISTANZA Nella concezione individualpsicologica: posizione auto­difesa dei nevrotici e ancor più drastica degli psicotici, che rende as-

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sai difficile la loro comunicazione e la loro compartecipazione emotiva con gli altri individui.

EDIPO (COMPLESSO DI) Definisce, secondo la psicoanalisi, una fa­se infantile caratterizzata da amore e desiderio sessuale per il genito­re del sesso opposto e da rivalità per il genitore del proprio sesso, fa­se che può abnormemente perdurare o comparire regressivamente du­rante l'età adulta.

EMOZIONI Dinamismi psichici di maggiore intensità, sollecitati da una necessità improvvisa, consapevole o inconscia.

EROS Nella dottrina psicoanalitica: assieme delle pulsioni di vita, essenzialmente di natura sessuale.

EROTISMO In un senso psicologicamente più ampio di quello psi­coanalitico, comprende tutte le idee, i simboli e le modalità di compor­tamento finalizzati verso il piacere sessuale.

FINALISMO Orientamento della psicologia individuale, che inqua­dra le manifestazioni psichiche normali e patologiche alla luce dello scopo, conscio o inconscio, verso cui si indirizzano.

FINZIONE Concetto individualpsicologico che si riferisce a valuta­zioni finalistiche, soggettive e carenti di obiettività, di sé e del mondo esterno. Ogni individuo tenderebbe normalmente ad elaborare fin­zioni.

FINZIONE RAFFORZATA Finzione deviante per eccesso e contenu­ti, elaborata dal nevrotico e ancor più dallo psicotico.

FOBIE Paure patologiche per eccesso o per distorta valutazione degli obiettivi. Caratterizzano alcune nevrosi, dette appunto fobiche, e si differenziano dalle idee deliranti perché conservano almeno un certo grado di autocritica.

FRUSTRAZIONE Ostacolo che blocca la soddisfazione di un biso­gno o di un desiderio senza abolirlo.

INCONSCIO Zona della psiche, ipotizzata dalla psicoanalisi, in cui si svolgono tutti i processi non avvertiti dalla coscienza. Aggettivo che qualifica i suoi contenuti. La psicologia individuale ammette anch'essa i dinamismi inconsci, ma li inquadra in una fondamentale uni-

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tà della psiche e pertanto non li separa rigidamente dai processi con­sapevoli.

INFERIORITÀ (SENTIMENTO E COMPLESSO DI) La psicologia individuale riconosce un normale sentimento d'inferiorità che distingue il bambino, costretto ad affrontare un mondo ancora scono­sciuto e paragoni con gli adulti più forti e ricchi di conoscenza. Sem­pre nella normalità, tale condizione sarebbe gradualmente compen­sata positivamente nel corso dello sviluppo psichico. Un'abnorme accentuazione del sentimento d'inferiorità, indotta da svariate influen­ze negative, quali minorazioni organiche o estetiche, errori educa­tivi, conflitti con l'ambiente, ecc., è definita "complesso di inferio­rità".

INTROIEZIONE Processo ipotizzato dalla psicoanalisi e dalle sue derivazioni, mediante il quale l'individuo farebbe passare dall'ester­no all'interno della sua psiche, in modo fantasmatico, persone, oggetti e loro qualità.

IPOCONDRIA Timore morboso della malattia, inquadrabile come nevrosi fobica e abitualmente collegato all'esecuzione di rituali osses­sivi diretti a scongiurare ciò che il soggetto teme.

ISTINTI Da un punto di vista generale: forme di comportamento ereditate e caratteristiche di una specie. Nella psicoanalisi: termine talora impiegato come equivalente di "pul­sioni", ossia come spinte energetiche dell'organismo verso un obiet­tivo.

LAVORO È uno dei tre compiti vitali dell'uomo contemplati dalla psicologia individuale. Se bene esplicato, appaga sia il bisogno di coo­perare con la collettività, sia quello di ottenere un riconoscimento delle proprie doti.

LIBIDO Nella psicoanalisi: energia dell'Eros (vedasi).

MASOCHISMO Comprendiamo in questo termine non solo la clas­sica perversione sessuale che identifica il piacere erotico con la soffe­renza fisica e morale, ma anche una più generale tendenza a subordi­narsi e a umiliarsi. Fra le più frequenti motivazioni profonde del ma­sochismo si acquisiscono il tentativo di rendere accettabile un vissu­to d'inferiorità e l'espiazione di un senso di colpa.

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NEGATIVISMO Modalità patologica di resistenza ed opposizione al­l'ambiente.

NEVROSI Disordini psichici, manifestati con il comportamento, con emozioni e con svariati disturbi funzionali, che si differenziano dalle psicosi perché mantengono almeno un certo grado di autocritica e non comportano un radicale distacco dalla realtà.

OSSESSIONI Idee che s'impongono in modo insistente e ripetitivo e possono tradursi in azioni incoerenti automatizzate o in inibizioni. Caratterizzano le nevrosi dette appunto ossessive e mantengono una parziale autocritica.

POSIZIONE DEPRESSIVA Seconda fase dello sviluppo psichico in­fantile ipotizzata da Melanie Klein. Comparirebbe verso il quarto me­se di vita, seguendo la posizione schizoparanoide (vedasi). Il bambi­no, giunto a percepire la madre come oggetto totale, non più fram­mentato in parti buone e cattive, sarebbe angosciato e depresso dal ti­more di distruggerla e perderla.

POSIZIONE SCHIZOPARANOIDE Prima fase dello sviluppo psichi­co infantile ipotizzata da Melanie Klein. Si estenderebbe dalla nascita ai tre o quattro mesi di vita, durante i quali il bambino sarebbe capace di percepire solo oggetti parziali (soprattutto il seno materno) che in-troietterebbe e scinderebbe in due immagini, l'una buona e l'altra cat­tiva.

PSICOANALISI Dottrina psicologica ideata da Sigmund Freud. Co­stituisce la prima teoria dell'inconscio organicamente imposta­ta nei suoi presupposti analitici e nelle sue applicazioni terapeuti­che.

PSICOLOGIA DEL PROFONDO Denominazione applicabile alla psicoanalisi e a tutte le altre scuole ad essa posteriori che hanno per obiettivo lo studio dell'inconscio.

PSICOLOGIA INDIVIDUALE Teoria psicologica formulata da Al­fred Adler e anch'essa collocabile nell'ambito della psicologia del pro­fondo. Si differenzia dalla psicoanalisi soprattutto per la sua imposta­zione finalistica (diretta cioè ad analizzare non solo le cause ma anche gli scopi dei dinamismi psichici normali e patologici), per un supera­mento dell'istintualismo pansessuale freudiano e per il maggior rilievo assegnato invece ai rapporti interpersonali e sociali.

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PSICOSI Denominazione generica delle più gravi affezioni menta­li, distinte da un marcato difetto di autocritica e da un distacco dalla realtà.

PSICOTERAPIA Termine generico che sta ad indicare ogni forma di cura basata su metodi psicologici.

REGRESSIONE Ripiegamento abnorme verso fasi già superate della vita psichica. Mentre la psicoanalisi la interpreta come ritorno a par­ticolari periodi di gestione della sessualità, la psicologia individuale la considera in modo assai più ampio, con estensione quindi a tutti i di­namismi psichici del passato.

SADISMO Comprendiamo in questo termine, oltre alla perversione sessuale che investe di piacere la sofferenza procurata ad altri duran­te un comportamento erotico, una più ampia tendenza a gratificarsi dominando e umiliando gli altri. In chiave adleriana, il sadismo è interpretato come supercompensazio-ne negativa di un complesso d'inferiorità.

SENTIMENTO SOCIALE Secondo la psicologia individuale è un bi­sogno innato dell'uomo di cooperazione e di compartecipazione emo­tiva con i suoi simili.

SOCIETÀ Esteso raggruppamento di individui che vivono nell'am­bito delle medesime strutture collettive e che sono influenzati dalla me­desima cultura.

STILE DI VITA Secondo la dottrina individualpsicologica è l'assie­me dei tratti di comportamento, delle emozioni e delle opinioni di ogni individuo che caratterizza la sua personalità e il suo orientamento ver­so determinati scopi prevalenti.

SUICIDIO Togliersi la vita è l'espressione massima della depressione e ne esaspera le finalità profonde, in gran parte dirette verso una col-pevolizzazione di figure familiari e verso una valorizzazione pseudo­eroica del soggetto, estremo artificio di compenso di un'insostenibile autosvalorizzazione.

TABÙ Termine che all'origine stava a indicare certi divieti sa­crali delle tribù primitive ed è impiegato oggi in psicologia dinami­ca con riferimento alle idee e alle azioni che inducono un senso di colpa.

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THANATOS Presunto istinto di morte ipotizzato da Freud. Il con­cetto fu sviluppato specie nelle sue ultime opere.

TOSSICOMANIA Abitudine contratta e stabilizzata in modo coat­to ad assumere sostanze stupefacenti o psicotrope, comunque capaci di indurre una dipendenza fisica o anche soltanto psicologica.

TRANSFERT Particolare legame emotivo che avvince al terapeuta chi segue una psicoterapia analitica. Può essere positivo o negativo e subire notevoli variazioni d'intensità e di contenuti.

VOLONTÀ DI POTENZA Nella teoria individualpsicologica è, assie­me al sentimento sociale con cui si armonizza o si scontra, una delle due essenziali forze motrici psichiche dell'uomo. Essa spinge l'indivi­duo ad affermarsi, a dominare i suoi simili o invece soltanto a soprav­vivere aggirando difficoltà e umiliazioni.

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