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33 Copyright © 2010 Zanichelli Editore SpA, Bologna [5933] Questo file è una estensione online del corso R.Tassi, S.Tassi I saperi dell’educazione © Zanichelli 2010 La tavola possiede, meglio, possedeva un grande ma- gistero: oggi purtroppo per molti il cibo è diventato un carburante e la tavola una mensola su cui posare ciò che si consuma. Si mangia qualsiasi cosa, a qual- siasi ora, in qualsiasi modo, accanto e non «insieme» a chiunque e, possibilmente, in fretta. Invece per me la tavola è stata sempre, e lo è tut- tora, il luogo privilegiato per imparare, per ascoltare, per umanizzarmi. Non è stato forse così fin dall’inizio della vicenda umana? È quanto affermano gli antro- pologi, ma è anche quello che verifichiamo noi stessi se usiamo l’intelligenza per esercitarci alla consa- pevolezza di quello che facciamo. L’umanizzazione è passata principalmente attraverso la tavola, dalla nutrizione alla gastronomia (...), dalla scoperta della coltivazione all’adozione del piatto, all’uso della tavo- la come luogo di incontro e di festa. L’uomo ha cessato di essere un divoratore, un consumatore, frapponen- do fra sé e il cibo riti di macellazione, tecniche di cot- tura, maestria di miscelazioni, arte della presentazio- ne dei piatti, del cibo e del vino: insomma, l’uomo ha abbandonato l’atteggiamento dell’animale cacciatore che mangia la sua preda per assumere quello di chi crea un rapporto con il cibo. (...) L’uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavo- la universale, ma in questa operazione c’è lotta contro ciò che è animalesco e c’è tragitto di cultura, di comu- nicazione, in vista di una comunione non solo tra gli esseri umani, ma tra l’umanità e il mondo. Non posso dimenticare alcuni tratti dell’articolata eppur essenziale operazione del «mangiare a tavola», così come li ho appresi dal vissuto quotidiano della mia terra. La cucina, innanzitutto: un’autentica offi- cina, anche nelle famiglie povere com’era la mia, in cui si intrecciano acqua, fuochi, aromi, prodotti dell’orto e della campagna, frutti del proprio lavoro ma anche dello scambio con culture più lontane: l’olio, il sale, le acciughe, il tonno ... Sì, la cucina è il luogo che pone un salutare «frattempo» tra i prodotti e il loro con- sumo, ma ha soprattutto il pregio di riunire ciò che dalla natura giunge a noi separato e di trasformarlo in modo che la natura sia intersecata dalla cultura. La cucina è la palestra d’esercizio di tutti i sensi, perché è soprattutto in essa che si impara fin da bambini a Lettura 4A Intorno alla tavola Il valore dell’epifania del convivio L e pagine che seguono ci introducono in un ambiente, la cucina, e tra oggetti, i prodotti della terra, che – almeno sulle prime – non sembrano intrattenere alcun rapporto con la pedagogia. Tra- dizionalmente e per il senso comune, la Pedagogia si occupa della testa; la cucina del corpo. La prima vola in alto, si occupa dei prin- cipi primi e dei fini ultimi, senza limiti di tempo e di spazio, perché guarda alla universalità. La seconda è terra terra, predispone i pasti nei tempi brevi del giorno, guarda alla particolarità, alla fame e al bisogno di soddisfarla. Quello che è sorprendente, qui, è il rovesciamento della prospet- tiva di cui sopra, la «scoperta» di un valore, di un insieme di valori che credevamo scomparsi (e forse lo sono) dal nostro esistere attuale, dimenticati, lasciati perire insieme al tempo e al luogo in cui hanno avuto origine. Perché la «cucina» non esiste più come luogo centrale della casa, dei suoi riti culinari e di vita domestica. E la tavola si è fatta «mensola su cui appoggiare il carburante per sopravvivere». g Carlo Petrini fondatore di Slow Food.

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La tavola possiede, meglio, possedeva un grande ma-

gistero: oggi purtroppo per molti il cibo è diventato

un carburante e la tavola una mensola su cui posare

ciò che si consuma. Si mangia qualsiasi cosa, a qual-

siasi ora, in qualsiasi modo, accanto e non «insieme»

a chiunque e, possibilmente, in fretta.

Invece per me la tavola è stata sempre, e lo è tut-

tora, il luogo privilegiato per imparare, per ascoltare,

per umanizzarmi. Non è stato forse così fin dall’inizio

della vicenda umana? È quanto affermano gli antro-

pologi, ma è anche quello che verifichiamo noi stessi

se usiamo l’intelligenza per esercitarci alla consa-

pevolezza di quello che facciamo. L’umanizzazione

è passata principalmente attraverso la tavola, dalla

nutrizione alla gastronomia (...), dalla scoperta della

coltivazione all’adozione del piatto, all’uso della tavo-

la come luogo di incontro e di festa. L’uomo ha cessato

di essere un divoratore, un consumatore, frapponen-

do fra sé e il cibo riti di macellazione, tecniche di cot-

tura, maestria di miscelazioni, arte della presentazio-

ne dei piatti, del cibo e del vino: insomma, l’uomo ha

abbandonato l’atteggiamento dell’animale cacciatore

che mangia la sua preda per assumere quello di chi

crea un rapporto con il cibo. (...)

L’uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavo-

la universale, ma in questa operazione c’è lotta contro

ciò che è animalesco e c’è tragitto di cultura, di comu-

nicazione, in vista di una comunione non solo tra gli

esseri umani, ma tra l’umanità e il mondo.

Non posso dimenticare alcuni tratti dell’articolata

eppur essenziale operazione del «mangiare a tavola»,

così come li ho appresi dal vissuto quotidiano della

mia terra. La cucina, innanzitutto: un’autentica offi-

cina, anche nelle famiglie povere com’era la mia, in cui

si intrecciano acqua, fuochi, aromi, prodotti dell’orto

e della campagna, frutti del proprio lavoro ma anche

dello scambio con culture più lontane: l’olio, il sale, le

acciughe, il tonno ... Sì, la cucina è il luogo che pone

un salutare «frattempo» tra i prodotti e il loro con-

sumo, ma ha soprattutto il pregio di riunire ciò che

dalla natura giunge a noi separato e di trasformarlo

in modo che la natura sia intersecata dalla cultura. La

cucina è la palestra d’esercizio di tutti i sensi, perché

è soprattutto in essa che si impara fin da bambini a

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4AIntorno alla tavola

Il valore dell’epifania del convivio

Le pagine che seguono ci introducono in un ambiente, la cucina, e tra oggetti, i prodotti della terra, che – almeno sulle prime –

non sembrano intrattenere alcun rapporto con la pedagogia. Tra-dizionalmente e per il senso comune, la Pedagogia si occupa della testa; la cucina del corpo. La prima vola in alto, si occupa dei prin-cipi primi e dei fini ultimi, senza limiti di tempo e di spazio, perché guarda alla universalità. La seconda è terra terra, predispone i pasti nei tempi brevi del giorno, guarda alla particolarità, alla fame e al bisogno di soddisfarla.

Quello che è sorprendente, qui, è il rovesciamento della prospet-tiva di cui sopra, la «scoperta» di un valore, di un insieme di valori che credevamo scomparsi (e forse lo sono) dal nostro esistere attuale, dimenticati, lasciati perire insieme al tempo e al luogo in cui hanno avuto origine. Perché la «cucina» non esiste più come luogo centrale della casa, dei suoi riti culinari e di vita domestica. E la tavola si è fatta «mensola su cui appoggiare il carburante per sopravvivere».

g Carlo Petrini fondatore di Slow Food.

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carne di vitello o di maiale e, una volta che questa era

rosolata, ecco la «conserva» di pomodoro, preparata

d’estate e messa in bottiglie. A volte si innaffiava con

un buon vino rosso e si salava il tutto con molta at-

tenzione alla misura ... Tutto fatto? No, il ragù doveva

sobbollire lentamente per due o tre ore, finché si fosse

addensato e ricoperto di un velo scuro dato dai succhi

delle carni. E poi, la «salsa», il ragù non doveva mai

essere abbandonato a se stesso, in nessuna fase della

sua cottura: se non è sorvegliato, soffre! Nulla induce

alla riflessione come l’accudire a un ragù.

Che meraviglia! Prodotti che venivano dall’orto e

dal pollaio, ma anche l’olio che veniva dalla Liguria,

il sale dalla Sardegna, il pepe dal lontano Oriente ...

Alimenti convocati insieme da terre diverse per «fare

gusto» e per «fare festa»: sì, in un semplice ragù si

contempla la natura che diventa cultura, l’umile lo-

cale della cucina che si trasforma in laboratorio d’arte

che sforna profumi e sapori. Pochi ci pensano, ma il

cibo, come il linguaggio parlato, serve a comunicare,

a conoscere e scambiare le identità perché esprime sì

l’identità di una terra e della sua cultura, ma sa assu-

mere anche prodotti che vengono da altri lidi e altre

culture: anche il semplice aglio è tributario di regioni

così lontane...

Accanto all’officina della cucina c’e poi l’epifania

della tavola: lì la cultura spicca il volo, il mangiare di-

venta convivio, l’occasione quotidiana di comunica-

zione e di comunione. .

Davvero la cucina e la tavola sono l’epifania dei rap-

porti e della comunione. Del resto, il cibo è come la

sessualità: o è parlato oppure è aggressività, consumi-

smo; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco;

o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è

cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico

oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Il

cibo cucinato e condiviso – il pasto – è allora luogo di

comunione, di incontro e di amicizia.

(E. Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008)

distinguere il buono dal cattivo, il duro dal tenero, il

dolce dall’amaro: la prima esperienza che noi abbia-

mo fatto del buono e del cattivo è passata attraverso

il cibo, così che per tutta la vita usiamo queste due

categorie per definire persone e eventi; perfino nel

campo della morale il parametro con cui determina-

re ciò che è bene e ciò che è male si rifà alla distinzione

primordiale tra buono e cattivo. La «semantica» fon-

damentale l’abbiamo imparata con la bocca: ciò che

è commestibile e ciò che non lo è, ciò che possiamo

mettere dentro, mangiare, assimilare e ciò che assolu-

tamente deve restare fuori...

Io amo cucinare, e lo faccio in un grande silenzio

perché cucinare significa pensare, essere consapevo-

li, essere presenti e avere un senso forte della realtà e

degli altri per i quali si cucina. Cucinando si è obbli-

gati a una unificazione di aspetti molteplici: le leggi

culinarie, le attese di chi mangerà, la conoscenza dei

prodotti, l’esperienza del fuoco, dell’acqua, del tem-

po... Operazione straordinaria che rende intelligenti.

Si pensi, per esempio, a un’operazione che al tempo

della mia infanzia e adolescenza era quotidiana: pre-

parare la «salsa» per la pasta, quello che oggi si chiama

sugo o ragù. Al mattino presto la donna di casa, la ma-

dre di famiglia iniziava le operazioni: faceva un bat-

tuto di lardo e con la mezzaluna – questo essenziale

e glorioso arnese da cucina – tritava le cipolle bionde

e lo scalogno che poi lasciava soffriggere nel tegame

di terracotta senza che rosolassero; a un certo punto

aggiungeva sedano e carota tritati, rosmarino, salvia,

due foglie di lauro, un pizzico di pepe e continuava a

far cuocere il tutto a fuoco bassissimo (e anche questo

richiedeva non poca abilità, se si considera che non

si usavano i fornelli a gas, bensì la «cucina economi-

ca», sapiente trasformazione moderna dell’antico

focolare in un piano in ghisa con anelli concentrici

riscaldato dal sottostante fuoco a legna). Quindi si ag-

giungeva la carne a pezzetti: non sempre, dati i tempi

di miseria, ma ogniqualvolta bisognasse «segnare la

festa». Allora apparivano i fegatini di pollo, un po’ di

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1 Suggestioni/concettiIl convivio e la festa

C’è tutto un universo di «piccole cose» che ci sfuggono, che si fermano alle soglie della nostra coscienza, che

quasi non esistono per noi. Sono i prodotti della terra, che emergono nella loro piena consistenza solo se

riandiamo con la memoria alla «cucina antica», a quell’«officina» e «laboratorio d’arte», «di scienza» e «di

sapienza» che era l’antica cucina, in cui si intrecciavano acqua, fuochi, aromi, prodotti dell’orto e della cam-

pagna, frutti del lavoro ma anche dello scambio con culture più lontane: l’olio, il sale, le acciughe, il tonno. Lì,

in cucina, sono raccolti gli elementi primordiali: terra, acqua, fuoco, tempo, spazio (che, volendo sottilizzare,

furono gli «elementi primi» dei filosofi antichi); lì, in cucina, lo spazio è occupato dagli alimenti primi della

nostra sopravvivenza quotidiana, i prodotti dell’orto e della campagna; lì convergono prodotti da tutti gli spazi

del globo. La cucina è centro del mondo.

2 Applicazioni/verificheIl priore di Bose costruisce intorno alla cucina un mondo di cose corposamente materiali (lardo, cipolle, sca-

logno, sedano, carote, rosmarino, salvia, lauro, pepe...), è un mondo di colori, sapori, profumi che impregnano

l’aria e avvolgono i commensali; e questa corposità materiale è così consistente da fargli dire che «l’uomo è ciò

che mangia». Affermazione che fu di Feuerbach, materialista convinto. Ma che qui si introduce con leggerezza,

perché su questo mondo «naturale» si eleva un mondo che unisce natura e cultura, e si fa pienamente umano

intorno alla tavola: che è convivio, guardarsi in faccia, linguaggio, comunicazione e comunione, ospitalità e amici-

zia. Un universo su cui aleggia un profumo di eternità.

È la riproposizione di valori antichi che sembrano far convergere il mito della Grande Madre Terra, dispensa-

trice dei suoi frutti, e del Grande Padre Celeste. Una spiritualità che si è fatta carne e sangue. Umana, profon-

damente umana.

a. Richiamate almeno un passo che vi ha colpito, e chiarite le ragioni della vostra scelta.

b. Posto che il «convivio» e la «festa» non sono più riproponibili come eventi quotidiani, ritenete che possano

essere recuperati come momenti eccezionali ma ricorrenti nella vita familiare di oggi?

c. Dalle pagine che avete letto ritenete che emerga anche una lezione di pedagogia? Pedagogia come riscatto della

quotidianità e della banalità; come consapevolezza, sapienza e saggezza. Pedagogia come umanizzazione del

mondo, come cultura, comunicazione e dialogo.

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Quella settimana, tanti anni fa, pensavo che mia

madre e mio padre mi stessero avvelenando. Oggi,

vent’anni dopo, non sono certo che non lo abbiano

fatto davvero. Impossibile dirlo.

Tutto mi torna alla memoria con il semplice espe-

diente di un’ispezione a un baule in solaio. Stamane

ho aperto le serrature di ottone e ho sollevato il co-

perchio, e l’odore antico di naftalina impregnava le

scarpe da tennis consunte, le racchette senza corde,

i giocattoli rotti, i pattini a rotelle arrugginiti. Questi

strumenti di gioco, rivisti con occhi adulti, mi hanno

dato la sensazione che solo un’ora fa stessi rincasan-

do di corsa dal viale ombreggiato, tutto coperto di

sudore, un grido di gioia sulle labbra tremanti d’ec-

citazione.

Ero un ragazzo strano e ridicolo, allora, la testa pie-

na di curiose idee ossessionanti. Veleno e paura erano

molta parte di me in quegli anni. Avevo cominciato a

scrivere appunti su un diario con la costola di nickel

quando avevo solo dodici anni. Ho ancora oggi la

sensazione della matita fra le dita mentre scrivevo in

quelle mattine di primavera senza tempo.

Smisi un istante di scrivere per leccare la punta

della matita, pensoso. Ero seduto in camera mia al

piano di sopra, all’inizio di un’interminabile gior-

nata di sole, e fissavo con gli occhi semichiusi le rose

della tappezzeria, a piedi nudi, con i capelli tagliati a

spazzola, rifletttendo.

«Solo questa settimana mi sono reso conto di es-

sere malato» scrissi. «Sono malato da tanto tempo. Da

quando avevo dieci anni. Ne ho dodici ora».

Corrugai la fronte, mi morsicai le labbra a sangue,

abbassai lo sguardo sfocato sul diario. «Mamma e

papà mi hanno fatto ammalare. Anche gli insegnanti

a scuola mi hanno dato questo ...» Esitai. Poi scrissi:

«... morbo! Gli unici che non mi spaventano sono gli

altri ragazzi. Isabel Skelton, William Bowers e Claris-

sa Mellin. Loro non sono ancora molto malati. Ma io

sono davvero grave ...».

Posai la matita sul tavolo. Poi andai in bagno per

guardarmi allo specchio. Mi chiamò mia madre per

dirmi di scendere a far colazione. Avvicinai il viso

allo specchio respirando così forte che lasciai sul

vetro una chiazza di vapore umido. Vidi come stava

cambiando la mia faccia.

Le ossa del viso. Perfino gli occhi. I pori del naso.

Le orecchie. La fronte. I capelli. Tutte le cose che era-

no state me stesso per tanto tempo stavano diventando

qualcos’altro. Mentre mi lavavo rapidamente, vidi il

mio corpo galleggiare sotto di me. E io c’ero dentro.

Non potevo fuggire. Le ossa stavano facendo delle

cose, si spostavano, si mescolavano fra loro!

La trappola La distorsione del disgusto-«veleno»

Fino a questo momento abbiamo costruito le nostre diadi tra valori che entravano in rapporto per opposizione ma, ad un

tempo, per integrarsi: identità/differenza; impegno collettivo/responsabilità individuale; unità d’un popolo/consentire comu-nitario.

Qui istituiamo, invece, una relazione tra un valore e un dis-valore o, più precisamente, tra un valore e la sua deformazione psicologica come espressione della fatica di crescere. Il cibo come «veleno» che si oppone alla tavola «convito» e «festa» della let-tura precedente. Il cibo caricato dalla paura di crescere. Dal non voler crescere di un preadole-scente che non vuole abbandonare l’incantesimo dell’infanzia.

g Ray Bradbury, scrittore e sceneggiatore americano.

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Serrai la cinghia intorno ai libri e mi avviai alIa

porta. «Douglas, non mi hai dato il bacio» disse

mamma.

«Oh.» Tornai indietro a baciarla.

«Che cosa c’è che non va?» domandò.

«Niente. Ciao. Arrivederci, papà.»

Dissero tutti ciao. Mi incamminai verso la scuola,

rimuginando i pensieri più segreti nascosti dentro di

me. Era come gridare in un pozzo profondo e gelido.

Corsi giù per la scarpata e mi afferrai, dondolan-

domi, a un ramo di rampicante. Il terreno mi sfuggì

da sotto i piedi, odorai l’aria fresca del mattino, dolce

e inebriante, scoppiai a ridere, e il vento si portò via

tutti i pen sieri. Mi slanciai con una sforbiciata verso

il pendio e rotolai a valle mentre gli uccelli cantavano

per me e uno scoiattolo saltellava come un batuffolo

bruno sospinto dal vento lungo il tronco di un albe-

ro. Giù per il sentiero gli altri ragazzi scesero rotolan-

do come una valanga, gridando. Uno si percuoteva

il petto con i pugni, un altro faceva saltare i ciotoli

sull’acqua, un terzo affondava le mani per afferrare

un gambero. Il gambero scappò via in una scia di

spruzzi d’acqua. Insieme scoppiammo a ridere.

Sul ponticello di legno sopra di noi passò una ra-

gazza. Si chiamava Clarissa Mellin. Ci mettemmo

tutti a gridare, le dicemmo di andarsene, di andarse-

ne, non la volevamo con noi. Ma la voce mi si spezzò

in gola e la guardai in silenzio mentre si allontanava,

piano. Non distolsi lo sguardo finché non scompar-

ve.

Sentimmo in lontananza suonare la campanella

della scuola.

Ci precipitammo lungo sentieri che avevamo

tracciato in molte estati nel corso degli anni. L’erba vi

cresceva a stento; conoscevamo ogni sasso, ogni tana

di serpente, ogni albero, ogni liana, ogni cespuglio.

Dopo scuola avevamo costruito capanne sugli alberi,

alte sopra il ruscello scintillante, ci eravamo tuffati in

acqua nudi, avevamo disceso la scarpata fino al pun-

to in cui si immergeva solitaria e abbandonata nel

Cominciai a cantare e a fischiare a pieni polmo-

ni per impedirmi di pensarci, finché papà, bussando

all’uscio, venne a dirmi di stare zitto e di scendere a

mangiare.

Mi sedetti alla tavola apparecchiata per la cola-

zione. C’era una scatola gialla di cereali, una broc-

ca piena di latte bianco e freddo, cucchiai e coltelli

luccicanti, e uova fritte nella pancetta. Papà leggeva

il giornale, mamma si agitava in cucina. Annusai il

profumo. Sentii lo stomaco accucciarsi come un cane

bastonato.

«Cosa c’é che non va, figliolo?» Papà mi guardò

con aria svagata. «Non hai fame?»

«No.»

«Un ragazzo della tua età dovrebbe avere sempre

fame la mattina» disse papà.

«Sbrigati e mangia» intervenne mamma. «Su, in

fretta.»

Guardai le uova. Erano veleno. Guardai il burro.

Era veleno. Il latte era così bianco e cremoso nella

brocca, i cereali così bruni, croccanti e saporiti nella

tazza verde decorata di fiori rosa.

Veleno, tutto veleno! Il pensiero mi invase il cer-

vello come una fila di formiche a un picnic. Mi mor-

sicai la lingua.

«Eh?» disse papà guardandomi. «Hai detto?»

«Niente; tranne che non ho fame.» Non potevo

dire che ero malato e che era quel cibo a farmi am-

malare. Non potevo dire che erano stati i biscotti, le

torte, i cereali, le minestre, le verdure a far questo, po-

tevo dirlo? No, dovetti restarmene seduto, a inghiot-

tire nemmeno un boccone, col cuore che batteva

all’impazzata.

«Bevi almeno il latte, allora, e vai» disse mamma.

«Papà dagli dei soldi per comprarsi una buona co-

lazione a scuola. Succo d’arancia, carne e latte. Nien-

te caramelle.»

Non c’era bisogno che mi mettesse in guardia

contro le caramelle. Erano il veleno peggiore di tutti.

Non le avrei mai più toccate!

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sopra. Erano visibili le vene, blu, rosa e gialle, i capil-

lari, i muscoli, i tendini, gli organi interni, i polmoni,

le ossa, i tessuti adiposi.

Il signor Jordan fece un cenno verso la tavola. «C’è

una grande somiglianza nella riproduzione delle cel-

lule cancerose e delle cellule normali. Il cancro è sem-

plicemente il prodotto di una funzione impazzita. La

sovraproduzione di materiale cellulare...» .

Alzai la mano. «Il cibo come... voglio dire... che

cosa fa crescere il corpo?»

«Un’ottima domanda, Douglas.» Indicò la tavola

illustrata. «Il cibo, una volta entrato nel corpo, viene

assimilato, digerito, e...»

Ascoltando la spiegazione, capii che cosa stava

cercando di farmi il signor Jordan. Nella mia men-

te l’infanzia era come l’impronta di un fossile su una

pietra arenaria. Il signor Jordan stava cercando di

grattare via l’impronta. Alla fine sarebbe stato cancel-

lato tutto, le mie credenze e fantasticherie. Mia madre

mi trasformava il corpo con il cibo, il signor Jordan

lavorava sul mio cervello con le parole.

Cominciai così a disegnare figure su un foglio di

carta senza più ascoltare la lezione. Cantai canzonci-

ne a bocca chiusa, inventai un linguaggio tutto mio.

Per il resto della giornata non udii nulla. Resistetti

all’attacco, contrattaccai il veleno.

(R. Bradbury, Molto dopo mezzanotte, Ame, Roma, 1993)

gran blu del lago Michigan, vicino alla conceria, alla

fabbrica di amianto e ai magazzini portuali.

Ora, mentre risalivamo ansanti quel pendio, mi

fermai, di nuovo colto dalla paura. «Andate pure

avanti» dissi.

Suonò l’ultima campanella. I ragazzi si misero a

correre. Io guardai la scuola con la facciata coperta

di rampicanti. Udii le voci che venivano da dentro,

un gran rumore che si spargeva tutto intorno. Udii

tintinnare campanelle da tavolo e gli insegnanti ri-

chiamare i ragazzi all’ordine.

Veleno, pensai. Anche gli insegnanti! Vogliono che

mi ammali. Ti insegnano a stare sempre più male! E a

essere felice della malattia!

«Buon giorno, Douglas.»

Sentii il ticchettio di tacchi alti sulla passatoia di

cemento. La signorina Adams, la preside, con i suoi

occhiali a pincenez, la faccia larga e pallida, i capelli

scuri corti, era dietro di me.

«Svelto» mi disse, afferrandomi per una spalla.

«Sei in ritardo. Svelto.»

Mi accompagnò di sopra, uno-due, uno-due,

uno-due, su per le scale del mio destino...

Il signor Jordan era un uomo rubicondo con i ca-

pelli radi, uno sguardo serio negli occhi verdi e uno

strano modo di dondolarsi sui tacchi davanti alla la-

vagna. Quel giorno aveva appeso al muro una grande

tavola che illustrava il corpo umano, senza la pelle

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1 Suggestioni/concettiLa crisi di identità nell’età della preadolescenza

La preadolescenza è, a giudizio di numerosi studiosi, una fase di crisi dello sviluppo, caratterizzata dal suo stes-

so configurarsi come fase intermedia tra fanciullezza e adolescenza. Il preadolescente non è più un bambino e

non è ancora un giovane. E non di rado accade che – in questa fase di moratoria – incontri qualche difficoltà

a rimodulare il profilo della propria identità. La fatica di crescere può condurre a non voler crescere, a voler

restare bambino. Il racconto di Ray Bradbury è per noi interessante perché dà corpo ad una nozione psicologica

traducendola in una storia, in immagini.

2 Applicazioni / verificheI nostri giovani lettori hanno ormai superato da tempo la crisi di identità (se mai l’hanno conosciuta), e questa

loro condizione dovrebbe (o potrebbe) consentir loro di oggettivare e guardare con distacco il contenuto del

racconto qui riportato.

Una riflessione di adolescenti sull’adolescenza non può essere «guidata». Le esercitazioni si arrestano, pertanto,

a questo punto. Temi e problemi in materia dovranno scaturire direttamente dalle decisioni del gruppo classe.

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Copyright © 2010 Zanichelli Editore SpA, Bologna [5933] Questo file è una estensione online del corso R.Tassi, S.Tassi I saperi dell’educazione © Zanichelli 2010

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La festa del Ringraziamento agisce nell’immagina-

rio di April come momento di riconciliazione con la

famiglia, in particolare con la madre. Ma anche come

occasione di riscatto. Può dimostrare a tutta la fami-

glia che sa cavarsela da sola.

La cogliamo alle prese con un enorme tacchino

che deve rendere ripieno, come vuole la tradizione.

È, via via, sempre più sola. Il suo ragazzo compare di

tanto in tanto per le vie del quartiere, qualche giro

di telefono, niente più. È lei, e lei soltanto che deve

riscattarsi.

Il forno non funziona. È l’inizio per il tacchino (e

non solo) di una serie di peripezie che non sembra-

1 L’ambienteIl film è ambientato in un quartiere periferico piut-

tosto degradato di New York, all’interno di un pic-

colo appartamento, in un condominio multietnico.

Si apre anche a qualche squarcio della provincia

americana, evitando per questa via una connota-

zione sociologica troppo ristretta che risulterebbe

fuorviante.

2 La storiaL’avvio della storia si snoda su sequenze parallele:

– April, la protagonista, uscita di casa e in dissidio

con la famiglia, indaffarata in cucina nel suo pic-

colo appartamento newyorkese;

– la famiglia d’origine, padre, madre, due fratelli e

la nonna, in macchina, sulla via che dalla Pen-

sylvania deve condurli all’appuntamento per il

pranzo nel giorno del Ringraziamento.

Il parallelismo delle immagini sottolinea una

frattura profonda. Il richiamo della festa ne sugge-

risce il superamento. Storia semplice, dunque; senza

colpi di scena.

Il nostro interesse (come sempre) va in ogni caso

alla psicologia dei personaggi, e soprattutto al «si-

gnificato» che nelle storie personali dei protagonisti

assume l’evento che tutti li coinvolge.

Schegge di April

Titolo originale Pieces of AprilLingua originale inglese Paese U.S.A. Anno 2003Colore coloreGenere commediaSoggetto Peter Hedges Sceneggiatura Peter HedgesRegia Peter Hedges

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1 Provvedete alla ricerca del significato che ha il Giorno del Ringraziamento nella cultura americana.

2 Seguite via via la mamma di April nel lungo percorso verso New York, e ricavatene, attraverso i dialoghi con i

membri della famiglia, il ritratto psicologico e umano (è ammalata di cancro). All’interno di quel profilo psico-

logico, cercate di definire la natura dei suoi rapporti con la figlia. Rispondete, infine, alla seguente domanda:

Secondo voi, la signora Joe si sarebbe messa in viaggio in ogni caso per far visita alla figlia, oppure la ricorrenza

del «Ringraziamento» ha giocato un peso determinante nella sua scelta?

3 Per April, la festa del Ringraziamento è un’occasione per ricomporre l’unità della famiglia e per riscattare la

propria immagine. Ritenete che il suo gesto trovi qui tutte le sue motivazioni, oppure ritenete che occorra risa-

lire ancora più a monte, ad una motivazione più decisiva?

4 Il film entra in dialogo con il brano di Enzo Bianchi. Quali elementi in comune, e quali differenze rilevate tra i

due riti conviviali?

Prima di rispondere, chiedetevi, tra l’altro, se il «convivio» di cui dice Bianchi abbia i caratteri della ecceziona-

lità o della quotidianità, se si sostenga sulla ufficialità di una festa o sia festa di per sé.

5 Richiamate alcuni contenuti simbolici del vostro immaginario che sono dei valori per voi, o della vostra fami-

glia, o del nostro Paese (il palloncino chiama-feste del vostro compleanno? La festa del patrono? La bandiera

nazionale?...)

spunti di riflessione

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ruotano intorno al tacchino ma, soprattutto, che

scendono nella profondità delle anime.

April trova inizialmente la collaborazione di

una coppia afroamericana che si fa carico di una

«prima» cottura: è la festa del «Ringraziamento», e

sollecita la disponibilità; Ma... è anche la festa della

«famiglia»,... e i due debbono riservarsi un proprio

tempo per il forno, quello finale.

Il soccorso successivo viene da una famiglia asia-

tica che nulla sa della festa e nulla del ringraziamen-

to; ma proprio per questo viene coinvolta, con iro-

nia, e non senza una nota di tenera partecipazione.

Il pranzo finale, con tutta la famiglia unita in-

torno al tavolo, completa così un rituale che è ini-

ziato molto prima, e che ha finito per coinvolgere

una piccola comunità. A sottolineare il valore di cui

i «simboli» sono portatori. Simboli che popolano

l’immaginario collettivo e danno un senso a mo-

menti o ad attimi fugaci, ma di particolare rilevanza

per noi.

no avere termine. Alla fine, la cottura riuscirà mi-

racolosamente alla perfezione, somma di tre forni

diversi.

Qui si insinuano, sia pure nella leggerezza di un

racconto spedito, alcuni motivi di umanità e coin-

volgimento profondi. In un condominio anonimo

di anonimi inquilini, che non si conoscono e non

hanno nulla in comune, avvengono «miracoli» che