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OZZANO DELL’EMILIA (BOLOGNA)

%UE ESAMI MANCAVANO, PIÙ LA TESI. Quanti laureandi sono franati sul traguardo. Anche Andrea Pazienza, genio del fumetto, an-zi no, genio del disegno italiano. «La laurea, il Dams me la darà ad honorem�quando avrò sessant’anni», disse, guascone come sempre, in un’intervista televisiva del 1987. Precisò: «Se ci sa-rà ancora il Dams, quando avrò sessant’anni». Pausa, sorriso: «Se ci sarò ancora JP, quando avrò sessant’anni…». Il Dams c’è ancora, se può consolare. Purtroppo Paz no. Il giorno delle sue sessanta candeline sta per arrivare, è il 23 maggio prossimo, ma da ventott’anni il mondo deve andare avanti senza le sue «vignette» come le sminuiva lui, guascone anche al contrario.

Nessuno sa come sarebbe stato Pazienza a sessant’anni. Im-maginarlo pare impossibile come pensare Peter Pan in coda agli sportelli Inps, o il Piccolo Prin-cipe che fa le analisi per la prostata. Allora cerco di indovinarlo nella bella faccia di Michele, suo fratello, che di anni oggi ne ha cinquantotto, quando mi apre la porta del suo appartamen-to di Ozzano dell’Emilia tappezzato di disegni di Andrea. Ma lui capisce al volo e dice «aspet-ta», e torna con un disegno. Il profilo di un uomo seduto, stempiato, nasone, cicca in bocca, ma-tita in mano; e il segno è quello unico, inconfondibile, di Pazienza. E c’è una scritta, sotto: “APaz a cinquantasei anni”. «È venuto fuori tre anni fa dai cassetti di un amico». Paz ha disse-minato il mondo di disegni; per fortuna, da qualche anno, i suoi fratelli Michele e Mariella da una parte e sua moglie Marina Comandini dall’altra stanno facendo salti mortali per recupe-rarli e ricomporre l’archivio di quello che solo uno sbadato o un ignorante potrebbe rifiutarsi di considerare un grande maestro dell’immagine del Novecento.

Insomma si immaginò uomo maturo, per non dire vecchio, lui che lo chiamavano «il vecchio Paz» già a vent’anni. Espressione burbera, ma fisico asciutto, schiena dritta e soprattutto: ma-tita in mano. «Di questo possiamo stare certi: non avrebbe mai smesso di disegnare», commen-ta Michele. «Ma quando è saltato fuori questo disegno, ci siamo tutti rimasti un po’ così. Per An-drea non esisteva il futuro. Ma il suo presente che valeva il triplo del nostro. Andrea ha vissuto anni che valgono decenni. Andrea è morto di vecchiaia». Del resto, la sua data di morte l’aveva scritta lui stesso in una autobiografia: «Morirò il 6 gennaio 1984». Sbagliò per difetto, di quat-tro anni. Morì a trentadue, una notte di giugno, nel suo cascinale di Montepulciano, dov’era fuggito da qualcosa che se lo riprese: quell’ul-timo fatale “schizzo”, che non era un dise-gno, di cui nessuno parla, ma tutti sanno.

«Quando guardo le foto di noi insieme», so-no tutte lì sotto il vetro della scrivania, «come credi che mi senta? Ma Andrea non avrebbe saputo invecchiare. Come le rockstar. La fisi-cità, i nervi erano la sua vita. Dove voleva arri-vare, non credo se lo sia mai chiesto. Cosa vo-leva fare, lo sapeva. Voleva DBWBSTJ�MB�WPHMJB. Di cosa? Di tutto quel che gli faceva voglia. Sì, ma poi?, gli rimproveravo quando studiava-mo insieme a Bologna, lui Dams io Agraria. Poi niente, mi guardava senza capire l’obie-zione. La bulimia gli ha riempito la vita di pia-ceri e di guai, e alla fine gliel’ha portata via. Ma lui lo sapeva, ha concentrato la vita per fa-re tutto prima che fosse troppo tardi». Diceva «la pazienza ha un limite ma Pazienza no», in-vece c’era anche per lui.

Ma se immaginarsi nel futuro il Dorian Gray dei pennarelli l’ha fatto anche lui, alme-no una volta, proviamo a farlo anche noi. Do-ve lo troveremmo oggi? In una galleria d’ar-te? «Le mostre di cose appese al muro lo anno-iavano, però ha esposto… Era una contraddi-zione vivente Andrea. Per un gallerista che gli fosse simpatico e che lo pagasse bene, lo avrebbe fatto». L’antitecnologico Paz se ne andò sulla soglia dell’era digitale. Oggi sareb-be davanti a un computer? «Ma vuoi scherza-re? Ad Andrea non chiedevo neanche di attac-care la spina del televisore. Disegnare al mou-se? Da escludere». Ma qui interviene Nicola, che dello zio ha un po’ l’espressione, e come lui fa il liceo artistico: «Papà, esistono le tavo-lette elettroniche, tu disegni come con la ma-tita e compare sullo schermo». Del resto, il po-limorfo Andrenza fece in tempo a usare la no-vità tecnologica del fax. Lo disegnò col�QPTDB nero, il suo fax, entusiasta come un bambino di non dover più andare in posta per spedire le vignette a -JOVT o al $BOOJCBMF: «Anche Spaz ha il telefacs! Il telespaz!». Mai sottovalu-tare le capacità di adattamento del genio.

E se fosse diventato un attore? Con i poster per Fellini, un piede a Cinecittà ce l’aveva… «Perché no? Era bello, un adone, era sedutti-vo, e lo sapeva. Ma avrebbe potuto recitare so-lo nei panni di se stesso». Anche le sue TUVSJFM�MÒU forse erano proiezioni di sé. «Ma certo. Lui era tutti i suoi personaggi». Chi in particola-re? «Forse Colasanti il bello, di certo Pompeo, che è la sua cosa più grande». Perfino Zanar-di? Il tremendo Zanardi, spietato, cinico, vio-lento? «Quando Andrea disegnava, era in un altro mondo. Cuore, cervello, mano legate

dai nervi, disegnava furiosamente, velocissi-mo, rincorreva tutte le emozioni, poteva com-muoversi fino alle lacrime o farsi prendere dall’adrenalina». Era le sue storie, entrava di persona nelle sue storie. Nostalgiche, come le estati a San Menaio. O stralunate come le av-venture di 1B[�F�1FSU, lui e Pertini, un libro di-segnato in tre giorni. Cose d’APaz.

E poi, in fondo, tutto cominciò da attore. «In camera nostra, a San Severo, da bambini, fra i due letti lui recitava tutti i personaggi delle storie che già disegnava sui quaderni di scuola, serate intere di storie improvvisate, fi-

no a quando mamma ci chiamava per cena. Neanche una di quelle storie è mai arrivata a una conclusione…». Eccoli, quei quadernini. La mano è già quella, l’intreccio fra parole e segni è già quello. Bisogna credere nel Dna, il genio innato esiste. E sul frontespizio di uno di quei quadernini, cosa c’è scritto mai? Una data, 1968: Andrea aveva dieci anni. E sotto, una scritta: «può durare fino al 2001». Ci pen-sava già, al futuro remoto. Ma l’opera del ge-nio dura anche di più. È l’uomo, purtroppo, che ha una scadenza.

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2UEST’UOMO È UN GENIO,

pensò il teenager di allora, e l’adulto di oggi non ha cambiato idea. Quando lessi

“Pentothal” la prima volta, non solo non conoscevo “Alter alter” (la rivista che per prima pubblicò la storia) e il significato dell’acronimo Dams (Umberto Eco coiffeur pour Dams recitava un graffito bolognese di cui avrei imparato a ridacchiare anni dopo), ma ignoravo anche cosa fosse il Settantasette, e i quattro quinti dei riferimenti e delle citazioni con cui Pazienza riempiva la sua opera d’esordio erano per me l’equivalente di un frammento eracliteo. Eppure, credo, colsi l’essenziale. Per esempio il fatto che Pazienza/Pentothal giocava magnificamente a fare l’ospite ingrato. Sì, d’accordo, faceva parte di questo famoso Movimento, ma se ne teneva al tempo stesso ai margini. Ok ok, le assemblee e i collettivi erano importanti, ma lo erano di più le ragazze, specie quelle che ci avevano tradito, e più delle ragazze era importante un languore, uno strano stato d’animo sospeso tra allegria e sconforto, l’atroce sentimento di chi ha perduto qualcosa ancor prima che fosse recuperabile e ora fa il giocoliere per rimandare l’appuntamento con un qualche tipo di morte.

Tra una vita da integrato e una morte da terrorista, l’arte può essere la risposta. Anche questo fu molto chiaro al sedicenne ignorante di tutto che leggeva per la prima volta Andrea Pazienza.

La sua arte avrebbe salvato molti di noi ma non se stesso. Così a distanza di tempo ci ritroviamo sempre qui, bloccati tra rimpianto e gratitudine. Avevo ormai compiuto quarant’anni quando ricevetti la telefonata di una libraia dall’inconfondibile accento meridionale. Mi invitava a fare un reading lì da loro. “Dov’è la vostra libreria?”, domandai. “San Severo”, disse la signora. E io, convinto che la libraia avrebbe capito al volo (così successe), che quell’accenno a

“Sturiellet” sarebbe stato per noi un collante, un motivo di vanto reciproco e un segno di riconoscimento tra orfani, presi

coraggio e declamai a occhi chiusi: “oh San Severo / la città del mio pensiero / dove prospera la vite / e l’inverno è alquanto mite”.

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LONDRA

6N TEMPO, ALL’EPOCA DELLE GRANDI migrazioni verso gli Stati Uniti, si affermava che in America le strade fossero lastri-cate d’oro: era un modo di dire, naturalmente. Una partico-lare zona di Londra, viceversa, è davvero lastricata con il prezioso metallo: solo che in questo caso l’oro è sotto il manto stradale, non sopra. Da qualche parte nel sottosuo-lo di Threadneedle street, la via simbolo della City, si dipa-na un labirinto di otto immensi caveau della Banca d’In-ghilterra in cui sono custoditi lingotti per un valore di due-cento miliardi di dollari. Altri sotterranei corazzati, dislo-cati in siti della cittadella finanziaria e altrove, mantenuti rigorosamente segreti, salvaguardano un quinto delle ri-

serve aurifere mondiali. Almeno trenta nazioni e venticinque grandi banche internazio-nali preferiscono parcheggiare il proprio oro nella capitale britannica: perché è la piazza più importante in cui viene acquistato e perché è considerata più sicura di altri posti. Le frotte di pendolari e turisti che affollano il quartiere lo ignorano, ma svariati metri sotto il marciapiede sul quale camminano è nascosto uno dei tesori più ricchi della Terra.

Per darci un’occhiata bisogna sottoporsi a un trattamento da film di 007: viaggiare su auto dai finestrini oscurati per non capire dove si va, consegnare il telefonino e ogni altra apparecchiatura digitale, passare attraverso un metal detector. Pesanti chiavi aprono ser-rature di cancelli d’acciaio: un sistema antiquato, ma preferito a codici elettronici più facil-mente scassinabili dagli hacker. C’è ancora una barriera da superare: il funzionario incari-cato della visita dice una frase in un microfono, un computer riconosce la voce, l’ultima porta si apre. Manca solo che ti mettano un cappuccio in testa. Quando per così dire te lo levano, la visuale ricompensa di ogni restrizione e controllo: uno stanzone pieno di file di lingotti d’oro a perdita d’occhio, perfettamente allineati su scaffali numerati di colore blu, ciascuno leggermente diverso dall’altro, ma tutti con lo stesso peso (circa dodici chilo-grammi) e lo stesso valore (mezzo milione di dollari). Il caveau è immenso, con una ragio-

ne: Londra, diversamente da altre città, giace su una superfice d’argilla. Se i lingot-ti fossero disposti da terra fino al soffitto, il terreno gradualmente cederebbe sotto il lo-ro peso. Perciò ce ne sono al massimo sei uno sull’altro, dall’alto in basso, e serve spa-zio in orizzontale per ospitarne abbastan-za. Da fuori non arriva alcun rumore: le pa-reti sono di cemento armato, a prova di bomba. L’aria sembra immobile. E non c’è alcun odore: QFDVOJB�OPO�PMFU, come diceva-no i latini, ma in senso letterale. Pare di es-sere nel forziere di Paperon de’ Paperoni.

Eretti negli anni Trenta, originariamen-te i sotterranei di Threadneedle street era-no la mensa degli impiegati della Banca d’Inghilterra. Durante la Seconda guerra mondiale, quando Churchill ordinò di tra-sferire le riserve d’oro in Canada nell’even-tualità che Hitler conquistasse anche la Gran Bretagna, furono adibiti a rifugi anti aerei. Da allora queste cripte misteriose (si sussurra che ce ne siano anche al di fuori della City: tre sarebbero sotto la M25, la sterminata autostrada che corre tutto at-torno a Londra) rappresentano una sorta di assicurazione contro le incertezze dell’e-conomia globale. L’oro è l’unità di misura della maggior parte delle transazioni mon-diali. Il suo prezzo è il barometro della fidu-cia dei consumatori. E come fonte d’investi-

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mento rimane in assoluto — è il caso di dire — la più solida: quando sui mercati cresce l’instabilità, le barre gialle diventano l’e-stremo riparo. L’equivalente di infilare i sol-di sotto il materasso, ma su scala parecchio più grande: soltanto nei caveau della banca centrale inglese ci sono 5.134 tonnellate d’oro. E soltanto in un giorno, la compra-vendita dell’oro è un mercato da centoven-ti miliardi di dollari.

Non a caso, in tempi difficili il prezzo dell’oro sale. Le ansie subentrate all’attac-co terroristico all’America dell’11 settem-bre 2001 lo fecero triplicare da 250 a 750 dollari l’oncia entro il 2006. L’anno seguen-te raggiunse per la prima volta i mille dolla-ri, continuando a crescere con il collasso fi-nanziario del 2008. È vero che dopo avere sfiorato i duemila dollari l’oncia (nel 2011), ha perso terreno e in certi momenti ha addirittura dato l’impressione di precipi-tare, ma fra le cause ci sono speculazioni e manovre occulte: come quella della Cina, che secondo gli specialisti non dice il vero sulle proprie riserve per far scendere il valo-re dell’oro e quindi acquistarlo al ribasso. Alcuni esperti, riporta il 'JOBODJBM�5JNFT, sono convinti che Pechino sia più vicina all’ammontare di riserve della Germania (3.400 tonnellate) che alle sue dichiarate 1.658. Come che sia, dall’agosto scorso,

quando si trovava nuovamente a mille dol-lari, l’oro ha ripreso un’ascesa costante, toc-cando 1.250 dollari in marzo e 1.272 dollari nei giorni scorsi.

«L’oro tornerà a brillare», assicura Peter Schiff, capo di un fondo di investimenti. «È matematicamente garantito che cresce-rà», concorda il broker Bill Holter. «Con l’o-ro», spiega, «non devi avere fretta o giudi-carlo a breve termine. Non hai altro da fare che chiudere gli occhi e sapere che il tempo è dalla tua parte». Non tutto l’oro del mon-do, beninteso, viene coniato in lingotti co-me quelli che finiscono nei forzieri sotto la City. Soltanto il 32 per cento dell’oro mon-diale è conservato sotto chiave per conto di governi, banche e investitori istituzionali: un altro 12 per cento viene usato per scopi industriali, per esempio nei circuiti elettro-nici, e più di metà è utilizzato per confezio-nare gioielli. Cina e India sono il più grande mercato per questi ultimi, rappresentando insieme oltre il cinquanta per cento della domanda mondiale: una tendenza recen-te, frutto della prodigiosa crescita economi-ca delle due potenze emergenti, considera-to che nel 2000 occupavano appena il dieci per cento del mercato nel settore. Ma non c’è gioiello che possa dare il senso di sicu-rezza di un lingotto: basti pensare che una sola di queste barre vale come il prezzo me-

dio di una casa a Londra. E a testimoniare il boom dell’oro contri-

buisce la recente apertura della prima “boutique” londinese di lingotti, dove chiunque può portarsene uno a casa — a condizione di avere una cassaforte altret-tanto sicura dei caveau della Bank of En-gland e una buona carta di credito (possibil-mente “gold”). Il negozio si chiama Sharp Pixley ed è appropriatamente situato a St. James, il quartiere più aristocratico della metropoli, fra due celebri club privati per gentiluomini, White’s e Boodle’s, in un edi-ficio di proprietà di lord Sugar, star della trasmissione televisiva 5IF � BQQSFOUJDF �(-�BQQSFOEJTUB), versione inglese di quella americana condotta anni fa da Donald Trump. All’interno, l’atmosfera è appunto quella di un gentlemen’s club: mogano, ot-tone, enormi candelabri. I lingotti in vendi-ta sono più piccoli di quelli custoditi nel sot-tosuolo della City, ma non tanto piccoli: ce n’è uno da un chilogrammo che costa 28mi-la sterline (37mila euro). E se più che un in-vestimento vi basta portare a casa un sou-venir, Sharp vende anche lingotti da un grammo: alla più modica cifra di 33 sterli-ne (44 euro). Esibendolo al ritorno in pa-tria, potrete comunque sostenere che a Londra le strade sono lastricate d’oro.

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.ETAFORA, SINEDDOCHE, zeugma, ipallage, il rarissimo cleuasmo... Figure e tropi retori-ci, certo. Nomi per lo più astrusi, resi a vol-te ancor più opachi da dubbi tenaci sugli accenti tonici: metonìmia o metonimìa? Ossìmoro o ossimòro? Definizioni risalenti a trattati antichissimi, con differenze tas-sonomiche sottili o meno sottili fra autore e autore da far disperare gli studenti uni-versitari che devono passare il relativo esa-me con un professore di pignolo sadismo.

Non che la materia sia priva di fascino, anzi. È facile a ridursi a un mucchio di segatura erudita, ma nella sostanza è il risul-tato del primo sguardo che l’umanità ha gettato su uno dei fenomeni più irriduci-bili, e costitutivi, del suo linguaggio: l’ambiguità. Ah, se ogni parola avesse signifi-cato univoco, e fissato una volta per tutte! È il sogno inseguito dagli ingegneri dei software e degli algoritmi, alla ricerca del Sacro Graal del web semantico, della traduzione automatica, insomma della macchina che parla e intende. Ma invece esistono le metafore e le metonimie ed esiste tutto il resto. Uno studioso i cui libri non rientrano nelle bibliografie degli informatici, Gérard Genette, ha detto che fra il senso letterale (la fiamma del fuoco) e il senso esteso (la fiamma dell’amore) di una espressione linguistica si apre uno spazio. La «figura» (in questo caso, la me-

tafora) è la forma di quello spazio. La vera macchina è la lingua, e ha trazione umana: so-spinta dalla nostra immaginazione apre a ogni momento nuovi spazi. È perfettamente illusorio pensare a un linguaggio fatto solo di sensi propri e letterali. Senza le figure retori-che non sarebbe impossibile la poesia: sareb-be impossibile direttamente la lingua.

Verso la metà del secolo scorso, la retorica ha conosciuto una nuova fioritura, grazie a studiosi come lo stesso Genette, Roland Bar-thes e la coppia Chaïm Perelman e Lucie Ol-brechts-Tyteca, il cui 5SBUUBUP�EFMM�BSHPNFO�UB[JPOF uscì in traduzione italiana (Einaudi, 1976) con una prefazione di Norberto Bob-bio. Si scopriva allora quanto la retorica, tenu-ta fino a quel momento come disciplina polve-rosa e vana, spiegasse del discorso politico, di quello giuridico, di quello dei mass-media, di quello pubblicitario — oltre che di quello let-terario e artistico. Da Aristotele, Cicerone e Quintiliano nozioni come “metafora” e “meto-nimia” si spostavano ai saggi linguistici di Ro-man Jakobson e a quelli semiotici di Umberto Eco, per arrivare sino all’ermeneutica di Paul Ricoeur e alla psicoanalisi di Jacques Lacan. Ma certe tendenze del pensiero a volte dege-nerano in moda.

Poteva, la neoretorica, produrre una neo-scolastica? Beh, non si può dire che non ci ab-bia provato. I nuovi manuali di letteratura per i licei, e a volte anche quelli per le medie inferiori, ritradussero le principali figure re-toriche in certi famigerati specchietti, utili per l’”analisi del testo”. Studenti attoniti si ri-

trovarono costretti a individuare, sottolineare e magari commentare zeugmi car-ducciani, sinestesie dannunziane, ipallagi foscoliane. Ne ricavarono l’incancellabi-le impressione che lo studio della letteratura consista nel tramutare testi poten-zialmente piacevoli, anche se scritti magari in un italiano non proprio contempo-raneo, in labirinti popolati da mostri forniti di nomi da creature mitologiche.

Appare quindi ardito, se non proprio bizzarro, il libretto con cui le colte edizioni Quodlibet hanno deciso di inaugurare assieme alla libreria Ottimomassimo una collana di libri per ragazzi («Ragazzini»). Il libro si intitola�$IF�GJHVSB�. L’autrice Cecilia Campironi ha compilato, e illustrato (con figure «vere e proprie»: disegni) un piccolo catalogo di figure retoriche, dalla litote alla parafrasi. I mostri mitologi-ci della retorica scolastica si travestono da personaggetti eccentrici. C’è il signor Litote che ha sempre il torcicollo per quanto scuote la testa a furia di negare il con-trario di quel che vuol dire: «non mi fa impazzire» quando qualcosa non gli va, e co-sì via. Lo zio Cacofemismo usa volgarità quando vuole essere gentile, e di suo figlio dice: «Quel delinquente è sempre il primo della classe». Ai figli, invece, il mago Os-simoro dice «Correte piano!» mentre Johnny Zeugma dichiara «Mi mangio un pa-nino e un bel succo».

Non si può essere davvero certi che l’esperimento riesca a ritrasformare la zucca della retorica scolastica in una comoda e favolosa carrozza su cui compiere viaggi incantati nei territori letterari. Ma certo $IF�GJHVSB��ha almeno il merito di aver rivelato l’anima vera di questi attrezzi da anatomista filologico — che in ma-no a ragazzini non possono che restare inerti. È l’anima giocosa della lingua che sposta sillabe e concetti, mette qualcosa dove non dovrebbe stare, trova una fiam-ma nell’amore, dona dita rosate all’aurora, ci fa vedere il mondo come non è, e co-me, eppure, è.

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4TIAMO AMMAZZANDO Umberto Sa-ba. Con la stessa precisa, impie-tosa indolenza con cui abbiamo operato su Leopardi, Ungaretti e Pascoli, stamattina in classe

ci accaniamo sul lavoro di Saba, su quell’A-mai che pare scritto in una lingua che que-sti tredicenni svogliati non conoscono.

Amai trite parole che non uno / osava. All’ultimo banco Gianluca Polito, occhi

aperti e sguardo fisso nel vuoto, dorme. — Polito — lo sveglio: si è perso l’enjam-

bement. Pur di mettermi a tacere, afferra la matita e finge di setacciare la pagina per un po’ prima di alzare le spalle, sconfitto. Ormai gli è scappato. Pazienza.

M’incantò la rima fiore / amore, la più antica difficile del mondo.

— C’è un motivo se questa emme ritor-na, non trovate?

Non trovano. Fissano la poesia un po’ stupiti per l’originalità di questa tortura: lo spargimento di parole casuali su carta da rimettere in ordine (soggetto, verbo e complemento); la ripetizione di lettere, ri-me, parole da evidenziare; e poi ossimori, antitesi, climax, malattie che vanno prese e non evitate. Bel modo di passare la matti-na e la vita.

Sentono qualcosa di insidioso nello sfor-zo fatto per capire cosa voglia dire il poeta. Una fatica così immane, pensano, non può essere mai piacevole, sensata, bella. Io so che può esserlo invece, ma non ho ancora le prove. Le cerco di verso in verso.

Amai la verità che giace al fondo.Li invito a cerchiare il verbo perché ripe-

te amore e perché è passato remoto, il tem-po delle cose sempre esistite. Loro eseguo-no, pazienti. Qualcuno ricorda come il par-ticipio passato di Ungaretti raccontava quelle perdute e morte, il gerundio di Leo-pardi quelle presenti e vive. Polito si sten-de sul banco, tormenta un compagno, chie-de che ora è. Lo ignoro.

— Ma qual è la verità che giace al fondo? Loro mi guardano incerti. Non sanno di

saperlo: cercano la risposta nelle note co-me gli abbiamo insegnato. Allora mi viene in mente Polito due anni fa: prima lezione di poesia e il suo sguardo annoiato, perso. — A che serve? — aveva chiesto.

A niente, volevo rispondere, per questo la facciamo. Invece l’ho fatto stare zitto e abbiamo cominciato gli esercizi di scrittu-ra creativa sulle figure retoriche, la scuola mascherata da gioco. Hanno scritto Rosso come per dieci volte sul quaderno inven-tando similitudini a partire da un’anafora. Quando Polito ha letto il suo Rosso come il sangue di dieci animali diversi spappolati sull’asfalto dalla Seicento del cugino, ab-biamo riso e ci siamo sentiti un po’ felici.

Amo te che mi ascolti e la mia buona / carta lasciata alla fine del mio gioco.

Adesso finiamo di leggere e non siamo più felici o più tristi. E quindi a che serve? Mi chiedo, tanto non mi sente nessuno, mentre segnalo un altro enjambement, (non è lancinante la separazione tra agget-tivo e nome?) e l’allitterazione di una voca-le.

A che serve? Mi sussurra ancora Polito all’orecchio e allora la smetto e chiedo a tutti un verso, uno solo, quello che li ha toc-cati. Ci mettono qualche minuto a sceglie-re quello giusto: scardinano le strofe, lo strappano al resto, poi, uno per volta, lo leggono e così la poesia, rimescolata, risuo-na nella classe come una cosa nuova, un ar-rangiamento, un’improvvisazione, una presa di possesso. Così, prima ancora di ca-pire perché, scoprono che un verso appar-tiene a tutti.

O quasi. — E tu hai scelto, Polito?Lui guarda me, la poesia. Stringe gli oc-

chi. — Amo te che mi ascolti — dice.

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ROMA

/EL 1979, DOPO QUATTRO ALBUM monu-mentali e un singolo prepotentemen-te entrato nell’albo d’oro del pop (#F�DBVTF�UIF�/JHIU), Patti Smith scompa-re per dieci anni dalle scene. La poetes-sa punk — cult singer in America, eroi-na in Europa, musa di artisti come Bo-no e Michael Stipe — si dilegua nel Mi-chigan a far la casalinga: moglie di un vate protopunk (Fred “Sonic” Smith degli MC5), madre di due figli. Quan-do riappare, precocemente vedova, è

un’artista libera, poetessa, scrittrice e rockeuse senza confini. .�5SBJO, ora in uscita anche in Italia, è il libro di memorie che fa seguito all’acclamato +VTU�LJET�(2010), in cui raccontava l’iniziazione artisti-ca nella New York dei primi anni Settanta e la straordinaria complici-tà sentimentale e artistica con il fotografo Robert Mapplethorpe.

Compirà settant’anni a dicembre, un’età ingombrante per il rock’n’roll. Non per lei.«Non ho mai ragionato in termini di carriera. Ho pensato alla vita

e al lavoro. Meglio, ho cercato di conciliare vita e lavoro. Ora sono se-rena, i miei figli sono cresciuti e ho ancora parecchi progetti in cantie-re, un libro appena uscito e uno che sto scrivendo. A questa età sei co-stretta a fare delle scelte. E ci mancherebbe altro che la carriera sia una priorità».

Scrittrice e poetessa: ha cominciato a farlo fin dagli esordi. Consi-dera il successo di “Just Kids” e di “M Train” il coronamento di un sogno che la musica non è riuscita a realizzare?«Sì, perché è quel che volevo essere da bambina. Per questo, a co-

sto di sacrificare la musica, per tutta la vita ho continuato a scrivere, a studiare, a leggere. Le mie canzoni nascono dalle parole, dalle pri-me poesie. La scrittura è stata una disciplina quotidiana».

La prima volta che c’incontrammo, nel 1977, raccontò delle visio-ni che aveva da adolescente, quando era affetta da quelle terribili febbri reumatiche e l’immagine di Rimbaud le galleggiava davan-ti agli occhi insieme al fiume di parole in parte finite nell’album “Horses”, uno dei più influenti della storia del rock. Fu quello il suo esordio letterario?«All’epoca non ero un granché come poetessa. Non sono stata né

la prima né l’ultima a scrivere poesiole a quell’età. La verità è che non saprei indicare una data d’inizio, scrivevo e scrivevo, come oggi scri-vo e scrivo: i miei sogni, il quotidiano, anche quando non è straordina-rio, anche quando ha il tono di un tedioso diario».

Era consapevole, quando arrivò a New York, che stava per inizia-re un percorso che l’avrebbe catapultata nel mondo dell’arte?«Sì, anche se arrivai in città per motivi molto più pratici: sbarcare

il lunario. Sapevo però che volevo dedicarmi a quel che stavo studian-do, per questo scelsi Manhattan e un’area precisa, il Village, dov’era in atto una rivoluzione culturale. Volevo entrare in contatto con quel mondo, non importa se per riuscirci dovevo fare la cameriera o la commessa in un negozio di libri, dove di nascosto dormivo perché non potevo permettermi una camera in affitto. Neanche mi sfiorava l’idea del successo, volevo consegnarmi al mondo dell’arte. Non era difficile nella New York dell’epoca, una città povera, sull’orlo della bancarotta, tutt’altro che costosa, smisuratamente stimolante e creativa».

L’euforia di quegli anni, magistralmente raccontata in “Just kids”, ha trasformato, fatto insolito, un’autobiografia in un caso letterario. Più romanzo che memoir.«Questo è il mio obiettivo, raccontarmi come in una fiction, non

riuscirei a descrivere scientificamente le mie esperienze. È il più grande complimento che abbia ricevuto: un’autobiografia all’altez-za di un libro di fiabe o di un romanzo russo — il mio modo di trascina-re il lettore dentro la storia, evitando la fredda cronologia degli even-ti. Alla fine è una storia d’amore e d’amicizia strettamente connessa col mondo dell’arte. Ci sono sentimenti senza tempo in +VTU�LJET».

Che emozioni voleva suscitare scrivendo “M Train”, che nelle pri-me pagine definisce “uno scritto sul nulla”?«+VTU�LJET, una promessa fatta a Robert (Mapplethorpe) prima

della morte, è stato un libro che ha richiesto uno sforzo enorme, emo-tivo e di memoria. Questa volta volevo scrivere una storia meno impe-gnativa, qualcosa che nasce una mattina per caso senza pensare a uno sviluppo, tantomeno a un finale. Per questo l’ho chiamato .�5SBJO, che sta per Mind’s Train, un treno della mente che corre sulle rotaie della memoria senza una direzione precisa».

Come cambiò la sua vita quando incontrò e sposò Fred “Sonic” Smith?«Avevo trent’anni vissuti intensamente. Gli anni del rock&roll era-

no stati meravigliosi ma anche logoranti e oltretutto non mi sentivo pienamente realizzata come artista. Non c’era più tempo per la soli-tudine, per la scrittura, per la poesia. Tantomeno per l’amore. Quan-do incontrai Fred l’intesa fu così forte e perfetta che eclissò d’un col-po tutto il resto. Volevo progredire, fare di più, fare cose diverse. Quando ami qualcuno smetti di sentirti al centro dell’universo, poi di-ventano i figli la tua priorità. Anche un artista deve diventare più di-sciplinato e responsabile. In pochi anni mi sono innamorata, sono di-

ventata madre, infine vedova. Come non cambiare e crescere dopo tre eventi del genere?».

“M Train” è un libro distensivo, ma anche carico di lutto e solitudi-ne. Sembra quasi un miracolo che sia riuscita a scriverne una buo-na parte in isolamento nel bar sotto casa e in altri caffè in giro per il mondo, considerando la sua popolarità.«Non ho mai vissuto come una celebrity, non ho mai avuto il teno-

re di vita di una rockstar, vivo in semplicità e ho un’età che incute ri-spetto. Mi piace parlare con la gente, ma se devo lavorare divento sco-stante».

Quanto hanno contribuito quegli anni lontana dal palcoscenico a formare l’abile scrittrice che è diventata?«Decisi di ritirarmi dopo i due megaconcerti di Firenze e Bologna.

La vita con Fred fu il paradiso che sognavo. Nonostante gli impegni

domestici riuscivo a ricavarmi del tempo per scrivere, senza pensare alla pubblicazione o a eventuali editori. Non ci sarebbe stato +VTU�LJET�se non avessi migliorato le mie qualità narrative in quegli anni a Detroit».

Ha perso suo marito e suo fratello in rapida successione, come ha elaborato il lutto?«Non puoi permetterti di arrenderti al dolore quando hai due bam-

bini in casa, una di sei uno di dodici anni, e un conto in banca che lan-gue. Ero devastata, ma ho dovuto mettermi l’elmetto e tornare in guerra. Quel che ho fatto è lavorare per garantire loro una vita stabi-le e a me la libertà di agire da adulta in estrema libertà».

Rimpianti?«Uno solo. Non essere mai stata in Europa con Fred».

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2UATTRO VENTILATORI da soffitto ruotano sulla mia testa. Il Café ’Ino è vuoto, a parte il cuoco messicano e un ragazzo che si chiama Zak, che porta la mia solita ordinazione: toa-st integrale, un piattino di olio d’oliva e caffè nero. Mi ran-nicchio nel mio angolo, con ancora addosso cappotto e ber-

retto di lana. Le nove del mattino. Sono la prima cliente. Bedford Street mentre la città si sveglia. Il mio tavolo, con la macchina del caffè da un lato e la vetrina dall’altro, mi dà un senso di riservatezza, dentro al qua-le mi ritiro in un’atmosfera tutta mia. La fine di novembre. Il piccolo caf-fè è gelido. Ma allora perché i ventilatori sono in funzione? Forse se li guardo abbastanza a lungo anche la mia mente si metterà a girare./PO�Ò�DPTÖ�GBDJMF�TDSJWFSF�EFM�OVMMB�

Nel 1973 mi trasferii in un’ariosa stanza intonacata con cucinino in quella stessa via, a due isolati dal Caffè Dante. La sera potevo sgattaiola-re dalla finestra davanti, sedermi sulla scala antincendio e osservare quello che succedeva al Kettle of Fish, uno dei bar frequentati da Ke-rouac. All’angolo con Bleecker Street c’era il chioschetto di un giovane marocchino che vendeva involtini fatti sul momento, acciughe sotto sa-le e mazzetti di menta fresca. La mattina mi svegliavo presto e facevo provviste. Mettevo a bollire l’acqua, la versavo nella teiera piena di men-ta e passavo i pomeriggi a bere tè, fumare pezzetti di hashish e leggere le storie di Mohammed Mrabet e Isabelle Eberhardt.

Due anni prima, a Detroit, avevo conosciuto il musicista Fred Sonic Smith. Era stato un incontro inaspettato che aveva cambiato lentamen-te il corso della mia vita. Il desiderio che provavo per lui aveva permeato tutto: le mie poesie, le mie canzoni, il mio cuore. A fatica avevamo continuato a con-durre esistenze parallele tra New York e De-troit: brevi incontri che finivano sempre con separazioni strazianti. Proprio mentre sta-vo decidendo dove installare un lavello e la macchina del caffè, Fred mi implorò di anda-re a vivere con lui a Detroit. Niente sembra-va più vitale che raggiungere il mio amore e sposarlo, dando l’addio a New York e ai miei progetti laggiù. Raccolsi le mie cose più pre-ziose e mi lasciai tutto il resto alle spalle. Ma non m’importava.

Mancava qualche mese al primo anniver-sario di matrimonio quando Fred mi disse che se gli promettevo di dargli un figlio mi avrebbe portato ovunque volessi. Senza esi-tare scelsi Saint-Laurent-du-Maroni, una cit-tà di frontiera nel Nordovest della Guyana francese, sulla costa atlantica settentriona-le del Sud America.

Nel %JBSJP�EFM�MBESP Jean Genet ha scritto con devota empatia dei detenuti là incarcerati e di Saint-Laurent come terreno consacrato. Poiché era improbabile che Genet — ormai settan-tenne e, a quanto si diceva, cagionevole di salute — potesse recarsi a Saint-Laurent con le proprie forze, pensai di portargli io terra e sassi. Fred, spesso divertito dalle mie idee donchisciottesche, non prese alla leggera la missione. Accettò senza discutere. Scrissi a William Burrou-ghs. Amico di Genet e dotato della sua stessa sensibilità romantica, pro-mise che a tempo debito mi avrebbe aiutata a fargli avere i sassi. Per pre-pararci al viaggio, io e Fred passavamo le giornate alla Detroit Public Li-brary a studiare la storia del Suriname e della Guyana Francese. Non ve-devamo l’ora di esplorare un posto dove nessuno dei due era mai stato. Fred acquistò mappe, vestiti color kaki, traveller’s cheque e una busso-la; si tagliò i lunghi capelli sottili; e comprò un dizionario francese. Se ab-bracciava un progetto, allora si preparava per bene. Tuttavia non lesse Genet. Lo lasciò a me.

L’Hotel Galibi era spartano ma confortevole. Sulla toeletta c’erano una bottiglia di cognac annacquato e due tazze di plastica. Stremati ci addormentammo, malgrado il nuovo picchiettare della pioggia sul tet-to di lamiera ondulata. Al risveglio ci attendevano scodelle di caffè. Il so-le della mattina era forte. Misi ad asciugare i nostri vestiti nel patio. C’e-ra un piccolo camaleonte mimetizzato nella camicia kaki di Fred. Appog-giai su un tavolinetto tutto quello che avevamo in tasca. Una mappa af-flosciata, scontrini bagnati, frutta smembrata, gli onnipresenti plettri di Fred. Verso mezzogiorno un muratore ci accompagnò in macchina ma le tartarughe stavano deponendo le uova. Qualche pollo ruspante razzolava nella polvere e c’era una bicicletta capovolta ma non sembra-va ci fosse nessuno in giro. Il nostro autista entrò con noi da un basso ar-co in pietra e poi se la squagliò. Il recinto carcerario aveva l’aspetto di una città prima fiorente e poi tragicamente defunta: una città che ave-va corrotto le anime e traghettato i loro involucri sull’Isola del Diavolo. Io e Fred ci muovevamo in silenzio alchemico, attenti a non disturbare gli spiriti regnanti.

Scavai pochi centimetri per cercare i sassi che potevano essere stati calpestati dai piedi callosi dei detenuti o dalle suole dei pesanti scarponi calzati dalle guardie. Ne scelsi con cura tre e li misi in una grande scatola di fiammiferi Gitanes, lasciando intatti i pezzetti di terra che penzolava-no. Fred mi diede il suo fazzoletto per pulirmi dalla terra e poi lo scrollò ricavandone un sacchetto per la scatola. Me lo porse: il primo passo in di-rezione delle mani di Genet.

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6NA BATTERIA PER AMICA. NON È ROBA PER MUSICISTI, la sequenza di botti-celle curate come bambini cagionevoli. Piuttosto, la dimora protetta di un liquido che entra nel primo vasello come semplice mosto, per uscire dall’ultimo — dopo un riposo lungo, lunghissimo — prezioso co-me l’oro. Il tempo delle fragole è il suo tempo: basta una ciotola di frut-ti coltivati senza chimica, al meglio della maturazione, e un filo imper-cettibile di questo straordinario sciroppo d’uva invecchiato, per offri-re un dessert di rara eleganza e golosità.

La storia dell’aceto tradizionale balsamico è un affresco di facce, luoghi e tavole opulente, legati nei secoli da un gioiello gastronomico celato ai più. Non per snobismo, né per voglia di anonimato. A fare la differenza rispetto alle superstar dell’alta cucina — caviale e tartufo

bianco su tutti — una certa natura scontrosa, che rende il suo racconto difficile. Come spiegare che un aceto può costare quanto il Barolo più pregiato?

Le parole per dirlo sono facili, all’inizio. Si parte da uve doc delle province di Modena e Reggio Emilia, rivali millenarie perfino nel disciplinare. Se ne fa mosto, cuocendolo con la pazienza delle donne di lì. Lo si lascia decantare e raffreddare, perché riprenda equilibrio e vigore.

Solo a quel punto, come in uno spartito scritto da mani antiche, arriva il momento della batte-ria. Che per tradizione è composta da una serie di botti — da cinque a sette — dalla più grande alla più piccina e di dimensioni più o meno ovoidali, forgiate da artigiani sapienti e pignoli utilizzando legni diversi, pregiati. Diversi perché ogni le-gno regala al mosto dormiente il meglio di sé: il castagno i suoi tannini, che colorano e preserva-no, il ciliegio la morbida dolcezza, il rovere il de-licato profumo della vaniglia (come ben sanno i produttori di vini da invecchiamento), il gelso quel respiro d’ossigeno che aiuta l’evoluzione, il ginepro l’incanto delle essenze resinose.

Qui le parole si fanno più complesse. Occorre entrare nel merito di rincalzi e travasi, ovvero dell’intervento dei maestri del balsamico, che rimediano al calo naturale del mosto, figlio dell’evaporazione, ripareggiando il livello del vasello più piccino con l’aceto di quello prece-dente e così via, risalendo fino all’ultimo, rab-boccato con il mosto di base. Il tutto, cadenzato secondo il ritmo naturale delle stagioni e degli umori del clima, visto che le batterie sono rigo-rosamente custodite nei sottotetti di case se-gnate dal tempo.

Una preparazione che non ha mai dismesso i suoi rituali, misto stupefacente di tecnica e an-tropologia. Così, a dispetto delle produzioni a tempi iper compressi del Terzo millennio e del-le brame dell’agroindustria, che cerca di carpi-re quote di mercato con imitazioni sbiadite, a Modena e Reggio Emilia a gareggiare per il tito-lo di aceto migliore — dal Palio Del Balsamico Tradizionale di Modena di Spilamberto al Palio Matildico — sono le famiglie, gelosi custodi di mosti e batterie, con migliaia di assaggi e mar-chio a fuoco sulla batteria del vincitore.

Se il tradizionale balsamico Dop vi affascina, non separate mai i due aggettivi (il balsamico Igp è tutt’altra cosa), e utilizzatelo come Mari-lyn Monroe con lo Chanel n.5: poche gocce per conquistare l’amato bene. A tavola, natural-mente.

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$ uocere per 40’ le patate, a fine cottura pelarle, schiacciarle e im-pastarle con la farina. Tagliare pezzi di impasto e formare picco-le sfere schiacciate: ogni gnocco deve pesare 40/50 grammi.

Cuocere in acqua leggermente salata fino a che non vengono a galla, asciugarli, passarli in padella con burro chiarificato o extravergine, ro-solando. Portare il brodo vegetale e le croste di Par-migiano a 70°, aggiungere il Parmigiano grattu-giato e lasciare in infusione un’ora, poi filtrare, mettere a bollire aggiungendo l’amido di mais sciolto in acqua e passare al colino. Cuocere qual-che minuto le punte d’asparago e raffredda-re. Nel piatto al centro due cucchiai di sal-sa di Parmigiano, gli gnocchi e le punte di asparago passate in padella. Irrorare con il Balsamico Tradizionale 12 anni e guar-nire con foglioline di barbabietola rossa.

INGREDIENTI:

1 KG. DI PATATE PER GNOCCHI; 300 G. DI FARINA PER PASTA

1/2 LT DI BRODO VEGETALE ALLE CROSTE DI PARMIGIANO REGGIANO

200 G. DI PARMIGIANO GRATTUGIATO; 40 G.DI SALE FINO

45 G. DI AMIDO DI MAIS; 1 MULINATA DI PEPE BIANCO

1 GRATTATA DI NOCE MOSCATA; 18 PUNTE DI ASPARAGI

BALSAMICO TRADIZIONALE 12 ANNI; FOGLIOLINE DI BARBABIETOLA ROSSA

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AA

µCATTIVO COME l’aceto, si

diceva di chi era

scorbutico e violento. Nelle

terre modenesi e reggiane

che scendevano verso il Po

l’aceto non sempre era amato. A volte

diventava un incubo. Stappavi le

bottiglie del nuovo lambrusco e

scoprivi che invece di schiuma e

profumo usciva un odore acre. Certo,

non si buttava via nulla. Il vino acido si

aggiungeva nelle damigiane con la

“madre” e l’aceto finale serviva a

condire i radicchi o a mettere in

carpione pesce gatto e gobbi pescati in

risaia. Anche nella Bassa si sapeva che,

dall’altra parte della via Emilia, nelle

terre ormai vicine alle colline, l’aceto

era un’altra cosa. Se ne sussurrava il

nome, Aceto Balsamico. Era una

leggenda. I pochi fortunati che

l’avevano assaggiato raccontavano che

con tre gocce si condiva un’insalata per

l’intera famiglia, che un profumo così

non si era mai sentito. Roba da ricchi,

però. Bisognava aspettare almeno

dodici anni, prima di assaggiare questa

squisitezza, che passava da una botte

all’altra — sempre più piccola — per

essere poi raccolta in un’ampolla non

più grande di quelle usate per il vino

della messa. Vivevano, le botti, nei solai

delle ville dei signori, con il caldo

dell’estate e il gelo dell’inverno. Roba

da re. Già nel 1046 Enrico III, duca di

Franconia, in viaggio verso Roma per

essere incoronato imperatore, chiese a

Bonifacio III di Canossa di «quell’aceto

tanto lodato (che) aveva udito colà

farsi perfettissimo».

Poi, una ventina di anni fa, il grande

salto. Dalla leggenda al supermercato il

passo è stato fin troppo veloce. L’Aceto

Balsamico è così apparso sugli scaffali

di tutta Italia e di mezza Europa. Dai

solai delle ville di campagna ai

capannoni industriali. “Aceto

Balsamico” e basta per la produzione

destinata alle tavole (e ai portafogli) di

quasi tutti. Aceto Balsamico

Tradizionale (per l’esattezza: Aceto

balsamico tradizionale di Modena Dop

e Aceto balsamico tradizionale di

Reggio Emilia Dop) per chi non ha

paura di spendere: dagli 80 ai 130 euro

per un bottiglietta da un decimo di

litro. E c’è un mercato per amatori che

ricorda l’antica leggenda: nel 2007

un’ampolla da 100 cl è stata venduta a

1.800 euro.

Per il Balsamico, ormai, c’è un solo

pericolo: diventare come la rucola negli

anni Ottanta. Entrare in ogni piatto e in

ogni terrina. “Ravioli, asparagi,

balsamico”, “balsamico e formaggio di

fossa”. C’è anche chi sostiene che il

balsamico fa bene alla pelle. Così si

uccide un mito. Come è successo al

culatello, che trent’anni fa costava uno

stipendio e adesso fa compagnia al

balsamico in tutti i supermercati.

Ambedue aspettano, invano, il

passaggio di un duca in viaggio verso la

corona di imperatore.

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TORINO

/ON C’È NESSUNO, MA NON È PROPRIO VUOTA la poltrona dell’hotel NH Lingotto accanto alle due che occupiamo io e Michael Cun-ningham. Sessantatré anni portati non come uno scrittore, ma come una rockstar ingaggiata da Hollywood per recitare il ruolo di uno scrittore. Nerovestito con tocco di esistenzialismo

francese, orecchino minimalista, sigaretta Natural American Spirit in ta-bacco organico, barba di un paio di giorni e ciuffo glamour sopra due occhi penetranti nonostante sia in viaggio da una ventina d’ore e abbia ancora il fuso orario di New York addosso. Sì, ma la poltrona vuota e al tempo stesso occupata? A risolvere il mistero di questa presenza invisibile sarà proprio lo scrittore americano, Premio Pulitzer nel 1999 con -F�0SF (da cui è stato tratto il film con Nicole Kidman, Meryl Streep e Julianne Moore), e autore di culto, venuto al Salone del Libro di Torino per presentare 6O�DJHOP�TFMWBUJDP (appena pubblicato dalla nuova casa editrice, La Nave di Teseo), originalissima reinterpretazione in chiave dark e trasgressiva delle favole più famose. Dove può capita-re, per esempio, che Biancaneve nel suo menage di coppia si offra di reinscenare ogni volta, trattenendo il respiro, la sua resurrezione per venire incontro a un certo feticismo necrofi-lo del principe.

Insomma un autore che non ama gli stereotipi, com-

preso il classico cliché dello scrittore introverso. «Non sono mai stato timido. Ogni tanto qualcuno mi dice: “Ti immaginavo più ‘professoriale’, più serio di così”. Questo, col tempo, mi ha convinto di una cosa: chi manifesta delle aspettative ver-so di me può prenderle e ficcarsele dove non bat-te il sole!».

Forse questo spirito ribelle di Cunningham ha una radice freudiana. «Mia madre si chiama-va Dorothy, faceva l’agente immobiliare e ha vissuto una vita che era troppo piccola per lei. La casalinga frustrata di -F�0SF è lei. Come molte donne, non era portata per essere soltanto una moglie e una madre. Era più creativa di così. Era

più intelligente di così. Ma non riusciva a tradurre in realtà questo deside-rio. Così divenne ossessiva. Intensa. Era, soprattutto, in trappola». E il pic-colo Michael lo percepiva. «Se da bambino vedi i tuoi genitori infelici, so-spetti che ciò abbia a che fare con te. Però vediamola così: se riesci ad accu-mulare abbastanza senso di colpa da piccolo, avrai di che scrivere per tut-to il resto della vita! Quindi: “Grazie mamma per avermi fatto sentire così in colpa e avermi incasinato così tanto come persona da farmi diventare uno scrittore”».

Dorothy, scomparsa nel 2001, ha fatto in tempo a vedere il Pulitzer del fi-glio. Ma il suo orgoglio per Michael è sempre stato velato da ombre. «I miei genitori erano scioccati di vedere quanto a fondo io mostrassi di conoscere l’infelicità umana. Pensavano di aver commesso qualche errore nel crescer-mi, perché altrimenti come avrei potuto scrivere di quelle cose terribili che accadono alle persone?» spiega Cunningham. «Chi scrive si mette in piaz-za. Se un figlio diventa avvocato, magari prova altrettanto dolore, ma alme-no i genitori non lo scoprono». Chi scrive si espone anche alle critiche. «Ef-fetti collaterali del successo: ogni tanto qualcuno si sente in diritto di esse-re molto crudele con te. Magari uno ti ferma per strada e ti dice che un tuo libro non gli è piaciuto. Così, a freddo. “Beh, fottiti”, penso. “Non avrai i tuoi soldi indietro, amico”». Ecco, su questo Cunningham è un po’ suscettibile. «Cerco di stare lontano dalle persone negative. Non leggo mai nemmeno le recensioni dei miei libri, figurati». Il che è strano, considerando che è accla-mato dai critici, anche dai più esigenti come Michiko Kakutani del /FX�:PSL�5JNFT. «L’ultimo è l’unico che lei abbia davvero apprezzato: in realtà in passato è stata molto cattiva con me».

Certo che — gli faccio notare — sembra piuttosto informato per essere uno che dice di non leggere mai le recensioni… «Ho degli amici che le leggo-no per me e mi fanno rapporto» ride Cunningham, cambiando posizione sulla poltrona. «Così non cado delle nuvole quando qualche giornalista toc-ca questo tema». Alcuni di questi amici sono ancora quelli, eterni, della hi-gh school di Pasadena. «Ero il meno attraente e spigliato del gruppo: tutti belli e intelligenti. Sì, ero attratto da loro, anche se non glielo confessai mai. Credo comunque che in qualche modo loro avessero capito. Ma, al tempo, rivelarmi gay a scuola non mi sembrava un’opzione percorribile». Poi l’im-previsto. «Mi misi insieme a una ragazza. Non so come, ma ciò mi fece di-ventare più alto di una decina di centimetri: il mio corpo e la mia pelle cam-biarono in meglio. Fu un’evoluzione forzata, perché questa ragazza — Vic-ky — era molto al di sopra del mio “pianeta”: era la reginetta della scuola».

Quella di Michael fu una felice e spensierata confusione creativa. Fu li-bertà. «La mia omosessualità è sempre stata parte di me. E allo stesso tem-po mi piacevano le ragazze. Quando facevo l’amore con Vicky, non facevo per finta. La nostra sessualità ha molte gradazioni, come i colori dello spet-tro visibile. Io mi sono considerato bisessuale per molto tempo, ma poi ho semplicemente constatato che mi capitava di uscire sempre più spesso con uomini che con donne. Mi attraeva di più il mistero maschile. E ormai sono venticinque anni che sto con lo stesso uomo, Ken». Venticinque è un

numero magico per Michael, che proprio a venticinque anni si decise a fare il “coming out” in famiglia. «Per loro fu una sorpresa. Non la presero bene. I rapporti con mio padre per un paio d’anni si fecero più tesi. Credo fossero soprattutto preoccupati che la mia condizione potesse rendermi la vita più difficile, magari per la cattiveria o la stupidità altrui. L’atteggiamento di mio padre era: “Cosa abbiamo sbagliato con te?”. “Al contrario, siete stati un successo”, gli risposi un giorno. “Perché mi avete messo in grado di fare mia questa cosa e di viverla bene, apertamente, liberamente. Io non mi

odio, anche se qualcuno pensa che dovrei. Sto benissimo con me stesso e questo significa che avete fatto un buon lavoro, e che dovreste esser-

ne fieri”». Ma non è il padre di Cunningham l’invisibile presenza sulla poltrona. Forse è Virginia Woolf lo spirito guida di -F�0SF e del-la sua carriera artistica? Se la incontrasse in un viaggio nel tempo, cosa le direbbe? «Non ucciderti. Non è necessario. È solo un brutto giorno».

E se incontrasse Walt Whitman, il nume poetico di (JPSOJ�NF�NPSBCJMJ? «Gli direi: “Walt, ora ti scoperò perché qualcuno prima o poi deve farlo!”. A quanto si sa, pare che Whitman non fece mai sesso con nessuno. Spero non sia andata così. Credo che avesse la — curiosa — idea che fare sesso potesse compromettere l’idea che lui aveva di se stesso come artista». E se in un viaggio nel tem-po incontrasse il Michael Cunningham quattordicenne? «Gli di-rei: “Preoccupati di meno, godi l’oggi. Tutto andrà bene”. Questo però implica una cosa. Che seduto accanto a me, proprio in que-sto momento, invisibile, ci sia il me stesso ottantenne. Che mi di-ce la stessa cosa: “Goditi questo momento. Non preoccuparti del-la vecchiaia”. Insomma al me stesso quattordicenne direi la stes-sa cosa che il me stesso ottantenne mi sta dicendo proprio ades-so». «Ciao vecchietto» dice Cunningham rivolgendosi alla poltro-na vuota. «Messaggio ricevuto».

L’infanzia difficile (“se da bambino vedi i tuoi genitori infelici, so-

spetti che ciò abbia a che fare con te”), che però riesce a sfruttare

per i suoi romanzi. Nell’adolescenza è il meno spigliato del gruppo

e la sua omosessualità lo fa sentire escluso, finché si mette con la re-

ginetta della scuola: “Non fingevo con lei, la nostra sessualità ha

tante gradazioni”. A venticinque anni finalmente il coming out in

famiglia (“non la presero bene”). Poi il successo, fino al Pulitzer con

“Le ore”. E adesso che è in Italia

per presentare il suo ultimo libro

confessa: “Se in un viaggio a ri-

troso incontrassi me stesso ra-

gazzo, gli direi una sola cosa: Go-

diti l’oggi, tutto andrà bene”

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