3 Agostino e la felicità

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Appunti dal ciclo di incontri "Agostino e le buone domande del vivere", febbraio-aprile 2011.I podcast completi sono scaricabili dal sito www.barbarigo.edu

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24 febbraio 2011 ore 15.00 aula magna del Barbarigo

il mendicante felice - la questione della felicità

con il prof. Giovanni Ponchio

Ouverture Della felicità si parla sempre con imbarazzo. «Nei suoi confronti - diceva T. De Chardin -

siamo sempre propensi ad esitare». Anche nei momenti di luce, in cui ne sfioriamo il mistero, una domanda ci incalza, crudele: che sarà del `dopo'?

Eppure, di qualunque cosa parliamo, in fondo, non parliamo d'altro che di lei: di come l'abbiamo persa, di come la stiamo cercando, di come la sentiamo vicina o lontana, di dove l'abbiamo intravista, di quando l'abbiamo assaggiata. Anche solo una goccia rimane indimenticabile nonostante (o proprio per questo!) un torrente di amaro.

Essa è l'implicito dei nostri discorsi, il sottosuolo dei nostri dialoghi, l'amore profondo ma indicibile che pervade ogni incontro e ogni racconto (come il Marco Polo veneziano, uscito dalla penna di Calvino, parlava sempre - senza nominarla - della patria amata, narrando le meraviglie delle tante città «invisibili»: «Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia»).

La felicità abita insomma, nel suo velarsi e disvelarsi, le pieghe e le insenature della nostra esistenza, prendendola tutta, pur silenziosamente, in ogni sua tensione o aspirazione. La bellezza stessa non trae il proprio fascino dall'essere una promessa di felicità? E l'amore, anche l'amore non è forse inseguito come la patria della felicità?

Sorella dell'infinito, la felicità ci cattura, dunque, mentre ci spiazza e ci inquieta. Forse per questo è possibile parlare senza disagio solo dei suoi dintorni, ovvero di ciò che circonda il fuoco (perché di fuoco si tratta). Anche le terre apparentemente più distanti dal suo alito, anche le situazioni più nemiche del suo ardore restano infatti per noi come comprese e misurate dalla regola e dal metro di questo sogno inespresso e incontenibile che ci portiamo dentro: «introvabile ma irrinunciabile», secondo la parola del poeta.

E così i dintorni della felicità si dilatano nel tempo, nelle spazio e attraversano il corpo, la casa, la città. Come se essa fosse una calamita capace di attrarre a sé la periferia più lontana, anche quella abitata del suo contrario, che di lei inevitabilmente si nutre: l'in-felicità, ovvero il territorio in cui il sogno sembra fare naufragio. Ma tutto questo non accade mai in astratto.

Le relazioni umane sono i dintorni, infatti, nei quali la felicità viene invocata e attesa, cercata e smarrita, in un modo primario, fondativo. Là, cioè, dove il nostro approssimarsi si genera, dove il desiderio si accende. Come le pietre che si strofinano in attesa che scocchi la scintilla, disposte a ferirsi, a lacerarsi anche, se la scintilla non dovesse partire o dovesse spegnersi troppo presto, così le nostre relazioni si sfregano nell'attesa e nella ricerca. Ancora Luzi: «Molte cose sono contro di noi infatti. /Ma è nel fuoco che bisogna ardere».

La relazione è il luogo in cui la felicità mette in scena il proprio dramma. Un dramma come un duello all'ultimo sangue, perché l'incontro con l'altro genera la vita e lambisce la felicità solo quando (e se) attraversa il fuoco dello scontro, del pólemos che di tutte le cose grandi è re e padre. Non si tratta soltanto della lotta per il riconoscimento dell'altro, ma anche del riconoscimento di sé, della propria soggettività e del proprio corpo. In questi dintorni della felicità, i cammini per tes-sere le fila e il racconto della propria identità sono impervi come quelli che portano a vedere il volto dell'altro. O forse (meglio) sono intrecciati: la lotta per vedere sé stessi e quella per vedere l'altro sono due varianti dello stesso travaglio.

Nell'orizzonte della soggettività si parte dal corpo, o meglio, dal respiro. Chi sente il proprio

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respiro rinasce. Ce lo ricorda la storia raccontata da Goodman: «Iniziò a respirare flebilmente la sensazione di sentirsi smarrito. Assaporò l'elisir di sentirsi smarrito: tutto ciò che capita deve essere necessariamente una sorpresa. Egli non poteva più dare senso alle cose per lui essenziali (che non lo avevano mai fatto felice); le sentiva fuggire lontano da sé; eppure non si aggrappò ad esse come un disperato. Invece toccò il suo corpo, si guardò attorno, e sentì `qui sono io e adesso' e non fu preda del panico». Il respiro porta a sé stessi e all'altro: scoprire il proprio respiro significa aprirsi al respiro dell'altro, a quello degli alberi, a quello della vita. La parola costruisce trame relazionali, quando nasce dal mio respiro e raggiunge il respiro dell'altro. Il respiro parla e la parola respira. Anche se in lingue differenti, gli umani si incontrano quando si donano parole piene del loro respiro e capaci di raggiungere le vibrazioni dell'altro. Il punto è accordarsi, trovare il ritmo giusto, perché le parole che vanno e vengono da me all'altro diventino n-ielodia.

Corpo e parola, soggettività e relazioni rimandano sempre al tempo. In questo senso, parlare del colpo e col corpo è una questione musicale, un problema pitagorico di tempo e di tempi.. Perché abitare il corpo significa apprendere il senso del tempo (tempo come ritmo del nutrimento e del riposo, tempo come ritmo di fecondità e di stasi, tempo come ciclo dell'esistenza in relazione). Perché ogni parola è ritmata dal mio tempo e interviene sul ritmo dell'altro. Il tempo dell'espirare che apre l'inspirare, dell'ascolto che precede il parlare, dell'attesa che prepara il rispondere: in questo spartito si gioca la metamorfosi del kronos che diventa kairòs. Il dolore diventa infelicità quando rompe il ritmo del corpo e della parola. Sono i respiri trattenuti per secoli e le parole non dette e non ascoltate che bloccano il flusso delle vita. In questi dintorni, forse, andrebbe cercata la felicità.

Adam, quattordici anni, presentava grandi difficoltà, a casa come a scuola. Disadattato, sempre fuori tempo e fuori luogo, chiuso e continuamente arrabbiato. In una seduta familiare ci accorgemmo con Valeria che Adam viveva la temporalità con un ritmo decisamente differente dagli altri. Era vilmente in contatto con la propria musica interiore che non riusciva ad interagire con i ritmi esterni, ed in particolare con i repentini passaggi da un'esperienza all'altra. Quando anche la famiglia prese consapevolezza di questa sfasatura di ritmo, migliorò l'attenzione per i bisogni di tutti. Lentamente Adam cominciò ad uscire dalla sua fortezza e a gustare una melodia nuova, che risultava dal suo ritmo affiancato a quello degli altri.

Forse i dintorni nei quali cercare la felicità sono un corpo ferito che riprende a respirare, una parola bloccata che ritorna a fluire, una melodia che riesce a vibrare in ogni corpo e in ogni incontro... Il viaggio, a questo punto, (ri)comincia.

(tratto da G. Salonia, Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Trapani 2011)

Un mendicante felice (Confessioni VI)

6. 9. Cercavo avidamente onori, guadagni, nozze, e tu ne ridevi. Per colpa di queste passioni soffrivo disagi amarissimi, ma la tua benignità era tanto più grande, quanto meno dolce mi facevi apparire ciò che tu non eri. Guarda il mio cuore, Signore, per il cui volere rievoco e ti confesso questi fatti. Si unisca ora a te la mia anima, che hai estratta dal vischio tenacissimo della morte. Quanto era misera! E tu stuzzicavi il bruciore della piaga perché, lasciando tutto, si rivolgesse a te, che sei sopra tutto e senza di cui tutto sarebbe nulla; perché si volgesse a te e fosse guarita. Quanto ero misero, dunque, e tu come hai operato per farmi sentire la mia miseria! Quel giorno mi preparavo a recitare un elogio dell'imperatore, infarcito di menzogne, ma capace di conciliare al mentitore i favori di altre persone, ben consapevoli. Il cuore ansimante di preoccupazioni e riarso dalle febbri di rovinosi pensieri, nel percorrere un vicolo milanese scorsi un povero mendicante, che, credo, oramai saturo di vino, scherzava allegramente. Sospirando feci rilevare agli amici che mi accompagnavano le molte pene derivanti dalle nostre follie: tutti i nostri sforzi, quali quelli che

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proprio allora sostenevo traendo sotto il pungolo dell'ambizione il fardello della mia insoddisfazione e ingrossandolo per via, a che altro miravano, se non al traguardo di una gioia sicura, ove quel povero mendico ci aveva già preceduti e noi, forse, non saremmo mai arrivati? Il risultato che egli aveva ottenuto con ben pochi e accattati soldarelli, ossia il godimento di una felicità temporale, io inseguivo attraverso anfratti e tortuosità penosissime. Egli non possedeva, evidentemente, la vera gioia; ma anch'io con le mie ambizioni ne cercavo una più fallace ancora, e ad ogni modo egli era allegro, io angosciato, egli sicuro, io ansioso. Richiesto di dire se preferivo l'esultanza o il timore, avrei risposto: "L'esultanza"; ma se poi mi fosse stato chiesto: "Preferiresti essere come costui, o come sei tu ora?", avrei scelto di essere com'ero, stremato d'affanni e timori. Quale perversione! Infatti secondo ragione non avrei dovuto anteporre al mendico la mia più vasta cultura, se non ne ricavavo motivi di gioia, bensì la impiegavo per piacere agli uomini, non ammaestrandoli, ma solo dilettandoli. Perciò tu col bastone della tua scuola spezzavi le mie ossa

6. 10. Si allontani dunque dalla mia anima chi le dice: "Bisogna considerare la fonte del godimento in un uomo. Il mendico lo traeva dall'ebbrezza, tu lo cercavi nella gloria". Quale gloria, Signore? Una gloria estranea a te. Se non era vera gioia quella del mendico, neppure la mia gloria era vera, e contribuiva a traviare la mia mente. Inoltre il mendico avrebbe smaltito la sua ebbrezza nel giro della notte seguente; io con la mia mi ero addormentato e destato, mi sarei addormentato e destato, guarda quanti giorni! Certo bisogna considerare la fonte del godimento in un uomo, lo so. Il godimento di una speranza pia è incomparabilmente distante dalla gioia vana del mendico. Però allora c'era un'altra distanza fra noi due: egli era certamente il più felice non solo perché inondato dall'ilarità, mentre io ero disseccato dagli affanni, ma anche perché egli si era procurato il vino con auguri di bene, mentre io ricercavo la vana gloria con menzogne. In questo senso parlai allora lungamente con i miei amici, e spesso poi osservai le mie reazioni in circostanze analoghe, constatando che mi sentivo a disagio e soffrivo, così raddoppiando il disagio stesso. Se poi a volte la fortuna mi arrideva, riluttavo a coglierla, poiché se ne volava via quasi prima che potessi afferrarla.