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l’ arcobaleno rivista per studenti, insegnanti ed altri esseri pensanti numero speciale 25 aprile 2010 1 € Resistenza!

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numero speciale sulla resistenza antifascista - 25 aprile - special issue on liberation day - april 25th 1945-

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l’arcobaleno rivista per studenti, insegnanti ed altri esseri pensanti

numero speciale 25 aprile 2010

1 €

Resistenza!

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P resi dalle di fficoltà del presente e preoccupati dalle gravi incognite del futuro, oggi più che mai i giovani sem-brano aver smarrito il senso del passato. A loro viene incessantemente richiesto di essere forza di lavoro mobile e fl essi-bile, di comportarsi come una variabile docile e dipendente dell’ECONOMIA. Quest’ultima deve, invece, essere varia-bile indipendente, superiore, intoccabi-le, metafisica. Non si può perdere tempo a spiegare, saggiamente, che l’economi-a, come la filosofia, l’arte o la scienza, non è che è un’elaborazione teorica e storica prodotta proprio dagli uomini. Non si può perdere tempo a spiegare ai giovani, magari nelle scuole, che se gli uomini hanno fatto tutto, sono liberi di disfare tutto, perché tutto sono capaci di rifare. È meglio convincerli che vivono nel migliore dei mondi possibili, con tanti gadget tecnologici luccicanti, con il telefonino di ultima generazione, con il quale si può chiamare, addirittura, il compagno di banco, l’amico al bar, la mamma a casa. Che divertimento signi-fi ca non stare con gli altri, ma consuma-re servi zi e cose assieme ad altri. E se ad essere consumate sono situazioni assurde ed irreali che per beffa chiama-no reality, gare di canto, di ballo, di calcio, di bellezza e di qualunque altra cosa, l’importante è che, alla fine, ci si metta in testa che la vita è una gara. Che conta vincerla, fare i soldi. E che non è importante come li si fa, se sgomitando, facendo sgambetti, pagando mazzette, leccando i piedi, vendendosi il corpo o mettendosi a far politica come i politici.

La scuola, che insegna (o dovrebbe al -meno provarci) che ciò che conta sono le persone, chi sono, e non cosa sem-brano o quanto hanno, in questa realtà tras formata in un reality da incubo, è perdente. E perdente è la stori a. Impara-re che le piramidi le hanno costruite gli schiavi, ma portano i nomi dei faraoni, potrebbe far venire in mente qualche ideuzza sbagliata a qualche quarantenne precario di un call center. Capire che c’è stata una lotta, detta RESISTENZA, contro un regime fascista che toglieva ai poveri per dare ai ricchi, che era debole con i forti e forte con i deboli, che aveva tras formato le istituzioni pubbliche in centri di potere politico ed economico personale, che utilizzava tutti i mezzi di informazione e di condizionamento cul-turale per rimbecillire un intero popolo, capire tutto questo, oggi, è pericoloso. Potrebbe indurre qualcuno a fare ragio-namenti, estrapolare similitudini, elabo-rare riflessioni e addirittura provare a fare proposte e ad agire. Ecco perché si vuole colpire e smantellare la scuola pubblica! Lì ci sono pericolosi sovversi-vi che continuano a spiegare che, mate-maticamente, chi prende una fetta più grande deve lasciare una fetta più picco-la; che rispettare le regole ortografiche rende chiaro il pensiero e che aver chia-ro il pensiero rende migliore e più cor-retto l’agire umano; che il diritto è fatto di regole che si applicano a tutti, spe-cialmente a chi ha giurato di osservarle e di farle osservare; che esistono dei valori come la solidariet à, la libertà, la giustizia, l’uguaglianza che non possono essere cancellate da una società civile

senza che questa diventi un’accozzaglia di individui pronti a sbranarsi tra loro, agli ordini di un capo. Questi pensieri, assieme ad altri, si sono affoll ati nell a test a dei redat tori dell’Arcobaleno, che hanno pensato di fare questo numero speciale. Essi credo-no che il 25 aprile, oggi, non debba essere una nostalgica rievocazione di atti che, pur rimanendo luminosi punti di riferimento della nostra storia recen-te, rischiano di essere sempre più opachi ed incomprensibili per l’ispessirsi del tempo e la diversità dei linguaggi. Essi pensano che di quell’esperienza, indi-menticabile e da non dimenticare, sia necessario prendere e valorizzare i frutti più importanti, quelli che sono passati indenni rispetto allo scorrere del tempo: essi sono materiali Resistenti, già pre-senti nella Costituzione repubblicana, su cui fondare la nostra società civile. Eccone allora una sintetica scorsa: inviolabilità dei diritti umani (art. 2); rifiuto della guerra (art. 11); uguaglian-za sostanzial e (art. 3, 2°comma), solida-rietà (art. 2), giustizia fiscale (art. 53); diritto al lavoro (artt. 1 e 4), diritto alla libertà personal e (art. 13); alla salute (art. 32) all’istruzione (art. 33); alla retribuzione (art. 36); all’organizzazione sindacale (art. 39) e allo sciopero (art. 40). E aggiungono che in una società globalizzata, nella qual e le merci posso-no circolare senza alcun limite, è folle ed orribile concepire che un essere uma-no possa essere definito clandestino e che possa essere condannato non per-ché abbia compiuto reati, ma solo per-ché esiste.

Ora e sempre,

Resistenza! Per questo 25 aprile

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ALLE FRONDE DEI SALICIALLE FRONDE DEI SALICIALLE FRONDE DEI SALICIALLE FRONDE DEI SALICI

E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo ?

Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

Salvatore Quasimodo, Salvatore Quasimodo, Salvatore Quasimodo, Salvatore Quasimodo,

“Giorno dopo giorno”, 1947

Supplemento a Sicilia Libertaria n°294 - aprile 2010. Direttore responsabile: Giuseppe Gurrieri. Registrazione Tribunale di Ragusa n° 1 del 1987. Fotocopiato presso Fast Service Digital Photo, via Antonino Longo n. 36/a –

Catania. La Redazione, composta da volontari, si riunisce periodicamente in un Comitato di reLazione. Chiunque, condividendo i princìpi antifa-scisti, antirazzisti ed antisessisti propri di questo giornale, può proporsi come collaboratore o può inviare contributi all’indirizzo di posta elettroni-ca: [email protected]. Sul sito htpp://rivistalarcobaleno.blogspot.com è possibile leggere e scaricare i numeri arretrati e gli approfondimenti tematici.

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Le radici storiche del 25 aprile

U na delle difficoltà più grandi che ostacola la comprensione dei fatti è co-stituita dall’incapacità di collocarli cor-rettamente nel tempo e nello spazio. Non si tratta solo di ignoranza, anche se, grazie alle cure assidue e meticolose che i governi da decenni dispensano alla scuola, la prospettiva è certamente quel-la di un popolo incapace di distinguere tra Rinascimento e Risorgimento. L’obiettivo più ambizioso, comunque, rimane quello di fare in modo che, ad una precisa domanda sulla Costituzione, lo studente modello di domani risponda: sana e robusta, grazie! I media, spe-cialmente la televisione, forniscono una quantità impressionante di dati, prove-nienti dai più remoti angoli del mondo e riguardanti periodi tra loro molto distan-ti, che vengono utilizzati “qui ed ora”, risultando così “ schiacciati” nella di-mensione della contemporaneità. Ma capire le cose non significa solo saperle mettere nel giusto ordine di spazio e di tempo, occorre coglierne anche il lega-me tra causa ed effetto. Le brevi note che seguono servono ad aiutare la com-prensione logica e cronologica di alcune tra le più importanti vicende della no-stra storia recente. Alla fine della prima guerra mondiale, 1918, la situazione economica e sociale dell’Italia è disastrosa. Si contano 650.000 morti, quasi un milione di feri-ti, circa 600.000 tra dispersi e prigionie-ri. L’apparato produttivo è allo stremo. Il costo della guerra viene pagato con la svalutazione e l’inflazione, cioè viene scaricato aumentando il costo della vita delle masse popolari. La riconversione dell’industria bellica provoca ulteriore disoccupazione. Aumenta il conflitto sociale. Alle elezioni del 1919, dove è presente per la prima volta il partito

popolare, si afferma il partito socialista, che non ha comunque sufficient e forza per governare. Tra il 1919 ed 1920 la situazione politica diventa incandescen-te quando, soprattutto nel nord indu-striale, i lavoratori occupano le fabbri-che, minacciando di “ fare come in Rus-sia”. È il biennio rosso. La rivoluzione russa del 1917 costituisce, infatti, agli occhi dei lavoratori del tempo, l’esem-pio concreto che è possibile costruire un altro sistema politico, sociale ed econo-mico. La paura della rivoluzione spinge gli industriali ed i proprietari terrieri a correre ai ripari. E trovano la soluzione nel movimento fascista di Benito Mus-solini. Fondato come un movimento di ex combattenti, nel ‘21 il fascismo si tras forma in partito, alimentato dalle simpatie del padronato, che finanzia le sue “ squadre”, gruppi armati paramilita-ri, che utilizzano la violenza contro par-titi, sindacati, camere del lavoro e mili-tanti dei movimenti di sinistra. Soprat-tutto con questi elementi, circa 300.000,

Mussolini il 28 ottobre del 1922 fa la cosiddetta marcia su Roma, spingendo il re Vittorio Emanuele III a nominarlo capo del governo. Il 10 giugno 1924 viene assassinato il deputato socialista Giacomo Matteotti, che aveva accusa-to pubblicamente Mussolini. Quest’ul-timo rivendica la responsabilità politica e morale dell’assassinio e della violen-za, che i suoi squadristi sono liberi or-mai di esercitare senza controllo alcuno. È venuto il momento delle leggi fasci-stissime. Nel 1925, la carica di Presi-dente del Consiglio dei Ministri si tra-sforma in Capo del Governo Primo Mi-nistro Segretario di Stato. In questo modo i ministri vengono a dipendere direttamente da Mussolini. Il 31 dicem-bre 1925 una legge sulla stampa stabili-sce che possono essere pubblicati solo i giornali autorizzati da governo: tutti gli altri sono illegali. A gennaio del 1926 una legge attribuisce al Governo il pote-re di emanare norme al posto del Parla-mento. Ad aprile dello stesso anno è

Milano, 10 agosto 1944, partigiani uccisi a Piazzale Loreto da un plotone della RSI

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proibito lo sciopero e si riconoscono solo i sindacati fascisti. Nel 1928 una legge elettoral e prevede una sola lista nazionale di 400 candidati, scelti dal Gran Consiglio del Fascismo, da appro-vare in blocco. In tal modo, fascismo e stato diventano una cosa sola. Le ammi-nistrazioni comunali e provinciali eletti-ve vengono abolite, sostituite dai pode-stà e dai prefetti di nomina fascista. Viene istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, competente per i reati contro il fascismo, composto da fascisti e militari. Viene creata l’OVRA, la polizia segreta. E, per non far mancare nulla agli antifascisti, è istituito il confino di polizia, cioè la reclusione su piccole isole, come Ven-totene, Tremiti, Favignana ecc., o in piccolissimi centri rurali del sud. Il regime dittatoriale e totalitario fascista si completa con il dominio sull’educa-zione, sull’istruzione, sul tempo libero e la cultura, anche grazie alla riconquista-ta alleanza con le gerarchie ecclesiasti-che, sigillata dal Concordato dell’11 febbraio 1929. La grande crisi, partita da Wall Street, attraversa l’Oceano, mentre in Europa spirano i venti di guerra. L’Italia fascista cerca un posto al sole, un posto che le sembra facile ottenere con il consenso della Germania di Hitler. Per meritarselo tutto, il fasci-smo aggiunge alle già troppe vergogne un’ulteriore infamità: le leggi razziali del 1938. Il primo settembre del 1939, con l’invasione nazista della Polonia,

inizia la seconda guerra mondiale, la più brutale e cruenta della storia, costata circa 55 milioni di vittime. Il 10 giugno 1940, considerando ormai imminente la vittoria tedesca, Mussolini entra in guerra, pur cosciente dell’inadeguatezza di uomini e mezzi. Ma non ha fatto i conti con la capacità di resistenza del fronte alleato. Nel 1943 le vicende belli-che volgono a favore degli Alleati. Il 10 luglio del 1943 questi ultimi sbarcano in Sicilia ed il 25 luglio successivo Mus-solini viene destituito da capo del go-verno. Al suo posto subentra il mare-sciallo Pietro Badoglio, che dichiara che la guerra continua a fianco della Germania. Ma l’8 settembre viene reso noto l’armistizio tra Italia e Alleati (Francia, Gran Bretagna, Unione Sovie-tica, Stati Uniti, … ) e, da un giorno all’altro, per i nazisti, l’italico amico diventa il traditore. Il governo abbando-na Roma; l’Italia è allo sbando. Oltre 600.000 soldati italiani sono catturati dai tedeschi e destinati ad essere inter-nati nei lager. Mentre al Sud gli alleati tendono a risalire la penisola, i nazisti si attestano sulla linea Gotica, vicino a Cassino, cominciando a fare terra bru-ciata nella loro risalita verso il nord, dove Hitler, assieme a Mussolini, libe-rato dagli arresti, fonda la Repubblica Sociale Italiana, più nota come Repub-blica di Salò. Gli antifascisti, che dall’8 settembre aumentano considerevolmen-te di numero, perché, piuttosto che com-battere gli italiani per conto dei nazisti,

preferiscono darsi alla macchia, si orga-nizzano in formazioni partigiane, dando corpo al fenomeno della Resistenza. Dopo 20 mesi di combattimenti, il 19 apri l e i parti gi ani danno il v ia all’insurrezione general e, scendendo dalle montagne per prendere possesso delle città, precedendo molto spesso l’arrivo dei “liberatori” angloamericani. Il 25 aprile vengono liberate Milano e Torino, ed è questa la data che viene fissat a per ricordare la Liberazione dell’Italia dai fascisti e dai nazisti. La stagione della liberazione non è sempre felice. Moltissimi fascisti, che per la legge sull’epurazione avrebbero dovuto restare ai margini della nuova Italia, cambiano immediatamente distintivo, salendo sul carro dei vincitori. Il clima di “ riconciliazione nazionale”, auspica-to dallo stesso leader del partito comu-nista, Palmiro Togliatti, porta ben presto a diversi provvedimenti di amnistia per i fascisti, da lui stesso firmati come mi-nistro della giustizia. Il 2 giugno del 1946, si vota per eleggere l’Assemblea Costituente, un organismo delegato ad elaborare una nuova Costituzione, al posto del vecchio Statuto Albertino, e per decidere, tramite referendum, tra monarchia e repubblica. Vince la Re-pubblica, ed il re è costretto ad andarse-ne. La Costituzione repubblicana, frutto della Resistenza e dei principi antifascisti, entra in vigore il primo gennaio 1948. Antonio Squeo

Roma, marzo 1944, un rastrellamento di civili da parte di soldati nazisti

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Non fredde lapidi di cimitero,

ma un caldo album di famiglia

L e vittime della Resistenza al nazifa-scismo, così come quelle dell’Olocau-sto, non sono un affare contabile, su cui accapigliarsi per cifre, percentuali o primogeniture. Quelle persone sono i creditori dei nostri attuali diritti civili. Troppo spesso dimentichiamo che par-lare, muoversi, organizzarsi, esprimersi, non sono diritti dati una volta per tutte, ma devono essere ogni volta difesi dall’oppressore e dal tiranno di turno, nero, rosso, giallo o rosa che sia. La libertà per cui i partigiani hanno com-battuto e sono morti non si identificava, lo vediamo in queste pagine, con una particolare fede o idea politica. Cono-scere le loro storie non è solo conoscen-za delle radici della nostra libert à: è anche un atto d’amore per chi l’ha resa

possibile e di vigilanza nei confronti di chi vorrebbe privarcene. Le informazio-ni che seguono sono tratte, in massima parte, dal sito dell’ANPI di Catania, http://www.anpicatania.info/, che contiene dati esaurienti, anche se non definitivi, sui combattenti partigiani catanesi e siciliani. Riportiamo qui solo alcuni profili bio-grafici di concittadini o conterranei che si sono sacrificati per la nostra libertà. Ci piacerebbe che fossero letti non con il freddo distacco con cui guardiamo le vecchie facce che, mute, occhieggiano dalle lapidi di un cimitero, ma con la curiosità e la partecipazione calda ed emotiva di chi sfoglia un vecchio album di famiglia. Qui un bisnonno, là un pro-zio, lì una lontana cuginetta: gente alla quale ci accorgiamo sempre di assomi-gliare un pochino. Tra il loro ed il no-stro sangue non ci sono forse in comune un bel po’ di cromosomi? E magari sco-priamo che, se il profilo, il naso, o il taglio degli occhi non è proprio il no-stro, alla fine, quello che più conta, è il cromosoma della libertà. A chi somi-glia, ad esempio, il professor Carmelo Salanitro, di Adrano, classe 1894? Di formazione culturale cattolica, espresse con coerenza il suo rifiuto alla carnefici -na della guerra ed al fascismo, tanto da essere l’unico docente, nel 1940, a rifiu-tare la tessera del partito fascista. Inse-gnò latino e greco in diversi licei della provincia e poi, dopo il 1937, presso il liceo Cutelli di Catania. In questo istitu-to compì piccoli atti di propaganda con-tro la guerra ed il fascismo, destando l’ostilità dell’ambiente ed in particolare quella del preside, che lo denunciò.

Condannato a 18 anni, fu recluso in diverse carceri, dalle quali, nel 1943, fu prelevato dai tedeschi, che lo deportaro-no a Dachau e poi a Mauthausen. Qui, nella notte del 23 aprile 1945, a pochis-simi giorni dalla liberazione, venne uc-ciso nella camera a gas. E noi, abituati a commuoverci con i sentimentalismi da fi ction, come possiamo rimanere insen-sibili davanti alla storia di Graziella Giuffrida, una maestrina catanese di non ancora 22 anni, torturata, violentata, ammazzata e ritrovata in una fossa co-mune in Liguria, all’indomani della Liberazione? Mentre la importunavano su di un tram, i tedeschi si erano accorti che era in possesso di una pistola. Sulla sua casa natia, in via Bellia a Catania, una lapide ammonisce che: “la libertà si conquista e si difende e che le dittature

si combattono anche a prezzo della vita”.

Graziella Giuffrida Carmelo Salanitro

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U na storia molto simile è quella di un’altra ragazza cat anese, Salvatrice Benincasa, ammazzata nel dicembre 1944, appena ventenne, a Monza, per-ché si era unita alla formazione partigia-na della Brigata Matteotti. Stesso anno di nascita, 1924, e stesso anno di morte, 1944, per Orazio Costarella, un ragaz-zo di Misterbianco. Faceva il militare al nord ma, dopo l’armistizio dell’8 set-tembre 1943, piuttosto che pensare alla tranquillità di un ritorno al paesello, entrò a far parte delle Brigata Garibaldi, una delle prime formazioni partigiane che contrastava con le armi i nazisti ed i fascisti della Repubblica di Salò. Questi partigiani riuscirono a liberare una vasta area tra il sud dell’Umbria ed il nord del Lazio, proclamandola “ Zona Libera”. In seguito a rastrellamenti dei nazisti, ven-ne scoperto, trascinato in piazza ed in-terrogato. Ma rifiutò di rispondere, spu-tando sulla faccia dell’uffi ciale tedesco, che lo ammazzò con due colpi di pistola sul volto. Come si è visto per la vicenda di Orazio Costarella, l’armisti zio dell’8 settem-bre 1943 pone i soldati italiani, fino a quel momento alleati ai nazisti, di fronte ad una scelta di campo: rimanere a fi an-co del vecchio alleato, entrando nei ran-ghi della neonata repubblica sociale, creata da Mussolini e voluta dalla Ger-mania, oppure disertare e combattere fascisti e nazisti come nemici, rischian-do la morte. La maggior parte dei nomi che seguono hanno, quindi, in comune, una scelta precisa ri ferita ad una data precisa, quella dell’armistizio. Franco Martelli, nato a Catania nel 1911, ex maggiore di cavalleria, dopo l’armistizio si dedicò ad organizzare il movimento partigiano in Friuli. Nel novembre del 1944, catturato dai nazi fa-scisti, resistette per giorni alle più atroci torture con le quali volevano strappargli i nomi dei suoi collaboratori. Ma non parlò, e fu fucilato. Antonio Siligato, nato a Limina, pro-vincia di Messina, nel 1920, era appren-

dista sarto. Arruolato in marina, viene ferito. Dopo l’8 settembre, poiché si trovava nella zona controllata dalla re-pubblica di Salò, venne costretto, pena la fucilazione, ad arruolarsi nella X Mas. Ma fuggì immediatamente, arruo-landosi tra i partigiani che combatteva-no nell’Appennino ligure. Nel gennaio del 1945 cadde in combattimento. Ad avvenimenti simili sono legate le vicende dei fratelli palermitani Alfredo e Antonio Di Dio, nati rispettivamente nel 1920 e nel 1922 e morti entrambi, combattendo contro i tedeschi, il primo nell’ottobre, il secondo nel febbraio del 1944. L’elenco dei siciliani caduti in battaglia o ammazzati dai nazi fascisti per aver scelto la libertà non può certo essere completato in questa sede. Vedia-mo invece qualche nome tra quelli che hanno avuto la fortuna di sopravvivere a quelle vicende, che le hanno raccontate e che hanno rappresentato e rappresenta-no l’ideale congiunzione tra la lotta par-tigiana ed il presente. Pompeo Colajanni, nato a Caltanissetta nel 1906, nome di battaglia Barbato, appartiene a quel numero, non partico-larmente numeroso al sud, di antifascisti di vecchia data, che videro nella Resi-stenza una prosecuzione naturale della loro vecchia militanza. Già negli anni Venti, giovane comunista, si adoperò per la costituzione di un fronte unitario antifascista che comprendeva giovani repubblicani, socialisti, anarchici e co-munisti. Per quest’attività subì arresti e perquisizioni. Colajanni era ufficiale di cavalleria durante la seconda guerra mondiale, e subito dopo l’8 settembre del 1943 organizzò una delle prime ban-de partigiane. Dotato di notevoli capaci-tà strategiche, il suo nome divenne pre-sto famoso a causa delle imprese milita-ri, tra le quali quella della liberazione di Torino. Anche Vincenzo Modica, nato a Mazara nel 1918, nome di battaglia Petralia, al momento dell’armistizio era un uffi ciale di stanza in Piemonte. Con Pompeo Colajanni diede vita ad un nu-cleo partigiano che sarebbe poi diventa-to part e dell e brigat e e divisioni “ Garibaldi”. Nonostante fosse già ferito, partecipò all’attacco che liberò la città di Chieri. Abbastanza diversa è la vicenda umana e politica dell’anarchi co siracusano Al-fonso Failla (1906-1986). Alla data dell’8 settembre ‘43 si trovava sull’isola di Ventotene, dove il fascismo lo aveva confinato già dal 1930. A Ventotene c’erano oltre ottocento confinati, tra cui personalità che diventeranno centrali nella storia d’Italia, come Umberto Terracini, Sandro Pertini, Ernesto

Rossi, Altiero Spinelli. Quando il con-fino viene abolito, vengono subito libe-rati quelli non compromessi con le idee socialiste, comuniste ed anarchiche. Ma poi, con l’ingresso al governo di sociali-sti e comunisti, anche questi ultimi furo-no liberati, lasciando al confino solo anarchici e partigiani jugoslavi, destinati ad essere tras feriti in un campo di pri-gionia nei pressi di Arezzo. Da questo campo Failla riuscì a scappare, unendosi alla lotta dei partigiani in Toscana.

Di quasi una generazione più giovani di Failla, sopravvissuti fino ad anni recen-tissimi, sono i partigiani catanesi Car-melo Mio (1919-2008) e Salvatore Sortino (1928-2009). Vecchio sociali-sta, un vero libertario, Carmelo Mio fu partigiano in Valsesia e, ritornato alla vita civile, da professore si adoperò per divulgare tra i giovani i valori perenni dell’antifascismo, della libertà, della democrazia, della giustizia sociale. Più che al padre, piccolo gerarca fasci-sta, Salvatore Sortino si era ispirato al nonno paterno, un vecchio anarchico, che esercitò una grande influenza sulle idee democratiche del nipote. Nel 1944, appena adolescente, lasciò la Sicilia appena liberata e fu tra i primi catanesi ad entrare volontari amente nel Corpo Italiano di Liberazione, raggiungendo il Nord dove ancora infuriava la guerra. Fu testimone della immane strage nazi-sta di Marzabotto, dove, tra il 29 settem-bre ed il 5 ottobre del ‘44, furono ster-minati circa 800 civili, tra cui moltissi-mi bambini. Di questa strage di inno-centi Salvatore Sortino aveva conserva-to un ricordo indelebile. Portava con sé un pezzo di terra di Marzabotto intrisa di sangue. E proprio a Marzabotto ha chiesto di essere seppellito, con la cami-cia di partigiano, il fazzoletto dell'ANPI, e quel pugno di terra insanguinata.

il comitato di reLazione

Orazio Costarella

Alfonso Failla

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Bella ciao N onostante sia considerata la canzone partigiana per eccellenza, gli storici ritengono che Bella ciao abbia acquisito tale rango solo immediata-mente dopo la Liberazione. In effetti, stando alle testimonianze dei diretti protagonisti, sembra che la canzone precedentemente più diffusa sia stata Fischia il vento, il cui testo fu scritto nel settembre del ‘43, proprio all’inizio della Resistenza, da Felice Cascione sulle note della canzone russa Katyusha. La circolazione di Bella ciao durante la Resistenza è cir-coscritta soprattutto in Emilia, dove si dice che sia stata composta da un anonimo medico partigiano. La musica, di autore sconosciuto, viene fatta risalire alla melodia di un canto ottocentesco delle mondine padane, con influenze di altri canti popolari. Un’altra spiegazione la vorrebbe derivata da una ballata francese del Cinquecento, passata poi nella tradizione pie-montese, poi in quella trentina, ed infine in quella veneta con il titolo Sta-mattina mi sono alzata, canzone molto diffusa tra l e mondine. Recente-mente il ricercatore Fausto Giovannardi ha trovato una melodia yiddish, (lingua di origine germanica parlata dagli ebrei originari dell’Europa o-rientale) registrat a da un fisarmonicista di origini ucraine, Mishka Tziga-noff nel 1919 a New York. È impossibile contare le versioni esistenti di Bella ciao. Questo è solo un elenco parzi ale degli interpreti che si sono cimentati con il classico: Adolfo Celdrán , Anita Lane, Anna Identici, Antoine Ciosi, Arja Saijonmaa, Banda Bassotti, Banda Osiris, Betagarri, Boikot, Chjami Aghjalesi, Chumbawamba, Claudio Villa, Duo Di Piadena, Fiamma Fumana, Francesco De Gregori, Germans Garcìa, Giorgio Gaber, Giovanna Daffini, Giovanna Marini, Goran Bregovic, Grup Yorum, Hannes Wader, Konstantin We-cker, Heiter bis Wolkig, I Gufi, Ivan Della Mea, Kud Idijoti, L'Arcusgi Leny Escudero, Les Dahus, Los Canallas, Manu Chao, Maria Farantouri, Mauro Zuccante, Mercanti Di Liquore, Milva, Modena City Ramblers, Muslim Magomaev, New Christy Minstrels, Officine Schwartz, Partizanski Pevski Zbor In Godba Milice, Pascal Comelade, Pueblo Unido, Quil-pay un, Red Army Chorus and Band, Red Hacker, Savage Rose, Serge Utgé-Roy o, Skappa, Stockholms Anarkafeministkör, Swingle Singers, Thomas Fersen, Vello Orumets, Yo Yo Mundi, Yves Montand, Zebda.

« Una mattina mi son svegliato, o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao! Una mattina mi son svegliato e ho trovato l'invasor. O partigiano, portami via, o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao! O partigiano, portami via, ché mi sento di morir. E se io muoio da partigiano, o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao! E se io muoio da partigiano, tu mi devi seppellir. E seppellire lassù in montagna, o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao! E seppellire lassù in montagna sotto l'ombra di un bel f ior. E le genti che passeranno o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao! E le genti che passeranno Mi diranno «Che bel f ior!» «È questo il f iore del partigiano», o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao! «È questo il f iore del partigiano morto per la libertà!» »

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V i è una resistenza al fascismo e ai totalitarismi (di marca nazista, stalini-sta, maoista, ecc.) che non iniziò in Ita-lia l’8 settembre 1943, bensì negli anni ’20, e non finì il 25 aprile 1945, ma prosegue ai giorni nostri. È la resistenza di coloro che opposero a quei regimi principi e prospettive di vita radical-mente differenti e perciò mai scesero né scenderebbero a patti con essi. Il loro antifascismo non è quindi contingente, legato ai tempi e alle esigenze della politica e dell’economia, ma è un mezzo per opporsi a quelle condizioni e forme d’imbarbarimento sociale che hanno permesso, e permetterebbero nuova-mente, la vittoria del fascismo. I princi-pali valori sui quali si fonda il fascismo di ieri e di oggi sono l’autoritarismo, l’intolleranza, la discriminazione sessu-ale e razziale, il disprezzo per le mino-ranze, il culto della guerra. Sarebbe facile, ma anche sbagliato, caratterizza-re semplicemente “ in negativo” i valori dell’ anti fasci smo (anti autori tarismo, tolleranza, ecc.), perché si finirebbe specularmene col dar credito anche a quella presunta democrazia, liberale e borghese, che, messa in diffi coltà dalle rivendicazioni di maggior giustizia so-ciale provenienti delle masse popolari, è stata storicamente la levatrice e poi l’equivoca erede di tutti i fascismi. L’antifascismo a cui dovremmo richi a-marci è, al contrario, forte e propositivo, coltiva cioè proposte di cambiamento radical e della società, di democrazia diffusa, di equa distribuzione delle ri c-chezze, che possano rendere improponi-bile il ricorso e il ritorno agli antichi regimi. È questa l’idea di libertà coltiva-ta dalla stragrande maggioranza dei partigiani che combatterono nel Nord Italia, ma è anche la speranza che ac-compagnò le lotte popolari che si acce-sero subito, nell’immediato dopoguerra, in tutto il Meridione. In Sicilia, contra-riamente a quel che si crede, il fascismo

stentò moltissimo ad affermarsi, tant’è vero che non si contano gli episodi di resistenza eroica e di brutale repressione che si succedettero durante il Venten-nio, con il ricorrente tentativo da parte di anarchici, socialisti, azionisti, comu-nisti, separatisti e persino massoni, dap-prima isolati poi raccolti in un “Fronte unico antifascista italiano”, di scatenare l’insurrezione liberatri ce. Alla vigilia dello sbarco degli Alleati, diversi gruppi armati erano già operativi in diverse località dell’Isola (a Sciacca, Bagheri a, Barcellona, Catania), e questo molto prima che ne sorgessero nel resto d’It ali a. A questi gruppi si unì l’opposizione spontanea della gente comune, che assunse forme diverse, cruente nel caso di Mascalucia e Pedara, località dove i cittadini insorsero armi alla mano contro i tedeschi; punite con stragi di civili inermi ad Adrano, Cala-tabiano e soprattutto Castiglione (16 morti e 20 feriti il 12 agosto 1943), commesse dai paracadutisti della divi-sione “ Goering”, tragica anteprima dei grandi eccidi dagli stessi perpetrati nel continente. Se la “ lotta di Liberazione” dei due anni seguenti non toccò la Sici-lia, ormai occupata dagli Alleati, deve tuttavia ricordarsi il notevole contributo che vi fornirono i siciliani, a Roma, in Toscana e sulle montagne dell’Alta

Italia. Alcuni di questi (Girolamo Li Causi, Pompeo Colajanni e Concetto Marchesi) assursero a ruoli di rilievo nazionale. Altri (è il caso dei 50 decora-ti con medaglia al valore della sola città di Paternò) rappresentarono degnamen-te, spesso sacrifi cando le loro vite in combattimento, la voglia di riscatto e di rinascit a civi le dell e popolazioni dell’Isola. Ma da noi la guerra ebbe anche un altro epilogo, legato alle som-mosse che tra il dicembre 1944 e il gen-naio 1945 divamparono in tutta l’Isola contro il richiamo alle armi. Al grido di Non si parte ma indietro non si torna, i siciliani rifiutarono in massa di servire nel nuovo esercito italiano, creato sotto il comando di generali ex fascisti per risollevare le sorti del re Vittorio Ema-nuele III, fort emente screditato. In di-versi paesi vennero persino costituite delle “ repubbliche indipendenti” a imi-tazione di quelle dei partigiani del Nord, con programma pane e pace, sciolte dalle truppe sabaude dopo un mese di scontri e circa un centinaio di morti. Era l’inizio sanguinoso di una “nuova” Resistenza, che dura tuttora, contro il fasci smo ri sorg ente e per l a “ Liberazione sociale” dell’Isola. Natale Musarra

La Resistenza in Sicilia

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P iove, mi avvio sotto l’ombrello un po’ rotto verso casa del mio più caro amico, Nunzio Di Francesco. Mi acco-glie con un sorriso contagioso, mi fa accomodare in salotto e si assicura che non sia bagnata. Gli rispondo che sto bene e, iniziamo senz’altro l’intervista. In qualità di testimone di quegli anni tragici, Nunzio avverte il dolore della memoria, segno distintivo dei soprav-vissuti ai campi di sterminio. Tante le cariche onori fiche e i riconoscimenti: è presidente provinciale dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), consigliere nazional e dell’ANED (Associazione Nazional e Ex Deportati politici nei campi nazisti), presidente onorario dell’Istituto Sicilia-no di Storia Contemporanea. Abbiamo deciso, insieme, di scrivere questo arti-colo per dare un piccolo contributo al ricordo, e perché l a tragedia dei campi di concentramento nazisti non sia di-menticata o rimossa dalle coscienze. D. Sono trascorsi 65 anni da quei ter-ribili eventi: ha ancora senso raccon-tarlo ai ragazzi? R. L’eredità che riteniamo di trasmette-re alle nuove generazioni consiste nella Libertà, nella Democrazia e nella Pace. È un’eredità che nasce dal sangue dei nostri Eroi e dei nostri C aduti per l a Libertà e che viene cementata con l e Ceneri dei nostri Martiri passati dai for-ni crematoi dei campi di sterminio nazi-sti. La nostra Costituzione si fonda sui valori della Resistenza e proprio dalla

Resistenza europea venne ideata e rea-lizzata l’Unione Europea, che vive an-cora, in fasce infantili, con difficoltà di crescita e con molte spese burocratiche. D. Lo sterminio rappresenta l’evento più sconvolgente del XX secolo per il numero delle vittime, degli aguzzini e per la sistematicità con cui è stato attivato? R. È la tragedia dell’umanità perché rappresenta la negazione dell’uomo. Fu la tragedia del ‘900, la macelleri a uma-na organizzat a, con un moderno accura-to genocidio, dall’occulta scienza di una logica nazi-fascista diretta da Hitler e Mussolini. Non erano più suffi cienti la tradizionale conquista territoriale e l’espropriazione delle ri cchezze conqui -state, ma si pret endeva l’eliminazione delle popolazioni vinte per lasciare spa-zio alla crescita della pura razza ari ana, ma con un numero limitato di prigionie-ri controllabili, tenuti in condizioni di schiavitù. Eravamo nelle mani di due violenti dittatori con pochissima cultura generale, sprovveduti anche nel campo della cultura militare. Il primo campo di sterminio sarà quello di Dachau , nei pressi di Monaco di Baviera. Appena nominato presidente di polizia nel 1933, Hitler annunciò al mondo intero che lo aveva fatto costruire con i lavori forzati dei detenuti tedeschi ed austriaci (avversari politici, sindacalisti, cattolici ed altri). Successivamente realizzò i campi di Mauthausen e Norimberga e centinaia di sottocampi. L’ultimo lager, il più gigantesco, per l’immensa esten-

sione e per le moderne attrezzature di morte, fu costruito in territorio polacco ed è Auschwitz. Poteva contenere circa un milione di deportati e sarebbe servito ad eliminare, nello spazio di un decen-nio, tutte le popolazioni del nord Euro-pa. I deportati furono 13.000.000 in tutta Europa, accert ati 12.000.000, di cui la metà ebrei. Un milione figurano ancora fra i dispersi; i sopravvissuti, a guerra finita, furono ci rca un milione, di cui metà ebrei, gli altri partigiani, anti-fascisti e altri indesiderati dal regime. D. La storia dimostra che le esperi en-ze del passato, spesso, non ci insegna-no molto, è vero? R. Purtroppo sì; gli invasori, i macellai dell’umanità, ci sono sempre stati. Ba-sterà ricordare la fine dei pellirossa (gli indiani d’America) uccisi ed espropriati dei loro beni. Gli aborigeni d’Australia, eliminati dagli inglesi per impossessarsi del loro continente; lo sterminio degli Armeni e dei Kurdi assassinati in Tur-chia. Lo sterminio praticato dagli inglesi in India e dagli Europei in Africa e in Asia. Lo sfruttamento degli schiavi afri -cani negli Stati Uniti d’America. Il ge-nocidio della seconda guerra mondiale non si potrà paragonare a nessun altro, né per quantità di caduti e territori di -strutti, né per la qualità dei caduti e dei beni culturali ed architettonici distrutti. E, non ultimo, per la quantità di civili, bambini, donne e vecchi che mori rono sotto le macerie durante i bombarda-menti.

PER CAPIRE LA RESISTENZA:PER CAPIRE LA RESISTENZA:PER CAPIRE LA RESISTENZA:PER CAPIRE LA RESISTENZA:

IL CORAGGIO DI UN UOMO CHE HA VISSUTO

IL CAMPO DI STERMINIO

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D. Quanti furono i deportati italiani e, in particolare siciliani, nei lager ? R. Noi deportati italiani nei campi di sterminio nazisti siamo stati circa 45.000, di cui 32.600 partigiani e antifa-scisti e 8160 ebrei. I deportati siciliani siamo stati circa 855, quasi tutti parti-giani, un sacerdote e due anti fascisti. Ma non saranno mai dimenticati gli Eroi di Cefalonia: si di fesero sino all’esaurimento delle munizioni, dopo essere stati catturati, vennero massacrati dai nazisti e buttati a mare. Ecco perché nacque la Resistenza armata italiana contro il nazi-fascismo. C’eravamo tutti, militari, civili, uomini di cultura. Dai lavoratori delle fabbriche a quelli agri -coli. Imprenditori industriali, agricoli ed artigiani, anche istituti religiosi. Non si trattò di una guerra civile, meglio parla-re di una “ civile guerra”. D. Vogliamo ricordare anche le donne che fecero parte della Resisten za? R. Certamente. Furono migliaia le don-ne della Resistenza. Ricordiamo Nilde Jotti, Rosina Anselmi, Maria Airaudo. Eugenia Corsaro, catanese, appena do-dicenne, faceva la staffetta e fu uccisa a Roma dai tedeschi. Graziella Giuffrida di 22 anni, insegnante di Catania, parti-giana, fu fucilata alle porte di Genova insieme al frat ello. Salvatrice Benincasa di 22 anni, di Catania, fucilata dai tede-

schi a Monza. Sono state moltissime le donne italiane che si sono opposte alla violenza ed al terrorismo nazi-fascista. Ritengo doveroso ricordarle tutte: 2.750 italiane furono deportate nei lager di sterminio nazisti; le sopravvissute, a guerra finita, sono state circa il 5%; 2.000 donne sono state fucilate o sono cadute in combattimento e 19 di esse sono state decorate con la medaglia d’oro al valore. D. L’8 settembre 1943, l’Armisti zio: è ancora drammatico ricordare quei giorni di confusione, sbando e totale incertezza? R. Mai l’Italia (Impero di vergogne fa-sciste) era caduta così in basso, in gi -nocchio. Se ne impossessarono i nuovi padroni, selvaggi terroristi, i nazisti aiutati da rottami fascisti. Le zone di Roma erano militarmente blindate, la divisione Ariete era comandata dal Gen. Cadorna, la divisione Piave dal Gen. Tabellini. Le nostre truppe avevano la possibilità di fare prigionieri: lo stesso Quartier Generale del maresciallo Kes-selring a Frascati, aveva molte meno forze disponibili e più fronti nemici da sostenere e respingere. Sarà un reparto della divisione Piave che, insieme ad una moltitudine di squadre improvvisate di civili, affronterà i paracadutisti tede-schi. Questi ultimi, un migliaio circa,

scesi a Monterotondo, nei pressi di Ro-ma, saranno costretti ad arrendersi, dopo aver perduto metà delle loro forze. Biso-gnava continuare senza tregua, sino a cacciare i nazisti fuori dai confini italia-ni ed annientare la pestilenza dei rottami fascisti affinché non disturbassero la pace e la nascente democrazia. Ma il Re, con Badoglio, lo Stato maggiore ed i loro collaboratori, non ne vollero senti-re e scelsero la fuga. Esattamente alle ore 5,10 del 9 settembre del 1943 scap-parono dal Ministero della di fesa di Via XX Settembre a Roma, dove si erano tras feriti per timore di un attacco tede-sco a Villa Savoia. Dovevano recarsi a Brindisi, da poche ore liberata dai para-cadutisti alleati. Lo Stato scomparve, l’Italia non c’era più. Le caserme milita-ri, i depositi, gli uffi ci pubblici saranno in possesso di chi arriverà per primo. Il popolo italiano viene umiliato, deruba-to, violentato e distrutto, con tutto il patrimonio bellico realizzato col sacri fi -cio dell’erario negli ultimi 20 anni. D. Quali furono gli errori, le incertez-ze e le manchevolezze durante il Go-verno Badoglio? R. Il Governo affidato al maresciallo Badoglio sarà il peggiore dei Governi mai avuti nel nostro Paese, così come si dimostrò nei 45 giorni della sua reggen-za governativa militare. Già la circolare

Nunzio Di Francesco in una foto giovanile, ad una manifestazione anti fascista

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del Generale M. Roatta è agghiacci ante: contro i mani festanti e i facinorosi oc-corre aprire subito il fuoco, anche con armi pesanti, come se si procedesse contro truppe nemiche; non prevede l’avvertimento del tiro in aria, ma subito sparare a petto d’uomo. Dovevano esse-re fucilati sul posto gli istigatori di di-sordini. Vennero uccisi 9 operai, fra cui una donna, a Reggio Emilia. A Bari verranno uccise 23 persone, 70 saranno i feriti gravi che davanti al carcere chie-devano la liberazione dei loro familiari, detenuti politici. I Tribunali Militari si sostituirono a quelli ordinari e condan-narono 3.500 mani festanti come se fos -sero delinquenti comuni, con pene che variavano da 6 mesi a 18 anni. Altre 35.000 persone furono arrestat e e rila-sciate dopo qualche giorno di carcere e una severa ammonizione. Il copri fuoco era imposto dalle 21 alle 6 del mattino. Alla stampa era consentito di scrivere solo su scandali del regime fascista, la censure era ferrea su tutti gli altri avve-nimenti politici e militari. È diffi cile el encare l e colpe, le manche-volezze e gli errori che accompagnarono le fasi dell’armistizio. Badoglio ritenne di non dover ascoltare consigli da nes-suno; aveva già previsto nel suo proget -to la perdita di mezzo milione di uomi-ni, ma era convinto che sarebbe riuscito a salvare la corona dei Savoia. D. La Sicilia partecipò attivamente alla Resistenza italiana? R. Se in Sicilia non ci fu la Resistenza fu solo perché il 7 luglio 1943 subì lo sbarco e l’occupazione degli Angloame-ricani e dei loro alleati, ma la part ecipa-zione dei si ciliani e dei meridionali alla Resistenza armata vi ene considerata e ricordat a come una realtà storica. Con-cetto Marchesi di Misterbianco, Rettore dell’Università di Padova, l’11 novem-

bre del 1943, durant e il suo discorso accademico, fece appello agli studenti e ai docenti perché abbandonassero l’Università, e insieme a lui organizzas-sero i battaglioni di volontari per libera-re l’Italia dal terrore nazi fascista. Pompeo Colajanni, avvocato nisseno, cresciuto a Palermo e divenuto ufficial e alla Scuola di Cavalleria di Pinerolo, diventerà il leggendario Comandante “Barbato” che il 25 aprile del 1954 libe-rerà la città di Torino. Vincenzo Modi-ca, di Mazara del Vallo, anche lui uffi -ciale di Cavalleria, diventerà comandan-te della 1^ divisione Garibaldi di Cuneo col nome di battaglia “ Petralia”. Vin-cenzo Grimaldi di Calatagirone divente-rà il Vice comandante della XV brigat a Garibaldi in Valvaraita (Cuneo). Fum-mo un centinaio, uffici ali, sottoufficiali e graduati siciliani, che, insieme ai pie-montesi, organizzammo la Resistenza armata. Alcune Brigate partigiane porta-rono il nome di Eroi siciliani.

D. Gli alleati espressero dei ri conosci-menti nei vostri confronti? R. Il Comandante delle Forze Armate Angloamericane Mark W. Clark ci inviò il seguente messaggio: “ Patrioti, ora che la guerra è finita, sento il dovere di ri-volgervi il mio più profondo compiaci -mento. Con la vostra azione avete con-tribuito al conseguimento della vittoria. Siete stati degni delle nobili tradizioni lasciate in retaggio dai Martiri e dagli Eroi del Risorgimento italiano: avet e dato alla causa della civiltà democratica quanto era in Vostro potere. Non sarà dimenticato”. Un importante riconoscimento ci fu dato anche da Winston Churchill, che dichia-rò: “Se non ci fossero stati i partigiani italiani, noi avremo avuto il doppio del-le perdite e impiegato il doppio del tem-po per raggiungere i nostri obiettivi”. D. Ma ne valeva la pena? R. Senza ombra di dubbio, sì. Il 25 apri-le è una data importante perché viene commemorato il sacri ficio di Eroi, di Martiri, caduti per l a Libertà, la Demo-crazia e la Pace di tutti i popoli. Viene suggerito al mondo intero di difendere e applicare le conquiste realizzate, nel nome dei nostri C aduti che per quest e ragioni crudelmente patirono, e affinché il loro sacri fi cio non incontri mai il tra-monto. D. Per quanto ti ricordi, ci sono stati dei momenti in cui hai avuto fiducia nel futuro? R. Certamente, mi definisco un cattolico progressista, sono un innesto tra sociali-smo e cattolicesimo. Nel campo di ster-minio spesso mi massacravano di botte, ma in quei momenti pensavo che un

25 aprile 1945. I partigiani entrano a Milano

13 giovani partigiani impiccati dai nazisti a San Giovanni al Natisone, in Friuli

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giorno mi sarei seduto insieme alla “parte buona” della soci età per giudicar-li. Ho fiducia nella giustizia. Non mi riferisco solo alle istituzioni pubbliche (leggi stabilite, magistratura, avvoca-ti…), ma alla virtù della giustizia, cioè alla capacità e allo s forzo che ognuno di noi deve fare, se vogliamo vivere bene, per capire cosa i nostri simili si aspetta-no da noi. D. Che faccia aveva la morte nei cam-pi di sterminio e come te la rappresen-ti oggi? R. Non pensavamo alla morte: eravamo come addormentati, anestetizzati, di fronte al dolore. Morivi camminando, non eri più un uomo, non pensavi a nul-la. La morte faceva part e della nostra quotidianità, non piangevi neanche se moriva accanto a te un tuo compagno. La morte non è il nostro futuro, ma ogni parte di essa è nel passato. Ogni giorno che passa è un giorno di vita in meno che appartiene al dominio della morte. Quando, un paio di anni fa, il Consiglio Nazional e dell’ANPI decise di farci ri-tornare nel campo di sterminio dove eravamo stati internati, rivedendo quei macabri luoghi non ce l’ho fatta, sono crollato, perché non sono mai riuscito a dimenticare. Ho sofferto tantissimo nel

rivedere tanti particol ari; è stato come ripercorrere un viaggio doloroso, pensa-vo ai miei compagni, immaginavo come sarebbe andat a se non fossi stato fortu-nato. Fummo 501 i deportati siciliani nei campi di sterminio, e solo 47 ritornam-mo a casa. Non sono arrabbiato con nes-suno , ma ho ancora gli incubi. Dopo quella visita pensai : “ Qui non ritornerò mai più”.

D. Quando sembrava che la morte ti dovesse portare via, quali erano i tuoi pensieri per chi sarebbe sopravvissu-to? R. Quando i tedeschi mi catturarono, fui sottoposto ad un lungo ed estenuante interrogatorio di fronte ad un Colonnello delle S.S. nel carcere di Saluzzo, dove mi avevano rinchiuso. Sapeva tutto su di me, anche il mio nome di battaglia, “ Atos”, ma voleva conoscere i nomi dei miei compagni e dove si nascondevano, soprattutto dov’era il nostro Stato Mag-giore. Non gli rivelai nulla e fui condan-nato a morte. Avrebbero dovuto fucilar-mi l’indomani mattina insieme ad altri prigionieri. Gli dissi, prima di essere ricondotto in cella: “ Io sarò l’Angelo Custode della sua famiglia, veglierò dall’alto su di voi”. Sentendo queste parole la sua reazione fu incontrollat a: si diede pugni sulla testa, sul tavolo che era di fronte a lui, si mise a gridare nella sua lingua parole di rabbia che non compre-si. Quando si calmò, diede ordine di portarmi via e mi gridò: “Si ricordi del suo impegno”. Non mi fece fucilare, ma rimase, come una spada di Damocle sulla mia testa, la condanna a morte.

N unzio parla di queste vicende con grande passione: la sua è una testimonianza storica di altissimo valore. Egli conti-nua incessantemente la sua indagine su fatti, verificatisi durante gli anni della Resistenza, che ancora oggi sono poco cono-sciuti. Mi regala spesso suoi lavori sulle vicende di quegli anni: ricche monografie, studi di vario genere, memorie, documenti di seminari e convegni a cui ha partecipato. È un compito difficile scrivere delle riflessioni sul ruolo politico della Resistenza, nel quadro delle profonde trasformazioni di quegli anni che portarono alla nascita della Costituzione della Repubblica Italia-na del ’48. È indiscutibile, secondo Nunzio, la provenienza delle nostre istituzioni dalla Resistenza e il loro legame indistrutti-bile con quella esperienza. Purtroppo (ahimè), l’intervista è finita, mi resta solo da ringraziare Nunzio e manifestargli tutta la mia ammirazione per la sua figura di studioso, per la dedizione alla ricerca, per aver difeso le sue opinioni ed aver messo più volte alla prova il suo animo veramente forte e non disposto a subire l’arbitrio altrui. Mi viene in mente un verso di Piet Hein: “Coloro che non sanno vivere, non vivranno mai”. Lui ha vissuto e c’è qualcosa dentro di lui che ancora esulta .

Intervista a cura di M. Marcella Crisafulli

Nunzio Di Francesco ai nostri giorni, ad una manifestazione anti fascista. Nunzio Di Francesco

in una foto giovanile

Partigiani in marcia

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D opo la partecipazione al Convegno dell’Unione degli scrittori europei inter-nazionali, che si tenne a Weimar nell’ottobre del 1942, Elio Vittorini non vede più nel fascismo un punto di riferi-mento sicuro. Matura perciò nello scrit-tore la decisione di entrare in contatto con l’antifascismo clandestino. Intro-dotto nelle fila del partito comunista dall’avvocato siciliano Salvatore Di Benedetto (organizzatore della Resi-stenza in Lombardia e “ tessitore” della riorganizzazione comunista in Sicilia), conosciuto nei locali della casa editrice Bompiani, Vittorini partecipa alla Resi-stenza occupandosi di stampa clandesti-na, tenendo i contatti tra formazioni partigiane e organizzando il trasporto di armi e munizioni. Nel febbraio del ‘44, reduce da una missione a Firenze, Vitto-rini, identificato dai tedeschi durant e il viaggio di ritorno a Milano, s fugge due volte alla cattura e impara cosa vuol dire aver paura. Nel momento storico in

cui il venir meno di saldi punti di riferi-mento istituzionali, ideologici ed etici travolge tutti e ognuno cerca individual-mente di trovare una soluzione ai pro-blemi più elementari dell’esistenza, Vittorini, che come tanti italiani non sa come la guerra sarebbe andata a finire, cede allo scoramento e allo scetticismo. Non si sente di battersi e di rischiare la propria vita Vittorini, perché ha paura di soffrire e di morire, mentre forte è inve-ce il desiderio di sopravvivere e dare il meglio di sé quando tutto sarà finito. Insofferente verso ogni forma di ordine politico, il Nostro si mostra anche poco attratto dalla guerra di Resistenza con il suo inevitabile corollario di odio e di terrore, di degrado umano. Fedele alla centralità della letteratura, Vittorini dice no all’impegno politico, inizialmente ricercato con ingenua passione e intento operativo, e si defila. Invitato dai com-pagni a tras ferirsi a Roma, Vittorini fa perdere le proprie tracce e si ri fugi a nel Sacro Monte presso Varese, nella villa del padre di Ginetta Varisco, compagna dello scrittore. Qui, nella primavera-autunno del ’44, Vittorini s’impegna nella stesura del romanzo Uomini e no, stampato da Bompiani nel giugno del ’45. Qualche mese dopo la pubblicazio-ne di Uomini e no esce su l’Unità di Roma del 12 settembre ’45 un breve articolo di Fabrizio Onofri, che defini-sce il romanzo di Vittorini “ il libro di un intellettuale che porta con sé tutti i difetti e le incongruenze della società in cui è vissuto, una società di privilegiati in cui la stessa cultura è stata oggetto e strumento di privilegio”. Lo scrittore, aggiunge Onofri, “ come ogni altro non poteva uscire con un salto dall’ombra della vecchia cultura, dal linguaggio nato sui libri, da un modo di esprimersi e di sentire”. Irritato da questa recensio-ne, Palmiro Togliatti in data 7 ottobre

1945 scrive all’autore del romanzo: “Caro Vittorini[…] Comprendo che il tema dell’arte è difficile, ma giudicare a quel modo non è permesso![…] Non si capisce che noi non possiamo adopera-re verso la creazione artistica il metro che adoperiamo verso uno scritto politi-co o una pubblicazione di propaganda. Possiamo chiedere all’artista che sia orientato verso la realtà, ma fissargli noi la tematica e persino ciò che devono essere i suoi eroi…questo è pedanteria e asfissiante nodo scorsoio. […] Pro-prio noi, che lottiamo per liberarci e liberare il mondo dall’ipocrisia. […] A me il tuo libro è piaciuto perché vi ho trovato una potente figurazione della lotta dei nostri intellettuali e operai di avanguardia”. Nel 1951, nel famoso articolo “ Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato”, firmato con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, Togliatti, con-traddicendo quanto scrive in questa lettera, dirà che Uomini e no era un libro “ bello ma discutibile, per quella mania di non saper presentare se non attraverso un torbido travestimento di letteratura gli eroi di quella battaglia, che furono uomini chiari e semplici”. Anni dopo la stroncatura di Onofri e la palinodia di Togliatti, nel ’74, Giorgio Amendola, nelle sue “ Lettere a Milano. Ricordi e documenti 1939-1945”, ac-cennando a Vittorini (e a Pavese), con parole non velat e, che aiutano a capire meglio l’avversione dei comunisti verso Uomini e no, rimprovera lo scrittore per “non aver saputo o voluto partecipare direttamente alla lotta partigiana”. E ancora nel ’76 Amendola rivela che lui e Mario Alicata avevano avuto nei con-fronti di Vittorini “ un rapporto di rottu-ra moral e, perché durante la guerra par-tigiana egli si era imboscato” e poi ave-va presentato “ un romanzo, Uomini e

no, che forniva un quadro falso e retori-

Vittorini, la Resistenza

e l’impegno tradito

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co dei gappisti”. Amendola e Onofri, legati alla Resistenza intesa come gran-de guerra di liberazione nazionale e non, come in effetti fu, movimento di minoranze formato anche da uomini che si erano nascosti per s fuggire alle retate repubblichine, liquidano i tentennamen-ti di Vittorini come disimpegno. Non attrezzati a percepire l’amarezza e il disincanto, la mancanza di ottimismo storico che al eggiano nella scrittura sperimentale di Uomini e no, che sonda gli avvenimenti collettivi e l’animo de-gli individui per portare alla luce verità che s fuggono alla politica totalizzante, i due esponenti comunisti reputano il romanzo dell’artista un’opera fallita. Il prodotto tipico dell’intellettualismo che si chiude nella torre d’avorio. Complice anche l’immaturità estetica dell’intel-lighenzia di sinistra del dopoguerra, le

sbavature moralistiche di Amendola e Onofri accompagneranno a lungo il romanzo di Vittorini, che con la sua rappresentazione non edi ficante della guerra partigiana intuita come civile e fratricida e il problematicismo e le ri-pulse del suo protagonista, Enne 2, do-cumenta l e cont raddizioni, la fragilità e le sofferenze degli uomini che hanno partecipato a quella esperienza colletti-va. Mal si presta a celebrare-fondare il mito della Resistenza che avrebbe dovu-to permettere al popolo italiano di ri-muovere le sue responsabilità e il suo passato, e rendere così meno traumatico il passaggio dal fascismo alla nascita della Repubblica.

Loren zo Catania

Lo avrai camerata Kesselring

il monumento che pretendi da noi italiani ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi. Non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio non colla terra dei cimiteri

dove i nostri compagni giovinetti riposano in serenità

non colla neve inviolata delle montagne che per due inverni ti sfidarono

non colla primavera di queste valli che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio dei torturati Più duro d'ogni macigno

soltanto con la roccia di questo patto giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono per dignità e non per odio

decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo. Su queste strade se vorrai tornare

ai nostri posti ci ritroverai morti e vivi collo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre

RESISTENZA

P rocessato nel 1947 per crimini di guerra, Albert Kesselring, comandante delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue condizioni di salute, fu messo in libertà. Tornato in patria, fu accolto come un eroe dai circoli neonazisti bavaresi. Pochi gior-ni dopo il suo rientro a casa, Kesselring ebbe l'impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva nulla da rimproverarsi, e che gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento e fargli un monumento. A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con questa epigrafe:

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C redevo di aver letto moltissimi libri sulla Resistenza ma, da una ricerca, ho scoperto che non erano così tanti. Poi, però, ho capito: la maggior parte dei libri che ho letto non era sulla Resisten-za in Italia, ma sui movimenti di resi-stenza contro il nazismo nei tanti Paesi in cui il nazismo aveva portato la sua violenza ed i suoi aberranti principi. Leggere, da ragazza, m’induceva all’identificazione e così mi chiedevo come avrei reagito se mi fossi trovata in quel periodo storico. Oscillavo tra la paura e la fascinazione. L’eroismo, da giovani, ha una forte cari ca d’attrazione, anche se il mio naturale buon senso mi faceva dubitare delle mie capacità e del mio coraggio. Cercavo di immaginarmi nelle situazioni descritte dai libri. Cre-do, ancora oggi, che fosse inevitabile reagire: troppo insopportabili le scene cui i normali cittadini erano costretti ad assistere, così insopportabili da cancel-lare il naturale istinto di sopravvivenza. Così, per me che non c’ero, la Resisten-za diventò un’unica lotta di popoli, di-versi ma uguali nella rivolta. Molti libri parlavano della Franci a, molti si svolge-vano in Grecia o nei Paesi dell’Est. E sempre mi chiedevo come potessero trovare tanto coraggio uomini, donne, giovani ed anche giovanissimi. Come si può rischiare non tanto la morte, troppo assurda ed impensabile per un giovane, quanto le torture in cui i nazisti erano specializzati. Come si potesse accettare l’idea di non essere capaci di resistere, tradendo i propri compagni. Qualche risposta la trovavo nei libri che leggevo avidamente. Così ho incontrato alcuni libri fondativi che, però, mi hanno fatto anche ritenere fortunat a per essere nata troppo tardi. Perché è vero che “ è fortu-nato il Paese (ed il periodo) che non ha bisogno di eroi”. Mi è rimasto l’interes-se, il desiderio di conoscere da vicino quel periodo, specialmente nella sua realtà quotidiana. Cesare Pavese ne parla nei libri Il com-

pagno e La casa in collina, che furono i primi che lessi. I primi a farmi conosce-re quel tempo. Ma la vera sensazione di esserci l’ho avuta dai libri di Beppe

Fenoglio e poi da un libro che ho sco-perto per caso, Il clandestino di Mario Tobino, di cui sapevo che era un medi-co che lavorava in un manicomio fem-minile. Avevo letto il suo Le libere don-ne di Magliano in cui parla delle sue esperienze di psichiatra, e lo avevo ap-prezzato. C’è un tipo di libri che più che letteratura mi sembra, come dire, narra-tiva esperienziale, in quanto comunica-no con effi cacia, sia pur senza raggiun-gere grandi livelli letterari, un qualche tipo d’esperienza. E’ il narrare in senso letterale, donare agli altri un segmento della propria vita. Un livello, insomma, di onesto artigianato della scrittura, con il suo valore di testimonianza. Ed è per tante di queste testimonianze che io ho, in un certo senso, vissuto esperienze non mie, ma di cui ho un’idea abbastan-za precisa. Anche se stabilire la diffe-renza tra art e ed artigianato è probabil-mente presuntuoso. Parliamo meglio di memoria, che lo scrittore regala al mon-do, facendola diventare condivisa. Un altro narratore/testimone è Fenoglio che, con il Partigiano Johnny, e I ven-titrè giorni della città di Alba, ci parla della lotta contro il nazi-fascismo. Una lotta, soprattutto nel primo libro, de-scritta nella sua verità: non tanto un racconto di eroi ma di persone che vivo-no al freddo, dormendo sul nudo terre-no, con scarso cibo, poche munizioni ma sempre in compagnia della morte, propria e altrui. Un ambiente duro, pe-sante, faticoso in cui le giornate si tra-scinano una sull’altra nell’attesa di ordi-ni che ritardano, con problemi nei rap-porti umani, con discussioni e conflitti, pratici ed ideologici. Insomma in modo realistico. Che ti permette di esserci. Pavese e Fenoglio hanno anche in co-mune la descrizione delle Langhe, la zona di colline piemontesi che furono teatro di tante operazioni partigiane, di tanti gesti eroici. Del tutto diverso è il caso de La storia di Elsa Morante, in cui la lotta partigiana riguarda solo mar-ginalmente il racconto, ma rappresenta in modo vivido la ferocia delle rappresa-glie naziste: mi colpì in modo particola-re la punizione inflitta alle due partigia-ne, madre e figlia, uccise a colpi di baio-

netta naturalmente là dove le donne sono sempre offese. C’è sempre un ol-traggio in più per le donne, in qualunque condizione si trovino. Solo i mafiosi si prendono cura, nelle loro punizioni, di colpire gli uomini negli organi genitali. È una donna che diventa partigiana, tra tanti eroi al maschile, la protagonista di Agnese va a morire, di Renata Viganò, anche se lo fa per vendicare la morte del marito comunista, più che per convin-zioni personali. Comunque, Agnese diventa una staffetta partigiana e muore, uccisa dai nazisti, senza tradire come fanno le due donne de La storia. La condizione femminil e, più spesso d’attesa del ritorno dei loro uomini, è sottolineata nel romanzo di Cassola La

ragazza di Bube che, nel titolo, non ha neanche diritto al nome, Mara, in quanto il suo destino è solo quello di essere, appunto, la ragazza di Bube. Quella che passa la vita aspettando ed amando Bu-be, senza alcuna funzione ulteriore. Cer-to, la maggior parte delle donne non faceva che questo, oltre, naturalmente a darsi da fare giorno e notte per procura-re cibo ed assistenza ai figli ed ai propri genitori, tentando di restare in vita sotto i bombardamenti che, nella seconda guerra mondiale, uccisero più civili che militari. D’altr-onde oggi, a sentire E-mergency, nelle moderne guerre tecno-logiche e pulite, i morti sono al 92% civili. Ma non sono morti, sono danni collaterali. Devo ammettere che, oggi, il mio atteggiamento mentale nei confronti delle guerre di liberazione nazionale….. non è cambiato. E così mi guardo attor-no e ne vedo parecchie, anche se presen-tate in modo diverso. Anche se oggi gli invasori si chiamano in un altro modo: peacekeeper o peace enforcing, ad e-sempio. D’altronde, se i tedeschi avesse-ro vinto la guerra, come sarebbero stati rappresentati i movimenti di liberazione nei libri di storia? Ed i partigiani come sarebbero stati chiamati? Probabilmente come quelli che fanno oggi la Resistenza contro chi invade il loro Paese: terroristi.

A.L.D.

LA RESISTENZALA RESISTENZALA RESISTENZALA RESISTENZA

NARRATANARRATANARRATANARRATA

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D a molti anni, e con un ritmo sem-pre più incalzante, mi ritrovo ad ascolta-re ragionamenti e ri flessioni sulla Resi-stenza che non condivido assolutamen-te. Dicono, ad esempio, che dal fasci-smo, dalla Resistenza e dalla Liberazio-ne sono passate ormai tante decine di anni, che i protagonisti di quelle batta-glie, se non sono morti, sono ormai del tutto innocui. Dicono che bisogna pen-sare al futuro e non al passato, lasciando perdere quelle divisioni politiche ed ideologiche che hanno insanguinato l’Italia. Dicono che tutti quelli che, in buona fede, sono morti credendo in un’idea, meritano di essere messi sullo stesso piano e onorati allo stesso modo. Dicono ancora che molti degli avveni-menti ritenuti essenziali non sono mai avvenuti, e che altri, invece, sono stati occultati perché contrari a certe verità. Io credo che chi si occupa di storia deb-ba sempre fare i conti con nuove testi-monianze, nuove fonti, nuovi metodi di ricerca. Chi utilizza i documenti solo per sostenere un’ipotesi precostituita non è uno storico, ma solo un cattivo ideologo. Tuttavia esprimere un giudi-zio sulla nostra recente storia non solo è possibile, ma è doveroso, se è vero che chi non comprende gli errori è condan-nato a ripeterli. È certamente vero che la Resistenza non è stata tutta, e sola-

mente, l’epopea eroica e gloriosa della riscossa di un intero popolo di buoni, che volevano la libertà, contro i cattivi che volevano la dittatura. Ma constata-re i limiti di una tradizione romanzata ed esprimere giudizi ponderati e medita-ti con lo studio e col tempo, non signi-fi ca, come si vorrebbe oggi, buttare tutti nello stesso calderone, liquidando il problema con la battuta che sono tutti uguali. Il partigiano che si è battuto per la libertà del proprio paese, animato da ideali di giustizia e di uguaglianza, non può essere assimilato al repubblichino che, innocente ed in buona fede quanto si vuole, ha combattuto per il trionfo del Terzo Reich, del Führer, della Germa-nia, della razza ari ana e per lo sterminio di ebrei, zingari, omosessuali. Non si può, in nome della morte che li accomu-na, chiamare buon’anima il morto ed il suo assassino! Il tempo passa, il tempo lenisce le ferite e acquieta gli animi, ma non può trasformare il torto in ragione e pretendere, come oggi si pretende, che gli assassini ed i torturatori di 65 anni fa ricevano la pensione a carico di uno stato che volevano servo e dei contri-buenti che volevano schiavi di Hitler. La Resistenza e la lotta di liberazione la vogliono chiamare guerra civile. Una guerra civile, come quella americana del 1861-65 o quella spagnola del 1936-39, presuppone che vi sia una divisione

netta e radicale all’interno della società, una lacerazione tale da dividerla in due masse irrimediabilmente contrapposte. Ma, nell’Italia del ‘43, se formalmente si contrappongono il balbettante Regno del Sud in mano a Badoglio ed una Re-pubblica di Salò composta da servili marionette fasciste, di fatto si contrap-pongono partigiani italiani ed invasori nazisti: non guerra civile, ma guerra di liberazione. Gli scioperi operai del marzo del ‘43, a Torino, danno la misu-ra di una massa che preme da una part e, ma dall’altra non ci sono i fascisti, già in fase di tras formismo “ democratico”: ci sono pochi fanatici repubblichini ed i nazisti di Kesserling. Basti dire che all’arruolamento volontario per le Bri-gate Nere, che avrebbero dovuto coin-volgere quasi 500.000 uomini, non se ne presentarono che meno del 10%. Questo revisionismo storico, rivestito con i panni dello spirito di riconciliazio-ne e di pacifi cazione nazional e, si ac-compagna ad un altro, più grave tentati-vo, che è quello di giungere a minimiz-zare, fino a negarlo, il genocidio della Shoah. È il negazionismo. Si prende un fenomeno grande e complesso come lo sterminio degli ebrei e, sulla base di questioni insignificanti o marginali si nega tutto il fenomeno stesso. Secondo questi “ storici”, ben volentieri assecon-dati dai sempreverdi discendenti degli assassini di ieri, lo Zyklon B, usato per le camere a gas, era in realtà un prodot-to per disinfestare i prigionieri dai pi-docchi. I forni crematori, poi, non sa-rebbero stati in grado di “smaltire” l’enorme quantità di cadaveri e, di con-seguenza, i campi di sterminio non sa-rebbero mai esistiti. Proseguendo con la stessa logica, questo fior fior di storici nega che ci sia stato anche un genocidio contro gli ebrei, perché, sostengono, non sono mai stati trovati i piani per progettarlo né gli ordini per attuarlo. Per fermare queste forme di criminale ottu-sità non basta la legislazione che, in molti paesi europei (Italia esclusa, ov-viamente!), punisce chi si azzarda a negare l’evidenza: occorre una chiarez-za di pensiero che deriva solo da attività oggi pochissimo praticate: studiare e pensare. Pietra Pomice

REVISIONISMO E

NEGAZIONISMO

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F ino a pochi anni fa, la Resistenza rappresentava in Italia un’esperienza storica i cui valori morali venivano con-siderati fondativi della Repubblica de-mocratica, e perciò ritenuti in qualche modo universalmente condivisibili al di là delle divisioni politico-ideologiche. È per questo motivo che la produzione filmica sulla Resistenza ha vissuto pe-riodi d’oro, in cui le narrazioni costitui-vano patrimonio comune del popolo italiano mentre oggi invece un film sul-la Resistenza (più in general e, ahimé, sulla storia patria) è considerato un si-curo insuccesso prima ancora di nasce-re. Ma la vastità della produzione “storica” è tale da costringerci a delle scelte che limitino il campo. Parleremo perciò solo dei film italiani, dividendo la materia in tre capitoli distinti ed ag-giungendo ancora qualche titolo dell’ultimo decennio:

1. I film della Resistenza Già nel 1945 esce Giorni di gloria, un film- documentario di Mario Serandrei e Giuseppe De Santis, con la collabora-zione di Luchino Visconti e Marcello Pagliero, prodotto dall’Anpi (Associa-zione nazionale partigiani d’Italia). Nel-lo stesso periodo i capolavori del neore-alismo fanno conoscere il cinema italia-no in tutto il mondo: fra questi, due

opere di Roberto Rossellini, Roma città aperta, il film-simbolo di una nuova poetica in contrasto con la retorica fa-scista; e Paisà (1946), sei episodi sull’avanzata degli alleati attraverso l’Italia. Meno aderent e alle istanze poe-tiche del neorealismo è Un giorno nella vita (1946) di Alessandro Blasetti, un regista già cel ebre nell’epoca preceden-te; di ispirazione marxista (la guerra di Liberazione come lotta di classe) è in-vece, nello stesso anno, Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, anch’esso commissionato dall’Anpi.

2. I film sulla Resistenza Achtung! Banditi! (1951) di Carlo Lizzani, un regista per decenni impe-gnato a ricostruire vicende-chi ave della storia italiana, è ispirato ad una storia

vera di partigiani. Più melodrammatico è il tono espressivo de Il gobbo (1960) dello stesso Lizzani. Il primo film di un altro regista di impegno civile, Citto Maselli è Gli sbandati (1955). Di Resi-stenza torna ad occuparsi Rossellini con il drammatico Il generale Della Rovere (1959), da un racconto del giornalista Indro Montanelli ispirato ad una storia vera; e con Era notte a Roma (1960), ancora una condanna dell’assurdità del-la guerra. Lo “ sdoganamento” della

Resistenza come argomento da affront a-re anche attraverso la commedia avvie-ne con due film che vedono protagoni-sta Alberto Sordi: Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, sullo sbandamento delle truppe italiane dopo l’8 settembre;

e Una vita difficile (1961) di Dino Risi, un affresco di vent’anni della storia italiana, la cui prima parte vede un “inetto” nella parte dell’eroe partigiano. Si ride di più, ma in modo più superfi-ciale, ne I due marescialli (1961) di Sergio Corbucci, con il grande Totò. Altri due film dello stesso anno sono Un giorno da leoni di Nanni Loy e Tiro al piccione di Giuliano Montaldo, un coraggioso tentativo di “ leggere” la storia dalla parte dei ragazzi che aderi-rono alla Repubblica Social e (ma senza le banali comparazioni di oggi). Ancora Loy firma Le quattro giornate di Na-poli (1962), sull’eroica resistenza della città part enopea cont ro l’occupazione tedesca. La ragazza di Bube (1963) di Luigi Comencini è tratto dall’omonimo romanzo di C arlo Cassola. Una interes-sante ri flessione sulla Resistenza è nello “scomodo” film di Florestano Vancini Le stagioni del nostro amore (1966), mentre l’epopea della Resistenza vive ancora ne I sette fratelli Cervi (1968) di Gianni Puccini. C’è anche qual che film meno riuscito, in questa veloce

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rassegna: per esempio, Corbari (1970) di Valentino Orsini, che visto oggi ri-sulta eccessivamente ridondante; o, almeno in parte, Libera, amore mio… (1975) di Mauro Bolognini; o, ancora, Nemici d’infanzia (1975) di Luigi Ma-gni. Siamo invece dalle parti del melò, sia pure di impegno civile, con Musso-lini ultimo atto (1974) di Carlo Lizzani e con L’Agnese va a morire ((1976) di Giuliano Montaldo, dal romanzo di Renata Viganò. Negli stessi anni, due importanti autori ambientano i loro film negli anni della Resistenza: Pier Paolo Pasolini firma una sconvolgente allego-ria dell’Inferno attraverso le violenze del fascismo repubblichino in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975); diver-samente, la grande operazione narrativa compiuta da Bernardo Bertolucci con Novecento (atto II, 1976) legge la lotta di Liberazione come trionfo di popolo.

Da un libro importante di Elio Vittorini sulla Resistenza a Milano è tratto Uo-mini e no (1980) di Valentino Orsini. Ancora un tono epico più che di rico-struzione storica si trova ne La notte di San Lorenzo (1982) di Paolo e Vittorio Taviani, comunque ispirato ad un episo-dio reale della resistenza toscana. Un bel film, originariamente girato per la televisione, è Notti e nebbie (1984) di Marco Tullio Giordana, dal romanzo di Carlo Castellaneta. Molte pol emiche suscita alla sua uscita il film Porzus (1997) di Renzo Martinelli, ispirato ad un episodio di lotta fratricida in cui perse la vita anche il fratello di P. P. Pasolini. Altri due film tratti da opere narrative I piccoli maestri (1998) di Daniele Luchetti. (da Luigi Meneghel-lo) e Il partigiano Johnny (2000) di Guido Chiesa (dal famoso libro di Bep-pe Fenoglio).

3. I film sulla seconda guerra mondiale in cui si parla della Resisten za

Moltissimi sono i film sulla seconda guerra mondiale nei quali, in qualche modo, si fa cenno ad episodi della Resi-stenza. In questa sezione possiamo solo limitarci a citarne alcuni tra i più impor-tanti, senza alcuna pretesa di esaustivi-tà: Cronache di poveri amanti (1954) di Carlo Lizzani, ambientato nella Fi-renze del 1925. Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, un dramma in tempo di guerra che mostra a quale livello di abbrutimento possa giungere l’uomo. La lunga notte del ’43 (1960) di Flore-stano Vancini, tratto da un racconto di Bassani, una satira sul dopo 8 settem-bre. Andremo in città (1966) di Nelo Risi, dall’omonimo romanzo della mo-glie del regista, Edith Bruck. Il confor-

mista (1970) di Bernardo Bertolucci, tratto dal romanzo di Alberto Moravia, incentrato sul complesso rapporto tra borghesia e fascismo. Il giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica, dal romanzo di Giorgio B assani, sulla persecuzione e deportazione degli ebrei a Ferrara tra il 1938 e il 1943. Strategia del ragno (1972) di Bernardo Bertolucci, una ri flessione sul fascismo ispirata ad un racconto di Borges. Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola, l’incontro tra un intellettuale omosessuale ed una casalinga il 6 mag-gio 1938, durante la visita di Hitler a Roma. Jona che visse nella balena (1993) di Roberto Faenza, la straziante storia di un piccolo ebreo tratta dall’autobiografi a di Jona Oberski. La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, il sopravvalutato premio Oscar visto da tutti. La tregua (1997) di Francesco

Rosi, tratto dall’omonimo libro di Pri-mo Levi, ideale continuazione di Se questo è un uomo.

4) L’ultimo decennio

Gli ultimi anni hanno visto in Italia il tentativo di egemonia di un revisioni-smo storico basato sulla sottovalutazio-ne del ruolo della Resistenza come guerra di Liberazione nonché – ancor più grave – la proposizione di un para-digma comparativo che tenderebbe a rendere di uguale dignità la scelta di quanti fecero la scelta partigiana e di quanti invece preferirono part ecipare agli orrori della Repubblica di Salò. Questa sofferenza storiografi ca, unita ad un certo conformismo culturale di pari passo con le di fficoltà produttive e distributive del cinema italiano che finiscono col costituire un’arma di ri-

catto per chi volesse affront are il tema in modo rigoroso, ha sfavorito la produ-zione di film sul periodo resistenzial e. Forniamo perciò solo pochi titoli: Con-corren za sleale (2001) di Ettore Scola, ambientato a Roma nel 1938, l’anno delle leggi razziali. I nostri anni (2001) di Daniele Gaglianone, una ri flessione sul passato con l’uso di vari linguaggi (fiction, intervista, documentario). San-guepazzo (2008) di Marco Tullio Gior-dana, la storia romanzata dei divi del cinema fascista Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. Zoè (2008) di Giuseppe Varlot-ta, la triste vi cenda della piccola prota-gonista durante la guerra. L’uomo che verrà (2009) di Giorgio Diritti, che racconta una vicenda con lo s fondo della strage nazista di Marzabotto, nell’autunno del 1944.

Giuseppe Strazzulla

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