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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo) Numero 235 302 21 ottobre 2017 Tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte [...] la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa Karl Marx Maschietto Editore Il treno dei desideri

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Con la cultura

non si mangia

Giulio Tremonti

(apocrifo)

Numero

235 302

21 ottobre 2017

Tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte [...] la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa

Karl Marx

Maschietto Editore

Il treno dei desideri

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dall’archivio di Maurizio Berlincioni

immagine

NY City, 1969

La prima

Questa è una visione

abbastanza insolita,

sempre ripresa nel

quartiere abitato

principalmente

da “latinos” in un

momento di poca

frenesia. Fui molto

colpito dal fatto

che non ci fossero

più persone per

la strada ed anche

le macchine e gli

autobus si sarebbero

potuti contare sulle

dita di una mano. La

trovai una visione

quasi inquietante.

Ricordo di essermi

avventurato per

curiosità in qualche

via traversa, ma

anche in queste

strade sembrava di

essere quasi piombati

in una specie di

deserto. A tutt’oggi

non sono mai riuscito

a farmene una

ragione.

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Direttore

Simone SilianiRedazione

Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Progetto Grafico

Emiliano Bacci

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Editore

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Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Numero

235 302

21 ottobre 2017

In questo numeroPioggia d’oro

di Ruggero Stanga

Il racconto impossibile di Paolo Albani

di Laura Monaldi

Contaminazioni polinesiane

di Alessandro Michelucci

I “mai visti” di Santa Felicita: Giuliano da Sangallo

di M. Cristina François

Teatro totale in baracca

di Gianni Biagi

Libido Il sesso attraverso gli occhi

di Danilo Cecchi

Il Terzo Paradiso a Pistoia

di Angela Rosi

Gatto di canfora

di Claudio Cosma

Guerrieri e cavalli I sogni mitici di Paolo Staccioli

di Antonio Natali

Carofiglio il marsigliese

di Mariangela Arnavas

Se risorgono i fascisti non è certo colpa dell’EUR

di Michele Morrocchi

Il multiforme ingegno di Morena Rossi

di Monica Innocenti

Dumas e Maupassant non volevano la mostruosa torre

di Simonetta Zanuccoli

Il mio incontro con Plinio Nomellini

di Anna Lanzetta

e Simone Siliani, Andrea Caneschi... Illustrazioni di Massimo Cavezzali, Lido Contemori

L’ineffabile RM

Le Sorelle MarxBentornato Presidente

I Cugini Engels 

La locomotiva di Staino

Lo Zio di Trotzky

Riunione di famiglia

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421 OTTOBRE 2017

E va bene, l’hanno detto quasi tutti i giornali,

e molti in prima pagina. Abbiamo scoperto da

dove viene l’oro, l’uranio, il platino.

Per fabbricarli, occorrono un sacco di neu-

troni, e molta moltissima energia. I neutroni

sono quelle particelle che insieme ai protoni

compongono il nucleo degli atomi e costitui-

scono la massa del nucleo stesso. A differenza

dei protoni, sono privi di carica elettrica; ad

essi sono legati da una delle forze che gover-

nano il mondo, quella che si chiama forza for-

te, e sono fondamentali per dare stabilità agli

atomi: i protoni da soli schizzerebbero lontani

uno dall’altro per via della loro carica elettri-

ca, e senza neutroni, avremmo solo atomi di

idrogeno.

Quale miglior posto di una stella di neutro-

ni, fatta sostanzialmente di neutroni, tenuti

insieme dalla gravità? Le stelle di neutroni

sono il prodotto finale dell’evoluzione di stel-

le molto più grosse del Sole, quelle stelle che

finiscono con una esplosione di supernova.

Hanno una massa che è di solito una volta e

mezzo quella del Sole, racchiusa in una sfera

che ha una dozzina di chilometri di diametro.

Per confronto, il Sole ha un diametro di circa

un milione e mezzo di chilometri. Dodici, pa-

ragonato a un milione e mezzo.

Quale miglior posto per trovare molta ener-

gia, di una collisione fra stelle?

Ma perché due stelle, tra l’altro così piccole

debbono mai scontrarsi? Non deve essere fa-

cile prendere bene la mira!

Ecco, qui entrano in scena le onde gravitazio-

nali.

Le due stelle di neutroni orbitano una intor-

no all’altra. Ad esempio già nella nostra galas-

sia si conoscono una decina di queste stelle di

neutroni binarie.

Due stelle che orbitano deformano lo spazio,

lo stirano e lo comprimono: queste sono le

onde gravitazionali. Lo spazio, molto rigido

a queste sollecitazioni, richiede molta molta

energia per una piccola deformazione. (Un

momento. Lo spazio si deforma? Lo spazio

è rigido? Nessuno lo direbbe, sulla base del-

la nostra pura esperienza sensoriale, eppure

questo è quello che succede, e che vediamo,

ora che riusciamo a fare misure sensibili a suf-

ficienza.).

Una coppia di stelle normali (ce ne sono

moltissime nell’Universo, di queste coppie)

produce onde debolissime e di bassissima fre-

quenza, tanto più bassa quanto più lungo è il

periodo dell’orbita, che di norma è dell’ordi-

ne di anni. Le onde gravitazionali si portano

via un po’ d’energia, e di conseguenza l’orbita

rimpicciolisce, in maniera impercettibile ed

ininfluente sul sistema di stelle normali, ma

non per coppie di stelle di neutroni, che sono

piccole e possono permettersi orbite molto

strette, con periodi di qualche ora. Le due

stelle di neutroni si avvicinano, e vanno sem-

pre e più veloci: le onde emesse aumentano

di frequenza e di ampiezza, la perdita di ener-

gia aumenta, e il processo si incrementa.

Le onde si allontanano nello spazio. Arriva-

no da noi. Ad un certo punto, quando ormai

manca poco più di un minuto alla collisione,

raggiungono una frequenza ed una ampiezza

tali da essere rivelabili dalle nostre antenne,

Virgo e LIGO. La frequenza e l’ampiezza del

segnale gravitazionale continuano ad aumen-

tare, fino alla collisione. Poi, silenzio.

Nella collisione, parte della energia a disposi-

zione viene usata per produrre atomi pesanti,

e parte della massa viene dispersa nell’Uni-

verso, e va ad arricchire il mezzo interstellare.

Neanche due secondi dopo la collisione

(questa tempistica si è trovata quando si sono

di Ruggero Stanga

Pioggiad’oro

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521 OTTOBRE 2017

quello gamma erano un ovvio indizio. Come

si vede, c’è anche una dose di buona sorte: se i

getti del lampo gamma non avessero investito

la Terra, questa storia sarebbe stata molto più

povera.

Come sempre succede nel caso di lampi gam-

ma, molti telescopi, da Terra e dallo spazio,

interruppero il loro programma osservativo

per scandagliare la regione da cui proveniva

il segnale: questa volta, il segnale delle tre

antenne gravitazionali poteva restringere

il campo con più precisione dei soli segnali

confrontati i dati), due satelliti per raggi gam-

ma, Fermi ed Integral rivelarono un lampo

di raggi gamma di breve durata, meno di due

secondi. Uno dei tanti lampi. I raggi gamma

rappresentano la parte più energetica dello

spettro delle onde luminose, e si pensava che

questi lampi brevi fossero legati alla collisio-

ne di due stelle di neutroni, e venissero pro-

dotti in due fasci collimati opposti, occasio-

nalmente in direzione della Terra. Mancava

la conferma di questa idea. La coincidenza

temporale del segnale gravitazionale e di

gamma. In più, già dal solo segnale gravita-

zionale è possibile ricavare la distanza della

collisione. In breve, si è identificata la sorgen-

te, in una galassia che si chiama NGC 4993,

lontana 130 milioni di anni luce.

Riflessione aggiuntiva: quei raggi gamma si

osservano dallo spazio, perché i 90 km di at-

mosfera che ci sovrastano li assorbono ed im-

pediscono che arrivino a terra. Eppure sono

riusciti ad attraversare 130 milioni di anni

luce, cioè circa un miliardo di miliardi di km,

indisturbati. Questo dà una idea di quanto

vuoto sia l’Universo, e di quanto isolati e soli-

tari siano i corpi celesti che lo abitano.

La grande novità rispetto agli altri 3 segna-

li gravitazionali rilevati prima, sta proprio

nell’avere connesso l’evento gravitazionale

con una controparte ottica, che non esiste se

la collisione avviene fra due buchi neri, che

non possono eiettare materia energetica in

giro, proprio perché dai buchi neri non scap-

pa nulla.

Le tessere del mosaico vanne tutte a posto.

I lampi gamma, quelli brevi che durano al più

un paio di secondi, sono stati definitivamente

associati alla fusione di due stelle di neutroni.

Le osservazioni dei giorni successivi con i

grandi telescopi a terra hanno identificato

la presenza di metalli pesanti nella materia

dispersa: una massa in oro pari a 10 volte la

massa della Terra. Eventi come questo, seb-

bene rari, si sono ripetuti più e più volte nella

dozzina di miliardi di anni di vita della nostra

Galassia. Per quanto isolati siano gli oggetti

dell’Universo, pure sono intrecciati fra di loro

da queste storie evolutive.

Le onde gravitazionali non sono un detta-

glio curioso della fisica: diventano un attore

importante della storia dell’Universo, perché

determinano l’evoluzione di sistemi stellari,

e, in maniera indiretta, l’abbondanza degli

elementi nell’Universo. Restano ancora da

verificare, se mai ci si riuscirà, le idee sulla

interazione fra le onde gravitazionali e la ma-

teria nelle fasi iniziali dell’Universo.

Nasce una nuova astrofisica, la astrofisica con

le onde gravitazionali.

Un’ultima nota. Il nostro piccolo mondo di

ricercatori italiani continua a dare un contri-

buto importante e apprezzato. Da Virgo, alla

strumentazione a bordo dei satelliti per raggi

gamma, alle attrezzature a terra, alle osser-

vazioni e alla loro analisi. Facciamo in modo

che questa vetta di eccellenza scientifica non

rimanga isolata, e, tanto meno, si affievolisca

nel tempo.

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621 OTTOBRE 2017

disegno di Lido Contemori

L’ineffabile RM (prima il cognome e poi il

nome com’era in uso nella emergente piccola

borghesia della campagna toscana), ex Presi-

dente del Consiglio dei Ministri, ex Sindaco

di Firenze, ex Presidente della Provincia di

Firenze e ex segretario provinciale della Mar-

gherita, ha ineffabilmente dichiarato ( Corriere

della Sera di mercoledi 18 ottobre) che non ha

avuto nessun ruolo nella inquietante vicenda

dell’ordine del giorno, presentato dal PD parti-

to di cui è segretario, approvato dalla Camera

dei Deputati contro il Governatore della Banca

d’Italia Ignazio Visco. Poniamo all’attenzione

dei nostri affezionati lettori una semplice valu-

tazione logica. Se assumiamo come vera l’affer-

mazione del segretario del PD significa che egli

non ha nessun controllo sull’operato dei gruppi

parlamentari del suo partito e come tale la

questione pone immediatamente un problema

di leadership dentro il PD. Se invece l’afferma-

zione non corrispondesse al vero il segretario

del PD assumerebbe il ruolo di bugiardo. In

entrambi i casi una posizione scomoda.

Proletari di tutto il mondo... gioite! I bei

vecchi tempi stanno tornando, anche in

Italia. E non solo perché si profila il ritorno

di Silvio Berlusconi nell’area di governo.

Infatti, Matteo Renzi, che essendo del

contado fiorentino rende omaggio al detto

“contadino, scarpe grosse e cervello fino”,

per evitare che “Articolo 1 – MDP” dell’o-

diato D’Alema facesse vincere il centrode-

stra sottraendo voti al Pd, ha pensato bene

di allearsi direttamente con Berlusconi.

Che per ricambiare la cortesia gli ha votato

la legge elettorale, ottenendo peraltro in

cambio dal governo Gentiloni un occhio di

riguardo sulla spinosa vicenda Telecom.

Ma non è tanto in questo scambio di favori

e influenze fra Renzi e Berlusconi, quanto

la resurrezione cabarettistica del Cavaliere.

Non è senza un commosso senso di gratitu-

dine che vogliamo mandare un pensiero a

Silvio nostro che dal palco di Lacco Ameno

(nomen omen) sull’isola di Ischia ad una

convention di Forza Italia ha voluto darci

prova che quanto a barzellette è due spanne

sopra a Renzi. Ha infatti spiegato i retro-

scena della sua strategia sull’immigrazione

messa in atto con un accordo con Gheddafi

all’epoca: “Andai con Gheddafi e con i suoi

architetti nei centri di accoglienza su cui

avevo ottenuto che ci fossero i caschi blu

dell’Onu a garantire che fossero rispettate

le condizioni umanitarie. Guardo i bagni e

mi accorgo che non c’era il bidet e quando

Gheddafi mi chiese cosa fosse il bidet io

risposi: “I bidet ce li metto io, avrò l’orgoglio

di aver insegnato agli scopatori di africani

che esistono i preliminari”». Così Silvio

Berlusconi sul palco dell’auditorium di

Lacco Ameno, sull’isola d’Ischia, parlando

di immigrazione.”

Insomma, in confronto a lui, Minniti è un

ragazzo. Bentornato Presidente, con lei non

saremo mai soli!

Bentornatopresidente

Le SorelleMarx

I CuginiEngels

L’ineffabile RM

didascalia di Aldo Frangioni

Nel miglioredei Lidipossibili

Lo stolto guarda il dito invece del treno di Matteo Renzi

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721 OTTOBRE 2017

Lo Zio diTrotzky

In virtù della nostra amicizia e dell’ammi-

razione che Sergio Staino aveva per il mio

antenato Lev Trotzky, ho avuto il privilegio

di accompagnarlo in una missione storica

a Pavana, una sera, a casa di Francesco

Guccini. Vi racconto la cronaca. Il segreta-

rio del PD Matteo Renzi ha tanto insistito

(promettendo anche di riaprire per la

decima volta l’Unità) affinché Staino lo

accompagnasse da Guccini (che, come il

condottiero rignanese ha confessato, è il suo

cantante preferito) per chiedergli di poter

usare alcune frasi de “La locomotiva” per la

sua campagna elettorale ferroviaria.

Così ha esordito Matteo: “Senti Francesco,

si fa una ganzata: mentre vo in giro per l’I-

talia a raccattare voti per tornare al governo

si mette a tutto spiano la tu’ canzone. Senti

qua: “E sul binario stava la locomotiva, la

macchina pulsante sembrava fosse cosa

viva, sembrava un giovane puledro che

appena liberato il freno mordesse la rotaia

con muscoli d’ acciaio, con forza cieca di

baleno” E chi sarebbe questo giovane pule-

dro? Mais je suis, bien sûr”.

Guccini l’ha guardato incredulo e ha

trangugiato il primo bicchiere di lambru-

sco. Ma Renzi era un fiume in piena: “Alla

partenza tu vieni te e canti la canzone.

Oppure preferisci che passi io con il treno

da Bologna. Meglio, così quando arrivo, tu

sei sul binario e canti ‘ma alla stazione di

Bologna arrivò la notizia in un baleno’. Eh,

che ne dici? Forte, vero?”

E giù il secondo bicchiere di lambrusco,

mentre Guccini cerca di dissimulare il

disgusto: “Ma, Matteo, io non canto più; lo

dovresti sapere... Non so... mi sembra un po’

forte, in effetti...”

Ma Renzi non demorde: “Guarda France-

sco, io penso proprio che te, inconsciamente,

quando hai scritto la canzone pensavi già

a me: ‘sembrava avesse dentro un potere

tremendo, la stessa forza della dinamite’.

Sono io, no?”

Terzo bicchiere e silenzio imbarazzato,

mentre Guccini dava di gomito a Staino,

sussurrandogli in un orecchio “Senti mo’

Sergio, ma quest’ chè l’è un babi! Va ben

che l’è méi al vein svanì che l’aqua fràsca,

ma qui s’esagera!”. Staino, mentre Renzi si

alzava ad afferrare una chitarra nell’angolo,

gli ha risposto “Oh Francesco, ‘un fare tanto

lo schizzinoso: ‘i Bomba m’ha promesso che

riapre l’Unità se si fa questa cosa. Magari

ricordagli Eskimo, sai... ‘alcuni audaci in

tasca l’Unità”. Guccini è passato rapida-

mente al quarto bicchiere di lambrusco.

Intanto Renzi, imbracciata la chitarra, ac-

cenna a due accordi de “La locomotiva” ed

ha esclamato: “Ideona!!! Si suona e si canta

insieme un paio di strofe ‘Salì sul mostro

che dormiva, cercò di mandar via la sua

paura e prima di pensare a quel che stava

a fare, il mostro divorava la pianura’. Nota

la fine metafora: chi è il mostro dormiente?

Ma la Sinistra, no? Arrivo io e gli do’ un

calcio in culo e si parte!”

Guccini, disperato, si attacca al collo della

bottiglia e trangugia tutto il lambrusco,

sentenziando: “Cal vein chè l’è tante boun

che a-m sa fadiga a pisèrel [trad. questo vino

è tanto buono che faccio persino fatica a

pisciarlo]. Caro Matteo, cogli tu questa fine

metafora: Cu’t casches l’usel matera e u’t

rimbalzes in the cul! [trad. che ti cascasse

l’uccello per terra e ti rimbalzasse nel culo]

E te, Sergio l’ha mustrè e cul pr’una zrìsa.

[trad. hai mostrato il culo per una ciliegia].

Ma chi m’hai portato. Almeno quando mi

portavi D’Alema si discuteva del mondo, e

poi lui faceva come voleva. Ci propri un cu-

calon [trad. sei proprio un credulone]. Ma

te, Matteo, lo sai come finisce la canzone?

Che te ve’ a sbater contro a un mur! Perché

ricordet: Quànd la mòrt la vîn, an gh’è brisa

ùss c’al tîn.[trad. quando arriva la morte,

non c’è porta che tenga.]”

Piccola rubrica per i distratti che raccoglie

le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di

Matteo Renzi.

Se invece c’è un’occasione in cui non ho

avuto abbastanza coraggio è stata quando

mi sono fermato davanti alla prima polemi-

ca su ruolo di Marco Carrai [...] curioso de-

stino per un giovane che in tutte le assem-

blee non poteva finire un intervento senza

citare Giorgio La Pira o Pierre Teilhard de

Chardin”

Avanzidi Avanti

La locomotiva di Staino

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821 OTTOBRE 2017

Il racconto impossibile

Le opere di Paolo Albani esaltano lo sguardo del

lettore per inventiva e originalità: ogni singola

parte, studiata nel dettaglio, rappresenta l’esito

di un processo creativo che dal personalissimo

intuito, ironico e graffiante, si fa materialità con-

creta, dotata di uno statuto a se stante e di un

impatto comunicativo forte e diretto. Quadri, la-

vori e libri d’artista esprimono da soli il proprio

messaggio senza bisogno di alcuna spiegazione,

poiché Paolo Albani gioca con il linguaggio po-

etico e con quello artistico attraverso particolari

procedimenti ludici tesi a concretizzarsi in un

soggettivo divertissement, capace di evolversi

in soluzioni improbabili e inedite. I giochi di

rimandi, associazioni, contrapposizioni e oppo-

sizioni concettuali e figurative animano le opere

di un artista eclettico e incline a fare della pro-

pria prassi un’arte totale, dalle mie sfaccettature

ed espedienti, ma sempre fedele a se stessa e alla

propria ricerca sulle contraddizioni del mondo

e della storia umana. Quella di Paolo Albani

è un’arte capace di distruggere le barriere che

dividono il possibile dall’impossibile, l’astratto

dal concreto, il nulla dal tutto, facendo vertere

sull’opera d’arte qualsiasi direttiva esistente.

Allo stesso modo il suo Racconto impossibile.

Omaggio a Tommaso Landolfi, - in esposizione

a Fiesole da sabato 21 ottobre presso Quadro

0,96, la Galleria più piccola del mondo - un

dattiloscritto illeggibile dalle dimensioni troppo

piccole con una didascalia al contrario molto

grande, è un chiaro e arguto richiamo all’im-

portanza della significazione generale e all’im-

possibilità attuale di canonizzare l’espressione

comunicativa e facendo dell’opera d’arte in sé

una semantica sensoriale poetica e immaginifi-

ca, impossibile da decifrare ma concreta nella

sua facile godibilità estetica. Chiaro “omaggio”

alla seconda ristampa dei Racconti impossibili

di Tommaso Landolfi a cura di Giovanni Mac-

cari per Adelphi a distanza di circa sessant’anni

dalla prima edizione (Vallecchi, 1966), il Rac-

conto impossibile di Paolo Albani è un genera-

tore molteplice di messaggi e significati, creato

per essere contemplato proprio nell’intimo della

sua non-possibile lettura, ma nella sua generale

retorica e metaforica intensità.

di Laura Monaldi

Paolo AlbaniA Quadro 0,96

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921 OTTOBRE 2017

col regista Peter Jackson (Beyond the Edge,

Il signore degli anelli).

Tornando a Utterance, che in inglese signi-

fica “espressione”, il titolo allude al fatto

che questo è l’ultimo lavoro di Nunns. Po-

che settimane dopo la registrazione, infatti,

il musicista ha dovuto cessare l’attività per

motivi di salute.

Gli undici brani non sono stati composti

nel senso classico del termine, ma sono nati

da libere improvvisazioni che poi sono sta-

te perfezionate collettivamente. Utterance

è una sinfonia polinesiana screziata di co-

lori europei, un magico intreccio di suoni

antichi e moderni che si fondono dove la

distesa confinata del Pacifico incontra il

cielo.

La confezione, sobria ed elegante, confer-

ma la qualità dell’etichetta, nata dal connu-

bio di passione e perizia tecnica.

Quando si parla di contaminazione mu-

sicale, in genere, si fa riferimento a due o

più musicisti che riescono a collaborare pur

venendo da esperienze diverse. Gli esempi

sono molti ed estrememente vari: Krzysztof

Penderecki e Don Cherry (Actions, 1971),

Toumani Diabaté e Damon Albarn (Mali

Music, 2002), Sting e il liutista bosniaco

Edin Karamazov (Songs from the Labyrin-

th, 2006). In genere si tratta di connubi

occasionali che si coagulano in un disco,

magari due, al di fuori dei quali ciascun ar-

tista prosegue il proprio cammino. Un caso

diverso è quello dei musicisti che si immer-

gono in una cultura diversa e fondano il

proprio percorso su questa scelta. Quindi

non hanno bisogno di collaborare con altri:

la contaminazione fa parte di loro come i

cinque sensi.

Un caso emblematico è quello di Richard

Nunns (vedi n. 84), neozelandese nato nel

1945, che suona gli strumenti tradizionali

maori: fiati e percussioni costruiti con con-

chiglie, legno, ossa e pietra. È proprio gra-

zie a lui che questi strumenti naturali sono

tornati in uso negli anni Novanta dopo

un lungo oblio. In questa preziosa opera

di riscoperta Nunns ha trovato il sostegno

dell’etichetta Rattle, fondata nel 1991 da

Keith Hill, Tim Gummer e Steve Garden.

Recentemente Nunns ha realizzato il CD

Utterance (Rattle, 2017) insieme a Natalia

Mann e David Long.

La prima è un’arpista nata in Nuova Ze-

landa da padre scozzese e madre samoana.

Come Nunns, anche lei è una “contami-

nata naturale”. I due si sono conosciuti a

Istanbul, dove Natalia ha vissuto per vari

anni. Musicista di estrazione classica, ma

aperta alle musiche più diverse, nella me-

tropoli turca ha collaborato a lungo con

vari musicisti locali.

Completa l’insolita fomazione David

Long, che suona banjo, chitarra e there-

min. Originariamente attivo nel rock, il

musicista neozelandese si è poi orientato

verso la composizione orchestrale e verso

la sperimentazione, collaborando fra l’altro

di Alessandro Michelucci

Contaminazioni polinesiane

MusicaMaestro

disegno di Massimo CavezzaliSCavezzacollo

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1021 OTTOBRE 2017

della cooperativa sociale Manusa, che han-

no tagliato, aggiustato e ricomposto i panni

usati creando una grande opera collettiva.

Che cos’è il terzo paradiso? “È la fusione tra

il primo ed il secondo paradiso. Il primo è il

paradiso in cui la vita sulla terra è totalmente

regolata dalla natura. Il secondo è il paradiso

artificiale, sviluppato dall’intelligenza umana

attraverso un processo che ha raggiunto oggi

proporzioni globalizzanti. Il progetto del ter-

zo paradiso consiste nel condurre l’artificio,

cioè la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura

e la politica restituire vita alla Terra. Il terzo

paradiso è il nuovo mito che porta ognuno

ad assumere una personale responsabilità in

questo frangente epocale. Con il nuovo se-

gno d’infinito si disegnano tre cerchi:quello

centrale rappresenta il grembo generativo

del terzo paradiso”. (M. Pistoletto). Il Terzo

Paradiso è un passaggio evolutivo nel quale

l’intelligenza umana trova i modi per convi-

vere con l’intelligenza della natura. Nel tardo

pomeriggio di sabato 30 settembre una picco-

la folla ha accompagnato il viaggio del Terzo

Paradiso dal Palazzo dei Vescovi alla Galleria

Vannucci, l’opera con struttura in alluminio

e ricoperta di abiti dismessi colorati sembrava

pesante, alcuni uomini la portavano a spalla

come un feretro. Il Terzo Paradiso è un’opera

trasversale che può dialogare con epoche sto-

riche diverse perché racchiude in se la storia

dell’uomo e del suo ambiente. Il nuovo segno

dell’infinito è bello e interessante, l’opera è

stata riproposta in tante diverse realtà e creata

con i materiali più vari. Le foto delle installa-

zioni, in mostra alla galleria Vannucci, fanno

da cornice al Terzo Paradiso collocato a ter-

ra. L’opera è work in progress, un lavoro che

ogni volta ri-nasce, si rinnova continuamen-

te e sempre nasce “in sito” e proprio come il

simbolo dell’infinito al quale si ispira non ha

e non avrà mai né inizio né fine. E’ un’opera

collettiva, tante persone partecipano a crear-

la ed è l’ovvio evolversi del lavoro artistico di

Michelangelo Pistoletto in quanto già con le

sue opere specchianti il fruitore entrava den-

tro l’opera dialogando con essa e con l’artista

nonché con il luogo espositivo. Con questa

nuova poetica l’artista ci ri-chiama a un “noi”

per creare non solo l’opera ma anche a essere,

ciascuno di noi, responsabile della nuova era

cioè del Terzo Paradiso.

Alla Galleria Vannucci di Pistoia si può am-

mirare la nuova opera di Michelangelo Pi-

stoletto il “Terzo Paradiso” assieme ad altre

opere, nella mostra “Michelangelo Pistoletto

Presente” fino al 13 novembre. Il Terzo Para-

diso è stato presentato a Palazzo dei Vescovi

nella sala che ospita l’Arazzo Millefiori, opera

medievale dall’ordito in seta e lana, popolata

da animali selvatici e da una grande quantità

di fiori. Il Terzo Paradiso racconta trame di

vita esattamente come l’arazzo, poiché è di

fattura artigianale e realizzato dalle donne

di Angela Rosi

Il Terzo Paradiso a Pistoia

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1121 OTTOBRE 2017

lo stesso autore dichiara in un’intervista alla

Stampa. Contestualmente l’autore riesce a

rendere nel testo la dinamica di una sottile

tensione sempre presente che ruota intorno ad

una città, Marsiglia, con i suoi misteri e le sue

contraddizioni, aperta e cordiale e al tempo

stesso pericolosa e inquietante, dove si incon-

trano con la stessa facilità la morte, la bellezza,

la violenza, la tenerezza e nella quale padre

e figlio dovranno affrontare insieme ,per ben

due volte, come nelle prove imposte agli eroi

delle fiabe, l’ora più difficile del giorno, quan-

do la notte ancora è profonda e il mattino po-

trebbe non arrivare, l’ora in cui si verificano la

maggior parte dei suicidi e in cui come sa bene

chi soffre di emicrania, comincia nella testa

quel dolore assurdo che ti sveglierà disperato

un’ora o due dopo, l’ora delle crisi. Angst, la

parola tedesca che, come spiega il padre al fi-

glio nel romanzo, vuol dire sia ansia che paura

è quel che percorre sotterraneamente questo

spazio temporale; ma è un’ansia che si apre e

illumina anche spesso e in particolare in una

descrizione molto bella e quasi manzoniana

della città che si risveglia: ”Gente che correva,

operai con la faccia assonnata e piccole borse

a tracolla con il pranzo, garzoni che consegna-

vano il pane, spazzini al lavoro, poliziotti e in-

Carofiglio il marsigliese“Nella vera notte buia dell’anima sono sempre

le tre del mattino”; questa citazione da Francis

Scott Fitzgerald è una delle chiavi di lettura

dell’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio

che appunto s’intitola “Le tre del mattino”;

storia dell’incontro tra un padre e un figlio

lontani e disamorati costretti dalle circostanze

della vita a trascorrere due giorni e due notti

completamente insonni a Marsiglia. L’enfasi

sulla difficoltà nei rapporti tra padri e figli, sia

maschi che femmine, è particolarmente en-

fatizzata nell’attuale vasta letteratura psico/

sociologica non sempre di alto livello; di fatto,

la difficoltà nella comunicazione soprattutto

emotiva tra padre e figli viene sicuramente da

lontano. Impossibile non ricordare il grande

Joseph Roth nella “Marcia di Radetsky” con

la tragica narrazione del rapporto tra l’anzia-

no funzionario asburgico, rigido e apparente-

mente impassibile e il giovane sotto ufficiale

,giocatore senza speranza in cammino inelut-

tabile verso l’autodistruzione. Nel romanzo

di Carofiglio, la scrittura dalla musicalità pia-

na,equilibrata, sottilmente malinconica, senza

forti accelerazioni, ma anche senza smagliatu-

re, viene sicuramente in aiuto; una scrittura

come una scultura , dove si punta a togliere,

a scavare, a eliminare le parole inutili, come

di Marinagela Arnavas

fermiere; e superstiti della notte in fuga verso

i propri rifugi, prima che la luce del giorno li

incenerisse”.

È uno di quei libri che, da una parte si ha vo-

glia di leggere in un fiato, dall’alta impongono

spesso di tornare indietro di qualche pagina

per rileggere uno o due passaggi interessanti;

una narrazione che somiglia al jazz, altro ele-

mento centrale di questa vicenda, proprio per-

ché , parafrasando le parole del padre al figlio

nel romanzo, non c’è uno spartito già scritto,

ma solo “l’intenzione”; lo spartito o meglio il

tema è solo il punto di partenza, anche se l’au-

tore sa dove e come vuole arrivare. Intenso e

capace di emozionare “Le tre del mattino“ è un

romanzo che dovrebbe suggerire a padri e figli

di intraprendere nel corso della vita qualche

breve viaggio insieme, in intimità, soprattutto

alla vigilia dell’ingresso dei figli nell’età adulta

ma anche dopo, senza aspettare la spinta del

destino che potrebbe non arrivare mai, appro-

fittando della globalizzazione e della facilità di

viaggiare perché forse la libertà di esprimersi e

comunicare non esiste al di fuori di una certa

dimensione di rischio, di insicurezza che solo

una navigazione senza rotta precisa può con-

sentire. Come ci mostra Carofiglio, si possono

aprire orizzonti inaspettati.

Una serata per Cultura Commestibile, con gli interventi di France-

sco Gurrieri e di Antonio Natali nella ex Chiesa di Santa Verdiana.

Una serata quasi allegra quella di mercoledi 18 ottobre nell’ambito

delle manifestazioni del Chiostro delle Geometrie, organizzato da

Giancarlo Cauteruccio, accompagnata dalle musiche dei “favolosi

anni settanta” e dallo scorrere sul video di alcune delle nostre co-

pertine.

Una serata per parlare della nostra rivista, voce libera e indipen-

dente nel panorama culturale toscano.

Una serataper Cultura Commestibile

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1221 OTTOBRE 2017

“Libido” è un libro di fotografie concepito

ed editato in proprio dal fotografo Francesco

Vignozzi, realizzato in bianco e nero ed in

un numero limitato di copie, personalizzate

e firmate. Un vero e proprio libro d’arte, una

narrazione per immagini, con uno svolgimen-

to ed una successione, un percorso che può

essere riletto anche a ritroso, trovando nelle

immagini messaggi e significati sempre nuovi

e diversi. Il tema è quello, poco trattato e poco

conosciuto, delle fiere, kermesse o sagre del

sesso, che attirano un buon numero di curio-

si, affezionati o appassionati del genere, e che

dal nord dell’Europa sono arrivate da tempo

anche da noi. Hanno nomi come Erotica (To-

rino), ExSex (Bolzano), Milano Sex, Garda

Sex e Bergamo Sex, ma anche Firenze Sex. Si

tratta di manifestazioni, aperte ad un pubbli-

co pagante, in cui i tatuaggi ed i gadget erotici

sono la parte emergente, ed il corpo è la parte

centrale. In queste fiere non si fa mistero né

del corpo né dei diversi aspetti della sessuali-

tà, al centro di ogni edizione viene posto il go-

dimento del corpo e la realizzazione delle pro-

prie tendenze sessuali, qualunque esse siano.

Il godimento avviene innanzi tutto attraverso

l’organo della vista, sia l’occhio che l’obietti-

vo fotografico, ma anche attraverso organi di

tipo diverso. Le fiere del sesso si basano sulla

spettacolarizzazione dei comportamenti “inti-

mi” e sulla esibizione delle “intimità” stesse,

in tutto il ventaglio delle possibili variazioni,

una volta definite “deviazioni” o “ossessioni”,

se non addirittura “perversioni”. Le fiere del

sesso offrono spunti ed occasioni per acce-

dere a quella sconfinata galassia che com-

prende i diversi modelli di eccitazione e di

soddisfacimento sessuale, dall’esibizionismo

al feticismo, dal voyeurismo al frotteurismo,

dal travestitismo alle varie forme di parafilia,

con forme moderate di sadismo e di maso-

chismo. Tutto quanto può avvenire fra adulti

consenzienti sembra essere incluso e presente

in queste sagre, negli spazi aperti al pubblico,

su improvvisati palcoscenici, oppure in spazi

un poco più decentrati e riservati. Al centro

del lavoro di Francesco non vi è una cataloga-

zione o una descrizione delle diverse forme di

attività legate alla sfera sessuale, ma lo studio

dei comportamenti e degli atteggiamenti del

pubblico pagante, in un misto di curiosità e di

protagonismo, esaltazione e delirio collettivo,

auto eccitazione ed affermazione del proprio

Libido Il sesso attraverso gli occhidi Danilo Cecchi essere ed esserci. Il vero spettacolo non è lo

spettacolo in quanto tale, ma quello della va-

ria umanità che allo spettacolo partecipa e che

nello spettacolo si rispecchia e si riconosce.

Se la parola “Libido” o libidine, intesa come

“desiderio sessuale incontrollabile che genera

comportamenti smodati” ha dato il titolo al

libro, questo comportamento non è presente

nello sguardo del fotografo, ma nello sguardo

degli spettatori. Il libro nasce dall’incrociarsi

dello sguardo attento e disincantato del foto-

grafo con quello “libidinoso” dei frequentatori

delle fiere. L’idea è quella di raccontare un

mondo un poco oscuro, quasi sconosciuto ai

più, ricco di contrasti, esuberante ed intimo

al tempo stesso, dove le inibizioni cadono ed

i pensieri e le passioni nascoste si manifesta-

no in maniera prepotente. Le immagini di

Francesco mostrano un mondo abitato da per-

sonaggi che sembrano interpretare dei ruoli

obbligati. Le ragazze, tutte professioniste, of-

frono il loro corpo agli sguardi ed ai contatti

fisici in maniera svogliata e rassegnata, mentre

il pubblico manifesta un entusiasmo eccessi-

vamente gridato ed esibito, per essere reale. Il

godimento della libertà sessuale è più imma-

ginato e recitato che vissuto. Fra chi si mostra

e chi guarda, fra chi si offre e chi tocca, c’è

una barriera fatta di sostanziale indifferenza,

di una partecipazione emotiva inesistente, di

una complicità fondamentalmente forzata.

Al di là di ogni giudizio o pregiudizio di tipo

morale o perbenistico, la soddisfazione e l’in-

soddisfazione viaggiano accanto e si scam-

biano continuamente di ruolo. Il fotografo

non si limita a documentare un fenomeno di

costume, per quanto originale e diverso da tut-

ti gli altri fenomeni di costume, ma lavora in

profondità, smascherando i rispettivi ruoli dei

personaggi coinvolti, rivela i meccanismi che

muovono tutto il circo del sesso come spetta-

colo, smonta le strutture e le sovrastrutture di

quel baraccone illuminato ed animato che si

presenta in maniera apparentemente affasci-

nante ed allettante, e traccia il perimetro di

quel mondo definendone i limiti e l’inadegua-

tezza. Il lavoro non facile viene portato avanti

con determinazione e convinzione, utilizzan-

do come strumenti solamente lo sguardo e l’in-

telligenza. Uno sguardo critico ed analitico, ed

una intelligenza capace di operare selezioni e

sintesi. Lo sguardo accumula e restituisce le

immagini. L’intelligenza le propone e formula

le domande. Senza pretendere di fornire delle

risposte.

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1321 OTTOBRE 2017

zione continua di gusti e di correnti.

Il fine dell’arte è quello di rappresentare e di

educare e di spingere lo spettatore ad andare

oltre il visibile per leggervi il non detto e con-

frontarsi. Impossibile descrivere con parole il

colore che inonda, la luce che si espande, gli

elementi che fermano il passo, ma basta una

visita per capire.La mostra lascia nel visitatore

queste suggestioni, grazie alla scelta delle ope-

re, molte delle quali appartenenti a collezioni

private e non facilmente visibili, alla perizia

della curatrice e di quanti hanno collaborato

alla sua felice riuscita.

Visitando una mostra ci si aspetta di riceverne

un messaggio, in questo caso è stata per me la

scoperta di un artista che ha avuto la capacità

di raccontare la storia attraverso l’arte, secon-

do il proprio pensiero e di coglierne le novità,

attraverso il “colore”, uno dei mezzi più sem-

plici, antichi ed efficaci.

A fatica si lasciano le stanze, dove il colore e

la luce, in ossequio al gusto, creano bellezza e

armonia.

È in corso una lezione ai bambini di una classe

elementare. Una bimba stesa a terra mi trat-

tiene… “Le piace?” Mi chiede contenta, por-

gendomi un foglio. La guardo commossa. “Sei

bravissima”, le dico e aggiungo “i fiori che stai

disegnando sono lo specchio della tua bellez-

za. L’artista ne sarebbe contento. L’arte è la

nostra più grande ricchezza”.

“Chi era Plinio Nomellini?”, mi chiede. Un

pittore nato a Livorno nel 1866 e morto a Fi-

renze nel 1943, che ha saputo riportare nelle

sue opere l’Italia di un tempo e in particolare

la Toscana.

Il catalogo della mostra

è edito da Maschietto Editore

La mostra dedicata a Plinio Nomellini, nel pa-

lazzo Mediceo di Seravezza, è un’immersione

nella luce e nel colore. L’artista rappresenta

nelle sue opere il cambiamento della realtà

storico-sociale a artistico-culturale della so-

cietà a lui contemporanea.

Lungo il percorso si viene invasi da forti con-

trasti cromatici e dall’uso della luce e del co-

lore che diventano protagonisti. La varietà dei

paesaggi, la rappresentazione dei personaggi

con forti connotazioni fisionomiche e psicolo-

giche, sia di quelli impegnati nella fatica quoti-

diana sia di quelli evanescenti, i ritratti, l’atten-

zione ai particolari ci coinvolgono e ci dicono

che l’artista non fu immune dall’influenza che

ebbero su di lui le nuove correnti pittoriche,

che proponevano una mutata visione della re-

altà e l’attenzione alle lotte politiche alle quali

alcuni artisti parteciparono attivamente. Evi-

dente è l’influsso dell’Impressionismo e dei

Macchiaioli, di Giovanni Fattori in particola-

re, al quale Nomellini fu molto vicino anche

come allievo, di Silvestro Lega e di Telemaco

Signorini da cui il pittore prese l’uso della luce

e le rappresentazioni degli ambienti.

In ogni opera si nota qualcosa di diverso, ele-

menti che guardano al Divisionismo e al Sim-

bolismo nell’ambito del Decadentismo che in

sinergia con la letteratura rinnovava gusti e

correnti e al quale Nomellini non fu estraneo

come dimostra il clima pascoliano o dannun-

ziano che si coglie in ambienti e personaggi in-

seriti in atmosfere o carezzevoli quasi religiose

o surreali, fantastiche, sognanti, in ambienti

senza tempo.

L’intenso cromatismo dei colori, l’uso della

luce e le lunghe e corpose pennellate rendono

ogni elemento vivo e palpabile come il movi-

mento delle onde, il fuoco vibrante, i riflessi

della luna o la luce accecante del sole, il pro-

fumo dei fiori e la fragranza di una campagna

o semplice, agreste, amica o sognante quasi a

celare un mistero. Sono stati d’animo che si

susseguono e che incrociano il nostro pensie-

ro, in una convergenza fra arte e poesia.

Ogni quadro si legge e si decodifica come la

pagina di un libro.

La mostra riassume il cambiamento che carat-

terizzò la società tra la fine dell’Ottocento e i

primi del Novecento e di cui l’arte e la lette-

ratura furono testimoni. Essa ci dice che con i

mutamenti sociali, cambia, in sintonia, il modo

di vedere e di rappresentare dell’intellettuale

e dell’artista e avanza sempre più la necessi-

tà di rappresentare la storia dell’umanità così

come è stato fin dai tempi remoti, in un’ evolu-

di Anna Lanzetta Il mio incontro con Plinio Nomellini

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1421 OTTOBRE 2017

C’è una qualità che trascorre – come una li-

nea ininterrotta – tutta la storia delle nostre

terre. Da sempre infatti l’austerità – formale e

intellettuale – impronta la cultura della gente

che in Toscana vive. Succede dall’età più an-

tiche; e tocca anche i giorni nostri, sebbene i

venti attuali (che secondo il solito soffiano da

ovest, venendo di là dall’oceano) siano latori

d’immagini e messaggi capaci d’uniformare e

appiattire menti e cuori, anche i più disparati.

Degli etruschi è perfino inutile dire, giacché

la severità dei loro manufatti e delle loro ope-

re d’arte è a tal segno perspicua da non ab-

bi-sognare d’alcuna chiosa. Chi poi conosca

almeno un poco il romanico e il gotico toscani

sa bene che si distinguono giustappunto per

la loro sobrietà. Ma anche l’Umanesimo e il

Rinascimento, che in Toscana peraltro tocca-

no il picco assoluto, quasi s’alimentano della

medesima austerità rigorosa; la quale, anzi,

di quelle due stagioni si fa financo emblema.

Senza parlare del Seicento e del Sette-cento,

che da noi s’astengono dai voli barocchi e dai

capricci rococò. Né altrove poteva nell’Ot-

tocento nascere la pittura di ‘macchia’, con

quelle parche visioni di natura, sovente di-

pinte su tavolette esigue. E finalmente gli ar-

tefici del Novecento; che alla grave e massiva

lettura della realtà di primo Quattrocento

addirittura rimontano (si rammenti lo studio

dei toscani – Rosai in testa – nella cappella

Brancacci, condotto alla stregua dei grandi

d’inizio Cinquecento – da Miche-langelo al

giovane Raffaello – che al Carmine andavano

a copiarsi le storie affrescate da Masaccio).

Ecco, le sculture di Paolo Staccioli s’inseri-

scono bene nel percorso che s’è appena dise-

gnato. Le sue figure, veridiche eppure astrat-

te, tornite e levigate, austere anche quando

le ingentiliscono decori eleganti e colorati e

perfino con qualche bagliore dorato, sono se-

gnate dalla vena severa che dai primordi sot-

terranea traversa la cultura della nostra terra.

I suoi guerrieri, di complessione solida, com-

patti come se la corazza si fosse incarnata nei

loro cor-pi rendendoli invulnerabili, sono del-

la stessa genìa dell’armigero di Capestrano;

ma di lui – se pos-sibile – ancor più primiti-

vi. Corazze senza snodi; quasi che gli arti ne

possano spuntare come dal guscio d’una te-

stuggine. Al loro cospetto ho spesso coltivato

la fantasia di vederne decine, irreg-gimentati

come l’esercito cinese di terracotta. E mi sono

immaginato il loro schieramento, fitto di pre-

senze tutte eguali, disposte in un lungo corteo

silenzioso, non però a simboleggiare (come

in oriente) la difesa strenua dell’imperatore

s’oppongono ai tempi nuovi; sorvegliano però

che la nobiltà trascorsa non venga dimentica-

ta o irrisa addirittura. La loro militanza sarà

utile

per le generazioni giovani, cui la memoria

dell’antico dovrà suonare come un magistero

amabile e non tedioso, come invece una for-

mazione scolastica senza più passione glielo

fa avvertire.

Laddove poi la modernità s’arrocchi nell’in-

transigenza e si cinga di baluardi, a tutela

arcigna d’una sua assoluta signoria, l’aulica

tradizione avrà diritto d’espugnarne la roc-

caforte. Ed è – que-sta – una metafora che

aggalla spontanea quando lo sguardo si di-

stolga dai guerrieri ieratici e si volga al cavallo

sulle ruote: icona a mezza via fra l’astrazione

sintetica dell’austerità etrusca e la gravità ele-

gante delle figure di Marino. L’immagine del

cavallo sulle ruote evocherà infatti lo stra-ta-

gemma architettato da Ulisse per vincere la

resistenza troiana. Verrebbe, anzi, di dire che

di quell’espediente astuto può assurgere fi-

nanco a emblema. E sulla scia di questo sogno

mitico ci si figurerà un manipolo di quell’eser-

cito d’uomini d’arme, solidi e severi, che nel-

la fortificata citta-della popolata di creature

informatiche s’insinui celandosi nel ventre

del simulacro monumentale d’un cavallo cui

le ruote hanno consentito di varcar la soglia

dell’arce; magari, anzi, spinto dentro – come

nella vicenda omerica – da chi poi n’avreb-

be patite le conseguenze. Rivalsa dell’antico

sull’arroganza 2.0.

Ogni attore delle teatrali messinscena di Pa-

olo è una creatura silente, assorta in pensie-

ri impossibili da comunicare; come fosse un

kouros, oppure, una kore, quando un accenno

di seno traspaia sotto le trame d’una cerami-

ca d’eleganza sobria messe a fasciare il busto.

Creatura solitaria anche quan-do sola non

sia. Anche quando salga sul carro con altri

personaggi; o, con altri ancora, cavalchi – in

una giostra in miniatura – uno di quei caval-

lini ritti sulle zampe di dietro, che in circolo

s’inseguono senza speranza di raggiungersi

mai. Donne e uomini di fiaba che se ne stan-

no seduti su mondi a loro estranei, volgendosi

– disinteressati l’uno dell’altro – le spalle. Fi-

gure raggelate nell’indifferenza; pronte, ora a

partire per viaggi che l’esigue valigie lasciano

presagire di piccolo tragitto, ora a farsi carico,

come fossero della stessa schiatta d’un Atlan-

te primordiale, del peso d’un globo.

Dalla introduzione del catalogo della mostra

di Paolo e Paola Staccioli a Scandicci.,

edito da Gli Ori, Paola e Paolo Staccioli.

Passaggi, a cura di Marco Tonelli, Pistoia, Gli

Ori, 2017

di Antonio Natali Guerrierie cavalliI sogni mitici di Staccioli

anche oltre la morte, ma piuttosto a evocare

un’umanità che si schiera per proteggersi –

stavolta – dall’omologazione imposta dal regi-

me informatico, ulti-mo despota. Un’umanità

che, forte d’una coscienza storica solida, non

teme il nuovo, ma la violen-za invadente e

prepotente d’un nuovo che fa terra bruciata

dietro di sé.

L’antico e la tradizione seguitano a proporsi

come modelli; non già per via di sentimenti

nostalgici, bensì in virtù della convinzio-

ne che il passato, quand’è lirico e cólto, pur

sempre resta esemplare; indispensabile per

vivere consapevolmente la stagione che c’è

toccata. Vigili come sentinelle, i “guerrieri”

(li chiamerò così) che Paolo ha plasmato non

Le foto sono di Riccadrdo Verdiani e Francesco

Mauro del Gruppo fotografico Il Prisma

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1521 OTTOBRE 2017

Gattodicanfora

Questa scultura in legno di canfora rappre-

senta un gatto bianco, con gli occhi gialli, che

se ne va a passeggio, con una sua meta precisa

e molto determinato, le zampe, infatti si muo-

vono tanto veloci da sembrare dodici.

L’artista, data questa velocità, non ha fatto in

tempo a scolpire naturalisticamente le zampe,

che ci appaiono geometriche e astratte nel

movimento.

Sembra quasi il fermo immagine di una se-

quenza fotografica di Muybrige o una crono-

fotografia di Etienne- Jules Marey resa solida

da una ibernazione improvvisa.

Naturalmente i gatti che per loro natura si

distraggono con facilità, prima di arrivare in

un posto devono fare moltissime cose: una

dormitina, la leccata di una zampa, annusare

in qua e in la, guardare un insettino, deviare

dal percorso più breve, mangiare qualcosa se

si trova, fare uno sbadiglio, arrotarsi le unghie,

fare un dispetto ad un cane e chissà cos’altro.

Dimenticavo che a volte, spesso, si fermano

per riflettere.

Il titolo è “The cat walking pattern” e la paro-

la inglese ”pattern” indica la ripetizione di più

di Claudio Cosmamoduli identici, come in una carta da parati a

schema ricorrente.

L’esemplificazione solida o bidimensionale

di un movimento fluido come può esserlo

una corsa, impossibile da rendersi in pittura

o in scultura, ha sempre interessato gli artisti

e direi che il nostro gatto (mio) deriva diret-

tamente da “Nude descendant un escalier”

di Marcel Duchamp, realizzato nel 1912,

proprio cento anni prima, del gatto veloce di

Mitsunori Kimura del 2013.

Entrambe le opere stanno compiendo una

danza e la musica inudibile si riverbera nella

geometria e nella ripetitività del ritmo.

Anche i futuristi hanno cercato lo stesso risul-

tato in scultura con “Forme uniche nella conti-

nuità dello spazio” di Boccioni e in pittura con

“Dinamismo di un cane al guinzaglio” di Bal-

la, anche queste opere sono del 1912/1913.

Lui, il gatto, è probabilmente indifferente a

chi in arte si sia mosso per primo, compreso

della sua eleganza profumata di legno aroma-

tico al quale l’artista giapponese a voluto im-

primere il soffio della vita, con la grazia che lo

contraddistingue, per sempre fermo eppur si

muove in una impercettibile, fluida scompo-

sizione e ricomposizione delle forme che lo

compongono.

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1621 OTTOBRE 2017

di soldati e di magistrati per tutelare la sicurez-

za e la segretezza degli armamenti veneziani.

Qui erano costruite e riparate le navi della Re-

pubblica, e venivano sperimentate e prodotte

le armi per le flotte della Serenissima, in uno

spazio che ancora oggi occupa quasi il 15%

dell’intero territorio veneziano. L’Arsenale è la

storia di Venezia, del suo destino di mare, del

suo scontro con Genova, l’altra potenza maritti-

ma dei primi secoli del mille, per il predominio

nell’Adriatico e nel vicino oriente. Ed è la storia

della sua lunga lotta sul mare contro i Turchi:

guerra di conquista al tempo delle Crociate,

quando Venezia affittava la sua flotta alle ar-

mate crucisegnate in cambio di rotte commer-

ciali e di espansione territoriale, e poi lotta per

la difesa dei confini continuamente minacciati

dopo la caduta di Costantinopoli e nei secoli

successivi. Con la disfatta della Repubblica ad

opera delle truppe di Napoleone, l’Arsenale

venne saccheggiato e gran parte del naviglio ri-

coverato venne distrutto. L’attività cantieristica

riprese più tardi sotto il dominio austriaco e poi

con il Regno d’Italia, fino alla fine della seconda

Guerra Mondiale, quando l’Arsenale andò in-

contro ad un lento declino, che solo negli ultimi

decenni si è cercato di contrastare con iniziati-

ve di restauro e di valorizzazione.

Credo fosse una pubblicità della Marina Mili-

tare Italiana: arruolati, girerai il mondo. Io mi

sono arruolato nei Canottieri Comunali di Fi-

renze, una marina piccola ma vitale, e ho preso

a girare il mondo, impegnato a scendere fiumi e

a partecipare a gare nazionali ed internazionali,

delle quali ho fornito qualche resoconto su que-

ste pagine. L’occasione più recente è questa di

Venezia, ancora una volta teatro di emozionanti

avventure, questa volta su scala mondiale, con

la partecipazione al Campionato del Mondo

di Dragon Boat per Club. Noi Canottieri sia-

mo presenti con una quarantina di atleti, che si

impegneranno nelle varie categorie e nelle tre

distanze canoniche dei 200, 500 e 2000 metri.

Ma più di sempre, non è l’emozione della gara

che voglio raccontare, o la soddisfazione dei

risultati, brillanti nelle nostre categorie, con di-

verse medaglie d’oro e con un titolo mondiale

che ci portiamo a casa noi “over 60”, ma la rin-

novata magia di Venezia espressa in un angolo

speciale di questa antica città, generalmente

poco visibile e chiuso alla frequentazione delle

orde di turisti che si rincorrono per i canali. Sto

parlando dell’Arsenale e del suo bacino inter-

no, lontani dai circuiti del turismo distratto e

non liberamente accessibili perché in uso alla

Marina Militare, tuttavia visitabili in occasioni

speciali, come per la Biennale, che ha collocato

qui alcuni dei suoi percorsi d’arte, o, per quel

che ci riguarda, per questo Campionato Mon-

diale che tiene qui la sua giornata conclusiva,

con le gare sui duemila metri che occuperanno

il bacino per tutta la giornata, fino al tramonto.

Arriviamo la mattina presto; ancora la folla dei

partecipanti non ha invaso le banchine che cir-

condano la Darsena Grande, lo specchio d’ac-

qua azzurra in cui oggi si conclude il Campio-

nato: un quadrato di quattrocento metri di lato,

cui si accede dall’ampio canale di Porta Nova,

vigilato da due torri che chiudono la cinta mu-

raria sulle sponde. Fuori da quelle, vaporetti

del trasporto pubblico e mezzi commerciali e

privati si intrecciano sulle rotte cittadine, solle-

vando creste d’acqua che renderanno difficol-

tosa la partenza delle gare appena all’inizio del

canale, ma che non riescono a turbare la placida

immobilità delle acque interne. Tutto intorno,

sulle banchine che delimitano lo specchio d’ac-

qua, le suggestive architetture proto industriali

– enormi strutture in mattoni affiancate le une

alle altre – e l’intero complesso di acque e di ter-

re dell’Arsenale contenuto dalla cinta di mura

merlate innalzate a protezione, testimoniano

della passata potenza che la Repubblica di Ve-

nezia costruì proprio a partire da questi luoghi,

allora affidati alla vigilanza di un corpo speciale

di Andrea Caneschi VeneziaL’Arsenale

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1721 OTTOBRE 2017

di Michele MorrocchiLa polemica sul riemergere di un sentimento,

se non di consenso, quantomeno di indulgenza

verso il fascismo è sicuramente una polemica

ben motivata nel nostro Paese in questo nostro

tempo. Alcune settimane fa proprio su queste

colonne ho affrontato il tema dell’occasione

persa della cosiddetta legge Fiano , concen-

trandomi su un rimedio che non trovavo (e

trovo) adeguato ma precisando che il fenome-

no del risorgere di fascinazioni fasciste sempre

più esplicite è ormai preoccupante.

In tale filone di riflessione e polemica possiamo

inserire anche l’articolo che la professoressa di

studi italiani della New York University, Ruth

Ben-Ghiat ha pubblicato sul New Yorker il 5

ottobre scorso . L’articolo prova a sostenere che

nella rinascita del clima pro-fascista del Paese

c’entri e non poco, la persistenza di monumenti

e architetture apertamente fasciste. Gli esempi

architettonici portati sono essenzialmente due:

il quartiere dell’EUR con il palazzo della civil-

tà italiana e il foro italico.

Già la scelta limitata dei monumenti dimostra

una non piena conoscenza delle persistenze

architettoniche fasciste e del dibattito, spesso

importante e ricco, tenutosi su questi “monu-

menti”. Il caso più emblematico e meritevole

di menzione è quello del bassorilievo del tribu-

nale di Bolzano che è oggi l’unico edificio nel

Paese in cui l’immagine del Duce campeggia

ancora e non è stata “epurata” il 25 luglio 1943

o alla fine del conflitto mondiale.

Proprio su quel bassorilievo si è tenuta, negli

scorsi anni, una lunga discussione politica ge-

stita dall’allora sindaco di Bolzano, Luigi Spa-

gnolli (PD), che con molto coraggio e, a parere

di chi parla, grande rispetto della storia e della

memoria, propose di non rimuovere il capoc-

cione della buonanima ma di velarlo da una

frase di Hannah Arendt : “Nessuno ha il dirit-

to di obbedire”.

Il senso di quel dibattito, di quella scelta, riguar-

da la persistenza dei simboli come memento e

non come gloria. L’esatto opposto delle furie

iconoclaste che hanno attraversato spesso la

Francia, o paiono oggi muovere alcuni troppo

politicamente corretti politici americani.

Il tema della memoria attraverso i monumenti

pubblici, in Italia, probabilmente è più fami-

liare a studiosi e popolo vista la teorizzazione

e narrazione del potere politico a partire dallo

spazio pubblico che dall’impero romano arriva

nel nostro rinascimento fino, per l’appunto,

all’uso esplicito dell’architettura nel consoli-

damento del regime fascista; tema sul quale

ha scritto e bene Paolo Nicoloso, in Mussolini

l’architetto .

Se risorgono i fascisti non è certo colpa dell’EURIl punto dunque parrebbe superato, almeno

a livello storiografico, mentre sul piano della

storia dell’architettura forse nemmeno è mai

davvero sorto.

Peraltro nemmeno la professoressa Ben-Ghiat

arriva, come qualche commentatore nostrano

invece propone, a chiedere la rimozione o l’ab-

battimento delle vestigie architettoniche del

ventennio (anche se non pare del tutto contra-

ria alla proposta della presidentessa Boldrini

di rimuover la scritta DUX sull’obelisco del

foro italico), quello che prova ad argomentare

la studiosa è che l’uso pubblico di tale memo-

ria sia di fatto uno sdoganamento delle idee

politiche di quel periodo. In particolare la

professoressa individua nella discesa in cam-

po di Silvio Berlusconi e all’alleanza del suo

partito con Alleanza Nazionale l’inizio di tale

processo.

Se è ormai indubbio che, a partire dal 1994, il

tema ha acquisito una sua “dignità” pubblica

è pur vero che l’accelerazione di un ritrovato

orgoglio fascista è databile più in là con gli

anni e anzi successivamente alla dissoluzione

di AN che, paradossalmente forse a causa di

un doversi “ripulire” da parte dei suoi membri

per entrare a palazzo, aveva svolto un ruolo mi-

metico dell’identità missina e neofascista.

Sono movimenti come Casa Pound o Forza

Nuova a riportare pesantemente ed esplicita-

mente il tema al grande pubblico e, non a caso,

lo fanno all’interno della grande crisi economi-

ca del 2008, segno che le pulsioni totalitarie si

sposano, oggi come in origine, con le condizio-

ni di povertà e marginalità delle crisi del capi-

talismo e da esse traggono linfa e consenso.

Insomma la colpa, se vogliamo semplificare,

non può essere imputata tutta a Berlusconi e a

Fini. In questo senso anche nell’articolo viene

citato l’uso dello sfondo del foro italico da par-

te di Renzi per la presentazione della candi-

datura di Roma alle olimpiadi e si fanno due

esempi di nuove architetture votare al ricordo

dell’epoca fascista: il realizzato monumento a

Graziani ad Affile (voluto dalla giunta di cen-

tro destra) e il progetto di museo del fascismo

a Predappio, voluto da una giunta a guida PD.

D’altra parte come ormai da mesi nota il collet-

tivo Nicoletta Bourbaki , i rapporti tra il partito

democratico e l’estrema destra sono, a livello

locale, molti. Chi scrive non arriva a sostenere,

come invece ipotizza il collettivo, legami “ide-

ali” tra PD ed estrema destra; tuttavia questi

legami, quantomeno, denotano un lassismo e

una disattenzione, nella dirigenza territoriale,

colpevoli.

Per concludere l’articolo pone indubbiamente

attenzione ad un fenomeno che sta raggiun-

gendo dimensioni e sostegni che rendono

necessaria considerazione anche a livello in-

ternazionale, ma affrontato in questa maniera

rischia di non trovare esiti positivi rimanendo

legato alla “solita” critica antiberlusconiana o

ai palazzi dell’EUR o del foro italico.

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1821 OTTOBRE 2017

“Si notino per l’Anno a venire 1811 le Spese

d’Uscita pel Crocefisso di Juliano di Sangallo

/ Croce Cartello due Vasi Sacri e Ragiera di

Zechino” (A.S.P.S.F., “Entrata e Uscita della

Cassa del SS.mo Sagramento di S.ta Felici-

ta” - a.1811). Il documento si riferisce a uno

dei “mai visti” di S.Felicita: un Crocefisso

appartenuto alla ‘Compagnia del SS.Sacra-

mento’ di questa Chiesa, rimasto chiuso nella

Stanza del Tesoro. L’opera ha lasciato questa

sede (nullaosta n.14317) il 3-2-2017, grazie

a una sponsorizzazione da parte dell’Uffi-

cio Catechesi attraverso l’Arte della Curia

fiorentina, sponsorizzazione che ha permes-

so primi saggi di pulitura. L’attribuzione a

Giuliano da Sangallo (o bottega) è confor-

tata anche dall’expertise di un noto storico

dell’arte. Nel 1785, entro le mura di Firenze,

si contavano circa 250 Compagnie che P.

Leopoldo soppresse, ad eccezione di nove. Il

13 settembre 1811 un Decreto Napoleonico

abolì in Firenze altri 67 Enti religiosi, ma la

‘Compagnia del SS.Sacramento di S.Felicita’

sopravvisse pure per questa volta in quanto

prestava il suo servizio anche alla Corte. Gli

Statuti dei Confratelli non ci sono pervenu-

ti, però la documentazione relativa alla sua

amministrazione, alle attività di tipo liturgico

e assistenziale, agli ambienti occupati e agli

arredi, è giunta fino a noi. Prima del 1566

la Compagnia esisteva già ed era detta ‘dei

Battuti’. Non sappiamo dove si trovasse, ma

certamente non distò molto né da S.Felicita,

né da Palazzo Pitti che faceva anch’esso parte

del ‘popolo’ di questa parrocchia dal 1550. La

Compagnia ricevette dalla Badessa di S.Feli-

cita la residenza presso “la Chiesa e le Case

di S.Maria Maddalena” (Ms.728, p.137).

Da questo momento si chiamò: ‘Compagnia

del ‘SS.Sacramento di S.Felicita’ (Ms.729,

p.11) o anche ‘Compagnia del fiasco’. Il 7

marzo 1710 la Compagnia dovette abbando-

nare S.Maria Maddalena e traslocò in Borgo

S.Jacopo (Ms.728, pp.140-141). Cambiando

nuovamente nome, divenne la ‘Compagnia

del Ciottolo’. In Borgo S.Jacopo rimase anche

durante l’occupazione francese (1808-1814),

con la clausola che il Parroco di S.Felicita sa-

rebbe rimasto suo Procuratore purché scelto

fra il clero filo-napoleonico. Conclusa la pa-

rentesi napoleonica, la Compagnia riprese

vigore e il nuovo Parroco la trasferì, intorno al

1840, nei locali a pianterreno del n.3 di Piaz-

za S.Felicita (oggi occupati da due ristoranti).

Nel 1909 l’intitolazione di questo Sodalizio

fu mutata in ‘Carità della Parrocchia’ poiché

tra i compiti dei confratelli si era aggiunta la

formazione catechistica dei fanciulli, come

già nel periodo lorenese. Il Crocefisso seguì

traslochi e movimentazioni della Compagnia,

accompagnò processioni, cortei penitenziali,

esposizioni liturgiche, visite agli infermi e ai

morenti di ‘Palazzo’ (per gli altri parrocchiani

si usava un Crocefisso “manuale”). Nella Set-

timana Santa veniva distaccato dalla Croce

per essere disteso (grazie alle braccia mobili)

e offerto al compianto dei fedeli su di un sim-

bolico catafalco. Dai recenti saggi, purtroppo

limitati alla sola pulitura per ragioni finanzia-

rie, risultano interessanti stratificazioni di co-

lore: per es. il diverso colorito dell’incarnato e

del perizoma, nonché sostituzioni e aggiunte

plastiche come l’avambraccio destro con la

mano e la ciocca cadente (in stoffa) sulla spal-

la destra. Questo Cristo in legno policromo

non reca segni delle violenze subite, mostra

soltanto la ferita al costato da cui fuoriesce

sangue e acqua, simbolo misterico delle Sue

due Nature, umana e divina. La ferita ci ri-

vela che questo Cristo è già morto, ma gli oc-

chi semiaperti e le labbra socchiuse indicano

che è appena spirato pronunciando l’ultima

delle Sue ‘Sette parole’: “È compiuto” (Gv

19,30), espressione con la quale Gesù assolve

all’incarico salvifico assegnatoGli dal Padre.

Il capo leggermente reclino è appena piega-

to sulla destra poiché si è da poco rivolto al

buon ladrone “Dismas” a cui dice: “In verità,

ti dico, oggi tu sarai con me in Paradiso” (Lc

23,43). La testa presenta i fori per una corona

di spine oggi assente, ma l’“effusio sanguinis”

dipinta tra i capelli ne conferma l’esistenza. I

Vangeli non ci dicono se sulla Croce Cristo

avesse conservato questo segno regio, ma è

probabile che essendo accusato di essersi di-

chiarato “Re dei Giudei”, la portasse sino alla

fine quale motivo della condanna. Quanto

al nimbo - sicuramente crucifero perché si

configura in esso una croce tra i quattro fori

circolari - era piantato in un pernio al cen-

tro della testa. Il perizoma color blu scuro o

‘blu lutto’ è rifinito da una ‘clavis’ dorata per

simboleggiare la regale divinità del Figlio di

Dio. Nonostante i condannati alla croce vi

fossero inchiodati nudi (“nudus erat in cru-

ce”), anche qui l’iconografia preferisce - so-

prattutto post-tridentina - la tradizione degli

“Acta Pilati” che vollero Cristo cinto alla vita

da un lino. Quanto ai chiodi, è il Vangelo di

Giovanni che vi allude descrivendo l’incon-

tro di Tommaso col Risorto; in questo Cro-

cefisso i chiodi sono tre, ma storicamente i

piedi dovettero non essere soprammessi, per

cui i chiodi furono quattro, come nelle raffi-

gurazioni più antiche. A corredo dell’opera,

una croce immissa e raggiata, e, ai due lati del

“patibulum”, due vasi in legno dorato. Forse,

uno raffigura il vaso per gli unguenti e l’altro

il vaso del “vino mirrato” dato ai crocefissi

per intorpidirne i sensi: per Cristo è figura

dell’“amaro calice” essendo la mirra amara

come il fiele (Mt 27, 34). Considerato il va-

lore e l’interesse di quest’opera, ci auguriamo

che un’ulteriore sponsorizzazione permetta

di terminarne il restauro, di verificarne l’attri-

buzione e di renderne possibile la visione a

fedeli e amanti dell’arte.

di M. Cristina François I “mai visti” di Santa Felicita Giuliano da Sangallo

Crocefisso della Compagnia del SS.mo Sacramento

di S. Felicita (attrib. a Giuliano da Sangallo). Detta-

gli dei saggi di pulitura eseguiti presso il Laboratorio

fiorentino “Ardiglione”.

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1921 OTTOBRE 2017

Il governo della Terza Repubblica cominciò

a pensare, già dal 1884, di celebrare il cente-

nario della Rivoluzione Francese (1789) con

una grande Esposizione Universale a Parigi.

Occorreva un simbolo che rappresentasse in

tutto il mondo la manifestazione (alla quale

poi parteciparono, nel 1889, 35 nazioni e 32

milioni di visitatori, un’enormità per l’epoca) e

il governo francese, per colpire l’immaginario

dell’opinione pubblica che avrebbe dovuto,

con tasse e addirittura con una lotteria nazio-

nale, in parte finanziare l’iniziativa, rispolverò

un vecchio progetto da 50 anni accantonato:

la Colonna del Sole. A questo fine, nel 1885,

Jules Bourdais, architetto del Palais de Troca-

déro, espose il suo progetto di una Colonna

del Sole, una torre in muratura alta 300 me-

tri, da costruire sull’Esplanade des Invalides,

che oltre alla sua funzione di simbolo sarebbe

stata anche utile in quanto avrebbe illuminato

tutta Parigi attraverso un complicato sistema

di specchi parabolici posti alla sommità. Sem-

pre all’ultimo piano, sarebbe stato costruito

un sanatorio dove i malati avrebbero potuto

respirare un’aria pura come quella di monta-

gna. Ma nel 1889, alla gara indetta alla quale

parteciparono altri 700 progetti oltre quello di

Bourdais, a sorpresa, vinse quello presentato

da Gustave Eiffel, una specie di stele comple-

tamente in ferro, sempre alta 300 metri, che

però sembrò al governo francese più consono

a simboleggiare il mito di modernità dell’indu-

stria metallurgica nascente. L’opinione pub-

blica non approvò la scelta. La Torre, in un’e-

poca votata alla razionalità e all’empirismo, fu

giudicata come uno scandalo per la sua inuti-

lità. Lo stesso Eiffel dovette giustificare il suo

progetto enumerando il suo utilizzo futuro:

misurazioni aereodinamiche, studi sulla resi-

stenza dei materiali, ricerche radioelettriche,

osservazioni metereologiche....I più noti arti-

sti e intellettuali, tra i quali Alexandre Dumas

figlio e Guy de Maupassant, firmarono La

Protestation des artistes, una lettera-petizione

pubblicata su Le Temps a seguito di una fe-

roce campagna di proteste portata avanti da

quasi tutta la stampa. Noi, scrittori, pittori,

scultori, architetti, amanti della bellezza di

Parigi che è stata sin qui inviolata, intendiamo

protestare con tutte le nostre forze, con tutto

il nostro sdegno, in nome del misconosciuto

buon gusto dei francesi, in nome dell’arte e

della storia francesi minacciate, contro l’ere-

di Simonetta Zanuccoli

Dumas e Maupassant non volevano

di Paolo della BellaDella Bella gente

zione, nel cuore stesso della nostra capitale,

dell’inutile e mostruosa Torre.....disonore di

Parigi che neppure l’America dall’anima com-

merciale vorrebbe.....Noi rappresentiamo l’e-

co dell’opinione universale così legittimamen-

te in allarme. E quando gli stranieri verranno

a visitare la nostra Esposizione, esclameranno,

colmi di stupore: “E’ dunque questo l’orrore

che i francesi hanno concepito per dimostrar-

ci il buon gusto di cui si fanno vanto?”. Molti

all’epoca non capirono l’enorme funzione im-

maginifica che il monumento inutile avrebbe

rappresentato per la città. In seguito Cocteau

la definì la Notre-Dame della rive gauche e

insieme a questa oggi la Tour Eiffel è conside-

rata una di quelle coppie simbolo con l’obbligo

di visita che rappresenta per il turismo, sem-

pre più distratto e frettoloso, una città (come

per Firenze gli Uffizi e il David). Non vi è

angolo di Parigi in cui non si veda svettare la

sagoma semplice e lineare della Torre e non vi

è angolo di Parigi che non si veda attraverso il

merletto in ferro, composto di 18.038 elemen-

ti, salendo i suoi1665 scalini. Un arabesco che

dona alle sue 7300 tonnellate un’immagine

di leggerezza tale che sembra, a dispetto degli

enormi piloni che l’ancorano, solo appoggiata

sul prato.

la mostruosa torre

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2021 OTTOBRE 2017

21 grammi è l’ipotetico peso dell’anima

che il dottor Duncan MacDougail avrebbe

calcolato misurando il corpo umano prima

e dopo la morte. Quest’ineffabile e inaf-

ferrabile essenza è al centro delle opere di

Andrea Pinchi. In esse spesso si assiste ad

un dialogo di anime. Innanzitutto l’anima

dell’artista che entra in contatto con l’a-

nima delle cose. Proprio i piccoli, modesti

frammenti degli organi - strumenti celesti

per antonomasia -, quei frammenti di pelli,

di legni, di metalli che formano le opere di

Pinchi costituiscono l’anima di quei dispo-

sitivi musicali in perenne dialogo eternante

con le anime dei musici e dei compositori. E,

come per la Bibbia, anche qui è il cuore ad

essere sede dell’anima, un’anima fuggevole,

impalpabile che si libra in volo creando in-

sieme ad altre anime un illusorio corteggio

di farfalle sospese in un cielo immaginario.

Alla Galleria Tornabuoni, Borgo S.Jacopo,

Firenze

Morena Rossi: copywriter, autrice radiofo-

nica e scrittrice, ma non solo. Certo il suo

libro “Che m’importa che tu faccia la brava”

ha riscosso un meritato successo, ma la sen-

sibilità artistica, la molteplicità di interessi,

l’originalità del lavoro nella pubblicità, la

capacità e la voglia di lanciarsi in nuovi pro-

getti rendono riduttiva, per Morena, ogni

definizione. Ci incontriamo al tavolo di un

locale nel centro di Lucca, davanti ad una

tazza di tè e, da subito, ho l’impressione di

conversare amabilmente con un vulcano in-

tellettuale in perenne attività. Qual è il mo-

tivo per cui ti sei trasferita a Lucca? Motivi

di lavoro ...di mio marito. Per me, sotto que-

sto punto di vista, una sede vale l’altra, dato

che posso lavorare da casa. Per lui invece

c’era l’esigenza di trasferirsi; eravamo titu-

banti, ma quando siamo venuti ...per una vi-

sita esplorativa, ci siamo innamorati a prima

vista: Lucca era la città per noi, non c’erano

dubbi! E ormai ti senti lucchese a tutti gli

effetti! Ho vissuto 20 anni a Pavia dove ho

frequentato l’Università, ma sono nata sul

lago di Garda e trovo sorprendenti analogie

tra l’atmosfera che ho respirato nell’infanzia

e nella prima giovinezza e quella del centro

storico di Lucca; per me le mura hanno un

significato di unione e abbraccio, non certo

di esclusione! E non a caso, proprio a Luc-

ca ho trovato il modo di mettere insieme gli

scritti che avevo accumulato nel corso del

tempo e che hanno formato il libro. Dopo

l’inevitabile periodo di rodaggio, mi sono

sentita subito a mio agio al punto che mio

marito mi ha detto: “Sembra che ci siamo

trasferiti qui per te”!Anche perché ti sei cir-

condata da un bel numero di donne davvero

interessanti! Assolutamente sì! Ho avuto la

fortuna di conoscere tante donne che ammi-

ro, che mi piacciono e che, pur conservan-

do ognuna la propria diversità e le proprie

caratteristiche, sento particolarmente affini.

Complicità femminile, coinvolgimento e

possibilità di mettere in piedi progetti co-

muni e ritrovarsi a fare esperienze che mai

mi sarei sognata di affrontare come gli shoo-

ting fotografici (non avevo mai pensato a me

stessa come modella di una stilista eppure è

stato un divertimento assoluto) o ritrovarmi

all’Orto Botanico di Lucca con una mostra

insieme all’artista Emy Petrini. E per quan-

to riguarda il futuro? I buoni progetti nasco-

no a settembre, ne ho molti in serbo e alcuni

potrebbero essere sorprese anche per me.

Insieme alla pittrice Sandra Rigali ad esem-

pio, ispirandoci al libro “Il coraggio delle

bambine ribelli” vogliamo, abbinando ogni

volta un suo quadro pop a un mio racconto,

rivalutare la parte umana e terrena di 12 fi-

gure di Sante dando, contemporaneamente,

un messaggio di consapevolezza alle donne.

La prima della serie sarà Santa Lucia (patro-

na della vista) e il messaggio sarà “Riappro-

priarsi dei nostri occhi”,

nel senso di vedersi con

i propri occhi, svincolate

dal giudizio altrui. Inoltre

ho cominciato un altro li-

bro, che sarà un romanzo

distopico e che mi appas-

siona moltissimo. Ci sono

poi altri argomenti che

mi stanno a cuore come

lo spreco alimentare (e la

possibilità di renderlo vir-

tuoso abbinandolo all’arte

contemporanea) o il riuso

(si possono riadattare con pochi, sapienti ri-

tocchi vecchi vestiti di pregio abbandonati

negli armadi, rendendoli così alla portata di

tutti). Insomma le cose che bollono in pen-

tola sono parecchie! E noi Morena, aspettia-

mo con impazienza

di Monica Innocenti

Il multiforme ingegno di Morena Rossi

Il peso dell’anima

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2121 OTTOBRE 2017

Monumenti perduti! “E’ già un anno!”.

Quasi fosse un tempo immemorabile. Così

ha risposto una delle ragazze preposte alla

vendita dei biglietti e accessori dietro un

brutto e anonimo bancone agghindato di

souvenir alla domanda di Monica: “Da

quanto tempo è stato messo il biglietto

d’ingresso alla chiesa?”. Stiamo visitando

il Tempio di San Biagio a Montepulciano,

quella pietra miliare dell’architettura cin-

quecentesca celebrata in tutti i manuali di

storia dell’arte. Non nego che, passare dalla

luce accecante di un caldo meriggio di Ago-

sto, alla fresca penombra dell’ambiente san-

galliano, era l’aspirazione che gustavamo

dal momento in cui abbiamo parcheggiato

la nostra auto al termine del viale di cipres-

si che anticipa il monumento lievitante sul

grande prato balconato che circonda l’edi-

ficio. Per noi, che siamo abituati a visitare

quei territori, quei luoghi quei monumenti

dall’età della prima infanzia, considera-

ti la cosa più normale che si possa trovare

durante lo svolgersi della giornata, lo choc

emotivo provato dalla sorpresa di trovare ad

accoglierci al posto dell’enorme e maestoso

volume interno, una parete di cartongesso

tappezzata d’informazioni in combinazio-

ne con corde banconi ed espositori carichi

di pieghevoli per turisti, su ristoranti, pro-

dotti tradizionali, e agriturismi che tenta-

va miseramente di tamponare l’enorme e

incombente volume alle sue spalle, è stata

la doccia fredda alla quale il caldo della

giornata non ci aveva preparato. Non ci

aspettavamo quell’accanimento bottegaio

giustificato con: “Il biglietto è stato deciso

per motivi di sicurezza dell’edificio e, insie-

me al biglietto d’ingresso è fornita gratuita-

mente l’audioguida, altrimenti chi visita il

monumento non capisce niente”, continua

la ragazza nella spontanea e legittima an-

che se ingenua difesa del proprio posto di

lavoro. Chiunque abbia visitato San Biagio,

sa bene che l’edificio è così sobrio da appa-

rire quasi spoglio di arredi, nel rispetto di

quell’architettura “minimale” ridotta nelle

decorazioni esterne e interne che pongono

l’accento non sulla semplicità, ma la sua

sintesi spaziale. Il che rende il luogo poco

appetibile per i “predatori” e, la sua discreta

distanza potremmo dire “Nobile” in omag-

gio al rinomato vino da rendere il luogo ne-

anche tanto frequentato rispetto al centro

cittadino di Montepulciano. Insomma la

sensazione maturata è stata quella di aver

perduto un altro pezzo della nostra storia?

Civiltà? No! Un altro pezzo della nostra

vita, che è fatta non solo di memorie, ma an-

che di atmosfere e luoghi che ci attendono

durante la giornata e fanno vivere emozioni

e passioni che non possono essere filtrate da

code, biglietti, gadget, informazioni, in sin-

tesi la cultura delle distrazioni. Concluden-

do, abbiamo deciso di conservare il nostro

ricordo personale del luogo, fissato in fortu-

nate e generose visite precedenti e abbiamo

circumnavigato il complesso esternamente

godendo della “semplicità” maestosa del

Tempio e del paesaggio che lo contiene in

una simbiosi di colori e forme mediate dal

silenzio dell’armonia.

di Valentino Moradei Gabbrielli La cultura delle distrazioni

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2221 OTTOBRE 2017

Erano davvero vive le figure che si muovevano

nel cielo della calda notte di ottobre nelle mi-

sure perfette dell’architettura brunelleschiana

di piazza SS.Annunziata a Firenze, con la regia

di Giancarlo Cauteruccio. Se, infatti, Caute-

ruccio ci ha abituati negli ultimi decenni alle

sue architetture di luci, nel caso del recente

spettacolo ispirato alle macchinerie teatrali di

Filippo Brunelleschi, ciò che di più rilevante

era la simmetria fra le architetture materiali

rinascimentali, quelle impalpabili di luce e

quelle corporee dei danzatori e delle pattinatri-

ci che Cauteruccio ha mosso sul palcoscenico

della SS.Annunziata. L’effetto è stato appunto

quello di una complessa e misurata macchina

teatrale, in cui le tecnologie di oggi (luci , laser,

musiche) si sono sovrapposte a quelle del Ri-

nascimento (le architetture del Brunelleschi),

dimostrando come la città storica possa dialoga-

re con il contemporaneo, senza che il secondo

debba vivere di luce riflessa e trarre dalla prima

fama e ritorni economici come avviene ormai

da qualche tempo con l’apposizione di opere

d’arte di autori contemporanei sull’Arengario

di Palazzo Vecchio o nel bel mezzo di piazza

della Signoria. Nel lavoro di Cauteruccio, an-

che al di là dell’esito artistico dello spettacolo,

c’è una riflessione seria sul significato profondo

del nostro Rinascimento. E’ questo il valore ul-

timo e permanente dell’opera messa in scena

nella SS. Annunzia-

ta. Purtroppo, in que-

sta città, non sono

molti quelli in grado

di maneggiare e ri-

flettere sul Rinasci-

mento senza scadere

delle retorica vuota

e stucchevole di un

Rinascimento este-

tizzante, usato per

far cassa, e della bel-

lezza che (purtroppo

Sarà il luogo sperduto fra le campagne e

le fabbriche della zona ovest di Prato. Sarà

che il “teatro” è davvero una baracca. Sarà

che alla fine dello spettacolo c’è una lunga

e animata discussione con il pubblico pre-

sente (discussione annunciata fino dalla

presentazione), come una chiaccherata fra

amici - che infatti si chiamano per nome

– nel salotto di casa, su un tema che ap-

passiona. Sarà per tutte questo cose ma il

Teatro La Baracca di Prato, anzi di Casale

vicino a Vergaio (e anche questa sarà forse

solo una coincidenza...) è davvero una pia-

cevole scoperta.

Sabato 14 ottobre è iniziata la stagione di

questa esperienza di “teatro totale” (de-

finizione dell’attrice Maila Ermini che è

anche la sceneggiattrice e la regista della

Compagnia del Teatro la Baracca) che ha

una lunga storia alle spalle e speriamo che

abbia anche un importante futuro davan-

ti, pur nella declamata disattenzione delle

autorità pubbliche. Il “teatro” è una barac-

ca con un piccolissimo palcoscenico e una

piccola sala di platea (che all’occorrenza

diventa anche galleria grazie a opportuni

accorgimenti tecnici) che ospita non più

di 50 persone. La prima rappresentazione

della stagione teatrale è stata “Nel nome

di Dio e del Quattrino (il mercante di Pra-

to)” commedia impossibile con protagoni-

sta Francesco di Marco Datini. La com-

media immagina un dialogo impossibile

con il più noto figlio della città di Prato,

commerciante nella Avignone dei Papi ai

tempi di Bonifacio VIII, riprendendo uno

schema drammaturgico già sperimentato

con successo con “Io e Federico” dialogo

impossibile con Federico II di Svevia. Lo

spettacolo si svolge in una scena che in-

vade lo spazio della platea e ha momenti

di grande interesse alternati a momenti di

stanca. Molto interessante e ben rappre-

sentata la storia di Francesco di Marco Da-

tini, delle sue capacità di mercante e le sue

debolezze di uomo di e marito ma forse si

potevano evitare alcune citazioni, troppo

lunghe e numerose, di proverbi e di motti

toscani, che nulla aggiungono alla bravura

e alle emozioni che Maila Ermini e Gian-

felice D’Accolti sono capaci di suscitare

negli spettatori.

Il Teatro la Baracca è noto a Prato per

svolgere una funzione di attenzione critica

verso alcune delle vicende più significative

(e in alcuni casi scottanti come nella rap-

presentazione “L’infanzia negata dei Cele-

stini” ) della città di Prato e del territorio

pratese. Un teatro “scomodo” che svolge la

sua funzione artistica in una delle innume-

revoli periferie urbane dello sprawl urbano

pratese.

di Gianni Biagi

di Simone Siliani

Le vive figure di Brunelleschi

Teatro totalein baracca

non) salverà il mondo. Non è un caso, dunque,

che dopo questo lavoro, la rassegna “Nel chio-

stro delle geometrie”, ideata da Giancarlo Cau-

teruccio a S.Verdiana si concluderà il prossimo

26 ottobre alle ore 21 con Roberto Visconti

che interpreterà la drammaturgia originale di

Giancarlo Di Giovine, “Filippo Brunelleschi.

Un uomo del futuro”, con regia di Giancarlo

Cauteruccio.

Page 23: 21 ottobre 2017 - Maschietto Editore · tari siano i corpi celesti che lo abitano. La grande novità rispetto agli altri 3 segna-li gravitazionali rilevati prima, sta proprio ...

2321 OTTOBRE 2017

di Carlo Cantini

Il Diverso FemminileNegli anni 70’ il mondo femminile scese nelle piazze per

reclamare il desiderio di cambiamento. In quella occasione

realizzai questo lavoro fotografico per dare un significato a

questi eventi per rafforzare l’evoluzione della donna.

….Nei suoi meravigliosi scatti ho scorto la forza, la

bellezza e la fierezza che i secoli non hanno can-

cellato all’universo femminile…. Sui volti dei sog-

getti femminili ritratti, su cui si leggono sguardi di

una delicatezza unica e di una forza dirompente,

ho riconosciuto immediatamente l’energia del-

la donna antica: ecco che in me è riaffiorato con

vigore l’istinto, mai sopito, di avvicinare il con-

temporanea al passato... Negli scatti d’autore ho

subito scorto la fierezza che rende la donna etru-

sca unica nella storia, sto parlando di una figura

femminile che, in antico, suscitò scandalo al di la

dei confini Toscani, perché “fuori dagli schemi”,

cioè una figura che rivendicava la sua autonomia

e identità, prendendo parte attiva alla società, una

figura colta ed istruita, una figura forte e al tempo

stesso fragile, una donna unica nella sua antica

contemporaneità ma estremamente moderna.

Dalle figure femminili di Cantini si nota questa

somiglianza con le figure dell’antichità Etruria…

Estratto da un testo di presentazione della mostra

“Diverso Femminile” presentata Alla Barbagian-

ni, una casa per l’arte contemporanea, di Gemma

Bechini 1974