202 - Comunità del Diaconato in Italia · delle loro vite è accolta «come soave profumo» (Ez...

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Sommario EDITORIALE 2 Accogliere la Parola per accogliere l’altro Giuseppe Bellia CONTRIBUTO 5 La gura dello straniero nella Scrittura Carlo Maria Martini FOCUS 12 Ascoltare e accogliere la Parola Giovanni Chifari ANALISI 15 «A quanti l’hanno accolto» Giuseppe Bellia RIFLESSIONI 22 Cosa nasce da una quotidiana familiarità con la Parola? Andrea Spinelli APPROFONDIMENTO 25 Il dovere sacro dell’ospitalità e la novità dell’accoglienza Gabriele F. Bentoglio ANNUNCIO 31 Servi inutili Franceso Giglio SPIRITUALITÀ 33 La parola e la carità Virginio Colmegna PICTURES 39 Città luogo di accoglienza? Paola Castorina SERVIZIO 42 Strumenti di accoglienza Gaetano Marino IL PUNTO 45 Non serve un altro Concilio Paolo Tondelli PASTORALE 49 Parola, eucaristia, agape Enzo Petrolino DOCUMENTO 53 Giovani, fede e discernimento vocazionale G. C. CONFRONTI 54 Servo dei poveri: l’identità del diacono Pasquale Violante TESTIMONIANZE 58 Ascolto obbediente del discepolo Luigi Vidoni 61 Nel mondo dell’istruzione Piero Meroni GIORNATA DI STUDIO 63 Donne diacono Carlo de Cesare 30 Enchiridion per la Chiesa delle migrazioni; 44 La virtù discepolare (M.G. M.); 48 Convivialità (M.G. M.); 52 L’accoglienza di Cristo nei vangeli (G. B.) Accogliere la Parola, accogliere l’altro 202 anno 49° gennaio 2017 RUBRICHE RIQUADRI

Transcript of 202 - Comunità del Diaconato in Italia · delle loro vite è accolta «come soave profumo» (Ez...

Sommario

EDITORIALE 2 Accogliere la Parola per accogliere l’altro Giuseppe Bellia

CONTRIBUTO 5 La figura dello straniero nella Scrittura Carlo Maria Martini

FOCUS 12 Ascoltare e accogliere la Parola Giovanni Chifari

ANALISI 15 «A quanti l’hanno accolto» Giuseppe Bellia

RIFLESSIONI 22 Cosa nasce da una quotidiana familiarità con la Parola? Andrea Spinelli

APPROFONDIMENTO 25 Il dovere sacro dell’ospitalità e la novità dell’accoglienza Gabriele F. Bentoglio

ANNUNCIO 31 Servi inutili Franceso Giglio

SPIRITUALITÀ 33 La parola e la carità Virginio Colmegna

PICTURES 39 Città luogo di accoglienza? Paola Castorina

SERVIZIO 42 Strumenti di accoglienza Gaetano Marino

IL PUNTO 45 Non serve un altro Concilio Paolo Tondelli

PASTORALE 49 Parola, eucaristia, agape Enzo Petrolino

DOCUMENTO 53 Giovani, fede e discernimento vocazionale G. C.

CONFRONTI 54 Servo dei poveri: l’identità del diacono Pasquale Violante

TESTIMONIANZE 58 Ascolto obbediente del discepolo Luigi Vidoni

61 Nel mondo dell’istruzione Piero Meroni

GIORNATA DI STUDIO 63 Donne diacono Carlo de Cesare

30 Enchiridion per la Chiesa delle migrazioni; 44 La virtù discepolare (M.G. M.); 48 Convivialità (M.G. M.); 52 L’accoglienza di Cristo nei vangeli (G. B.)

Accogliere la Parola, accogliere l’altro

202 anno

49°

gennaio 2017

RUBRICHE

RIQUADRI

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Per un vero discepolo di Cristo, accogliere la parola comporta una sincera ed effettiva accoglienza dell’altro. Non è una scelta etica, frutto d’impegno virtuoso ma una verità teologale che impegna il

credente in un continuo processo di conversione. Ammoniti dal detto di Gesù trasmessoci da Matteo (5,37) di evitare nel nostro parlare, nel nostro argomentare saccente tutto quel di più che, non venendo dalla parola ac-colta, rischia di essere chiacchiera del maligno, per mostrare questo nesso vitale tra diaconia della Parola e servizio ai poveri, dobbiamo fare leale e umile affidamento alla luce che viene dalla Scrittura. Riprendendo qui quanto scritto in passato in più luoghi, si può subito ri-cordare che nel linguaggio biblico, l’ambito dell’accoglienza è quello dei rapporti interpersonali, sia quando si pongono in relazione persone già legate da vincoli di vario genere, sia nell’incontro con il diverso, con lo sconosciuto, con lo straniero. In particolare, nell’esperienza dell’antico popolo dell’alleanza, l’accoglienza mette a fuoco una peculiare modalità di rapporto tra Dio e l’uomo, tra uomo e uomo e tra l’uomo e le cose: i tre ambiti mostrano che l’accoglienza copre tutto il campo dell’esperienza umana, dalla relazione con Dio al rapporto con la realtà creata. Quando il soggetto dell’azione è Dio, gli scrittori biblici tratteggiano la sua benevolenza verso l’uomo come favore, compiacimento, gradimento divino, specialmente nell’ambito del culto (cf. Lv 7,18; 19,7; 22,23.25.27; Dt 33,11; Os 8,13; Mi 6,7), dove l’offerta dei loro doni e, ancor meglio, delle loro vite è accolta «come soave profumo» (Ez 20,40.41). Il linguag-gio dell’accoglienza interpreta il particolare rapporto tra Dio e l’uomo, soprattutto nell’esperienza orante dei Salmi (Sal 6,10), dove il salmista è consapevole di essere dovunque straniero sulla terra (Sal 39,13; 119,19) e, perciò, desidera ardentemente di trovare sicurezza e consolazione. Il medesimo atteggiamento di apertura si attesta anche nell’incontro tra le persone.Nel genere narrativo, ad esempio, questo si legge nelle vicende di Esaù e Giacobbe. Quando quest’ultimo decide di tornare in Canaan, dopo un pe-riodo di lunga assenza, sa che suo fratello potrebbe vendicarsi dell’ingan-no perpetrato a suo danno, essendogli stata carpita la benedizione dell’an-ziano padre Isacco (Gen 27,1-44). Per questo si fa precedere da regali, che

EDITORIALE

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G I U S E P P E B E L L I A

Accogliere la Parolaper accogliere l’altro

Comesoave

profumo

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preparino il suo arrivo disponendo al meglio l’animo di Esaù, pensando: «Renderò lucente la sua faccia col dono che mi precede e in seguito vedrò il suo volto; forse mi accoglierà benevolmente» (Gen 32,21). In effetti, lo stratagemma sortisce l’effetto sperato e, quando i due fratelli si incontra-no, le parole di Giacobbe sono estremamente significative nel riconoscere l’accoglienza ricevuta da Esaù: «No, ti prego, se ho trovato grazia agli occhi tuoi, accetterai dalla mia mano il dono mio, perché è appunto per questo che io sono venuto alla tua presenza, come si viene alla presenza di Dio, e tu mi hai accolto bene» (Gen 33,10). Da ricordare che l’Antico Testamento conosce un modo tipico di esternare la disponibilità interiore verso valori e realtà soprannaturali, facendo uso del linguaggio dell’accoglienza. I riferimenti sono alla sapienza, alla pru-denza, all’intelligenza, alla saggezza, alla scienza, al timore di Dio (come in Pr 10,8; 21,11; 30,1; Ger 5,3; 9,19; 17,23), ma anche alla disponibilità verso l’insegnamento di Dio (Pr 4,10; Ger 9,20), che spesso si rivela co-me correzione, disciplina (Ger 2,30) e addirittura come castigo (Is 40,2). Dunque, l’accoglienza mette a fuoco il mondo spirituale dei rapporti che danno senso e pienezza alla vita, dove la libertà gioca un ruolo di grande importanza. Anzi, proprio l’accoglienza determina la scoperta di ciò che davvero è essenziale e colora l’esistenza, come attesta il paterno e sapiente ammonimento dell’autore del libro dei Proverbi: «Figlio mio, se accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti, tendendo il tuo orecchio alla sapienza... allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio» (Pr 2,1).In continuità con l’uso dell’Antico Testamento, anche i vangeli ricorro-no alla terminologia dell’accoglienza per indicare la libera e volontaria adesione alle realtà della fede, o al loro rifiuto. In concreto, si intende l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla parola, al regno, alla luce e alla predicazione dei discepoli itineranti. Sotto questo profilo, alle parabole evangeliche è affidato un messaggio che, forse, il genere letterario discorsi-vo non renderebbe con tanta ricchezza e profondità. Anzi, Gesù sintetizza tutta una parabola nella sua battuta conclusiva: «Quelli che ricevono il seme su terreno buono sono coloro che ascoltano la parola, l’accolgono e portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno» (Mc 4,20). È l’ammonimento finale di un racconto che paragona l’uomo ad un terreno e la Parola di Dio al seme (Mt 13,1-9.18-23; Mc 4,1-9.13-20; Lc 8,48.11-15).Il successo parziale o totale, che si valuta al momento della mietitura, non dipende dal seminatore, che non fa preferenze e getta dappertutto la se-mente, né dal seme stesso, che è indistintamente buono e fruttifero. Tutto si

Pagina iniziale,Bibbia Storica,Vienna, ~1470

ACCO

GLIER

E LA P

AROL

A PER

ACCO

GLIER

E L’AL

TRO

Quali rapportidanno sensoe pienezzaalla vita?

4G. BE

LLIA

gioca sulla qualità del terreno, metafora della persona umana e, insieme, paradigma delle differenti risposte che si possono dare alla Parola accol-ta. Il seme sparso può mettere radici e germogliare con una certa facilità, anzi vi sono terreni/persone che si aprono ad essa «con gioia» (Lc 8,13; Mt 13,20; Mc 4,16), ma quell’immediatezza entusiasta non è sufficiente a contrastare le prove, come il fascino della ricchezza e la tentazione di lasciarsi travolgere dai piaceri della vita. Invece, la Parola cresce e produce frutto solo dove trova un atteggiamento duraturo e meditativo di ascolto e di accoglienza. Pertanto, c’è una dimensione peculiare dell’accoglienza con la predicazione e, naturalmente, anche con il discepolo che la trasmette. Proprio dalle pa-role di Gesù veniamo a sapere che l’attività missionaria dovrà fare i con-ti tanto con l’apprezzamento dell’ospitalità, quanto con l’amarezza della non-accoglienza (Mt 10,5-42 e par.). L’evangelo, infatti, è introdotto dal dono della pace (Mt 10,13), che, però, può essere accolto o rifiutato (Mt 10,14; Mc 6,11; Lc 9,5). E ancora: «In verità vi dico, se uno non accoglie il Regno di Dio come un fanciullo, non potrà mai entrare in esso» (Mc 10,15 e par.). Qui si tratta di una sensibilità capace di meravigliarsi e di sorpren-dersi, tipica di quella tensione interiore, carica di speranza e di gioia, che si prova nel dinamismo dell’attesa. Il desiderio del Regno, già presente ma non ancora realizzato in pienezza, crea un simile movimento di tensione esistenziale verso l’altro, com’è narrato nella vicenda dell’anziano Simeo-ne, che ha accolto la consolazione di Israele, accogliendo tra le braccia il figlio di Maria (Lc 2,25).Così intesa, l’accoglienza è una realtà divina che non può essere ridotta alla mera filantropia, né si lascia classificare tra gli ideali dell’utopia. Cristo la sostiene, la motiva e con il suo esempio la propone nella quotidianità della sequela, rendendola eterna: «Queste le tre cose che rimangono: fe-de, speranza, agapê. Più grande di tutte è l’agapê» (1Cor 13,13). Incarnata nelle comunità ecclesiali di ogni tempo e luogo, la reciprocità dell’amore fraterno testimonia che l’accoglienza della Parola si traduce per opera del-la grazia nella testimonianza dell’ospitalità. Accogliere l’altro, il diverso è annuncio e testimonianza profetica che fa sperare nella possibilità di vivere in pace per edificare l’unità della famiglia umana in una dimensione creaturale condivisa e ritrovata, come ricorda papa Francesco nella sua en-ciclica «Laudato si’» sulla cura della casa comune. Accogliere la Parola, è dare una risposta positiva all’amore di Dio rivelato in Cristo crocifisso che si presenta a noi nei fratelli e in tutti i crocifissi della storia. L’apertura verso l’altro, verso l’ultimo, è autentica diaconia evangelizzante perché rende visibile nel mondo la presenza dell’Invisibile.

La reciprocitàdell’amore

fraterno

Non c’è accoglienza

senza ascolto

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Nel NuovoTestamento

L’Israele antico ha trovato sempre difficile il percorso della tolleranza, dell’apertura, dell’accoglienza, nonostante gli stimoli, i suggerimen-ti, le ingiunzioni e i rimproveri. Soprattutto la letteratura sapienziale

offre dinamiche di apertura allo straniero, ma conservando l’esigenza di fargli accettare i propri schemi religiosi e rivelando, in questo modo, un tipico conflitto tra universalismo ideale e particolarismo di fatto. La conquista dell’importante tappa della filantropia, anche teologicamente motivata, in pratica, costituisce un traguardo, che non apre nuovi orizzonti all’Israele biblico. Questi condivide con il mondo del vicino Oriente anti-co l’apprezzamento per il valore sacro dell’ospitalità, il quale forma, così, un argomento di notevole spessore. Esso, tuttavia, non incorpora tutta la magnanima bontà dell’accoglienza, come realtà fondata cristologicamente ed ecclesiologicamente, che va in-tesa non già come comportamento pratico-concreto, ma anzitutto come atteggiamento di apertura positiva verso Dio, verso il prossimo e verso l’an-nuncio del kerygma, come ben attestano soprattutto i Vangeli e l’epistola-rio paolino. In realtà, il definitivo giro di boa, con la predicazione di Gesù e la vita della Chiesa, è garantito da un importante cambiamento di pro-spettiva, dove appunto avviene il passaggio dall’ospitalità come impegno-dovere pratico di primo soccorso verso l’altro, anche straniero-immigrato, alla diakonia dell’accoglienza, che precede, motiva e ingloba le dinamiche operative della carità.Sotto questo profilo, Gesù raccomanda l’ospitalità, ma punta soprattutto sull’accoglienza: del resto, egli non ha la possibilità di offrire un rifugio o un ricovero materiale, visto che non ha neppure dove poggiare il capo (Mt 8,20). Però, per primo egli dimostra verso tutti un atteggiamento di amorevole sollecitudine: verso la gente che accorre, da diverse parti della regione, per sentire la sua parola (cf. Mt 4,25), nei confronti dei malati che chiedono di essere guariti, benché forestieri (cf. Mt 15,21-28), con i bambini che le mamme gli conducono perché li benedica (Mt 19,13-15; Mc 10,13-16; Lc 18,15-17). Nell’esperienza storica di Gesù, gli evangelisti notano che anch’egli sperimenta l’intimità dell’amicizia, come nella casa di Betania, dove «una donna, che si chiamava Marta, lo accolse in casa sua» (Lc 10,38), ma condivide anche la gioia dei lontani, che si lasciano

APPROFONDIMENTO

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G A B R I E L E F . B E N T O G L I O

Il dovere sacro dell’ospitalitàe la novità dell’accoglienza

26G.F.

BENT

OGLIO

La reciprocità

Chi è il prossimo

convertire dalla sua accogliente presenza, come nel caso di Zaccheo a Gerico (Lc 19,6), o di Matteo a Cafarnao (Mc 2,14-15). L’accoglienza, il farsi prossimo, è caratteristica fondamentale di Gesù, riassunta nella pa-rabola del Samaritano, che manifesta la misericordiosa bontà dell’uomo nell’incontro con il suo prossimo, sebbene questi appartenga ad altra etnia, professi un diverso credo religioso o si identifichi in differenti tradizioni socio-culturali (Lc 10,25-37).In effetti, l’occasione di questo racconto parabolico è fornita da una que-stione posta a Gesù da un nomikos, cioè un esperto della Tôrah, preoc-cupato non tanto che si ribadisca il comandamento mosaico dell’amore, quanto che si determini l’ambito in cui si deve applicare la legge, dal mo-mento che nella concezione giudaica il prossimo si configura all’interno del contesto dell’alleanza, dove appunto si colloca la legge. Gesù, invece, con una contro-domanda, rinvia il suo interlocutore alla vita, sollecitando-lo a confrontarsi con i fatti, con la realtà, con la durezza del quotidiano, dove si incontrano donne e uomini nel bisogno. Ecco perché agli esponenti dell’ortodossia – il dottore della legge – Gesù contrappone un rappresentante degli esclusi – l’eretico Samaritano: d’ora in poi solo l’amore compassionevole sarà la chiave per definire il prossimo, al di là delle distinzioni e delle separazioni di carattere religioso, culturale o etnico. La tensione presente nel testo lucano tra il prossimo come oggetto e il prossimo come soggetto di amore si scioglie proprio nel riferimento al dinamismo vitale di quella compassionevole bontà, che Luca applica con insistenza a Gesù, ad esempio davanti alle lacrime della vedova di Nain (Lc 7,13) e nell’incontro tra il figlio perduto e la sconfinata speranza del pa-dre (Lc 15,20), così come nello sconvolgimento interiore che il Samaritano avverte alla vista del malcapitato sulla strada da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,33). Dunque, chi vuole ereditare la vita, attuando l’unico amore che abbraccia Dio e il prossimo, deve collocarsi in questa nuova angolazione, che rende le persone vicine e solidali.In seguito, attorno alla presenza eucaristica del Maestro, viva e reale, si for-mano le comunità cristiane, che tuttavia non sono esenti da conflitti e ten-sioni. Un esempio interessante, per approfondire la riflessione sull’intera-zione tra gruppi di diversa estrazione etnico-religiosa, si legge nella lettera ai Romani. Le esortazioni di Rm 14,1-2 e 15,7, in particolare, s’inquadrano al centro delle considerazioni di Paolo sull’importanza dell’accoglienza reciproca, appunto imitando l’atteggiamento accogliente di Cristo: «Ac-cogliete tra voi chi è debole nella fede, senza mettervi a discutere le sue convinzioni. Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio». Il pensiero paolino prende il via dai dissensi sorti a motivo

27 IL DO

VERE

SACR

O DE

LL’O

SPITA

LITÀ

La vera caritànon può esaurirsi dentro i confinidella comunità

di diverse tradizioni alimentari e cultuali, ma subito decolla a delineare una realtà di comunione ben più profonda, suggerita anche dal ricorso al verbo greco proslambanein, in sostituzione della tipica designazione dell’offerta ospitale descritta da xenizein. Nelle relazioni interpersonali, dunque, Pa-olo raccomanda una sintonia decisamente più vasta e impegnativa, quella stessa che suggerirà ai credenti di realizzare nell’occasione dell’arrivo di Epafrodito (Fil 2,29), di Febe (Rm 16,1-2), di Tito (2Cor 8,22-24); quella che esigerà da Filemone nei confronti del nuovo fratello Onesimo (Fm 17); quella che ricorderà di aver sperimentato di persona al suo primo contatto con i pagani della Galazia (Gal 4,12-15).Paolo, del resto, è convinto che non vi può essere vera agape che non comprenda in se stessa anche l’accoglienza; come pure non si può trovare accoglienza, nel senso cristiano, che non proceda da vera carità. Altri-menti si avrebbe semplice filantropia o cordiale umanitarismo. Ora, tra i significati originari del verbo agapan vi è appunto quello di accogliere. Per questo, nel suo celebre elogio dell’agape, Paolo dice esplicitamente che «la carità è benigna» (1Cor 13,4) ossia, secondo la forza del termine greco qui impiegato (chresteuetai), è bontà, delicatezza e sensibilità (cf. Mt 11,30; Lc 5,39), tutte virtù di chi ha un animo comprensivo e un cuore aperto e ricettivo verso l’altro. È in questa linea che, nella lettera ai Romani, volendo mettere in luce l’agape, Paolo ricorda che Cristo, che è la fonte e il modello della carità, ha dimostrato il suo amore «accogliendo» i credenti, benché fossero peccatori, nella comunione trinitaria (Rm 14,3; 15,7). Ecco perché, nella stessa lettera, si dilunga scrivendo: «La carità sia senza ipo-crisie. Nell’amore fraterno siate affettuosi gli uni verso gli altri; nell’onore prevenitevi scambievolmente; nella sollecitudine non siate pigri. Siate fer-venti nello spirito; servite il Signore; siate allegri nella speranza, pazienti nell’afflizione, perseveranti nella preghiera; pronti a condividere le neces-sità dei santi, premurosi verso i forestieri» (Rm 12,9-13).La vera agape, pertanto, si manifesta nel nutrire vicendevolmente gli stessi sentimenti, nel praticare le stesse virtù, nel prendere a cuore la sorte gli uni degli altri e nell’andare incontro alle necessità del prossimo. Così intesa, essa non può esaurirsi nei confini della comunità. È vero che la fraternità impegna anzitutto quelli che sono «dentro» di fronte ad altri che sono «fuori» (1Cor 5,11-13), ma nella logica del lievito a beneficio di tutta la pasta (Mt 13,33; Lc 13,21; 1Cor 5,6; Gal 5,9), del sale che insaporisce i cibi (Mt 5,13; Mc 9,50) e della fiaccola che illumina l’intera casa (Mt 5,15-16; Lc 11,33-36). All’interno della comunità si pratica la correzione fraterna (Mt 18,15) in vista della reciproca sollecitudine (1Cor 8,12; 2Cor 9,1; Gal 6,10), facendo attenzione all’intromissione di «falsi fratelli» (2Cor

La Creazione,Bibbia sontuosa di Napoli,Napoli, ~1360

28G.F.

BENT

OGLIO

Non è il mero esercizio

di un’operadi misericordia

Il fondamento cristologico

dell’accoglienza

11,26; Gal 2,4-5). Tuttavia, anche se forse in seconda battuta, l’agape deve comunque indirizzarsi pure all’esterno, abbracciando tutti in vista di for-mare, nella varietà dei carismi, il medesimo corpo di Cristo (Rm 12,4-5; 1Cor 12,12-27). Un motivo, questo, che dà contenuto all’idea originaria di paroikia, che oggi abbiamo perduto. Nell’etimologia del vocabolo, infatti, par-oikos/oikia punta a configurare coloro che vivono lontano dall’oikos per essere vicini alla patria autentica, quella celeste, verso la quale tutta l’umanità è in cammino, evidenziando il riferimento alla consapevolezza di condurre l’esistenza nella dinamica del pellegrinaggio. Ecco allora che l’itinerario comune e la partecipazione alla medesima condizione di itine-ranza motivano la sollecitudine dell’agape, dove la comunità ecclesiale è chiamata a essere «l’anima del mondo» (Lettera a Diogneto VI, 1).

Queste ragioni, di ordine cristologico ed ecclesiologico, stanno alla base della preoccupazione di Paolo per i poveri delle comunità più bisognose, ma anche della sua insistenza nel raccomandare una particolare attenzio-ne verso tutti i forestieri, gli ospiti e i pellegrini. In definitiva, il «missionario dei pagani» si dimostra in sostanziale accordo con la lezione matteana del giudizio finale, dove si attesta che chi accoglie l’altro come un fratello entra in contatto con Gesù stesso. Infatti, Gesù si identifica nel volto bisognoso del prossimo: «Chi accoglie uno di questi piccoli nel mio nome, accoglie me» (Mt 18,5) e «ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40.45). Poi si precisa nei dettagli: «Poiché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Nell’ultimo riferimento, l’evangelista ricorre al verbo synagein per spie-gare che non s’intende il mero esercizio di un’opera di misericordia. Si suggerisce, in verità, un’accoglienza fatta di partecipazione, condivisione, integrazione e interazione: l’altro, soprattutto nel caso dello straniero, non ha bisogno soltanto di essere accudito, ma necessita altresì di essere rico-nosciuto e tutelato nella sua dignità di persona umana. Il verbo synagein, infatti, designa tipicamente l’adunanza dell’assemblea (da cui deriva, tra l’altro, la synagoge), dove la comunione si fortifica mediante la convoca-zione, il raduno e la compartecipazione. La comunità cristiana, dunque, sarà veramente tale se saprà rendere par-tecipe anche l’immigrato dei suoi beni e dei suoi valori, come la Paro-la e l’eucaristia, senza dimenticare, ovviamente, la pratica del soccorso caritativo. Qui, in ogni caso, si apre l’arduo itinerario dell’inculturazione del kerygma, dov’è importante evitare la tentazione dell’esaltazione o del primato delle singole culture, per orientare il cammino alla responsabilità

29 IL DO

VERE

SACR

O DE

LL’O

SPITA

LITÀ

Dignità dell’essere umano

Filantropiae agape

reciproca di giungere alla vita in abbondanza e quindi a Gesù Cristo, che è pienezza di vita. Infatti, l’inculturazione ha il suo significato nella pro-mozione della vita in Cristo, che è contrassegnata dall’accoglienza, dalla relazione e dalla comunione. In conclusione, l’esperienza di fede e la riflessione teologica della comuni-tà cristiana, non meno che il confronto con la realtà del quotidiano, hanno stimolato la maturazione di una convinzione di fondo: il solo disbrigo della concretezza filantropica non è sufficiente. Certo, l’assistenza umanitaria è già un’importante conquista, che merita lode e incoraggiamento. Corri-sponde, ad esempio, alla prontezza servizievole di Abramo alle querce di Mamre (Gn 18,1-8), all’attenta sensibilità di Lot verso gli stranieri giunti a Sodoma sul far della sera (Gn 19,1-3), all’insistente premura del suocero del levita di Efraim (Gdc 19,1-10), alla sollecitudine di Rahab a Gerico (Gs 2,1-21), alla filantropia di Giobbe (31,32) o alla generosità ospitale, atte-stata da numerosi passi biblici. Ma non è sufficiente. Per essere completa, l’agape deve farsi ascolto, interazione, dialogo e interscambio: insomma, l’altro, anche l’immigrato, non è più soltanto «oggetto» di attenzione, ma diventa protagonista di nuove relazioni interpersonali. Il migrante è al cen-tro della dimensione pastorale della Chiesa, ma nel ruolo di attivo interlo-cutore, non solo come destinatario di un servizio.In definitiva, si ribadisce l’importanza di favorire, promuovere e difendere la centralità e la dignità della persona, di ogni persona, tutta la persona, di tutte le persone senza eccezione alcuna, con la ferma convinzione che «la principale risorsa dell’uomo… è l’uomo stesso» e che, nella complessità dei movimenti migratori, «il migrante è assetato di “gesti” che lo facciano sentire accolto, riconosciuto e valorizzato come persona» (EMCC 96).Puntare sull’accoglienza, quindi, significa non fermarsi alle molteplici atti-vità assistenziali e caritative, di appoggio e di conforto della persona uma-na, ma qualificare anzitutto, con la prospettiva escatologica dell’unità di tutto il genere umano, la forza della motivazione cristiana della missione, che precede la vasta articolazione del fare e si attesta nella vitale dinami-cità dell’essere.

Nota bibliograficaG. Bentoglio, Apertura e disponibilità. L’accoglienza nell’epistolario paolino, PUG, Roma 1995.Id., Il ministero di Paolo in catene (Fm 9), in Rivista Biblica, 53 (2005) 173-189.B. Byrne, The Hospitality of God. A Reading of Luke’s Gospel, St Paul’s Publ., Strathfield 2000.I. Cardellini (ed.), Lo «straniero» nella Bibbia, EDB, Bologna 1996.C. Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina 2002.J. Schreiner - R. Kampling, Il prossimo, lo straniero, il nemico, EDB, Bologna 2001.

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SERVO DEI POVERI: IL DIACONO, GARANTE DELL’IDENTITÀ

DI CRISTO E DELLA CHIESA

di Pasquale Violante

Nel 2015 è stato pubblicato il libro ‹‹Uomini che servono – L’incerta rinascita del diaconato

permanente››.1i Il testo ha destato molto interesse nella comunità diaconale, in quanto si tratta della

prima indagine in Italia che si propone di ricostruire la vita, l’identità e le problematiche connesse al

diaconato. La ricerca, realizzata nella diocesi di Padova, è molto concreta, perché prende in esame

le esperienze sul campo di diaconi, mogli di diaconi e parroci. Essa è stata realizzata in due

momenti: il primo è consistito in una breve indagine a questionario; il secondo momento è stato

realizzato mediante gruppi di discussione. Come riconoscono gli stessi autori, ‹‹il limite maggiore

dell’indagine è che essa si basa su una esperienza diocesana, […] va presa perciò come una

indagine esplorativa. […]. Tuttavia, il pregio maggiore di questa indagine è di aver messo a

confronto i punti di vista di quasi tutti i soggetti coinvolti nella vicenda del diaconato››.2ii Vale

davvero la pena di leggere questo libro, perché molti diaconi si rivedranno nelle situazioni descritte

e capiranno che le problematiche che incontrano nell’esercizio del ministero non sono imputabili a

loro, né ai parroci, come cercherò di chiarire successivamente.

Il testo elenca quattro notevoli questioni aperte:

1. L’autorità del diacono da dove deriva? È intrinseca o per delega del prete (o del vescovo)?

È un’autorità specifica che si affianca a quella del prete o è ad essa subordinata?

2. Il diacono è un uomo del sacro o è un laico? In cosa si distingue da un laico impegnato e da

un prete?

3. Qual è la funzione del diacono? Quali sono i suoi compiti? È un parziale supplente del

prete o è un’altra cosa?

4. Visto che la maggior parte dei diaconi è sposato, come si concilia il ‹‹e i due saranno una

sola carne›› di Gen 2,24, Mt 19,5 e Mc 10,8 con il ‹‹lasciarono tutto e lo seguirono›› di Lc

5,11? Come affrontare il possibile conflitto tra due appartenenze (la famiglia e la chiesa)

che possono risultare ugualmente totalizzanti e dunque costituire una minaccia l’una per

l’altra?

Non intendo qui trattare le risposte che la ricerca ha fornito alle suddette questioni, per le quali

rinvio alla lettura del libro. Voglio invece sottolineare che tali questioni traggono origine dal fatto

che il diaconato permanente è ancora un ministero “giovane”, essendo stato ripristinato dal Concilio

Vaticano II nel 1964, cioè da poco più di cinquant’anni. Con tale ripristino la chiesa decise di

‹‹introdurre una straordinaria innovazione, inventando ex novo, pur rifacendosi a un lontano

passato, un’altra figura di produttore dell’offerta religiosa››.3iii A ben vedere quindi non si dovrebbe

parlare di un ripristino, in quanto ‹‹il Concilio non pretende in nessuna parte che la forma di

diaconato permanente da esso proposto sia una restaurazione di una forma anteriore. Ciò spiega

perché alcuni teologi evitano il termine “restaurazione” perché può facilmente suggerire il fatto di

riportare una realtà al suo stato originale. Ma il Vaticano II non pretende mai di fare ciò. Quello che

esso ristabilisce è il principio dell’esercizio permanente del diaconato, e non una forma particolare

che esso avrebbe avuto nel passato. Avendo stabilito la possibilità di ripristinare il diaconato

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permanente, il Concilio sembra aperto alle forme che esso potrebbe assumere in futuro in funzione

delle necessità pastorali e della prassi ecclesiale, ma sempre nella fedeltà alla Tradizione. Non ci si

poteva attendere dal Vaticano II che fornisse una figura ben definita del diaconato permanente,

perché si trovava di fronte a un vuoto nella vita pastorale del tempo, contrariamente al caso

dell’episcopato e del presbiterato. Il massimo che poteva fare era aprire la possibilità di ripristinare

il diaconato come grado proprio e permanente nella gerarchia e come modo di vita stabile, dare

alcuni princìpi teologici generali che sembrano timidi e fissare alcune norme pratiche generali. Al di

là, non poteva fare di più che attendere che si evolvesse la forma contemporanea di diaconato

permanente. In conclusione, l’apparente indecisione ed esitazione del Concilio può servire come

invito alla Chiesa perché continui a discernere il tipo di ministero appropriato al diaconato

attraverso la prassi ecclesiale, la legislazione canonica e la riflessione teologica››.4iv

Si capisce allora il motivo della sua “incerta rinascita”. Il diaconato sconta una sorta di “peccato

originale”, in quanto è nato senza una precisa identità. La Chiesa ha raccolto l’invito del Concilio ed

oggi sta continuando il suo discernimento, per comprendere, attraverso la riflessione teologica, la

legislazione canonica e la prassi ecclesiale, quale sia l’identità che il diaconato debba assumere. È

questo discernimento a far sì che sulle quattro questioni sopraelencate, la chiesa ‹‹non ha le idee

sempre chiare. Ed è anche comprensibile che sia così. Quindi cosa fa? Prova e vede cosa succede.

Procede quasi ad experimentum, ma senza riconoscerlo esplicitamente e senza fissare un tempo››.5v

L’innesto del diacono nella struttura ecclesiale è avvenuto ‹‹in modo “addizionale”, per aggiunta e

non per riorganizzazione generale dei ruoli. Non è il prodotto di una riconfigurazione generale del

modello di chiesa e della figura del prete››.6vi In altri termini, la novità del ministero diaconale

introduce la necessità di una revisione anche del ministero presbiterale, affinché entrambi i ministeri

cooperino sinergicamente ed efficacemente.

L’insufficiente definizione dell’identità del diacono è la causa delle questioni aperte citate all’inizio.

La carenza di identità non va considerata solo come una questione teologica ed ecclesiale, ma anche

semplicemente umana, in quanto è proprio essa a causare ‹‹conflitti con il parroco molto dolorosi

per il diacono››.7vii Tuttavia dobbiamo accettare con serenità che il diaconato sia ‹‹un “cantiere”

ancora aperto, nonché un ambito in evoluzione, in cui sta crescendo e maturando una prassi

ecclesiale concreta››,8viii come ha osservato il cardinale Beniamino Stella (Prefetto della

Congregazione del Clero), intervenuto il 7 agosto 2015 a Campobasso al 25° Convegno Nazionale

della Comunità del Diaconato in Italia. L’affermazione del cardinale Stella è in linea con quanto

concludeva la Commissione Teologica Internazionale nel 2002: ‹‹Dal punto di vista del suo

significato teologico e del suo ruolo ecclesiale, il ministero del diaconato costituisce una sfida per la

coscienza e la prassi della chiesa, soprattutto per i problemi che solleva ancor oggi. […] Se il

diaconato è stato costituito come ministero permanente dal Concilio Vaticano II, è specialmente per

rispondere a necessità concrete o per concedere la grazia sacramentale a quelli che compiono già

funzioni diaconali. Ma l’identificazione più chiara di queste necessità e di queste funzioni nelle

comunità cristiane rimane da compiere, benché si disponga già della ricca esperienza delle Chiese

particolari che, dopo il Concilio, hanno accolto nella loro pastorale il ministero permanente del

diaconato›› (Dep 445). Ritengo che l’identificazione chiara di queste necessità e di queste funzioni

sia indispensabile per la sopravvivenza stessa del ministero diaconale. Infatti la decadenza del

diaconato è iniziata ‹‹nel IV secolo, con lo sviluppo monastico, in seguito al quale i diaconi si

vedono espropriati delle funzioni legate alla carità e all’assistenza; saranno infatti i monaci a

3

dedicarsi in special modo alle opere di misericordia. Il diaconato perciò si riduce gradatamente alla

sola sfera liturgica o all’amministrazione dei beni. Di fatto, col tempo, in Occidente il diaconato

viene ridotto a un mero gradino previo in vista del presbiterato››.9ix Il passaggio da un ministero

definito con una missione specifica, (come ci viene presentato dalla Lettera ai Filippesi e dalla 1

Timoteo) ad un ministero non ben definito e poco significativo, portò alla decadenza ed alla

scomparsa del diaconato permanente. Neanche il Concilio di Trento, nonostante ribadì l’importanza

del diaconato, riuscì nell’intento di ripristinarlo e ciò ‹‹è dipeso proprio dal non essere riusciti a

restituire un contenuto ecclesialmente significativo al ministero diaconale››.10x Tuttavia è evidente

che l’insufficiente definizione del ministero diaconale non è riducibile alla questione dei “poteri” da

attribuire al diacono. Infatti ‹‹affinché la Chiesa sia espressione concreta di un’ecclesiologia di

comunione ed icona della Trinità, deve essere ridimensionata nel ministero ordinato l’importanza

del problema dei poteri››.11xi ‹‹Farne una questione centrale sarebbe una soluzione piuttosto

riduzionista e snaturerebbe il vero senso del ministero ordinato›› (Dep 443). Con

quest’affermazione, la Commissione Teologica Internazionale respinge una concezione del

ministero ordinato basato sulle funzioni e sui poteri e si pone sulla linea dell’ecclesiologia di

comunione della Lumen Gentium, secondo cui quello che conta non è la relazione peculiare

ontologica del singolo sacerdote con Cristo, perché ‹‹tale relazione è collocata nella primaria

relazione Cristo-Spirito Santo-Chiesa››.12xii

Purtroppo quest’ultima concezione teologica del ministero ordinato non è stata recepita

completamente e trova ancora resistenze, come dimostra il motu proprio di Benedetto XVI Omnium

in mentem, che modificando il Codice di diritto canonico, ha eliminato il riferimento in persona

Christi capitis ai diaconi, riservandolo solo a vescovi e presbiteri.xiii Queste modifiche ‹‹non

indicano forse un arretramento sostanziale rispetto al Vaticano II?››xiv Sembra infatti che si siano

voluti definire ‹‹due tipologie di ministri sacri, essenzialmente diversi: da un lato vescovi e

presbiteri, ai quali l’ordinazione conferisce la missione e la facoltà di agire nella persona di Cristo

Capo, dall’altro lato i diaconi, che invece vengono abilitati a servire il popolo di Dio nella diaconia

della liturgia, della parola e della carità››.xv Questa distinzione corrisponde ad una ‹‹concezione

lineare dei gradi dell’ordine: i tre gradi costituiscono come una scala; bisogna passare dal primo per

accedere al secondo, poi eventualmente al terzo››.xvi Abbiamo già visto quali sono i limiti della

concezione lineare.xvii Se infatti ‹‹ogni grado contiene tutti i precedenti, più qualcos’altro››,xviii ne

consegue che il diacono è essenzialmente inferiore al presbitero e quindi a lui subordinato e lo

stesso si può dire del presbitero rispetto al vescovo. Tuttavia ‹‹il Nuovo Testamento non esige che il

presbitero-episcopo sia stato in precedenza diacono, pur non escludendolo neanche. Non vi è alcun

passo che testimonia che i vescovi o i presbiteri siano scelti fra i diaconi già in carica››.xix Ne

consegue che abbandonare la concezione “lineare” del sacramento dell’ordine non sarebbe in

contrasto né col Nuovo Testamento, né con le origini del cristianesimo.

Che questa concezione lineare debba essere superata lo ha fatto capire anche il cardinale Stella. Egli

infatti, citando proprio la distinzione tra diaconi e presbiteri introdotta dall’Omnium in mentem, ha

affermato che ‹‹occorre andare oltre tale stilizzazione del diaconato, per scoprire come dalle

modalità concrete in cui vengono esercitate le funzioni affidate ai diaconi emergano ruoli

4

ministeriali propri del diaconato permanente››.xx Ciò significa che il modello lineare del ministero

ordinato non riesce ad esprimere l’identità e la specificità del diaconato. È stato mostrato perché sia

invece da preferire il modello triangolare, dove l’episcopato è al vertice superiore del triangolo,

mentre presbiterato e diaconato sono i due vertici inferiori alla base del triangolo.xxi Nel modello

triangolare il diacono non ha qualcosa in meno rispetto al presbitero, ma ha una sua specificità che

lo distingue dal presbitero, né il presbitero deve necessariamente divenire prima “diacono

transitorio”, ma ciascuno di questi due gradi ha un’identità propria. Ogni grado ha ‹‹qualcosa di

comune con l’altro, più qualcosa di specifico che l’altro non ha››.xxii Ritengo infatti che il punto

cruciale per affermare la specifica identità del diaconato (ma il discorso vale per ogni ministero

ordinato) sia quello di capire quale sia il suo proprium, non quale potere abbia in più o in meno

rispetto al presbiterato. È solo comprendendo la sua specificità che si potrà capire il senso del

diaconato e la sua stessa esistenza.

Perché se il diaconato non avesse una sua specificità allora non avrebbe nemmeno senso la sua

esistenza e potrebbe tranquillamente scomparire di nuovo. ‹‹Ci si deve allora chiedere: qual è il

proprium del diacono, cosa cioè lo distingue dal presbitero e dal vescovo?››xxiii Il proprium del

diaconato non si può identificare nella carità e nel servizio ai fratelli, cioè nella rappresentazione di

Cristo “Servo”. Infatti non è possibile ‹‹separare “essere capo” e “servizio” nella rappresentazione

di Cristo per fare di ognuno dei due un principio di differenziazione specifica›› (Dep 423), in

quanto ‹‹i ministeri del vescovo e del prete, proprio nella loro funzione di presidenza e di

rappresentazione di Cristo Capo, Pastore e Sposo della Chiesa, rendono visibile anche Cristo Servo

e richiedono di essere esercitati come servizi›› (L. cit.). Ne consegue che ‹‹il ministero ordinato dei

diaconi non si può ridurre a una configurazione esclusiva, come se ai diaconi spettasse il riferimento

a Cristo Servo, ai sacerdoti la relazione a Cristo Sacerdote, ai vescovi il legame con Cristo

Pastore››.xxiv Le Norme fondamentali per la formazione dei diaconi permanenti considerano la

spiritualità del servizio come ‹‹la spiritualità di tutta la Chiesa, in quanto tutta la Chiesa, a immagine

di Maria, è la “serva del Signore” (Lc 1,28), a servizio della salvezza del mondo››.xxv ‹‹Le norme

riconoscono tuttavia che la spiritualità del servizio deriva dall’identità teologica del diaconato e che

essa a questo titolo sarebbe specifica dei diaconi (n 11a)››.xxvi Ma ‹‹proprio perché tutta la Chiesa

possa meglio vivere questa spiritualità del servizio, il Signore le dona il segno vivente e personale

del suo stesso essere servo. Perciò, in modo specifico, essa è la spiritualità del diacono. Egli, infatti,

con la sacra ordinazione, è costituito nella Chiesa icona vivente di Cristo servo (n 11c)››.xxvii Al

tempo stesso si deve sottolineare che il ministero diaconale ‹‹non si riduce a dei servizi:

l’ordinazione diaconale non è in questo senso un’abilitazione a essere servizievole o a rendere dei

servizi. Il sacramento dell’ordine abilita i diaconi a esercitare il ministero che la Chiesa affida loro

mediante gli incarichi o la missione che essa assegna loro››.xxviii Quella dei diaconi è ‹‹una

spiritualità di servizio, ma essa, pur essendo specifica loro, non è appannaggio esclusivo del

diaconato››.xxix Ma se non è solo il diacono a rappresentare Cristo servo (ma anche presbiteri e

vescovi) e non è possibile ‹‹separare “essere capo” e “servizio” nella rappresentazione di Cristo››

(Dep 423), non dovremmo necessariamente affermare che tutti i tre ministri ordinati rappresentano,

o (come preferisce dire A. Borras) manifestano Cristo? Non dovremmo eliminare il riferimento in

5

persona Christi capitis anche all’azione del presbitero durante la consacrazione eucaristica e dire

che essa avviene (come ogni atto presbiterale) invece in persona Christi? Infatti anche il ministero

presbiterale non si può ridurre a una configurazione esclusiva a Cristo Sacerdote (o Capo). Ed anche

il ministero episcopale non si può ridurre a una configurazione esclusiva a Cristo Pastore (o Capo).

Borras ritiene invece che il diacono non agisca in persona Christi (capitis) e che pensare l’azione

del diacono in persona Christi ‹‹confonderebbe la sua differenza dal ministero sacerdotale, in

rapporto al quale esso deve comunque essere pensato e attuato senza confusione né separazione.

Non è sufficiente allora che il ministero diaconale si concepisca ed eserciti “in nome di Cristo”, (in

latino in nomine Christi)?››xxx Io ritengo invece che proprio per garantire che i tre ministeri ordinati

siano pensati ed attuati senza separazione (senza separare Capo, Pastore e Servo) dobbiamo dire

che agiscono tutti e tre in persona Christi. Sarebbe infatti ‹‹problematica una dissociazione che

stabilisca come criterio distintivo del diaconato la sua rappresentazione esclusiva di Cristo come

Servo›› (Dep 424), che non tenga ‹‹conto insieme dell’unità della persona di Cristo, dell’unità del

sacramento dell’ordine e del carattere simbolico dei termini rappresentativi (capo, servo, pastore,

sposo)›› (L. cit.). Ed infatti ‹‹è forse diviso il Cristo?›› (1 Cor 1,13). Concepire i ministeri

episcopale e presbiterale in persona Christi e quello diaconale in nomine Christi equivarrebbe a

‹‹considerare l’episcopato, il sacerdozio e il diaconato come tre realtà sacramentali totalmente

autonome, giustapposte e paritarie. L’unità del sacramento dell’ordine sarebbe gravemente lesa››

(Dep 428). La differenza del ministero diaconale da quello presbiterale non va cercata affermando

che la sua azione avviene in nomine Christi. Borras non porta argomenti convincenti per la sua tesi.

Egli infatti scrive che ‹‹la formula in persona Christi, in senso stretto, si applica al ministero

sacerdotale nell’azione eucaristica; in senso ampio, essa designa la funzione di rappresentanza o di

riferimento, certo sacramentale, dei ministri ordinati a Cristo in virtù del carattere inerente

all’ordinazione sacramentale››.xxxi Successivamente Borras scrive che ‹‹i diaconi rappresentano

sacramentalmente Cristo venuto per servire, cioè per dare la sua vita per molti››.xxxii Ma

quest’affermazione coincide con il significato in senso ampio della formula in persona Christi.

Borras qui non si accorge che implicitamente afferma che i diaconi agiscono in persona Christi.

Ma pur agendo in persona Christi, un diacono non equivale ad un presbitero o ad un vescovo: i tre

ministeri devono essere pensati ed attuati senza confusione. ‹‹È in virtù di ciò che hanno in comune

(il sacramento dell’Ordine), che vescovi, presbiteri e diaconi agiscono tutti e tre “in persona

Christi”, senza essere tra loro equivalenti, ma complementari››.xxxiii Infatti ‹‹la partecipazione

sacramentale propria del diaconato, […] si configura in forma differente rispetto a quella del

presbiterato ed ha un suo ruolo attivo insostituibile all’interno della comunità ecclesiale››.xxxiv

‹‹Come la salvezza è offerta all’uomo non solo dal Padre o dal Figlio o dallo Spirito Santo, ma

congiuntamente dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, così la presenza salvifica di Gesù quale

Maestro, Sacerdote e Pastore, è resa possibile congiuntamente da vescovi, presbiteri e diaconi››.xxxv

Infatti ‹‹è proprio della natura sacramentale del ministero ecclesiale avere un carattere

collegiale››.xxxvi È quindi proprio nella sua struttura ministeriale che la Chiesa si mostra icona della

Trinità: ‹‹Vescovi, preti e diaconi […] rappresentano il Cristo nei suoi molteplici aspetti, […] essi

agiscono in persona Christi. Ma […] nessuno racchiude il tutto, […] insieme essi esercitano la

missione del Cristo. Non è il vescovo che possiede tutto e poi delega, per delle ragioni solamente

pratiche. Ma insieme, vescovo, presbiteri e diaconi sono portatori del solo e medesimo sacramento

dell’ordine, nelle loro specificità proprie e nella loro complementarietà. […] È solamente insieme

che essi rappresentano il Cristo››.xxxvii

6

Una volta chiarito che il ministero diaconale viene esercitato senza separazione, dobbiamo

ancora spiegare come esso venga attuato senza confusione dai ministeri presbiterale ed episcopale,

cioè ‹‹qual è la potestas sacra inerente al ricevimento del diaconato e a che cosa destina essa i

diaconi? Qual è la “capacità” o “attitudine”, vale a dire l’abilitazione inerente all’ordinazione

diaconale?››xxxviii Per rispondere a queste domande va detto innanzitutto che ‹‹come i sacerdoti, i

diaconi collaborano al ministero di testimonianza della fede apostolica, ma a modo loro, […] con

l’esercizio dei tria munera servendo il popolo di Dio nelle tre “diaconie”, la Parola, la liturgia e la

carità (cf. LG 29a; AG 16f)››.xxxix Il Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti

afferma che ‹‹è di grandissima importanza che i diaconi possano svolgere, secondo le loro

possibilità, il loro ministero in pienezza, nella predicazione, nella liturgia e nella carità››.xl ‹‹Come i

tria munera, le tre diaconie si implicano a vicenda. Non si può né per principio né nei fatti

intravedere un ministero diaconale che metta in opera una sola diaconia. Le tre diaconie si devono

dunque mantenere senza confusione né separazione››.xli E tuttavia ‹‹nella triplice diaconia della

Parola, della liturgia e della carità – o triplice incarico del vangelo annunciato, celebrato e vissuto –

non è proprio in primo luogo l’incarico del vangelo vissuto o la “diaconia della carità” che i diaconi

sono chiamati a manifestare in modo che essa abbia tutto il suo valore cristico?››xlii È vero che la

diaconia della carità compete a tutti i battezzati, ma ‹‹i diaconi sono sacramentalmente ciò che tutti

sono chiamati a vivere effettivamente. […] È l’esigenza intrinseca della diaconia della Chiesa –

radicata nella diaconia di Cristo – che i diaconi attestano pubblicamente come ministri e

garantiscono ufficialmente in virtù della loro ordinazione. È a questo scopo che essi sono stati

abilitati e istituiti a servire il popolo di Dio in funzione dei bisogni della pastorale ordinaria o degli

avamposti della missione. L’ordinazione li ha investiti sacramentalmente nel ministero che

esercitano concretamente, secondo la funzione o l’incarico ecclesiale che il vescovo ha loro

affidato››.xliii Questo riferimento alla diaconia intrinseca della Chiesa mi sembra cruciale per

comprendere non solo il proprium del diaconato, ma l’essenza stessa della Chiesa. Lo ha affermato

molto chiaramente Benedetto XVI: ‹‹La Chiesa non può trascurare il servizio della carità, così come

non può tralasciare i sacramenti e la Parola››.xliv ‹‹Il servizio della carità è dunque per la Chiesa così

essenziale e indispensabile quanto la celebrazione dei sacramenti e la proclamazione del

vangelo››.xlv Infatti ‹‹l’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della

parola di Dio (kerigma-martyria), celebrazione dei sacramenti (leiturgia), servizio della carità

(diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno

dall’altro. La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe

anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa

essenza››.xlvi Ne consegue necessariamente che la Chiesa non può fare a meno del ministero

diaconale – come non può fare a meno del ministero episcopale e di quello presbiterale - perché ‹‹la

diaconia – il servizio dell’amore del prossimo esercitato comunitariamente e in modo ordinato – è

instaurata nella struttura fondamentale della Chiesa stessa››.xlvii Sono i diaconi che garantiscono

sacramentalmente la diaconia. Non bisogna quindi fossilizzarsi sul ‹‹problema dei “poteri”›› (Dep

443) dei diaconi, in quanto non è ‹‹ciò che i diaconi fanno quello che li specifica, ma la qualità

formale della loro missione che ha la propria sorgente nell’ordinazione diversamente dal battesimo.

[…] I diaconi attestano ciò che la Chiesa è chiamata a essere – una Chiesa serva e povera – e a

fare››.xlviii Va anche precisato che ‹‹il termine diakonia non indica unicamente gli impegni caritativi

o i gesti di solidarietà. Ed è opportuno mettere in guardia contro una tale riduzione. È tutta la

dimensione relazionale della vita ecclesiale, ad intra e ad extra che è chiamata a diventare diaconia,

7

legami rimodellati dall’amore di Dio. Per questo, si può dire che la diaconia è coestensiva alla vita

della Chiesa. [...] La diaconia riguarda tutta la Chiesa, nel senso che è impossibile isolare, al suo

interno, coloro che ne sarebbero gli specialisti e alleggerirebbero gli altri di questo compito››.xlix

Questo aspetto è stato ben evidenziato da padre Raniero Cantalamessa, durante la sua relazione al

25° Convegno Nazionale della Comunità del Diaconato in Italia. Egli ha affermato che esiste una

diakonia in senso ampio (diakonia universale) che fa da fondamento alla diakonia in senso stretto

(diakonia ministeriale o ordinata). ‹‹Tra le due cose, esiste un rapporto analogo a quello che c’è tra

sacerdozio universale di tutti i battezzati e sacerdozio ordinato. Il sacerdozio ordinato si fonda su

quello universale di tutti i credenti (LG 10,11). […] Lo stesso si deve dire del diaconato: se non

possiedo lo spirito di servizio, la diakonia propria di tutti i discepoli di Cristo, a che mi giova avere

l’ufficio e il titolo di diacono?››l Come ha affermato Benedetto XVI: “la diaconia è la legge

fondamentale del discepolo e della comunità cristiana” (omelia in occasione del concistoro del 20

novembre 2010). È proprio questa diakonia universale che costituisce la legge fondamentale del

discepolo e della comunità cristiana. Infatti la diaconia, ‹‹il servizio non è una virtù, ma scaturisce

dalle virtù e, in primo luogo, dalla carità; è, anzi, l’espressione più grande del comandamento

nuovo. Il servizio è un modo di manifestarsi dell’agape, cioè di quell’amore che “non cerca il

proprio interesse” (cf. 1Cor 13,5), ma quello degli altri››.li Chi ama vuole ogni bene per la persona

amata e quindi si mette al suo servizio per soddisfare ogni suo bisogno materiale e spirituale. Per

questo la diakonia costituisce la legge fondamentale del discepolo, perché è conseguenza del

comandamento dell’amore. E questa diakonia si esprime concretamente nelle opere di misericordia

corporale e spirituale, per soddisfare appunto le necessità materiali e spirituali dei fratelli. Va però

precisato che ‹‹anche il servizio, come in genere tutto il comandamento dell’amore del prossimo, va

soggetto alla tentazione dell’orizzontalismo, cioè alla tendenza a ridurlo esclusivamente al rapporto

da un essere umano all’altro. […] Il cristiano è anzitutto “servo di Cristo” ed è per questo che si fa

servo degli altri! Il beneficiario è il prossimo, ma il destinatario è Dio. Ogni servizio fatto in favore

del prossimo, è fatto a Cristo: “l’avete fatto a me” (Mt 25)››.lii ‹‹Amore di Dio e amore del prossimo

sono inseparabili, sono un unico comandamento››.liii Il servizio delle mense che svolgevano i primi

diaconi (cfr. At 6,5-6), non era ‹‹un servizio semplicemente tecnico di distribuzione. […] Il servizio

sociale che dovevano effettuare era assolutamente concreto, ma al contempo era senz’altro anche un

servizio spirituale; il loro perciò era un vero ufficio spirituale, che realizzava un compito essenziale

della Chiesa, quello dell’amore ben ordinato del prossimo. Con la formazione di questo consesso

dei Sette, la diaconia – il servizio dell’amore del prossimo esercitato comunitariamente e in modo

ordinato – era ormai instaurata nella struttura fondamentale della Chiesa stessa››.liv ‹‹Il ministero del

diacono ha lo scopo di manifestare l’amore di Dio per l’umanità a tutte le membra della Chiesa, in

particolare alle sue membra sofferenti. […] Egli ha la missione di prolungare questa realtà di

comunione, fino alle membra più isolate, più abbandonate, più sofferenti, allo scopo di manifestare

anche a loro la forza di questo legame che nessun intervento umano può spezzare. È la funzione per

eccellenza del diacono, ciò di cui egli è particolarmente incaricato. […] Il fatto che la Chiesa si

affidi a un ministro ordinato per manifestare questa comunione a coloro che non possono ascoltarla,

sottolinea che tale missione è di ordine sacramentale››.lv La specificità del ministero diaconale è

stata affermata con grande chiarezza da mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, nella

relazione “Il Diacono: chiamato a essere dispensatore della carità nella comunità cristiana”, tenuta il

28 maggio a Roma per il Giubileo dei diaconi. Egli ha infatti affermato: “Il livello dei poveri non si

colloca a livello morale o sociale nella chiesa. Il livello dei poveri è costituitivo, è sacramentale,

8

teologico, volendo usare una parola più forte direi ontologico. Ecco perché i diaconi, attraverso il

sacramento che imprime il carattere, sono configurati a Cristo servo, servo dei poveri, perché tutta

la Chiesa rimanga sempre nella verità di Cristo, perché si accorci sempre di più la forbice tra la

forma della Chiesa e la forma di Gesù. Il diacono, servendo i poveri, diventa così il garante

dell’identità di Cristo e della Chiesa”. Come diceva san Vincenzo de’ Paoli: “Il servizio dei poveri

deve essere preferito a tutto. Non ci devono essere ritardi. Se nell’ora dell’orazione avete da portare

una medicina o un soccorso a un povero, andatevi tranquillamente. Non dovete preoccuparvi e

credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato l’orazione. Se lasciate l’orazione

per assistere un povero, sappiate che far questo è servire Dio. La carità è superiore a tutte le regole,

e tutto deve riferirsi ad essa. Essa è una grande signora: bisogna fare ciò che comanda. Serviamo

dunque con rinnovato amore i poveri e cerchiamo i più abbandonati. Essi sono i nostri signori e

padroni”. Ecco allora che il diacono, per manifestare l’amore di Dio per l’umanità deve essere un

missionario di misericordia, attuando le opere di misericordia corporale e spirituale. Servire i poveri

non vuol dire solo dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati, ma anche consigliare i

dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori. ‹‹Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere

il termine “carità” alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. È importante, invece, ricordare

che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il “servizio della Parola”. Non v’è

azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio,

renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio:

l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana›› (Benedetto XVI,

Messaggio per la Quaresima 2013).

Si è visto all’inizio di questo contributo come l’origine delle questioni aperte sul diaconato sia

un’insufficiente definizione della sua identità, che appare oscura non solo a presbiteri e vescovi, ma

agli stessi diaconi. Inoltre ‹‹non è chiaro se la sua figura sia destinata a essere riconosciuta e a

stabilizzarsi o, alla lunga, a dissolversi in altre. Che potrà succedere in una chiesa “tutta

ministeriale”, e qualora anche i preti potessero avere accesso al matrimonio o se si pensasse di

ordinare dei viri probati per celebrare l’eucarestia in assenza del prete? Ne uscirebbe minata la sua

stessa ragion d’essere o l’originalità della sua figura potrebbe finalmente dispiegarsi in tutta la sua

valenza?››lvi A me sembra che gli ultimi pronunciamenti del magistero esprimano grande

apprezzamento per il diaconato e la volontà che esso sia pienamente riconosciuto e stabilizzato. Il

cardinale Stella ha infatti affermato: ‹‹il diaconato si è eclissato per secoli dall’orizzonte ecclesiale

per il venire meno di funzioni proprie ed effettive e, per la medesima ragione, sono falliti nel tempo

i tentativi di restituire alla Chiesa questo prezioso ministero, esistente sin dalle origini; perciò

chiarita e approfondita la “teologia del diaconato”, occorre oggi grande concretezza nel tradurre i

principi in vita e prassi ecclesiale. Secondo l’esperienza della Congregazione per il Clero, tale

auspicata concretezza può realizzarsi innanzitutto a partire da azioni solo apparentemente di poco

conto. L’atto di nomina, con cui il Vescovo conferisce un incarico a un diacono, è conveniente che

sia “identificante” e non meramente formale; tale atto costituirà, in certo modo la “carta d’identità”

del singolo diacono e potrà contribuire a garantirne il preciso esercizio del ministero››.lvii Qui ‹‹non

si tratta di trovare un posto al diacono, ma di pensare una chiesa in cui il diacono possa trovare un

posto››.lviii Il cardinale Stella ha molto insistito sul fatto che ‹‹un Vescovo, non dovrebbe solo

determinare il luogo in cui il diacono deve esercitare il suo ministero, ma anche configurarne il

ruolo specifico. […] Qualora mancasse una specifica determinazione canonica le funzioni diaconali

rischierebbero di venir esercitate in modo episodico e senza quella continuità propria di un

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ministero ordinato. Ciò si è puntualmente verificato in varie diocesi in cui, dopo l’ordinazione, il

Vescovo non ha provveduto ad affidare uno specifico mandato ai diaconi permanenti, lasciando

semplicemente che continuassero il servizio già svolto in precedenza, da anni, come laici nella

comunità di provenienza››.lix Invece i diaconi non devono venire ‹‹relegati a impegni marginali, a

funzioni meramente suppletive, o a impegni che possono essere ordinariamente compiuti dai fedeli

non ordinati. Solo così i diaconi permanenti appariranno nella loro vera identità di ministri di Cristo

e non come laici particolarmente impegnati nella vita della Chiesa››.lx Anche il “Direttorio per il

ministero e la vita dei diaconi permanenti” stabilisce che ‹‹per il bene del diacono stesso e perché

non ci si abbandoni all’improvvisazione, è necessario che l’ordinazione si accompagni ad una

chiara investitura di responsabilità pastorale. […] Le competenze del diacono devono essere

accuratamente definite per iscritto nel momento del conferimento dell’ufficio››.lxi Il cardinale Stella

ritiene che l’assenza di un atto di nomina del vescovo comporta per il diacono ‹‹un duplice pericolo:

clericalizzarsi, sino al punto di porsi come “supplenza” dei presbiteri, o laicizzarsi, non

distinguendo la propria identità rispetto a quella dei vari ministeri laicali››.lxii Ma il diacono non può

e non deve svolgere compiti che rischiano ‹‹di interpretare il ministero diaconale in termini di

semplice supplenza del presbitero, perdendo la specificità del diaconato››.lxiii Sbagliano quindi quei

diaconi che si lamentano del parroco che non gli consente di battezzare, di tenere l’omelia, o

celebrare le esequie, perché questi sono compiti specifici del presbitero. ‹‹Diaconato vuol dire,

invece, muoversi, “uscire dalle chiese”, “andare a trovare”, “stare con la gente”. Il diacono non

attende, ma va in cerca. Suo compito è andare dove gli altri non arrivano, parlare dove gli altri non

parlano, guardare dove gli altri non guardano e cercare di stabilire la relazione, perché dove arriva il

diacono non arriva nessuno››.lxiv Il diacono deve annunziare il Vangelo non con le omelie, ma

portando la Parola di Dio nel suo luogo di lavoro, nei centri di ascolto, ai fidanzati, ai giovani sposi,

alle famiglie. Il diacono non è un supplente del presbitero, né un “mezzo prete”, ma svolge un ruolo

specifico e complementare a quello del presbitero. Infatti ‹‹se i poveri ci saranno sempre allora

devono esserci sempre anche i diaconi che sono stati ordinati per il servizio, non per la… gloria››.lxv

‹‹Il ministero parrocchiale, aperto alla compresenza e collaborazione di presbitero e diacono, apre la

strada alla comprensione autentica della dimensione pastorale del diaconato. Il diacono, infatti, è

chiamato a una responsabilità globale verso una comunità cristiana, nel senso di un prendersi cura

della comunità mettendosi al servizio della crescita delle tre fondamentali dimensioni della Parola,

della liturgia e della carità››.lxvi Il secondo rischio è quello della laicizzazione del diacono. Ma ‹‹il

ministero diaconale è un ministero clericale, distinto tanto da quelli laicali, che da quello

presbiterale, soprattutto in ragione della specifica vocazione di chi lo esercita e della stabilità di cui

gode. […] Quando è inviato in una parrocchia, il diacono è cooperatore del parroco, corresponsabile

con lui, per gli ambiti (personali o territoriali) che gli sono affidati; infatti, anche il diacono ha una

partecipazione alla cura d’anime, in ragione dell’ordinazione ricevuta. Ovviamente, il pastore

proprio e responsabile ultimo resta il parroco, ma questo non svilisce il ruolo di cooperatore del

diacono, alla cui “tutela” è sempre bene che sia emesso un decreto di nomina da parte del vescovo.

[…] Un atto formale con cui il Vescovo affida degli incarichi stabili a servizio del popolo di Dio è

di grande importanza per evidenziare il carattere sacramentale del ministero diaconale e la sua

precisa configurazione. Ciò che lo distingue infatti dalla ministerialità dei fedeli laici non sono

principalmente le funzioni ma è la capacità di rappresentare, in forma sacramentale, il Cristo Servo

di fronte alla comunità››.lxvii Quindi ‹‹tra i diaconi e i diversi soggetti della pastorale si dovranno

perseguire, con generosità e convinzione, le forme di una costruttiva e paziente collaborazione. Se è

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dovere dei diaconi rispettare sempre l’ufficio del parroco e operare in comunione con tutti coloro

che ne condividono la cura pastorale, è anche loro diritto essere accettati e pienamente riconosciuti

da tutti››.lxviii

Il cardinale Stella ha concluso la sua relazione affermando che: ‹‹i diaconi permanenti non sono

“mezzi preti”, che possono fare quasi tutto, o “laici con la stola”; si tratta di chierici, con una

identità vocazionale e spirituale propria da coltivare e da comprendere, avendo come punto di

riferimento il diaconato stesso, e non la comparazione con il presbiterato o con l’impegno

apostolico dei laici. Occorre riconoscere al diaconato piena dignità e “diritto di cittadinanza”, non

solo nella teoria, in sé chiara, ma soprattutto nella vita concreta delle nostre Chiese locali, perché

possano sempre più svilupparsi come “comunità ministeriali” e arricchirsi stabilmente dei frutti

della preziosa vocazione al diaconato e del connesso ministero, recuperato in tempi ancora recenti

dal tesoro ecclesiale e offerto alla Chiesa di oggi e di domani››.lxix Sono parole di grande

considerazione per il diaconato che richiamano vescovi, presbiteri e diaconi, ognuno per le proprie

responsabilità, a lavorare tenacemente per un diaconato che contribuisca a realizzare la Chiesa che

desidera papa Francesco: “una Chiesa povera e per i poveri” (Discorso ai rappresentanti dei media

del 16 marzo 2013) ‹‹e, perciò, veramente diaconale››.lxx

Concretamente ciò vuol dire che:

1. I vescovi, tramite l’atto di nomina, devono definire un preciso esercizio del ministero

diaconale. L’atto di nomina deve essere accompagnato da ‹‹una lettera di missione, che

indica l’ambito o gli ambiti in cui il diacono è chiamato a esercitare il suo ministero, così

come gli incarichi che gli sono affidati in un equilibrio armonioso della triplice diaconia

della Parola, della liturgia e della carità››.lxxi Borras ritiene talmente importante la lettera di

missione, che ‹‹se il vescovo è incapace di dire in che cosa questa presenza del diacono si

differenzi d’ora in poi dalla testimonianza battesimale e perché essa si qualifichi come

ministeriale, è preferibile che si astenga dall’inviare in quei luoghi. […] La lettera di

missione ha anche uno scopo informativo. Per questo è auspicabile che essa venga letta al

momento della cerimonia d’accoglienza nella comunità o nel servizio cui il diacono è

assegnato››.lxxii Ma il vescovo non esaurisce il suo compito con l’atto di nomina. Egli ‹‹ha il

dovere di seguire con una sollecitudine particolare i diaconi della sua diocesi››.lxxiii Borras

cita il Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi, secondo cui “il vescovo deve

adoperarsi affinché tutti i fedeli, e in particolare i presbiteri, apprezzino e stimino il

ministero dei diaconi” (n. 92c). ‹‹Ciò implica a fortiori che egli si curi dei diaconi! […]

Questa cura concerne in particolare la formazione permanente, in tutte le sue dimensioni,

umana, spirituale, dottrinale e pastorale, al fine di aiutare, nel caso specifico, i diaconi a

esercitare il meglio possibile il loro ministero››.lxxiv Inoltre il vescovo deve effettuare una

‹‹valutazione diocesana per assicurare un controllo globale dopo alcuni anni di ordinazione.

[…] Il processo di valutazione ha un triplice scopo. Esso mirerà anzitutto a valutare

l’impegno, i compiti e le attività del diacono in funzione della lettera di missione. Ne

verificherà poi l’attuale adeguatezza alla missione che gli era stata affidata. Ne verificherà,

infine, le condizioni ottimali d’esercizio e d’inserimento a beneficio della persona e delle

comunità interessate››.lxxv

11

2. I presbiteri (ed in particolare i delegati vescovili) devono studiare i numerosi documenti del

magistero che riguardano il diaconato (raccolti da Enzo Petrolino nel Nuovo Enchiridion sul

diaconato), per comprenderne a fondo l’identità teologica ed ecclesiale, considerato che ‹‹il

grosso dei sacerdoti non hanno capito ancora che cos’è il diacono››.lxxvi I presbiteri

collaborino pazientemente con i diaconi, riconoscendo il loro “diritto di cittadinanza”,

perché spesso il diacono ‹‹non viene visto come una risorsa, ma come un disturbo e un

problema, forse una minaccia; meglio farne senza››.lxxvii I presbiteri affidino ai diaconi solo

ruoli ministeriali propri del diaconato, come definiti nell’atto di nomina e/o la lettera di

missione. Siano evitate sia funzioni di supplenza presbiterale, che impegni che possono

essere ordinariamente compiuti dai laici. Inoltre i presbiteri riconoscano che la vocazione

primaria di un diacono è quella matrimoniale, come ha affermato mons. Arturo Aiello

(vescovo di Teano-Calvi e delegato della CEC per il Clero): ‹‹voi diaconi siete coniugati

ordinati. La vocazione primaria della vostra vita dopo quella battesimale, è quella coniugale,

poi successivamente si è annidata in voi la vocazione diaconale. Avere sempre presente

questa primazia serve per evitare quei conflitti di competenza che sono all’ordine del giorno

della vostra vita. Cosa viene prima se il parroco chiede e la famiglia reclama? Voi siete posti

costitutivamente in una situazione di tensione, ma Dio non voglia che la vocazione

diaconale diventi un peso che schiaccia quella matrimoniale. Purtroppo abbiamo casi in

Campania di diaconi che sono in crisi coniugale o addirittura che si sono separati dalla

moglie. Bisognerà attrezzarsi per il futuro per evitare questa eventualità che purtroppo è

sempre più dietro la porta››.lxxviii Riconoscere la primazia del matrimonio vuol dire che

parroco e diacono devono adoperarsi affinché l’esercizio del ministero diaconale non incrini

nemmeno potenzialmente i rapporti coniugali e familiari. Non riconoscere questa primazia

da parte di tutti i soggetti coinvolti (diacono, moglie e parroco) può portare ai casi di crisi

coniugali o addirittura alle separazioni citate da mons. Aiello. Un malinteso senso del

servizio diaconale può portare alla tragedia della separazione, uno scandalo inaccettabile per

chi ha deciso di servire Cristo e la Chiesa. Bisogna aver presente che ‹‹la Chiesa non divide

mai ciò che Dio ha unito. I due sacramenti, diaconato e matrimonio, voluti entrambi dal

Signore, non possono essere contrapposti tra loro, ma sono destinati ad armonizzarsi. Non

sempre però si riesce a vedere e a vivere l’armonia tra i due sacramenti: invece che

rafforzarsi a vicenda talora sembrano in conflitto, sembra che le esigenze dell’uno non siano

compatibili con quelle dell’altro. Ci si sente allora divisi e ciò provoca grande sofferenza

interiore e può causare tensioni e conflitti di coppia più o meno evidenti nella

quotidianità››.lxxix Il parroco deve fare in modo che il diacono viva ‹‹una giusta dimensione

del suo ministero. Lo aiuterà a non esaurirsi in un numero eccessivo di attività, servendo

Cristo nella misura delle sue possibilità e nel rispetto degli impegni presi verso la propria

famiglia e il proprio lavoro. Un diacono non può trascurare la propria famiglia uscendo fuori

casa tutte le sere. Moglie e figli hanno diritto a una parte significativa del tempo del loro

marito e padre. Moltiplicando le attività non cresce necessariamente la nostra santità. È

necessario uscire da una visione moralistica dell’esistenza, segnata da una somma di doveri

a cui spesso non si riesce a rispondere, con l’impressione frustrante di non riuscire a vivere

appieno la propria vocazione››.lxxx

3. Lo studio deve impegnare anche diaconi e candidati, perché molti diaconi non hanno ancora

capito chi è il diacono. Inoltre i diaconi devono imparare a non invadere lo spazio dei

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presbiteri, stando al loro posto, svolgendo i compiti affidati dal vescovo e dal parroco, con

umiltà e mitezza. Infatti “la mitezza è una delle virtù dei diaconi. Quando il diacono è mite,

è servitore e non gioca a scimmiottare i preti, no, è mite. […] L’ambizione del diacono non

può essere diversa da questa: servitore di tutti. […] Così, cari diaconi, nella mitezza,

maturerà la vostra vocazione di ministri della carità” (omelia di papa Francesco del 29

maggio 2016 per il giubileo dei diaconi). Il diacono dovrà vivere il proprium del suo

ministero, servendo i poveri attraverso le opere di misericordia corporale e spirituale. Solo

così egli sarà garante dell’identità di Cristo e della Chiesa.

Se ognuno farà la sua parte, nel posto in cui il Signore lo ha voluto, con mitezza ed umiltà, verrà

meno ogni conflitto tra presbiteri e diaconi ed il ministero diaconale potrà finalmente essere

compreso ed attuato in ogni diocesi e parrocchia. E così la Chiesa potrà essere ‹‹segno e strumento

dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano›› (LG 1).

P. Violante è diacono della diocesi di Nola

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PREGHIERA

A MARIA SANTISSIMA

MARIA,

Maestra di fede, che con la tua obbedienza alla Parola di Dio hai collaborato in modo esimio

all’opera della Redenzione, rendi fruttuoso il ministero dei diaconi, insegnando loro ad ascoltare e

ad annunciare con fede la Parola.

MARIA,

Maestra di carità, che con la tua piena disponibilità alla chiamata di Dio, hai cooperato alla

nascita dei fedeli nella Chiesa, rendi fecondi il ministero e la vita dei diaconi, insegnando loro a

donarsi nel servizio del popolo di Dio.

MARIA,

Maestra di preghiera, che con la tua materna intercessione hai sorretto e aiutato la Chiesa

nascente, rendi i diaconi sempre attenti alle necessità dei fedeli, insegnando loro a scoprire il valore

della preghiera.

MARIA,

Maestra di umiltà, che per la tua profonda consapevolezza di essere la Serva del Signore sei

stata colmata dallo Spirito Santo, rendi i diaconi docili strumenti della redenzione di Cristo,

insegnando loro la grandezza di farsi piccoli.

MARIA,

Maestra del servizio nascosto, che con la tua vita normale e ordinaria, piena di amore hai saputo

assecondare in maniera esemplare il piano salvifico di Dio, rendi i diaconi servi buoni e fedeli,

insegnando loro la gioia di servire nella Chiesa con ardente amore.

Amen.

(dal Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti emanato dalla Congregazione per il

Clero, il 22 febbraio 1998)

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i1 A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono. L’incerta rinascita del diaconato permanente. Edizioni

Messaggero, Padova 2015. ii2 Ivi, p. 13,15. iii3 Ivi, p. 21. iv4 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Il diaconato: evoluzione e prospettive (=Dep), cit. in Enzo Petrolino,

Enchiridion sul diaconato. Le fonti e i documenti ufficiali della chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano

2009, p. 404. v5 A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, o.c., p. 25. vi6 L. cit.. vii7 Ivi, p. 194. viii8 B. STELLA, La visione e le aspettative sul diaconato nell’insegnamento pontificio, in Il diaconato in Italia, 194/195

(2015), p. 63. ix9 B. STELLA, La visione e le aspettative sul diaconato nell’insegnamento pontificio, o.c., p. 65. x10 L. cit.. xi11 P. VIOLANTE, Sacramentalità del diaconato, in Il diaconato in Italia, 166 (2011), p. 44. xii12 S. NOCETI, Il ministero dei diaconi tra teologia ed esperienze pastorali, saggio allegato a A. CASTEGNARO – M.

CHILESE, Uomini che servono, o.c., p. 242. xiii P. VIOLANTE, Sacramentalità del diaconato, o.c., p. 37. xiv G. BELLIA, La diaconia segno profetico della misericordia, in Il diaconato in Italia, 197/198 (2016), p. 2. xv P. VIOLANTE, Sacramentalità del diaconato, o.c., p. 38. xvi A. BORRAS – B. POTTIER, La grazia del diaconato. Questioni attuali a proposito del diaconato latino. Cittadella

Editrice, Assisi 2005, p. 83. xvii P. VIOLANTE, Sacramentalità del diaconato, o.c., p. 38-40. xviii A. BORRAS – B. POTTIER, La grazia del diaconato, o.c., p. 100. xix L. cit. xx B. STELLA, La visione e le aspettative sul diaconato nell’insegnamento pontificio, o.c., p. 66. xxi A. BORRAS – B. POTTIER, La grazia del diaconato, o.c., p. 85. xxii Ivi, p. 101. xxiii P. VIOLANTE, Sacramentalità del diaconato, o.c., p. 39. xxiv A. BORRAS, Il diaconato, vittima della sua novità? Edizioni dehoniane, Bologna 2008, p. 159. xxv CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Norme fondamentali per la formazione dei diaconi permanenti, n.

11, cit. in Enzo Petrolino, Enchiridion sul diaconato. Le fonti e i documenti ufficiali della chiesa, Libreria Editrice

Vaticana, Città del Vaticano 2009. xxvi A. BORRAS, Il diaconato, vittima della sua novità? o.c., p. 161. xxvii CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Norme fondamentali per la formazione dei diaconi permanenti,

o.c., n. 11. xxviii A. BORRAS, Il diaconato, vittima della sua novità? o.c., p. 161. xxix Ivi, p. 162. xxx Ivi, p. 134. xxxi Ivi, p. 123. xxxii Ivi, p. 133. xxxiii P. VIOLANTE, Sacramentalità del diaconato, o.c., p. 41. xxxiv L. NAPOLEONE, Ecclesiologia del servizio. I diaconi nella Chiesa. Centro Liturgico Vincenziano, Roma 2010, 79. xxxv P. VIOLANTE, Sacramentalità del diaconato, o.c., p. 41. xxxvi CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Catechismo della Chiesa Cattolica (=CCC), Libreria Editrice Vaticana, Città

del Vaticano 19992, n. 877.

15

xxxvii A. BORRAS – B. POTTIER, La grazia del diaconato, o.c., p. 101-102. xxxviii A. BORRAS, Il diaconato, vittima della sua novità?, o.c., p. 148. xxxix Ivi, p. 144. xl CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti, n. 40, cit. in Enzo

Petrolino, Enchiridion sul diaconato. Le fonti e i documenti ufficiali della chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del

Vaticano 2009. xli A. BORRAS, Il diaconato, vittima della sua novità?, o.c., p. 146. xlii Ivi, p. 153. xliii Ivi, p. 154-155. xliv BENEDETTO XVI, Deus caritas est. LEV, Città del Vaticano 2016, n. 22. xlv ETIENNE GRIEU, Diaconia. Quando l’amore di Dio si fa vicino. Edizioni Dehoniane, Bologna 2015, p. 121. xlvi BENEDETTO XVI, Deus caritas est, o.c., n. 25. xlvii Ivi, n. 21. xlviii A. BORRAS, Il diaconato, vittima della sua novità? o.c., p. 152. xlix ETIENNE GRIEU, Diaconia. Quando l’amore di Dio si fa vicino, o.c., p. 123. l R. CANTALAMESSA, Il diacono permanente, un servitore di Cristo, in Il diaconato in Italia, 194/195 (2015), p. 97. li Ivi, p. 99. lii Ivi, p. 100. liii BENEDETTO XVI, Deus caritas est, o.c., n. 18. liv Ivi, n. 21. lv ETIENNE GRIEU, Diaconia. Quando l’amore di Dio si fa vicino, o.c., p. 137-138. lvi A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, o.c., p. 225. lvii B. STELLA, La visione e le aspettative sul diaconato nell’insegnamento pontificio, o.c., p. 66. lviii A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, o.c., p. 226. lix B. STELLA, La visione e le aspettative sul diaconato nell’insegnamento pontificio, o.c., p. 67. lx CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti, o.c. n. 40. lxi Ivi, n. 40,41. lxii B. STELLA, La visione e le aspettative sul diaconato nell’insegnamento pontificio, o.c., p. 67. lxiii Ivi, p. 68-69. lxiv A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, o.c., p. 127. lxv E. PETROLINO, Ancora un incontro del tutto speciale, in Il diaconato in Italia, 199 (2016), p. 6. lxvi B. STELLA, La visione e le aspettative sul diaconato nell’insegnamento pontificio, o.c., p. 69. lxvii Ivi, p. 67. lxviii CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti, o.c. n. 41. lxix B. STELLA, La visione e le aspettative sul diaconato nell’insegnamento pontificio, o.c., p. 72. lxx E. PETROLINO, Povera per i poveri: la chiesa nel magistero di papa Francesco, in Il diaconato in Italia, 187 (2014),

p. 13. lxxi A. BORRAS, Il diaconato, vittima della sua novità?, o.c., p. 204. lxxii Ivi, p. 204-205. lxxiii Ivi, p. 206. lxxiv L. cit.. lxxv Ivi, p. 210. lxxvi A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, o.c., p. 150. lxxvii Ivi, p. 186. lxxviii P. VIOLANTE, Giornata regionale dei diaconi a Nola, in Il diaconato in Italia, 193 (2015), p. 61. lxxix DIOCESI DI RIMINI, Matrimonio e diaconato: dono e problemi, in Il diaconato in Italia, 155 (2009), p. 61. lxxx M. CAMISASCA, Lettera pastorale: Il dono del diaconato permanente, in Il diaconato in Italia, 191 (2015), p. 61.