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    QUALE psicologia Semestrale dell’Istituto per lo Studio delle Psicoterapie fondato nel 1992

    Organo della Società Italiana di Psicoterapia e della Società Italiana di Psicoterapia Strategica Anno 1 – Numero 1 – Settembre 2013 – Nuova Serie

    Direttore scientifico Antonio Fusco

    Comitato scientifico

    Barbara D’Amario, Guglielmo Gulotta, Fausto Massimini, Luciano Mecacci, Patrizia Patrizi, Filippo Petruccelli, Irene Petruccelli, Valeria Schimmenti, Chiara Simonelli, Rosella Tomassoni, Giulia Villone

    Betocchi, Valeria Verrastro

    Direttore responsabile

    Valeria Verrastro

    Redazione

    Rocco Chizzoniti, Cristina Colantuono, Stefania Lancia, Giuditta Zammarrelli, Carolina Zegarelli

    Grafico Renato De Marco

    Direzione, Redazione e Amministrazione 00185 Roma – Via San Martino della Battaglia 31

    Telefoni 06 44340019, 328 6068080 – Fax 06 44340017 www.qualepsicologia.it

    Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 86 del 17 Aprile 2013

    ISSN 1972-2338 È consentita la riproduzione dei testi citando la fonte

    Finito di stampare in proprio il 30 Settembre 2013

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    QUALE psicologia Numero 1 – Settembre 2013 – Nuova Serie

    SOMMARIO La competenza etica dello psicologo nel lavoro in ambito penitenziario Pag. 3 Alfredo De Risio, Grazia Imparato, Roberta Mordanini, Franca Mancini L’Individual Assessment nella psicologia del lavoro. Una nuova prospettiva Pag. 9 Roberta Mordanini, Valeria Verrastro Mobbing e violenze psicologiche sul luogo di lavoro Pag. 16 Roberta Mordanini, Valeria Verrastro Dinamismi cross-culturali nel funzionamento familiare dell’adolescente. Un’ipotesi di Pag. 24 ricerca Roberta Federico Il bilancio di competenze. Una sperimentazione all’Università di Cassino e del Lazio Pag. 31 Meridionale Maria Teresa Serranò, Filippo Petruccelli, Valeria Verrastro

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    La competenza etica dello psicologo nel lavoro in ambito penitenziario Ethical competence of the psychologist in the penitentiary environ-ment working. Alfredo De Risio1, Grazia Imparato, Roberta Mordanini2, Franca Manci-ni3 Abstract Il sistema penitenziario è un’istituzione chiusa e rigidamente amministrata, all’interno del quale si integrano culture e personalità diverse. La deten-zione condiziona in modo determinante il sogget-to, sotto il profilo intrapsichico e comportamenta-le, influenzando le sue reazioni agli stimoli. In tale istituzione si possono produrre situazioni di disa-gio e si presentano problematiche psicologiche e psicopatologiche di gravità tale da rendere più complessi gli interventi di prevenzione e sostegno tesi a fronteggiare situazioni di emergenza, quali tentati suicidi e atti di autolesionismo. È evidente che l’intervento psicologico in ambito penitenzia-rio è fortemente specialistico e di particolare deli-catezza. Compatibilmente con le esigenze di sicu-rezza è anche necessario che nella struttura peni-tenziaria sia garantita la riservatezza al detenuto. La persona detenuta ha il diritto di ricevere un’adeguata assistenza psicologica in misura non inferiore a quella che viene garantita ad ogni cit-tadino del territorio sanitario esterno e, comun-que, congrua rispetto alle esigenze di reinserimen-to sociale dello stesso (cfr. art. 25 C.D.P.). All’interno del presente lavoro si darà ampio spa-zio ad un’analisi dei vari progressi conseguiti nel corso del tempo in rapporto alla figura dello psi-cologo in ambito penitenziario e ai suoi rapporti con il detenuto. Molta rilevanza sarà poi data al tema del consenso informato che costituisce il fondamento della liceità dell'attività sanitaria, in assenza del quale l’attività stessa costituisce rea-to. Il fine della richiesta del consenso informato è dunque quello di promuovere l’autonomia dell’individuo nell’ambito delle decisioni relative alla sua persona. Da qui la necessità di valorizza-re il momento comunicativo-informativo e gli

    aspetti relazionali dell’incontro clinico, con lo scopo di favorire una piena umanizzazione di qualsiasi tipo di relazione terapeuta-paziente. Parole chiave Psicopatologia in carcere – Intervento psicologico specialistico – Prevenzione e sostegno – Benesse-re organizzativo – Consenso informato – Umaniz-zazione della relazione tra terapeuta e paziente – Reinserimento sociale del detenuto. Abstract The prison system is a institution closed and firm-ly administrated in which integrate different cul-tures and personalities. The detention conditions the subject, in terms of intrapsychic and behavior-al it influences his reactions. In this institution is possible to find uncomfortable situations and pre-sent psychological and psychopathological prob-lems severe enough to make more complex pre-vention interventions and support designed to deal with emergency situations, such as suicide at-tempts and self-mutilation. It’s clear that the psy-chological intervention in penitentiary is highly specialized and particularly delicate. Consistent with the needs of security, it is also necessary that in the detention facility, the detainee is kept confi-dential. The prisoner has the right to receive a psychological assistance not less than that which is guaranteed to every citizen of the territory and external health, however, appropriate to the needs of social reintegration of the same. In the present work has been given a big space to an analysis of the various progress over time in relation to the

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    figure of the psychologist in penitentiary and its relationship with the prisoner. A lot of importance will be given then to the issue of informed consent which represents the foundation of the legitimacy of healthcare, without which the activity is a crim-inal offense. The purpose of seeking informed con-sent is therefore to promote individual autonomy in decisions relating to his person. Hence, the need to enhance the communicative moment - in-formational and relational aspects of the clinical encounter with the aim of promoting a full human-ization of any kind of therapist-patient relation-ship. Keywords Psychopathology in prisons – Psychological in-tervention specialized – Prevention and support – Organizational wellness – Informed consent – Humanization of therapist and patient relation-ship – Social reintegration. Cenni storici Con la Risoluzione adottata dall’ONU il 30 agosto 1955 venivano tracciate le regole minime per il trattamento dei detenuti, ponendo in evidenza la necessità di integrare il personale degli istituti pe-nitenziari con un numero sufficiente di specialisti, psichiatri, psicologi, assistenti sociali, criminologi clinici dediti al trattamento ed alla rieducazione dei detenuti. Attraverso questa Risoluzione si in-tendeva realizzare un percorso rieducativo che consentisse il recupero del soggetto deviante ed il suo reinserimento nella società. Il settore in cui trovò maggiore spazio l’ideologia correzionale fu, almeno inizialmente, quello della devianza mino-rile, dove l’indirizzo educativo sostituì quello pu-nitivo-repressivo. La legge 25 luglio 1956 n. 888 stabiliva, infatti, l’opportunità dell’esistenza di strutture quali istituti di Osservazione, uffici di servizio sociale e istituti medico-psico-pedagogici. Tutte queste strutture prevedevano, tra le profes-sioni di cura e di aiuto, la figura dello psicologo. Al contrario del settore minorile e fatta eccezione per tre istituti sperimentali – Rebibbia, dove nel 1954 furono creati un Istituto di Osservazione e nel 1959 il primo istituto di Trattamento riservato ai giovani adulti a Roma; Milano, dove nel 1960 venne creato il Centro di Osservazione e nel 1963

    un secondo Istituto di Trattamento; Napoli (Pog-gioreale) nel 1969 – si deve aspettare la Legge n. 354 del 26 luglio 1975 in materia di “Ordinamento penitenziario ed esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” per vedere l’intervento dell’esperto psicologico negli Istituti penitenziari per adulti. Sulla scia di tale slancio e sulla vasta esperienza acquisita sul campo da quanti, esperti ex art. 80 O.P., hanno tracciato le fondamenta di quel sapere e di quel saper fare che è l’intervento psicologico in ambito penitenziario, emerge la necessità di in-terrogarsi sul rispetto dei principi etici e deontolo-gici dello psicologo, in particolare di come questi principi si declinino durante l’esecuzione della pena, se introducano nuove e differenti questioni etiche, se i principi e gli standard etici attuali, così come formulati nel Codice Deontologico degli psicologi italiani (di seguito denominato C.D.P.I.), nel meta-codice europeo e nelle “raccomandazioni per una pratica etica nei contesti legali” emanati dall’EFPA, siano appropriati nella valutazione eti-ca del comportamento degli psicologi e, nello spe-cifico della presente trattazione, l’applicazione della pratica psicologica in ambito penitenziario. Si tratta, infatti, di un’area disciplinare dove spes-so si corre il rischio, per l’influenza nefasta dell’ostile penitenziario, di mettere in atto com-portamenti inadeguati, che possono sfociare anche in veri e propri atti contrari all’etica professionale. Nel veloce excursus storico proposto appare utile, da ultimo, ricordare il DPCM 1° aprile 2008 che, nell’intento di attuare pienamente la tutela della salute dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale, ha consentito un più articolato intervento psicologico, offerto dalle professionalità e dai modelli organizzativi delle aziende sanitarie ove esiste un Istituto peni-tenziario di competenza territoriale, in risposta ai bisogni di salute della complessa e composita utenza reclusa (culture e sottoculture criminali, tossicodipendenti, alta presenza di patologie diffu-sive, disagio psichico recluso e da reclusione, so-vraffollamento, stigma sociale, alta percentuale di stranieri, ecc.). Il ruolo dello psicologo nell’ostile penitenziario Nell’anno appena trascorso, la Raccomandazione n. 5, adottata dal Comitato dei Ministri Europei il 12 aprile 2012, che raccoglie ed integra le prece-

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    denti emanazioni, sottolinea le direttrici dei prin-cipi etici che devono guidare il lavoro del persona-le che, a vario titolo e per tutti i livelli gerarchici, lavora in ambito penitenziario, sottolineando come il “Codice Etico” rappresenta un valore aggiunto che l’Unione Europea propone agli Stati Membri, a tutela dello stato di diritto nell’ambito del quale il sistema penale riveste una funzione essenziale. Le regole etiche così espresse integrano e scam-biano i principi deontologici fondamentali dello psicologo italiano contemporaneo, contestualiz-zando la specificità dell’intervento psicologico clinico in ambito penitenziario. Va inoltre ricorda-to che compito generale dello psicologo è quello della promozione del benessere individuale, di gruppo e della “comunità penitenziaria” (cfr. art. 3 C.D.P.I.). Ciò che riguarda il benessere del perso-nale che opera all’interno del contesto penitenzia-rio p evidenziato nel capitolo del cosiddetto “Be-nessere organizzativo”, anche in risposta all’esposizione stress lavoro-correlato, a cui è esposto l’operatore penitenziario in genere. Il carcere, infatti, è una “istituzione totale” e alle parole dell’autore è affidato il compito di darne restituzione: “Un’istituzione totale può essere de-finita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formal-mente amministrato” (Goffman, 2001). Ed ancora: “Uno degli assetti sociali fondamentali nella so-cietà moderna è che l’uomo tende a dormire, a di-vertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compa-gni diversi, sotto diverse autorità [...] Caratteristi-ca principale delle istituzioni totali può essere ap-punto ritenuta la rottura delle barriere che abi-tualmente separano queste tre sfere di vita. Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stret-to contatto di un enorme gruppo di persone, tratta-te tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito. Per ultimo, le varie attività forzate sono organizzate secondo un unico piano razionale, appositamente designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione” (Goffman, 2001). Appare evidente, già dai capoversi sopra espressi, che il sistema penitenziario di per sé può produrre

    situazioni di disagio, indurre problematiche psico-logiche e psicopatologiche e rendere gli interventi di prevenzione più complessi, ad esempio quelli tesi a prevenire i rischi di suicidio in quanto spes-so i soggetti più esposti ad essi vivono in situazio-ni di isolamento relazionale che accrescono le loro difficoltà. La detenzione condiziona così in modo determinante il soggetto, sia sotto il profilo intra-psichico che comportamentale, nonché delle sue reazioni agli stimoli. Alcune manifestazioni del soggetto sono quindi condizionate più dal contesto che dalla personalità stessa, delineando una vera e propria psicopatologia da reclusione. Le limita-zioni alla vita affettiva, sessuale e relazionale, poi, risultano anch’esse evidenti e pertanto non mini-mizzabili. L’incontro dello psicologo con il “senso” dell’altro, utenza e/o committenza, nello specifico dei luoghi della pena, apre inevitabilmente altri importanti spunti di riflessione. Vi è, ad esempio, l’esposizione strutturale e non episodica al “dop-pio mandato”, ove il committente primario è l’Istituzione (l’Amministrazione penitenziaria e/o la Magistratura di Sorveglianza) e propone il con-flitto di interessi tra “Istituzione” e “cliente” (cfr. art. 32 C.D.P.I.). L’esprimere valutazioni che han-no conseguenze importanti per l’utente/detenuto e per la società; il lavorare con persone appartenenti a culture diverse, nonché con gruppi socialmente svantaggiati o che presentano marcate problemati-che; il confrontarsi sistematicamente con un’eterogeneità di reati che possono suscitare gra-di diversi di disapprovazione sociale, istituzionale e personale; le richieste del sistema penitenziario, che spesso interrogano i limiti della conoscenza psicologica per quanto riguarda le capacità predit-tive, rimandano ad una riflessione generale sull’interazione tra modello teorico di riferimento, metodologie adottate e criteri di predizione. Tutela del diritto e diritto alla tutela: il consen-so informato Non è sicuramente facile affrontare la questione del rispetto dei diritti umani quando si tratta di cit-tadini in stato di privazione della liberà. Ciò nono-stante ed in virtù di tale condizione dovrebbe esse-re loro garantito il rispetto dei diritti fondamentali, così come richiamato nella legge Costituente ita-liana. A salvaguardia degli stessi sarebbe così au-spicabile garantire un’adeguata assistenza psico-

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    logica in misura non inferiore a quella che viene garantita ad ogni cittadino del territorio sanitario confinato esterno e, comunque, congrua rispetto alle esigenze di reinserimento sociale del detenuto (cfr. art. 25 C.D.P.I.). Con la Convenzione per la Protezione dei Diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano, che all’Art. 5 recita “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto un’informazione adeguata sullo scopo e sulla na-tura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi”, è possibile ampliare i confini della nostra riflessione sulla natura etica dell’intervento psicologico clinico in ambito penitenziario. In questo modo, infatti, si vuole ricordare non solo la natura riservata delle informazioni che lo psicolo-go, in ragione del suo lavoro, viene ad acquisire, ma anche come queste informazioni vengano ac-quisite e protette. L’attuale panorama delle profes-sioni medico-sanitarie pone la necessità di recupe-rare una più marcata attenzione alla persona nella sua interezza. Molto spesso la persona bisognosa di aiuto si trova di fronte alla necessità di attuare scelte molto complesse e, per assumerle, risulta fondamentale la corretta informazione da parte del professionista, anche per gli obblighi deontologici connessi. Da qui la necessità di valorizzare il mo-mento comunicativo e informativo e gli aspetti re-lazionali dell’incontro clinico, con lo scopo di fa-vorire una piena umanizzazione di qualsiasi tipo di relazione terapeuta-paziente, ancor più se in regi-me di privazione della libertà. Il Codice Deonto-logico degli Psicologi Italiani, già in precedenza richiamato, negli artt. 24 e 25 pone in evidenza la necessità, da parte del professionista, di acquisire il consenso del cliente per poter effettuare qualsia-si tipo di intervento psicologico, poiché nessun trattamento può essere svolto senza necessario consenso informato del cliente e senza aver rice-vuto autorizzazione al trattamento dei dati perso-nali. Come sopra espresso, la condizione di priva-zione della libertà determina rilevanti problemati-che, che hanno effetti negativi sulla relazione con lo psicologo e sulla possibilità di acquisire il con-senso informato. Esiste, e va infatti riconosciuto, il diritto dell’utente/detenuto di rifiutare l’intervento del professionista penitenziario. Così, sulla scorta dell’esperienza acquisita, può tornare utile definire meglio la situazione e differenziare il consenso informato all’attività di assessment psicologico

    clinico da quella con finalità riabilitati-ve/trattamentali, ben delineando benefici e limiti relativi alla prestazione. Tale differenziazione, sot-tolineando una sorta di discontinuità tra le due at-tività, può permettere una “messa a punto” della relazione mirata a migliorare il clima e ridurre una fonte di possibile resistenza-opposizione del sog-getto (De Risio, 1999). Nell’offrire chiarimenti circa la prestazione è opportuno informare sulla possibilità di revoca e interruzione del rapporto professionale e sulle caratteristiche del segreto professionale. L’art. 24 C.D.P.I. stabilisce di for-nire direttamente le informazioni in maniera com-prensibile circa le prestazioni, le finalità e le mo-dalità delle stesse, in quanto regole che governano l’intervento. L’esperienza, tuttavia, dimostra che questo aspetto è solo parzialmente vero nel siste-ma penitenziario. Analogamente, non ci sono sempre confini assoluti per il segreto professionale per lo psicologo che opera nell’istituzione peni-tenziaria: il grado ed i limiti della riservatezza possono variare. Essi dovranno quindi essere sem-pre chiariti e a volte essere anche rinegoziati. Esiste una chiara limitazione della riservatezza in ambito penitenziario, spesso anche nei casi in cui le informazioni acquisite possono determinare, se non adeguatamente protette, un danno per il dete-nuto. Il professionista è ovviamente tenuto al se-greto professionale (cfr. art. 11 C.D.P.I.) ma è al-tresì tenuto a comunicare al cliente le limitazioni della segretezza (cfr. art. 24 C.D.P.I.). Pertanto occorre sempre aver chiari gli oggettivi limiti di tale riservatezza e segretezza, soprattutto in alcune situazioni specifiche (tendenza all’autolesionismo e/o al suicidio, rischi di etero violenza, rischi di evasione, notizie di reato, ecc.). Il ricordo di lontane esperienze, nel caso di inter-venti di gruppo, ci consente di rammentare (cfr. art. 14 C.D.P.I.) l’importanza del sollecitare e re-sponsabilizzare i componenti al rispetto del diritto di ciascuno alla riservatezza. Compatibilmente con le esigenze di sicurezza è ovviamente necessa-rio che anche a livello strutturale (spazi per collo-quio, ecc.) sia garantita la riservatezza al detenuto. Nel giungere alle conclusioni appare pertanto op-portuno richiamare, nella consapevolezza della precarietà degli spazi nel contesto penitenziario, la necessità di un setting adeguato, che riconosca il valore e la centralità del rapporto psicolo-go/paziente nella specificità dell’intervento clini-co, evitando di cadere in ben altre limitazioni. Agli spazi senza spazio destinati ai detenuti, con la

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    costante limitazione dell’orizzonte a causa della cinta muraria, si riflette “l’ambulatorio cella”: “(…) l’incontro con il paziente-detenuto soffre inoltre di tutta una serie di interferenze nel tempo e nello spazio della relazione ‘terapeutica’; le lente e cadenzate mandate, che segnano il passaggio dei detenuti dalle sezioni di appartenenza al luogo dell’incontro con il terapeuta, scandiscono il lungo tempo che passa tra la richiesta e l’invio a collo-quio. Esigenze di sorveglianza e di controllo poi, lasciano aperta l’ultima porta, quella dell’“ambulatorio cella” per consentire di guardare all’interno. Lo spazio dell’incontro terapeutico, di per sé appartato e tendenzialmente isolato dallo spazio sociale e culturale esterno, non può che es-sere relativo in carcere”. La “solitudine in presen-za di qualcuno” trova nel carcere, luogo di forzata convivenza, una sorta di necessità difensiva. Di fronte a questa e non ultima frustrazione appare inevitabile interrogarmi su che valore dare alla psicoterapia all’interno dell’istituzione carceraria, ove tutto ruota intorno a chi controlla e a chi è controllato (De Risio, 1998). Mi giunge in aiuto il lontano ricordo di quando l’impegno della forma-zione mi vedeva ora discente di quel “sapere”, ora apprendista di quel “saper fare” che sottendono l’arte della “relazione che aiuta”, arte come espe-rienza estetica (dal greco classico aistetikos = ca-pace di sentire; aistesis = sentimento). Il discorso terapeutico sembra così delinearsi come un discor-so di sentimenti che, tra vissuti di onnipotenza e di inferiorità, restituisce il senso del mio operare tra celle “reali” e celle “culturali” (De Risio, 1998). Riflessioni conclusive La complessità delle funzioni, la loro particolare incidenza sulla vita del soggetto, la molteplicità

    dei compiti richiedono una specifica formazione di base. Questa deve essere mantenuta a livelli adeguati (cfr. art. 5 C.D.P.I.) attraverso un continuo aggior-namento, in particolare per quanto riguarda i con-tenuti della propria operatività e la metodologia con la quale essi vengono trattati. Nella valutazione ed auto-valutazione del sapere e del saper fare dello psicologo penitenziario è ne-cessario tenere conto di tre aspetti fondamentali, che sono la capacità di definire le proprie compe-tenze, la capacità personali ed impegno nella for-mazione individuale e infine la consapevolezza etica. I particolari vissuti tipici del contesto rendono dif-ficile mantenere nel tempo livelli opportuni di ef-ficacia, in assenza di un’adeguata formazione pre-liminare sostenuta da un lavoro costante di con-fronto e/o supervisione. Al di là delle competenze teoriche e tecniche, lo psicologo penitenziario necessita di una formazio-ne nel campo clinico che possa favorire un’adeguata gestione della complessa relazione che si sviluppa con i clienti in stato di privazione della libertà. L’aggiornamento continuo, la definizione dell’organizzazione dell’intervento psicologico e le modalità di lavoro in équipe multiprofessionale possono di fatto favorire il superamento della con-dizione di isolamento e separazione in cui alle vol-te si può trovare (De Risio, 1999). È evidente che l’intervento psicologico in ambito penitenziario è un intervento fortemente speciali-stico e di particolare delicatezza. Pertanto è neces-sario formalizzare percorsi formativi adeguati per permettere agli psicologi di formarsi ed aggiornar-si in relazione alla propria operatività in ambito penitenziario sia come consulente (esperto “ex art. 80 O.P.”) sia come personale di ruolo al Ssn.

    Bibliografia Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, (1997), Codice Deontologico degli Psicologi italiani, Roma. European Federation of Professional Psychologists Associations, (1995), Meta-Code of Ethics, Athens. EFPA’s Task Force on Forensic Psychology, (2001), The European psychologist in forensic work and as ex-pert witness. Recommendations for an ethical practice, London. Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 1 aprile 2008, Le modalità, i criteri e le procedure per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, delle risorse finanziarie, dei rapporti di

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    lavoro, delle attrezzature, arredi e beni strumentali relativi alla sanità penitenziaria, G.U. n. 126 del 30 maggio 2008. Goffman E., (2001), Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Milano, Edizioni di Comunità. De Risio A., Gliatta G. (2010). Elementi di diritto e sanità penitenziaria. Roma: Il Nuovo Diritto Editore. De Risio A. (1999). La relazione che cura: linee di indirizzo sulla razionalizzazione dell’intervento psicote-rapeutico e psichiatrico in ambito penitenziario. Richiesta e offerta di psicoterapia. A cura di Pier Maria Fur-lan, pagg. 487 – 492. Torino: Centro Scientifico Editore. Convenzione di Oviedo resa esecutiva in Italia con la L. 28 Marzo 2011 n.145. De Risio A. (1997).”Valenze psicoterapeutiche in un gruppo di discussione-sensibilizzazione per tossicodi-pendenti nell’esperienza detentiva. In: I nuovi orizzonti della medicina penitenziaria, pagg. 82-84, (a cura di) Starnini G. Atti del Simposio Internazionale di Medicina Penitenziaria. Ed. Primaprint, Viterbo. De Risio A. (1998). Sentimento d’inferiorità e carcere: breve viaggio tra celle culturali e celle reali . Atti del 7° Congresso Nazionale SIPI (Soc. It. di Psicologia Individuale), pagg. 239-242. Torino. 1 Uos di Psicologia Penitenziaria DSM Asl Roma-H. 2 Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma 3 Uos di Psicologia Penitenziaria DSM Asl Roma-H.

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    L’Individual Assessment nella psicologia del lavoro. Una nuova pro-spettiva Individual Assessment in work psychology. A new perspective Roberta Mordanini1, Valeria Verrastro2 Abstract La comprensione della struttura dell’individuo serve a valutare e valorizzare il capitale umano, il patrimonio intangibile più delicato e al tempo stesso più determinante per la competitività delle imprese. Questo lavoro richiede alto livello di professionalità e adeguata esperienza. Le capaci-tà sono un elemento molto importante nella “chi-mica” del comportamento: esse, infatti, integran-dosi con le conoscenze teoriche ed esperienziali delle persone e con i propri valori e le proprie motivazioni, danno vita ai comportamenti. I com-portamenti, in ultima analisi, fanno la differenza e rendono “vincenti” le aziende. La metodologia dell’Individual Assessment valuta con efficacia le capacità richieste al management, capacità che possono essere sviluppate. Si tratta di una proce-dura formale che fa rifermento alla “psicologia comportamentista”, da dove derivano le interpre-tazioni e le analisi introspettive tipiche della psi-cologia clinica. Dunque, cosa serve ad un’azienda? Come le risorse individuali possono essere interpretate e utilizzate per coprire un de-terminato ruolo lavorativo? È importante cono-scere e comprendere i metodi e gli strumenti per valutare le chiavi d’accesso. Quindi, prima dell’assunzione è opportuno essere a conoscenza del livello del potenziale individuale. Parole chiave Management – Potenziale individuale – Individual Assessment – Richiesta aziendale – Coaching – Risorse umane – Consulenza organizzativa.

    Abstract The comprehension of individual structure is use-ful to analyse and to apprise the human resources: the most important and, at the same time, more decisive intangible value towards the rivalry of companies; this is a work which requires a high level of competence and a pertaining experience in the field. Abilities are important elements in the “behavioural chemistry”: integrating themselves with the theoretical and practical knowledge of people, including personal motivation and values, create the behaviours indeed. Behaviours, in the end, make the difference and bring companies to be successful. The methodology of Individual As-sessment evaluates efficaciously the abilities re-quired for management so that these abilities can be developed. It is a formal action referring to “behaviorist psychology” in which we can find the interpretations and the introspective analysis typi-cal of the clinical psychology. Therefore, what does a company need? How individual resources could be understood and utilized to fulfill a cer-tain role in the work? It is important to know and to understand the methods and the instruments able to evaluate the correct initial requirements, therefore it results advantageous to know before the hiring the level of the potential individual. Keywords Management – Individual potential – Individual Assessment – Business Request – Coaching – Hu-man resources – Management consulting.

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    Definizione e antecedenti L’Individual Assessment (IA) è uno strumento che garantisce una grande affidabilità di valutazione delle competenze della persona. Si realizza attra-verso workshop individuali finalizzati ad indivi-duare nuove strategie per garantire lo sviluppo del potenziale dei lavoratori, a supporto di decisioni di carriera/ampliamento di responsabilità oppure per il livello di copertura delle competenze di ruolo. Può essere utilizzato nell’ambito di processi di se-lezione con lo scopo di individuare risorse pregia-te per particolari ruoli organizzativi. Prima dell’Individual Assessment bisogna far rife-rimento all’Assessment Center (AC), ovvero una tipologia di indagine in grado di fornire informa-zioni analitiche circa le capacità, le competenze, le attitudini, le motivazioni e il potenziale di svilup-po della singola persona (Andersen, 1995). Gli ambiti di applicazione dell’AC sono molteplici: la selezione di personale in ingresso, la mappatura del patrimonio umano aziendale, la valutazione del potenziale, la verifica del possesso di capacità fondamentali in alcune risorse-chiave con attuale o futura responsabilità manageriale e l’identificazione di bisogni specifici di formazione gestionale o relazionale (D’Antonio, 1989). L’AC prevede l’applicazione integrata di un insieme di strumenti di rilevazione come il Test di Basket. Questo test rappresenta una delle prove più signi-ficative di simulate centrate su abilità manageriali. L’esercizio, che deriva il suo nome dal fatto che il candidato trova nel basket (cestino) della posta dei problemi da affrontare, punta a ricercare compe-tenze specifiche nello svolgimento di determinate attività; le decisioni che il candidato assume di volta in volta nell’affrontare le problematiche che gli vengono sottoposte devono essere specificate attraverso il successivo questionario, nel quale è invitato a illustrare le motivazione delle sue scelte. La prova di “in Basket” deve essere eseguita in due ore. Le risposte sul questionario sono elabora-te tramite un programma informatico che andrà a combinarsi con quelli di tutti gli altri test e del questionario informativo a matrice selettiva. Altro strumento è rappresentato dal Questionario motivazionale, un questionario self-report svilup-pato per la misura dei motivi che orientano il comportamento al lavoro. Le domande possono essere a risposta chiusa (già configurata) o aperta, mentre lo strumento può essere a somministrazio-ne individuale o collettiva. Gli indicatori consen-

    tono di misurare diversi aspetti del soggetto quali gli atteggiamenti, le attitudini, i tratti, i valori e le motivazioni. Il fine ultimo dello strumento è arri-vare alla misura di quattro orientamenti: l’orientamento all’obiettivo, l’orientamento all’innovazione, l’orientamento alla leadership e l’orientamento alla relazione. Altro strumento utilizzato è quello delle Dinami-che di Gruppo, che prevede discussioni a ruoli li-beri o assegnati, funzionali alla rilevazione di ca-pacità relazionali. In questo contesto l’esaminato dovrà essere in grado di gestire una riunione (si-mulata), orientandola al rispetto reciproco dei candidati e al rispetto delle specifiche regole si-tuazionali proprie di ogni tecnica di gruppo, ricor-dando le finalità della prova. Questi esercizi si propongono quali “catalizzatori” per l’emergere di caratteristiche personali, stimo-lando e rendendo immediatamente osservabili al-cuni comportamenti, atteggiamenti e qualità per-sonali del singolo individuo (D’Antonio, C., 1989). L’artificiosità della situazione, tuttavia, può in parte condizionare reazioni e prestazioni. Per ridurre questo rischio di distorsione la corretta ap-plicazione del metodo prevede che vi sia l’integrazione delle osservazioni effettuate dai di-versi Assessor, una verifica di congruenza tra gli esiti delle diverse prove, l’interpretazione degli elementi di interesse a valle del confronto diretto con ogni persona (colloquio individuale che per-mette di valutare il grado e la qualità di motiva-zione al ruolo, verificare ed approfondire le di-mensioni psicoattitudinali emerse durante le prove precedenti) (Canziani, 1958). Con questo metodo si gestisce in autonomia o as-sieme all’azienda tutto il processo che va dalla progettazione dell’Assessment alla restituzione dei risultati. Nel dettaglio, fanno parte dell’intervento diverse fasi, che sono la definizione degli obiettivi di rilevazione (selezione, valutazione del potenzia-le, counseling, formazione), la descrizione del job e dei profili professionali (ove necessario), l’identificazione delle dimensioni di valutazione e la loro ponderazione, la scelta ed eventuale realiz-zazione ad hoc delle prove, la formazione degli Assessor, la gestione del setting di valutazione e il feedback ai partecipanti. L’Individual Assessment è una classica prova di Assessment Center ad esecuzione individuale, in cui l’esaminato gioca il ruolo di un manager che ha assunto una nuova posizione. Nel tempo asse-gnato deve prendere decisioni in merito a proble-

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    mi contingenti proposti sotto forma di posta in ar-rivo, memo, messaggi telefonici, fax; inoltre deve organizzare il lavoro, rispondere alla corrispon-denza, stabilire piani d’azione, coinvolgere i col-laboratori (Colombo, 2006). Dall’Assessment Center all’Individual Assess-ment L’Individual Assessment è una procedura valutati-va che prevede l’osservazione di un candidato alle prese con sole prove individuali; l’Assessement Center, invece, è una procedura valutativa che prevede l’osservazione del candidato sia alle prese con prove individuali che con prove di gruppo (Augugliaro, 1993). L’Individual Assessment, quindi, consente di impiegare la metodologia dell’AC senza però dover ricorrere a esercitazioni di gruppo; per tale motivo risulta un metodo meno dispendioso e di possibile applicazione in contesti dove la popolazione non è sufficientemente nume-rosa, dove il livello di responsabilità dei parteci-panti non è elevato ed è sconsigliabile la struttura gruppale, dove la richiesta aziendale preferisce at-tivare rapporti individuali meno appariscenti (Thornton e Byham, 1982). L’IA entra in gioco nel momento in cui non sono presenti requisiti di omogeneità nella composizione del gruppo dei partecipanti. È uno strumento vantaggioso in quanto è un processo valutativo che può essere suddiviso in fasi temporalmente separate e inoltre, rispetto all’AC, consente l’ottimizzazione del team di osservatori in relazione al numero dei par-tecipanti, coinvolgendo un solo osservatore per volta. Gli osservatori si strutturano in due tipolo-gie in grado di garantire l’efficacia del processo di IA: gli osservatori diretti, che interagiscono con i partecipanti e sono esperti di strumenti di simula-zione individuale e gestione di colloqui mirati al target interview (ossia la scelta delle unità cam-pione, la determinazione della numerosità del campione e la definizione della procedura di cam-pionamento) e gli osservatori di supporto, che in-vece non interagiscono con i partecipanti ma sono garanti della metodologia fornita ad essi (Thorn-ton e Byham, 1982). L’IA agisce ad “imbuto” e rappresenta la fase fondamentale, anche se preli-minare, di un processo di approfondimento per l’apprezzamento delle qualità professionali delle persone con elevata esperienza aziendale.

    Dopo un intervento di IA è possibile raggiungere importanti obiettivi, come il miglioramento della posizione attuale ricoperta nell’ambito lavorativo tramite la formazione e il coaching. Questa disci-plina dello sviluppo personale è nata in America molti anni fa ed è successivamente giunta in Eu-ropa (prima in Inghilterra e poi nel resto del conti-nente). Il coaching è un processo che utilizza tutti gli strumenti possibili per aiutare le persone a co-struirsi un futuro migliore e arrivare alle risorse necessarie per farlo tramite il valido supporto di un esperto (Barbarelli, 2004). Diverse sono le ti-pologie di coaching: quello aziendale, il life coa-ching, il coaching sportivo. La caratteristica co-mune tra le diverse tipologie è la tensione verso lo sviluppo personale. Infatti la crescita personale è proprio la base essenziale della definizione di coa-ching. Attraverso il coaching è possibile la verifi-ca di copertura ed eventuale indirizzo rispetto a una posizione o diverse posizioni di maggiore complessità e aumento di carriera, la verifica di copertura rispetto ad altre posizioni di medesima complessità a rotazione, la valorizzazione e la cre-scita personale. L’IA, invece, è efficace per i processi di selezione esterna e si avvale di strumenti valutativi diversi. Ne fanno parte il targeted interview, le esercita-zioni individuali e la simulazione di attività, l’in basket corredato da un questionario strutturato, gli assessment questionnaires, i Test di personalità, le check list autovalutative. L’operazione culminante del processo di IA è all’interno del processo di feedback, ovvero un ritorno dell’investimento per la risorsa umana coinvolta, per la quale viene con-cordato un piano di miglioramento. Il colloquio di feedback deve essere organizzato e programmato per consentire l’efficacia di esecuzione. Nel corso di tale colloquio viene data importanza alla consa-pevolezza e al miglioramento dell’individuo. Si tratta, quindi, della valutazione del potenziale e richiede lo sviluppo di un programma di esercizi e strumenti di analisi della persona ampio, l’utilizzo su un gruppo definito di candidati in una sequenza precisa e con la presenza di più valutatori, tipica-mente in una condizione temporale definita e in un luogo separato dal contesto lavorativo (per evitare condizionamenti esterni al processo). Gli strumen-ti rientrano in tre ampie categorie, vale a dire le simulazioni, le interviste, i test (Tabacchi, 1999). I principali sono l’in-basket (o in-tray), le interviste criteria-based (vale a dire controllo a partire da una lista di criteri comportamentali da analizzare

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    attraverso la descrizione da parte dei candidati di comportamenti messi in atto), le discussioni di gruppo (che possono essere diverse per natura, prevedendo un compito di gruppo o una simula-zione a ruoli fissi – modalità comportamentali e obiettivi definiti – o liberi – senza alcuna indica-zione vincolante), esercizi di raccolta di informa-zioni (nei quali al partecipante viene chiesto di esplorare un problema a partire da un’intervista con una persona che alla fine metterà in discussio-ne la decisione del valutato), gli esercizi di analisi (che richiedono lo sviluppo di un documento scrit-to, delle simulazioni con attori che interagiscono con il partecipante per fare emergere le modalità comportamentali latenti), i test di personalità (Thornton e Byham, 1982). La delicatezza dei processi di assessment deriva dal livello di coinvolgimento delle persone valuta-te e dalle conseguenze che ne derivano. Ciò spiega perché questa tecnica di analisi sia particolarmente critica e richieda un’attenta considerazione dei possibili errori. Tra essi si segnalano spesso pro-blemi legati alla non completa integrazione della valutazione con le altre leve di gestione, la non accurata definizione dei criteri di analisi dei com-portamenti e la non adeguata progettazione degli strumenti. Se ben condotta, la valutazione del po-tenziale presenta alcuni vantaggi interessanti, tra i quali è bene considerare la maggiore qualità dei processi di valutazione delle persone, la qualifica degli investimenti di formazione, la migliore allo-cazione delle persone. A fronte di questi vantaggi non possono essere sottaciuti i possibili limiti e rischi che derivano oltre che dall’errata progetta-zione ed esecuzione, ad esempio dalla scarsa legit-timazione ed accettazione da parte del manage-ment, dal timore dell’ignoto e del non misurabile, dai costi di realizzazione e dalle reazioni negative al feedback (D’Antonio, 2006). Perché oggi l’Individual Assessment? Fino ad oggi, in termini di gestione e patrimonio aziendale, l’attenzione delle imprese è stata rivolta a fattori diversi dal capitale umano, privilegiando in particolare impianti, processi produttivi, clienti e finanza. Le risorse umane, benché formalmente dichiarate cardini della vitalità di un’impresa (fondata, come spesso si ripete, su capitale e lavo-ro) sono di norma relegate in secondo piano (Coc-co, 2010). Questo perché al fattore umano è stato

    sempre applicato il principio della interscambiabi-lità, ovvero della possibilità di sostituire una risor-sa umana con un’altra ugualmente in grado di svolgere l’attività richiesta. La risorsa umana, in-vece, in quanto componente parcellizzata dalla produzione di valore aggiunto, è considerata sosti-tuibile qualunque sia il suo livello di bravura e di specializzazione (è tipica l’affermazione “in azienda nessuno è insostituibile”). L’economia d’impresa, dunque, considera solo in rarissimi casi le risorse umane come un vero e proprio capitale. In questo panorama ci sono segnali forti che ren-dono critica la prospettiva, il reperimento, l’impiego e il reimpiego delle risorse umane nelle imprese. Ma per scegliere dall’esterno e soprattut-to dall’interno persone compatibili con la finalità organizzative le imprese hanno bisogno di impie-gare criteri e strumenti di più elevato indice di af-fidabilità. È importante tener presente che qualsia-si ruolo organizzativo, a prescindere dalla natura dipendente o autonoma del rapporto contrattuale, può essere esaminato da due fondamentali punti di vista: dalle finalità che si devono proseguire (e le conseguenti modalità d’azione che si devono at-tuare) e dai requisiti necessari per ricoprirlo. In relazione ai requisiti, i quali costituiscono l’aspetto tipicamente patrimoniale della professio-nalità, si disegna normalmente un “profilo orga-nizzativo” che va ripartito in conoscenza e capaci-tà, che rappresentano i mattoni fondamentali con i quali costruire ogni tipo di profilo organizzativo. Esse consentono di verificare in modo non generi-co ma puntuale il livello di possesso che una sin-gola persona ha di esse. Nella pratica si può me-glio dire che il livello di copertura di un determi-nato “profilo organizzativo” da parte di un indivi-duo, se non ha solo le conoscenze e le esperienze adeguate (ad es. conosce e sa applicare le tecniche del budget) riesce anche a mettere in atto i com-portamenti tipici necessari (ad es. possiede buone capacità comunicative, di negoziazione, di risolu-zione di problemi, ecc.). La valutazione organizzativa sintetizza tutto il processo nelle classiche “3P”, che stanno ad indi-care posizione, prestazione e potenziale. In questo senso, quindi, l’Assessment è lo strumento atto a verificare la consistenza patrimoniale di risorse acquisite o da acquisire con riferimento alle capa-cità necessarie per svolgere i ruoli più diversi. Per poter impiegare l’Assessment è indispensabile riu-scire ad analizzare efficacemente i ruoli organiz-zativi ai quali si deve fare riferimento. Per questo

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    vengono date delle linee generali a cui fare riferi-mento, quali gli aspetti ambientali (il settore d’impresa e le sue caratteristiche fondamentali, la natura d’impresa e le sue scelte strategiche ed i conseguenti obiettivi di business, il contesto inter-no, la necessaria “competenza distintiva”), gli aspetti organizzativi (la finalità o missione di cia-scun ruolo preso in considerazione, le responsabi-lità e i compiti, il sistema e le forme di valutazione fornite per le prestazioni, il sistema premiante in atto, i prevedibili cambiamenti futuri e le cono-scenze e le capacità necessarie) (Gallo, 2010). Esiste una vera e propria “mappa” generale delle capacità, con riferimento al modello di Hermann (2009) che consente di effettuare correlazioni che hanno valore più in termini strumentali che assolu-ti. Le facoltà “intellettuali” presenti nel corticale sinistro sono suddivisibili in due gradi: quello ba-silare (come la memorizzazione) e quello com-plesso (come l’analisi). Le “facoltà gestionali basi-lari” (come il controllo operativo) sono presenti nel limbico sinistro insieme alle facoltà “emozio-nali basilari” (come la fiducia in se stessi). Le fa-coltà “relazionali” sono suddivisibili anch’esse in due gradi: quello basilare (come la disponibilità ai rapporti interpersonali) e quello complesso (come il parlare in pubblico). Queste facoltà sono presen-ti nel limbico destro, insieme alle facoltà ”emo-zionali complesse” (come la gestione dello stress). Le facoltà “gestionali complesse” (come l’orientamento ai risultati) sono presenti nel corti-cale destro insieme alle facoltà innovative basilari (come l’adattabilità e la flessibilità) e complesse (come il pensiero prospettico). Tanti sono gli approcci che cercano di evidenziare cosa sono e come nascono le capacità. Interessan-te, a questo proposito, è il modello di Mc Clelland, Boyatzis e Mc Ber (1970) dove viene esplicitato che le capacità sono la risultante di un processo che, partendo da un atto di volontà, consente di evidenziare un’azione e, conseguentemente, un risultato. Questo modello trova corrispondenza con l’approccio dell’IA perché vede il momento centrale dell’azione caratterizzato da un compor-tamento osservabile, che origina una prestazione più o meno efficace. La differenza tra i modelli consiste nel prendere in considerazione le caratte-ristiche personali che determinano l’atto di volon-tà, che origina a sua volta il comportamento. Si tratta di caratteristiche personali che non sono os-servabili.

    Il ruolo dello psicologo del lavoro nell’Individual Assessment A partire dalle riforme legislative del 1997 sino alla più recente riforma Biagi, sono state regola-mentate le attività di ricerca e selezione del perso-nale. Tali riforme hanno l’intento di superare lo storico monopolio del pubblico collocamento e favorire l’ingresso di nuovi soggetti nelle attività di incontro fra domanda ed offerta di lavoro. Le tecniche diagnostiche e prognostiche sul compor-tamento, sui tratti di personalità, sulle capacità e le potenzialità degli individui in ambito lavorativo o in funzione di particolari performance da conse-guire è, anche in Italia, storia perlomeno quaran-tennale. I test per l’idoneità alla leva militare, le scale di intelligenza, i reattivi di destrezza collega-ti ad attività di precisione sono entrati gradual-mente nella nostra cultura, fino all’odierno e dif-fuso utilizzo di gruppi di prove finalizzati alla se-lezione del personale e basati sulla rilevazione di attitudini, capacità, comportamenti, atteggiamenti, competenze, etc. In realtà questi termini, utilizzati a volte come sinonimi, a volte abusati dal linguag-gio comune senza troppa preoccupazione, rappre-sentano invece precisi e differenziati ambiti di os-servazione e necessitano di sofisticati strumenti di rilevazione. Tradizionalmente e per molto tempo molte di queste attività diagnostiche sono state svolte da figure professionali diverse dallo psico-logo. Lo psicologo del lavoro in Italia ha gradual-mente trovato piena maturazione, sia a livello pro-fessionale che istituzionale, soprattutto in questi ultimi trenta anni; la complessità dei contesti e delle competenze di questa disciplina la rendono applicabile ed applicata a diversi ambiti professio-nali, molto spesso in collaborazione con altre figu-re complementari allo psicologo stesso. Nell’ambito della consulenza organizzativa, ad esempio, è fondamentale avere la possibilità di in-terfacciarsi con competenze specifiche, diverse da quella psicologica, perché per poter leggere un’organizzazione in modo efficace è necessario utilizzare differenti “telecamere”, che integrino l’analisi dei vissuti, dei comportamenti e delle emozioni con quella degli elementi strutturali, del-le variabili processuali, degli aspetti finanziari, al-trettanto importanti per avere un quadro chiaro del contesto nel quale si sta operando (Florida, 2003). Ed è proprio per questa naturale necessità di inte-grare il lavoro dello psicologo con altre competen-

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    ze e figure professionali che la pratica della psico-logia del lavoro risente ancora oggi di alcune “confusioni di ruolo”, soprattutto nei contesti or-ganizzativi. In particolare tale “confusione” di-pende da tre ordini di fattori: l’ancora incompleto riconoscimento della professione da parte della comunità sociale che lega la rappresentazione del-la “psicologia” più agli interventi sul disagio, sulla devianza, sulla clinica e ai percorsi psicoterapeuti-ci che al mondo del lavoro (risultato, questo di un processo di identificazione e di una capacità di au-topromozione da parte degli psicologi del lavoro ancora da ottimizzare); l’eredità storico-culturale del nostro Paese, che fino a pochi anni fa delegava istituzionalmente e praticamente le attività appan-naggio dello psicologo del lavoro ad altre figure professionali istituzionalmente più antiche e dotate di una identità culturale ben più radicata: medici, laureati in giurisprudenza, in scienze politiche, in scienze umane, filosofi, ingegneri, e tutti coloro che si occupavano delle cosiddette “scienze uma-ne” (Cocco, 2005). Il resto d’Europa, gli Stati Uniti e molti altri Paesi hanno già prodotto letteratura e regole di riferi-mento atte a governare i contesti applicativi della diagnosi comportamentale, anche in relazione alle figure professionali che si occupano di attività li-mitrofe o addirittura sovrapposte a quelle psicolo-giche e, peraltro, anche in assenza di Ordini pro-fessionali così strutturati come quelli presenti nel nostro Paese. Per porre rimedio a quanto detto finora occorre innanzitutto comprendere che la missione ontolo-gica ed esclusiva della figura dello psicologico del lavoro risiede in due nuclei professionali forti ed applicabili a diverse tipologie di attività come la diagnosi dei tratti di personalità, delle dimensioni attitudinali e di quelle cognitivo-comportamentali dell’individuo necessarie a svolgere determinate attività o finalizzate allo sviluppo della persona. Inoltre bisogna fornire il sostegno diretto alla co-struzione dell’autoconsapevolezza e della capacità di lettura delle proprie caratteristiche (inclinazioni, attitudini, tratti, motivazioni), delle proprie capaci-tà e delle proprie competenze (Frati, 2002). Tali nuclei, a loro volta, sfociano in tecniche profes-sionali precise che variano in funzione di obiettivi di analisi, di sostegno, di gestione e/o di sviluppo delle persone e utilizzano strumenti, metodologie e tecnologie che ne sostanziano e ne determinano l’efficacia. È proprio quando questi nuclei, queste

    tecniche e questi strumenti vengono utilizzati che l’attività diventa ad esclusivo appannaggio della professione di psicologo del lavoro iscritto all’ordine. Confrontando sistematicamente l’analisi delle definizioni contenute nelle normati-ve con le attività sul campo si riesce a circoscrive-re il nucleo ontologico del problema. L’esclusività dell’attività psicologica non risiede nel concetto di diagnosi, ma nell’oggetto della stessa; non nel fat-to che si generi un profilo di valutazione, ma nella tipologia di profilo che si genera e nelle conse-guenze di questo profilo per il percorso personale e professionale della persona stessa; non negli strumenti di osservazione o di lettura dei contesti, ma nell’utilizzo di tali strumenti per le finalità diagnostiche appena descritte (Sarchielli, 2002). Riassumendo, tutte le volte che l’attività diagno-stica ha per oggetto le dimensioni di personalità, le dimensioni attitudinali, le dimensioni cognitive e comportamentali dell’individuo questa deve essere svolta dallo psicologo; tutte le volte che un profilo professionale e/o valutativo prevede la descrizione di dimensioni di personalità, cognitivo-comportamentali e psicoattitudinali questo deve essere redatto e firmato da uno psicologo; tutte le volta che si utilizza uno strumento conoscitivo, osservazione, colloquio, prova di gruppo, testo reattivo in genere finalizzato alle diagnosi sopra-descritte, questo deve essere erogato e letto da uno psicologo (Bergonzi, 2002).

    Bibliografia

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    Augugliaro, P. Majer, V. (2001). Assessment Center e Sviluppo Manageriale. Milano: Franco Angeli. Borgogni, L. Pettita, L. Barbaranelli, C. (2004). Test di Orientamento Motivazionale. Manuale. Firenze: Or-ganizzazioni Speciali. Castiello D’Antonio, A. (2006). La selezione delle risorse umane: metodi di gruppo, test e questionari. Mi-lano: Franco Angeli. Cocco, G. C. Gallo A. (2002). L’assessment in Azione, Esperienze Aziendali di valutazione delle Risorse Umane. Milan: Franco Angelo. Cocco, G. C. Gallo, A. (1999). FARE ASSESSMENT. Dalla tradizione all’innovazione. Milano: Franco An-geli. Gandolfi, G. (2003). Il processo di selezione. Milano: Franco Angeli. Petitta, L. Borgogni, L. Mastrorilli, A. (2005). Il test di orientamento motivazionale-versione generale (T.O.M.-V.G.) come strumento per la misurazione delle inclinazioni motivazionali. Giornale Italiano di Psi-cologia, XXXII, 653-653. Sitografia http://www.ordinepsicologilazio.it/binary/ordine_psicologi/h_notiziario_psicologi/7_dossier.1262614947.pdf. 1 Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma. 2 Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale.

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    Mobbing e violenze psicologiche sul luogo di lavoro Mobbing and psychological violences in workplace Roberta Mordanini1, Valeria Verrastro2 Abstract

    È indubbio che la parola “mobbing” ormai smuova l’opinione pubblica, i lavoratori dipen-denti, i sindacati, i politici (dato il numero delle leggi presentate), gli avvocati e i giudici, apren-do un dibattito permanente sul mondo del lavoro riguardo il clima relazionale nelle aziende e nelle istituzioni pubbliche e private. D’altro canto la violenza sul lavoro c’è sempre stata, motivo per cui da sempre il lavoro, quello manuale e pesan-te, è stato sinonimo di travaglio, fatica, schiac-ciamento e oppressione. La società contempora-nea è piena di atti violenti, che vanno dalla bana-le mancanza di rispetto di chi vuole scavalcare nella fila in ufficio pubblico a chi vuole farci pa-gare più del dovuto un oggetto, a chi ci deruba in casa. Molte sono le violenze anche nel luogo di lavoro, dove nessuno guarda in faccia a nessuno per accaparrarsi un posticino dirigenziale più alto e dove il singolo individuo, che troppo spes-so viene squalificato, non viene tutelato. Queste dinamiche vanno a compromettere l’integrità dell’individuo come persona e successivamente andranno a ledere anche la sfera relazionale, familiare, professionale. L’integrità psicofisica dell’individuo è messa in crisi e se non si riuscirà a reagire a tale affronto vi saranno conseguenze patologiche da non sottovalutare.

    Parole chiave Rischio relazionale - Mobbing - Linee guida - Soggetti a rischio - Identità ed autostima - Distur-bo dell’adattamento e disturbo post traumatico da stress - Perdita delle relazioni sociali - Problem solving - Trattamento.

    Abstract Doubtless the word bullying now moves public opinion, employees, trade unions, political (given the number of bills submitted), lawyers, judges, opening an ongoing discussion on the world of work, about the relational climate in companies, public and private institutions. On the other hand violence on work has always been, since that al-ways work, the manual and heavy work has been the synonymous of words as difficulty, crush and oppression. Contemporary society is full of vio-lence, ranging from the banal lack of respect for those who want to climb the ranks in public of-fice, who wants us to overpay an object, who robs at home. Many are also violence on workplace, where nobody looks at anybody to grab a spot higher management and where the individual is disqualified and too often not protected. These dynamics compromise the integrity of the first as a person firstly then affect the relational, family and, of course, professional sphere. The physical or mental integrity of the subject is thrown into crisis, and if there will be no possibilities to cope with this affront to his person, there will be pathological consequences which should not be underestimated.

    Keywords Relational risk - Mobbing - Guidelines - Subject at risk - Identity and self respect - Adapting disorder and Post Traumatic Stress Disorder - Loss of so-cial relation - Problem solving - Psychological assistance - Treatment.

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    Introduzione Accanto ai rischi tradizionali (chimici, fisici e bio-logici) per la salute del lavoratore i rischi psicoso-ciali ed organizzativi stanno diventando una delle principali cause di alterazione della salute sul posto di lavoro. Fra questi va sicuramente segnalato il “rischio relazionale” o “interpersonale”. Negli ul-timi anni il mobbing è in incremento per motiva-zioni di carattere macroeconomico (es. globalizza-zione) e per il cambiamento delle tipologie di lavo-ro e dei correlati rischi lavorativi. Fra gli elevati costi individuali, aziendali e sociali, di particolare rilevanza sono le conseguenze sulla salute, riscon-trate dopo un periodo variabile di esposizione alla condizione mobbizzante. Queste conseguenze pos-sono manifestarsi inizialmente a carico della sfera neuropsichica e, successivamente, con importanti ricadute psicosomatiche e fisiche, che comportano non solo una riduzione della capacità lavorativa fino a stati invalidanti ma possono definire altresì un quadro di rilevante danno biologico, con risvolti di tipo esistenziale, sociale e relazionale. È pertan-to opportuno un accordo tra gli organi competenti che, oltre al riconoscimento della rilevanza del fe-nomeno, sviluppino linee guida per la gestione complessiva del fenomeno mobbing, comprenden-te gli aspetti informativi, formativi, divulgativi, clinico-diagnostici, terapeutici, riabilitativi, medi-co-legali, legali e preventivi. Descrizione

    Per mobbing si intende l’aggressività espressa all’interno di una struttura lavorativa. Secondo una definizione accreditata si tratta di “attacchi che provengono da colleghi, superiori (a volte), sotto-posti” (Ege, 2001). Il termine deriva dal verbo in-glese to mob, che si riferisce all’attaccare, all’assalire da parte di una folla (Mottola, 2003). Già Lorenz nel 1966 utilizzò questo termine per descrivere gli attacchi di animali verso altri della stessa specie. Heinemann, nel 1972, utilizzò il ter-mine per indicare comportamenti aggressivi tra i bambini a scuola in seguito a ciò fu definito il fe-nomeno del bullismo. Nel 1996 Leymann trasferì questo fenomeno nel mondo delle relazioni degli adulti in ambito lavorativo. Sempre Ege riconobbe sette criteri, la cui presenza contemporanea in una data situazione delimita il mobbing. Questi criteri

    sono: l’ambiente lavorativo, la frequenza di alme-no una volta alla settimana, la durata di almeno sei mesi, il tipo di azioni, il dislivello tra antagonisti, l’andamento per fasi fino a quella di rendere la vit-tima totalmente indifesa e l’intento persecutorio consapevole da parte dell’aggressore per raggiun-gere la finalità di eliminare la vittima dall’organizzazione. Generalmente si parla di mobbing quando la vittima ha subito oggettiva-mente o ha vissuto soggettivamente un evento stressante, che lo ha condotto a disturbi psicopato-logici. Il mobbing è quindi una forma di molestia o violenza psicologica esercitata quasi sempre con intenzionalità lesiva, ripetuta in modo perpetuante, con modalità polimorfe; l’azione persecutoria è in-trapresa per un periodo determinato, arbitrariamen-te stabilito in almeno sei mesi sulla base dei primi rilievi svedesi, ma con ampia variabilità dipenden-te dalle modalità di attuazione e dai tratti della per-sonalità dei soggetti, con la finalità o la conse-guenza dell’estromissione del soggetto da quel po-sto di lavoro. È opportuno parlare di “soglia indi-viduale di resistenza alla violenza psicologica” ca-pace di indurre una condizione di mobbing che è possibile esprimere come funzione di: intensità della violenza, tempo di esposizione, e tratti della personalità (Ege, 2001). La violenza morale viene esercitata mediante at-tacchi contro il lavoratore, il lavoro svolto, la fun-zione lavorativa ricoperta e, infine, lo status del la-voratore, da parte di un singolo soggetto protagoni-sta (mobber), generalmente un superiore. In alcuni casi viene “investito” da dinamiche di gruppo complesse, intrecciate e gestite da un numero so-stanzioso di colleghi che concorre, più o meno consapevolmente, alla violenza psicologica, parte-cipa con atteggiamento di attiva partecipazione, come testimone passivo, come incapace di contra-stare tale attività per presunte convenienze secon-darie. L’individualità del lavoratore viene ripetu-tamente umiliata, offesa, isolata e ridicolizzata an-che nella sfera della propria vita privata (Leymann, 1996). Il suo lavoro viene deprezzato, continua-mente criticato o addirittura sabotato, svuotato di contenuti; il soggetto viene privato degli strumenti necessari a svolgere l’attività (sindrome della scri-vania vuota) o al contrario viene sovraccaricato di lavoro e di compiti impossibili da portare mate-rialmente a termine o inutili, ma tali da provocare o acuire sentimenti di frustrazione e di impotenza (sindrome della scrivania piena). Il suo ruolo viene

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    declassato, le sue capacità personali e professionali messe in discussione, o comunque fortemente in dubbio. Infine, vengono esercitate nei suoi con-fronti continue azioni sanzionatorie, spesso prete-stuose, mediante un uso eccessivo di strumenti quali visite fiscali o di idoneità, contestazioni di-sciplinari, trasferimenti in sedi lontane (sotto forma di minaccia o anche materialmente effettuati), ri-fiuto di permessi, di ferie e/o di trasferimenti (Mot-tola, 2003). L’interrogativo che ci si pone in questo contributo è quello di riuscire a spiegare se nelle difficoltà e nei disadattamenti da lavoro risulta possibile che il mobbing sia un fenomeno nuovo e in crescita che richiede attenzione e riflessione specifiche e, anco-ra, se esiste davvero o è un’invenzione. Rappresen-ta un fenomeno unico o è scomponibile in situa-zioni diverse non unificabili ad una generalizza-zione? Dal 1998 Buzzi lo ha inserito tra gli argo-menti riguardanti la salute mentale sul lavoro. Per fronteggiarlo è stato sottolineato da un lato di ri-durre gli eventuali effetti di stress presenti, dall’altro di potenziare le risorse di coping dei la-voratori. Lo stress lavorativo si integra in vari mo-di con le patologie psichiche, talvolta comportan-dosi come la “solita goccia con un vaso colmo”. Ciò porta ad applicare in parte una nozione di stress semplicistica, perché ne è valorizzata la per-sonalità premorbosa con la sua abnorme fragilità e vulnerabilità. Dunque il mobbing non può essere preso come causa di disagio ma come possibile fat-tore di rischio, pari a numerose situazioni ambien-tali stressanti. È possibile distinguere differenti tipi di mobbing: - il mobbing strategico, che corrisponde ad un

    preciso disegno di esclusione di un lavoratore da parte della stessa azienda e/o del manage-ment aziendale che, con tale azione premedita-ta e programmata, intende realizzare un ridi-mensionamento delle attività di un determinato lavorato o il suo allontanamento dal lavoro (Petrella, 2000);

    - il mobbing emozionale o relazionale, che deri-va da un’alterazione delle relazioni interperso-nali (esaltazione ed esasperazione dei comuni sentimenti di ciascun individuo di rivalità, ge-losia, antipatia, diffidenza, paura, ecc.) e può svilupparsi sia a livello gerarchico che tra col-leghi;

    - il mobbing senza intenzionalità dichiarata, che si verifica nel caso in cui non vi sia da parte del ma-

    nagement aziendale una precisa volontà strategica di eliminare o condizionare negativamente un de-terminato lavoratore con azioni di violenza psico-logica. All’interno della complessa organizzazione del lavoro di un’azienda esiste piuttosto una nic-chia di conflitto, che esorbita dalla dimensione normale del conflitto interpersonale sul luogo di lavoro. Questa azione di molestia morale viene esercitata da parte di un pari grado (per eliminare eventuali ostacoli alle proprie ambizioni carrieri-stiche), o da parte di un superiore, al fine di tutela-re la propria posizione gerarchica, giudicata in pe-ricolo (Mottola, 2003).

    Il soggetto-bersaglio

    Ogni lavoratore, indipendentemente dalle caratteri-stiche della propria personalità e del proprio carat-tere, può essere oggetto di molestie morali. Tutta-via, oltre alla soglia individuale di resistenza alla violenza psicologica, alcune caratteristiche perso-nologiche o situazionali possono favorirne l’insorgenza o la diffusione. Ci sono potenziali soggetti bersaglio, rappresentati soprattutto da la-voratori con elevato coinvolgimento nell’attività svolta o con capacità innovative e creative; sogget-ti con ridotte capacità lavorative o portatori di han-dicap collocati obbligatoriamente nel posto di lavo-ro, ma osteggiati dal datore di lavoro, dal preposto, dai nuovi compagni di lavoro; soggetti “diversi” sotto vari punti di vista e tratti socio-culturali (pro-venienza geografica, religione, abitudini di vita, preferenze sessuali); lavoratori rimasti estranei a pratiche illecite di colleghi. Nelle situazioni di possono rilevare tre diverse condizioni: una in cui il soggetto bersaglio prece-dentemente era un individuo con un soddisfacente equilibrio psico-fisico, una in cui il soggetto bersa-glio già in precedenza è possessore di una persona-lità con disturbi comportamentali, una in cui il soggetto bersaglio è già portatore di disturbi com-portamentali conclamati (Fulcheri, 2005). Merita d’esser anche specificato che se il mobbing colpisce un uomo è facile che si tratti di una perso-na con manifesta debolezza, soggettivamente vis-suta come inferiorità e che coinvolge l’identità so-ciale ed è possibile che il vissuto di inferiorità, o meglio il complesso di inferiorità che sottende al vissuto, sia la concausa del mobbing. Molte donne, invece, non ancora affrancate dal sentirsi inferiori

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    rispetto a colleghi e superiori, possono addirittura illudersi di poter vivere la propria “debolezza femminile” come un vantaggio (Gilioni et al, 2000). Il mobbing colpisce in qualche misura l’identità della persona in genere, attraverso esperienze che possono incidere in modo negativo sull’autostima. Questo, però, avviene non solamente nel campo di competenze professionali ma soprattutto nella fi-ducia verso se stessi che, se colpita, può essere compromessa (Ansbacher & Ansbacher, 1956). Tuttavia è da sottolineare che la condizione di preesistenza di disturbi neuro-comportamentali non esclude l’esistenza di un nesso eziologico tra am-biente di lavoro e patologia psichiatrica derivata. È importante, invece, verificare da un punto di vista medico-legale che esista un nesso di causalità tra l’ambiente lavorativo, inteso nella sua accezione più complessa, anche come forma di organizzazio-ne del lavoro e gestione delle risorse umane, e il peggioramento del quadro clinico del soggetto, evidenziando eventuali ulteriori concause signifi-cative o fattori eziopatogenici. Ad ogni modo il fe-nomeno si accompagna ad una grave condizione di inadeguatezza dell’organizzazione del lavoro nell’azienda, spesso incapace di costruire meccani-smi di rilevamento e pronta alla correzione del fe-nomeno. Conseguenze sulla salute

    I primi effetti derivanti da situazioni mobbizzanti sono osservabili sulla salute delle vittime che, qua-si inevitabilmente, dopo un intervallo di tempo va-riabile, si altera con manifestazioni nella sfera neu-ropsichica. Precoci sono i segnali di allarme psico-somatico: cefalea, tachicardia, gastroenteralgie, do-lori osteoarticolari, mialgie, disturbi dell’equilibrio. Altri possono essere di tipo emo-zionale: ansia, tensione, disturbi del sonno, dell’umore (D’Antonio, 2005), o comportamentale, come anoressia, bulimia, farmacodipendenza. Se lo stimolo avverso è duraturo oltre al possibile con-corso nello sviluppo di patologia d’organo i sinto-mi descritti possono organizzarsi nei due quadri sindromici principali che rappresentano le risposte psichiatriche a condizionamenti o situazioni eso-gene: il disturbo dell’adattamento e il disturbo post-traumatico da stress. Tenendo conto della si-stematizzazione nosografica del DSM-IV-TR le

    conseguenze sulla salute che possono derivare da una condizione di mobbing dovrebbero essere comprese nell’insieme definito “Reazioni ad Even-ti”. Tali reazioni includono: - il Disturbo dell’adattamento (DA), che indica la

    risposta psicologica ad uno o più fattori stres-santi identificabili. che concludono allo svilup-po di sintomi emotivi e comportamentali clini-camente significati (questo può essere innescato da un fattore stressante di qualsiasi gravità);

    - il Disturbo acuto da stress (DAS) e il Disturbo post-traumatico da stress (DPTS), che sono ca-ratterizzati dalla presenza di un fattore stres-sante estremo e da una specifica costellazione di sintomi.

    Occorre comunque tener presente che in ambito lavorativo esiste un vasto insieme di disturbi psi-chiatrici classificabili come “reazioni ad eventi” identificabili, per nesso eziologico, come malattie professionali o malattie correlate al lavoro (work-related) che nulla hanno a che vedere con la condi-zione di mobbing (Cooper, 1998). Va difatti consi-derato, ad esempio, che la messa in cassa integra-zione, il licenziamento dovuto a cause strutturali di crisi aziendale, una fase di forte conflitto aziendale e tutta una serie di eventi analoghi che si possono realizzare in ambito lavorativo, senza alcun ele-mento di intenzionale violenza psicologica, posso-no ugualmente determinare quadri di patologia an-che molto gravi, senza per questo essere inquadra-bili all’interno di una sindrome provocata da una condizione di mobbing. Nell’esperienza della Clinica del Lavoro di Milano il disturbo dell’adattamento è largamente prevalen-te (oltre i 2/3 dei casi con caratteristiche di attendi-bilità) mentre il disturbo post-traumatico da stress (stessi sintomi del disturbo dell’adattamento ma più gravi e con possibilità di sequele associato a intrusività del pensiero, comportamenti di evita-mento in situazioni che possano anche indiretta-mente richiamare il problema lavorativo e blocco dell’io) rappresenta un evento meno frequente. Circa un terzo della casistica totale è, infine, costi-tuito da casi di patologia psichiatrica comune o di patologia fittizia. Al contrario, la casistica osservata nel centro di Napoli, ancora in fase di sperimentazione, ha per-messo di rilevare una notevole presenza dei casi più drammatici del fenomeno, che si è manifestato prevalentemente come Disturbo post-traumatico da stress, mentre il 20% dei casi è costituito da rea-

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    zioni ad eventi in ambito lavorativo, nei quali l’evento-causa della reazione non è individuabile in una condizione di mobbing, quanto piuttosto in una condizione di conflitto aziendale, senza valen-ze intenzionali di tipo persecutorio. Conseguenze sociali Le conseguenze sociali possono essere devastanti, in quanto la persistenza dei disturbi psicofisici por-ta ad assenze dal luogo di lavoro sempre più pro-lungate, con “sindrome da rientro al lavoro” sem-pre più accentuata, fino alle dimissioni o al licen-ziamento (Cordaro, 2006). La perdita dell’autostima e del ruolo sociale comporta insicu-rezza e difficoltà relazionali; per le fasce d’età più avanzate l’impossibilità di nuovi inserimenti lavo-rativi. Il soggetto porta all’interno dell’ambito familiare il proprio stato di grave disagio e non sono rari i casi di separazioni e divorzi, disturbi nello sviluppo psicofisico dei figli e disturbi nelle relazioni socia-li. Più nello specifico le conseguenze devastanti della situazione di mobbing in ambito sociale inte-ressano tre aree ben distinte: - il difficile recupero dell’inserimento occupa-

    zionale, che riguarda le condizioni del mercato del lavoro fortemente selettivo e si caratterizza in alcuni elementi come la collocazione di un quadro dirigenziale ad alto livello che presenta difficoltà maggiori di un lavoratore di tipologia media, dal momento che le nicchie di mercato per ruoli dirigenziali sono molto ristrette e “protette” in termini di scalata gerarchica in-terna alle aziende (Dominici, 2006). In Italia un contenzioso legale per veder riconosciuti i diritti al recupero della posizione lavorativa precedentemente ricoperta prevede tempi tal-mente lunghi che la stessa attesa diventa ele-mento di sofferenza concomitante alla sindro-me da mobbing. Inoltre, un lungo periodo di attesa (che può ricoprire anche diversi anni) determina una perdita di professionalità ad alti livelli, che si fonda sul costante esercizio prati-co dell’attività manageriale.

    - il coinvolgimento del nucleo familiare, perché agli occhi del soggetto mobbizzato la famiglia appare come la struttura sociale immediata-mente più disponibile per temporanee forme di compenso. Essa costituisce comunque un

    compenso temporaneo e variabile ed è oltre certi limiti incapace di assorbire e metabolizza-re le tensioni che le si ripercuotono pericolo-samente contro, implicandola in comportamen-ti reattivi di natura “patologica” (Sprini, 2007);

    - il coinvolgimento del tessuto della vita di rela-zione, quando gli effetti del mobbing ledono significativamente la vita relazionale dell’individuo mobbizzato, che subisce una progressiva contrazione, motivata in genere da una caduta del ruolo lavorativo vissuta anche come caduta dello stato sociale, che poi si tra-duce in una fuga dai contatti sociali tradiziona-li.

    Conseguentemente la problematica del mobbing diventa pervasiva e totalizzante, determinando una progressiva caduta d’interesse per la vita di rela-zione. A ciò si aggiunge anche che i costi delle conseguenze del mobbing non riguardano solo gli aspetti individuali ma si riflettono più generalmen-te a livello aziendale, in termini di ore lavorative perse e scadimento della qualità del lavoro, della produttività e, a livello della collettività, con un aumento dei pre-pensionamenti, delle invalidità ci-vili e della spesa sanitaria (Hart, 1990). Il soggetto mobbizzato è diventato improduttivo e di peso per la società, per la famiglia, per se stesso: di ciò egli è consapevole, ma non ha più energie da spendere, né entusiasmo da investire (Dominici, 2006). Diagnosi

    L’analisi delle situazioni lavorative di mobbing e delle malattie mobbing-correlate è particolarmente critica per diversi motivi. La fonte d’informazione è rappresentata, nella situazione attuale, quasi esclusivamente dalla raccolta anamnestica diretta. Quindi la possibilità di verifica di dati è scarsa, in quanto solitamente la collaborazione dell’ambiente di lavoro è carente. Queste difficoltà devono essere affrontate con una strategia ad ampio raggio che non esclude la possibilità di falsi positivi, ma ne può ridurre la frequenza, mediante una rigorosa os-servazione rispetto una dichiarazione autocertifica-ta della situazione lavorativa da parte del soggetto, tramite un’identificazione del livello di attendibili-tà del paziente con l’esclusione di un possibile di-sturbo fittizio. Ancora, l’identificazione di un di-sturbo psichiatrico non legato al lavoro e il ricono-scimento di caratteristiche comportamentali che

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    definiscono la situazione di mobbing (Fulcheri et al, 1995). Inoltre vi è la necessità di un contatto formale con il medico competente, al fine di ag-giungere elementi in grado di validare l’anamnesi fornita e sottoscritta dal lavoratore vittima del mobbing. C’è bisogno di una definizione del qua-dro clinico e della sua compatibilità con le sindro-mi mobbing-correlate. Per soddisfare questi criteri c’è bisogno di strumenti mirati, come la specifica preparazione alla conduzione di colloqui psicolo-gico-psichiatrici mirati (Quadrio, 1997). L’utilizzo di metodi psicodiagnostici validi e sen-sibili per poter in ultimo effettuare una diagnosi sindromica è altrettanto necessario. In ogni caso la diagnosi verrà effettuata nei luoghi di lavoro da una équipe multidisciplinare di specialisti che ope-rano in parallelo e coordinati tra loro. Le figure la-vorative che si ritrovano sono il medico del lavoro, (con riferimento all’anamnesi lavorativa e all’anamnesi dell’organizzazione del lavoro), lo psicologo del lavoro (per l’analisi e la valutazione dei fattori di rischio trasversali, in particolare so-ciali e psicologici), il medico psichiatra (per de-terminare la tipologia di reazione ad un evento de-terminatosi e quindi la diagnosi psichiatrica), lo psicologo clinico (per l’analisi e la valutazione del-le manifestazioni psicopatologiche attuali e/o pre-gresse con l’ausilio di somministrazione di batterie di test mirati), il medico legale (per la valutazione analitica della sussistenza di un nesso di casualità e per l’individuazione di un eventuale danno biolo-gico) (Trombini, 1994). In base a questa serie di strumenti, che sono indispensabili per arrivare ad una diagnosi affidabile, vanno ulteriormente distin-ti i due inquadramenti diagnostici di disturbo dell’adattamento e disturbo post traumatico da stress, in base al ruolo che svolgono i fattori occu-pazionali sui disturbi stessi. Il disturbo dell’adattamento andrà differenziato in disturbo dell’adattamento in situazione occupazionale vis-suta come avversativa e disturbo dell’adattamento in situazione occupazione stressogena. Queste due diagnosi fanno riferimento a componenti soggetti-ve di valutazione da parte del paziente e a situazio-ni di stress generico. Stessa cosa per quanto ri-guarda il disturbo post traumatico da stress, che si suddivide in disturbo post traumatico da stress con prevalente componente occupazione e in disturbo post traumatico da stress occupazionale (D’Antonio, 2001).

    Competenze e gestione Le statistiche evidenziano che le problematiche af-ferenti alla psicopatologia organizzativa sono in continua crescita. Ciò porta alla necessità evidente di individuazione delle proprie competenze psico-logiche per accrescere la conoscenza e la capacità di riconoscere e gestire le stesse. Il fenomeno del mobbing si configura nell’attuale contesto del mondo del lavoro come uno dei più importanti temi oggetto di interesse, oltre che della medicina del lavoro, della psichiatria, della socio-logia e della psicologia, anche nel mondo giuridico del management delle imprese e delle istituzioni politiche. Quasi sempre il mobbing è caratterizzato da gravi perdite economiche e umane che si riscon-trano in aspetti come il distacco, la demotivazione, l’aggressività, le umiliazioni, la dequalificazione professionale, la sofferenza psichica, l’estromissione dal mondo del lavoro a danno di soggetti vittime. Il fenomeno è connesso anche a problematiche quali il bossing e problematiche af-ferenti, quali lo stress e il burnout, che costituisco-no un’effettiva emergenza sociale (Fulcheri, 2008). Nell’osservazione globale del fenomeno va messo l’accento sulle competenze psicologiche in ambito manageriale afferenti all’organizzazione, che van-no a prendere in considerazione la centralità della gestione delle risorse umane, l’instabilità lavorati-va, la formazione continua, i fattori di sviluppo e la psicologia dei consumi e sulle competenze psicolo-giche afferenti l’individualità che, invece, appro-fondiscono l’autostima, l’intelligenza e l’adattamento emotivo, le abilità cognitive, i pro-cessi decisionali e la capacità mnemonica. Ma ci sono anche competenze psicologiche afferenti i ruoli, relative alla considerazione del comporta-mento organizzativo, la dinamica del potere, la ca-pacità di delega e l’analisi delle mansioni. Trattamento

    Quando un’azione risolutiva non è possibile biso-gna riflettere e “distanziare emotivamente” la pro-pria condizione, ridefinendola, valutando l’eventuale complicità nel causarla e misurandone la propria esposizione. Spesso risulta impossibile e dannoso ricorrere a soluzioni già sperimentate. In questo senso è necessario fornire una guida all’individuo per essere accompagnato, che gli

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    consenta di ampliare le diverse possibilità di pro-blem-solving. La creatività, difatti, non è un dono innato che pochi possiedono bensì una capacità ri-solutiva che tutti hanno ma che pochi applicano. La principale limitazione della creatività è proprio l’errata convinzione di non essere creativi. La competenza psicologica, in questo caso, è invece molto utile nel rimuovere blocchi e barriere d’azione se individuata e sostenuta, liberando tutte quelle energie che concernono la capacità di af-frontare e risolvere i problemi complessi che si presentano in situazioni come queste (Legrenzi, De Bono, Cocco, 2001). Per raggiungere questi obiettivi vi sono diversi supporti. Si pensi, ad esempio, al counseling, che agisce sull’elaborazione iniziale della situazione stressante; alla figura del counselor, infatti, è chie-sto supporto affettivo, disponibilità all’ascolto e alla comprensione, collaborazione non direttiva all’analisi e al chiarimento. Ancora le tecniche di rilassamento, adatte ad alleviare reazioni emozio-nali di ansia e le risposte psicofisiologiche che le accompagnano; esse agiscono sull’equilibrio neu-rovegetativo ottenendo una diminuzione della fre-quenza cardiaca e della pressione sistolica, della conduttività elettrica cutanea, della tensione mu-scolare e del consumo di ossigeno, registrando ef-

    fetti positivi sull’equilibrio emotivo e fisiologico. Efficace è risultato anche il training autogeno – chiamato autogeno per essere differenziato dalle tecniche ipnotiche – che è uno strumento che porta a modificazioni psicofisiologiche e dello stato di coscienza mediante esercizi graduati di concentra-zione psichica passiva.

                             

       Bibliografia      Dominici, R., 2006. Il danno psichico esistenziale. Milano, Giuffrè Editore; Ege, H., 1998. I numeri del Mobbing, la prima ricerca italiana, Bologna, Pitagora; Ege, H., 2002. La valutazione peritale del danno da Mobbing, Milano, Giuffrè Editore; Ege, H., 2005. Oltre il Mobbing, Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Mila-no, Franco Angeli; Fulcheri, M., 2006. Le attuali frontiere della psicologia clinica, Torino, Centro Scientifico Editore; Heinmann, P., 1972. Mobbing-group violence by children and adult’s. Stockholm, Natur och Kultur; ISPESL – Clinica del Lavoro di Milano, 2000. Le molestie morali (mobbing): uno dei rischi derivanti da un’alterata interazione psicosociale nell’ambiente di lavoro, Atti del I e del II Seminario Nazionale, ISPESL, Roma; Leymann, H.,1996. The Content and Development of Mobbing of Work. European Journal of Work and Or-ganizational Psycology, V, 2; Lo Iacono A., Fulcheri M., Novara F., 2008. Benessere Psicologico e Mondo del Lavoro, Torino, Centro Scientifico Editore; Elsevier Masson S.r.l. , DSM-V-TR 2012. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano; Mottola, M.R., 2002. Mobbing e comportamento antisindacale , Torino, Utet; Petrella, T., 2000. Lavoro e psicopatologia. Lineamenti generali. G. Ital. Med. Lav. Erg. I,32

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    Sitografia www.webalice.it/mario.meucci/mobbing_gilioli.pdf; www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/13594329608414853; www.search-document.com/pdf/1/medicina-del-lavoro.html/;                                                                                                                1 Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma 2 Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale.

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    Dinamismi cross-culturali nel funzionamento familiare dell’adolescente. Un’ipotesi di ricerca Cross-cultural dynamics in adolescents’ family functioning: a research hypothesis. Roberta Federico1 Abstract Per comprendere l’individuo bisogna conoscere il funzionamento della sua famiglia di origine. La psicologia cross-culturale si occupa di studiare le differenze delle dinamiche tra famiglie di culture diverse. In questo lavoro si presenta un progetto di ricerca sul funzionamento familiare dell’Italia e della Spagna, mediante l’analisi di variabili quali l’autostima e la soddisfazione degli adole-scenti. I risultati della ricerca, ancora in corso, mostrano alti livelli di autostima per gli adole-scenti spagnoli e alti livelli di soddisfazione fami-liare e sociale per gli adolescenti italiani.

    Parole chiave Dinamiche familiari, autostima, soddisfazione, benessere psicosociale. Abstract To understand the individual we must know the functioning of his original family. The cross-cultural psychology studies the dynamic differ-ences between families of different cultures. This paper presents a project research on family func-tioning about Italy and Spain, through the analy-sis of variables such as self-esteem and adoles-cents' satisfaction. The results of this research, still in progress, show high levels of self-esteem for Spanish teenagers and high levels of family and social satisfaction for Italian teenagers. Keywords Family dynamics, self-esteem, satisfaction, psy-chosocial well-being.

    1. Il funzionamento familiare

    Il costituirsi della famiglia come oggetto di studio nelle scienze psicosociali è stato un processo assai lungo e problematico. La teoria sistemica ha dato origine a due principali quadri concettuali di rife-rimento per lo studio della famiglia. Il primo, de-finito ecologico, ha configurato la famiglia come un sistema e ha focalizzato l’attenzione sugli scambi interattivo-comunicativi che caratterizzano la famiglia in un dato momento. La scuola di Palo Alto ha costituito il punto di riferimento primario di tale approccio, considerando il comportamento osservabile della famiglia nel �