2015 Il ROI della Felicità al tempo del pump priming
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2015 Fare impresa significa produrre senso
Il ROI della Felicità (al tempo del Pump Priming)
C’è una storia, una Storia con la «esse» maiuscola che i libri di scuola
non riportano e forse non racconteranno mai, è la storia degli uomini
semplici ma al tempo stesso straordinari, che nelle guerre non
comandarono e probabilmente non cambiarono il corso della storia,
ma furono ugualmente protagonisti di gesti che guarda caso si
ripetono sempre in occasione di ogni tragedia, comprese quelle più
recenti, come a Genova.
I due alpini compaesani di Almenno San Bartolomeo sono Cesare
Gavazzeni e Angelo Rota, detto «butighet».
E’ il 27 gennaio 1943 e, da poche ore, nella gelida campagna russa,
si è appena consumata una delle battaglie più tragiche e insieme
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memorabili della Seconda guerra mondiale: a Nikolajewka, poco
lontano dal fiume Don, i soldati italiani dell’Armir (Armata italiana di
Russia), in ritirata ormai da due settimane, riescono a rompere
l’accerchiamento nemico e ad aprirsi l’ultimo varco verso la (possibile)
salvezza.
Gli uomini, però, sono al limite delle forze: l’inverno sovietico, con i
suoi 40 gradi sotto zero, è un «inferno», ci sono due o tre metri di
neve, poco o nulla di cui sfamarsi se non qualche scatoletta di carne
dura come pietra e vino ghiacciato per «riscaldarsi». A ognuno non
resta che pensare alla propria pelle, raccogliere tutte le forze possibili,
guardare avanti, camminare e sperare di non fermarsi. Perché chi
rimane bloccato nella neve è perduto per sempre.
E a questo pensò Angelo Rota, allora 22 anni, già ferito al braccio
destro due giorni prima, quando, travolto da un motoblindo, capì che
non si sarebbe più rialzato.
«Stavo camminando insieme al resto della colonna - racconta
Angelo, conosciuto come “butighet” per via del negozio di alimentari
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che aveva al paese, quando venni urtato e gettato a terra da un
mezzo tedesco. Dopo di che sentii passarmi sopra un piede i
cingolati di un altro motoblindo. Per me era finita: ero immerso nella
neve, avevo scarponi e piedi gelati e ormai non riuscivo più a
rialzarmi e camminare». Il destino sembrava segnato: lì davanti, uno
a uno, passano i soldati, senza che nessuno si fermi a sollevarlo.
Angelo sembra lasciarsi andare per sempre e ripercorre in un attimo
tutta la sua giovane vita. «Tutti mi superavano - ricorda – ma in quei
momenti terribili nessuno aveva la forza di aiutare chi restava a terra.
Ognuno pensava a se stesso e a portare a casa la pelle. Chi restava
bloccato nelle neve era un uomo morto». Finché Angelo raccoglie
tutte le forze che ha e si rivolge a un soldato: «Era uno di Como -
ricorda - e gli dissi di avvisare, più avanti, il Cesare Gavazzeni, che io
non riuscivo più a camminare». L’amico di Almenno San Bartolomeo,
classe 1920, nella colonna della ritirata si trovava qualche decina di
minuti più avanti. «“Il tuo compaesano Angelo è rimasto seduto nella
neve”, mi dissero - ricorda Cesare -. Non sapevo più cosa fare.
Tornare indietro, magari senza trovarlo? E a rischio della mia vita?
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Poi pensai ai suoi familiari. Quando sarei arrivato a casa cosa avrei
detto ai genitori: che l’avevo abbandonato in mezzo alla neve? Mi feci
coraggio. Lasciai lì la slitta e i muli con cui stavo trasportando le
munizioni e mi incamminai in direzione contraria alla colonna.
Ma trovare Angelo non fu facile. Eravamo tutti coperti e irriconoscibili.
In volto portavamo il passamontagna: restavano scoperti solo gli
occhi. Chiamavo “Angel”, “Angel” chiedendo a tutti i soldati che mi
superavano. Ma nulla. Ho camminato per mezz’ora finché trovai
l’Angelo seduto nella neve». «Ma io ormai non ce la facevo più a
ripartire - racconta Angelo - ero bloccato dal gelo. Gli dissi di
andarsene e di lasciarmi lì».
Gavazzeni, invece, non ci pensa due volte, solleva l’amico d’infanzia,
lo prende sottobraccio e lo porta, a piedi, fino alla slitta. I due
(entrambi della 33 batteria del “Gruppo Bergamo” del secondo
Reggimento di artiglieria alpina della divisione Tridentina),
proseguono insieme nella marcia per altri quattro o cinque giorni e poi
si dividono. Rientrati in Italia, Angelo scopre di aver perso la madre;
Cesare, invece, mentre è al fronte, perde la madre e un fratello.
Rientrati ai reparti, l’8 settembre 1943 vengono imprigionati in
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differenti campi di concentramento tedeschi. Angelo rivedrà casa il 15
agosto 1945, Cesare solo il 2 ottobre dello stesso anno.
Diceva Enzo Biagi che la Storia è la cronaca passata al setaccio; e il
gesto di Cesare è uno di quelli che meritava di essere salvato nel
«setaccio» della nostra memoria.
Ecco perché voglio continuare a dire che anche oggi c'è una
STORIA DI'ITALIA che stiamo scrivendo ed è quella fatta da
persone come noi, che lavoriamo onestamente, che ci poniamo
obiettivi anche ambiziosi ma che li perseguiamo eticamente.
Insomma noi che pratichiamo il ROI della
Felicità al tempo del pump priming, anche in
tempo di crisi economica, morale e sociale, qui
adesso nel terzo millennio.
Fonte: L’ECO DI BERGAMO,
Nota: dei 230 mila dell’Armir morirono in 70 mila, uccisi da fame e freddo prima ancora che dall’Armata Rossa
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