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Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, 2013A cura dell’Area comunicazione ed editoria

L’editore si dichiara pienamente disponibile a regolare le eventuali spettanze relative a diritti di riproduzione per le immagini e i testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte.

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Martedì 26, mercoledì 27 marzo 2013, ore 20.30Teatro Ariosto

MURI prima e dopo Basaglia

testo e regia Renato Sarti con Giulia Lazzarini musiche Carlo Boccadoro scene Carlo Sala luci Claudio De Pace produzione Teatro della Cooperativa in coproduzione con Mittelfest con il sostegno di Regione Lombardia - progetto Next con il sostegno della Provincia di Trieste

Finalista Premio Riccione per il Teatro 2009 Premio Anima 2012

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Nel 1972 avevo appena incominciato a fare l’attore in un piccolo grup-po teatrale a Trieste, e la direzione dell’Ospedale Psichiatrico Provin-ciale ci concesse l’uso del teatrino situato nel comprensorio manico-miale a condizione che, durante le prove e gli spettacoli, fosse consen-tito l’accesso agli utenti. Durante le prove nel teatro venivano spesso degli utenti, fra questi c’era Brunetta, una ragazza lobotomizzata, che aveva marchiata sul suo volto tutta la violenza di cui le istituzioni sono capaci: pochi denti, occhi infossati, cicatrici sulla testa. Insieme a una parte del cervello le avevano tolto anche la capacità di camminare di-ritta e l’uso della parola. Ciondolava in avanti, braccia a penzoloni, e si esprimeva a mugugni, come una scimmietta. Si sedeva con noi e non chiedeva altro che quello che per anni le era stato negato: affetto. Ogni nostro gesto di affetto lo ricambiava con un sorriso che, nonostante fosse sdentato, era meraviglioso. Nel ’74 sono venuto a Milano a fare teatro. Brunetta non c’è più da parecchi anni, ma i suoi sguardi e la sua storia fanno indelebilmente parte della mia. Camicie di forza, sporcizia, ricorso massiccio (a volte letale) a docce fredde, psicofarmaci, pestaggi, elettroshock. Lobotomia. Questo era il manicomio prima dell’arrivo di Franco Basaglia: un sorta di lager in cui sui ricoverati si perpetrava ogni tipo di coercizione e violenza. Muri - prima e dopo Basaglia è un testo scritto sulla base di alcune testimonianze di infermiere, soprattutto quella di Mariuccia Giacomi-ni. Con l’arrivo di Basaglia, il dialogo e il rispetto hanno preso il po-sto della violenza, rendendo labilissima la precaria distinzione tra la “normalità” di coloro che dovevano curare e la “follia” dei ricoverati. Scattava fra loro una complicità all’insegna della comprensione e della condivisione della umana sofferenza. La protagonista del testo riflette sulla sua esperienza trentennale di in-fermiera e lo fa con una nostalgia particolare (quela del poeta, quela che te sa tropo ben che non pol tornar), ma soprattutto con la lucidità di chi si rende conto che la spinta straordinaria (di mutamento) di que-gli anni si è affievolita e che rischia di finire inghiottita dall’indiffe-renza generale. La legge Basaglia è uno dei punti più alti della storia della nostra democrazia. È stata una delle grandi conquiste di carattere sociale, umano e civile del nostro Paese. Dobbiamo conoscerla, difen-derla, perché bisogna sempre riaffermare con forza che le lancette della storia non si possono – non si devono – riportare indietro.

Renato Sarti

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Il sogno di Basaglia di Umberto Galimberti

A 25 anni dalla morte di Franco Basaglia, lo psichiatra che si è tanto battuto per ottenere la legge 180 che nel 1978 sancì la chiusura dei manicomi, è forse possibile trarre un bilancio di quella che l’Organiz-zazione Mondiale della Sanità, nel 2003, ha indicato come «uno dei pochi eventi innovativi nel campo della psichiatria su scala mondiale».Per questo bilancio ci facciamo aiutare da una serie di saggi che Franco Basaglia scrisse tra il 1963 e il 1979 e che Einaudi ha pubblicato col titolo L’utopia della realtà. A differenza della rivoluzione, che ha un carattere esplosivo perché segna un’accelerazione del tempo in vista di un altro futuro, l’utopia, che guarda al futuro con un’etica terapeutica, dove i mali si eliminano tramite il controllo razionale degli effetti, ha bisogno di tanto futuro.L’operazione di Basaglia è un’operazione utopica, non rivoluzionaria. La chiusura dei manicomi non era, infatti, lo scopo finale dell’opera-zione basagliana, ma il mezzo attraverso cui la società poteva fare i conti con le figure del disagio che la attraversano quali la miseria, l’in-digenza, la tossicodipendenza, l’emarginazione e persino la delinquen-za a cui la follia non di rado si imparenta. E come un tempo la clinica aveva messo il suo sapere al servizio di una società che non voleva occuparsi dei suoi disagi, Basaglia tenta l’operazione opposta, l’accet-tazione da parte della società di quella figura, da sempre inquietante, che è la follia, da lui così definita: «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere che è poi quella di far diventare razionale l’irrazionale. Infatti quando qualcuno entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato, e così diventa razionale in quanto malato».Non era questo, scrive Basaglia, l’intento di Philippe Pinel che nel 1793 inaugurò a Parigi il primo manicomio, liberando i folli dalle pri-gioni, in base al principio che il folle non può essere equiparato al delinquente. Con questo atto di nascita la psichiatria si presenta come scienza della liberazione dell’uomo. Ma fu un attimo, perché il folle, liberato dalle prigioni, fu subito rinchiuso in un’altra prigione che si chiamava manicomio.Da quel giorno incomincerà il calvario del folle e la fortuna della

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psichiatria. Se infatti passiamo in rassegna la storia della psichiatria vediamo emergere i nomi di grandi psichiatri, mentre dei folli esisto-no solo etichette: isteria, astenia, mania, depressione, schizofrenia. Ma la depressione, la mania, la schizofrenia sono davvero «malattie» come l’ulcera, l’epatite virale, il cancro? O il modo di essere schizo-frenico è così diverso da individuo a individuo e così dipendente dalla storia personale di ciascuno da non consentire di rubricare storie e sin-tomi così diversi sotto un’unica denominazione? L’ansia di accreditarsi come scienza sul modello della medicina ha fatto sì che la psichiatria organicista passasse sopra come un carro armato alla «soggettività» dei folli, che furono tutti «oggettivati» di fronte a quell’unica soggettività salvaguardata che è quella del medico. Ma è davvero credibile che, ne-gando istituzionalmente la soggettività del folle, sia possibile guarirlo, cioè restaurarlo nella sua soggettività? Evidentemente no.E infatti i medici del manicomio non ci credevano e i malati croniciz-zavano. Basaglia, prima a Gorizia e poi a Trieste, accetta questa condi-zione di parità tra medico e paziente e scopre che, restituendo al folle la sua soggettività, questi diventava un uomo con cui si poteva entrare in relazione. Scopre che il folle ha bisogno non solo delle cure per la malattia, ma anche di un rapporto umano con chi lo cura, di risposte reali per il suo essere, di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche i medici che lo curano hanno bisogno. Insomma il folle non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità. Trattato come uomo, il folle non presenta più una «malattia», ma una «crisi», una crisi vitale, esistenziale, sociale, familiare, che diventa permanente e definitiva se il folle, che si è perso nel mondo, viene al mondo sottrat-to per essere più o meno definitivamente rinchiuso in quel non-mondo che si chiama manicomio.In quel non-mondo mi sono recato per tre anni consecutivi dal ‘76 al ‘79, in quel di Novara, dove uno psichiatra, oggi a tutti noto, Eugenio Borgna, tentava la stessa sperimentazione dell’apertura dei manicomi. I «pazzi», opportunamente accompagnati, potevano uscire dalle mura, muoversi con qualche incertezza e un po’ di sconcerto nella città, bere un caffè al bar, entrare in una chiesa, comprare qualcosa al mercato, scambiare parole, il più delle volte non corrisposte, con la gente, acqui-sire insomma le coordinate del mondo comune da cui la follia li aveva esclusi temporaneamente e il manicomio definitivamente.Se il sogno di Basaglia era che la clinica potesse diventare un labo-ratorio per nuove forme di relazioni sociali, venticinque anni dopo non poteva esserci risveglio più brusco se verrà approvato il proget-

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to di legge (…) che vuole reintrodurre i manicomi, eufemisticamen-te chiamati SRA (Struttura Residenziale ad Assistenza prolungata e continuata) dove a operare saranno la psichiatria organicistica, quando non la genetica psichiatrica. Nulla da dire contro le scoper-te della scienza e i suoi rimedi, purché si eviti di considerare l’uomo e gli oscuri meandri della sua mente, come un semplice laboratorio in cui la scienza verifica le sue ipotesi. Venticinque anni fa abbiamo chiuso i manicomi e con la legge 180 ci siamo lavati la coscienza di una vergogna sociale, ma non abbiamo fatto un solo passo innan-zi nella direzione indicata da Basaglia che prevedeva Servizi di Sa-lute Mentale diffusi sul territorio, con residenze comunitarie, gruppi di convivenza, con la partecipazione di maestri, educatori, accom-pagnatori, attori motivati che hanno dato vita a cooperative sociali come a Trieste, ad Arezzo e in altri pochi punti del territorio italiano. Altrove niente.E questo non per colpa della legge 180, ma per il disimpegno, la sciat-teria, la scarsa motivazione degli operatori, la mancanza di fondi, visto che il nostro Ministero della Sanità destina alle cure psichiatriche solo il 5 per cento delle risorse quando l’Organizzazione Mondiale della Sa-nità ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, che nel 2020 i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50 per cento divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità e di morte.Che facciamo? Mettiamo tutta questa gente in manicomio o gli faccia-mo recuperare quel rapporto col mondo che il manicomio preclude defi-nitivamente e i Servizi di Salute Mentale, così come sono oggi, non ga-rantiscono per incuria, trascuratezza, indifferenza, e non perché l’idea è sbagliata come le esperienze di Trieste e di Arezzo sono lì a dimostrare? Un anno prima di morire, nelle sue Conferenze brasiliane Basaglia diceva: «Potrà accadere che i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so».Noi che siamo sopravvissuti alla sua morte sappiamo che non basta chiudere l’istituzione manicomiale e porre fine alle vite bruciate tra le sue mura, silenzioso olocausto consumato nel nome della scienza. Oggi la scienza si è fatta esigente, più asettica, persino più pulita, ma decisamente più invasiva di quanto non fosse nell’istituzione mani-comiale. A questo proposito Franco Rotelli, che ha raccolto l’eredi-tà di Franco Basaglia, scrive in un suo saggio che la biologia mole-colare e la neurofisiologia potranno fare ancora molti progressi e di conseguenza avere poteri ancora maggiori, le neuroscienze potranno

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dirci ancora molto sul nostro cervello, e molto ancora ci dirà la gene-tica. C’è però una cosa su cui mai potremo avere risposte da queste scienze: sull’etica, ossia sulla modalità con cui gli uomini decidono di stabilire un contratto sociale, sui valori e sui punti in base ai quali gli uomini decidono di stabilire le modalità del proprio relazionarsi. Questo era il progetto di Basaglia. La chiusura dei manicomi era solo un primo passo, in un campo limitato, quello del disagi mentale, per chiedere alla società di non avere più paura della diversità che ospita, e che, in questa o in altre forme, sempre più dovrà ospitare.Ma forse la difesa dei diversi, dei folli, dei soggetti più deboli, che era un’atmosfera diffusa negli anni Settanta e che ha portato alla chiusura dei manicomi, non è più un ideale della nostra cultura che si sta rivelan-do sempre più sensibile a rapporti di forza che ai rapporti di sostegno. Che sia questa la premessa per cui la follia, e la disperazione che sem-pre l’accompagna, trovano un terreno favorevole per dilagare? Il cuore si è fatto duro e si è persa fiducia nel carattere terapeutico che la comu-nicazione e la relazione sociale possiedono come loro tratto specifico e come ognuno di noi può verificare quando sta male. “la Repubblica”, 29 agosto 2005

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“Giulia o della semplicità. Giulia o della misura, della grazia. Giulia o della facilità. Di tutte queste parole che mi vengono alla penna per defi-nire un’attrice che amo e che è stata la compagna fedele del mio lavoro per molti anni, l’ultima, la “facilità”, è la più giusta per il pubblico, la più inesatta per Giulia Lazzarini. Perché per Giulia, niente è facile, tut-to il teatro, tutto ciò che fa sulla scena le appare difficile, problematico. Tutto le costa una grande fatica interiore... Tutto costa il prezzo di una lotta con se stessa e le cose. Ma alla fine, sempre, il risultato appare il più “facile” e ha il peso della profondità sotto l’aspetto della leggerezza e della felicità dell’invenzione.”“Giulia appartiene a quei rari “talenti naturali” nati così, non si sa per-ché, che salgono su un palco di un teatro, cominciano a recitare e sanno già tutto della teatralità. Sono nati per “recitare”. Recitano sempre e da sempre bene.”“Allora: Giulia o di un modo “vero” di recitare la dialettica della vita. Un qualcosa che partendo da Stanislawskj, tocca Brecht per far diven-tare il carattere e la verità della vita qualcosa che ha a che fare conti-nuamente con la storia in movimento per cambiare il mondo”.Giorgio Strehler

L’Associazione Culturale Teatro della Cooperativa è stata fondata - grazie al sostegno della Società Edificatrice Abitare - alla fine del 2001 dal drammaturgo, regista e attore Renato Sarti già collaboratore del Piccolo Teatro con Giorgio Strehler e del Teatro dell’Elfo di Milano, nonché vincitore dei premi I.D.I., Vallecorsi, Riccione-produzione e

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dell’Ambrogino d’Oro del Comune di Milano. Nella convinzione che il teatro debba avere una funzione sociale come spazio in cui una co-munità possa ancora riconoscersi e condividere un’esperienza unica e viva, il Teatro della Cooperativa, che si inserisce nel tessuto sociale niguardese (zona nord est di Milano), ha avviato un progetto di riqua-lificazione culturale della periferia con il principale obiettivo di svilup-pare un centro di produzione teatrale e promozione culturale in grado di diventare un punto di riferimento per la zona 9, per la città e per la provincia.

Nell’arco di dieci anni il Teatro si è così imposto all’attenzione del panorama teatrale nazionale con oltre 150 compagnie ospiti in sede, più di 87.000 spettatori solo nella sala di via Hermada (zona nord est di Milano) e una trentina di allestimenti. Proprio l’attività di produzione ha ottenuto un grande riscontro di pubblico e di critica, toccando quasi tutte le regioni d’Italia e trovando ospitalità anche presso teatri presti-giosi quali il Piccolo Teatro di Milano, l’Eliseo e il Valle di Roma, il Teatro Greco Antico di Siracusa, il Teatro Due di Parma, il Duse e l’Ar-chivolto di Genova. Da ricordare inoltre, la partecipazione a Festival e rassegne importanti come Mittelfest, Santarcangelo e Lunatica.

Un altro elemento estremamente significativo dell’attività del teatro è dato dal fatto che la totalità degli spettacoli ospitati e prodotti sono di drammaturgia contemporanea, a conferma che il Teatro della Coopera-tiva si pone l’obiettivo di risultare un punto di riferimento e un osser-vatorio sensibile permanente e partecipe, della nostra società. Il Teatro della Cooperativa vanta inoltre innumerevoli riconoscimenti, tra tutti, il Premio Enriquez nel 2005 e il Premio Hystrio Provincia di Milano per il lavoro svolto sul territorio. Fra i patrocini e gli attestati di importanti istituzioni sono da annoverare l’Alto Patronato del Pre-sidente della Repubblica, il Ministero dei Beni Culturali, la Regione Lombardia, la Provincia e il Comune di Milano (dal 2008 il Teatro della Cooperativa è fra i teatri convenzionati), l’ANPI, l’ANED e la Fondazione Cariplo. Agli ultimi attestati di stima si aggiungono la Medaglia commemorati-va che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito allo spettacolo Nome di Battaglia Lia e, nel maggio 2010, il Premio Isimbardi a Renato Sarti perché considerato “un esempio di artista ca-pace di tenere insieme, con il suo Teatro della Cooperativa, la passione civile con la vena comica e drammatica”.

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GRUPPO BPER

Le attività di spettacolo e tutte le iniziative per i giovani e le scuole sono realizzate con il contributo e la collaborazione della Fondazione Manodori

UNINDUSTRIA REGGIO EMILIA

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Luigi Bartoli, Paola Benedetti Spaggiari, Bluezone Piscine, Franco Boni, Achille Corradini, Donata Davoli Barbieri, Anna Fontana Boni, Mirella Gualerzi, Insieme per il Teatro, Paola Scaltriti, Gigliola Zecchi Balsamo

Annalisa Pellini

Davide Addona, Giorgio Allari, Carlo Artioli, Maurizio Bonnici, Gianni Borghi, BST Studio Commercialisti Associati, Andrea Capelli, Umberto Cicero, Francesca Codeluppi, Giuseppe Cupello, Emilia Giulia Di Fava, Ennio Ferrarini, Milva Fornaciari, Giovanni Fracasso, Alice Gherpelli, Marica Gherpelli, Silvia Grandi, Claudio Iemmi, Luigi Lanzi, Paolo Lusenti, Franca Manenti Valli, Silvana Manfredini, Graziano Mazza, Clizia Meglioli, Ramona Perrone, Francesca Procaccia, Teresa Salvino, Viviana Sassi, Fulvio Staccia, Alberto Vaccari

Vanna Belfiore, Deanna Ferretti Veroni, Corrado Spaggiari, Vando Veroni

Benemeriti dei Teatri

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