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DOSSIER

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24 febbraio 2014

dossier

Parla Gianni Tamino, docente di biologiaall’università di Padova

L’idea della terracome bene comune,del diritto al cibo pertutti è stata spazzatavia da un’economiaglobale che pur di farsoldi specula su tutto

IL CIBO NON ÈUNA MERCE

di Enzo Rossi

La fame nel mondo, nonostante i pro-clami periodicamente sbandierati dal-le agenzie internazionali, è uno dei pro-blemi più gravi che affliggono il piane-

ta. Ogni giorno, ci dicono le statistiche, sonocirca 24 mila le persone che muoiono perfame o per cause a essa strettamente cor-relate. Un dato migliore nei confronti di 10anni fa quando i morti erano 35 mila o ri-spetto ai 41 mila di 20 anni fa. Dobbiamoperò ritenerci soddisfatti di questa tenden-za al ribasso? Siamo veramente sulla buo-na strada come dicono le varie agenzie Onue la Banca mondiale per eliminare la pover-tà entro il 2030? Ma che vita è quella di cir-ca 3 miliardi di persone che per avere unreddito di poco inferiore ai 2,5 dollari al gior-no sono considerati fuori dalla “povertà as-soluta”? Sono queste alcune delle questio-ni di cui abbiamo discusso con il professorGianni Tamino, docente di biologia gene-rale all’università di Padova.I morti per fame diminuiscono ma ledisuguaglianze tra le popolazioni aumen-tano. Cos’è che non funziona?«È vero, i morti per fame sono diminuiti, equesto è un fatto positivo. La questione èinvece ben diversa se andiamo a vederecom’è distribuito il cibo nelle varie parti delmondo. La rivoluzione verde iniziata neldopoguerra, per esempio, ha sì triplicato laquantità di cibo prodotta ma ne ha contem-poraneamente aumentata l’iniqua distribu-zione».Succede un po’ come con il reddito chesi concentra sempre di più nella mani dipochi.

«Sì, esatto. Ma a proposito di produzione edistribuzione del cibo, c’è anche un’altraquestione da sottolineare: prima della rivo-luzione verde numerose popolazioni del suddel mondo vivevano di economia e di agri-coltura di sussistenza, che certo non con-sentiva loro una vita agiata ma assicuravaloro cibo a sufficienza».Poi cos’è successo?«Il cambiamento stimolato dagli organismiinternazionali ha reso le popolazioni sem-pre più dipendenti da una politica agricoladecisa a livello mondiale, che richiede se-menti ibride controllate da poche multina-zionali, l’uso di pesticidi e fertilizzanti pro-dotti dalle medesime mega imprese e re-centemente l’introduzione di organismi ge-neticamente modificati e brevettati. Insom-ma, ci sono popolazioni che hanno perso laloro autonomia e producono cibo globaliz-zato deciso da altri».Quali conseguenze ha prodotto la perdi-ta di questa sovranità alimentare?«Beh, quello cui accennavo sopra: moltepopolazioni sono costrette a importare ciboper alimentarsi, mentre la loro produzioneviene esportata all’estero. A tutto ciò si som-ma una drastica riduzione di persone im-piegate in agricoltura, che solo in piccolaparte trovano occupazione in settori diver-si. Tutte le altre vanno a ingrossare le file di

coloro che vivono nelle perife-rie delle grandi città, dove la po-vertà, la miseria e la fame au-mentano ogni giorno di più».I cambiamenti climatici quan-to influiscono sulla produzio-ne agricola complessiva?«Fanno aumentare non solo lezone aride ma provocano an-che sconvolgimenti improvvisie drammatici (alluvioni, tifoni,eccetera) che determinano ul-teriori difficoltà, soprattutto perla produzione di cereali. Negliultimi 50 anni c’è stata una no-tevole crescita di cearali, per ef-fetto soprattutto di grandi quan-tità di energia immessa in agri-coltura sotto forma di pesticidi,fertilizzanti, macchinari. Attual-mente però la crescita ha ral-lentato nonostante il continuoaumento di input esterni…».Cioè?«Ad aumenti di fertilizzanti,pesticidi e quant’altro non cor-risponde una conseguente cre-scita di produzione. E per man-tenerla costante occorre quindiaccrescere continuamente gliinput esterni. Le variazioni cli-matiche contribuiscono poi aridurre ancora la quantità di ciboproducibile. E tutto ciò rischiadi aggravare il problema della fame nei pa-esi più poveri».I grandi produttori insistono nel dire cheuna soluzione può essere offerta dagliOgm. È veramente così?«No. Gli Ogm si sono iniziati a produrre alivello di microorganismi negli anni ’70, neldecennio successivo si è tentato di applica-re questa tecnologia anche alle piante edagli anni ’90 è iniziata la loro diffusionecommerciale. A distanza di 20 anni soloquattro piante geneticamente modificatesono coltivate con qualche successo: soia,mais, colza e cotone. I geni inseriti sono solodue e nulla hanno a che fare con tutte lepromesse che sono state fatte».

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Alimentazione bene comune dossier

EL AYOUBI E NON EL AYUBINell’articolo di pag 24 del numeroscorso dal titolo “Un paese devasta-to” è stato scritto in modo sbagliatoil nome di Mostafa El Ayoubi. Ce nescusiamo con l’interessato e con ilettori

E quali sono questi due geni?«Per oltre l’80 per cento si tratta di pianterese geneticamente resistenti a un diserban-te prodotto dalla stessa azienda che ha bre-vettato la pianta. E questo è il vero business.Poi sono state brevettate piante resistentiagli insetti grazie a un gene batterico (per il20-30 per cento dei casi, tenuto conto chead alcune piante geneticamente modificatesono stati inseriti entrambi i geni). Ma que-ste piante producono la tossina anche quan-do il parassita non c’è, con il rischio di dan-neggiare l’entomofauna, cioè tutti gli insetticompresi quelli utili. E come se non bastas-se, gran parte degli insetti cui la tossina èrivolta acquisiscono nel tempo una resisten-za che ne vanifica l’effetto. Negli Stati Uniti,dove abbiamo la possibilità di verificare glieffetti degli Ogm, gli insetticidi si usano dipiù e non di meno, nonostante la presenzadi queste piante transgeniche».Quindi non saranno gli Ogm a risolverela fame nel mondo?«No. E il caso classico è quello dell’Argen-tina: quando vi fu il default economico il pa-ese esportava soia transgenica e carne. In-somma, il cibo c’era ma i bambini morivanodi fame, perché i ricchi agrari producevanoper l’esportazione e non per sfamare la po-polazione. La logica degli Ogm e della agri-coltura industrializzata, infatti, è proprio que-sta. Un altro esempio è quello dell’India, incui si tenevano derrate alimentari ad am-muffire nei magazzini piuttosto che darle allagente che moriva di fame».Perché?«Perché il prezzo delle derrate alimentari edei cereali è determinato da una borsa in-ternazionale che permette di speculare su

questi prodotti attraverso i futures, contrattiche ti permettono di acquistare oggi unamerce non ancora presente nel mercato erivenderla domani quando il prezzo salirà».Questo discorso apre un altro problema,quello del modello di sviluppo…«Il nodo è proprio lì. Questo tipo di agricol-tura è finalizzato a un modello centralizzatonelle mani di poche multinazionali appog-giate dai governi degli stati più forti e daigrandi organismi internazionali che orienta-no l’economia: Fondo monetario internazio-nale, Banca mondiale e Organizzazionemondiale del commercio. L’idea della terracome bene comune, del diritto al cibo pertutti, è stata spazzata via da un’economiaglobale che pur di far soldi specula su tutto.A ciò si deve aggiungere l’accaparramentodelle terre (land grabbing) da parte di multi-nazionali e di paesi come, ad esempio, laCina che acquistano, soprattutto in Africa,terre considerate dagli abitanti dei villaggidei “beni comuni” a disposizione di tutti».Si parla molto, soprattutto in certi am-bienti, di lotta allo spreco. Una battagliagiustissima, ma che rischia di non intac-care i meccanismi di fondo del sistema.È così?«No. È vero che le buone abitudini da solenon determinano il cambiamento, ma sen-za di esse viene meno la consapevolezzadel gesto quotidiano del mangiare. I cittadi-ni devono sapere da dove viene il cibo, qua-le lavoro c’è dietro, come viene trasforma-to. E ridurre gli sprechi allora diventa fon-damentale per acquisire consapevolezza,che è condizione essenziale per il cambia-mento. Prima parlavamo di paesi che han-no perduto la loro sovranità alimentare, ma

anche da noi non c’è più. E allora lalotta allo spreco, l’acquisto di prodottia chilometri zero, i gruppi di acquistosolidale sono pratiche che non hannosolo un valore simbolico ma sono par-te del cambiamento. Se cominciassi-mo a produrre cibo per noi, in altre partidel mondo potrebbero avere maggioripossibilità di produrre cibo per loro eriprendersi quella sovranità alimenta-re che viene loro sottratta da un mec-canismo economico che privilegia soloi potenti».All’Expo di Milano del 2015 il cibosarà il filo conduttore della manife-stazione. Si discuterà, a suo pare-re, anche delle tematiche (equa di-stribuzione delle risorse, meccani-smo di sviluppo e così via) che ab-biamo affrontato in questa intervi-sta?«Probabilmente sì. Ma il tipo di impo-stazione che viene data alla manife-stazione va nella direzione opposta. Sipunta cioè sul tecnicismo. In passato,scommettendo sulla chimica e gli Ogm,abbiamo commesso un errore che ciha consentito di aumentare la quanti-tà ma non l’accesso al cibo. E poi nondobbiamo dimenticare l’enorme spre-co di denaro e di territorio agricolo cheuna simile manifestazione comporta.Se questi soldi fossero stati usati permodificare l’attuale modello di produ-

zione agricola, sarebbe stato decisamentemeglio».•

Gianni Tamino

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26 febbraio 2014

dossier

UN CIRCUITO PERVERSOLa maggior parte del ciboè in mano ad aziendeenormi che lo comprano aprezzi bassissimi e lorivendono a prezzi alti achi se lo può permettere

Intervista a Guido Viale, economista e ambientalista

Guido Viale, leader nel ’68 della prote-sta studentesca ed ex-dirigente diLotta continua, è membro del Comi-tato tecnico-scientifico dell’Agenzia

nazionale per la protezione dell’Ambiente(Ispra). Collabora con «Repubblica» e «ilmanifesto». Blog personale: http://www.gui-doviale.it. Con lui abbiamo discusso dellagrave questione alimentare che affligge ilpianeta.Entriamo subito in argomento: oggi nelmondo c’è un problema alimentare?«Beh certo, c’è da tantissimo tempo e mipare che si stia aggravando piuttosto cheassottigliarsi. Il numero delle persone chesoffrono la fame, secondo la Fao, è aumen-tato negli ultimi anni».Ma è un problema che riguarda solo ilcosiddetto “sud del mondo”, o anche ilnord?«Innanzitutto è sempre più difficile distingue-re in maniera netta il sud dal nord, perchéin molti Paesi emergenti del sud del mondoc’è ormai una classe dirigente e perfino un

di Paolo Calabrò

“embrione” di ceto medio che vive secondogli standard occidentali, mentre nei Paesiche una volta costituivano il “primo mondo”,cioè il mondo occidentale capitalistico, esi-stono oggi sacche di miseria e di indigenzache sono anche peggiori di quelle che pati-scono molte popolazioni del cosiddetto “ter-zo mondo”. Per esempio, oggi in Greciaampie fette di popolazione sono costrette arimestare nei cassonetti alla ricerca di cibo:attività che è sempre stata caratteristica deibarboni, e che oggi coinvolge famiglie inte-re, genitori alla ricerca di qualcosa da man-giare per i figli. Siamo arrivati a questo; frut-to anche della politica europea di austeritàapplicata a quei Paesi. Ma lo stesso si puòdire degli Stati Uniti, il Paese più ricco delmondo, dove un quinto della popolazionevive in condizioni di povertà relativa o sof-fre letteralmente la fame».Com’è invece la situazione in Italia?«In Italia, come in tutti i Paesi non solo occi-dentali, c’è uno spreco di cibo gigantesco:si calcola che fino a un terzo del cibo com-prato finisca nella spazzatura. Non c’è an-cora un problema di fame diffuso, ma sicu-ramente all’interno di molte famiglie chesono state colpite pesantemente dalla crisici sono regimi di sottoalimentazione o co-munque di deterioramento degli standardalimentari molto forti».Abbiamo del resto nei Paesi ricchi unproblema di sovralimentazione, da unlato; di cattiva alimentazione, dall’altro.Nessuna legge a tutela dei consumatoripare in grado di risolvere questi proble-mi. C’è forse bisogno di una mentalitàdiversa?«È difficile uniformare le mentalità degli uo-

mini di tutto il mondo; ma d’altro canto que-sto obiettivo non sarebbe neancheauspicabile, perché in ogni Paese il proble-ma alimentare si pone in maniera specificae peculiare. Tanto per cominciare, va con-siderato che il problema mondiale dell’ali-mentazione non è che vi sia poco o troppocibo, bensì che questo venga distribuitomale, in base a logiche di mercato e non difabbisogno umano. Attualmente le fornituredi cibo arrivano dove c’è una domandasolvibile e non dove c’è un bisogno di ali-mentazione. Il fatto che al mondo vi siano800 milioni di obesi e, al contempo, circa lostesso numero di persone che soffrono lafame, è una testimonianza eloquente e im-mediata di questo squilibrio. A ciò si aggiun-ga che l’obesità non sempre è frutto di ali-mentazione eccessiva, ma sovente dipen-de da una cattiva alimentazione».Cioè?«Il sistema alimentare mondiale (si tengapresente che sono pochissime le societàmultinazionali che controllano il mercatodella produzione e della distribuzione delcibo a livello planetario) tende a mettere incircolazione alimenti a basso prezzo carat-terizzati da un eccesso di grassi e di zuc-cheri, che attirano principalmente personea basso reddito. Oggi siamo di fronte a uncurioso (ma rivelatore) rovesciamento deldetto tradizionale per cui al povero tocca“stringere la cinghia”: una volta i poveri,sottoalimentati, erano magri, mentre i ricchierano grassi; oggi è vero il contrario: i ricchihanno la possibilità di alimentarsi in manie-ra corretta, calcolata scientificamente, man-tenendosi in forma, mentre i poveri, attrattidal cibo economico e scadente, finisconoper ingrassare oltre misura».Che ne è, alla luce di queste considera-zioni, dei propositi istituzionali di elimi-nazione della fame nel mondo?«L’obiettivo del millennio era il dimezzamen-to del numero di persone che soffrono lafame entro il 2015. Da allora, cioè dal 2000,questo numero non è certo diminuito, anzi.Da questo punto di vista si registra dunqueun fallimento completo. Ma la cosa più gra-

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dossierAlimentazione bene comune

ve è che le derrate alimentari, nel corsodell’ultimo decennio, sono entrate semprepiù nel sistema finanziario internazionale,diventando così oggetto di speculazioni fi-nanziarie come quelle dei cosiddetti deri-vati, futures, ecc. Questo tipo di operazio-ni, effettuate su larga scala, possono pro-vocare non soltanto un già di per sé perni-cioso aumento dei prezzi, ma vere e pro-prie carestie. È in queste condizioni, tantoper dirne una, che è cominciata la “prima-vera araba” in Tunisia. Torniamo al proble-ma di prima: un mercato alimentare mon-diale completamente in mano a pochissi-me società di dimensioni gigantesche, ge-stito da un mercato finanziario in grado diridurre alla fame intere popolazioni con unsemplice clic su una tastiera… non può cheprodurre questi risultati».Più in particolare sembra che in Occi-dente il problema alimentare si ponga sudue questioni fondamentali: da un lato,un eccessivo consumo di carne; dall’al-tro, intere coltivazioni destinate ai bio-carburanti. Un problema etico, ancorprima che socioeconomico.«Certamente si tratta di un problema etico:anche qui la precedenza viene data non aibisogni della gente, ma alle esigenze diquegli operatori economici che possonopermettersi di pagare più degli altri. È il fe-nomeno del cosiddetto land grabbing di cuiè vittima il Sud America ma soprattuto l’Afri-ca: le terre vengono letteralmente svendutea operatori economici di altri Paesi (le soli-te multinazionali), le quali - una volta entra-te legalmente in possesso del territorio - nonsi fanno scrupolo di cacciar via intere po-polazioni che vi risiedevano magari da se-coli sopravvivendo grazie a un’agricolturadi sussistenza. Perfino alcuni Paesi dell’esteuropeo vi sono soggetti».È questo il frutto “razionale” del capita-lismo? Pare che dovunque passi il capi-tale, diventi tutto improvvisamente pro-blematico e caotico. Cioè: irrazionale.«Si può anche metterla così, in un certosenso. Resta da capire attraverso qualemeccanismo si passi effettivamente dallarazionalità della matematica macroecono-mica all’irrazionalità degli esiti reali. La ra-zionalità capitalistica è una razionalità stru-mentale, che ha come unico fine quello dimassimizzare i profitti, passando sopra a

tutto e tutti: in questo senso il capitalismo èe rimane razionale. C’è da chiedersi se unatale razionalità sia davvero buona per l’uo-mo, di fronte a un’esperienza ormai pluri-decennale che ha mostrato come questosistema finisca per premiare gli speculatorifinanziari, riducendo la gente alla fame».Ciò nonostante il capitalismo pare nonaver rinunciato a promettere abbondan-za e ricchezza per tutti.«Forse qualcosa al riguardo è cambiato:prima della crisi si parlava ancora nei ter-mini di questo pensiero unico per il quale ilcapitalismo avrebbe esteso - prima o poi - ilbenessere e il progresso a tutti gli uomini;oggi domina invece la paura, la paura delfallimento, del disastro. Oggi non si dice piùche le regole del mercato vanno seguiteperché sono il meglio che vi sia al mondo;si dice al contrario che non vi sono alterna-tive e che non resta che seguirle per scon-giurare un disastro maggiore. Nel giro dipochi anni sono dunque passate dall’esse-re “il meglio” all’essere “il meno peggio”. Puòsembrare poco, ma è invece qualcosa dimolto rilevante».È insomma la solita sindrome Tina:There Is No Alternative.«Certo: è questo il succo della cultura capi-talistica in questa sua fase finanziaria. Inaltre epoche, infatti, è stato diverso: comead esempio nei cosiddetti “trent’anni glorio-si”, quelli immediatamente successivi allaseconda guerra mondiale, dove il capitali-smo in qualche modo ha operato davveroapportando benessere ad ampie fasce del-la popolazione occidentale. Oggi nessunodei governi di quegli stessi Paesi potrebbedire, similmente, che il capitalismo porteràbenessere: al contrario, tutte le riforme indirezione dell’austerità vengono motivatedalla paura del default (visto come la cata-strofe)».Dovremmo dunque cedere e credere aquesto pensiero unico?«Certamente no; d’altro canto non bastapensarla diversamente per incidere di fattosu questi meccanismi. Ribellarsi all’alta fi-nanza non è una cosa semplice; c’è biso-gno, sì, di cultura, ma anche di organizza-zione, strumenti e controllo, soprattutto, daparte dei governi, a partire da quelli locali(municipi) fino a quelli nazionali e sovrana-zionali».

C’è forse qualche Par-tito in Italia o in Europache sia sensibile a que-ste tematiche? Pare chenon ne parli nessuno.«In Grecia c’è il PartitoSyriza che è passato dapercentuali infime di con-senso a essere il secon-do partito greco e - se-condo i sondaggi - aspiraa essere addirittura il pri-mo alle prossime elezio-ni, che si fonda proprio suquesti principi ed è in cer-ca di alleanze in Europaper costruire una lista eu-ropea unitaria alle prossi-me elezioni. Il punto fon-

damentale è la rinegoziazione dei trattati in-ternazionali di austerity che hanno condottoall’attuale situazione di difficoltà. In Italia c’èil tentativo di costruire una lista unitaria chesi appoggi a Syriza; tentativi simili sono pre-senti anche in Spagna e in Portogallo e, aquanto mi risulta, anche in Germania e inFrancia».Più precisamente, chi si sta mettendo ingioco in Italia su questa linea?«Sta parlando con uno di loro (ride). Altri sonoBarbara Spinelli, Andrea Camilleri, PaoloFlores d’Arcais, Marco Revelli, LucianoGallino. Una lista in realtà ben più lunga (inparte pubblicata a metà gennaio da «Repub-blica») che vede il coinvolgimento di moltiesponenti della sinistra estrema che preferi-scono puntare in Europa a una lista unitariasvincolata dalle pressioni dei singoli partitinazionali. Un’iniziativa che ovviamente nonsi rivolge solo alle tematiche dell’alimenta-zione, ma più in generale alla ridefinizionedelle dinamiche e delle interazioni tra eco-nomia e politica».Un’ultima domanda: come fare a spiega-re ai propri bambini che non c’è mai sta-to tanto cibo al mondo, eppure non c’èmai stata tanta gente che muore di fame?«Bisogna cercare di spiegarlo in una manieramolto semplice: nel mondo di oggi il cibo,per poter essere mangiato, ha bisogno diessere comprato e venduto, perché le per-sone che possono vivere in autosussisten-za coltivando il proprio campo sono sempremeno (un po’ perché sono sempre più, comeabbiamo visto prima, quelli che vengonoespropriati a favore delle grosse coltivazio-ni; un po’ perché sono ben pochi quelli il cuiorto rende a sufficienza da sfamare l’interafamiglia e al contempo procurarsi tutto il re-sto che serve per vivere, dai vestiti al dena-ro per i servizi fondamentali). Tutto il restodel cibo è in mano ad aziende enormi checomprano il cibo a bassissimo prezzo da chilo produce e lo rivendono ad altissimo prez-zo a chi se lo può permettere. Chi è fuori daquesti circuiti, semplicemente, non man-gia».•

Guido Viale

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28 febbraio 2014

dossier

Il deterioramento delclima provoca ilpeggioramento deiraccolti di cereali comegrano, riso e mais chealimentano Asia e Africa

di Achille Rossi

Colloquio con Riccardo Petrella, professore emerito dieconomia all’università di Lovanio in Belgio

CLIMA E FAME NEL MONDOLE DUE FACCE DELLA MEDAGLIA

Gli scienziati cominciano a prevederel’aumento di 2 o 3 gradi di tempera-tura sulla superficie terrestre per ef-fetto del riscaldamento globale. Ba-

sta un piccolo ritocco al termometro per sca-tenare conseguenze devastanti, sull’acqua,sul cibo, sull’agricoltura.Ne parliamo con Riccardo Petrella, uno de-gli economisti più attenti alla situazionemondiale. «Bisogna sottolineare l’incapaci-tà delle classi dirigenti politiche e finanzia-rie di affrontare il cambiamento climatico.Nonostante le ripetute conferenze sul clima,da quella di Stoccolma all’ultima di Varsaviadi qualche settimana fa, i politici non hannoraggiunto nessun accordo».Petrella esprime una forte indignazione per-ché, dopo i soliti rituali e convegni, nessu-no s’impegna ad affrontare questo proble-ma cruciale. «Vorrei proporre al governo ita-liano di mettere al centro una politica cheaffronti il problema del cambiamento clima-tico, approfittando del semestre di presiden-za europea. Si può pensare di intervenirein 50 o 100 anni sulle cause che abbiamoprovocato e cambiare il senso dell’evoluzio-ne».L’economista di Lovanio prende in esa-me la situazione più critica: «Con l’aumen-to della temperatura cresce la quantità d’ac-qua, i ghiacciai si sciolgono, diminuisce ladisponibilità d’acqua per usi umani. Il livellodi innalzamento del mare si verifica in ma-niera più veloce del previsto, come denun-ciano i documenti presentati a Varsavia».Alcuni mesi fa, in seguito a una inondazio-ne, Bangkok è stata sott’acqua per diversigiorni. «Se il livello del mare aumentasse di23 centimetri, nel 2050 Bangkok sarebbesott’acqua per alcune settimane. Se il livel-lo aumentasse di 88 centimetri, sarebbe

completamente sommersa e le autorità do-vrebbero evacuare milioni di persone o uti-lizzare sistemi sofisticati togliendoli all’eco-nomia tailandese».Un’altra conseguenza immediata del disa-stro ecologico è che il Bangladesh scom-parirebbe dalla cartina geografica. «Gli olan-desi hanno investito miliardi e miliardi perrifare il loro sistema di dighe e nei prossimi40 anni riusciranno a difendersi; ilBangladesh invece, che non ha nemmenoun euro, lascerà 180 milioni di persone inuna situazione drammatica, con metà delterritorio già sott’acqua».La quantità e la qualità d’acqua oggi di-sponibile è peggiorata a causa delle inon-dazioni, delle contaminazioni sotterranee delterreno, dai fenomeni estremi. «Cerealicome il grano e il riso si troveranno in situa-zioni critiche e non saranno in grado di ali-mentare le popolazioni umane, perché i suolisaranno inondati e molti prodotti manche-ranno». Petrella pensa che il fenomeno siaccentuerà e i prodotti agricoli non raccoltio che non arriveranno alla distribuzionegiungeranno al 40%. «In tutte le varie fasidella filiera agricola presa in considerazio-ne, più del 50% della produzione si perde.Il 25% dei prodotti agricoli già acquistatisono gettati nella spazzatura senza nem-meno essere utilizzati. Se si scombussola ilsistema agricolo a causa dell’inondazionedei suoli o a causa della siccità sarebbe unvero disastro».Il cambiamento climatico, provocato dal ri-scaldamento dell’atmosfera provocherà pre-cipitazioni più intense e inondazioni in certeregioni, mentre in altre aumenterà il rischiodi lunghi periodi di siccità. «Secondo le pre-visioni più probabili, le regioni del mediter-raneo diventeranno semiaride di qui al 2050e ancora più rapidamente tra il 2050 e il2100. Questo significa che aumenterannoperiodi di siccità e periodi di desertificazione,si verificheranno grandi cambiamenti atmo-sferici e potenti cicloni di notevole intensitàe frequenza».Il deterioramento del clima provoca il peg-gioramento dei grandi raccolti di cerealicome il grano, il riso, il mais, che alimenta-no interi continenti come l’Asia e l’Africa.«L’Africa e l’Asia saranno le due regioni piùpenalizzate dalla carenza di cibo. Il miliar-do che non ha accesso all’alimentazione sitrova proprio là. L’Africa è il continente dovela popolazione aumenterà di un miliardo emezzo e soffrirà di più per essere esclusadalla condivisione delle risorse mondiali».

Petrella insiste nel ricordare che la terra èun bene comune. «L’accaparramento delleterre, il famoso land crabbing, è stato crea-to nel XVII secolo per permettere ai privatidi accrescere il loro capitale. La proprietàdei suoli apparteneva invece alla comunità;solo successivamente si è cominciato in In-ghilterra a recintare le terre e da lì è comin-ciato tutto il disastro che conosciamo».L’economista spiega come si è realizzata inconcreto l’appropriazione del suolo da par-te dei proprietari. «Con la finanziarizzazionedel capitale terriero e con la globalizzazionedei sistemi di produzione dei prodotti agri-coli, si è chiesto alla terra un rendimentoimmediato. La proprietà privata in una logi-ca finanziaria scombussola la funzione del-la terra, che serve a produrre alimenti pergli esseri umani invece che per una piccolaminoranza privilegiata».I cereali di base scarseggiano e provo-cano la micidiale bomba della fame. «Nonsolo non si produce per tutti, ma i dominantirubano la terra perché producono i cerealiper l’alimentazione animale, per far viaggia-re auto e macchinari. È un furto terribile, le-gato all’appropriazione della terra e allamercificazione dei prodotti agricoli. Bisognaristabilire il diritto della terra come bene co-mune». Petrella insiste nell’infrangere laproprietà privata della terra insieme a quel-la dell’acqua, per capovolgere il cambiamen-to climatico. «La gratuità dei prodotti alimen-

Riccardo Petrella

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dossierAlimentazione bene comune

tari di base insostituibili per la salute deveessere assolutamente salvaguardata. Nonsi può continuare a mantenere il prezzo delgrano e del riso in una logica finanziaria alungo termine. Né si può lasciare alle borsedei prodotti agricoli il destino dell’alimenta-zione del mondo. Ne va della salute dellepopolazioni umane, ma anche dell’equilibriodegli ecosistemi».Il riscaldamento globale influisce sulla mor-talità infantile, sulle malattie croniche, sul-l’inquinamento delle acque. «Le falde co-stiere del pianeta diventano sempre più sa-late a causa dell’innalzamento del livello delmare. Si stima che il 60% delle coste italia-ne subiranno problemi di salinizzazione delleacque interne, con gravi ripercussioni sullapesca, sulle condizioni di vita delle popola-zioni costiere, sulle produzioni agricole».•

Così i pesticidi inquinano il mondo

VELENO QUOTIDIANONon esiste una quantitàaccettabile di veleno chepuò essere ingeritaquotidianamente senzaproblemi

di Maurizio Fratta

Un tempo, quando il pane mancava, latentazione di ricorrere, non metaforicamente, ai forconi si faceva grandee le rivolte divampavano. Memorabili,

per la violenza del popolo che si sollevò eper quella degli spagnoli che li represse, imoti avvenuti a Napoli nel giugno del 1585,causati dalla esportazione verso la Spagnadelle riserve di grano e dalla concomitantespeculazione sul prezzo del pane. Oppurequelli dell’11 novembre del 1628, detti an-che tumulto di San Martino, resi celebri dalManzoni con la descrizione dell’assalto alforno delle Grucce. Per non parlare poi del-le quattro giornate del maggio 1898 a Mila-no e del massacro di Bava Beccaris. E qual-che volta, per venire ai nostri giorni, è pure

capitato che, attutita la fame, ci si sia libe-rati anche dal tiranno, come è successo inTunisia con la cacciata di Ben Ali un paio dianni fa. Ma quando la carne è marcia e ivermi abbondano,come nel film di Ejzen-štejn sull’ammutinamento a bordo dellacorazzata Potemkin al tempo dello zar Ni-cola II, o quando i despoti pretendono bef-fardamente che in mancanza di pane ilpopolo si sfami con le brioches, è più pro-babile che dal fuoco insurrezionale, cherapidamente si dilegua, si passi a una rivo-luzione.E di un modo nuovo di pensare e di agi-re proprio a partire da cosa è diventatoil cibo che mangiamo, oggi l’umanità ha,per la sua sopravvivenza, un bisogno es-senziale. In un libro inchiesta Il veleno nelpiatto, i rischi mortali nascosti in quel chemangiamo(1), l’autrice Marie MoniqueRobin, riesaminando il ciclo della produzio-ne alimentare che caratterizza la società oc-cidentale, dimostra, sulla base di autore-voli studi scientifici e di ricercheepidemiologiche, il nesso che c’è tra la pro-

gressione di molte malattie e lapresenza della miriade di mo-lecole chimiche che hanno in-vaso il nostro ambiente quoti-diano. «Parlo dell’incredibileaumento di tumori, malattieneurodegenerative, disturbi del-la riproduzione, diabete e obe-sità che si registrano nei paesi“sviluppati”, al punto che l’Orga-nizzazione Mondiale della Sa-nità parla di epidemia» ha af-fermato la Robin, autrice dell’al-tro bestseller internazionale, Ilmondo secondo Monsanto (en-trambi i lavori sono fruibili comedocumentari sul canale YouTube).Tralasciando l’inquinamentoprodotto dalle onde elettroma-

gnetiche e quello nucleare e concentrando-si sull’uso delle sostanze chimiche che en-trano in contatto con la catena alimentaredal campo del contadino (pesticidi ederbicidi) al piatto del consumatore (additivie plastiche per alimenti) la Robin spiegacome, in poco più di cinquant’anni, 100.000molecole chimiche di sintesi disperse nel-l’ambiente abbiano trasformato il nostro“pane quotidiano” prevalentemente in un“veleno quotidiano”. Certo, alla fine dellaseconda guerra mondiale, la “RivoluzioneVerde” aveva promesso di debellare fame ecarestie: l’agricoltura industriale avrebbepotuto “nutrire il mondo” fornendo alimentiabbondanti e a buon mercato, ma con lameccanizzazione e l’adozione dellaspecializzazione delle colture a danno dellapolicoltura, nelle campagne si incominciò ariversare una quantità sempre maggiore diadditivi e concimi chimici, frutto avvelenatodi una ricerca alla quale un contributo deci-sivo era venuto proprio dall’industria bellica.La Robin, che viene da una famiglia di agri-coltori, ha incominciato la sua inchiesta ram-mentando le malattie mortali – casi di can-cro al fegato, alla prostata, Parkinson – dal-le quali erano stati colpiti molti dei suoi fami-liari.«Come potevamo immaginare che que-sto nuovo modello avrebbe seminato mortee distruzione? Come potevamo immaginareche i pesticidi che la cooperativa agricola civendeva erano prodotti altamente tossici cheavrebbero inquinato l’ambiente e fatto am-malare i contadini?» ricorda appunto il pa-dre della stessa Robin nel primo capitolo dellibro. Un crimine che si è potuto compiereanche perché da tempo le principali indu-strie produttrici di pesticidi (2) hanno fattopassare come medicamenti destinati a pro-teggere le piante e la qualità degli alimenti iveleni che proponevano agli agricoltori. Perfarlo ci si è ben guardati di parlare di pesticidi

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30 febbraio 2014

SONO CIÒCHEMANGIO

di Antonio Guerrini

dossier

Intervista al presidente diSlow Food Roberto Burdese

Veniamo da una societàcontadina in cui i saporilegati al cibo venivanotrasmessi in famiglia

ma con giochi di parole si sono diffusi i ter-mini di prodotti fitosanitari e fitofarmaci.Del resto, quella delle manipolazioni che l’in-dustria della chimica ha esercitato per di-fendere i propri interessi, è una storia co-minciata già molti anni fa. Basti pensare acome buona parte del mondo scientifico sisia messa al servizio dell’industria per so-stenere l’impiego, come additivo antideto-nante nei carburanti, del piombo tetraetileconsiderato la madre di tutti i veleni indu-striali(3), usato fin dagli anni venti e vietatoin Europa soltanto nel 2000. Per non diredella mole di studi truccati per istillare dubbisulla pericolosità del fumo di sigaretta, stu-di che hanno ritardato per decenni ogni pia-no di prevenzione.Ma il salto di qualità della manipolazione èavvenuto da quando negli anni ’60, strumen-talizzando il principio di Paracelso secondoil quale è «solo la dose che fa il veleno», itossicologi hanno adottato la Dga, ovverola “dose giornaliera accettabile” che evite-rebbe di ammalarsi pur ingerendo per tuttala vita i residui di pesticidi, di anabolizzanti,di additivi e di prodotti chimici, contenuti neicibi.L’adozione di un criterio privo di qualsi-asi base scientifica ha reso possibile inpratica una diffusione capillare di una enor-me quantità di sostanze inquinanti con il ri-sultato che oggi carni, pesce, latte e moltialtri alimenti commercializzati dalle grandicatene di distribuzione in Europa presenta-no tracce e residui di diossine e insetticidi.Un intero apparato scientifico e tecnologicoha prodotto così una mole impressionantedi studi densi di parametri e di dati, det-tando norme che avrebbero dovuto tutela-re la pubblica salute ma che sono state con-tinuamente riviste proprio per garantirele industrie interessate nel continuare adimpiegare prodotti tossici nella produzionedegli alimenti. All’arbitrarietà si è aggiuntal’approssimazione, considerando sia laquantità di sostanze chimiche alle quali oggici si espone sia la possibilità che esse pos-sano combinarsi tra loro anche a dosi moltobasse. Come è possibile infatti stabilire conesattezza a quali dosi e con quanti residuichimici non ci sia danno per la salute? Sen-za poi contare che i limiti massimi di residuirintracciabili in ciascun prodotto hanno unimpatto assai differenziato a seconda chesi tratti di adulti o di bambini. Dato quest’ul-timo confermato dall’incremento dei tumori

infantili rilevato da recenti studi su campionidi grandi dimensioni effettuati dall’Iarc (In-ternational Agency for Research on Cancer)e denunciati in Italia dai medici dell’Isde (In-ternational Society of Doctors for the Envi-roment). Criterio che ha permeato un interosistema di regolamentazione basato su entigovernativi o agenzie internazionali che ve-dono in ruoli di primo piano gli esperti e irappresentanti provenienti dalle industrie allequali poi fanno ritorno quando terminano iloro incarichi.Una pratica, quella delle cosiddette portegirevoli, emersa a suo tempo con il casodell’ormone della crescita bovina (r BGH) eben descritta sempre dalla Robin nell’altrosuo libro Il mondo secondo Monsanto: gli“esperti” provenienti dalla multinazionalebloccavano i lavori del comitato che avevail compito di valutare i rischi dell’ormone cheserve ad aumentare la produzione di lattenelle mucche e nel contempo la Monsantomanipolava i dati relativi agli effetti dell’r BGHsulla salute degli animali tentando anche dicorrompere i membri del comitato.Pressioni, manipolazioni, corruzioni lacui radice è stata ben messa in luce dal-lo storico e filosofo Massimo Bontempelliin un saggio pubblicato nel 2007(4). Osser-vando il processo di tecnicizzazione dellavita e in particolare la macchinizzazione deglianimali volta a far crescere la quantità deiloro prodotti scriveva: «La tecnica del Dnaricombinante è stata scoperta nel 1973 nel-le università degli Stati Uniti da StanleyCohen ed Herbert Boyer, e la sua prima pro-duzione è stata, nel 1975, quella finanziatadalla General Electric, di un batterio inge-gnerizzato per degradare idrocarburi galleg-gianti. Dopo che l’Ufficio Brevetti aveva re-spinto la domanda di brevetto di questo bat-terio, prevedendo la normativa soltanto labrevettabilità di materiali fisici, non biologi-ci, nel 1980 una sentenza della Corte Su-prema dichiarava brevettabile il batterio, inquanto più simile a un reagente chimico chea un vivente, e nel 1987 un’altra sentenzadichiarava brevettabile, sulla base dipretestuosi artifizi giuridici, qualsiasi proces-so biologico eccetto quello integrale di uncorpo biologico umano. Le due sentenzedella Corte Suprema degli Stati Uniti del1980 e del 1987 segnano l’adattamento dellasocietà alla sussunzione reale della mate-ria vivente al capitale, che è oggi rappre-sentata dalla mucca artritica, sterile, appe-santita da mammelle ipertrofiche, ma pro-duttrice di una quantità doppia di carne equadrupla di latte rispetto a una mucca nor-male, già creata dall’ingegneria genetica,anche se non ancora utilizzata commercial-mente a causa del suo troppo breve cicloartificiale di vita».•1. Marie Monique Robin Il veleno nel piattoFeltrinelli 20122. I giganti dell’Agrobusiness: Basf Agro,Bayer CropScience, Dow AgroScience, DuPont, Monsanto e Syngenta3. G.Markowitz, D. Rosner Deceit and DenialThe Deadly Politics Of Industrial PollutionUniversity of California Press Berkeley 20024.Massimo Bontempelli Capitalismo,sussunzione e nuove forme della personalitàRiv. Indipendenza 2007

Slow Food Italia nasce 30 anni fa inconcomitanza con l’apertura dei pri-mi Fast Food, «… una coincidenzanon casuale», afferma Roberto

Burdese, attuale giovane presidente dell’as-sociazione da noi intervistato, anche se,aggiunge, «…il movimento stava già na-scendo perché si avvertiva una perdita divalore del cibo e si cominciavano aintravvedere i rischi che ne sarebbero deri-vati».Quali sono questi rischi?«Molteplici: non conosciamo più il cibo chemangiamo, non abbiamo più attenzione allasua origine e al modo in cui viene prodotto,non valutiamo le conseguenze sulla nostrasalute, sull’ambiente, sull’economia, sullasocietà. La spinta decisiva alla nascita diSlow Food è venuta dallo scandalo del vinoall’etanolo nel 1986 - che è forse l’esempli-ficazione più clamorosa di quello che puòsuccedere se perdiamo la capacità di rico-noscere gli alimenti di qualità -. Il vino adul-terato con alcol metilico provocò la mortedi 20 persone. Ci convincemmo, allora, chesi doveva scuotere le coscienze, promuo-vere una attività di educazione e ricostruireuna presenza capillare sul territorio».Dopo 30 anni di attività quale bilanciopotete trarre?«Oggi la gente conosce molto meno il cibodi quanto non era a metà degli anni 80. Illavoro di Slow Food, e di altri, è servito afar capire il valore dei patrimoni legati allaalimentazione che non possiamo perdere,perché ciò che siamo dipende in buonaparte da quello che mangiamo. Questa com-prensione è cresciuta, anche se mancaancora un adeguato cambiamento. Certa-mente abbiamo contribuito a ricostruirefiliere, a ridare centralità ai mercati locali edignità agli agricoltori. È ancora poco e non

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febbraio 2014 31

LIBRI a cura di Simone CumboAlimentazione bene comune dossier

basta, ma forse se non c’eravamo noi, tuttoquesto non sarebbe avvenuto».Quali sono le cause specifiche di questaperdita di conoscenze del cibo e di tuttociò che ne è connesso?«Noi veniamo da una società contadina incui i saperi legati al cibo venivano trasmes-si in famiglia: i bambini li apprendevano dallenonne, in casa s’imparava a conoscere ilcibo, le donne a cucinarlo e gli uomini adapprezzarne le qualità. In parte ne erava-mo anche produttori. Questa cultura ha re-sistito per millenni fino all’inizio del ’900. Nelsecondo dopoguerra il modello sociale èradicalmente mutato, sono cambiati stili divita e anche quelli alimentari. Oggi la dispo-nibilità di cibo dipende esclusivamente daisoldi. Con essi possiamo disporne a qualsi-asi ora del giorno e della notte: nella valuta-zione non entrano altri fattori. Per cui è piùimportante sapere dove spendiamo di menoche conoscerne la provenienza e le moda-lità di produzione di ciò che acquistiamo».Eppure il cibo ha sempre avuto altri si-gnificati.In tutte le culture del pianeta, nelle religioni,

ma anche nelle culture pagane il cibo hauna dimensione di sacralità, un valore in-trinseco. Il cibo è vita, è cultura, entra nellesimbologie, eccetera».L’esposizione universale del 2015 ha pertitolo «Nutrire il pianeta. Energia per lavita». Cosa si aspetta da questo appun-tamento?«L’Expo affronta il tema del futuro. Da essodipende la nostra capacità di contenere ilcambiamento climatico in atto e di ridurre ledisuguaglianze. Basta pensare che 845 mi-lioni di persone soffrono di fame, mentre cisono un miliardo e 600 milioni di obesi osovrappeso; ma nello stesso tempo spre-chiamo un miliardo e 300 milioni di tonnel-late di cibo ogni anno. Esso basterebbe asfamare tutti quelli che hanno fame ora e inove miliardi di persone che popoleranno ilpianeta nel 2050. Il cibo è una cartina di tor-nasole: ci aiuta a vedere l’assurdo ma an-che a misurare le possibili soluzioni».La difficoltà di accesso al cibo per moltepopolazioni rimane uno degli aspetti piùinquietanti del mondo contemporaneo.Come mai non si riesce a risolvere que-sto problema?«I fattori sono molti: distribuzione non equi-librata della ricchezza, nuove forme dicolonialismo, la finanza speculativa. Unadelle grandi piaghe dell’Africa è l’accapar-ramento di terreni fertili da parte di governie multinazionali dei paesi ricchi e in via disviluppo. La Cina è uno dei grandi respon-sabili di questa espropriazione. Si tratta diterre che vengono tolte alle comunità localiper la propria sussistenza alimentare edentrano in meccanismi di finanziamento dicui noi siamo complici, perché le bancheutilizzano anche i nostri risparmi per questiinvestimenti speculativi».Filiere corte e prodotti di nicchia posso-no costituire una alternativa alla grandedistribuzione alimentare?«La grande distribuzione non è di per sé ilnemico. Con essa bisogna cercare di co-struire alleanze per farla diventare un sog-

getto virtuoso. In questosettore peraltro qualcosa simuove, si registra una ten-denza ad accorciare lafiliera, a dare visibilità ai pro-duttori e una maggiore at-tenzione all’origine dellematerie prime. Su un altroversante la creazione digruppi di acquisto, di mer-cati contadini, la crescita direti tra produttori e consu-matori, di agicoltori biologi-ci, biodinamici sono glianticorpi che tendono amanifestarsi a dimostrazio-ne che l’organismo sta rea-gendo. Queste nuove formeproduttive più che compete-re possono interagire colsistema della grande distri-buzione».La biodiversità è un altroelemento messo seria-mente a rischio da questosistema malato?

«La perdita della biodiversità è la cosa piùgrave che possa succedere. Essa è unaspecie di banca che consente di disporre ditante opzioni alimentari e vegetali, di molte-plici razze animali, di prodotti e saperi, unaassicurazione del sistema produttivo su sestesso insomma. Se una varietà di patate,come è successo in Irlanda a metà dell’800,prende una malattia e ce ne sono altre 3.300a disposizione, nell’insieme si riesce a tro-vare quella capace di resistere al contagioe a salvare i raccolti. Essa offre anche lapossibilità di preservare i territori e l’ambien-te con colture adattabili che non necessita-no di supporto chimico. L’uomo ha pratica-to la biodiversità per migliaia di anni, ma nel-l’ultimo secolo abbiamo invertito rotta arri-vando a perdere molte più specie di quelleche riusciamo a preservare e/o costruire.Basti pensare che, oggi, 5 varietà di melecommerciali, coprono l’80% del consumo sulpianeta. I loro semi sono patentati e di pro-prietà di qualche grande azienda, o multi-nazionale, non appartengono più agli agri-coltori, i quali, al termine del ciclo produtti-vo, devono riconsegnare il prodotto a chi gliha venduto i semi. Questa è una follia, nonè più agricoltura».Terra madre è un vostro progetto. Puòspiegare di cosa si tratta?«È una rete di comunità del cibo al cui inter-no ci sono produttori, cuochi, educatori, cu-stodi della memoria locale, delle tradizionimusicali e orali, soggetti riuniti in comunitàla cui identità è in parte dovuta al loro cibo.Questo network unisce 150 paesi e ha con-sentito a nuclei di persone di sentirsi partedi un movimento planetario e di scoprire chetante altre comunità sparse nel mondo fa-cevano il loro stesso mestiere».Una battaglia come la vostra non puòprescindere dalla politica. Come è lo sta-to dei rapporti con essa?«Purtroppo per la politica l’agricoltura e l’ali-mentazione rimangono al fondo della loroattenzione e dei loro interessi. Negli ultimi 5

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Roberto Burdese

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32 febbraio 2014

di Rodrigo A. Rivas

La fame in America Latina e altre questioniLa fame in America Latina e altre questioniLa fame in America Latina e altre questioniLa fame in America Latina e altre questioniLa fame in America Latina e altre questioni

ORDINE CANNIBALE

dossier

anni abbiamo cambiato 5 ministri all’agricol-tura, e adesso siamo di nuovo senza. Nellaformazione dei governi è l’ultima poltronache viene assegnata. Quando un politicoesalta il cibo made in Italy, lo fa senza ren-dersi conto che consumiamo ogni anno mi-lioni di mq di terreno fertile da cui dovreb-bero nascere i prodotti del made in Italy. Manon è solo un problema italiano. Il 40% delbilancio europeo è destinato all’agricoltura,eppure quando in Europa si discute di cibolo si fa quasi sempre su sollecitazione dellagrande industria e delle multinazionali, ra-ramente in difesa delle piccole comunità lo-cali. Manca una riflessione strategica, unavisione di lungo termine, un’idea di futuroche partendo dal cibo e dall’agricoltura pos-sa andare oltre. Il panorama è deludente.Ciò non di meno non si deve rinunciare aldialogo e all’ascolto, perché i decisori politi-ci hanno in mano alcuni strumenti per il cam-biamento che auspichiamo».•

Il suo predominio non è un’opinione, maun fatto voluto, pianificato e mantenutoa ogni costo. E per modificarlo occorrecambiare sistema, ripensare a un proget-

to di democrazia in cui banca pubblica e benicomuni, dall’acqua alla cultura, ne costitui-scano il fulcro.1. Perché, secondo la banca Credit Suis-se, la ricchezza mondiale si è incrementatadel 68% negli ultimi 10 anni, ossia - in me-dia - di 51.600 dollari per ogni adulto viven-te sulla terra e perché, secondo la Fao, l’at-tuale produzione di alimenti basterebbe pernutrire 12 miliardi di persone in un pianetaabitato da 7 miliardi..., quale spiegazionerazionale per i 3,1 milioni di bambini mortidi fame ogni anno e per il fatto che una ogniotto persone subisca la fame?2. “Elementare, Watson”: oltre 1.300 mi-lioni di persone vivono con meno di un dol-laro al giorno – in paesi dove l’inesistenzadi servizi gratuiti rende ancora più onerosaquesta situazione – e quasi 3 miliardi conmeno di 2, mentre 100 multimiliardari pos-siedono 2,1 bilioni di dollari – 200 miliardi inpiù di quanto avevano nel 2012 – cuccan-dosi il 2,9% del Pil universale. Qualunquetonalità di rosa si adoperi per giustificarel’ingiustificabile, dimostra che il capitalismofunziona solo per soddisfare la estrema vo-racità di una sparuta minoranza. Dimostra,anche, che il nostro problema principale nonè l’estrema povertà, ma l’estrema ricchez-za. E non solo nei paesi poveri.3. Parlando di dazi doganali, controllodelle coltivazioni degli altri, speculazione…,Jean Ziegler, ex relatore dell’Onu per l’ali-

mentazione e attuale membro del ComitatoConsultivo dell’Onu per i diritti umani, so-stiene: «Una rete di crimine organizzato èresponsabile della diffusione universaledella fame e dei conseguenti assassii dimassa. Viviamo in un ordine cannibale. Ilmercato alimentare è controllato da unadecina di multinazionali che controllanol’85% di mais, riso, olio... Questi padroni delmondo decidono chi deve morire e/o vive-re».4. Adoperando meccanismi neocolonia-listi, le grandi potenze e gli organismi inter-nazionali impongono politiche e misure eco-nomiche contrarie agli interessi delle popo-lazioni e favorevoli alle multinazionali, eaccerchiano coltivazioni e industrie localitramite Trattati di Stabilità, Accordi Transpa-cifici e Cia cantante. L’oggetto delle loroamorevoli cure, le multinazionali, è integra-to da una élite talmente piccola che potreb-be viaggiare comodamente in una carrozzaferroviaria. Nessuna esagerazione, poiché85 uomini (soltanto uomini, in senso stret-to) accumulano tanta ricchezza quanto lametà della popolazione del pianeta.5. A questo scopo, padroni e complici,signori e aedi, Ali Babà e i 40 ladroni, ma-nipolano le regole politiche in detrimento delresto dei viventi (in buona parte “malviven-ti”, “sub-viventi” o “quasi morti”, comunqueesuberi). Perché lo spettacolo ha sostituitoda tempo la politica, per evitare che questarealtà diventi troppo evidente, “politica” e“media” evitano di parlarne. Come a dire cheper evitare pericolosi legami logici tra laElectrolux e la condizione degli italiani, for-se anche perché è più divertente e profi-cuo, ci si intrattiene in interminabili dibattitisugli amori di François Hollande o sulla stra-da più veloce per ritornare al migliore dei

mondi possibili. Strada che, oggi, in Italia,appare incarnata nella trinità Renzi-Letta-Berlusconi, nuova versione della più appas-sionante “liscia, gassata o Ferrarelle”?6. Per evitare di essere accusata di ten-tazioni ugualitarie, l’opposizione light ado-pera sempre giustificazioni non richieste. Adesempio, in un recente – e peraltro ottimo –rapporto presentato a Davos (gennaio2014), Oxfam afferma: «Un certo grado didisuguaglianza economica è fondamentaleper stimolare il progresso e la crescita, perricompensare le persone con talento che sisono sforzate per sviluppare le loro abilità esono dotate dall’ambizione necessaria perinnovare e assumere rischi imprenditoria-li». Probabilmente le dosi di acqua bene-detta non bastano a tranquillizzare lor signo-ri. Per loro, il “migliore dei mondi possibili” èproprio questo, quello in cui quasi la metàdel patrimonio è in mano all’1% dell’umani-tà, 7 ogni 10 terricoli vivono in paesi dove lainiquità economica è aumentata negli ultimi30 anni, 842 milioni patiscono la fame cro-nica nonostante nel 2013 la raccolta di ce-reali sia arrivata a 2.550 milioni di tonnella-te (8,4% più che nel 2012 e 6% più che nel2011), il 30% della popolazione consuma il60% della produzione (ma, forse perchéquando è troppo è troppo, destina ogni anno1.300 milioni di tonnellate di cibo in perfettostato ai roditori. Con pudicizia lo si chiama“spreco alimentare”)…7. Il predominio dell’ordine cannibale nonè una opinione, ma un fatto, voluto, pianifi-

Siamo davanti a unatremenda concentrazionedella terra. I quattro paesidel Mercosur (Argentina,Brasile, Uruguay,Paraguay) raggruppano lametà del commerciomondiale di soia

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dossierAlimentazione bene comune

cato e mantenuto a ogni costo. Modificarlopresuppone cambiare sistema, ripensare aun progetto di democrazia senza fine in cuila banca pubblica (non necessariamentestatale) e i beni comuni (dall’acqua alla cul-tura) costituiscano il fulcro attorno al qualeriannodare politiche ambientali e politichesociali, il terreno adatto su cui tentare disuperare la separazione – sempre patitadalla sinistra e dall’ambientalismo – tra azio-ne per la salvaguardia della natura e difesadelle condizioni di esistenza delle popola-zioni umane, consentendo una visione d’in-sieme del carattere sociale e naturale, in-trinsecamente unitario, dell’essere umano,delle relazioni esistenti tra genere umano eil vivente tutto, da ogni punto di vista: filoso-fico e scientifico (natura e cultura), econo-mico e sociale (sostenibilità ed equità), giu-ridico e politico (regolazione della accessi-bilità e giustizia), storico.8. Fatta questa sommaria ricapitolazione,cerco di dire un paio di cose non tropposcontate sulla fame in America Latina. Laprima è che la fame rappresenta un’aberra-zione per un continente con pochi abitanti,tanta ricchezza naturale e una grande pro-duzione alimentare. Secondo la Fao (2011),perché la regione produce più alimenti diquanti sarebbero necessari, la fame è soloquestione di povertà. Esporta cereali (gra-no, mais) e carne, ma gli affamati non dimi-nuiscono (erano 53 milioni, come 20 anniprima). Due anni dopo (dicembre 2013),sempre secondo la Fao gli affamati eranolievemente diminuiti (50 milioni), ma eracomparso un’altro flagello: «Grazie allamalnutrizione, l’obesità colpisce il 23% de-gli adulti e il 7% dei bambini, e si allargacome una pandemia. È un grave problemadi salute pubblica che si lega strettamenteall’aumento delle malattie croniche nontrasmissibili (malattie cardiovascolari, dia-bete, cancro, malattie respiratorie), respon-sabili del 63% della mortalità mondiale».Indigeni e afroamericani sono il 48% dellapopolazione latinoamericana ma il 70% deipoveri (Banca Interamericana di sviluppo,BID, 2013). L’Oit (Organización Internacio-nal del Trabajo – Organizzazione interna-zionale del lavoro) aggiunge: «Le donneguadagnano in generale il 10-12% menodegli uomini per lo stesso lavoro, le indige-ne e afroamericane il 40%». Quindi, il qua-dro sostanziale dei poveri, quindi degli affa-

mati, è servito. Non è questione di soldi man-canti poiché, secondo la Banca Mondiale,nel 2012 i 14.150 latinoamericani con un pa-trimonio superiore ai 30 milioni di dollari ac-cumulavano 2.110 miliardi di dollari su unPil regionale complessivo di 5.348 miliardi.Ovvero, lo 0,00236% della popolazione(14.150 miliardari su 600 milioni di abitanti),accumulava il 39,5% del Pil regionale. E sitratta solo di una media, poiché nel Nicara-gua 200 persone accumulavano 27 miliardidi dollari (256% del Pil), in Honduras, 215persone 30 miliardi (176% del Pil), in Boli-via, 205 persone 25 miliardi (92% del Pil)...Cosa si fa con tanti soldi? Ad esempio, se-condo la britannica Tax Justice Network(Tjn), tra 1970-2010 i ricchi latinoamericanihanno depositato 2.058 miliardi di dollari neiparadisi fiscali: i brasiliani 519,5 miliardi, imessicani 417,5 miliardi, venezuelani 405miliardi, argentini 399,1 miliardi, i ricchi de-gli altri 29 paesi 316,4 miliardi. La cifra com-plessiva supera di oltre 2 volte il debito este-ro della regione (1.010 miliardi), che costrin-ge la popolazione a stringersi la cintura “per-ché siamo tutti sulla stessa barca”. Supera,in tutti i casi, il debito estero dei rispettivipaesi: Brasile 324,5 miliardi di dollari di de-bito, Messico 186,4 miliardi, Argentina 129,6miliardi, Venezuela 55,7 miliardi, gli altri 29paesi 317,3 miliardi. Ci sarà qualche rap-porto tra questo fenomeno e la fame e/o lachiacchierata crisi dei paesi emergenti?9. Nello studio “El acaparamiento de tier-ras en América Latina y el Caribe” (aprile2012), sui 4 paesi del Mercosur - Argenti-na, Brasile, Paraguay e Uruguay, grandiproduttori di alimenti - la Fao avverte: «Sia-mo davanti a un tremendo processo di con-centrazione della terra» (ad esempio nel-l’Uruguay, con una superficie coltivabile di16 milioni di ettari, negli ultimi 10 anni nesono state vendute 6,3 milioni, per l’83% astranieri). Producono cibo o altri vegetalidestinati alla produzione di biocombustibili,sviluppi turistici e minerari (a livello mondia-le, sui 71 milioni di ettari venduti nel 2010, il58% è stato destinato a vegetali per biocom-bustibili, il 22% ai settori minerario, turismo,industria e foreste per carta e soltanto il 20%per produrre alimenti). C’entrerà qualcosacon la fame?E perché la popolazione è povera? Beh,anzitutto per mancanza di un lavoro digni-toso. Ad esempio, i 4 paesi del Mercosurconcentrano la metà del commercio mon-diale di soia, tutta fatta con sementi Ogm.Ma questa produzione, oltre a espellere leproduzioni destinate al consumo delle po-

Nutrire il pianeta senza devastarlo. Enutrire gli animali riprendendo l’alleva-mento tradizionale, quando i contadini

erano attenti a proteggere i pascoli dall’ec-cesso di deiezioni e quando gli animali sialimentavano con mangimi naturali e conquanto il bosco e il campo coltivato erano ingrado di offrire.Nel mondo più del 70% del cibo provienedalla “agricoltura contadina” (dati Fao 2013)e nuove leve di agricoltori si preoccupano diprodurre cibo salvaguardando il suolo. AMigianella, sulla collina nei pressi diUmbertide, tra la valle del Tevere e quelladel Niccone, Leonardo, Fabio e Luca hannomesso su una società, Semi Bradi. Allevanoanimali e coltivano terreni presi in affittointorno ai due casali dove sono andati avivere con le famiglie. «Pratichiamoun’agricoltura caratterizzata da un bassoinvestimento di capitali e da una bassissimameccanizzazione, rispettando natura eanimali senza ricorrere a concimi chimici e adiserbanti», ci tengono a far sapere.«Abbiamo un grande orto comune in cui lamaggior parte delle piantine sonoautoriprodotte, un vecchio uliveto e dueettari di terra che prepariamo per la seminadei cereali. Il resto è bosco ceduo e pascolo.Alleviamo capre, da cui provengono i nostriformaggi, e maiali allo stato brado. E poigalline, anatre, oche e pure due famiglie diapi» si legge sul loro sito(www.semibradi.it).Collegati al movimento di resistenzecontadine Genuino Contadino, vendonocarne, miele e formaggi autocertificando iloro prodotti in associazione con i contadinie gli artigiani di Terra Fuori Mercato,presente a Perugia Ponte San Giovanni neipressi del Cva il terzo sabato di ogni mese.Nel paese dei veleni, nell’Umbria degliscandali legati allo smaltimento delledeiezioni dei maiali allevati per conto terzi edella eutrofizzazione delle acque di falda elacustri, una sfida da incoraggiare.

polazioni locali, non richiede lavoratori (nebasta 1 ogni 500 ettari). Viceversa, il loro“sistema di semina diretta” si fonda su grandiquantitativi di glifosfato, un erbicida che pro-voca gravi danni alle persone e all’ecosi-stema e che, secondo la Fao, «a lunga sca-denza diminuisce la produttività, aumenta ilcattivo uso dell’acqua e favorisce l’erosio-ne». E, va da sé, la maggior parte della ter-ra dedicata a queste coltivazioni in Argenti-na, Brasile, Paraguay e Uruguay è in manoa multinazionali come Monsanto e Syngen-ta. E agli speculatori non interessano la ter-ra, l’ambiente o la popolazione. Quando larisorsa terra si esaurisce, loro semplicemen-te traslocano.10. Me ne rendo conto che il discorso èsolo accennato ma, per parlare di canniba-lismo, mi sembra avanzi. Per superarlo,mancano invece ragionamenti e volontà.•

SEMI BRADIL’esperienza di Umbertide

M.F.

20-37 feb 2014.pmd 14/02/2014, 16.1233