2. quei bei vizi di una volta repubblica 2008
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Corso SALIGIA ovvero i 7 vizi capitali XIV anno accademico 2014
Quei bei vizi di una volta Dove sono finiti i peccati e i peccatori? In televisione, naturalmente, trasformati i primi in nuove
simpatiche virtù, i secondi in amabili maestri del nuovo galateo, della nuova morale. Per questo forse ci
sono parole scivolate via, che non viene più in mente di pronunciare perché obsolete, irragionevoli:
peccato e vizio, certo, poi di riflesso anche colpa, rimorso, vergogna, penitenza, punizione, espiazione,
non hanno più senso né spazio dove è obbligatorio il sorriso, dove per suggerimento governativo, dovrà
spadroneggiare il solo ottimismo, rappresentato dalla rissa continua, e guai a raccontare la realtà, a
suscitare cattivi pensieri, inquietudini, neri presentimenti. I sette peccati capitali, privati dalla loro
terribile sacralità, fanno audience, generano gossip e consenso, alimentano ogni mercato, ispirano
deliri pubblicitari. In televisione, l' ira mimata dei naufraghi dell' Isola dei Famosi provoca i migliori
ascolti, usata da ministri paonazzi e villani diventa un must di Blob e dilaga su You Tube; il fatto poi che
la parola "ira" sia composta da sole tre lettere, la rende preziosa nella titolazione dei giornali, per cui
anche un semplice "disaccordo" (dieci lettere!) diventa ira, creando l' immagine di un mondo nuovo e
vincente dove tutti, senza peccare, sono sempre fuori di sé. La lussuria trabocca ovunque, anche in
letteratura, soprattutto nei romanzi autobiografici di signore dai letti particolarmente frequentati; ultima
moda, americana, quella delle autrici addicted, intossicate dal sesso, che cercano invano di
disintossicarsi non per non peccare più ma per la crescente difficoltà a trovare copeccatori disponibili.
La gola trionfa nel mondo occidentale come fosse una nuova religione epocale, degenera nelle malattie
dell' eccesso e del rifiuto, si trasforma nell' avarizia più spietata e punitiva verso i paesi della fame. Così
malridotti, avviliti, sfuocati, dimenticati, i peccati si rifugiano ancora una volta, come capita ciclicamente,
in quel fortino estraneo e minacciato che è la cultura, dove ricuperano tutta la loro dignità e grandezza,
più laica che religiosa, trasformandosi in letteratura, arte, filosofia, sociologia, storia e scienza. Escono
adesso i primi tre libri dei sette che il Mulino dedica ai vizi capitali, affidati dal curatore Carlo Galli a sei
filosofi e a un economista, tutti di ironica e dotta semplicità ed eleganza: Laura Bazzicalupo e la
Superbia (Mulino, pagg. 168, euro 12), Francesca Rigotti e la Gola (Mulino, pagg. 136, euro 12), Sergio
Benvenuto e l' Accidia (Mulino, pagg. 194, euro 12). Tra qualche mese Stefano Zamagni e l' Avarizia,
Giulio Gioriello e la Lussuria, Remo Bodei e l' Ira, Elena Pulcini e l' Invidia, completeranno l' universo
della colpa, il regno funesto dell' immoralità, così come lo immaginavano il mondo greco e poi giudaico-
cristiano, raccontando come si è trasformato nei secoli, evocando i suoi demoni e i suoi eroi, scivolando
sino alle nebbiose perversioni dell' oggi. Gli autori, dice Galli, docente di storia delle dottrine politiche,
"cercano risposte", (ammesso che qualcuno oltre gli studiosi stessi, si ponga domande, o meglio quiz,
sull' argomento), e riscoprono i vizi capitali «come passioni permanenti dell' uomo, come espressione
della sua possibilità di scegliere tra bene e male». E per esempio la Superbia, radice e regina di tutti i
peccati secondo Sant' Agostino e San Tommaso, non è più, racconta Bazzicalupo, quella del bellissimo
angelo Lucifero che si credeva pari a Dio, né la hybris degli eroi greci, né la vanagloria dei Luigi di
Francia né il superuomo di Nietzsche. Parola quasi dimenticata, la superbia punita da Dio è diventata l'
inutile tracotanza, l' insignificante presunzione, il crudele abuso, il volgare disprezzo, il ridicolo delirio di
onnipotenza, il vacuo narcisismo, sopraffazione, ingiustizia, razzismo. O anche solo arroganza,
interpretata, secondo Bazzicalupo, dal personaggio politico ricco, di aspetto mediocre e non
particolarmente colto: «Ha fantasie di illimitato successo, si considera speciale, unico. Non teme di fare
gaffe o errori, perché uno stuolo di adulatori è pronto ad accogliere le sue parole come decisive. E
questo gli piace. Pretende che tutto gli sia dovuto, di non dover sottostare alle regole, alle "Leggi uguali
per tutti"». Ci si può chiedere come mai se i peccati capitali sono diventati obsoleti, si continua a
evocarli, per nostalgia o perché nel loro intoccato mistero, consentono ogni interpretazione e sfogo, e
manifesto. Solo due anni fa l' editore Cortina ha pubblicato sette volumetti, ognuno per peccato, di
autori anglosassoni, nel 2003 da Feltrinelli è uscito di Umberto Galimberti I sette vizi capitali e i nuovi
vizi, già pubblicati come articoli su Repubblica; il cinema si è dedicato ai peccati capitali sin dai tempi di
Francesca Bertini, c' è il manga Full Alchemist in cui degli esseri chiamati homunculus rappresentano i
Corso SALIGIA ovvero i 7 vizi capitali XIV anno accademico 2014
sette peccati capitali, nel 2003 la Algida mise in commercio una serie limitata di gelati dedicati ai sette
peccati, uno psicotest su Internet aiuta a decifrare «di quale città del peccato potresti diventare cittadino
onorario?». L' eremita Evagrio e il suo discepolo Cassiano, sperduti nel deserto egiziano, avevano
deciso che i peccati capitali erano otto, poi nella seconda metà del VI secolo Gregorio Magno papa e
padre della chiesa, pensò cristianamente che il numero sette fosse più consono alla fede, e tra l'
accidia (acedia) e la tristezza (tristizia) buttò via la prima, poi ricuperata definitivamente in sostituzione
della seconda, nel XII secolo. Ci fosse oggi un eremita Evagrio o una mistica Hildegarda von Bingen a
formulare e studiare i peccati contemporanei, li cambierebbero, o ne aggiungerebbero di nuovi: la
povertà, la vecchiaia, la malattia, la bruttezza, ogni sorta di diversità, tutto ciò che offende la mistica
visione mercantile del successo anche solo virtuale. Peccati senza riscatto né assoluzione, mentre tra
quelli antichi, solo uno resiste come tale, perché inconciliabile con l' esibizionismo della felicità: l'
accidia, passata dal confessionale allo studio dello psichiatra, diventata disturbo del comportamento,
indifferenza, angoscia, noia, stanchezza cronica, sino all' abisso della depressione. Benvenuto traccia i
sentieri dei mali dell' anima ricordando l' ascesi del monaco medioevale, lo spleen del dandy
Baudelaire, la malinconia romantica di Leopardi, la noia di vivere di Oblomov, gli anti-eroi di Cechov, l'
angoscia esistenzialista di Heidegger, Sartre, Camus, la lessness, (intraducibile, sostantivando "meno",
forse "menoità"?) di Beckett e ne elenca le cure, dalla borrana e dall' elleboro all' elettroshock e agli
antidepressivi. L' accidia che diventa ciò che oggi gli psichiatri chiamano "depressione maggiore" è
legata all' enorme sforzo di esistere nel mondo competitivo e spietato di oggi. Scrive l' autore,
psicanalista e filosofo: «Proprio perché questa società ci richiede ambizioni individuali sempre più alte e
narcisistiche, falangi di "perdenti" si dimettono dal Grande Progetto accasciandosi su letti o poltrone...».
La nostra cultura «tra Elogio della malinconia e Gaia denuncia del dolorismo» è ancora divisa su
«come valutare la sofferenza psichica». Come l' accidia, anche la gola interessa oggi più che alla
religione, alla medicina, ai dietologi, agli psicanalisti, ai chirurghi. Gli studiosi si chiedono oggi se si tratti
di un vizio volontario o di una predisposizione genetica, se le due grandi disperazioni del mondo
occidentale riguardo al cibo, il rifiuto, con l' anoressia, o l' eccesso, con l' obesità, riguardino la
tendenza al suicidio oppure il rifiuto del proprio corpo, rendendolo troppo grasso per escluderlo dalla
competizione estetica, o così evanescente da superare il confine della magrezza di moda. Insieme
peccato del corpo e dell' anima, colpa e vergogna, ha un lato virtuoso nel dilagare dei suoi trionfi: il cibo
come ossessione mondana, come business globale, con i cuochi diventati intrattenitori e divi venerati,
con i ristoranti eccentrici e costosi come nuovi paradisi. Con "il vizio che si vede" perché si iscrive nel
corpo, Francesca Rigotti, da studiosa che non pecca di gola, trasporta il lettore alle cene dell' ingordo
Trimalcione e ai digiuni delle mistiche, nelle cucine dei golosi frati medioevali e agli orrendi banchetti di
Polifemo, tra i ghiottoni costretti al digiuno nel Purgatorio di Dante e i menu del commissario
Montalbano, al fast food ma anche allo slow food, con McDonald' s e con il cibo biologico, nella smania
delle diete, delle palestre, dei centri benessere, dei nuovi interventi estetici che scolpiscono il corpo.
Vista la sua complessità, il suo doppio volto di troppo e di troppo poco, di sconfitta e di successo, la
gola può ancora essere considerata un vizio, un peccato capitale, quindi mortale? L' autrice segnala
che nel 2003 i ristoratori di Francia chiesero direttamente al Papa di cancellare un peccato dannoso ai
loro affari. Non ci fu alcuna risposta. Davanti all' epidemia mondiale del sovrappeso, alla globesity, e all'
opposto della fame invincibile dei paesi poveri, sono in tanti a chiedersi se la gola ancora "gridi
vendetta contro Dio", quando sarebbe più sensato «parlare di vizi e peccati contro se stessi, anche
perché i primi a star male, nel caso del vizio della gola, sono proprio i golosi». NATALIA ASPESI
Repubblica 24 novembre 2008