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1976 canzoni occitane al Liceo Artistico di Cuneo

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1976 canzoni occitane al Liceo Artistico di Cuneo

CAPITOLO I

Estate 1976. A maggio il Torino ha vinto lo scudetto, men-tre il Friuli è stato messo in ginocchio dal terremoto. Ne-

gli Stati Uniti e in Inghilterra prende fuoco la miccia del punk.Il Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer è cresciuto nelturno elettorale del 20 e 21 giugno, ma al governo va GiulioAndreotti con un monocolore democristiano e il sostegno del-l’astensione espressa dagli altri partiti, su tutti quello Sociali-sta del neo segretario Bettino Craxi. Il terrorismo miete vittimesu vittime, e la tensione tra neofascisti ed extraparlamentaridi sinistra è alle stelle in tutto il paese.

Un motorino “Boxer” granata sale come può lungo lastrada provinciale 8 della Val Varaita. Provincia di Cuneo, lachiamano la “Granda”, la grande, perché è immensa, non fi-nisce mai. E oggi a Sergio Berardo i quasi 40 chilometri cheseparano la casa di Caraglio, in cui vive con i genitori, dalpaese di Frassino sembrano molti di più. Ha compiuto di-ciotto anni il 18 aprile, e grazie alla Legge 39 dell’8 marzo1975, che ha abbassato la soglia in precedenza fissata a 21anni, è maggiorenne. Ha superato senza lode e senza infa-mia il quarto anno al liceo classico di Cuneo, ma non sonoil greco e il latino a dettare il ritmo del suo apprendimento.Fino a un paio d’anni prima aveva in tasca la tessera della Fe-derazione Giovanile Comunista Italiana, il vivaio del PCI;poi ha deciso di andarsene per entrare nel Movimento Au-tonomista Occitano, che non ammette iscritti legati a for-mazioni politiche nazionali. In quinta ginnasio ne ha creatouna costola al liceo, il Movimento Politico degli StudentiOccitani. Questa però non è neppure giornata per pensarealla politica. Lui sente bruciare nel petto la musica e tuttoquel che le gira intorno: le parole, l’impegno, le persone, lacultura, la festa, la lingua.

Il Boxer sale, mischia il suo ronzio alla voce delle cicale,le scorregge del motore sono schiaffi al profumo del fieno. Ilcarburante del due ruote si chiama miscela, quello che muoveil ragazzo curiosità. Ha saputo che sono arrivati a Frassinoalcuni esponenti del Conservatorio Occitano di Tolosa, la-boratorio di punta in un panorama della musica d’Oc finorasoltanto annusato, sentito raccontare, intuito. I musicistifrancesi sono nel cuneese su invito dello stesso Movimento

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Autonomista, che ha organizzato per loro una piccola tournée nelle valli. Qual-cuno ha telefonato a casa Berardo dalla Val Varaita, e il ragazzo è partito con ilcuore in gola. Il raduno a Frassino si svolge a casa di François Fontan, fondatorenel 1959, sempre a Tolosa, del Partit Nacionalista Occitan. Esule dalla Francia perle sue posizioni secessioniste, risiede ora qui, ed è stato lui, nel 1968, a creare ilMAO cui è iscritto Sergio. Dopo un’ora di viaggio il motorino trova pace all’om-bra di un sambuco, così come i tolosani si godono la frescura post pranzo sotto ilfico che si erge nel cortile della “meira”, la casa rurale vicina al centro del paese.Berardo non ha mangiato, invece; aveva troppa fretta di correre fin qui. È un beltipo, ha i capelli castani lunghi e due occhi blu che fanno girare la testa alle ra-gazze. È sempre il primo a impugnare la chitarra per fare festa o per proporre can-zoni di protesta con il suo compagno d’avventure musicali Dario Anghilante. Nonsi tira indietro se c’è da bere un bicchiere in più o se parte una scazzottata. Ma nonha mai toccato uno strumento tradizionale. Entra nel cortile. Vede una mezza doz-zina di giovani musicisti semi appisolati intorno a un tavolo, una grossa “losa”, pie-tra tondeggiante su cui sono appoggiati gli oggetti destinati a cambiare per sem-pre la sua vita.

Fino a quel momento, il giovane Berardo aveva soltanto potuto fantasticaresugli strumenti tradizionali, provando a immaginarli secondo i racconti dei vec-chi della zona. Andare nelle loro case o alle feste per raccogliere la memoria de-gli anziani era un modo per riallacciare i fili con un passato di cui il boom eco-nomico aveva espropriato i valligiani. Era successo nel dopoguerra, quando lefamiglie avevano deciso di andare in fabbrica per dare ai figli un futuro diverso dallamiseria cronica che nelle valli si tramandava di generazione in generazione. Lo spi-rito con cui giovani occitani si impegnavano in questa operazione di recupero eralo stesso con cui Nuto Revelli si era immerso nel “Mondo dei vinti” delle Langhe.In questo modo si salvavano anche poesie, parole, canzoni, che erano entrate a fareparte del repertorio del duo. Dario e Sergio le portavano nelle piazze, nelle oste-rie, alle feste patronali, mischiandole agli inni di protesta di quegli anni Settantain cui ascoltavano i Dischi del Sole con i loro canzonieri militanti. Anghilante can-tava, lui suonava la chitarra, a volte il flauto dolce. Il diciassettenne di Caraglio eraa conoscenza dell’esistenza di certi strumenti, ma poteva solo immaginarli. An-che per questo motivo quegli oggetti allineati sul tavolo di pietra li porterà negliocchi e nel cuore per tutta la vita come un tatuaggio impresso nella memoria. Ilterremoto di un’iniziazione.

Lì, sotto gli occhi di Sergio, ci sono una cornamusa landese, un frestéu, unflauto di Pan della Camargue, un flauto a tre buchi dei Pirenei, un tamburino acorde, un tamburo a cornice, un violino. Quando alza lo sguardo, incrocia quellodei giovani musicisti. Il look non è proprio da professori di Conservatorio comu-nemente intesi: hanno abbondanti camicioni bianchi fuori dai jeans con sopra ilgilet agricolo del nonno, capelli lunghi, aria esplicitamente hippie. Quelli del Con-servatorio Occitano di Tolosa sono dei fricchettoni, è chiaro. Non stonerebberoaccanto ad Alan Stivell sulla copertina di “Celtic Rock”, l’album che il guru della

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contaminazione pop folk bretone pubblica proprio in quel 1976. Sono una decinad’anni più grandi di Berardo, il ragazzino rompiscatole che ronza loro intorno pre-gandoli di fargli sentire come suonano quelle meraviglie dell’artigianato. Final-mente si scuotono dal torpore e impugnano gli strumenti. Parte il flauto, lo segueun tamburello, si aggiunge il violino, sale in cattedra il tamburo a cornice.

In pochi secondi Sergio entra in una dimensione completamente diversa, fattadi pelle animale, di canna, di legno, di sambuco. In quel suono incontra animali epiante; i ritmi, le melodie che producono vanno a toccare corde che erano rima-ste nascoste chissà dove dentro di lui. È lo spalancarsi di un mondo, la rivelazioneche nel 1992 troverà così ben sintetizzata in un passaggio della canzone “Per quelche vale”, quando Paolo Conte dice: “come l’ho vista, ho detto questa è la mia”.La sensazione di vivere un’esperienza decisiva è immediata, incontrare questaciurma freak in una fase della vita aperta agli stimoli esterni come la gioventù dei18 anni è una fortuna. Quel pomeriggio, nella meira di Fontan, il ragazzo subi-sce un imprinting, come le anatre di Konrad Lorenz che gli corrono dietro in quelfiume che lui, da buon valligiano, ha sempre immaginato ghiacciato.

Anni Settanta. Tempo di esperienze totalizzanti, sensibilità radicale. Tutto su-bito, bene contro male, rosso contro nero; il personale diventa politico, sono dietrol’angolo gli indiani metropolitani. Se si ha la sensazione che una cosa vada fatta, sifa e basta. Senza calcoli, senza freni. Finita la tournée dei francesi nelle vallate su-balpine, Sergio viene indicato da una sorta di Politburo del Movimento Occitanocome la giovane promessa della musica nelle valli destinata a frequentare un corsodi formazione nell’ambito del Festival de Saint-Céré, nel dipartimento del Lot. Nonc’è spazio per i tentennamenti. Accetta al volo, mamma Rosanna e papà Marino con-senzienti. Non ci sono esami di riparazione, hanno fiducia nell’irrequieto figlio unico.Pensano: meglio così che con le cattive compagnie di paese. E tanto non ci sarebbecomunque verso di fermarlo. Al momento di tornare da Frassino a Tolosa, i giovanimusicisti occitani caricano il nuovo amico sulla loro enorme Peugot da migranti. IlBoxer solitario si trasforma allora in bagnarola stipata di persone e strumenti, i 38chilometri della valle diventano 757 lungo il Sud della Francia.

Viaggiarono da mezzanotte a quella del giorno dopo. Sergio approfittò della so-sta a Saint-Tropez, dove gli altri fecero il bagno in mare, per chiudersi in macchinae bombardarsi di acido acetilsalicilico, una delle sue sostanze preferite di sempre. Inbuona compagnia virtuale: il medicinale è citato in opere di Fabrizio De Andrè, Oa-sis e Charles Bukowski, gente che di day after se ne intende come lui.

Il farmaco non fallì neppure quella volta, e dopo una sudata abbondante la serasi presentò a Tolosa sfebbrato. Lo portarono subito a vedere la piazza del Campi-doglio, con la sua grande croce occitana in mezzo, e ciò rafforzò la sua sensazionedi essere entrato in un mito. Era come se tutto quello che aveva fin lì interiorizzatoa livello musicale e culturale prendesse di colpo una direzione univoca. Per quantoconcerne l’Occitania transalpina, l’aveva incontrata attraverso i racconti degli emi-granti e degli stagionali, nelle storie degli acciugai, nell’eco della presenza dei suo-

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natori ambulanti di ghironda. Aveva cominciato a studiare la storia di tutte le ba-toste subite dagli Occitani, dalla crociata del 1209, in seguito alla quale il mito fon-dante di quella cultura divenne, paradossalmente, una battaglia persa; fino allaguerra del vino del 1907, a quella più recente in cui ancora nel 1973 manifestanti epolizia si erano sparati, e alle tante rivolte che da bravo militante del MAO avevaapprofondito con le letture del caso. E poi la poesia, i trovatori, Mistral. Lì a Tolosatutto diventava improvvisamente concreto, con un festival di musica classica capacedi dedicare una sezione alla musica tradizionale, in quel momento in piena esplo-sione nell’area occitana. Erano gli anni del ritorno alla terra, dopo il boom delle città.La Bamboche cantava “Quitte Paris”, “lascia Parigi”, e fiorivano movimenti come“Volèm Viure al Pais”, “Vogliamo vivere in Occitania”.

Lo stesso vale per la musica. Quando arriva a Tolosa, Sergio è un diciottenneche a vario titolo ha macinato un lustro di incontri ravvicinati con strumenti e can-zoni. È nato a Torino nel 1958, presentandosi al mondo come un bambino timidoe gentile. Un’immagine che si infrange al debutto alle scuole elementari: primogiorno di scuola e prima nota disciplinare. Un grattacapo per i genitori, però a benguardare un annuncio di vocazione: la maestra lo punisce perché fischia in classe.Fino alla seconda media il rampollo Berardo divide il suo tempo tra la grande cittàe il piccolo centro: durante l’anno scolastico, la settimana trascorre al popolare quar-tiere Barriera Nizza, nella rumorosa piazza Bengasi; nel weekend e durante le va-canze estive si va a Caraglio. Una vita sospesa, con una frontiera virtuale da oltre-passare di continuo in entrambe le direzioni. Quello delle frontiere, del resto, saràuno stato d’animo ricorrente. Nel transito verso la Francia, da quel Colle di Tendaassurda barriera tra terre di evidente continuità linguistica, sociale, culturale, spiri-tuale. Nel margine su cui muoversi sotto il profilo musicale, tra radici e innovazione.

A proposito di musica, il piccolo Berardo ci si avvicina da bambino, vedendosuonare lo zio Oreste. Quando canta la canzone dello spazzacamino, il ragazzino sicommuove e frigna. Non è tuttavia abbastanza per scatenare la passione, anzi: allemedie, al momento di scegliere tra musica, applicazioni tecniche e latino sceglie que-st’ultima materia. Con grande soddisfazione della famiglia: è un bambino intelli-gente e potrà fare le scuole dei signori. Incassato il via libera per il latino, i suoi lopremiano iscrivendolo anche a un corso di chitarra; l’idea viene a un collega di suopadre, che lo accompagna in auto alle lezioni di solfeggio e strumento organizzatedalla FIAT, l’azienda dove lavora il babbo. Comincia però a farsi avanti la pubertà:di quell’esperienza si impigliano nella memoria precocemente blues del piccolo Be-rardo soprattutto le gambe della fascinosa insegnante e le puttane lungo i viali cheportano a Corso Dante, dove avviene il suo battesimo di studente di musica e ap-prende quel poco che basta per portare d’estate la chitarra a Caraglio e usarla per ac-compagnare la voce.

In quello scenario rurale estivo, il bambino in libera uscita dalle medie viene acontatto con una realtà destinata a segnare la sua sensibilità. È l’incontro con i pel-

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legrini. Un lontano parente di sua madre, rettore del Santuario di san Magno nel co-mune di Castelmagno, in Val Grana, ha in gestione anche il bar e un piccolo spor-tello per la vendita di santini e souvenir religiosi di cui si occupano le sorelle. Nelperiodo estivo, Sergio dà una mano e si offre anche di accompagnare i gruppi di tu-risti in piccole visite guidate alla Cappella Allemandi e alla parte vecchia della strut-tura. Il Santuario lo affascina, costruito tra il 1704 e il 1716 è carico di storia, e nellaCappella conserva affreschi della seconda metà del quindicesimo secolo. Dietro lacostruzione, è stata rinvenuta addirittura un’ara di Marte. Dio della Guerra, ma an-che protettore del bestiame. Per estensione, dei Martiri della Legione Tebea, por-tatori della croce lobata che è antenata di quella occitana e in seguito sterminati daiRomani in Svizzera. Con l’avvento del Cristianesimo, nel ruolo di protezione delbestiame Marte ha lasciato spazio ai santi del settore: san Magno, san Dalmazzo,san Pancrazio, san Ponzio. Il povero san Magno in realtà era stato aggregato ai guer-rieri della Legione Tebea senza aver mai preso un’arma in mano da vivo. Ma neiprocedimenti di sincretismo, come accade nel candomblè brasiliano o nella San-teria Cubana, non c’è tempo per questi dettagli. E lui per tutti è il guerriero che pro-tegge. Al punto che quando, negli anni Novanta, la statua verrà trafugata e il prioredeciderà di ristabilire la verità storica sostituendola con quella di un monaco, inomaggio al pacifico san Magno, nelle valli sarà rivolta: gli allevatori non porterannopiù il bestiame alla benedizione e gli abitanti rifiuteranno di andare in processionecon un santo disarmato. L’attrito finirà con l’allontanamento del priore, il ritrova-mento della statua e l’equa spartizione della leadership, con il guerriero e il monacoaffiancati.

In un clima così accalorato e spinto sulla soglia della superstizione, il ragazzinoBerardo spera in qualche mancetta. E intanto si immerge nella prima realtà co-smopolita della sua vita, quell’andirivieni di turisti provenienti da ogni parte; al dilà dell’aspetto spirituale, i visitatori vivono la permanenza lì come una vacanza. Ar-rivano da tutta la provincia, dalla pianura e dalle altre valli; chi in auto, chi in cor-riera, altri con i carri bestiame trasformati per l’occasione in camper approssima-tivi. Si fanno grigliate, si tagliano salami, si banchetta di continuo. Tutti insieme,giovani e anziani. Il momento di massima condivisione, come spesso accade in que-sti casi, è il canto, aiutato da abbondanti bevute di vino portato fin lì in canestrida sei bottiglioni ciascuno, tenuti insieme con il filo di ferro. Le prime nozioni dichitarra e lo strumento sempre a portata di mano trasformano il piccolo ciceronein animatore da villaggio turistico, che strimpella e guida i cori. È un momentocardine della sua formazione: attraverso la musica percepisce la gioia di vivere diquelle persone, se ne incide nella mente un’immagine vicina alle feste contadinemagistralmente dipinte nel Cinquecento da Pieter Bruegel. È l’incontro con unavocazione, ma non quella al sacerdozio: “Da grande voglio fare questo, suonare perfar stare bene la gente”, pensa il bambino, ignaro di avere già individuato a 12 annila futura missione de Lou Dalfin.

Galassia dei pellegrini a parte, in seconda e terza media al piccolo Sergio piaceda matti Gipo Farassino; è sua la prima canzone che esegue in pubblico, “La Mu-

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daja”. La canta ai suoi genitori, che cominciano a pensare di avere un figlio do-tato di qualche talento; forse non proprio quella passione per la medicina in cuiconfidava Rosanna. Glielo conferma l’insegnante di chitarra di Torino, quandoviene a sapere che i Berardo lasciano la città. Assecondate la sua passione, ne valela pena: questo in sostanza il suo messaggio.

Ritorno alla fine di un mondoCosì Sergio sul periodo delle prime feste vere, sanguigne, sfrenate, cui assistetteda ragazzino e che sarebbero state destinate a segnarlo per tutta la vita in un af-fresco di 45 anni dopo: “Com’era bello quando cantavano, i nostri. Le prime volteche capitava davanti a te, fresco di coscienza, non ti capacitavi della trasforma-zione prodigiosa. Gli adulti, sempre così gravi, facevano quel teatro, come quellidella tele che ogni tanto, invece di parlar normale, si mettono a cantare e bal-lare. Ricordo le donne che uscivano certe voci da bambine sorridendo maliziose,e sembrava che si accendessero delle luci a illuminarle. Venivano avanti senzamuoversi dalla sedia, e tutti le guardavano ascoltando le storie di innamorati ealpini. Piene di fiori come i cimiteri. Gli uomini facevano fin paura, rossi come tac-chini, con le vene grosse, gli occhi chiusi; quando li aprivano, non sembravanoamici di nessuno. Le voci non parevano arrivare dalle loro pance ma da chissàquale grotta nascosta in fondo a quella cantina da cui partiva la processione dibottiglie nere. Cantavano sempre più forte e sembravano sempre più arrabbiati.I sorrisi erano rari e beffardi. Le risate esplodevano come granate tirate controqualcuno. Sentivi forza, orgoglio, violenza. Sentivi l’amore murato dentro cia-scuno di loro cercare di uscire disperatamente spingendo fiati e parole. Lo sen-tivi implodere con fragore. Sentivi la sfida e il coraggio. Ora che ci penso, a di-stanza di tanto tempo, mi accorgo che quei figli di contadini e paesani diventatioperai, bottegai, impiegati, in quei rari momenti di festa celebravano comeguardia d’onore la fine di un mondo. Non so e non posso sapere se fosse me-glio del nostro, ma darei tutto quello che ho per tornare a sedermi su quella se-dia ad ascoltare le canzoni dei miei cantori bellicosi. Un po’ per gli ovvi rimpiantianagrafici, e un po’ perché “Once were Warriors”.

Già, perché è tempo di trasloco: i genitori e il ragazzino scelgono la provin-cia cuneese. Persone forti, coraggiose, intraprendenti e lungimiranti, i genitori diSergio. Papà Marino è torinese, la famiglia materna di mamma Rosanna invecedi Caraglio. Ed è per Caraglio, oltre che per la moglie, che Marino si prende unabella cotta. Al punto che appena possibile lascia la sicurezza del posto in Fiat pertraslocare con tutta la famiglia in bassa Valle Grana. Formalmente non è un ar-tista; eppure in un certo senso è come lo fosse. Marino ha una vocazione, quellaper l’artigianato, il manufatto. Lavora il legno, il ferro battuto; crea mobili d’artee crede in quello che fa, trasforma la passione in professione. Con la stessa pervi-cacia e lo stesso genio con cui tanti anni dopo Sergio scarterà l’università e i la-vori omologati per fare della musica un mestiere.

Quando prende residenza con la famiglia a Caraglio, il ragazzo è però appenaalla terza media. È il 1970, si iscrive alla Federazione Comunista ed è affascinatodalla ricerca sulla musica popolare condotta dal collettivo Cantacronache, nato a

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Torino un anno prima di lui. Intanto viene scartato dal Conservatorio BartolomeoBruni di Cuneo, ma non se ne cura e impara a cavarsela anche con il flauto dolce.Poco a poco costruisce un piccolo repertorio in cui si intrecciano la canzone di pro-testa italiana e le suggestioni sudamericane catapultate in Europa dagli Inti Illimanidopo il golpe militare di Pinochet in Cile. Roba impegnata; ma pure buona per con-quistare ragazzine d’estate sui lungomare di Pietra Ligure e Bordighera.

All’inizio del liceo è pronto per i primi esperimenti con un gruppetto di coe-tanei, i Viuletè, nato nell’ambito delle Acli e dedito alla musica popolare pie-montese. Poi il primo incontro importante, con Dario Anghilante, esponente delMovimento Autonomista Occitano alla ricerca di qualcuno che lo accompagnicon la chitarra. Sergio per la prima volta si accorge che qualcosa sta cambiandonelle vallate; la riscoperta delle loro radici culturali è cominciata, la musica nonpuò esserne esclusa e lui, di Caraglio, è occitano a tutti gli effetti. Il duo si esi-bisce a feste dell’Unità, matrimoni, manifestazioni. Ci sono anche le prime sor-tite nelle vallate transalpine. Improvvisamente il repertorio piemontese deiViuletè gli sembra estraneo; Occitania e Piemonte sono incompatibili, e lui sce-glie di fare tandem con Dario, lasciando il gruppo. Presto intorno ai due agit-prop d’Oc si coagula la prima formazione dei Sonaires Ousitan: l’area culturaleè occitana, gli spettacoli sono militanti, ma tutto si esprime con strumenti ge-nerici come la chitarra acustica e il flauto traverso, dunque non connotati mu-sicalmente in chiave d’Oc. Fino al decisivo viaggio sulla Peugeot scassata con imusicisti di Tolosa verso il Festival de Saint-Céré.

Tornato nell’Occitania subalpina, Berardo sente l’energia come raddoppiata,e la cospirazione per far venire alla luce il patrimonio sopito prosegue con i cri-smi della militanza. Non vuole fantasticare con retrogusto esotico sulle ghironde,sui pifferi e sui violini del Lot; vuole che saltino fuori quelli della Val Grana, dellaVal Maira, della Val Vermenagna, della Val Varaita, della Valle Po, della ValGesso, della Val Chisone, delle valli di Susa e del Chisone. Né intende rinun-ciare alla musica che arriva da fuori, dal mondo. Il primo disco che ha compe-rato in vita sua è di Jimi Hendrix, e intanto dalla galassia anglosassone arriva nel-l’inverno 1976-1977 il punk.

Il primo a parlargliene è Massimo Paddeo, un amico di sempre, che comelui è cresciuto in Barriera Nizza a Torino e si è trasferito in valle. Un ragazzotornato da Londra gli ha portato una valigia di cassette con dischi che ancoranon si trovano in Italia. “Sai Sergio, c’è una nuova musica in Inghilterra, la chia-mano punk” dice. Arriveranno di lì a poco, quei 33 giri di vinile, e Sergio ne faràincetta da Rossi Dischi, a Cuneo: Specials, Tom Robinson Band, Ramones, SexPistols, Ultravox. Un mondo nuovo. Così si trova in quella condizione ricorrente,la stessa di quando viveva tra Caraglio e Torino. È sospeso tra mondi differenti:il richiamo della tradizione, guidato dal ricordo delle feste al Santuario di SanMagno, e l’aria nuova dei gruppi anglosassoni. Per cominciare, cambia look: allecamicione folk si sostituiscono giubbotto attillato e spille, rigorosamente fai da

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te in ossequio allo spirito artigiano della montagna sommato al “do it yourself ”del punk inglese. Tutto senza avvertire sintomi di schizofrenia particolarmenteallarmanti, conciliando semmai i due interessi.

Il terzo incomodo, la militanza politica, sfocia all’ultimo anno del liceo nelmovimentismo: nella primavera del 1977 circoli del proletariato giovanile e in-diani metropolitani dilagano lungo la Penisola e fanno sentire il loro appeal an-che a Cuneo. Troppa roba: nel 1977 Berardo lascia i Sonaires Ousitan e si staccaper qualche mese dalla musica occitana. Nel frattempo è anche successo qual-cos’altro. Una rivoluzione.

A scuola di vitaIl Festival de Saint-Céré sarebbe stata l’occasione buona perché Sergio mettessefinalmente mano agli oggetti che a Frassino lo avevano lasciato a bocca aperta;ma non era ancora il momento giusto. Alla resa dei conti, laggiù non toccò unostrumento.C’era troppa roba intorno: cose da fare, gente con cui parlare, ragazze bellissime,feste tutte le sere. Non gli andava proprio di chiudersi in classe a studiare musica.Al ritorno se ne sarebbe rammaricato un po’, ma col passare del tempo avrebbepreso corpo in lui la convinzione che fosse stato meglio così. Per Berardo, oggi, ilvirtuosismo è quella malattia per cui l’Occitania è piena di gente che sa muoverevorticosamente le mani su una ghironda, ma esprime la poesia di un verbale deiCarabinieri.A Tolosa provò, sì, ad avvicinarsi al corso di ghironda, ma ci rimase appena un paiod’ore su tre settimane di festival. Era più importante assaggiare piatti nuovi, berein compagnia, innamorarsi e perdere l’amata, andare a vedere i tetti a squame dipesce e le vacche rosse con le corna enormi che sembravano uri preistorici. Gliospiti dormivano in una vecchia scuola, tutti per terra nei sacchi a pelo per ventinotti. I gabinetti erano buchi di pietra con porte da saloon. Gli arredi delle aulesembravano fermi al Sacro Romano Impero: in confronto, le scuole delle borgatesubalpine di montagna erano moderne e funzionali. Tra i partecipanti al festivalc’era molta condivisione.La sera i balli erano così frenetici e disinibiti che a Berardo sembrava di partecipareai misteri dionisiaci, con le ragazze bellissime trasformate in baccanti. Sotto il profilosquisitamente musicale, il Conservatorio di Tolosa allora era una realtà molto vitale,che gli permise di entrare nel mondo degli strumenti tradizionali guardando suonarepersonaggi trascinanti come Claude Romero, il famoso suonatore di cabrette, Jean-Pierre Lafitte con i suoi strumenti ad ancia e il il “Piaf”, virtuoso di tamburino dellaProvenza, che lo affascinò al punto di indurlo a diventare vegetariano come lui perun anno. Il suo look ovviamente era in sintonia con lo spirito rurale che si respirava:camicioni a quadri, pantaloni di fustagno, gli zoccoli di legno che dovevano esserecomodi e invece erano durissimi e causavano vesciche insopportabili. Tra i partecipantial raduno si parlava in francese, benché ogni tanto il ragazzo di Caraglio, che stavastudiando l’occitano, provasse a usarlo, soprattutto con i militanti più accesi. Non erail momento di suonare, era il momento di respirare. Certo, la condivisione implicava qualche piccolo inconveniente. Dopo qualchegiorno, per esempio, lo raggiunse la sua ragazza, a cui aveva telefonato entusia-

sta; peccato che si mise quasi immediatamente con uno dei tolosani. Ma lui nonci pianse su; in fondo la tizia era più grande, e con un venticinquenne stava me-glio. E poi la situazione presentava un risvolto positivo: i due nuovi fidanzatini de-cisero di tornare insieme in Italia, così gli diedero un passaggio fino a casa.

La rivoluzione si chiama amore, quello vero. Daniela Mandrile ha quattro annimeno di Sergio, che l’ha vista crescere a Caraglio. È una ragazza bellissima. Nel 1976,finite le medie, si è iscritta anche lei alle superiori a Cuneo. I due viaggiano insieme,lui le tiene sempre il posto sulla corriera. Si chiacchiera, ci si conosce meglio. ArrivaNatale, e Sergio la invita alla biblioteca del paese, dove tornano a suonare i fricchettonidel Conservatorio di Tolosa. Daniela non conosce la musica occitana e rimane su-bito stregata da quegli strani strumenti, da quei personaggi affascinanti. C’è anchequalcuno di loro che balla, e per lei è un’altra novità assoluta: finora ha seguito qual-che lezione di danza classica e si è avvicinata alla ginnastica artistica, ma passi delgenere non sapeva esistessero. Ha invece una certa dimestichezza con l’occitano, lalingua parlata dal padre e assaporata nelle lunghe estati a Castelmagno. Berardo an-cora non suona, ma è già immerso nel mondo d’Oc e la sua passione la coinvolge.Intanto divampa la cotta reciproca, e nel 1977 i due ragazzi si mettono insieme. Sonouna coppia giovane, bella e affiatata.

Anni Settanta, si va dove porta la vita, non c’è tempo per fare calcoli. Così la fi-danzatina dell’aspirante musicista resta incinta non ancora sedicenne. E allora ci sisposa. O almeno, ci si prova. Perché il matrimonio under 16 non è previsto dallaChiesa cattolica, occorre una dispensa della curia vescovile. Le famiglie fanno do-manda, la risposta arriva in extremis e il matrimonio si celebra nella chiesa più bella,la Madonna del Castello, in cima al colle che domina Caraglio e la piana, da cui sivede Cuneo e ci si sporge verso le Alpi. È il 1978, e a maggio viene al mondo la pic-cola Magali; Margherita, in occitano. Il viaggio di nozze ha una meta a questo puntofacile da indovinare: Tolosa, dove ciascuno dei due sposini è atteso da un regalo. Uncorso di ance per oboe nel caso di Sergio; quello di danza per Daniela. Che rimanefolgorata dall’ambiente, non le sembra possibile che un anziano suonatore di oboedall’aspetto trasandato, che dalle sue parti sarebbe bollato come vecchio rimbambito,sia venerato da decine di giovani estasiati. Anche per lei quello con il Conservato-rio di Tolosa è un incontro decisivo.

Intanto però la burocrazia papale non è l’unico intoppo lungo la strada della fe-licità. C’è anche la vita di tutti i giorni da affrontare: la famiglia si compone di unventenne e di una sedicenne, entrambi a reddito zero con una bambina da allevare.Intervengono, va da sé, i nonni. Tutti i risparmi e un bel po’ di debiti vengono inve-stiti nella tabaccheria del paese, dove, con Daniela impegnata nell’allattamento, di so-lito c’è Sergio. Tabaccaio a modo suo: ha sempre la ghironda in mano, la posa per ser-vire i clienti e la riprende. È distratto, ha altro per la testa. Non può durare. Il negozioviene ceduto. A questo punto la musica è anche una scommessa di sopravvivenza. Eil destino di papà Marino e mamma Rosanna segnato per un bel po’ di anni a venire;sacrifici per consentire al figlio di progredire in ambito artistico e quel piccolo pri-vilegio di essere sempre i primi ad ascoltarne le idee musicali, dato che la casa è ilsuo laboratorio.

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