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Romanico in Ossola. II Parte di Alessandro Chiello SOMMARIO s OSCELLANA Rivista Illustrata della Val d’Ossola Anno XXXVIII n° 3 Luglio - Settembre 2008 Pieve di Oscela: San Brizio di Vagna Sant’Ambrogio di Seppiana San Martino e Sant’Abbondio di Masera Beata Vergine Assunta di S. M. Maggiore Santo Stefano di Crodo San Giulio di Cravegna San Gaudenzio di Baceno San Giorgio di Beura 1 2 3 La Pieve di Vergonte: San Pietro di Pallanzeno San Lorenzo di Megolo 1 6 1 La Pieve di Mergozzo: San Graziano di Candoglia Santa Marta di Mergozzo Santa Maria di Bracchio San Giovanni in Montorfano 1 6 4 Conclusioni: Romanico in Ossola 1 7 6

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Romanico in Ossola. II Partedi Alessandro Chiello

SOMMARIOs

OSCELLANARivista Illustrata della Val d’Ossola

Anno XXXVIII n° 3 Luglio - Settembre 2008

Pieve di Oscela:San Brizio di VagnaSant’Ambrogio di SeppianaSan Martino e Sant’Abbondio di MaseraBeata Vergine Assunta di S. M. MaggioreSanto Stefano di CrodoSan Giulio di CravegnaSan Gaudenzio di BacenoSan Giorgio di Beura

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La Pieve di Vergonte: San Pietro di Pallanzeno San Lorenzo di Megolo

161La Pieve di Mergozzo: San Graziano di CandogliaSanta Marta di MergozzoSanta Maria di BracchioSan Giovanni in Montorfano

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Conclusioni:Romanico in Ossola176

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OR

ALESSANDRO CHIELLO

ROMANICO IN OSSOLA

Pieve Oscela: San Brizio di Vagna

La strada che porta verso l’alpe Lusentino partendo da Domodossola si snoda lungo le pendici settentrionali del Moncucco è molto fre-quentata dagli sciatori, allettati dagli impianti di Domobianca, e da tutti coloro che vogliono ritemprarsi tra i piacevoli boschi della mon-tagna. Se qualcuno volesse rinfrancare pure lo spirito, e male non fa, ha la possibilità di fare una sosta in località Vagna, adesso frazione del capoluogo e un tempo comune autonomo, per visitare la chiesa parrocchiale di San Brizio. Ne vale veramente la pena!

A prima vista davanti al tempio niente ci ricorda l’architettura romanica, leit-motiv della nostra ricerca, ma, spostandoci di qualche metro e alzando gli occhi, osserviamo il campa-nile, posto nell’angolo sud-orientale dell’attuale edificio, e subito riconosciamo l’antico prestigio di sapore medioevale che le caratteristiche della muratura denotano chiaramente.

Ci avviciniamo e analizziamo la torre che ci appare veramente di “elegantis forma”, come già si annotava in una visita pastorale del 1616. Il fusto (base 3,60 x 3,55 m) è caratterizzato da una robusta muratura formata da materiale

irregolare nelle dimensioni, ma discretamente ordinato in corsi orizzontali grazie ad un uso intelligente della malta, che corregge la diso-mogeneità dei blocchi di diversa grandezza.

Peccato per lo strato di intonaco che ricopre la muratura dei tre ordini superiori distur-bandone l’uniformità, oltre che la bellezza del campanile stesso. Sopra il robusto basamento che, nel lato settentrionale, ospita la porta di accesso, si sviluppano quattro piani cadenzati dalle tipiche cornici segnapiano a dente di sega e a linee zigzaganti, classici motivi ornamentali dei campanili romanici.

I quattro piani del fusto si organizzano in modo estremamente compatto: ospitate in quat-tro riseghe, dal basso verso l’alto, si registrano una specchiatura appena aperta da un’esile feri-toia strombata, e tre specchiature alleggerite da tre monofore sempre più ampie, con l’ultima, la più alta, archivoltata. Concludeva il fusto la cuspide piramidale in piode, secondo il model-lo-matrice del San Bartolomeo di Villa, in luogo dell’attuale cella campanaria che dilata, e non poco, le originarie dimensioni.

Sebbene i pieni e i vuoti non siano distri-

II parte

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buiti con l’insuperabile equilibrio dell’illu-stre “predecessore” che si specchia sulle acque dell’Ovesca, il fusto, ben conservato, è pregevo-le nel suo ordinato impianto decorativo, austero e accurato, e nelle sue forme proporzionate ed armoniose. Il campanile, confrontato con gli altri della regione, è databile ai primi decenni dell’XI secolo e faceva da ottimo corollario ad una chiesa di cui immaginiamo la semplice struttura rettangolare, ad aula unica coperta da un soffitto ligneo.

A questo unico spazio venne aggiunto suc-cessivamente, sul lato settentrionale, un’ul-teriore navata, ma durante la prima metà del Seicento si procedette all’abbattimento dell’an-tico tempio per edificarne uno più ampio, in modo da assecondare maggiormente le nuove esigenze della comunità di Vagna, che nel frat-tempo, dal XIII secolo, era divenuta parrocchia autonoma con la responsabilità della cura delle

anime anche degli abitanti di San Marco e di Monteossolano. A loro volta queste due località diventeranno parrocchie indipendenti nel 1542 e nel 15711. Qualche indicazione sull’antichità della chiesa di Vagna ce la offre il Bertamini, analizzando la titolazione che celebra il santo vescovo Brizio di Tours, successore del più famoso Martino, che ebbe la sventura di essere martirizzato non in maniera violenta, bensì con maldicenze e offese alla sua moralità. Fu infatti accusato da una donna di essere il padre del suo nascituro, ma proprio la creatura innocente assolse il vescovo, parlando miracolosamente e indicando il nome del vero responsabile di quel-la paternità. Per questo l’iconografia ufficiale presenta il santo accompagnato da un bimbo in culla. Questo culto si sviluppò ovviamente Oltralpe e fu importato nell’VIII secolo dai Franchi, nell’epoca alla quale potrebbe verosi-milmente risalire il primo tempio di Vagna2.

1 - Vagna: Chiesa di San Brizio. 2 - Nella pagina accanto: Vagna, Chiesa di San Brizio, particolare del campanile.

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Preceduta da una facciata dalla candida into-nacatura, semplice e regolare nelle sue membra-ture, la struttura stranamente definita dal De Maurizi “di stile romanico”3 anche se di romanico nulla presenta, nemmeno il ricordo, è orienta-ta come la precedente sul tipico asse ovest/est delle cappelle antiche e mostra una pianta a tre navate, segnate da due file di quattro colon-ne di serizzo che sostengono le ariose arcate a tutto sesto. La copertura è assicurata da volte a crociera che si presentano caratterizzate da una decorazione in stucchi e in affreschi, peraltro di qualità non certo indimenticabile. Ben altri i motivi di lustro che può vantare l’interno di questa chiesa, come il notevole altare di stile barocco del 1767, opera del maestro Stefano Burri di Viggiù, preceduto dalla balaustra in marmi policromi che separa il presbiterio dalla navata centrale. Ma il vero punto di interes-se dell’intero complesso è la prestigiosa pala d’altare che onora la cappella della Visitazione della Vergine, intenso saggio di quel Tanzio da Varallo che già aveva già lasciato tracce della sua maestria nella Collegiata di Domodossola con l’incantevole “San Carlo che comunica gli appestati”. Incorniciata da un esuberante altare ligneo, degno telaio protettivo del maestro inta-gliatore locale, Bartolomeo Zanini Piroia, nati-vo proprio di Vagna, “La Visitazione”, realizzata nel 1626/27, rappresenta un’altra grande prova del maestro valsesiano. La rappresentazione è incentrata sulle monumentali figure delle due donne, unite dalle miracolose gestazioni, il cui incontro è segnato da delicate e solenni moven-ze; particolarmente indimenticabile la mano della Vergine Maria che preme sul suo grembo. L’apparato cromatico, ravvivato da un restau-ro nel 1973, viene esaltato da un trattamento luministico che risente ancora della lezione caravaggesca, appresa durante gli anni della for-mazione a Roma, e che valorizza ulteriormente il suo stile, tendenzialmente tardo manierista. Da notare la cura, quasi fiamminga, dei det-tagli realistici dei volti (impressionanti quelli di San Zaccaria e San Giuseppe) e delle mani. La composizione risulta abilmente studiata su un serrato gioco di sguardi e sulla significativa contrapposizione tra le tre figure “vegliarde”,

a sinistra, e gli incarnati rosei e freschi della Madonna e delle due giovani alle sue spalle. Un vero e proprio capolavoro che si nasconde in una modesta chiesa, in una piccola frazione di un paese di provincia nascosto tra le montagne: peculiarità che ricorre spesso nella produzione di questo grande artista, che realizza “una pit-tura di straordinaria intensità mistica, ma troppo cruda e intenzionalmente popolare per raccogliere gli apprezzamenti incondizionati delle altre sfere ecclesiastiche”4. Ed eccolo quindi alle prese con una committenza periferica, meno autorevole forse, ma sicuramente più stimolante, in quan-to l’artista può liberamente assecondare il suo

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estro. In questo caso il merito va ascritto alla Confraternita del SS. Rosario, a cui erano legate le agiate famiglie di notai Pattarone e De Gratis che permisero la prestigiosa committenza.

La chiesa offre comunque altre pregevoli opere d’arte: nella cappella di Santa Marta, più che sulla pala d’altare vale la pena soffermarsi sull’ancona lignea, sfarzosa nei suoi intagli, nelle sue dorature e nel forte impatto cromatico, realizzata negli ultimi decenni del Seicento dal valente Giulio Gualio, maestro antronese che ha lasciato in Ossola altri preziosi saggi della sua opera. La cappella del Santissimo Nome di Gesù si pregia di un’interessantissima pala, un tempo incorniciata dal più sobrio altare ligneo in cui si armonizzano con notevole fascino il rosso e le dorature, e che oggi è invece posto in una parete laterale della cappella. Essa rappresenta un piccolo Bambino Gesù sopra il monogram-ma IHS che simbolicamente richiama il suo nome. Un cartiglio sottostante riporta il monito biblico “Sanctum et Terribile Nomen eius” e sotto un mostruoso groviglio di demoni che occupa i 2/3 dell’intera superficie del quadro: uno spazio ritenuto eccessivo dalle autorità ecclesiastiche. Il vescovo Gentile nel 1846 lo giudica “poco decente… sebbene di distinto pennello”, tanto da farlo spostare dalla privilegiata posizione in mezzo al prezioso altare, che ospitò in seguito una “Circoncisione”, certo più convenzionale, ma infinitamente meno interessante del preceden-te, anche dal punto di vista artistico.

Il professor Bertamini attribuisce la pala del SS. Nome di Gesù alla prestigiosa scuola del Cerano, e in alcune parti all’intervento diret-to del maestro stesso, il quale ricordiamolo, rappresenta uno dei principali esponenti della pittura lombarda della Controriforma.

Sempre nella stessa cappella, alziamo lo sguardo e ritroviamo sulla cupoletta le familiari pennellate del Borgnis, in una vivace raffi-gurazione del Paradiso incentrata sulla figura del Bambino Gesù, festosamente attorniata da angeli musicanti.

Usciamo rasserenati da questo luogo sacro e ci sorprendiamo ancora una volta dal contrasto tra la modesta per quanto graziosa frazione, formata da un piccolo agglomerato di case, e la

sua chiesa, “palladio della religione e della storia di Vagna”, così ricca di perle artistiche che i fedeli dei secoli passati hanno voluto regalare ai posteri. Speriamo che anche la nostra genera-zione, distratta dalla grettezza e dalle volgarità imperanti, sappia nonostante tutto essere degna di cotanta eredità.

Note

1 T. BERTAMINI, “L’Ossola nella diocesi di Novara”, in

Oscellana 1998, p. 222.2 T. BERTAMINI, “San Brizio di Vagna”, in Oscellana

1974, p. 115-130.3 G. DE MAURIZI, “L’Ossola e le sue valli”, op. cit., p.

106.4 V. SGARBI, “Le tenebre e la rosa. Un’antologia”, Cernusco

sul Naviglio 2000.

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S. Ambrogio di Seppiana

Peculiarità comuni delle valli che si aprono sul bacino principale di raccolta delle acque del Toce, sono la strettezza e la tortuosità, a causa delle incombenti forre che caratterizzano il loro tratto iniziale, per poi schiudersi in incantevoli bacini alpestri ricchi di vegetazione. La valle Antrona, invece, nel suo svolgersi preserva per molti chilometri questo elemento distintivo che la connota per certi versi come la valle ossolana più selvaggia e affascinante dal punto di vista paesaggistico, con le imponenti catene che sem-brano quasi cozzare fra di loro in alcuni tratti, stringendo il povero letto del torrente Ovesca nella sua inesorabile discesa a valle.

Storicamente forte è il legame con Villadossola lentamente sviluppatasi a ridosso dell’imbocco della valle, sulle pendici del Moncucco, rela-zione che trova un’immediata conferma nell’or-ganizzazione religiosa che ha accomunato per secoli le comunità di questi territori.

Come sappiamo, Villadossola e la valle Antrona nei difficili secoli dell’alto medioevo fino a tutto il XII secolo rientravano nei territori che facevano capo alla pieve di Oxila, che provve-deva “con le sue pertinenze” alla cura d’anime nella cosiddetta Ossola superiore. Nell’importante fase di decentramento che portò alla fondazione di nuove parrocchie, intorno alla chiesa di Villa intitolata ai SS.Fabiano e Sebastiano e poi a San Bartolomeo si organizzarono le comunità della valle Antrona, che successivamente per ovvie ragioni pratiche e logistiche, istituirono una nuova parrocchia indipendente, la quale si costituì a Seppiana, dove esisteva una cappella costruita non molto tempo dopo quella presti-giosa di Villa, dedicata a Sant’Ambrogio.

Questo paese si trovava in un luogo strategi-co dal punto di vista logistico, in una posizione mediana sull’antica strada antronesca, quindi si

prestava bene a servire le esigenze non solo spi-rituali (ribadiamo la fondamentale importanza sociale delle nostre chiese nei secoli medioevali) delle comunità montane sparse nella valle.

La parrocchia di San Bartolomeo si stacca dalla pieve domese verso la metà del XII seco-lo; nel corso del secolo successivo si costituisce la prima parrocchia indipendente della valle Antrona a Seppiana, cui seguiranno le parroc-chie di San Lorenzo ad Antronapiana all’inizio del XIV secolo, di San Pietro a Schieranco istituita nel 1571, della Beata Vergine del Carmine a Viganella nel 1618, e infine, a metà del Settecento, la parrocchia di Montescheno intitolata ai Santi Giovanni Battista e Carlo.

Da questo si evince l’importanza della chiesa di Seppiana nella storia della valle Antrona.

La chiesa sorge su un promontorio sul dor-sale della montagna su cui si è sviluppato il grazioso paese, le cui abitazioni serrate intorno

1 - S. Ambrogio di Seppiana: protomi umane dell’antico apparato decorativo.

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alla strada principale “hanno un aspetto severo, quasi medioevale”, così come le descriveva il De Maurizi nella sua più volte citata guida.

Lo spiazzo su cui si leva il sacro edificio nelle sue successive trasformazioni è stato eroso al poggio di morena che sovrastava il paese e che oggi è occupato dal pregevole sagrato e dal cimitero che affianca la chiesa.

Il tempio attuale ha praticamente conservato l’aspetto che aveva assunto dopo gli interventi seicenteschi che avevano ampliato e raziona-lizzato la struttura, sotto l’energica spinta del parroco Antonio Giavinelli, titolare per circa un quarantennio della cura d’anima dei fedeli della vivace comunità che, seguendo una con-creta costante storica, ha avuto un profondo e duraturo rapporto con la sua chiesa.

Solitamente, nelle rare pubblicazioni che si sono occupate del romanico ossolano, per la chiesa di Sant’Ambrogio si delineano le carat-teristiche del solo campanile, il cui fusto, cella campanaria a parte, testimonia chiaramente le sue origini. Ma anche con uno sguardo poco attento, nel resto della struttura si possono

osservare alcuni elementi del primitivo edificio, tanto da poterne abbozzare una ricostruzione delle linee originali abbastanza plausibile. Già sulla facciata, terminata nel corso del Seicento, notiamo inseriti a casaccio nel paramento mura-rio, che conserva pregevolmente una certa rusti-cità, con i blocchi di pietra a vista alternati a spessi letti di malta, alcuni archetti pensili, che rivelano una notevole somiglianza con quelli del corredo decorativo del San Bartolomeo. Gli elementi distintivi di questa costruzione non possono non avere influenzato i fabbricanti della chiesa romanica di Seppiana, anche per motivi di contiguità spirituale e geografica. Anche nella facciata di San Bartolomeo avevamo nota-to molte parti dell’antico materiale ornamentale riutilizzato nelle riedificazioni successive.

Oltre agli archetti, troviamo altri resti che testimoniano gli antichi fasti del luogo di culto: nel muro perimetrale del cimitero, che conclu-de il sagrato a pochi metri della parete setten-trionale della chiesa, consideriamo un blocco di marmo decorato con un giglio nella parte superiore, e un fiore con cinque petali in quel-la inferiore. Originariamente il blocco doveva essere posto a corona di un portale di accesso con funzione di chiave di arco, unitamente alle sue particolarissime testine appena sgrezzate, i cui volumi si allungano con uno strano coprica-po a forma di tortiglione, che nel disegno origi-

2 - S. Ambrogio di Seppiana: a) Pianta del primitivo edi-ficio romanico risalente al XI secolo. b) Pianta della chie-sa dopo l’ampliamento risalente alla fine del XII secolo. c) Pianta dell’attuale chiesa.

a. b.

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nale si univano per formare l’arco. Un Crocifisso scolpito in marmo di Crevola, materiale che si comincia a lavorare dal XII secolo, e che quindi ci dà un preciso punto cronologico di riferi-mento, opera di un anonimo Maestro locale1, completava l’abbellimento di questo portale. La fascia a tortiglione è un elemento decorativo che abbiamo già osservato nella facciata della B. Vergine di Trontano, facente parte anch’es-so del primitivo portale d’accesso dell’edificio romanico.

Sulla cuspide del portichetto che attualmen-te sovrasta l’ingresso principale è osservabile, con qualche difficoltà, vista la posizione, un frammento marmoreo che riproduce un collo e una testa animalesca con enormi fauci e inquie-tanti occhi larghi: probabilmente faceva parte di un leone stiloforo che un tempo sosteneva la colonna di un protiro, scomparso nei rifacimen-ti successivi. Il leone era un elemento ricorrente della statuaria romanica, in funzione apotro-paica del luogo sacro, in pratica una simbolica protezione dalle potenze del Maligno, argomen-to molto presente nella profonda spiritualità medioevale. Una testa caratterizzata da un volto dai lineamenti inespressivi e da una folta barba è incastrata nell’odierna parete settentrionale dirimpetto al cimitero. Alcune testoline molto smussate compaiono nell’arco che introduce al sagrato e in alcune mensole in serizzo del tetto.

Tutte queste componenti facevano parte della chiesa romanica o dei primi interventi che inte-ressarono la struttura a partire dal XII secolo.

Ancora una volta, i sottotetti dell’attuale struttura hanno permesso la conservazione di parte della cintura ornamentale dell’edificio originario, facilitando così la possibilità di rico-struirne la genesi con buona approssimazione2.

La pianta evidenzia la consueta sala rettan-golare con la facciata orientata ad occidente e l’abside curvilineo ad oriente; due porte d’ac-cesso erano poste nella fiancata settentrionale che circa a metà era affiancata dal campanile. Un solo ingresso si apriva nel lato opposto e nessuno in facciata, per mancanza di spazio dato l’incombente fianco della montagna; due strette monofore tagliate nell’abside davano luce al presbiterio, mentre due o tre aperture sulla parete meridionale illuminavano la nava-ta, unitamente alla finestra cruciforme e ai due oculi aperti sul catino absidale. Le misure erano modeste, con una lunghezza di quindici metri ed una larghezza di poco inferiore agli otto.

Esternamente le solide pareti erano ritmate da lesene, formate da vari blocchi rettangolari di pietra, che disegnavano campiture irregola-ri, coronate dalla fuga di archetti monolitici, suddivisi a tre o a quattro. Anche saltuaria-mente, da un’unica pioda venivano ricavati due archetti, che ripetono abbastanza fedelmente la decorazione degli omologhi elementi di San Bartolomeo, con le doppie soprallineature e le incisioni a zig-zag e a forma di croce. I modesti peducci non presentano alcun intento ornamen-tale. Anche per la muratura dell’abside si può facilmente supporre una ripartizione in campi più o meno regolari e la ripetizione dei moduli decorativi delle fiancate. Il tetto formato da piode si appoggiava sull’usuale trabeazione lignea.

La costruzione, di notevole impatto anche in relazione all’ambiente in cui è sorta, dimostra ancora una volta la rilevante capacità di adatta-mento agli ostacoli naturali espressa dagli ano-nimi edificatori medioevali: una sensazione di perfetta armonia, di stretta simbiosi tra archi-tettura e natura si può cogliere ancora oggi, sostando sul bel sagrato che cinge la struttura,

c.

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che nemmeno i numerosi rimaneggiamenti susseguitisi nei secoli sono riusciti a cancellare. Possiamo solo chiudere gli occhi e volare con la fantasia, e immaginarci le spoglie mura argen-tee della chiesetta medioevale immersa nella folta vegetazione dei boschi, tra le asperità del versante morenico della montagna, e i silen-ziosi fedeli della valle camminare per le strette stradine del paese e avvicinarsi ossequiosi ed orgogliosi verso il sacro tempio.

Analizziamo il campanile, la testimonianza più evidente del complesso romanico: lo osser-viamo ponendoci a fianco del muro di cinta del cimitero. Esso si presenta inglobato circa nel mezzo della parete settentrionale, rappre-sentando una robusta cesura quadrata nella navata settentrionale, il cui vano centrale risulta attualmente scoperchiato. Il fusto liscio segue la tendenza, consolidatasi nel corso del XII secolo, di non interrompere la superficie muraria con

3 - S. Ambrogio di Seppiana: facciata della chiesa.

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specchiature o altri elementi architettonici, dando un risalto particolare alle componenti strutturali. Quindi viene esaltato un effetto di maggiore robustezza e solidità. Solo le aperture animano la muratura, che ai nostri occhi appare molto più accurata negli spigoli che nelle parti centrali, in cui a spessi letti di malta è affidato l’assemblaggio dei vari blocchi di pietra piutto-sto disomogenei nelle dimensioni. Il risultato comunque non è disprezzabile, anzi, la veduta complessiva denota una certa attenzione e accu-ratezza.

Risultano aperte attualmente una feritoia, una monofora e le interessanti ed eleganti bifo-re cigliate: una peculiarità che ritroveremo a Bracchio, nel quarto ordine con la colonna prov-vista di capitello a gruccia. Le restanti aperture sono state murate e per completare l’opera di abbrutimento, è stata aggiunta nel 1858 una cella campanaria, sormontata da una cupoletta ottagonale che definire di scarsa coerenza stili-stica è il minimo. Il campanile originale preve-deva un’armonica successione di cinque ordini di aperture sempre più ampie, con due piani di feritoie, uno di monofora, uno di bifora e i due terminali di trifore. Una cuspide in piode segna-ta alla base da una cintura di archetti chiudeva la torre, che sicuramente non sfigurava nella gloriosa tradizione dei campanili ossolani. Se la chiesa può essere datata non molto tempo dopo il tempio di San Bartolomeo di Villadossola, visti gli evidenti richiami dell’apparato deco-rativo, e quindi nella prima metà dell’XI seco-lo, il campanile, dal caratteristico fusto liscio apparentato con gli esemplari di Megolo, del Sant’Abbondio di Masera e di Santa Maria del capoluogo vigezzino, può essere ascritto al seco-lo successivo, prima o forse in concomitanza con la separazione dalla pieve madre di Oxila, in quanto spesso la costruzione di un campanile segnava momenti particolarmente significativi della vita di una comunità.

Il fatto di essere il punto di riferimento religioso della valle e, in seguito, la sede par-rocchiale doveva portare necessariamente ad un ampliamento dello spazio, che naturalmente si scontrava con la perfetta semplicità dello sche-ma originario. Già verso la fine del XII secolo

e nel seguente vengono costruite due cappelle, una per lato, che portano al taglio dei muri perimetrali e alla conseguente creazione di una piccola navata nella parete meridionale a cui viene aggiunto un portale d’accesso, mentre in quello settentrionale la presenza del campanile impedisce l’allungamento della nave fino alla facciata.

Ma le più decise trasformazioni sono da ascrivere alla seconda metà del Cinquecento e a due importanti personaggi: il venerato e attivissimo vescovo Carlo Bascapè, zelante e partecipe pastore, uno dei migliori interpreti di quell’ardente clima controriformista che diede nuova linfa vitale al Cattolicesimo, e al parroco don Antonio Giavinelli, originario della valle Anzasca ma formatosi in quella Milano nella quale San Carlo Borromeo stava completando la sua indefessa opera di riforma secondo i principi e lo spirito del Concilio di Trento.

Il 17 settembre del 1596 monsignor Bascapè visitò la chiesa di Seppiana, imponendo diretti-ve riguardo al culto e ovviamente al migliora-mento edilizio della sacra struttura, che sotto don Giavinelli ebbe un impulso notevolissimo.

Nei quaranta anni di servizio nella parroc-chia di Sant’Ambrogio, don Giavinelli diven-ne infatti uno dei migliori collaboratori del Vescovo e oltre a garantire solerte assistenza spirituale e materiale e la costante attenzione alle esigenze della comunità, non si stancò mai di dare un assetto più conveniente e decoroso alla sua amata chiesa.

Nella prima metà del Seicento, quindi, la chiesa di Seppiana diventa un cantiere che fece assumere le sembianze attuali al tempio, attraverso la fondazione di nuove cappelle che allargheranno progressivamente le navate late-rali sia meridionale, sia settentrionale, con il conseguente inglobamento del campanile (1610-1620), l’innalzamento della nave cen-trale per ottimizzare l’illuminazione (1622), la ricopertura con volte a crociera delle navate (1623-1624), l’allungamento di cinque metri in senso longitudinale della chiesa (1601-02) verso la facciata, che sarà completata nelle attuali forme nel 1634, aperta da tre ingressi che dava-no accesso alle corrispondenti navate, la decisa

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espansione del presbiterio che portò alla sosti-tuzione dell’umile abside romanico (1605-06), la costruzione in capo alla nave settentrionale della nuova sacrestia (1659) e la fabbricazione del vestibolo sorretto da due colonne in serizzo e coperto da una volta a crociera, semplice ma adeguato raccordo tra esterno ed interno (1640-1642).

Anche in questa chiesa sono presenti pregia-te opere d’arte, tra le quali ne segnaliamo alcune con ammirazione: nell’altare della cappella del Santissimo Rosario fa bella mostra di sé l’an-cona lignea del maestro Giorgio de Bernardis, eseguita nel 1645, disgraziatamente mutilata da alcuni furti, veri e propri flagelli sacrilegi che hanno deturpato il patrimonio artistico di tante chiese ossolane, e di questa in particolare. Dalle fotografie precedenti al furto ci possiamo fare solo una pallida idea di questo capolavoro di uno dei grandi intagliatori ossolani: una miscela ben assortita di vitalità barocca su un impianto che sa conservare proporzioni e armo-nie classiche, con le due bellissime colonne ornate di angioletti e di fronde che convergono sui due capitelli corinzi, sui quali si sostiene un timpano squarciato dalla maestosa figura del Padre Eterno benedicente: incantevoli sono le formelle con i Misteri del Rosario che circonda-no la statua della Madonna con Bambino. Il De Bernadis aveva sapientemente scolpito anche la porta che chiudeva l’ingresso principale, con storie di Sant’Ambrogio, ma anche di questa non ci restano che tristi fotografie, visto che è stata anch’essa depredata dai “soliti ignoti”. In sacrestia possiamo ancora osservare la maestria degli intagli dell’armadio di noce (1660) scolpi-to dal De Bernardis e dal dotato allievo Giulio Gualio, autore anche delle pregevoli ante del Deposito delle Sante Reliquie e di altre preziose sculture facenti parte delle suppellettili sacre della chiesa e dell’altare di Sant’Ambrogio, composizione dal decoro misurato e classicheg-giante.

La cappella del Rosario è impreziosita inoltre dagli affreschi di Carlo Mellerio eseguiti tra il 1660 e il 1680 con scene della vita di Maria, incorniciate in una ricca serie di stucchi. Sopra il portale principale, prima di entrare nel tem-

pio, ci aspetta la raffigurazione del Santo titola-re realizzata da Luigi Reali.

Usciamo dalla struttura e ci soffermiamo ancora in questo luogo di pace, e con lo sguardo abbracciamo l’intero sagrato, che oltre alla chie-sa ospita il piccolo cimitero e due archi d’ac-cesso: lo spazio sottratto alle asperità naturali è così armonicamente occupato dall’uomo, che un senso di serenità e di appagamento pervade l’animo, commosso da questo complesso che gli parla di un passato glorioso per il sentimento religioso e importantissimo per la storia di questa valle.

Un passato forse un po’ trascurato negli ultimi secoli, ma che, siamo sicuri, saprà essere protetto e conservato dalle attuali generazioni.

Note

1 G. BIANCHETTI, “Il Maestro del Crocifisso di Seppiana”,

in Oscellana 1985, p. 15-24.2 T. BERTAMINI, “S. Ambrogio di Seppiana”, in Oscellana

1988, p. 17-72.

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San Martino eSant’Abbondio

di Masera

L’imbocco della valle Vigezzo, serrato dalle aspre fiancate delle catene montuose e lambito dalle acque del torrente Melezzo, si può pregia-re da più di otto secoli della preziosa presenza di una “sentinella romanica”: il bel campanile della cappella di sant’Abbondio, collocato proprio all’ingresso meridionale di Masera, “dolcemente assisa alle falde del monte”, grazioso e soleggiato paese che si espande verso nord sino ai bordi del fiume Isorno, la cui sponda opposta è già nel comune di Montecrestese.

Fino alla fine dell’Ottocento questo notevole vestigio non era l’unica testimonianza dell’epo-ca storica che stiamo considerando, in quanto proprio alle spalle di Sant’Abbondio, a poche decine di metri di distanza, sorgeva la chiesa di San Martino, documentata da numerose foto-grafie che ci mostrano un edificio di indubbio valore architettonico in linea con le migliori realizzazioni della regione: “una limpida adesione allo stile romanico tanto nell’impostazione quanto negli elementi decorativi” (Bertamini).

Purtroppo nel 1882 l’ansia di dotarsi di una struttura più ampia e confortevole portò alla “suicida” decisione di abbattere la glorio-sa chiesa, che aveva resistito al degrado e alle secolari intemperie, ma che purtroppo non era destinato a resistere all’uomo! Incredibile come questa decisione sia stata avallata dalle autorità ecclesiastiche e civili alla fine di un secolo in cui già si era formata una buona coscienza cri-tica sulle arti, e il dibattito sulla tutela e sulla corretta conservazione e restauro dei beni archi-tettonici ed artistici aveva già dato buone e utili indicazioni, che però, si vede, non raggiunsero le rive del Melezzo… Sta di fatto che il tempio romanico di San Martino venne “inspiegabil-mente”, “supinamente” e “inconsultamente” abbat-

tuto, e al suo posto oggi possiamo apprezzare l’attuale chiesa parrocchiale, non così “brutta e moderna” come la definì l’Errera a suo tempo, che comunque merita attenzione in quanto contiene tra le sue mura alcune opere meritorie per gli amanti delle arti. Su tutte, il bellissimo trittico, posto attualmente in capo alla navata laterale di destra, “Madonna e Bambino con San Martino, San Giovanni Battista, Sant’Antonio Abate e San Sebastiano, San Rocco e San Giulio”, variamente attribuito e spesso associato alla scuola gaudenziana, ma riconducibile ai pen-nelli più marcatamente incisivi di Fermo Stella di Caravaggio, e il gruppo scultoreo, visibile in fondo alla navata sinistra, che forma un pre-gevole “Compianto sul Cristo Morto”, opera del primo Seicento uscita dalla fiorente bottega dei craveggesi Merzagora, autori anche della bella ancona del San Bartolomeo di Villa e del coro della Madonna di Campagna di Pallanza.

Ma torniamo alle nostre tristi fotografie in bianco e nero, che testimoniano l’aspetto della chiesa romanica e che alimentano il nostro rimpianto, preziosa documentazione che il dot-tor Antonioli, tenace e illuminato oppositore

1 - Masera: l’oratorio di Sant’Abbondio.

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dell’abbattimento della struttura, volle lasciare ai posteri, come ricordo e molto probabilmente come condanna per chi ha contribuito a tale scempio della memoria storica e della bellezza.

La pianta ripeteva la sala unica di forma rettangolare con soffitto ligneo, conclusa dalle linee semicircolari dell’abside che guarda a levante, come voleva la tradizione.

Decorosissima appare la facciata, che ripete fedelmente l’impianto compositivo che aveva caratterizzato le chiese di San Bartolomeo a Villa, di Santa Maria a Trontano e l’Assunta di Montecrestese, con uno stato di conservazione ancora migliore rispetto ai celebrati model-li, presentando minori manomissioni evidenti. Turbava l’armonia dell’insieme solo una navata, che verso la fine del Cinquecento aveva unifi-cato le cappelle sorte nel frattempo sul fianco settentrionale, e che andò ad inglobare, come nella chiesa di Seppiana, il campanile. Un porti-chetto è documentato a partire del XIII secolo. La decorazione della facciata è caratterizzata da tre ordini sovrapposti: nella parte inferiore solo il portale, di semplice fattura e non originale, e la lunetta con arco di scarico interrompono la liscia muratura, che rispettava abbastanza i corsi paralleli, con rustici conci di pietra non perfettamente squadrati e uniti da massicce dosi di malta.

Il piano soprastante segue direi fedelmente i canoni tradizionali, con un’elegante bifora, separata da un’esile colonna con capitello a gruccia e coronata da un arco a tutto sesto, che apre mirabilmente la campitura centrale. Strette lesene definiscono e animano con ritmo serrato la superficie sino a formare cinque campiture. Queste dividono i dieci archetti in brevi gruppi da due, che vanno a formare la cornice, insieme a un corso di denti di sega, che segna il piano; gli archetti si presentano cigliati, come nella chiesa dell’Assunta di Montecrestese. Il terzo ordine occupa il timpano e presenta la caratte-ristica finestra a croce e la cimasa di archetti che segue il corso degli spioventi del tetto.

L’apparato ornamentale del secondo e del terzo ordine sono assemblati in una risega che anima ulteriormente la superficie muraria, che nel suo complesso si fa notare per una certa raf-

finatezza e un equilibrio che presuppongono un disegno e una progettazione rapportabili a quel-le maestranze lombarde attive a Villadossola e a Trontano e forse in altri cantieri, mentre i lavori veri e propri paiono frutto di manovalanze loca-li, che comunque, pur con qualche ruvidezza nella squadratura del materiale, hanno dato forma ad un edificio di pregio. Un’altra foto ci mostra la fiancata meridionale, che stilistica-mente segue la facciata, con i ventitré archetti coronati da una fascia a dente di sega e suddivi-si, a gruppi di due o di tre, dalle lesene. In tre campiture erano aperti tre brutte e ampie fine-stre rettangolari, che avevano sostituito quelle originali a doppia strombatura, così armoniche e funzionali all’architettura che le conteneva.

Anche questi elementi decorativi sono con-tenuti in un’ampia risega, mentre la parte inferiore era tutta caratterizzata dalla muratura, aperta solo da una porta nella parte terminale verso il lato del presbiterio. Nell’abside, sosti-tuito dallo sproporzionato coro successivo, e nella fiancata opposta possiamo solo immagi-narci ed aspettarci una decorazione simile al resto dell’edificio. Dalla mediocre qualità delle fotografia non riusciamo ad appurare se le men-sole di forma parallelepipeda su cui poggiano archetti, ottimamente sagomati, fossero lisce e quindi prive di ornamentazione, oppure scolpiti o almeno incisi. Propendiamo tuttavia per la seconda ipotesi.

Per quanto riguarda la data di costruzione, la bibliografia riporta pareri molto variegati, che vanno dall’XI secolo alla fine del XII, ma dalle fonti archivistiche conosciamo la data di con-sacrazione: durante una contesa fra ecclesiastici su alcuni interessi economici, fra i testimoni chiamati a deporre per dirimere la questione troviamo il nome di Gualberto, religioso di Domodossola, che dichiara di essere stato pre-sente alla consacrazione di alcune chiese fatte dai vescovi Riccardo (1117-1122) e Litifredo (1122-1151), fra le quali la nostra di Masera, non citata con il Titolo (solo in un documento del 1260 viene citata con il nome del Santo Vescovo di Tours, Martino). Siamo precisamen-te nel 1157, quindi si presume che la consacra-zione del luogo debba essere avvenuta qualche

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decennio prima1. Pertanto la costruzione, che potrebbe aver preceduto di qualche anno la con-sacrazione, può essere collocata intorno alla fine dell’XI secolo o all’inizio del successivo.

La datazione che può essere avallata anche dall’analisi dell’apparato decorativo che pre-senta pregevoli caratteristiche che sembrano la naturale evoluzione di quelli, già pregia-ti, dei modelli di Montecrestese, Trontano e Villadossola. Una conferma indiretta proviene anche dal fatto che nello stesso periodo della consacrazione la chiesa divenne sede parrocchia-le, nell’ambito di quel deciso decentramento voluto dal vescovo Litifredo, staccandosi dalla pieve di Domodossola da cui dipendeva, e non dalla pieve di Vergonte, come invece asseriva il Bianchetti.

Dopo aver accennato per sommi capi alla infelice sorte di questa chiesa, spostiamo la nostra attenzione poche decine di metri oltre, dove possiamo ancora osservare una tangibile testimonianza romanica: il campanile dell’ora-torio di Sant’Abbondio, posto in una curiosa posizione, all’entrata di Masera, in corrispon-denza delle prime forre della valle Vigezzo.

A dir la verità, anche l’attuale oratorio è per lo meno curioso, con la sua strana forma obliqua che sembra adeguarsi all’isola erbosa lasciata dalla strada comunale, che si biforca proprio in prossimità dell’edificio, il quale è dovuto sorge-re adattandosi ad uno strapiombo roccioso eroso dalle acque del Melezzo.

Cerchiamo di risalire alle sue origini. Un’antica tradizione trasmetteva il ricor-

2 - Masera: l’oratorio di Sant’Abbondio, veduta laterale dell’attuale edificio.

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do di un monastero accanto alla chiesa di Sant’Abbondio, e un documento riportato dal professor Bertamini, la bolla di papa Alessandro III, ha finalmente confermato la presenza di una chiesa con questo titolo a metà del XII secolo, e la gestione del monastero da parte dei Canonici Regolari di Sant’Agostino. Certo è che la posi-zione non era molto felice, vista la pericolosa vicinanza delle acque del torrente vigezzino, che comunque scorreva in un alveo molto più basso dell’attuale. Questa fu la causa dello spo-stamento della costruzione sullo scoglio roccio-so, attualmente visibile ancora in parte alla base del campanile. Per il resto, questa struttura ha lasciato poche tracce di sé nel corso della sua lunga storia. Consisteva in una modesta sala rettangolare, con un orientamento da levante

a ponente che si adattava alle sporgenze della roccia su cui si posava. La presenza di una pic-cola abside è testimoniata ancora dalla traccia lasciata sotto la finestra a croce del frontone posteriore; non è difficile ipotizzare una sua frana nelle acque del torrente sottostante. Dagli inventari ricaviamo una povertà d’ornato, una deplorevole incuria e una scarsa considerazione anche dal punto di vista degli uffici sacri. Una progressiva decadenza e una serie di interventi di ampliamento, disordinati e disarticolati, hanno portato alla situazione attuale, modifi-candone l’orientamento primitivo e causando la perdita pressoché totale dell’antico corpo, di cui solo qualche frammento del paramento murario si è salvato dallo sfacelo.

La visita al “meschino”2 e “insignificante” ora-

3 - Masera: l’oratorio di Sant’Abbondio, particolare dell’alzata posteriore con elementi di recupero del primitivo oratorio.

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torio non ci dice alcunché, anzi rattrista vederlo impiegato come magazzino e deposito comuna-le; rispetto e memoria storica esigerebbero una maggiore considerazione, ma purtroppo in que-sto lembo di terra ossolana le affascinanti mura romaniche non hanno avuto molta fortuna…

Fortunatamente si è conservato e in maniera egregia il campanile dell’oratorio di Sant’Abbondio e finalmente possiamo parlare di una testimonianza ancora integra e soprattutto tangibile.

Lo osserviamo portandoci sul lato della strada che conduce verso la valle Vigezzo, dove il “pit-toresco” fusto si mostra al meglio. Notiamo subi-to la caratteristica muratura liscia, non interrot-ta da membrature architettoniche, e la notevole perizia dei vari blocchi di pietra, sufficiente-mente squadrati soprattutto negli spigoli, che si raccordano in corsi paralleli e discretamente ordinati. La tipologia del fusto liscio senza spec-chiatura, che abbiamo già trovato a Megolo e a Seppiana, denota la tendenza dei costruttori a concentrare le loro abilità sulla muratura stessa piuttosto che su elementi decorativi che sicura-mente conoscevano, come dimostra il campani-le di San Bartolomeo a Villadossola, che aveva fatto scuola in Ossola, ma che non ritenevano di dover prendere a modello: un cambiamento di gusto che si concentra e si rafforza nel corso del XII secolo. Nel caso di Sant’Abbondio la massiccia parete muraria viene ingentilita dalla successione di aperture, due piani di feritoie, uno di bifora e uno di trifora con i capitelli a forma di gruccia. Il tetto è modellato su una cuspide a piramide. Troviamo anche una spec-chiatura coronata da tre archetti nell’ordine inferiore del lato settentrionale (un omaggio alla tradizione?), e un bovindo che pare proprio una guardiola da caserma nella parete orienta-le, con una feritoia: un chiaro riferimento alla funzione anche strategica e difensiva che spesso i campanili hanno assunto nel corso della loro storia3. Una modesta ma significativa testimo-nianza scultorea è presente sul lato settentrio-nale del fusto, all’altezza della finestra a trifora, attualmente murata, del primo piano: raffigura un quadrupede dalle forme appena abbozzate, con un corpo allungato sostenuto da zampe

corte e con un muso caratterizzato da un occhio circolare e da un piccolo corno. Un soggetto abbastanza comune, tratto forse da quei bestiari tanto in voga nei secoli medioevali, che aveva una marcata valenza simbolica e apotropaica.

Una struttura dalle dimensioni contenute, che riesce a trasmetterci un senso di nobile eleganza nelle sue snelle proporzioni e che, nonostante la mancanza di ornamentazioni, può tranquillamente essere annoverato tra i migliori esemplari della regione ossolana.

Note

1 T. BERTAMINI, “Fede e arte a Masera”, op. cit..2 C. ERRERA, “L’Ossola”, op. cit., p. 26-27.3 G. MORMANDI, “L’architettura romanica della Val d’Os-

sola”, op. cit., p.12.

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Tutte le valli ossolane sono affascinanti e di ognuna risulta facile cantare le lodi e le meravi-glie naturali: è sempre un’esperienza edificante spostarsi dal fondovalle principale e salire per le strette gole iniziali, e osservare i versanti delle montagne aprirsi gradualmente fino al culmine di ciascuna valle, solitamente contraddistinta da ampi bacini ricoperti da una folta vegetazione. Per la valle Vigezzo questa scoperta può esse-re fatta percorrendo in automobile la strada che da Masera si snoda sui tortuosi fianchi rocciosi, oppure con il caratteristico treno della ferrovia vigezzina: “quel trenino sgusciante tra neri boschi di conifere, rocce grigie e cupe gallerie e ponti arditi sospesi su archi aerei giganteschi e ripidi pascoli brulli e sassosi, balzerà improvviso all’aperto e, d’un tratto, l’occhio stanco d’uno spettacolo orrido e buio si pose-rà stupito sul piano verdeggiante al sole, sulle pinete ombrose, sui pendii dolci e la valle Vigezzo si svelerà, così, a sorpresa, in tutta la sua maestosa e ridente bellezza.” Così il De Maurizi con ispirata vena poetica descrive un’emozione che ancora oggi è alla portata di tutti.

Meno emozionante è più difficoltosa deve essere stata l’avventura dei primi missionari che hanno introdotto la religione cristiana in questa terre. La tradizione ha conservato anche per la valle Vigezzo i leggendari nomi dei santi Giulio e Giuliano che abbiamo già incontrato sotto le mura del San Quirico. A Santa Maria Maggiore e a Druogno avrebbero eretto le prime mura cristiane, “ristorando con la rugiada della dottrina” le popolazioni locali immerse ancora nelle tenebre del paganesimo. Anche se menti meno romantiche storceranno la bocca ascoltan-do questa leggenda, il contesto storico da cui si è scaturita è del tutto plausibile e, tra la fine del IV secolo e l’inizio del seguente, nella valle il messaggio cristiano maturava già i suoi frutti e

Beata Vergine Assunta di Santa Maria Maggiore

gradualmente trasformava le secolari abitudini e credenze dei vigezzini.

Se proprio non furono le sante mani di Giulio e Giuliano a costruire la prima chiesa, di certo i neofiti convertiti alla nuova religione dovettero provvedere a trovare nuovi spazi per celebrare le funzioni sacre. Spesso si riadattarono i vecchi templi pagani o anche si utilizzò il materiale di questi per costruire ex novo gli edifici funzionali al culto cristiano. Nella piana vigezzina si scelse come luogo di edificazione un sito particolare, in posizione centrale rispetto ai vari villaggi sparsi sulle pendici delle montagne. Questo sito si trovava all’incirca nel mezzo della “dolcissima conca”, in un posto appartato e disagevole per la maggior parte degli abitanti, e pericolosa per la vicinanza alle acque del Melezzo, ma prevalse proprio per la sua centralità rispetto alle diverse comunità. Addirittura pare che solo a partire dal XIII secolo si cominciò a costruire abitazioni intorno alla chiesa.

Lo storico Pollini mette in dubbio il fat-to che quella di Santa Maria sia stata la prima cappella edificata nella valle, accennando ad una persistente tradizione che asseriva la precedenza

1 - Santa Maria Maggiore, Beata Vergine, il campanile

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di un oratorio a Gagnone1, ma siamo nel campo delle ipotesi non dimostrabili, mentre abbiamo indicazioni più certe per la data di consacrazio-ne. Infatti, nella già citata disputa fra canonici novaresi riportata da atti del 1157, compaiono testimonianze circa la consacrazione di alcune chiese ossolane, tra le quali vengono citate “ec-clesie de Viglezie et ecclesie Coimi”. Quindi l’unica certezza che possediamo è che all’inizio del XII secolo in valle esistono due chiese, una a Santa Maria, così va inteso “chiesa di Vigezzo”, e una a Coimo, sebbene, come ammonisce il Berta-mini, “nulla vieti di pensare che ne potessero esistere altre”2.

Al centro dell’odierno capoluogo, magnifica-to da una splendida posizione geografica e da una serie di bellissimi edifici, si erge ancora la chiesa parrocchiale a navata unica con sei cappelle, che si mostra ai nostri occhi moderni con le forme assunte durante la completa ristrutturazione avvenuta tra il 1733 e il 1742, che modellò la struttura secondo il gusto neoclassico imperante in quei decenni, non a caso l’architetto France-sco Tamiotti la disegnò partendo da un progetto di Pellegrino Tebaidi. Tra i maggiori e genero-si committenti dell’opera troviamo il nome di Gian Paolo Femminis, l’inventore della famosa Acqua di Colonia.

Una passeggiata dentro questa ampia e godi-bilissima costruzione sacra, “dopo quella di Domo-dossola, la più grandiosa e la più bella dell’Ossola”3, ci permette di ammirare le imprese decorative dedicate alla Madonna Assunta, titolare della chiesa, dei due mostri sacri della pittura vigez-zina tra Settecento e Ottocento: Giuseppe Mat-tia Borgnis, “ingegno dominante”( Bianchetti) e “artefice della tradizione pittorica vigezzina e del suo alto valore”(Gnemmi) e del suo valente “erede” Lorenzo Peretti, “artista in bilico tra la grazia settecentesca e il rigore neoclassico”. Artisticamen-te pregevoli anche il tabernacolo marmoreo di Lorenzo Arrigoni di Pavia, dalle raffinate linee rinascimentali risalenti al 535 nella prima cap-pella a sinistra, l’altare maggiore ottocentesco in marmo di Carrara di gusto classicheggiante, il pregiato reliquiario d’argento di stile barocco che protegge le reliquie di San Carlo Borromeo, donato nel 1627 dal cardinale Federico, cugino

e successore del santo, e infine il battistero con un vasca in serpentino sormontata da una cupo-la tardo gotica, già lodato in un inventario del 1629 come “antiquissimo et multo bello”.

E la chiesa romanica? Non abbiamo notizie certe, oltre come detto, alla sua esistenza, alla riutilizzazione dei resti sopravvissuti nella rico-struzione e al rimaneggiamento del campanile, come analizzeremo in seguito.

Lo storico Cavalli, seguito anche dal Pollini, nel suo ponderoso studio sugli eventi della valle riporta una affascinante esposizione che anche noi, per dovere di cronaca, ripetiamo: “questa chiesa era di molto infossata nella terra, con piccole aperture, e piccolissime finestre, per modo che riusciva assai oscura anche di pieno giorno: era poi tutta com-posta di pietra ollare, detta comunemente Lavegera, e su tutte le pareti vedevansi tratto tratto scolpiti dei grotteschi, e degli animali d’ogni sorta e d’ogni misu-ra, che le davano un singolare aspetto. Noi possediamo un antico dipinto su grossa tavola di legno di questo antichissimo tempio, sul tetto del quale stanno effi-giati una pianticella in piena vegetazione, e la Beata Vergine che afferra i capelli un uomo che giù cadeva dall’attiguo campanile… appare poi dal medesimo che il primitivo tempio di Santa Maria veniva costituito da una navata di mezzo alta ed assai stretta e da due laterali molto basse, che avea una sola ed ampia parte con un rosone trasparente al di sopra, e diverse fine-stre laterali strette, e terminanti nella parte superiore ad arco rotondo; che i muri all’esterno erano perfetta-mente lisci e costituiti da pietre quadrilatere unifor-mi sovrapposte alternativamente le une alle altre; che il tetto veniva formato da tanti pezzi di legno pure uniformi e quadrilateri…”4. Questa minuziosa descrizione, ripresa quindi da un quadro votivo, ci mostra forse l’aspetto originario del tempio romanico di Santa Maria? Molti particolari lo indicano chiaramente, e lo stesso campanile e le parti decorative giunte fino a noi non lascereb-bero dubbi, e lo stesso storico vigezzino accosta queste caratteristiche al cosiddetto stile “lom-bardo” in uso nell’XI secolo. Qualche dubbio, invece, lascia la planimetria a tre navate, accet-tata comunque da tutti i critici che si sono occu-pati del romanico ossolano. Come già affermato per la chiesa dell’Assunta di Montecrestese, in Ossola nei secoli romanici si privilegia la sem-

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plicità della navata unica e gli studi e le scoperte recenti hanno confermato questa tendenza stili-stica. Possiamo ipotizzare che la raffigurazione dell’ex-voto si riferisca ad un edificio posterio-re a tale epoca, risalente ad un periodo in cui, come nelle altre chiese ossolane, l’esigenza di ampliare lo spazio per meglio accogliere i fedeli e le loro necessità devozionali, tra Quattrocen-to e Cinquecento, portò all’allargamento della costruzione, con il taglio dei muri perimetrali e l’aggiunta di navate laterali. Mi sembra meno praticabile supporre, vista la vicinanza al terri-torio comasco e ticinese, un’influenza di qualche edificio di questi territori, in cui sono presenti chiese romaniche dallo schema più complicato e movimentato, come il bel complesso di San Pie-tro di Muralto, alle porte di Locarno. Lo stesso Cavalli, e sulla sua scia quasi tutti gli storici, hanno assegnato alla valle Vigezzo, prima del Mille, una dipendenza ecclesiastica della diocesi di Milano o da quella di Como, e addirittura la costituzione della parrocchia autonoma del-la valle Vigezzo al tempo in cui sorse la chiesa romanica che “eressero in Parrocchia, la quale fu la prima nella valle e la matrice di tutte le altre”. Il Bertamini smentisce queste ipotesi e sposta la nascita della pieve indipendente al XII seco-lo, dopo l’opera di decentramento incoraggiata dal vescovo Litifredo. Prima di allora la pieve di Oxila continuava la sua secolare opera di pie-ve madre “cum suis pertinentiis”, riunendo a sé tutte le comunità cristiane delle vallate dell’Os-sola superiore, Vigezzo compresa.

Si può quindi pensare che maggiori e più in-tensi siano stati i contatti con la valle del Toce, e soprattutto con le sue usanze e con il suo modo di edificare templi sacri. Ricordiamo che pro-prio alle porte della valle, in quell’epoca sorge-vano l’oratorio di Sant’Abbondio, la compianta chiesa di San Martino a Masera e la prestigiosa Santa Maria a Trontano, tutte fedeli al linguag-gio del romanico ossolano.

Dopo i bagliori cromatici degli affreschi dell’interno ci spostiamo ai piedi del campani-le, l’unico edificio medioevale sopravvissuto ai secoli che la valle può ancora vantare. Visibile non certo nella nitidezza primitiva, in quanto, al momento della costruzione dell’edificio set-

tecentesco, si pensò bene di coprire le pareti del pregevole fusto con uno spesso strato d’intona-co, vizio antico e moderno dei maestri ossolani che si sono occupati dei restauri dei campanili e delle chiese romaniche. Per una volta il degrado e l’inesorabile fluire del tempo ci hanno fatto un piacere, staccando alcune parti di questa “gab-bia cementizia” e offrendoci la possibilità di osservare una muratura di notevole ed ordinata fattura con regolari corsi paralleli. Nella zona inferiore i blocchi ottimamente sagomati, sono disposti alternativamente di piatto e di taglio; meno impostato e preciso è invece il materiale della zona superiore, con blocchi più piccoli e frammentari. Interessante il tessuto decorativo, che emerge nonostante le fastidiose manomis-sioni successive: i sei piani sono organizzati su un alto basamento, privo di aperture e mem-brature architettoniche, e su tre ordini definiti da ampie specchiature, incorniciate da una serie di otto archetti costituiti da piccoli conci poco aggettanti, e da un marcapiano a dente di sega. Gli archetti poggiano su mensolette trapezoi-dali su cui non compare alcun tipo di decora-zione. Esternamente le originarie aperture non sono più riconoscibili, perché otturate dall’ansia settecentesca di nascondere ogni residuo medio-evale. Per aiutare l’immaginazione nel cercare di ricostruire le forme primitive, all’interno del fu-sto si possono ancora individuare i vani di que-ste aperture, che consistevano in una successione dal basso verso l’alto con un piano di monofore, due di bifore e due trifore, la più alta delle qua-li ospitava la cella campanaria sulla quale svet-tava la cuspide a piramide. La cella sovrastante che ammiriamo oggi è frutto dell’innalzamento documentato dopo il 1596. Una possente strut-tura che, come ben ha fatto notare il Verzone, rappresenta il momento di transizione tra gli esemplari caratterizzati da un paramento mu-rario molto animato nelle sue ornamentazioni (S. Bartolomeo di Villa, San Pietro e Paolo di Crevola, S. Brizio di Vagna) e i fusti con pareti lisce prive di partizioni architettoniche (S. Lo-renzo di Megolo, S. Ambrogio di Seppiana), il che giustifica una datazione intorno alla metà del XII secolo5.

Passiamo ad analizzare gli altri resti riferibi-

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li all’epoca romanica o addirittura a precedenti edificazioni: per rimanere al campanile, osser-viamo all’altezza del secondo piano, nella parete meridionale, una formella con un bassorilievo raffigurante un drago che si attorciglia la coda, rappresentazione con valenza simbolica nega-tiva, in quanto questo animale è una delle più frequenti immagini simboliche del demonio nell’immaginario medioevale; una scultura ani-malesca stilofora, un leone più che un orso come asseriva il Cavalli, che “proteggeva” l’ingresso dell’antico portale, e quindi lo spazio consacrato della chiesa dai malefici influssi del mondo pro-fano; una colonna che sosteneva una croce con un interessante capitello cubico, con quattro facce decorate a rilievi zoomorfi e i 29 pregevo-li archetti monolitici e cigliati, sostenuti da 30 mensolette di cui 28 figurate, ricomposti nella parte superiore della facciata settecentesca. Non tutte paiono originali, infatti la qualità e la peri-zia non sembrano omogenee e ci indicano diver-se epoche di elaborazione e di integrazione.

La maggior parte reca una decorazione di tipo geometrico, con alberelli stilizzati, intrec-ci viminei, motivi floreali e spiraliformi, nodi a quattro occhielli. Alcune mensole sembrano riprendere le rappresentazioni degli ornati di Villadossola (San Bartolomeo) e di Trontano. Qualche mensola invece presenta forme plasti-che, come le due testine umane affiancate, che ripetono un analogo rilievo della decorazione della facciata dell’Assunta di Montecrestese, dove si suppone vengano rappresentati Adamo ed Eva. In questo caso si può ipotizzare un’alle-goria del Padre e del Figlio o del segno zodia-cale dei Gemelli, emblematici soggetti in cui prevale quel dualismo “componente essenziale del simbolismo romanico”6.

La visita a questa interessante costruzione sacra, che, come abbiamo cercato di delineare sommariamente, offre molti spunti per una pia-cevole ed edificante visita culturale ed artistica, con le composte linee classicheggianti della sua veste settecentesca, gli affreschi e le pregiate suppellettili, è quindi vivamente consigliata. Se invece salite in valle esclusivamente alla ricer-ca del fascino antico del Medioevo e delle sue creazioni architettoniche ed artistiche, potreste

rattristarvi alla vista del campanile, ultimo ed unico baluardo di quei secoli, così degradato e mutilato e desideroso quanto mai di un efficace “lifting” che ne elimini le impurità cementizie e faccia affiorare la nobile superficie della muratu-ra primitiva, e che apra nuovamente le finestre che i maestri medioevali avevano concepito per alleggerire e ingentilire la massiccia struttura.

Non lo chiediamo noi, ma il rispetto della storia della valle e di questa chiesa in particola-re, e soprattutto un minimo di decente e corret-to senso estetico7.

Note

1 G. POLLINI, Notizie storiche, Torino 1896.2 T. BERTAMINI, Origine delle parrocchie della Valle Vigez-

zo, Comunità Montana Valle Vigezzo 2004.3 E. BRUSONI, Guida alle Alpi Centrali Italiane I, Domo-

dossola 1892, p. 205.4 C. CAVALLI, Cenni statistico-storici della valle Vigezzo I,

Torino 1845.5 P. VERZONE, L’architettura romanica nel novarese, op.

cit., p. 339.6 R. CUSA, Decoro romanico, Milano 1993, Vangelista

Editori.7 Lavori di restauro alla torre campanaria sono stati in-

trapresi e portati a termine in tempi recenti (2006).

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L’ultima propaggine settentrionale delle terre indicate come ossolane è rappresentata dalla lunga e spettacolare vallata, ora angusta e tormentata, ora amena e lieta, che viene gene-ralmente divisa in Antigorio e Formazza, e che ospita e protegge il primo tratto della Toce, il quale al suo culmine sorge per cominciare la sua discesa verso i più sereni e distesi paesaggi del lago Maggiore. Una serie di incantevoli paesini e di suggestivi paesaggi si succede dal confine meridionale, rappresentato dall’angusto restrin-gimento roccioso della stretta di Pontemaglio, sino alle somme catene che separano la Formazza dal territorio elvetico.

Oltre alle superbe meraviglie della natura, che fanno di questa parte della regione ossolana un’ambita meta di villeggiatura e di ristoro, alcune eccellenze artistiche e architettoniche ci attendono con il loro carico di storia e di inte-resse. La prima che incontriamo è quella che presenta i caratteri di maggiore antichità: la parrocchiale di Crodo dedicata a Santo Stefano, “madre delle chiese della valle sebbene quella di Baceno splenda di veneranda e vetusta bellezza e vastità”1. In effetti la chiesa di San Gaudenzio si presenta oggi come la manifestazione archi-tettonica di maggior pregio dell’intera Ossola, come vedremo, ma anche il tempio di Crodo merita la dovuta attenzione, in quanto recenti studi, che hanno indirizzato pregevoli ed oppor-tuni restauri, hanno portato alla luce elementi di grande interesse del primitivo aspetto, che ne hanno rivalutato l’importanza nel campo sia storico, sia architettonico. L’antichità della cappella di Crodo è abbastanza presumibile in quanto anche nella valle Antigorio il messag-gio cristiano giunse tra la fine del IV e l’inizio del V secolo e, come vedremo per la chiesa di Cravegna, i primi missionari sarebbero stati

ancora i Santi Giulio e Giuliano. Un altro importante indizio lo suggerisce la titolazione a Santo Stefano, venerato dalla Chiesa come protomartire, il primo testimone della Fede a cadere di morte violenta, in nome di quel Cristo che da poco aveva sconfitto la morte e redento l’umanità. Commovente e attendibile la cruda narrazione degli Atti degli Apostoli: “…ma quelli, mandando alte grida, si turarono le orecchie, e tutti insieme si precipitarono contro di lui, lo trascinarono fuori della città e lo lapidarono… E lapidarono Stefano che pregava e diceva: ‘Signore Gesù, ricevi il mio spirito’. Poi, piegate le ginocchia, gridò ad alta voce: ‘Signore, non imputar loro que-sto peccato’. E, ciò detto, spirò” (At: 7, 57-60). La lapidazione di Stefano, primo martirio della storia cristiana, primo di una sterminata serie che dura tuttora in molti luoghi del mondo, alimentò certamente un fiorente culto fin dai primi secoli, e molte cappelle ed oratori fin da allora furono dedicati a questo Santo, tanto importante che gli fu dedicato il giorno dopo il

Santo Stefano di Crodo

1 - Crodo: la facciata della chiesa di Santo Stefano.

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Natale, poiché secondo una leggenda calabrese, Stefano sarebbe nato il giorno dopo il Bambino Gesù.

Non molto distante dalla regione ossolana, il Santo viene onorato come patrono e protet-tore della città di Biella, il cui Duomo quat-trocentesco conserva l’impianto romanico del campanile.

Torniamo a Crodo. Agli inizi del Novecento un critico come l’Errera liquidava la chiesa di Santo Stefano descrivendola come una struttura priva di “memorie antiche, se non in qualche lapide di dubbia autenticità murata nel massiccio campa-nile. I rifacimenti del XVII secolo e posteriori hanno tolto ogni interesse alla chiesa, tanto all’esterno con cattivo gusto dipinto, quanto all’interno dove nulla attira l’attenzione”2.

Non sorprende quindi che il Verzone, nella sua catalogazione degli edifici romanici del Novarese, non ne faccia menzione, e lo stesso vale per la Mormandi, in tempi più recenti.

Il De Maurizi ricorda l’antichità della strut-tura come pieve della valle, ma è con il pro-fessor Bertamini che la chiesa di Santo Stefano

entra, e a pieno e meritato titolo, in un capitolo importante della storia dell’architettura roma-nica dell’Ossola. Infatti nel 1975 le ricerche dello storico rosminiano hanno portato alla scoperta dei sottotetti che celavano l’antica e pregevole muratura della struttura primitiva, la quale ancora conservava egregiamente l’appara-to decorativo, che si presenta indiscutibilmente in chiare forme romaniche. Ma non è tutto: i rifacimenti settecenteschi avevano coperto la facciata sotto una spessa coltre di intonaco che, sorprendentemente, una volta rimossa ha rive-lato il paramento primitivo della struttura e, fatto unico nell’Ossola superiore, si è riusciti a recuperare questo fondamentale elemento archi-tettonico nel suo aspetto originario.

La cappella di Crodo, che esercitava la cura d’anime per conto della pieve madre di Oxila, fu tra le prime ad erigersi a parrocchia indipen-dente nel corso del XII secolo, e ad assumersi la responsabilità per tutta la valle, Formazza compresa. Soltanto Baceno ambì precocemente ad una propria autonomia, riconosciuta nello stesso secolo, fermo restando l’obbligo del rico-

2 - Crodo: pianta dell’attuale chiesa di Santo Stefano

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noscimento della matrice, il che diede inizio ad una serie di incomprensioni e diatribe che si protrarranno nei secoli tra le due comunità ecclesiastiche in merito alle decime spettanti alla chiesa madre.

Progressivamente si staccarono dalla chiesa plebana di Santo Stefano la valle Formazza sul finire del Trecento, e nel corso del Cinquecento si formarono le parrocchie di Cravegna (1564) e di Mozzio (1578)3.

Anche della chiesa romanica di Crodo è documentata la consacrazione grazie al già cita-to prete di Domodossola, Gualberto, che affer-ma di essere stato presente a tale avvenimento; un’altra testimonianza ci informa che il vescovo Litifredo in persona era presente alla celebrazio-ne. Litifredo fu a capo della diocesi novarese dal 1122 al 1151, periodo quindi in cui si colloca la consacrazione della chiesa, che presumibil-mente fu eretta qualche tempo prima: l’analisi stilistica e il confronto con le altre chiese ci per-mettono di anticipare la datazione alla seconda metà o alla fine dell’XI secolo4.

La planimetria era a navata unica rettango-lare, lunga esternamente 18,40 m e larga 9,80, e seguiva l’orientamento Ovest/Est con abside semicircolare verso levante: tutto secondo lo stile ossolano ormai ben codificato.

Le forme primitive di questa struttura sono abbastanza ricostruibili dopo la scoperta dei sottotetti, che hanno svelato le caratteristiche decorative del paramento murario delle pareti perimetrali. Questo si mostra organizzato in maniera molto accurata, con conci di serizzo abbastanza regolari, disposti in corsi alternati di piatto e di taglio, uniti da sottili strati di malta.

Questa cura nella muratura di per sé assume già un valore decorativo, che diventerà nel corso del XII secolo la caratteristica più evidente nell’animato gioco ritmico e chiaroscurale delle ampie campiture, scandite da riseghe e da mem-brature architettoniche di cui le più antiche San Bartolomeo di Villadossola e Santa Maria di Trontano furono i conclamati modelli.

Nonostante il pregevole e accurato paramen-to murario, la superficie presenta comunque le tradizionali partizioni con otto campiture

di dimensioni variabili, segnate da sette lese-ne squadrate e cintate da serie di tre archetti assemblati con modesti conci di pietra uniti con malta intorno ed appoggiati su semplici peduncoli appuntiti, privi di motivi decora-tivi. Il fianco meridionale è aperto da quattro finestre a doppia strombatura, archivoltate con blocchi di pietra disposti a raggera. La parete opposta, esposta a settentrione, non presenta tracce di aperture per i noti e pratici motivi meteorologici.

La struttura semicircolare dell’abside ripete-va con buona approssimazione il disegno orna-mentale delle fiancate, e sull’alzata soprastante

3 - Crodo: la facciata della chiesa di Santo Stefano con il maestoso campanile.

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la buona organizzazione della muratura presen-tava la tipica apertura cruciforme.

Il tetto a doppio spiovente rispettava la tra-dizione ossolana, con la copertura di piode soste-nuta da robuste trabeazioni lignee. Dell’interno sappiamo solo che aveva un soffitto piano, e immaginiamo mura spoglie che convergono verso il catino absidale, dove su un modesto altare si celebrava il già millenario Mistero dell’Incarnazione.

Grazie ai recenti restauri, la facciata è tornata alla luce rivelando il suo antico prestigio5. Oggi possiamo ammirare il paramento murario roma-nico, coerente con la decorazione delle fiancate, con i suoi corsi regolari ed ordinati e disposti a piatto e taglio, armonicamente inserito nelle parti soprastanti e laterali, frutto dei lavori settecenteschi, caratterizzate dai nitidi strati di intonaco bianco con un risultato estetico degno e rispettoso.

E’ consolante appurare finalmente interventi di restauro ben documentati che, una volta con-clusi, hanno migliorato la lettura complessiva di un monumento. In Ossola non sempre si sono rispettate la storia e la dignità estetica e formale dei nostri beni architettonici.

Anche la muratura della facciata viene contrassegnata da un’ampia specchiatura, deli-mitata da una risega che parte poco sopra il portale e suddivisa in tre campi da due lesene squadrate. Gli archetti seguono la pendenza del tetto e sono raggruppati in serie di tre: un’impostazione che ricorda l’alzata posteriore della chiesa di San Bartolomeo di Villadossola e la facciata della parrocchiale di Baveno. In origine la facciata aveva anche una finestra cir-colare sopra il portale, e una bifora e una fascia di archetti ciechi alla stessa altezza di quelle delle pareti laterali, secondo quanto riportato da un inventario redatto nel 1652, epoca in cui la facciata “decorosa” non aveva ancora subito l’innalzamento che comportò la perdita delle caratteristiche originarie.

Il campanile “maestoso e degno di nota”, con i suoi 25 metri di altezza e l’imponente guglia a vele, è stato variamente interpretato, spesso ricondotto allo stile romanico a causa della pre-senza di una fascia di archetti nella parte alta e

di un’errata lettura di alcune incisioni poste sui tre blocchi di sarizzo ben visibili nella parete che si mostra sul sagrato. Ma più che altro è lo stile del campanile che non pare proprio accor-darsi con gli altri fusti del periodo romanico: il robusto impianto squadrato, formato da grossi blocchi di sarizzo aperto solo da qualche feritoia e dall’ampia monofora nella cella campanaria è di epoca successiva e più probabilmente l’epoca di costruzione sarebbe da ricercare nel secolo XV. La guglia dalle linee slanciate è un’aggiun-ta cinquecentesca.

Tradizione ed armonia si fondevano in un altro edificio di pregevole qualità che accresceva il fascino dell’antico borgo di Crodo.

Naturalmente l’innalzamento al rango di chiesa parrocchiale di tutta la valle comportava la necessità di spazio maggiori e soprattutto di nuovi altari che furono aggiunti in cappelle laterali, ottenute mediante il taglio delle pareti laterali e finanziate dai signori locali con dona-zioni e creazioni di benefici da trasmettere agli eredi. Pratica consueta, che ribadisce l’impor-tanza anche sociale di queste chiese e della fede cristiana, che per secoli hanno rappresentato un collante indissolubile della difficile storia delle nostre comunità.

Ai primi del Cinquecento, l’impianto comin-ciò a modificare il progetto originario con la formazione delle navi laterali, con l’apertura di arcate a tutto sesto sulle pareti, sostenute da tozze colonne. La consacrazione di cinque nuovi altari nel 1523 ci dà un termine preciso di rife-rimento per l’esecuzione di questi interventi, che riguardarono anche la conca absidale che fu squadrata e resa più ampia.

Successivamente, nei primi decenni del Seicento, queste nuove navate furono aperte in facciata con le rispettive porte, mentre quella centrale venne resa più decorosa con ornamenti marmorei alla fine del secolo. Il portichetto di semplici e di eleganti forme venne aggiunto nel 1658, e la cappella con funzione di ossario venne inserita a fine secolo tra il corpo della chiesa e il campanile.

Nel Settecento la navata centrale fu alzata e provvista di volta, e di conseguenza fu orga-nizzata la facciata, la cui superficie muraria fu

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ricoperta e intonacata. Nel 1782 fu completato l’ampliamento del coro e nel decennio seguente lavori di manutenzione ristabilirono le guglie del campanile.

Nonostante il parere negativo dell’Errera, anche nella chiesa di Crodo si possono osser-vare interessanti testimonianze artistiche che meritano considerazione. Innanzitutto la bella vasca battesimale, “aggraziatissima”, scolpita in marmo di Crevola con gusto sobrio e raffinato, con un fascio di semicolonne che raccorda il basamento di forma ottagonale con la vasca, ornata di festoni floreali di classica memoria. Nell’altare di San Pietro, appoggiato a metà della navata sinistra, è conservata una pala di pittore anonimo ma di pennello felicissi-mo, da quello che osserviamo: raffigura una Madonna con Bambino che consegna le chiavi a San Pietro, San Paolo, un altro santo e, alla sinistra di Maria, il “papa ossolano” Innocenzo IX, originario della limitrofa Cravegna, al secolo Giovanni Antonio Facchinetti, sommo Pontefice per soli due mesi nel 1591. La sua salma riposa in un sarcofago marmoreo nelle Grotte Vaticane a pochi metri dai grandi papi degli ultimi decenni, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. E’ proprio dalla capitale della Cristianità che arriva questo pregevole dipinto, grazie alla generosità di qualche emi-grante che volle omaggiare la parrocchia della sua terra natale.

Agli amanti della tecnica ad intarsio consi-gliamo di vedere l’interessante armadio della sacrestia, completato intorno al 1648 e abbel-lito dalle sculture di Giorgio de Bernardis di Buttogno. Anche nella parrocchiale di Crodo possiamo vedere i frutti della feconda opera di Lorenzo Peretti, attivo negli affreschi della volta della cappella del santo Rosario, a capo della navata di destra, tra il 1833 e 1834, e nei quindici quadretti con i Misteri del S. Rosario, sorprendenti ed ispirati nelle miniaturistiche pennellate dagli esiti cromatici felicissimi. Bello anche l’altare maggiore, impreziosito da marmi policromi. Peccato invece che i brut-ti affreschi ottocenteschi di modesta qualità abbiano imbruttito la navata centrale e la volta del presbiterio.

Della prima metà del Settecento si fa ammi-rare il coro ligneo addobbato con angioletti e amorini di ottima esecuzione. Nella cappella di Sant’Anna, oltre alla bella pala, opera di pennel-li riferibili alla scuola del Peretti, si trova l’urna che protegge i resti mortali di Santa Lupercilla, giovanissima martire dei primi secoli cristiani, la cui salma venne trasportata dalle catacom-be romane di San Callisto e data in dono alla comunità parrocchiale nel 1819, e che da allora affianca il Santo Titolare della chiesa come patrona del paese.

Insomma, un interessante edificio, ricco di storia e di arte da rivalutare e da conoscere.

Anche ai piedi del monte Cistella abbiamo potuto analizzare testimonianze del periodo romanico e ancora una volta, nonostante gli ottimi interventi di restauro, il rammarico per ciò è stato nascosto e trasformato ci induce a malinconiche riflessioni sul destino di queste case di Dio, con troppa facilità manomesse e alterate.

Note

1 L. PELLANDA, “L’insigne Collegiata di Domodossola”,

Domodossola 1943, p. 182.2 C. ERRERA, “L’Ossola”, Bergamo 1908, p. 70.3 T. BERTAMINI, “L’Ossola nella diocesi di Novara”, in

Oscellana 1995, p. 222.4 T. BERTAMINI, “Santo Stefano di Crodo”, in Oscellana

1976, p. 47-52.5 G. BIANCHETTI, “La facciata di S. Stefano di Crodo”,

in Oscellana 1977, p. 187-188.

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San Giulio di Cravegna

Tra le frazioni che nella nostra epoca sono raggruppate nel comune di Crodo, ci sono alcune graziose località appoggiate sul dolce versante orientale del monte Cistella: dalla anti-ca parrocchiale che abbiamo appena visitato ci muoviamo alla loro scoperta. Ecco Mozzio, con il suo piccolo ma incantevole Santuario della Madonna della Vita: anche se non c’entra nulla con il periodo romanico, vi consigliamo viva-mente una sosta per vedere i soffitti “squarciati” dalle paradisiache visioni affrescate dal Borgnis, la cui ispirazione tocca qui momenti di grazia notevolissima. Le serene figure e il raffinato impianto coloristico acquietano la mente e rin-francano lo spirito. Come sono lontani, geogra-ficamente e stilisticamente, i soffitti barocchi romani di Pietro da Cortona e di padre Andrea Pozzo, con le loro dinamiche ed esuberanti rappresentazioni celesti. Attraversiamo l’amena Viceno ed arriviamo a Cravegna, dove concen-triamo la nostra attenzione davanti alle sacre mura di San Giulio, “chiesa assai più notevole dal lato artistico che non s’attenderebbe il viandante capi-tato per caso lassù”1.

Dell’antichità di questo illustre monumento architettonico ci sono varie indicazioni, tra le quali spicca il santo a cui è dedicata, ancora quel Giulio che, con il fratello Giuliano, portava la nuova ed altissima Speranza rappresentata dal Vangelo alle popolazioni delle terre dell’alto Novarese, edificando nuovi templi o adattando quelli esistenti al nuovo culto: “portossi nell’Os-sola, ed in primo luogo si condusse a Cravegna, dove eresse la chiesa parrocchiale”. Secondo la tradizio-ne, proprio a Cravegna cominciò l’infaticabile opera di questa produttiva “compagnia edile sacra”, che concluderà la sua attività sulle acque del lago d’Orta con le costruzioni di Gozzano e dell’isola del medesimo lago, la centesima, che

il santo decise di scegliere come estremo ritiro. Sulla scelta di Cravegna può avere influito il fatto che fosse in quel tempo un importante borgo, che già in epoca romana possedeva un “certo sviluppo civile”, come attestano alcuni ritrovamenti archeologici.

Ci portiamo davanti al complesso sacro, posto ai margini meridionali del paese, dove le abitazioni private lasciano lo spazio a prati e boschi. Preceduto da un viale alberato e da un morbido sagrato erboso, il tempio si lascia riconoscere subito per la calda muratura a vista della facciata. E’ facile cadere nell’inganno di pensare di trovarsi di fronte finalmente ad una

1 - Cravegna : Chiesa di San Giulio, particolare di due protomi che decorano una parete della facciata.

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struttura medioevale integra nelle sue caratteri-stiche principali. Anche in questo caso veniamo delusi, almeno in parte; infatti davanti a noi si stagliano le pur notevoli forme di una struttura cinquecentesca. Stavolta meritano un plauso questi anonimi costruttori, in quanto nella loro opera hanno voluto rendere un omaggio alla tradizione e alla storia di quel luogo, modellan-do una facciata in pietra viva del tutto coerente con l’architettura romanica e addirittura uti-lizzando materiale della precedente chiesa, che sicuramente venne edificata nei secoli romanici e quindi nel XI o nel XII secolo. Solo nel 1291 troviamo un documento che attesta l’esistenza della chiesa e del cimitero attiguo2.

Osserviamo subito che la struttura cinque-centesca che abbiamo davanti segue l’orienta-mento nord-sud, diversamente dalla antica, che era orientata secondo il canonico asse ovest-est, senza eccezioni fondamentale caratteristica delle primitive cappelle, dalla quale anche la nostra a Cravegna non si discostava.

Un’altra particolarità si fa notare ai nostri occhi moderni, ed è la spiccata tendenza al ver-ticalismo della facciata “a salienti” che la slancia maggiormente rispetto alle chiese romaniche ossolane che abbiamo analizzato, le quali si pre-sentano piuttosto schiacciate e compatte.

E’ segno che ormai l’architettura gotica aveva lasciato la sua influenza. Non per nien-te le chiese di Cravegna e di Baceno vengono considerate nel territorio ossolano come testi-monianze del passaggio dal romanico al gotico, e gli interni con le ariose arcate a sesto acuto lo manifestano ampiamente3.

L’attuale muratura si presenta pregevole con i notevoli blocchi di serizzo perfettamente squa-drati e affiancati in corsi regolari e paralleli. La forma della facciata segue perfettamente le linee delle tre navate che caratterizzano la pianta della struttura, e due paraste ne segnano i mar-gini. Volgiamo lo sguardo verso la parte alta, dove si concentrano maggiormente le memorie del precedente tempio romanico: nel triangolo che delimita il timpano sono stati sovrapposti tre corsi di archetti ciechi di sarizzo, monolitici, così suddivisi: nella prima fascia, appena sotto la cornice aggettante che fa da base al timpano,

sono allineati 17 archetti, nella seconda, quella mediana, 10, e nella più alta ne contiamo 7. Questi due fasci superiori si alternano con due cornicette a denti di sega. Due aperture cru-ciformi, una aperta sotto le fasce di archetti e l’altra chiusa con blocchetti di pietra più chiara, proprio sotto il vertice del timpano richiamano le tipiche finestre romaniche: un altro riverente richiamo alla tradizione.

Quindi ribadiamo insieme al Bertamini che “la facciata romanica della chiesa di San Giulio non è originale, ma una ricomposizione di elementi di recupero, analogamente a quello che avvenne anche in altre chiese viciniori e specialmente in quella di Baceno di cui arieggia lo stile”. L’intera costruzio-ne risulta terminata nel 1523.

Continuiamo con l’esame degli altri ele-menti della facciata e notiamo sulla parasta sinistra due interessanti protomi ben modellate, anch’esse elementi decorativi di recupero, che potrebbero far pensare ad altri simili che deco-rano molte chiese medioevali anche nel nostro territorio: scolpite da blocchi di granito grigio, raffigurano un uomo contrassegnato da tre vistosi bulbi sotto il mento e un volto femmi-nile con un copricapo ornato da piccoli gioielli. Ricordano vagamente alcuni volti che avevamo visto plasmati nelle mensole dell’Assunta di Montecrestese. Secondo un’antica tradizione riportata anche dal Bettinelli4 sarebbero due ritratti dei feudatari del luogo, i De Rhodis, che avrebbero pure finanziato l’opera. Questa affascinante memoria non ha trovato riscontri d’archivio e peraltro, secondo il Bertamini, le due sculture sono databili non prima del XIV secolo. Il protiro fu aggiunto, come per altri templi ossolani, per volere del vescovo Bascapè dopo la visita pastorale del 1596, per proteg-gere l’entrata caratterizzata da un bellissimo portale, datato 1516, di cui ammiriamo le pregevoli modanature in marmo di Crevola che circondano la lunetta, decorata da un dipinto di Battista da Legnano, malamente ridipinta nell’Ottocento. Nello stesso materiale, anche se più tardo, è il rosone collocato sopra il portico al centro della facciata: peccato che l’inserimento abbia sfondato il bel paramento, senza che si sia provveduto ad integrarlo in maniera adegua-

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ta come possiamo osservare dalla disordinata striscia di cemento che segue la circonferenza del rosone. Anche a Cravegna troviamo traccia di un’antica e consolatoria pratica devozionale, ossia quella di porre un gigantesco affresco di San Cristoforo sulla fronte delle chiese, in modo da essere visibile anche da considerevoli distan-ze, cosicché i viandanti e i pellegrini potessero essere ristorati e incoraggiati dalla vista del loro santo protettore. Oggi, abituati a viaggi segnati dal comfort più estremo, può far sorri-dere un’usanza di questo genere, ma non certo nei secoli passati, quando gli spostamenti e i viaggi erano soggetti a svariati ed imprevedibili pericoli. Attualmente il culto di San Cristoforo si è modernizzato e a questo santo si rivolgono, speranzosi, i ferrovieri e i motociclisti.

Anche a Baceno ritroveremo la rassicurante

sagoma del santo dipinta, pare, dallo stesso arti-sta, Antonio Zanetti da Borgomanero, passato alla storia dell’arte locale con il soprannome “Bugnate”.

Nella parte opposta alla grande figura del santo, e quindi alla sinistra del portale, un alone cementizio si evidenzia interrompendo l’ordina-ta disposizione della muratura; anche la parasta risulta completamente ricostruita: è un ricordo dell’antica sagoma del campanile romanico che si trovava proprio in quel punto, e che fu inclu-so nella struttura della facciata cinquecentesca che abbiamo appena delineato. Era di modeste dimensioni e mal si adattava alla nuova realtà architettonica. Nel 1769 un fulmine distrusse la parte superiore della torre, danneggiando seriamente la parte rimasta. In questa occasione fu presa la decisione di abbatterlo e di costruir-

2 - Cravegna, Chiesa di San Giulio, particolare del timpano in cui sono stati utilizzati elementi decorativi del primitivo edificio romanico.

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ne un altro maggiormente decoroso e di dimen-sioni più adeguate, a poche decine di metri dalla chiesa e appena fuori il sagrato. La prima pietra fu posta nel 1771 e per quasi un decennio si alzò una robusta ed imponente torre, con una cella campanaria aperta da finestre a serliane e sormontata da una cupola ottagonale. In una parete del fusto un busto bronzeo collocato in una nicchia ci ricorda l’illustre oriundo di Cravegna, “massimo figlio” di due concittadini del paese, il pontefice Innocenzo IX che abbia-mo visto ritratto nella pala d’altare nella chiesa di Santo Stefano di Crodo.

La struttura venne infine completata con la messa in posa dei vari altari, dei quali ne sopravvivono sei, collocati in cappelle agget-tanti verso l’esterno della costruzione, e con la ricostruzione dell’area cimiteriale che fu alloga-ta nel terreno sul retro della chiesa.

L’interno, suggestivo e coinvolgente, è diviso in tre navate alleggerite da archi a sesto acuto appoggiati su due file di tre colonne di sarizzo “sciaguratamente dipinte ad imitazione di porfido con

capitelli color canarino…”. L’arco trionfale, sem-pre a sesto acuto, separa la navata mediana con il bel coro impreziosito dai vivacissimi affreschi con scene della Passione di Cristo di Battista da Legnano, abile artista proveniente dall’area lombarda, di cui porta con sé le influenze pittoriche legate alla tradizione rinascimen-tale di Vincenzo Foppa, pregne di un pacato realismo su cui si innestano le impressioni dei grandi innovatori dell’arte lombarda segnati dall’avvento di Leonardo, Bramantino su tutti. Bellissima la Crocifissione sulla parete di fondo del presbiterio, in cui la raffigurazione s’adatta con estrema incisività alla superficie della pare-te, che include il rosoncino traforato e due ele-ganti finestre trilobate di chiara impostazione gotica. Ma tutto il ciclo di affreschi merita la nostra attenzione, per il felice impianto croma-tico che impreziosisce composizioni ben equili-brate nella disposizione delle figure, ed efficaci nella pacata e trattenuta espressività.

Un altro mirabile quadro è da vedere nella cappella dell’Epifania, nella prima campata

3 - Cravegna : facciata della Chiesa di San Giulio.

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della navata destra: raffigura una Adorazione dei Magi del XVII, secolo di un autore di scuola bolognese, caratterizzato da un impasto colori-stico caldo e morbido. Un cenno merita anche l’affresco quattrocentesco della Madonna con Bambino nella cappella a Lei dedicata, in capo alla navata sinistra. Un tempo decorava la fac-ciata della gloriosa chiesa romanica, nel 1492 fu protagonista di fatti miracolosi e ben docu-mentati, analogamente a quanto accadrà due anni dopo a Re, in valle Vigezzo. Ovviamente questo generò una fervida ed intensa devozione, con processioni ed altre manifestazioni di fede, che si perse con il tempo fino quasi a scomparire del tutto, mentre maggiore fortuna ebbero il ricordo dei fatti di Re e del Boden di Ornavasso, sempre per rimanere in Ossola, ancora oggi mete di intensi pellegrinaggi.

Ricordiamo anche il bel fonte battesimale in marmo di Crevola del 1564, opera dello stesso scultore che realizzerà quello di Crodo, di cui ricorda abbastanza fedelmente le forme e l’ornato di stampo classico, e il pregevole arma-dio della sacrestia della fine del Cinquecento, recentemente restaurato, che richiama moduli decorativi nordici.

Il complesso sacro, oltre alla chiesa e al cimitero, comprende anche l’oratorio di San Giovanni Battista, alla destra dopo l’entrata del sagrato, sorto intorno alla metà del XVII secolo, legato alle pratiche devozionali della Confraternita dei Disciplinati di San Giovanni Battista e dirimpetto un Ossario costruito circa un secolo dopo, di cui restano le mura e il tetto, recentemente rinnovati.

Appena fuori del recinto sacro, a pochi metri dalla base del campanile, è posta una colonna che sostiene una croce, datata 1646, che un tempo si trovava all’interno del sagrato, tra l’Ossario e l’Oratorio.

Ci è davvero difficile lasciare questo luogo piacevolissimo in cui le mura sacre colme di storia si ergono in un paesaggio alpino maestoso ed incantevole, dove gli occhi possono spaziare e alternare la visione tra capolavori della natura e capolavori dell’uomo, qui osservabili in magica e perenne simbiosi. Cosa chiedere di meglio, se non tornarci?

Note

1 C. ERRERA, “L’Ossola”, op. cit., p. 66.2 T. BERTAMINI, “Cravegna, Storia, fede e arte”, Cravegna

2002. 3 G.MORMANDI, “L’architettura romanica della Val

d’Ossola”, tesi di laurea, Università Cattolica di Milano

1967/68, p. 28.4 C.BETTINELLI, “Memorie storiche ed artistiche della chiesa

monumentale di Baceno”, Saronno 1957.

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Pochi chilometri e qualche tornante separa-no Cravegna da un altro luogo straordinario dal punto di vista sia artistico, sia paesaggistico: Baceno, con la sua splendida chiesa monumen-tale dedicata a San Gaudenzio, la manifestazio-ne architettonica più imponente dell’Ossola e delle sue valli.

Arroccata su un colle roccioso “proteso verso le forre dove ribolle nell’ombra perpetua delle pareti strapiombanti il torrente Devero”, ai margini del paese, la chiesa s’impone alla vista con il suo massiccio e robusto impianto che ormai occupa la gran parte del poggio su cui si è sviluppata nei secoli, con il quale armonizza alla perfezio-ne.

Affascinante ripercorrerne le vicende sto-riche, in quanto questo imponente complesso è originato, prima dell’anno Mille, da una semplice cappella di modeste dimensioni che occupava un lembo di terreno modesto rispetto all’attuale collocazione.

Baceno è adagiata in una meravigliosa conca verdeggiante, nel punto di convergenza tra le vie che conducono alle superbe bellezze della valle Formazza e dell’alpe Devero.

Abbiamo visto come dal XII secolo la valle Antigorio dipendesse per gli uffici sacri dalla pieve di Santo Stefano di Crodo, dopo che que-sta, nei secoli precedenti, era stata sussidiaria della pieve di Domodossola. E abbiamo notato come la comunità di Baceno si sia distaccata precocemente da quella di Crodo già sul fini-re di quel secolo, o al più tardi, agli esordi di quello successivo, con l’obbligo di riconoscere dei benefici alla chiesa matrice, che causeranno secolari contrasti fra le due comunità.

Gli archivi ci parlano di un’antica cappella di Baceno di proprietà del Vescovo di Novara Gualberto, che resse le sorti della diocesi nova-

San Gaudenzio di Baceno

rese tra il 1032 e il 1039. Questo vescovo aveva rapporti di parentela con quei signori feudali che i libri di storia denominano Conti di Castello, i quali erano a loro volta legati ai feudatari della valle Antigorio, i vari De Rodis, De Baceno, De Campieno che formeranno quella nobiltà armata che avrebbe signoreggiato su questa amena vallata. Il professor Bertamini ipotizza che il luogo dove si costruì la cappella, forse preceduta in origine da un tempietto pagano, faceva parte di un complesso che comprendeva anche un modesto fortilizio, uno dei tanti sorti a difesa di quel poco di difendibile che offriva-no le nostre povere valli, fiaccate come il resto

1 - Baceno: panoramica del paese.

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della penisola da secoli di scorrerie barbare nei tremendi secoli altomedioevali, dove solo dopo l’anno Mille cominciavano a palesarsi i segni di una lenta ma inesorabile ripresa, di cui l’edifica-zione o la ricostruzione delle chiese era uno dei segni più tangibili. In queste rocche recintate, erette su alture strategiche, si ammassavano i poveri abitanti, le loro bestie e gli scarsi averi nei momenti di estremo pericolo, e pensiamo che non siano stati pochi.

Oggi questi castelli sono quasi tutti scom-parsi nell’oblio millenario, ma poco più a valle, precisamente a Rencio di Crodo, sopra un enor-me masso sono ancora visibili le sopravvissute e

scheletriche mura di un antico maniero lasciato impietosamente decadere.

Quindi la nostra era una tipica cappella “ad castrum”, analoga a tante altre nell’arco alpino; la stessa Santa Maria del Piaggio che abbiamo incontrato sulle sponde dell’Ovesca a Villadossola era stata eretta con questo servi-zio.

Nel vasto e piacevole sagrato che la ospita, il tempio ha assunto nel tempo l’aspetto attuale, che si caratterizza con un impianto a cinque navate, unico esemplare in terra ossolana con questa peculiarità, riservata solitamente ai cen-tri maggiori, preceduto da una robusta facciata

sostituire con diapo “Ba-

ceno panoramica di Antonio Fabbri” sco 297

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che segue la forma a capanna del tetto. Gli ampliamenti e gli estesi interventi di decora-zione non hanno comunque cancellato del tutto le preziose tracce della sua veste romanica. Cerchiamo di rintracciarle per meglio delinear-ne il primitivo aspetto.

Osserviamo innanzitutto che la cappella romanica, che occupava la parte più elevata all’estremo lembo meridionale dell’altura roc-ciosa, era fedele all’orientamento canonico di antica memoria ossia Ovest verso Est, mentre per gli ingrandimenti successivi fu imprescindibile seguire la direzione perpendicolare ed ampliarsi verso nord. La dedicazione con la quale è cita-ta dalla carte d’archivio è quella all’indomito santo vescovo di Novara, Gaudenzio, che resse la diocesi nei difficili e pionieristici anni che vanno dal 337 al 417, epoca cruciale e decisiva per l’espansione della nostra religione. La sua collaborazione con Sant’Ambrogio nella predi-cazione e nella difesa dell’ortodossia del messag-gio cristiano dagli attacchi delle eresie, ariana innanzitutto, e delle ultime e tenaci sacche del paganesimo ne fanno una della figure chiave della storia della Chiesa delle nostre terre.

Le dimensioni di quel piccolo edificio, pro-babilmente fatto costruire o ricostruire dallo stesso Gualberto che in seguito la cederà ai canonici di Santa Maria di Novara, sono quelle del rettangolo compreso fra l’attuale campanile e l’angolo Sud-Ovest del presbiterio, che misura 14 metri in lunghezza, 9 in larghezza e circa 12 in altezza1. Dalle parti originali della struttura primitiva sopravvissute possiamo farci un’idea delle sue prestigiose quanto semplici forme romaniche, che rispecchiano coerentemente e fedelmente lo stile delle altre chiese ossolane. La facciata era divisa da due lesene che forma-vano tre specchiature che si concludevano in alto con gli archetti: cinque nelle specchiature esterne, quattro in quella centrale. Questa era caratterizzata dal portale, dalla relativa lunetta archivoltata con conci a raggera e dalla bella bifora con colonnina e capitello a gruccia, anco-ra visibile, che convogliava la luce all’interno. La corona di archetti delle specchiature era sor-montata da una banda di “denti di sega”, che correva per tutto il perimetro della costruzione,

dal timpano aperto dalla finestra a croce e dagli archetti modulati secondo gli spioventi del tetto. Le fiancate ripetevano l’animata muratu-ra della facciata, con una regolare scansione di specchiature ritmate da lesene che dividevano gli archetti in gruppi di tre. Per l’abside suppo-niamo la stessa decorazione e le tipiche finestre strombate per illuminare il catino absidale. Come a Villa e a Trontano, uno zoccolo di 2,30 metri segue le pareti esterne; uno più basso di un metro distingue la facciata. Del campanile posto in luogo dell’attuale non ci resta nulla, se non la fantasia per immaginarcelo bello ed armonioso, secondo la consuetudine ossolana.

Una cappella romanica pregevole, dunque, che conferma l’omogeneità di stile e di gusto che accomunava le strutture dell’Ossola supe-riore. Per qualcuno è indice di ripetitività e di scarsa fantasia; per noi di scarso c’erano solo i mezzi e le possibilità di edificare edifici monu-mentali ma per quanto riguarda il resto, dal poco di originale che è giunto a noi deduciamo la grande capacità di sfruttare al meglio ciò che il luogo e la natura concedevano con un risultato che il più delle volte ci meraviglia per l’austera ed armonica bellezza.

Dal XIII secolo cresce e si consolida la potenza feudale dei De Rodis, che naturalmente rivolgono la loro attenzione anche alla chiesa parrocchiale, legando il loro nome all’erezione di nuove cappelle ed altari, insieme a confrater-nite piene di zelo e di fervore. Questo fenomeno porta inevitabilmente con sé l’ampliamento della nostra cappella, in concomitanza con l’aumento demografico i cui effetti si palesano anche in valle.

La prima modifica all’impianto primitivo fu proprio la costruzione di due cappelle agget-tanti nella fiancata settentrionale, nei primi decenni del XIV, dedicate alla Madonna e a Santa Maria Maddalena, questa documentata nel 1434. Il successivo intervento fu l’aggiunta di un piccolo portico davanti alla facciata, che col tempo si trasformerà nell’attuale cappella del Rosario, come attestano i resti di un affre-sco incorniciato in una lunetta, raffigurante una Madonna allattante, databile agli inizi del 1400. Come in altre chiese, la lunetta dipinta

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faceva bella mostra di sé sopra il portale di facciata. Lo abbiamo appena appurato sopra il portale di Cravegna, che presenta lo stesso sog-getto iconografico.

Il momento storico tra Quattrocento e Cinquecento segna per la regione ossolana, e per la valle Antigorio in particolare, un momento di notevole espansione economica per un maggiore attivismo degli abitanti, disposti anche ad emigrare verso terre di maggiori ric-chezze: Lombardia, Toscana, Svizzera, Francia, Germania, solo per citare le più ambite, anche

per intraprendere mestieri umilissimi: spazza-camini, ciabattini, stallieri oltre ai più elevati come pittori, orafi e mercanti in genere. I sacri-fici di questi emigranti furono spesso premiati, e la loro fortuna ebbe una ripercussione anche nelle valli che avevano lasciato, grazie al denaro che inviavano ai familiari rimasti in patria e a donazioni di vario genere. Anche le campagne militari che caratterizzarono questi secoli, e che spesso videro l’Ossola come scenario di bat-taglie e di scontri, fra cui rimase epico quello che decretò la fine delle incursioni svizzere al

sistemare contorni foto

2 - Baceno: veduta della facciata della Chiesa di San Gaudenzio. Da notare il timpano con elementi decorativi della primitiva cappella romanica

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ponte di Crevola nel 1487, con il decisivo inter-vento delle truppe viscontee, ebbero risonanza sulla nobiltà ossolana, che ne uscì rinforzata e arricchita. Paolo Della Silva fu l’archetipo del guerriero che, grazie al coraggio e alle indub-bie qualità militari, accrebbe la sua fortuna e il prestigio della sua famiglia, e l’omonimo palazzo, eretto nel 1519, che onora il centro di Domodossola, unica vera gloria dell’architettura rinascimentale della nostra terra, lo testimonia ampiamente. Già abbiamo ravvisato le tracce della sua illuminata committenza nell’abbelli-mento e nel rinnovamento della parrocchiale di Crevola. Nello stesso periodo vengono ampliate le parrocchiali di Varzo, di Domodossola, di Montecrestese, di Crodo, di Villadossola (pur-troppo…), di Cravegna e ovviamente di Baceno. Dopo quasi due secoli di quasi totale assenza di produzione architettonica, ecco ricomparire cantieri e maestri in grado di gestirli.

Quindi non deve stupire più di tanto l’impo-nenza della chiesa che sorgerà nello spazio di un secolo su questo colle, inglobando la nostra pur notevole cappella romanica. Una monumen-talità e una magnificenza esornativa che certo sorprendono in paesino di montagna quale era ed è Baceno.

La piccola chiesa quindi non poteva basta-re alle esigenze di questa comunità in forte espansione economica e sociale, e si decise così di ingrandirla: vista la posizione sul colle, l’ampliamento dovette necessariamente abban-donare l’orientamento della cappella e svilup-parsi perpendicolarmente verso nord e in lieve pendenza, andando a invadere quella parte di terreno un tempo occupata dal castello e dalle sue fortificazioni. La cappella divenne quindi il presbiterio della nuova chiesa, subendo l’ab-battimento della parete settentrionale e delle relative cappelle, e la costruzione della navata rettangolare che praticamente era larga quanto la lunghezza dell’edificio romanico.

Per aumentare la stabilità e il sostegno del massiccio e gravoso tetto di piode furono aggiunte due piccole navatelle. Come a Crevola e a Cravegna, due file di colonne segnarono le navate e diedero sostegno alle arcate a sesto acuto, lasciando trapelare quell’attardato gusto

gotico di derivazione transalpina che caratteriz-zò le nostre vallate nel corso del Cinquecento, mentre il resto della penisola coglieva ormai i frutti più maturi dell’esaltante esperienza rina-scimentale. Anche il presbiterio fu coperto con una volta a crociera e illuminato da una finestra che culmina con un arco a sesto acuto in luogo della consueta arcatella a tutto sesto.

Il soffitto delle tre navate era caratterizzato da una copertura lignea a cassettoni, mentre il tetto era assicurato da robuste capriate di legno. La facciata in serizzo venne aperta dal portale e dal rosone in marmo di Crevola, anch’esso di stile prettamente goticheggiante, e decorata, nel triangolo superiore del timpano, con gli archetti monolitici della vecchia chiesa romani-ca, organizzati in tre corsi paralleli sovrapposti, coronati dalla cornice a dente di sega, secondo il medesimo disegno che caratterizza la faccia-

6 - Baceno: Chiesa di San Gaudenzio, particolare della muratura della cappella originaria sopravvissuta ai vari ampliamenti.

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ta del tempio di San Giulio di Cravegna, che prevedeva anch’esso le due aperture cruciformi, una aperta e una chiusa, nella parte terminale del timpano. E’curioso questo reimpiego di materiale antico con una nuova e diversa fun-zione decorativa.

Il completamento di questa fase dei lavori che il Bertamini definisce “momento goti-co”, è documentato nel 1505, ma certo non si esaurisce l’ansia di abbellire e di ingrandire la chiesa di San Gaudenzio da parte del popolo e della prestigiosa committenza. Si sostituisce innanzitutto il campanile romanico, che non doveva essere di imponenti dimensioni, con una struttura proporzionata al nuovo aspetto della chiesa. S’innalza una superba torre con una base di 7 metri per lato, elevata sino alla ragguardevole altezza di 31 metri, con la cella campanaria aperta da quattro finestre bifore, in seguito sostituite da altrettante aperture con arco a tutto sesto. Un ricordo dell’antico fusto romanico è ravvisabile nelle tre file di archetti che caratterizza le tre cornici terminali. Una bassa cuspide chiudeva la pregevole costruzio-ne, datata al 1523. Nel secolo successivo fu posta l’attuale guglia, snella e slanciata, che portava a 50 metri l’altezza totale dell’im-ponente fusto, che divenne parte integrante dell’incantevole panorama di questa porzione della valle Antigorio.

Nel 1524 viene consacrata la nuova chiesa, ma negli anni seguenti un nuovo cantiere era in piena attività per ampliare lo spazio con l’aggiunta di due navate laterali, più ampie delle precedenti. Per ricavare le nuove navate fu necessario tagliare i muri perimetrali con arcate a tutto sesto, e non più a sesto acuto, poggian-ti su quattro basse e tozze colonne sulle quali si impostarono anche le volte a crociera, che vennero a coprire le cinque cappelle per parte che si formarono. Dei semipilastri fissati alle pareti estremali rassicurarono vieppiù queste nuove formazioni, che insieme alle volte a botte delle navatelle (“singolari corridoi” li definisce l’Errera) intermedie concorsero ad un’adeguata distribuzione delle spinte del massiccio e vasto tetto a due spioventi che gravava sull’edificio. Caratteristico il contrasto stilistico tra gli archi

acuti, imponenti e leggiadri, che segnano la navata centrale, e gli archi a tutto sesto, bassi e pesanti, che delimitano le navate laterali. Sulla porta orientale della facciata è riportata la data del 1546, che probabilmente indica la fine di questo intervento, che comportò anche l’amplia-mento della zona del presbiterio. Nel Seicento (1626) registriamo la costruzione della grande cappella dedicata al Santissimo Sacramento, curata dall’omonima Confraternita, che aprì ulteriormente parte della fiancata occidentale; a fine secolo (1698) si rinnova anche l’abside, che assume forma semiottagonale, e si costruisce la nuova sacrestia che va porsi tra essa e il campa-nile. Nel 1715, sempre sulla parete occidentale, viene aggiunta una cappella dedicata a Santa Vittoria, poco aggettante rispetto alla preceden-te cappella del SS. Sacramento, per accoglierne le sacre spoglie, provenienti dalle catacombe romane.

Nell’Ottocento si rinnovano i soffitti con i medaglioni affrescati da Gian Maria Bonari (1824-25), che sostituiscono la precedente sof-fittatura a cassettoni. Il Novecento registra la costruzione all’esterno della struttura, di una grotta (1914) che ricorda le miracolose appari-zioni della Vergine a Lourdes.

Attenteremmo al nostro amore per le arti se non citassimo almeno il formidabile apparato decorativo, pittorico e non, che fa di questa chiesa un vero e proprio museo di arte sacra.

Per gli amanti degli affreschi, questa chiesa è pura manna dal cielo, in quanto sono presenti e visibili, e in discrete condizioni di conserva-zione, alcuni cicli davvero ragguardevoli per tecnica di esecuzione e per interesse iconografi-co. Gli stili che possiamo ammirare e studiare vanno dal tardo gotico al Rinascimento maturo e oltre. Il primo nome da citare è quello di Giacomo di Cardone, che nella seconda metà del Cinquecento affrontò l’intera decorazione delle volte e dei sottarchi delle navate laterali, da poco erette, e intervenne con altri saggi del suo stile, manieristico con decisive influenze nordiche, nel battistero e nella parete di con-trofacciata con un’ Ultima Cena interessantis-sima per le novità compositive, per il gusto cromatico e per l’innovativa scelta iconografica.

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Un’opera veramente “grandiosa per il tempo e il luogo in cui venne realizzata”2.

La grazia e la raffinatezza tardo-gotica carat-terizzano il notevole affresco della Madonna in trono con Bambino, osservabile sull’ultimo pilastro della navata destra. La cappella del santo Rosario, originata dall’antico portichet-to della cappella romanica, conserva seppur disordinatamente alcuni pregevolissimi saggi a fresco di notevole spessore, tra i quali il Transito della Vergine, gravemente danneggiato, riferibili ai pennelli dei Cagnola di Novara, degli Sperindio, Francesco e Giovanni, figli di quel Tommaso già attivo tra Quattrocento e Cinquecento nella regione; molto bella anche una delicata Annunciazione. In questa cappella osserviamo anche la preesistente, quattrocente-sca Madonna del Latte.

Il presbiterio, che, ripetiamo, occupa lo spazio della originaria cappella, si discosta enor-memente dalla semplicità e austerità romanica con un apparato ornamentale magniloquente: alla destra dell’altare la Crocifissione (che pratica-mente ricopre la parete interna della vetusta fac-ciata romanica) e Il Peccato originale del Bugnate, opere eccellenti, ricche di gusto popolaresco per la vivacità delle figure e dei loro abbigliamen-ti, veramente lodevoli nella ricerca espressiva di alcuni volti e nella fluidità di disegno e di stesura cromatica. Sempre del medesimo autore segnaliamo, sulla volta sopra la Crocifissione, la raffigurazione di un brano tratto dall’Apocalis-se, il Drago dalle sette teste, orrido e fantasioso, “sfrenata e folle rappresentazione... che merita lode di originale ed efficace opera d’arte”3.

Sulla colonna della navata centrale dirim-petto al pulpito ci attrae un’eloquente raffigu-razione della Pietà del 1509, opera di Giovanni Cagnola, dall’accorato e partecipato pathos, rafforzato da una preghiera in caratteri gotici, bellissimo documento del forte sentimento reli-gioso che ha animato le nostre valli nei secoli passati. Ricordiamo ancora il coro in legno di noce con stalli finemente intarsiati nel 1698 dal maestro Lorenzo Battaglia; il polittico di scuola tedesca del 1526, opera d’intaglio policroma di sorprendente eleganza; l’altare barocco con il fastoso baldacchino dalle salomoniche colonne

tortili che sorreggono un’esuberante corona, lavoro d’intarsio del 1747 eseguito dal maestro di Macugnaga Giacomo Iacchetti; i vetri istoria-ti cinquecenteschi che producono mirabili effet-ti luminosi; il battistero marmoreo che ricalca abbastanza fedelmente gli analoghi manufatti delle parrocchiali di Crodo e di Cravegna. Il sof-fitto della navata centrale mostra quattro meda-glioni, di disegno classico e di discreta qualità, del vigezzino Gian Maria Bonari, datati 1825, mentre gli altri affreschi ottocenteschi, che ornano le pareti esterne delle navate laterali con le vicende della vita di San Gaudenzio, dipinte da Paolo Ranieri di Cannobio rappresentano per la verità la parte più debole, per ispirazione e per qualità, dell’intero apparato decorativo.

Come si può facilmente immaginare, si tratta di un capolavoro architettonico che rac-chiude molti capolavori artistici, il tutto in uno scenario ambientale che è già di per sé un capolavoro della natura. Sì, l’unica parola che viene in mente, dopo aver passato alcune piacevolissime ore in questo luogo d’incanto, è capolavoro! Edificante e appassionante è l’idea che all’opera mirabile e perfetta del Creatore si sia affiancata l’azione ispirata di generazioni di architetti e artisti, che hanno modellato la cima di una collinetta per lasciarci un’opera d’arte che giustamente si pregia del titolo di Monumento nazionale.Note

1 T.BERTAMINI, “Per la storia della chiesa di San

Gaudenzio di Baceno”, in Oscellana, 1989.2 G.BIANCHETTI, “I monumenti e i segni d’arte”, in

Ossola, Storia, Arte, Civiltà, Anzola d’Ossola 1993.3 C.ERRERA, “L’Ossola”, op. cit., 79.

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San Giorgio di Beura

Torniamo sulle rive del Toce, nell’ampia piana che accoglie i centri maggiori dell’Os-sola Superiore, e poniamo la nostra attenzione sul piccolo centro abitato di Beura, una loca-lità nota soprattutto per il marmo locale, una delle risorse più importanti nell’economia delle nostre vallate.

Si è sviluppata in un sito geografico molto importante dal punto di vista della viabili-tà ossolana, organizzata in due tronconi che hanno servito rispettivamente le due sponde del grande fiume ossolano. Una viabilità, per quanto riguarda la sponda sinistra, condizio-nata dal percorso delle acque del Toce, che nei secoli passati lambiva le pendici rocciose del Croppo di Trontano, si dirigeva verso il centro del bacino ossolano, per poi ripiegare ancora verso le creste rocciose dello Scopello della Masone, nel territorio di Vogogna. Sui coni di deiezione dei torrenti di questa fascia montana si sono sviluppati gli insediamenti di Prata, Cuzzego e Beura. Sopra queste località è sorta Cardezza, attraversata dalla strada che doveva spesso arrampicarsi sulla montagna per evitare la pericolosa vicinanza con il fiume. Questo lembo di territorio ha avuto notevole impor-tanza dal punto di vista difensivo, in quanto ancora ai tempi di Ludovico il Moro, e quindi alla fine del Quattrocento, furono rimesse in funzione le antiche torri di avvistamento che facevano di questa zona, denominata appunto “della Guardia”, uno degli avamposti difensivi fondamentali nella storia della strategia milita-re ossolana. La stessa chiesetta di San Giovanni Battista di Cuzzego1 trova le sue origini dentro una fortificazione difensiva con tanto di torre e quindi un’altra struttura sacra “ad castrum” come abbiamo già rilevato per le chiese di Baceno e di Santa Maria del Piaggio.

Un collegamento alla difesa militare del ter-ritorio si ritrova nella dedicazione della chiesa di Beura, che onora quel Giorgio santo e guer-riero che ne attesta una lunga quanto oscura storia.

Infatti per questo territorio, tanto impor-tante sin dall’antichità per il sistema difensivo della valle, sono veramente pochi i documenti storici che permettono di tracciarne un profilo dettagliato. Proprio la chiesa di San Giorgio ci interessa dal punto di vista architettonico, in quanto il campanile della struttura si mostra ancora ben conservato nelle sue linee originarie, che richiamano inequivocabilmente la stagione romanica.

Andiamo ad osservarle.A prima vista notiamo subita la discrepanza

delle proporzione tra il fusto e il corpo della chiesa, chiaramente ricostruita in seguito con dimensioni maggiori che mal si accordano con quelle del campanile.

La struttura della torre, anche stilistica-

1 - Beura: Chiesa di San Giorgio, il campanile.

togliere fili elettrici

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mente indipendente da quella della chiesa, si nota dal massiccio basamento, probabilmente rinforzato in epoca successiva alla costruzione. Da questo si elevano cinque ordini sui quali si aprivano monofore nei primi due piani, sul terzo una bifora, e due trifore chiudevano quello che doveva essere un notevole esemplare nel quale, ancora una volta, l’alternanza tra la massiccia muratura di buona qualità e i vuoti delle aperture armonizzavano gradevolmente la struttura.

I segni del tempo e l’intervento dell’uomo si fanno notare chiaramente ai nostri giorni, in quanto le aperture appaiono murate e si delinea-no appena gli antichi contorni. Ancora ben leg-gibili, nelle ampie specchiature, i coronamenti di archetti in numero di quattro, appoggiati su peduncoli appuntiti. Appare anche successiva la cella campanaria che si apre nell’ultimo piano della torre.

Una spessa coltre di intonaco ricopre l’origi-naria muratura.

La chiesa adiacente non ha molto da dirci anche se per gli amanti della pittura sono presenti due belle tele di Lorenzo Peretti e di Daniele Crespi. Nella parete meridionale per-mangono tracce di pareti sulle quali s’intrave-dono due lesene e due bifore, forse gli estremi resti della struttura primitiva.

Di questa non abbiamo molte informazioni: non conosciamo la data di costruzione né quella di consacrazione. Gli storici l’hanno spesso asso-ciata alla Pieve di Vergonte, mentre pare certo che invece la sua amministrazione rispondeva a quella di Oxila, in quanto la linea di confine tra le due Pievi seguiva la direttrice, certo molto ideale e aleatoria, da Cuzzego a Villadossola in prossimità del Sasso di San Maurizio, dove abbiamo incontrato i resti romanici del cam-panile dell’omonimo oratorio. Quindi Beura e la sua chiesa parrocchiale facevano parte della Curia di Mattarella, prima della elevazione a parrocchia autonoma nel corso del XII secolo.

Qualche secolo prima, il X dell’era cristiana, il territorio di Beura era assegnato dal Vescovo di Novara ad un suo nipote.

Come detto, non conosciamo la data di edificazione di questa struttura: secondo la

Mormandi il campanile è stato elevato nella prima metà del XII secolo2, forse qualche decennio dopo la costruzione della chiesa che possiamo solo immaginare di forme semplici e disadorne, simile alle altre della valle nel perio-do romanico. Si discosta da questo giudizio la Mazzilli che, seguendo la datazione proposta dal Magni, la posticipa nel terzo quarto dello stesso secolo, dopo aver messo a confronto la torre con altri esemplari del Canton Ticino3.

Ai nostri tempi la chiesa appare ampliata grazie all’aggiunta di una navata laterale, avve-nuta prima del 1618, e ai lavori di rinnovamen-to e di restauro del 1823.

Note

1 T. BERTAMINI, “Da Cuzzego a Prata: appunti storici”,

in Oscellana 1997.2 G.MORMANDI, “L’architettura romanica della Val

d’Ossola”, tesi di laurea, Università Cattolica di Milano

1967/68.3 M.T.MAZZILLI, “Gli edifici di culto dell’XI e XII secolo.

L’alto Verbano e le valli ossolane” in Novara e la sua terra:

storia, documenti, architettura, Milano 1980, Silvana

Editoriale.

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La Pieve di Vergonte: San Pietro di Pallanzeno e San Lorenzo di Megolo

L’immaginaria linea di confine che univa Villadossola con Cuzzego sanciva non solo la divisione geografica tra Ossola superiore e infe-riore, ma anche i limiti delle due pievi storiche di Oxila e di Vergonte. Questa gravava intor-no alla chiesa plebana dei Santi Vincenzo ed Anastasio e includeva anche la cura d’anime nei territori di Prata e Vogogna sino a Migiandone, nonché della valle Anzasca sino a Macugnaga. Documentata assai tardivamente nel 1006, la Pieve di Vergonte che si era resa autonoma da quella di Oxila in epoca longobarda o franca1; a metà del XIII aveva subito le devastazioni di

un’alluvione che aveva spazzato via il borgo di Vergonte e la sua chiesa, ricostruita in seguito, nel 1266, nel luogo ove si trova attualmente. Questi eventi catastrofici sancirono la decaden-za politica di questo borgo a favore della più sicura Vogogna, sulla riva opposta del grande fiume ossolano.

Oltre alla chiesa madre di San Vincenzo, esistevano altre cappelle sussidiarie ad essa: San Martino di Cuzzago, Santa Maria Assunta di Premosello, San Pietro di Dresio, alle porte di Vogogna, San Pietro di Pallanzeno e San Lorenzo di Megolo. Sulle ultime due ci soffermeremo

1 - Pallanzeno: Chiesa di San Pietro.

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poiché sono ancora presenti tracce romaniche nelle loro torri campanarie. Da ricordare anche la chiesa di San Bartolomeo di Bannio, già cita-ta a partire dal XIII secolo, che si renderà ben presto plebana di tutta la valle Anzasca.

Di queste chiese di antica memoria le sole che hanno conservato elementi riferibili al romanico sono, come abbiamo detto, le struttu-re di Pallanzeno e di Megolo.

Al centro del paese di Pallanzeno si trova la chiesa di San Pietro, parrocchiale sin dal 1542, circondata da edifici privati, aperta solo nella parete settentrionale su una piazzetta, da cui è ben visibile il campanile della struttura.

Ai nostri giorni questo campanile non offre più nulla di visibile della sua gloriosa muratura romanica, in quanto restauri ciechi e ignoranti l’hanno completamente rivestito di una massic-

cia coltre d’intonaco grigiastro per armonizzarlo alle pareti della chiesa adiacente. Dobbiamo affidarci a qualche foto di qualche decennio fa per farci un’idea delle linee del campanile roma-nico, sicuramente più interessante dell’attuale “torre cementizia” che ne offende la storia e lo stile.

Situato accanto alla parete settentrionale della chiesa, il campanile si animava con una scansione in verticale di tre specchiature, coro-nate da serie di tre archetti appoggiati su rustici peduncoli a punta. Seguivano altri tre ordini aperti da una finestra a feritoia, dove si potevano vedere i profili di bifore, poi murate, e la cella campanaria, chiaramente di epoca posteriore. La Mormandi fa notare la particolare scansione delle aperture originali, che passano dalle tre inferiori “a feritoia” alle tre bifore nei

2 - Megolo: Chiesa e campanile di San Lorenzo.

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piani superiori senza la più consueta monofora intermedia2.

Una muratura formata da materiale povero e disorganico, “costituita di scapoli di cava rozzamen-te disposti”, come scriveva il Verzone negli anni Trenta del Novecento, che comunque si faceva ammirare per la sua semplice austerità, coeren-temente con i dettami di questo stile architetto-nico. Le specchiature, delineate da archetti for-mati da frammenti e raccolti in piccoli gruppi, le avevamo già incontrate nei fusti della chiesa del Piaggio a Villadossola, a Trasquera e nel San Brizio di Vagna. Queste concordanze, così come l’analisi delle pareti murarie, hanno permesso un’ipotesi di datazione che ci porta alla seconda metà del XI secolo.

Quindi una struttura antica, tale da meritar-si una cura e un rispetto assolutamente dovero-so… ovvero tutto quello che non è avvenuto.

I recenti restauri, “oppressivi” più che con-servativi…, che pur si erano resi necessari hanno purtroppo cancellato nove secoli di storia. Auspichiamo in tempi brevi il ripristino della muratura originaria, oggi oppressa dal cemento e dalla cecità di qualche addetto ai lavori.

Ci spostiamo qualche chilometro più a valle e, dopo aver superato l’odierna Pieve Vergonte, incontriamo nella frazione di Megolo un’altra pregevole testimonianza dell’austera bellezza delle linee romaniche.

La chiesa di San Lorenzo presenta anch’essa la particolare dicotomia stilistica tra il corpo stesso dell’edificio sacro, una modesta costru-zione preceduta da atrio, più volte rimaneggiata e rinnovata, e la possente mole del campanile in pietra viva.

La storia di questo luogo rimanda a un anti-co monastero denominato appunto San Lorenzo “in Clonza” citato in documenti del 1086, del 1095 e in altri successivi3. Come per ogni monastero, attigua ad esso esisteva una chiesa che con molta probabilità è questa di Megolo.

Il monastero decadde alla fine del XIII secolo e i suoi beni risultano incamerati dall’omonimo monastero di Novara. Sopravvisse la cappella, che risultò ampliata già alla fine del secolo suc-cessivo, mentre nei lavori del 1596 si portò a

termine il cambiamento di orientamento della facciata, che fu rivolta a levante.

Il fusto che si eleva alla destra della facciata è un notevole esemplare della tipologia a fusto liscio che in Ossola ha lasciato i migliori pro-dotti a Masera, nel Sant’Abbondio, e in valle Antrona, nella chiesa di Sant’Ambrogio di Seppiana. Il paramento murario, ben conserva-to, è formato da blocchi di pietra non sempre omogenei nelle dimensioni e posti in corsi più o meno regolari. Come spesso accade, i blocchi migliori sono utilizzati per gli spigoli della struttura.

La massiccia muratura viene esaltata dalla mancanza delle partiture orizzontali e verticali che invece animano la maggior parte delle torri campanarie ossolane, “figlie” del modello del San Bartolomeo di Villadossola. Le aperture si limitano ad una feritoia architravata nel primo ordine, e alla raffinata bifora con capitello a gruccia in quello sovrastante. La parte termi-nale del fusto, la cella campanaria con la slan-ciata cuspide gotica, appartengono ad aggiunte posteriori.

Note

1 T.BERTAMINI, “L’Ossola nella diocesi di Novara”, in

Oscellana 1995.2 G.MORMANDI, “L’architettura romanica della Val d’Os-

sola”, op. cit., p. 22-233 E.BIANCHETTI, “L’Ossola Inferiore”, Torino 1878.

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La porzione meridionale della regione è quella occupata storicamente dai territori della pieve di Mergozzo, geograficamente meno este-sa rispetto a quelle di Oxila e di Vergonte ma che conserva molti ricordi tangibili della sta-gione che è l’oggetto di questa ricerca.

Citata anch’essa dalla bolla di papa Innocenzo II, sappiamo che era attiva ed organizzata già nei secoli prelongobardi, come confermano le fondamenta di una cappella con tre absidi, che troviamo accanto alla chiesa romanica di San Giovanni in località Montorfano. Dal XIII seco-lo il suo centro focale era rappresentato dalla chiesa di Santa Maria Assunta di Mergozzo, dove la pieve si era trasferita, lasciando così il Montorfano in seguito non a catastrofici eventi come spesso qualche storico ha lasciato intende-re, ma in conseguenza del passaggio giuridico di Mergozzo a Borgofranco, status che portava numerosi vantaggi a coloro che vi si inurbava-no, primo fra tutti lo svincolo dagli obblighi feudali. Nei secoli che ci interessano l’ammi-nistrazione civile di questa fetta di territorio di confine sottostava alla contea di Pombia.

Scendendo il fondovalle ossolano verso le acque del lago Maggiore, incontriamo la loca-lità di Candoglia, il cui toponimo, ricavato dall’aggettivo latino “candidus”, rammenta una delle qualità del pregiato marmo rosato tratto dalle sue celeberrime cave, che hanno fornito il materiale per la costruzione del Duomo di Milano1. Ai nostri giorni Candoglia si presenta come un piccolo agglomerato di case che fanno da corona all’edificio che ci interessa, e che si mostra su un modesto poggio verso le pendici della montagna.

L’oratorio, discretamente conservato, si trova ai margini di una zona molto ricca dal punto di vista archeologico, grazie agli scavi che hanno fatto emergere suppellettili di epoca romana.

La Pieve di Mergozzo: San Graziano di Candoglia

Le sue forme richiamano la semplicità tipica delle cappelle ossolane, con l’aula rettangolare animata dall’ampia abside semicircolare a coro-na dell’altare. L’interno ha perso praticamente tutti i riferimenti originari con il succedersi di interventi che hanno modificato il primitivo tetto a capriate, la pavimentazione e le pareti con la consueta modesta intonacatura.

Più interessante l’analisi degli elementi esterni. La facciata innanzitutto: la forma a capanna viene in questo caso qualificata da due arconi ciechi, stretti, lunghi e poco profondi, ai lati del portale, il quale si presenta sormontato da un archivolto formato da irregolari conci tra-pezoidali di marmo rosa. Il gradevole campanile a vela che si alza sul margine sinistro è di epoca posteriore rispetto all’edificazione dell’oratorio romanico.

1 - Candoglia: Chiesa di San Graziano, facciata.

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Il particolare decorativo dei due arconi ciechi si ritrova a pochi chilometri da Candoglia, nella chiesa di San Vittore, sull’isola dei Pescatori sul lago Maggiore, però nella struttura absidale e non in facciata.

La muratura delle pareti esterni trapela tra i vari strati di intonaco che coprono l’intera superficie muraria, e si rivela composta di materiale povero e frammentario, con masselli di reimpiego disposti a casaccio.

Le pareti laterali sono divise in tre campi da lesene abbastanza larghe, mentre la struttura absidale viene ripartita in cinque campiture.

Anche gli archetti pensili che corrono nell’abside e nelle pareti laterali denotano una fattura povera e modesta. Attualmente sono stati “aggrediti” e consolidati da spessi strati di cemento. Anche le aperture sono state alterate e possiamo osservare solo le due finestre rettan-golari “seicentesche” nella parete meridionale, e tre anguste feritoie a doppia strombatura nei tre campi centrali dell’abside.

Anche per questo edificio le certezze storiche si sono sfilacciate nei secoli sino a scomparire. Forse è una delle cappelle citate dalla bolla papale di Innocenzo II nel 1133, dove si legge “Plebem Mergotii cum capellis suis”; la datazione sulla quale concordano i pochi storici che si sono interessati al romanico ossolano si concen-tra nella seconda metà del XI secolo2.

Comunque, nonostante i pesanti interventi di consolidamento, l’oratorio di San Graziano, per via dei suoi austeri e disadorni elementi decorativi, riesce a conservare quell’aura arcaica e “romantica” che caratterizza, affascinando, il romanico ossolano.

Note

1 M. MAFFIOLI, “Montorfano, fogli di carta, blocchi di

piera, storie di uomini”, Mergozzo, p. 19-20.2 P. VERZONE, “L’architettura romanica del novarese” in

Bollettino storico di Novara XXXI, 1937.

2 - Candoglia: Chiesa di San Graziano, parete meridionale ed abside.

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Certamente una delle più affascinanti loca-lità dell’Ossola inferiore è Mergozzo, con il suo piccolo ma incantevole lago, le sue frazioni abbarbicate sui dolci pendii che la circondano, la sua lunga storia, testimoniata fra l’altro da una serie di edifici sacri di sicuro interesse.

La chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta si fa apprezzare nella sontuosa veste baroccheg-giante, dovuta alla ricostruzione seicentesca che l’ha ampliata con le attuale tre navate, intensa-mente decorate. Ci interessa invece il notevole campanile, il cui fusto a pianta quadrata si fa ammirare nel suo robusto impianto sulla quale si è realizzato una paramento murario con mate-riale frammentario, granito per lo più, orga-nizzato “con una certa cura” in corsi abbastanza regolari. Sono visibili ancora le due specchia-ture romaniche, nel terzo e nel quarto ordine, poco profonde e sormontate superiormente da

Santa Marta di Mergozzo

una cornice di sei archetti pensili, minuti ma eseguiti con precisione e privi di ornamenta-zione scultorea. Altresì notiamo sulla parete meridionale una fascia a dente di sega, tra la seconda e la terza specchiatura. Le aperture si limitavano a strette feritoie, alcune giunte ai nostri giorni murate.

Un esemplare di buona fattura, che fu rial-zato di due piani nel 1665. La parte originaria viene assegnata invece alla prima metà del XII secolo (Verzone), ma l’aspetto degli archetti, di modesta dimensione e raggruppati in serie alquanto numerose, può indicare una edificazio-ne più recente (Mazzilli).

Alcuni resti del campanile e della chiesa primitiva, rinvenuti duranti alcuni lavori urba-nistici, furono inglobati nella muratura della parete est della sacrestia.

A poche decine di metri dalla chiesa madre

1 - Mergozzo: Oratorio di Santa Marta.

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della Pieve di Mergozzo, ci attendono le mura estremamente ben conservate di un grazioso oratorio, la cui bella e calda muratura in pietra viva ci riporta ai secoli romanici: la chiesa di Santa Marta, un tempo intitolata invece ai santi Quirico e Giulitta, che abbiamo già incontrato, onorati sulle pendici del colle di Mattarella alle porte di Domodossola.

Circondato su tre lati da edifici di epoca moderna, e a meridione dalla strada comunale che corre verso il piccolo lago, posto a pochis-sima distanza da queste antiche mura, non possiamo non apprezzarlo nelle sue ordinate ed armoniose linee.

Le fonti rivelano che contiguo ad esso esi-steva già nel basso Medioevo un complesso assistenziale e la stessa cappella che “non sorse per essere luogo di culto (per il quale c’era già la parrocchia): sorse per essere un rifugio-cappella per i viandanti e i pellegrini”1. Ecco spiegata la dedi-cazione ai due santi orientali, Giulitta madre e Quirico figlio, invocati a quei tempi come patroni dei viandanti. Già nel VII secolo papa Gregorio Magno autorizzava questa particolare funzione di queste cappelle conformemente al

dettato evangelico “Ero pellegrino e mi avete con-solato”.

Notiamo subito la leggera irregolarità della geometria rettangolare della sua pianta, le pare-ti divergenti verso la facciata, conclusa nella parte opposta dall’abside semicircolare.

Guardiamo la facciata a capanna, non senza qualche impaccio per la presenza dell’edificio costruito a pochi metri dirimpetto ad essa, con il semplice portale sormontato da un architrave di granito, da un archivolto con blocchi tra-pezoidali disposti a raggera e dall’unica altra apertura della sua superficie muraria, la tipica finestra cruciforme. Il timpano viene segnato da blocchi sporgenti e dalla cornice sguanciata che segue ed unisce gli spioventi del tetto.

Una diversa attenzione decorativa caratteriz-za le due fiancate: quella che guarda a setten-trione è appena animata da una lesena, che la divide in due ampie campiture, e dalla cornice di archetti. Nessuna finestra apre la superficie, così come avveniva per l’oratorio di Candoglia che ci siamo lasciati alle spalle prima di entrare a Mergozzo.

Interessante invece la parete opposta, che si

2 - Mergozzo: Santa Marta, pianta dell’edificio.

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mostra alla strada comunale e che attesta l’im-portanza della costruzione con il suo discreto apparato decorativo. Anch’essa suddivisa in due campi irregolari da lesene formate da blocchi di pietra, è segnata superiormente dalla fuga di archetti che poggiano su mensoline di granito o di serizzo, scolpite con semplici figure antro-pomorfe o con elementari stilizzazioni geome-triche. Anche il bel portale, situato verso l’an-golo con la facciata e preceduto da tre gradini a causa del dislivello del terreno a cui si è dovuta adattare la cappella, si mostra strombato e con piccole colonne con capitelli ornati da sculture appena leggibili su cui si poggia un archivolto con conci ben squadrati e disposti a raggera. Da notare la bella ghiera toroidale, nella parte più interna sotto l’archivolto.

L’abside è tripartito da due lesene semicirco-lari poggianti su una zoccolatura ed è abbellito da dodici archetti ben sagomati e spartiti in gruppi di quattro.

Al primo colpo d’occhio si apprezza l’ottima qualità della muratura, con i blocchi di pietra squadrati direi in maniera impeccabile, e orga-nizzati in corsi regolari di piatto e di taglio da maestranze di sicura esperienza. Apprezzabili anche gli archetti ricavati da un solo concio e le rudimentali testine di forma umana che trovia-mo sui beccatelli.

Gli elementi primitivi vennero modificati in seguito agli inevitabili interventi di manu-tenzione: il rustico soffitto a capriate lignee, descritto ancora nel 1597, fu sostituito nel secolo successivo dall’attuale volta in muratura. Nel 1729 fu costruito il piccolo campanile a vela in facciata, e pochi decenni dopo furono ampliate e modificate le finestre absidali, poi murate ma opportunamente ripristinate nel 1932, tranne per quella centrale, ancora chiusa ai nostri giorni.

Una curiosità: la lunetta posta sopra il portale della parete che dà sulla strada rappre-senta Santa Marta, venerata dalla confraternita dei Disciplinati che dal 1603 trasferirono la loro sede in questa cappella, la quale da allora cominciò ad essere conosciuta con il titolo di questa santa, soppiantando l’antica denomina-zione.

Un oratorio modesto nelle dimensioni ma prezioso nella sua veste esterna, che ha con-servato le sue caratteristiche originarie, tanto da meritarsi una citazione dal Porter nel suo ponderoso studio sull’architettura lombarda2. Lo studioso inglese la assegna ai primi decenni del XII secolo; si discosta di poco il Verzone, che colloca l’edificazione alla metà di quel secolo. Di certo concordiamo con la Mazzili quando afferma che “l’alta qualità del paramento murario… rivela la presenza di un’abile maestranza più che una tarda cronologia e l’estrema coerenza tra decorazione e struttura indica l’appartenenza al pieno stile romanico”3.

Note

1 D. IMPERIALI, “Mergozzo memorie storiche”, Mergozzo

1969, p.50.2 K. PORTER, “Lombard Architecture”, I, Londra 1917,

p. 519.3 M. T. MAZZILLI, “Gli edifici di culto dell’XI e XII secolo.

L’alto Verbano e le valli ossolane” in Novara e la sua terra:

storia, documenti, architettura, op. cit.

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Santa Maria di Bracchio

Rimaniamo ancora nel territorio comunale di Mergozzo, spostandoci solamente in una delle sue frazioni superiori, per scoprire un altro edificio che non deluderà gli amanti e i cultori di questo stile architettonico: la chiesa intito-lata alla Natività della Vergine al Cimitero in località Bracchio.

La possiamo osservare in posizione periferica rispetto al centro abitato, circondata dal cimite-ro, caratteristica tipica e consolatoria dei secoli medioevali, che si è conservata in pochi edifici sacri della nostra regione.

Sono facilmente riconoscibili le peculiari-tà romaniche ancora presenti nella struttura, individuabili nella parte posteriore e nel cam-panile.

Fu edificata nella prima metà del XI secolo secondo i dettami del più tipico stile romanico alpino, con l’unica navata rettangolare conclusa dall’abside semicircolare.

La navata era lunga una decina di metri meno dell’attuale costruzione, e dall’analisi delle pareti esterne è facilmente ravvisabile la parte più moderna aggiunta in seguito (1550). Del paramento murario primitivo si può avere un’idea osservando la fiancata meridionale con la cornice di archetti discretamente assemblati con materiale frammentario e appoggiati su menso-line scolpite a forma di testine umane come già abbiamo appurato nella cappella di Santa Marta e come vedremo nella chiesa di Montorfano. I blocchi di pietra appaiono squadrati in manie-ra abbastanza sommaria e talvolta intervallati da mattoni, il tutto giunto da spesse coltri di malta; i corsi sono sufficientemente regolari, disposti di piatto e di taglio. Attualmente la parete si osserva consolidata e riordinata dai restauri ottocenteschi. Brutte finestre rettango-lari hanno sostituito nel tempo le aperture pri-

mitive, che possiamo presumere ricalcassero le monofore strombate che si intravedono ancora nella muratura dell’abside, seppur murate.

Questa si presenta divisa in tre campitu-re coronate ciascuna da quattro archetti, che ripetono gli stessi moduli stilistici della fian-cata meridionale, salvo la presenza di cocci di cotto alla base degli archetti e negli archivolti delle aperture. Alcune iscrizioni marmoree di carattere funerario attualmente ne caricano la superficie.

1 - Bracchio: Chiesa di Santa Maria, particolare del cam-panile.

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2 - Bracchio: Chiesa di Santa Maria, particolare dell’abside e dell’alzata posteriore

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Nell’alzata posteriore ritroviamo la tipica finestra cruciforme, semplice di forma ma di forti motivazioni simboliche, come abbiamo appurato a Villadossola nel San Bartolomeo, e nel San Quirico del capoluogo ossolano. Peccato che ai nostri tempi si mostri deformata per la mancanza di qualche frammento e bisognosa anch’essa di qualche intervento di manutenzio-ne.

Attiguo alla fiancata settentrionale, in zona presbiteriale, si eleva il campanile che presenta quattro ordini di specchiature, coronate da una coppia di archi. Nei primi tre piani le aperture sono malamente murate e brutalmente intona-cate; aperta si conserva la bella bifora terminale con la colonnina cilindrica, il capitello a stam-pella e la coronatura a ghiera.

La muratura originaria è anch’essa ricoperta da strati cementizi che non consentono di osser-vare la superficie originaria che gli storici del passato ci hanno descritto “formata da materiale frammentario”. Una struttura che meriterebbe un accurato restauro e un repentino ripristino delle caratteristiche originarie per essere armonizzata con la parte posteriore, la più interessante, la più antica, la più bella!

Per la cronaca, registriamo gli interventi che hanno portato la costruzione alle forme attuali: come già accennato, nel 1550 fu distrutta l’an-tica facciata e allungata la chiesa anteriormente; le nuove porzioni di parete non furono decorate con gli elementi che connotavano le restanti parti originarie cosicché appaiono spoglie e disadorne e poco consonanti fra loro. Nei decen-ni successivi venne costruita una navata, tanto che nel 1597 la chiesa veniva descritta con una navata maggiore terminata da un’abside semi-circolare, e con una minore fornita di un nuovo altare1.

Tre erano gli ingressi: uno in facciata e gli altri due che servivano le fiancate della costru-zione.

Nel secolo successivo fu rinnovato il soffitto con l’attuale volta, e nel corso del Settecento alla facciata venne aggiunto un ampio atrio vol-tato; nel 1861 si procedette alla pesante coper-tura della torre campanaria “con un rozzo intonaco tinteggiato di giallo”. Oggi osserviamo un triste

campanile intonacato con un brutto grigio che non ha nessuna attrattiva e nessuna coerenza stilistica con la struttura adiacente.

Molte operazioni di ripristino furono appron-tate nei decenni del secolo scorso, fino alla situa-zione attuale, con una struttura che mostra tutti i segni del tempo trascorso e tutte le varie fasi degli interventi umani che l’hanno più volte manomessa senza tanti scrupoli stilistici.

Come per altre chiese del nostro territorio sarebbe veramente auspicabile un deciso inter-vento di recupero, che completasse il decoro delle pareti laterali, seguendo quello così degno di attenzione della originaria struttura romani-ca e soprattutto il restauro del campanile, assur-damente “coperto” di cemento e brutto almeno quanto quello di Pallanzeno.

Concordi gli storici nell’ attribuire a due diverse epoche di edificazione per la torre e il corpo della chiesa: la seconda metà del XII secolo per questa, circa un secolo prima per il campanile, che mostrava nella muratura origi-naria una maggiore presenza di elementi arcaici e rifiniture grossolane, con materiale povero e frammentario rispetto al paramento murario della chiesa. Questa denota un’accuratezza senza dubbio più marcata e una ricerca di decoro sen-sibilmente migliore2.

Note

1 C. BASCAPè, “Novara sacra”, Novara 1929, p. 219.2 P. VERZONE, “L’architettura romanica del novarese”, op.

cit., p.79-81.

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Concludiamo, direi in maniera eccellente, il nostro devoto pellegrinaggio alla ricerca delle memorie romaniche della nostra bella regione con la visita di una delle testimonianze più importanti: la chiesa di San Giovanni Battista, ubicata in una amena radura erbosa tra i boschi di quella “sentinella avanzata” che è il Monte Orfano.

Non c’è migliore descrizione di quella lasciataci da don Dante Imperiali, parroco di Mergozzo e storico per diletto, che con parole accorate ci introduce in questa affascinante località:

“…poche case, casupole di pietra addossate le une alle altre, con una ventina di abitanti, abbarbicati alla loro montagna, che si ostinano a vivere in quella quiete operosa. Lì il tempo sembra che si sia fermato; è un angolo stupendo. Alla mente di chi non sia digiu-no di storia ed ami retrocedere con il pensiero verso lontani tempi andati, il villaggio offre quanto di più fascinoso la immaginazione possa concepire. D’un balzo lo fa retrocedere di undici secoli e lo trasporta nell’alta antichità del primo medioevo. Si chiama San Giovanni e come i villaggi più antichi ha preso il nome dal titolo della sua chiesa. C’è ancora ed è stupenda”1.

Stupenda… non c’è che dire; anche in que-sto caso è da sottolineare la simbiotica armonia tra struttura architettonica e ambiente che la ospita.

La caratteristica che più sorprende è il suo discostarsi dall’usuale disegno ad aula rettango-lare, ripetuto praticamente in tutta la regione ossolana, per una pianta a navata unica e a croce latina con tiburio ottagonale, abside semicirco-lare e un apparato decorativo davvero notevole.

Già un documento datato 885 cita l’arci-diacono novarese Raginaldo, della famiglia dei conti di Pombia, che donò in eredità un

San Giovanni in Montorfano

oliveto che si stendeva nei pressi della “terra di Sancti Johannis”: si può presumere che si tratti di una chiesa intitolata a San Giovanni, che sorgeva più o meno nella stessa zona. A tale proposito, negli anni Settanta del Novecento, a pochi metri dalla fiancata meridionale dell’at-tuale costruzione, furono rinvenute dal Gruppo Archeologico di Mergozzo le fondamenta di un’antica struttura triabsidata, che svelarono quello che già molti storici avevano ipotizzato, e cioè la presenza di una chiesa preromanica sul pianoro di Montorfano2, addirittura una chiesa battesimale, da cui il titolo a San Giovanni Battista, dove aveva sede l’antica Pieve, sposta-tasi nell’attuale sede parrocchiale nel centro di Mergozzo nel corso del XIII secolo, allorquando questo fu elevato al rango di Borgofranco3.

Quando fu eretta l’antica costruzione, di cui adesso possiamo solo osservare le fondamenta?

Un indizio prezioso è fornito da un reperto che faceva parte di questa struttura: un capitello a forma cubica, che presenta in due facce alcune

1 - Montorfano di Mergozzo: Chiesa di San Giovanni Battista, particolare della decorazione di una fiancata e del tiburio.

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incisioni rapportabili alla sensibilità artistica longobarda con segni stilizzati di carattere vegetale; conservato all’interno dell’impianto romanico, è stato svuotato al centro e utilizzato come acquasantiera. Quindi in piena età lon-gobarda una chiesa intitolata a San Giovanni serviva la cura d’anime del piccolo abitato di Montorfano, che dal X secolo in poi rientrerà tra i tanti possedimenti dei conti di Pombia. Le fonti ci parlano anche di un antico castello, le cui fondamenta erano ancora visibili nel 1603. Un terremoto del 1117, che secondo il Cassani fece deperire per sempre quello che rimaneva del municipio longobardo del lago Maggiore di Stazzona4, potrebbe essere la causa della scom-parsa di queste antiche mura sacre, e quindi dell’edificazione della nuova chiesa che è quella che possiamo ancora ammirare ai nostri giorni, ben conservata e quasi intatta nelle sue caratte-ristiche originali.

Come detto, è stata eretta seguendo lo sche-ma a croce latina; la facciata ripete la semplicità della forma a capanna e non viene interrotta da nessuna partizione architettonica, quali lesene o cornici aggettanti. La bella e ordinata muratura composta da conci ben sagomati si apre solo nell’interessante portale che richiama quello di Santa Marta di Mergozzo, con la strombatura formata da lesene e semicolonne sulle quali tro-viamo capitelli decorati da semplici incisioni. Un archivolto con conci a raggera circoscri-ve una lunetta, sopra la quale una monofora strombata richiama il disegno del portale. Notevolissimi gli archetti della cornice, costi-tuiti da piccoli conci di cotto e di granito, la cui alternanza cromatica anima e non poco la semplice e solenne austerità della facciata.

Più articolate le fiancate, che mostrano l’ine-dito modulo decorativo degli archetti intrec-ciati, un gradevole effetto ornamentale che non troviamo in Ossola e che ricordiamo nella chiesa di San Pietro a Gallarate e nel celebre San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia5.

Le pareti dei transetti ripetono invece la semplicità della facciata.

L’abside si fa apprezzare per la nitidezza delle sue linee e l’estrema perizia della sua superficie muraria; inoltre si anima della finta galleria for-

mata da dodici archi sostenuti da sottili colonne con capitelli variamente modellati. Due ampie monofore con archivolto formato da un unico blocco di pietra si aprono sotto il loggiato.

Sopra l’incrocio dei transetti, il tiburio otta-gonale impostato su una base quadrata è sor-montato da una lanterna, anch’essa quadrata, conclusa da una cuspide. Ancora il motivo ad archi intrecciati corona il tiburio, mentre quat-tro semplici archetti segnano le specchiature della lanterna.

Vale la pena di soffermarsi sull’apparato scultoreo che abbellisce le mensole e i peducci degli archetti e delle altre strutture dell’edifi-cio: un vero e proprio campionario dei motivi decorativi medievali, con testine antropomorfe, volatili, motivi vegetali, fiori, tori, il serpente che si morde la coda, il drago. Ornamentazione che caratterizzano sia il paramento murario esterno, sia le strutture interne dell’edificio.

L’interno, come del resto l’intera struttura, si è giovato degli ottimi interventi di restauro del 1970 che oltre a consolidare gli elementi decorativi hanno riportato alla luce il fascino del paramento murario, che si mostra ancora integro nelle sua struttura originaria: lo spazio viene razionalmente diviso in campate, due per la navata e una per ogni transetto, e ogni cam-pata è coperta da volte a crociera.

Da non perdere un reperto archeologico fondamentale per la storia del Cristianesimo in Ossola, scoperto sotto il pavimento davanti all’altare, ovvero il fonte battesimale del VI-VII secolo, una delle testimonianze più antiche che ci riportano ai remoti tempi dell’affermazione e della diffusione della nostra religione negli angusti territori ossolani.

Una perla architettonica omogenea e com-patta, che esprime una tipologia che la avvici-na più a modelli lombardi che alla “preziosa” povertà del romanico ossolano, e che ha saputo assemblare al meglio il materiale proveniente dalla precedente costruzione con quello forgiato dalle sapienti mani dei lapicidi operanti nel nuovo cantiere.

Molti storici hanno assegnato a questa bel-lissima chiesa una committenza prestigiosa come quella della potente famiglia dei conti

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2 - Montorfano di Mergozzo: Chiesa di San Giovanni Battista, facciata.

3 - Montorfano di Mergozzo: Chiesa di San Giovanni Battista, veduta laterale.

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4 - Montorfano di Mergozzo: Chiesa di San Giovanni Battista, veduta posteriore con abside.

5 - Montorfano di Mergozzo: fondamenta della cappella preromanica.

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Da Pombia, mentre altri hanno invece legato la struttura al monachesimo cluniacense, dato che la pianta latina era tipica delle chiese abbaziali. In effetti alcune testimonianze fanno riferi-mento ad un monastero, così la datata penna del Moriggia scriveva nel 1603: “sopra il Monte Orfano vi è una villetta di 12 fuochi dove si vede una chiesa antichissima… ed ivi, sopra v’era un fortissimo castello del quale ancora si vedono i fonda-menti: appresso in detto luogo vi era anticamente un monastero”.

Comunque pare assolutamente accettabile collocare la ricostruzione “romanica” del San Giovanni in Montorfano, il terzo edificio edifi-cato in questo luogo, dopo quello paleocristia-no, solamente ipotizzabile, e quello pre-roma-nico, testimoniato dalle fondamenta, nel corso del XII secolo; alla fine del secolo, secondo gli storici dell’arte che più volte abbiamo citato in bibliografia, qualche decennio prima secondo alcuni storici6.

Note

1 D. IMPERIALI, “Mergozzo memorie storiche”, op. cit., p.

34.2 F. COLOMBO, A. De Giuli, M. Maffioli, “Una chiesa

pre-romanica in Montorfano di Mergozzo”,

in Oscellana 1973, p. 78-81.3 G.A.M., “Storia di Mergozzo. Dalle origini ad oggi”,

Mergozzo 2003. 4 L. CASSANI, “Montorfano di Mergozzo e la sua chiesa”,

in Bollettino Storico della Provincia di Novara XXVII

1933, p. 97-132.5 G. MORMANDI, “L’architettura romanica della Val d’Os-

sola”, op. cit., nota a p. 35.6 G.A.M., “Storia di Mergozzo. Dalle origini ad oggi”, op.

cit., P. 125.

Con la visita al San Giovanni di Montorfano concludiamo la ricognizione di quello che rimane della affascinante stagione romanica del territorio ossolano. Una serie di piccoli capola-vori incastonati spesso in luoghi incantevoli dal punto paesaggistico, a volte repressi da costru-zioni moderne attigue, ma sempre capaci di regalare ricordi di un passato lontano ma fecon-do dal punto di vista estetico e spirituale.

Sensazioni? Impressioni? Tante e spesso con-trastanti.

Appagamento, per l’incontaminata bellez-za che antichi edifici in pietra sanno ancora esprimere nonostante le precarie condizioni di manutenzione e gli stravolgimenti architettoni-ci che le hanno manomesse; stupore, per la sco-perta, forse ingenua ma sicuramente spontanea, di siti storici e culturali di sicura importanza a pochi chilometri dal nostro vivere quotidia-no. Registriamo ancora oggi un’insufficiente valorizzazione di queste chiese, troppo poco conosciute dagli stessi abitanti, se non dagli stessi addetti ai lavori. Delusione; per l’assoluta mancanza di attenzioni che questi monumenti denunciano abbastanza chiaramente. Non par-liamo certo degli assurdi restauri che hanno versato colate di cemento su preziosi paramenti murari che meritavano ben altre attenzioni, ma soprattutto dell’indifferenza delle autorità pre-poste alla cura di queste fondamentali testimo-nianze della nostra storia. Infine riconoscenza; per le oscure, ignote e feconde generazioni di lapicidi, architetti, maestri artigiani che si sono succeduti nell’edificazione di questi piccoli capolavori, sfruttando al meglio il materiale che il contesto sociale e geografico poteva offrire.

La speranza, e in fondo la motivazione che ha prodotto queste povere pagine è che possano aiutare a far conoscere e apprezzare le nostre “vecchie” chiese di pietra, sorte sul nostro terri-torio prima di tutti gli altri edifici che oggi ci circondano.

Sicuramente ne vale la pena…

Conclusioni