15 aprile 2017 - Maschietto Editore · Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti ... perché la...
Transcript of 15 aprile 2017 - Maschietto Editore · Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti ... perché la...
Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
Numero
213 280
15 aprile 2017
«Non sono un maniaco dell’immagine, cerco solo di essere professionale»
Silvio BerlusconiPasquadi Resurrezione
Maschietto Editore
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagine
NY City, Agosto 1969
La prima
Sul palco
improvvisato
di questo teatrino
di strada
si avvicendavano
vari personaggi,
tra cui militari
improbabili
e giovani che
strisciavano
per terra cercando
di evitare un sicuro
pericolo.
In questa zona
la vita quotidiana
era piuttosto dura
e difficile e questi
giovani erano
costretti
a crescere davvero
in fretta. L’energia
che sprizzava
da questo teatrino
mordi e fuggi era
molto contagiosa.
Direttore
Simone SilianiRedazione
Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
www.culturacommestibile.com
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Editore
Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142
Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Numero
213 280
15 aprile 2017
In questo numeroGuerra di civiltà
di Roberto Barzanti
Storia di un uomo che vive nel tempo
racconto di Carlo Cuppini
La quiete dopo la tempesta
di Alessandro Michelucci
La vergine e la femme fatale
di Cristina Pucci
Scritto sul corpo
di Laura Monaldi
Anoressia e body art
di Danilo Cecchi
Che cos’è lo Stato islamico?
di Barbara Palla
L’amor di sé viene prima
di Giovanna Leoni
A green journey Botanical gardens
di Claudio Cosma
La lunga pista
di Susanna Cressati
Biophilia
di Paolo Marini
Il sindacato di Grillo
di Michele Morrocchi
e
Mariangela Arvanas, Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Michele Rescio, Sara Chiarello, Abner Rossi, Simone Siliani...
Giani Dante’s tourist guide
Le Sorelle MarxIl Kit del buon patriota europeo
I Cugini Engels
La vera madre di tutte le bombe
Lo Zio di Trotzky
Riunione di famiglia
Mandate i vostri [email protected]
PRIMA EDIZIONE 2017
premio letterario
Venghino signori,venghino
415 APRILE 2017
Raccomandare l’interdisciplinarità è d’ob-
bligo da un bel po’ di tempo. Ma un conto
– come si sa – è declamare principi d’im-
postazione, tutt’altra faccenda osservarli e
metterli fruttuosamente in pratica. In que-
sto volume di Giulio Cianferotti, docente
di Storia delle codificazioni moderne nel
Dipartimento di Giurisprudenza dell’Uni-
versità di Siena – 1914. Le Università ita-
liane e la Germania (pp. 192, il Mulino, Bo-
logna 2016) – le ottiche dalle quale il tema
viene analizzate sono così varie da originare
davvero un esempio di storiografia giuridi-
ca aperta ad una funzionale gamma di ap-
porti, sapientemente raccordati con l’asse
del discorso fondamentale. Si configurano
così pagine che dell’anno fatale 1914 trac-
ciano un quadro dettagliato, ma tutt’altro
che chiuso entro l’ambito delle lacerazioni
accademiche. Le Università del resto non
potevano non riflettere l’atmosfera che le
circondava, impulsi e relazioni con un’Eu-
ropa sull’orlo della tragedia. L’esplosione
dell’immane conflitto e l’entrata in guerra
del maggio 1915 dell’Italia mettono in crisi
il mito del modello humboldtiano che tanto
aveva influito sulla strutturazione delle di-
scipline e sulle metodologie di ricerca come
sulla strumentazione didattica. La tragedia
della guerra compromette per varie vie una
concezione che collegava ricerca scientifica
e tensione docente alla formazione delle
élites degli Stati nazionali, alimentando
una rete di rapporti ispirata ad uno spi-
rito comunitario di solido impianto. «Tra
gli intellettuali ed i movimenti culturali
d’anteguerra – scrive l’autore – si diffuse
il tema dell’ ‘apocalisse culturale’, assieme
uno stato d’animo e un convincimento che
accomunava molti e si fondava sul rifiuto
del mondo attuale, la percezione di una sua
prossima fine e l’attesa della guerra quale ri-
velazione di un modo nuovo» (p.15). Pren-
de quota in una fase inquietante di attesa
il grande dibattito tra Kultur e Zivilisation,
tra Cultura e Civilizzazione. Che Cianfe-
rotti riassume in termini di secca efficacia:
«Da una parte, dunque, la cultura tedesca
che accomunava alla cultura moralità e mi-
di Roberto Barzanti Guerradiciviltàlitarismo, e dall’altra, ad essa contrapposta,
la civilizzazione, l’illuminismo, la civiltà
antieroica, la democrazia e ‘la corruzione
e il disordine dell’imborghesimento’». Le
pagini terribili che campeggiano in questo
acceso dissidio sono le Considerazioni di
un impolitico di Thomas Mann uscite nel
1918. A dire il vero la traduzione esatta
sarebbe Considerazioni di un non politico,
come chiarì l’accanita disputa che si sca-
tenò quanto le Betrachtungen eines Unpoli-
tischen uscirono in Italia (presso De Dona-
to nel 1967). Perché il termine “impolitico”
nella nostra lingua designa chi non ci sa
515 APRILE 2017
fare in politica e ci si trova a disagio o punta
a scavalcarne furbescamente la logica, men-
tre le riflessioni manniane sono di persona
che guarda dal di sopra, con distacco alla
politica in quanto tale, anch’essa partecipe
della futile e aborrita civilizzazione.
Il cosiddetto “metodo tedesco” era «espres-
sione – osserva l’autore – della vecchia cul-
tura positivistica e portatore del modello
epistemologico positivistico che, dopo es-
sere stati dominanti assieme alla filosofia
positiva nel secondo Ottocento, avevano
subito la ‘rivolta contro il positivismo’ del-
la crisi di fine secolo, quando si era procla-
mata la ‘faillite de la science’» (p. 81). Così
lo scontro politico acuisce la critica ad un
metodo che aveva regnato in ogni settore
contribuendo a strutturare i percorsi di stu-
dio, in primo luogo nelle Università. Non
ovunque e non dappertutto con la stessa
intensità. Sussistono e giganteggiano perso-
nalità che del metodo tedesco serbarono la
lezione profonda. La logica distruttiva delle
armi e i nazionalismi che esaltò non demoli-
scono la complessità della ricerca e la varie-
gata eredità europea. La Normale di Pisa,
ad esempio, ma anche per molti aspetti la
Firenze di Pasquale Villari e di Gianfranco
Contini, conservarono un legame non inci-
dentale con il retroterra germanico. Basti
pensare per la filologia a Giorgio Pasquali
– che aveva studiato a Göttingen – o a Delio
Cantimori nella storiografia. Santi Romano
nel diritto riveste un ruolo eminente, se non
costitutivo, inscindibile dal retroterra ger-
manico della sua formazione. La fondazio-
ne a Firenze (nel 1897) dell’Istituto tedesco
di storia dell’arte non è certo episodio mino-
re di un rapporto di eccezionale fecondità.
Filologia e storia di Pasquali è un manifesto
di rigoroso storicismo che non rinuncia all’i-
deologia della Weltliteratur.
Resta il fatto che la gran massa degli in-
tellettuali italiani, accettando la soluzione
bellica, prepararono il terreno al regime fa-
scista e ferirono morte le aspirazioni univer-
salistiche che avevano avuto ragguardevole
fortuna. Una rassegna impietosa di questa
agghiacciante catena di liquidazioni e di
abiure registrate in Italia tra 1914 e 1918
è Convertirsi alla guerra di Mario Isnenghi
(Donzelli, Roma 2015): e non sconsiglia-
to leggerlo dopo aver chiuso i capitoli fitti
di nomi e fatti proposti da Cianferotti. Le
Università non sono più le uniche fucine
del sapere. Altre agenzie si profilano all’o-
rizzonte. La nazionalizzazione delle masse
trionfa biecamente.
Il grande storico Beloch internato a Siena
(p. 154) frequentava la Biblioteca Comu-
nale degli Intronati e Ranuccio Bianchi
Bandinelli, allora nemmeno diciottenne, lo
accompagnava volentieri, dopo la mattinata
di studio trascorsa nell’aulica sala di lettura,
alla sua residenza senese scandalizzando
non poco i benpensanti e sfoggiando un
perfetto tedesco. Nel registro dei fruitori
della Biblioteca stanno accanto, il 12 gen-
naio 1918, le firme dei Beloch e di Ranuc-
cio. Non si tratta di un curioso aneddoto.
Dalla tragedia della guerra sorge l’idea del-
lo «Stato economico che diventa protago-
nista e regolatore del mercato» (p. 168). Il
bilancio di quella svolta tragica che avvia il
“secolo breve” è certo meno unilaterale di
quanto si creda. E i mutamenti provocati,
al di là dei contraccolpi negli ordinamenti
didattici e nella metodologie della ricerca
scientifica, furono consistenti e duraturi an-
che se mutarono di segno.
Senza voler cedere a fuorvianti anacroni-
smi, non è azzardato notare, a margine di
un volume di ampio respiro e seriamente
storicista, che il duro confronto tra “eserciti
intellettuali” parallelo al dilagare del con-
flitto non si è dissolto, anche se si esprime
per altre vie. Magari nella divaricazione tra
rigore e flessibilità attribuita oggi alla fragi-
le Europa monetaria. O nelle accuse rivolte
alla Germania e alla rigidità dell’ordolibe-
rismo, alla base più di quanto si tenda ad
ammettere dell’esigente e severo impianto
economico sancito nel ’92 a Maastricht
per un’Unione Europea davvero poco uni-
ta. Quasi che la guerra proseguisse in altri
modi, con un imperioso linguaggio cifrato
e nell’offensiva occulta del finanza-capita-
lismo.
Il rapportotra le università italianee la Germaniasullo sfondodella Grande Guerra
615 APRILE 2017
Lo Zio diTrotzky
Vi ricordate i pullman o i treni speciali delle
manifestazioni della vostra gioventù? Quelli
in cui al massimo lasciavi un contributo
e poi ci pensava il Partito. Quello con la P
maiuscola. Dimenticateli, perché la nuova
frontiera delle manifestazioni politiche è il
business. Non poteva che arrivare da Milano,
(e dove altrimenti?) la novità del marketing
politico del decennio. Infatti il PD milanese
ha mandato un tweet con il Kit tutto blu. Alla
modica cifra di 6 € il buon militante piddino
potrà agghindarsi in blu per il prossimo corteo
del 25 Aprile, in modo da dimostrare croma-
ticamente il suo essere “patriota europeo”.
Dicevamo che per “soli” sei euro il militante
piddino sarà dotato di cappellino, bandiera
ma comprensiva di asta, e pettorina. Il tutto
blu, che il rosso non è più di moda. Nemmeno
quando si festeggia, per di più a Milano, la
Liberazione dal nazifascismo. Suggeriamo
a questo punto al Pd milanese però di non
fermarsi al kit cromatico ma di proporre al
militante il kit bio, con il lunch del militante
magari preparato dall’amico Farinetti di
Eataly. Per militare con stile e al passo coi
tempi (bui).
Le SorelleMarx
I CuginiEngels
Giani Dante’s tourist guide
Il Kit del buon patriota europeo
Dialogo fra due signore fiorentine doc.
“Come stai Leda?”
“Stai bonina, Bice, una giornata d’inferno!”
“Oh che hai fatto? Stai male? Che c’hai i
dolori?”
“Macché, Bice, ho passato una giornata all’in-
ferno, e per dire il vero anche in purgatorio e in
paradiso, ma alla rovescia di’ povero Alighieri.
Son stata alla “Passeggiata con Dante”, guidati
da ‘i Giani: 35 lapidi a ogni cantuccio di strada
di Firenze e per ogni lapide un pippone di 20
minuti in cui Eugenio c’ha ammorbato con le
date della vita di’ Sommo Poeta. Gl’erano tutte
lapidi di’ 1907, non si leggeva nulla, sicché ‘i
Giani s’è inventato un monte di cose. Guarda,
credimi, non ne potevo più: non so se mi fanno
più male i piedi o le orecchie!”
“Ma vien via, Leda, e l’è tutta curtura! Pensa
poi che onore: ‘i Giani come guida turistica! ‘un
capita mica tutti i giorni”
“Eh no, cara Bice, ‘i problema è proprio questo:
la vuole rifare ogni mese! Quello è malato!
Pensa, alla fine della visita c’ha voluto fare un
selfie tutti insieme sotto la statua di Dante in
piazza S.Croce. Altro che pregevole iniziativa;
una tortura!”
Chi pensasse che la “madre di tutte le
bombe” Trump l’abbia sganciata sull’Af-
ghanistan, si sbaglierebbe di grosso: the
Donald, la vera super-bomba la sta per
sganciare sulla Corea. Ma, fortunatamente,
non si tratta della Moab: «Massive ordnan-
ce air blast» o «Mother of all bombs», bensì
il senatore Antonio Razzi. Così, infatti,
il Razzi (nomen omen) ha dichiarato alla
trasmissione radiofonica su RadioUnoRai,
Un giorno da pecora: “Trump mi aveva
promesso che avrebbe aperto un dialogo
con la Corea del Nord, non è vero che loro
cercano guai… Sono sicuramente disposto
a sacrificarmi e a fare lo scudo umano, per
il bene del mondo!”. Pronto, addirittura, a
farsi “un selfie con Kim-Jong Un, se me lo
chiede...”.
D’altra parte si sa che secondo il Razzi
la Corea del Nord è il paese modello per
sicurezza e democrazia: “Non ho assoluta-
mente paura di andare lì, nessuno ti ruba
niente”, e nel maggio 2016 sull’Huffington
Post l’aveva definita “Più democratica
dell’Italia di Renzi”. Anche se, proseguiva
“I congressi sono importanti e almeno il
Pd ogni tre-quattro anni li fa”, facendo
presagire una sua candidatura alla segrete-
ria del Pd al prossimo giro, quando rotta-
mato anche Orlando, non si troverà un solo
iscritto disposto a candidarsi alle primarie
per sfidare Renzi.
Razzi, già all’epoca aveva posto le basi per
il suo ruolo diplomatico di mediatore tra
l’Italia e la Corea del Nord: “Io mi adoperei
perché loro mi vogliono bene. Da quando
c’è Kim, tra l’altro, vengono i giocatori
coreani in Italia. E poi non è quel regime
cattivo che tutti pensano, una volta si dice-
va che i comunisti mangiavano i bambini
e invece non era così. A proposito voglio
rifondare il Pci, il Partito coreano italiano,
bisognerebbe proprio pensarci”. Così, dopo
un ampio giro dal Pci al Pds, ai Ds, al Pd e
al PdR, eccoci tornati al Via!
La vera madredi tutte le bombe
715 APRILE 2017
disegno di Lido Contemorididascalia di Aldo Frangioni
Nel miglioredei Lidipossibili
L’ospite non gradito
Segnalidi fumo
Si dice che l’Italia sia il paese dei fannulloni.
Niente di più falso. È solo uno dei tanti luoghi
comuni, lontani dalla realtà. Il monte ore dei
lavoratori italiani è di gran lunga superiore a
quello dei paesi economicamente più forti. Da
noi si lavorano 1.752 ore, addirittura qualche
ora in più rispetto al paese dei super-lavora-
tori, il Giappone, dove “sgobbano” solo 1.745
ore. Tornando all’Europa si scopre che quasi
ovunque lavorano meno che da noi: gli spa-
gnoli 1.666 ore, gli svizzeri 1.619, i francesi se
la cavano con 1.479 e i tedeschi fanno ancora
meglio, si fermano a 1.393 ore. Di fatto nel
paese dei cosiddetti fannulloni si lavora 359
ore in più della locomotiva d’Europa. Tradotto
in soldoni: gli italiani rispetto ai colleghi tede-
schi lavorano ben 15 giorni in più all’anno!
Non sono pochi.
E pensare che in Giappone si sta già sperimen-
tando la settimana di soli 4 giorni insieme alle
ferie “illimitate”, quelle tanto per capirsi che
si prendono a piacimento, a condizione che
l’assenza non danneggi il lavoro. Una flessibi-
lità possibile grazie anche alle tecnologie che
permettono di tenere sotto controllo il proprio
lavoro anche stando in spiaggia o in montagna
o semplicemente a casa propria. L’attenzione
è concentrata sui risultati e non più sul tempo
che si trascorre in ufficio.
Della questione ne ha recentemente parlato
il settimanale tedesco Die Zeit, notando un
fatto curioso: nei paesi dove si lavora di meno
l’economia va meglio. Non solo, in quasi tutti
i paesi europei i lavoratori, rispetto all’Italia,
hanno un doppio beneficio: lavorano meno
ore e guadagnano di più. Basti fare un con-
fronto degli stipendi per rendersi conto che
noi italiani siamo i peggio pagati d’Europa,
in particolare per i salari d’ingresso. Il nostro
stipendio lordo mensile è di 2mila euro, quello
francese di 2.400, nel Regno Unito di 2.590,
in Germania di 2.609 e quello olandese di
2.700 euro. Ultimi per i salari d’ingresso, ma
all’undicesimo posto (sui 27 Paesi dell’Ue)
per i salari intermedi e, addirittura, al primo
posto per quelli dei capitani d’impresa. I co-
siddetti Ceo da noi guadagnano ben 957 euro
l’ora. Un record nei paesi Ocse. Tanto per fare
qualche esempio, in Svezia si fermano a 709 e
in Svizzera a 659 euro.
Forse, tra le priorità del nostro paese, insieme
alla legge elettorale e alla riforma della Co-
stituzione, metterei anche la questione della
distribuzione della ricchezza e, magari, se
davvero vogliamo cambiare verso, ci sarebbe
anche il tema della produttività e dell’orga-
nizzazione del lavoro. Ma questo è un altro
discorso.
di Remo Fattorini
815 APRILE 2017
La Poesia Visiva al femminile sbarca a Vilnius
in una imperdibile mostra alla Galleria nazio-
nale d’Arte della Lituania, curata da Benedet-
ta Carpi de Resmini e da Kreivyte, in colla-
borazione con l’Istituto Italiano di Cultura e
l’Ambasciata italiana. L’esposizione presenta
il lavoro delle artiste più rappresentative della
scena artistica italiana e lituana, analizzate se-
condo una visione sincronica e critica, in grado
di comprendere da vicino le origini dell’arte al
femminile. MAGMA: Writing in bodies. Italy
and Lithuania from 1965 to nowadays è una
retrospettiva completa ed esaustiva sulla con-
dizione della donna nei due paesi negli ultimi
sessant’anni, attraverso il corpo e le parole di
coloro che hanno fatto dell’Arte un’ecceziona-
le arma comunicativa in nome dell’emancipa-
zione e della conquista di genere. Il paradig-
matico titolo del progetto che fa da sfondo al
concetto espositivo, chiaro omaggio a Romana
Loda che nel 1977 curò un omonimo catalo-
go, mette in luce la forza silente, dinamica e
corrosiva dell’Arte al femminile degli ultimi
decenni: un’Arte che è andata di pari passo
al progresso della tecnica e della scienza, for-
nendo un utile strumento espressivo, capace
di giungere direttamente alle coscienze collet-
tive, creando morali ed etiche nuove e idonee
alla nuova realtà sociale che si stava creando;
un’Arte che ha dato voce all’ingiusto silenzio in
cui la dimensione femminile era stata relegata
da decenni. Italia e Lituania pongono analo-
gie e ritmi interpretativi che il pubblico potrà
assaporare in un incontro/confronto inedito e
fuori dalla normale concezione museale, che in
seguito potrà essere ammirato presso l’Istituto
Centrale per la Grafica. Le artiste italiane che
esporranno nelle due sedi di Vilnius e di Roma
sono Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Irma
Blank, Diane Bond, Amelia Etlinger, Chiara
Fumai, Nicole Gravier, Elisabetta Gutt, Maria
Lai, Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Verita
Monselles, Elisa Montessori, Anna Oberto,
Anna Paci, Cloti Ricciardi, Susanne Santoro,
Patrizia Vicinelli e Simona Weller. Con loro
dialogheranno le artiste lituane: Jurga Barilai-
te, Egle Bogdaniene, Violeta Bubelytè, Egle
Budvytyté, Coolturistes, Coro Collective,
Laura Garbstiene, Karla Gruodis, Kristina
Inciuraitè, Egle Kuckaite, Lina Lapelyte, Gri-
ede Liliene, Aurejia Maknyte, Paulina Pukyte,
Eglè Rakauskaitè, Eglè Ridikaitè, Marija Tere-
se Rozanskait, Laisvyde Salciuté ed Egle Ver-
telkaite.
di Laura Monaldi
Sopra Ketty La Rocca, Appendice per una supplica, 1971, sotto Lucia Marcucci, “Che stupenda…”, 1972
Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
Scrittosul corpo
915 APRILE 2017
disegno di Massimo Cavezzali
fra i preferiti di Sakamoto.
In brani come “Garden” e “Stakra” riaffiora
la vena sperimentale del compositore. Que-
sto disco rappresenta il ritorno definitivo
di Sakamoto sulla scena musicale. Ora il
compositore guarda al futuro con rinnova-
to slancio, mentre la malattia è un ricordo
sempre più lontano.
Capace di spaziare dalla sperimentazione
elettronica alla samba, dalla musica classica
alle colonne sonore, conservando sempre
un legame con la cultura nipponica, que-
sto grande compositore ha ancora molto da
esprimere.
nesz, che suona la chitarra in “Andata”. Il
musicista austriaco ha collaborato più volte
con Sakamoto, insieme al quale ha realiz-
zato tre lavori: Sala Santa Cecilia (2004),
Cendre (20079 e Flumina (2011).
In “Solari”, melodica e minimalista, il piano
è accompagnato da un sottofondo elettroni-
co su cui si inseriscono gli archi.
“Ubi” ha una struttura simile, ma in questo
caso la strumentazione elettronica prende il
sopravvento nella parte finale.
Nei pezzi dominati dal piano riemergono
certi influssi di Debussy, peraltro noti, dato
che il compositore francese è sempre stato
Completamente ristabilito dopo il tumore
alla gola che lo ha aveva colpito nel 2014,
Ryuichi Sakamoto aveva già pubblicato al-
cune colonne sonore (The Revenant e Na-
gasaki: Memories of My Son). Ma il CD ap-
pena uscito, async (Milan Records, 2017)
ha un significato particolare, perché è il
primo lavoro solista che realizza dopo quel-
la esperienza. Il precedente, Out of Noise,
risale ormai al 2009.
Il nuovo lavoro esprime il ritrovamento di
una piena fiducia in se stesso dopo la malat-
tia. Questo spiega perché l’artista ne è par-
ticolarmente orgoglioso. Si tratta di un’ope-
ra personale e intima, ma priva di qualsiasi
compiacimento estetico.
Per celebrare questo “ritorno alla vita” il
musicista ha coinvolto
alcuni dei musicisti che avevano già colla-
borato on lui. Primo fra tutti David Sylvian,
amico fin dai tempi di “Fordidden Co-
lours”, composta insieme nel 1983. La voce
recitante del musicista inglese compare in
“Life, Life”, una poesia di Arseny Tarko-
vsky, padre del celebre regista russo. Non si
tratta di un riferimento occasionale: l’intero
disco è concepito come la colonna sonora
di un film di Tarkovsky “che non esiste”, ha
detto lo stesso Sakamoto.
Ma in un certo senso il film esiste, perché è
quello che racconta il suo ritorno alla vita
normale.
Un altro ospite di rilievo è Christian Fen-
di Alessandro Michelucci
La quiete dopo la tempesta
MusicaMaestro
SCavezzacollo
1015 APRILE 2017
Storia di un uomo che vive nel tempo
della Dittatura del Mondo. Il regime im-
pone a tutti i cittadini di credersi liberi.
Non solo: è obbligatorio praticarla, questa
libertà, o quanto meno inscenarla. Lo im-
pone una legge dello Stato, che discende
direttamente dal primo articolo della Co-
stituzione, approvata dal popolo tramite
plebiscito. Ogni infrazione è perseguita
e sanzionata con severità. Perché ciò che
ognuno desidera per sé corrisponde a ciò
che alla Dittatura conviene imporre a cia-
scuno. Qualche filosofo con lo stipendio
fisso continua a domandarsi se abbia più
peso la prima o la seconda parte dell’as-
sunto. Come che sia, le cose sono ordi-
nate in questo modo e peraltro sembrano
funzionare benissimo; prova ne sia il fatto
che da molti anni non si registrano rivolte,
manifestazioni, tumulti. E anche i delitti
sono in netto calo.
Quest’uomo – che ha una casa, un lavoro,
una moglie bella e sensibile e due figlie
brave e simpatiche – coltiva una passione
insana e al limite della legalità: nel tem-
po libero va costruendo una città in mi-
niatura. Con metodo, con pazienza, nel
chiuso di una stanza dove non permette a
nessuno di entrare, assembla i pezzi di un
grande plastico che riproduce con esattez-
za la città in cui vive. Il modello è preciso
in ogni dettaglio, compresi gli interni degli
edifici, come lui li conosce o li immagina.
C’è anche l’appartamento modesto in cui
l’uomo vive con la moglie e le figlie, con
dentro non solo tutti gli oggetti realmente
presenti in casa – dal mobilio alle tazzine
da caffè – ma anche i simulacri piccolissi-
mi dei quattro abitanti, oltre al cane Joyce.
Niente di male in tutto questo.
Ebbene, quel lui stesso miniaturizzato
– che l’uomo spia avidamente attraver-
so i vetri di minuscole finestre illumina-
te – quel lui stesso che sta seduto su una
poltrona foderata con un tessuto verde a
fantasie floreali, quel lui stesso rappresen-
tato non è affatto libero, non si sente tale
né, soprattutto, intende esserlo. Per questo
motivo, se fosse una persona reale, sarebbe
considerato un criminale meritevole della
pena capitale. Invece è solo un pupazzo
microscopico, alto appena quattro milli-
metri, e non è soggetto ad alcuna legge.
Oltre a tutto, lui è il solo a conoscere il se-
greto del suo minimale alter ego.
L’uomo lancia sguardi fugaci a quel se
stesso rimpicciolito, cerca nel suo dop-
pio un incoraggiamento mentre pone le
fondamenta di un grattacielo che sorge
qualche isolato più in là. Ogni volta che
si mette al lavoro, quasi si commuove nel
contemplare la spregiudicatezza di un se
stesso sottratto all’obbligo della libertà.
Quel piccolo io, se fosse reale, sarebbe l’in-
granaggio incompatibile in grado di fare
saltare il sistema. Quasi sente l’ebbrezza
pericolosa di un sentimento di libertà ul-
teriore, impensabile.
Intanto i grandi bonsai – querce, ulivi e
aceri – che l’uomo ha posto tra gli edifici
a intervallare i volumi geometrici dei fab-
bricati umani, bevono con instancabile co-
stanza dalle radici e sembrano vanificare
con la loro stessa presenza il tentativo del
potere di pronunciare l’ultima parola su
ogni cosa.
di Carlo Cuppini
Storiadi un uomoche vivenel tempo
Il mondosenzagli atomiillustrazioni di Aldo Frangioni
Foto diPasqualeComegna
Il sole basso all’orizzonte
1115 APRILE 2017
due personaggi finiranno per incontrarsi.
Qualcuno ha scritto che Kaurismaki vede la
solidarietà come evoluzione naturale della
solitudine ed effettivamente in questo film
l’incontro tra le diverse solitudini sembra co-
stituire la porta che si apre sulla speranza; il
pensiero va, seppure in contesto molto diver-
so, al Cleant Eastwood di Gran Torino, all’a-
micizia che si instaura tra il vecchio bianco
americano rimasto solo e gli adolescenti im-
migrati vicini di casa. Il film scorre fluido, a
tratti illuminato da un’ironia malinconica e
leggera, soprattutto nelle vicende del multi-
forme e improbabile ristorante, attraversato
da una musica affettuosa e confortante, sem-
pre dal vivo; la tonalità è asciutta, il sentire
che pure c’è e si manifesta, non lascia mai
spazio al sentimentalismo e il finale è aperto,
non un irrealistico happy end , ma un finale
con speranza, appunto.
È durissimo, invece, lo sguardo sull’ipocri-
sia e l’ottuso egoismo dello stato finlandese
ma non solo, come quello sulla bestialità dei
naziskin aggressori di Khaled. Kaurismaki
dice che vorrebbe cambiare il mondo co-
minciando da quest’Europa, insensibile e
ottusamente egoista, che non sa accogliere
i migranti in fuga dalla guerra e dalla mise-
ria, ma e’ consapevole che non sarà un film
che potrà farlo, “Jean Renoir, con La grande
illusione voleva fermare la Seconda guerra
mondiale, ovviamente non c’è riuscito”, spie-
ga ai giornalisti, però “capire serve sempre;
oggi sono loro i rifugiati, domani potremmo
essere noi”. Non si può che essere d’accor-
do e goderci intanto il bellissimo cinema di
Kaurismaki.
“Cercheremo di essere all’altezza degli
standard europei e mondiali in termini di
accoglienza e qualità”. Con queste parole
ieri Alessandro Bellucci, presidente de Le
Nozze di Figaro, organizzatore insieme
al Comune e a Live Nation dell’Estate di
grande musica live alle Cascine di Firenze,
ha annunciato in conferenza stampa quel-
la che sarà una delle estati più calde per
il rock a Firenze. Già 180 mila i biglietti
venduti (solo il 15% in Toscana, 100 mila
dall’Italia e 10 mila dall’estero), per le otto
giornate di eventi che si terranno da giugno
a luglio nella Visarno Arena, all’interno
dell’Ippodromo del Visarno. In programma
il concerto dei Radiohead, James Blake e Ju-
nun (che apriranno il 14 giugno), il festival
Firenze Rocks, a firma Live Nation, la stes-
sa società che per dieci anni ha realizzato
il festival di Imola (il 23 giugno Aerosmith,
Placebo, Deaf Havana - 24 giugno Eddie
Vedder, The Cranberries, Glen Hansard –
25 giugno System Of A Down e Prophets
Of Rage). E ancora: l’evento Decibel Open
Air 2017 (1 luglio) e i concerti del Firenze
Summer Festival, ovvero The XX (8 luglio),
Jamiroquai, (11 luglio), Arcade Fire (18
luglio). La stima della ricaduta economica
sulla città è sui venti milioni di euro. “La-
voreranno al festival 400 persone, per un
totale di 50.000 ore”, prosegue Bellucci,
mentre Ringo di Virgin Radio racconta che
molti saranno i concerti che andranno in
diretta sulla radio. Le Cascine non saranno
solo il luogo che incornicerà il grande pal-
co: l’area sarà pedonalizzata e allestita con
un villaggio accoglienza, in cui dalle ore 12
fino a fine concerto ogni giorno ci saranno
vari eventi, e ci sarà posto per il relax, il bar-
ber shop, l’assistenza medica con un presi-
dio medico avanzato, e una parte dedicata
all’enogastronomia, con specialità toscane,
etniche, piatti vegani, vegetariani e per ce-
liaci. I biglietti per Firenze Summer Festi-
val e Firenze Rocks sono in prevendita su
www.ticketone.it (tel. 892.101) e circuito
Box Office. Per Decibel Open Air 2017 su
www.diyticket.it. Sono ancora disponibili
biglietti per tutte le serate. Per restare in-
formati sulle ultimissime novità è possibile
scaricare l’App Firenze Rocks.
di Sara Chiarello
Lo sguardodi Aki
Firenze suona rock
L’ultimo film di Aki Kaurismaki si apre sul-
la stiva di una nave in cui da un mucchio di
carbone emergono due occhi, un volto, un
corpo; sono gli occhi di Khaled, immigrato
siriano, approdato per caso nel porto di Hel-
sinki, più precisamente per sfuggire ad un
pestaggio di naziskin e non è invece un caso
che, per chiedere dove poter fare una doc-
cia, si rivolga ad un cantante di strada finlan-
dese; l’istinto gli fa riconoscere dove e a chi è
possibile chiedere aiuto. Fin dall’inizio della
storia nel volto, ma soprattutto negli occhi di
Khaled si può leggere tutto: sofferenza, an-
goscia, paura, determinazione, intelligenza,
speranza e soprattutto dignità, quella che
non si trova affatto nei membri del tribunale
che respingono la sua domanda d’asilo, affer-
mando, mentre infuriano i bombardamenti
che hanno distrutto anche la casa e quasi
tutta la famiglia di Khaled, che può essere
rimpatriato perché non ci sono pericoli ad
Aleppo. La vicenda di Khaled corre paralle-
la a quella di Winkstrom, anziano finlande-
se ex venditore di camicie, che abbandona la
casa familiare e la moglie silenziosamente e
con determinazione (anche lui), giocandosi
il resto della vita in una notte di poker; con
il ricavato della vincita acquisterà uno sgan-
gherato ristorante, la Pinta d’oro, nel quale i
di Mariangela Arnavas
1215 APRILE 2017
famigliari. Incapace di slanci affettuosi, preoc-
cupato solo di sé e della propria reputazione.
Ipocrita. Malvagio. Bugiardo. Traditore.
Eppure lei, Teresa, era la più amata. O almeno
così si è sentita per una parte della sua infanzia.
La prediletta di un padre speciale, che le conce-
deva tutto e la viziava, diventa una ragazza in-
sofferente, nevrotica, instabile, con un rapporto
distorto col cibo.
Cos’è successo? In quale momento Teresa si è
incrinata?
Il confronto tra il mondo esterno e quello chiu-
so e artefatto della villa al mare, o dell’ospedale
dove regna il padre, porta Teresa a ridimen-
sionare l’onnipotenza, il suo essere unica e
destinata a un fulgido futuro di soli successi.
Incontra i primi fallimenti e i primi desideri
non esauriti, avverte lo scollamento tra la realtà
e l’immaginazione, sente la delusione di scopri-
re lei e il padre “normali”. Come sopravvivere
senza andare in pezzi?
Teresa fa quello che può, si protegge, indossa
una corazza che la tenga distante dall’abisso.
Anche da adulta, con la figlia piccola ha timore,
come se toccandola potesse romperla, rovinar-
la. Crede di non sapersi prendere cura, non è
capace, non vuole, non se lo merita.
Teresa manda in frantumi tutto ciò che tocca,
persone e cose, meglio starle alla larga. Teresa è
ancora la bambina svenuta nella piscina vuota
della villa al mare; non è mai cresciuta. O forse
sì, ma è solo un brutto sogno.
Come si può amare qualcun altro se non si ama
se stessi?
Il dolore dell’autrice investe il lettore a ogni pa-
gina, ogni riga di questo libro.
La scelta delle parole, lo stile scarno e diretto,
l’assenza di edulcorazioni e abbellimenti a po-
steriori della realtà: tutto punta all’essenzialità.
Teresa Ciabatti sembra voler accentuare solo
i lati negativi, ambigui, oscuri; non si concede
perdono o clemenza, è lucida e spietata.
Non si dà pace, non trova requie: scava nel pas-
sato suo e delle sua famiglia, indaga, ricostru-
isce, immagina. Cerca una colpa, un peccato
originario, qualcosa o qualcuno a cui dare la
responsabilità della sua infelicità cronica.
Teresa ha bisogno di sentirsi migliore di chi le
ha fatto del male in passato, per legittimare la
sua sofferenza presente. Si insinua in lei però il
dubbio: davvero le cose sono andate così? O le
ha distorte per farle aderire ai suoi ricordi?
“Chi è migliore? Colui che sopravvive al dolo-
re, e io lo sono, io sono qui, sopravvissuta al buio
del passato (era così buio?), al gorgo di un’infan-
zia infelice (ma poi: era così infelice? Sii onesta,
Teresa Ciabatti…). Io sono una sopravvissuta, e
voi no.”
D’altra parte: importa davvero com’è la realtà?
Siamo il risultato della nostra percezione del
mondo, non del mondo in sé. Viviamo espe-
rienze, non oggetti. Non conta come sono ac-
cadute le cose, ma solo come hanno inciso su di
noi, in che modo le abbiamo assorbite.
Teresa si descrive così: “Non so prendermi cura
di nessuno, ho iniziali slanci di sentimento che
subito muoiono lasciando le persone spiazzate:
che ti ho fatto?”
Ha paura delle relazioni, dell’impegno, della
continuità. Paura della serenità. Quella che
può dare un rapporto equilibrato con se stessi e
con gli altri. E allora meglio fuggire, andarsene
prima di essere ferita, prevenire l’abbandono.
Come quello di sua madre, che per un anno in-
tero scomparve, ibernata in un sonno indotto.
La bella addormentata in carne e ossa, solo che
non era una fiaba.
Fu per decisione del padre, il Primario Loren-
zo Ciabatti, che Teresa - e suo fratello gemel-
lo Gianni - furono privati della madre per 12
mesi; doveva curarsi dalla depressione, era la
diagnosi indiscutibile di quel padre divinità,
monarca assoluto del piccolo mondo di Or-
betello. Osannato, adulato, temuto, servito:
quest’uomo chi era davvero?
Teresa se lo chiede da adulta: troppi fantasmi le
impediscono di vivere nel qui e ora.
Il Prof. Ciabatti era un massone, implicato in
affari poco o per nulla leciti, avaro di denaro
e amore, manipolatore, burattinaio che gioca-
va con le vite degli altri, anche dei più stretti
di Giovanna Leoni
L’amor di séviene prima
1315 APRILE 2017
l’arte di questo periodo, ho scoperto artisti di
cui mai avevo sentitto parlare ed ammirato,
con grande piacere, opere ignote di quelli
che conoscevo. Ricordo, fra le scoperte, Ge-
orges de Feure, cui è dedicata una sezione
molto ricca, le sue donne, spesso sospese su
sfondi scuri e minacciosi, sono circondate ed
accompagnate da fiori, a volte eleganti ed al-
tezzose, hanno, per lo più, il volto allungato
e il mento a punta, che conferisce loro una
vaga nuance malignastra, nel loro non essere
mai rappresentate come belle, anzi, coglierei
ironia e disincanto.Altra selezione nume-
rosa quella dedicata a Felicien Rops, artista
scandaloso, amato da Baudelaire di cui aveva
illustrato il frontespizio del libro, pubblicato
in Belgio, “Les Epaves”, che raccoglieva le
liriche censurate ed eliminate dai Fleurs du
Mal. Ci ragala immagini cupe, forti, oscene
a volte, mortifere e pessimiste, di splendente
fattura tutte. Ho molto ammirato la sezione
dedicata a Mucha di cui apprezzo la dol-
cezza delle linee, la bellezzza dei volti, le de-
corazioni floreali e i colori delicati. Pur non
amando particolarmente D’Annunzio, mi
ha come emozionato vedere un suo libro del
tempo in una vetrina, come fosse lì anche lui.
Io inizierei da lui, Emanuele Bardazzi, colle-
zionista straordinario di grafica fine Ottocen-
to- inizio Novecento, dalla sua competenza
di storico dell’arte e bibliofilo, dalla passione
che lo ha guidato nel cercare e raccogliere,
ed incorniciare, un grandissimo numero di
opere d’arte grafica, un numero così grande
da permettergli di organizzare, con, quasi
esclusivamente, “cose” sue, ben due mostre
a Sesto Fiorentino, una, nel 2014, dedicata a
Max Klinger e quella, ora in corso fino al 28
maggio, dedicata a “La Vergine e la femme
fatale. L’eterno femminino nell’immaginario
grafico del Simbolismo e dell’Art Nouveau”.
Non vi faccia sorridere il mio accenno alle
cornici: esse sono tutte bellissime, per lo più
d’epoca, alcune del tutto originali, qualcuna,
non nata per essere cornice di quadro ma
che so di specchio o testata di letto, è stata
riadattata, altre ricostituite, assemblando
pezzi originali e ricostruendo, uguali, le parti
mancanti, da un artigiano sopraffino, che è
anche pittore e che collabora con Bardazzi
da tempo e che ha, già nel nome, poesia e
manualità, Mario Stellabotte. La mostra en-
tra nel Progetto “Alto-Basso” che, iniziato
7 anni fa, ospita in due luoghi fisicamente
distanti, ma idealmente uniti, varie esposi-
zioni, una parte delle opere vanno nello spa-
zioso centro Antonio Berti, in piena Sesto
e un’altra nel più raccolto e, direi più oscuro
ed etereo, spazio “la Soffitta” , alla Casa del
Popolo di Colonnata. Una esposizione dav-
vero molto molto bella, di grandissima classe,
accompagnata da uno splendido ed esausti-
vo catalogo, curato dal Bardazzi stesso, con
due collaboratrici, colto e ricco di raffinate
riflessioni e conoscenze, corredato da foto
notevoli e note biografiche su tutti gli artisti
presenti. Le circa 300 opere grafiche in mo-
stra, incisioni, illustrazioni di libri e riviste,
provenienti da vari paesi Europei, declinano
il mito di “Son Altesse la femme” con creati-
vità e fantasia, da un lato donne aggressive,
sensuali, divoratrici, mantidi e vampire che
dominano e schiavizzano, imprendibili e
desiderate cortigiane, frequentate lontano
dal sacro talamo, dall’altro Madonne, donne
eteree, pallide, fragili, asessuate, da adorare
senza mai aspirare a possederne la carnalità
santificata. Modelli di questa sorta di artistica
ossessione collettiva sono le eroine degli anti-
chi miti, Regine, Sante, figure della tradizio-
ne religiosa, poetica e letteraria. Una sezione
intera è dedicata a Salomè , crudele danza-
trice dal fascino ambiguo. Io che amo molto
di Cristina Pucci La verginee la femme fatale
1415 APRILE 2017
tema dominante con il fotolibro “Haunting
Anorexic Thoughts”, ovvero “Ossessionanti
Anoressici Pensieri”.
“Dalla mia adolescenza fino ad oggi ho co-
struito il mio equilibrio mentale sulla cre-
azione di immagini. All’inizio autoritratti,
lasciando libero corso all’incosciente, al non
detto, al respinto, all’incompreso, al provato
inesprimibile, alla paura, al disgusto, all’or-
rore, alla confusione, alla coscienza. Lunghi
anni in un corridoio nero. Ho camminato in
questa corsia, era come un giro di pista in cui
certamente c’era la morte al traguardo. Ero
perduta in un mondo confuso e manipolato-
re, ho scelto la mia libertà contro la felicità.
La libertà di vivere con la fotografia ed il ci-
nema. Ed ho fatto quello che dovevo fare.”
Anoressiae body art
Alice Odilon nasce a Parigi nel 1959, ed
all’età di sedici anni viene colpita da una
grave forma di anoressia che altera il suo fi-
sico minuto, rendendolo ancora più sottile e
fragile. Da questa crisi devastante la giovane
donna esce grazie alla fotografia ed attraver-
so la realizzazione di una serie di autoritrat-
ti, mentre prosegue i propri studi di arti pla-
stiche e giornalismo. La rappresentazione
del suo corpo nudo, emaciato, atteggiato in
diverse posizioni, camuffato con maschera-
menti, colorazioni ed addobbi di varia natu-
ra, da una parte le permette di ritrovare una
propria identità e rappresenta un’ancora di
sopravvivenza, dall’altra le offre l’opportu-
nità di confrontarsi con il mondo esterno, di
manifestarsi al pubblico e di esibire il pro-
prio corpo come un’opera artistica, come
il risultato di una grave crisi esistenziale,
ed allo stesso tempo come il prodotto di
una trasformazione cosciente e fortemente
voluta. “Il dolore, il senso di colpa, la ver-
gogna e la bassa autostima sono stati i miei
compagni per tanti anni. Ora mi sento più
forte e più felice. La mia fotografia è stata
più forte della mia malattia”. Un primo rico-
noscimento alla sua opera è l’assegnazione
nel 1982 del “Prix de Paris” durante la sua
prima esposizione nel corso del “Mois de la
Photo”, all’epoca in cui ancora nessuno par-
lava dell’anoressia, e tanto meno mostrava
immagini simili. Da allora Alice non cessa
di proporre le sue immagini in numerose
esposizioni, singole o di gruppo, aggiudican-
dosi nel 1990 il premio “Villa Medicis Hors
Les Murs”. Nelle sue immagini, in bilico fra
realismo e surrealismo, fra documentarismo
e concettualismo, è il corpo femminile ad
imporsi, in un misto di equilibrio e tensio-
ne, inquietudine ed erotismo, ossessione e
stupore, spesso accostato o circondato da
oggetti fortemente simbolici, oggetti di mor-
te o di vita, di angoscia o di liberazione. L’e-
sistenza stessa di Alice si riversa nelle sue
immagini, saldando in un tutto unico la vita
e l’arte, l’essenza e la rappresentazione, la
malattia e il cambiamento, la debolezza e la
forza, il vissuto e l’espressione. Trasferitasi
a Londra e diventata fotografa di moda e di
pubblicità, con una spiccata sensibilità per
i profumi, Alice si confronta con altre don-
ne, indossatrici e modelle, e prosegue nella
sua ricerca del senso nel corpo femminile,
ritrovando in quei corpi magri e sottili il de-
lirio della sua adolescenza. Alle immagini
accoppia le parole, scrive dei racconti e pub-
blica dei libri, per tornare nel 2013 al suo
di Danilo Cecchi
1515 APRILE 2017
Joseph Conrad, divorato a quindici anni, ac-
cende la sua miccia. A diciassette anni si ar-
ruola negli alpini rocciatori-sciatori, diventa
sottoufficiale, combatte su tre fronti, Francia,
Albania, Russia.
È un uomo integrale che fonde pensiero e
azione. Cresciuto con il fascismo, appena
mette piede sulla tradotta che lo avvicina al
fronte comincia a capire l’assurdità dell’av-
ventura bellica in cui si è catapultato vo-
lontariamente. Sta leggendo “Italia mia” di
Giovanni Papini. Disgustato dal contrasto
tra la realtà e la retorica patriottarda getta
il libro dal finestrino. “Così – racconterà –
sono diventato antifascista”. Nel corso del-
la spedizione sul Don sente di essere dalla
parte sbagliata, ma è soldato, ed è sergente,
responsabile di uomini. Ha paura, cerca di
vincerla (“Coraggio è superare la paura. Tut-
to il resto è cognac”). Uccide? “A Nikolaevka
– dice asciutto - (una delle battaglie decisive
per sfuggire all’accerchiamento russo delle
truppe dell’ARMIR ndr.) mi feci largo con
il fucile”. “Il momento culminante della mia
vita – dirà in uno dei suoi tanti testi - non è
stato quando ho vinto premi letterari, o ho
scritto libri, ma quando la notte dal 15 al 16
gennaio ‘43 sono partito da qui sul Don con
70 alpini e ho camminato verso occidente
per arrivare a casa, e sono riuscito a sgan-
ciarmi dal mio caposaldo senza perdere un
uomo, e riuscire a partire dalla prima linea
organizzando lo sganciamento, quello è stato
il capolavoro della mia vita...»
In un deserto di privazioni e di dolore non
perde il senso della fratellanza e dell’amici-
zia. “Quando in certi momenti l’uomo si tro-
va in condizioni particolari, anche nel corso
della guerra – scriverà ancora - non si sente
più un soldato con le armi per uccidere, si
sente un fratello di quello che ha di fronte.
Non è più un nemico contro un nemico, ma
l’uomo con l’uomo, e allora cade quella veste
di odio, e si rimane come nudi di fronte. Due
poveri uomini: ma sì vivi, vivo anch’io; tu sta
a casa tua ed io vado a casa mia. E questo
penso sia il pensiero che ho voluto mettere
nel mio libro. La conclusione di quella che è
stata la mia esperienza”.
“Per tanti anni – dice Affinati – Mario è stato
frainteso, è stato presentato come un docu-
mentarista, un cronista. In realtà era un gran-
de stilista”. La sua odissea ha il tono epico
di “Guerra e pace”, l’impronta avventurosa
dell’Anabasi. L’ alpigiano che entra nel salot-
to della letteratura senza chiedere permesso
e a cui Vittorini riscrive pagine-chiave come
quella, ormai celeberrima, sull’incontro con
i russi nell’isba, introducendo “note di jazz
in un coro alpino”, ha la forza narrativa di un
Heinrich Böll, di un Norman Mailer e, dice
Affinati, tutto il diritto di occupare un posto
nel canone letterario del Novecento. Il lavo-
ro letterario come ricucitura di una profonda
lacerazione umana, del rapporto tra natura
e storia, tra uomo e ambiente è proseguito
poi con tutta la produzione di Rigoni Stern.
Ma “Il sergente” è “Il sergente”, è la voce di
un “salvato” che, come Primo Levi, parla a
nome dei fratelli “sommersi”. Come per Al-
bert Camus, anche per Rigoni Stern lo scrit-
tore è abituato “a vivere nella solitudine del
lavoro o nel rifugio dell’amicizia” e “non può
mettersi al servizio di coloro che fanno la sto-
ria: è al servizio di quelli che la subiscono”.
Firenze gli ha reso omaggio facendolo cit-
tadino onorario, il Vieusseux conservando
e valorizzando il suo carteggio con Enzo
Siciliano sul tema della religiosità. I giovani
“difficili” di Affinati concedendo ancora oggi
la loro fiducia e la loro attenzione a un vec-
chio alpino, al sergente capace di indicare
loro l’unica vera, personalissima “pista” tra il
ghiaccio dell’esistenza, quella che li può, se
vogliono, ricondurre “a bàita”.
Per molti genitori cresciuti nel mito di Emi-
lio Salgari (La tigre della Malesia), Rudyard
Kipling (Capitani coraggiosi), Louisa May
Alcot (Piccole donne), Ferenc Molnár (I ra-
gazzi della via Paal), solo per ricordare pochi
dei fortunatissimi titoli della letteratura per
ragazzi di una volta, non è stato facile trovare
per i propri figli, nati sulle soglie della rivolu-
zione digitale, libri che li invogliassero a leg-
gere. Troppo distanti i due mondi (quello dei
genitori e quello dei figli), troppo diverse le
aspettative, le caratteristiche del linguaggio,
il ritmo della vita che inesorabilmente diven-
ta ritmo della narrazione.
Risulta quindi sorprendente che Eraldo Affi-
nati, scrittore e insegnante molto impegnato
sul versante sociale, indichi tra questi prezio-
si “apriti sesamo”, tra le chiavi che aprono le
porte magiche della lettura, “Il sergente nel-
la neve”, un libro che appare (non si giudichi
spietato l’aggettivo) quanto mai datato. Vi si
parla di una guerra, la seconda guerra mon-
diale, che ai più giovani deve apparire lonta-
na come quelle puniche, e per di più di una
guerra perduta. Di soldati che combattono
con il moschetto mentre oggi si usano i droni,
che per spostarsi per le steppe russe gelate
usano le gambe e non camion o aerei, che sof-
frono la fame e gli stenti della prigionia e che
quando (in pochissimi su decine di migliaia)
riescono a tornare, vengono segregati nei tre-
ni perché la gente non deve vederli, perché
fanno schifo.
Ma il curatore del “Meridiano” dedicato a
Mario Rigoni Stern dice al Vieusseux, dove
è intervenuto per il ciclo “Scrittori racconta-
no scrittori”, che proprio grazie alle pagine
dolenti del sergente in fuga dalla sacca del
Don nel terribile inverno del 1943, è riusci-
to a trascinare nel mondo dei libri proprio
i ragazzi più ad esso lontani, i più riottosi, i
più (apparentemente) indifferenti: i ragazzi
difficili dell’istituto professionale. E questo a
dispetto del fatto che “Il sergente” sia diven-
tato negli anni una lettura molto “scolastica”.
Eppure i motivi di questo successo sono
meno strani di quanto non possa sembrare.
Affinati ne indica alcuni. In primo luogo la
capacità di trasmettere una esperienza. Una
esperienza costruita e maturata nel fuoco di
uno dei periodi più difficili della storia d’I-
talia. Mario Rigoni Stern nasce nel 1921 a
Asiago, terra degli antichi guerrieri Cimbri.
Di scuola ne fa poca, arriva alla terza Av-
viamento, la scuola media dei poveri, prima
che nel 1962 arrivasse la Media unica. Ma
Mario legge e leggendo cambia. “Tifone” di
di Susanna Cressati
La lunga pista
1615 APRILE 2017
realizzata in 100 esemplari, concretizzò il risul-
tato della sua indagine, dove ha identificato 60
tipi di verde naturale, appartenenti ad altret-
tante piante, fotografate a grandezza naturale
ed elencate col proprio nome botanico.
Quando noi comuni mortali indichiamo il colo-
re verde, siamo partecipi, intuitivamente, degli
innumerevoli tipi di questo colore esistenti e
delle loro sfumature e del loro mostrarsi a se-
condo del tipo di luce che le illumina, ma ci è
difficile esemplificarli anche sommariamente.
Forse solo la poesia è in grado di dare definitez-
za ad una “nuance” che, chiara nei nostri cuori,
si dissolve inesorabilmente quando cerchiamo
di afferrarla e comunicarla.
Mi viene in mente un modo di dire: “Chi di
verde si veste, troppo di sua beltà si fida” o an-
che il “garofano verde” di Oscar Wilde, o sce-
gliere l’inchiostro verde per la propria stilografi-
ca, per dare l’idea della complessità gregaria di
chi si circonda di questo colore che designa sia
la natura, sia il veleno, sia l’invidia.
Nannucci percepisce, attraverso le immagini dei
giardini botanici, autentici musei a cielo aperto,
questa problematicità che fa parte del suo lavoro
di artista e cerca, per esprimerne l’essenza, di in-
casellare, sistemare, ordinare il caos che il colore
verde genera e anche tutti gli altri disordini esi-
stenti, con particolare riferimento alla linguistica
in una perpetua messa a nudo del linguaggio, a
sua volta un “landscape” fatto di parole.
Per percorrere la sua strada ha usato molti “me-
dium”, ma il colore così inteso nelle esplorazioni
L’immagine riprodotta nel testo è la combina-
zione di due opere di Maurizio Nannucci, la
copertina di un libro: A Green Journey. Bota-
nical Gardens, del 1994 e una foto tratta dal
libro stesso. La foto è un originale stampato in
20 copie, numerate e firmate, di cui questa è la
numero 6. La foto fa parte di una cartella edita
nel 2007 e contenente 8 opere dei membri che
formano e gestiscono lo spazio “no profit” Base,
di Firenze.
La relazione fra le due opere è evidente, un og-
getto costituito dal libro, la cui copertina è una
riproduzione di un orto botanico e la foto che
costituisce la prima immagine quando andiamo
a sfogliarlo. Il libro, edito dal Centro Di in 1000
esemplari, ora esaurito, si presenta come un ca-
talogo illustrato con 35 riproduzioni di orti bo-
tanici di tutto il mondo.
La foto è stata scattata nell’Orto Botanico di
Pisa, e rappresenta una vasca di Nelumbo Nu-
cifera, nome scientifico del Fior di Loto.
Ogni immagine riporta ed è abbinata ad una
frase, quella che ci interessa è la seguente:”Ti-
me follows distance distance follows time /
Where to look first”.
Nel 1974 il Nannucci ha iniziato una ricerca
di immagini tesa ha individuare un comune
campo di riferimento nella definizione dei co-
lori che i pantoni dei colori industriali non sono
in grado di dare se non in modo approssimato.
“Sessanta verdi naturali”, titolo di una cartella
di Claudio Cosmacromatiche dei verdi è sempre stato privilegiato
e ne vediamo le sue numerose interpretazioni
nei neon colorati dove la luce rimane un corol-
lario del senso.
Nei verdi dei fior di loto dell’Orto Botanico di
Pisa si intuisce il lavoro compiuto nel passato
e la volontà di superare l’estetica iniziale della
“bella inquadratura” per immergersi, e noi con
lui, nella ricchezza delle varietà dei toni e nelle
inesauribili pieghe della parola.
L’accostamento del libro e dalla foto è un mio
personale, ma limitato, arbitrio, che tende ad
evidenziare il modo omogeneo e costante nel
quale questo artista fiorentino, nel corso del
tempo, sviluppa il suo lavoro.
La società Pantone, una azienda statunitense
che occupandosi di catalogazione dei colori
è arrivata a dare il suo nome a quelle spesse
mazzette di cartoncini colorati, indispensabili
quando vogliamo comprare una tinta di verni-
ce per dipingere casa o cambiare tonalità di una
tappezzeria, ogni anno seleziona, ma sarebbe
meglio dire, crea un colore che sarà dominante
nelle scelte di tanti oggetti che ci accompagne-
ranno per un periodo lungo 12 mesi.
Il colore del 2017 è un brillante tipo di verde,
denominato Greenery, che dovrebbe infonder-
ci una visione ottimistica della vita, più eco-
logica e direi botanica, rappresentato da una
sfumatura che è una via di mezzo del verde del-
la casacca di Peter Pan, così simile a quella di
Robin Hood, e appunto, il verde pastello delle
circolari e vellutate foglie dei nostri fior di loto.
Botanical Gardens
A green journey
1715 APRILE 2017
«Erano più colorate le strade di Napoli, più ric-
che di bancarelle improvvisate di chioschi di ac-
quaioli, più affollate di gente aperta al sorriso al-
lora, quando alle dieci di mattina le attraversavo
a passo lesto avevo quattordici anni per trovarmi
puntuale al teatro Orfeo, un piccolo, tetro, e lu-
rido locale periferico, dove, in un bugigattolo di
camerino dalle pareti gonfie di umidità, per fare
quattro chiacchiere tra uno spettacolo e l’altro,
mi aspettava un mio compagno sedicenne che
lavorava là….
Oggi è morto Totò. E io, quattordicenne di nuo-
vo, a passo lento risalgo la via Chiaia, e giù per
il Rettifilo, attraverso piazza Ferrovia. Entro per
la porta del palcoscenico di quello sporco lo-
cale che a me pare bello e sontuoso, raggiungo
il camerino, mi siedo e mentre aspetto ascolto
a distanza la sua voce, le note della misera or-
chestrina che lo accompagna e l’uragano di
applausi che parte da quella platea esigente e
implacabile a ogni gesto, ogni salto, ogni con-
torsione, ogni ammiccamento del “guitto”. Do
un’occhiata attorno; il fracchettino verde, stri-
minzito, è lì appeso a un chiodo: accanto c’è
quello nero. Quello rosso glielo vedrò indosso
tra poco, quando avrà terminato il suo numero.
I ridicoli cappellini… A bacchetta, a tondino… e
nero, marrone, e grigio… sono tutti allineati sul-
la parete di fronte. ..Manca il tubino: lo vedrò
tra poco. Il bastoncino di bambù non c’è: lo avrà
portato in scena. E lì, sulla tavoletta del trucco?
Cosa c’è in quel pacchetto fatto con la carta di
giornale? È la merenda, pane e frittata. E la mi-
serabile musica continua, e la sua voce diventa
via via ansiosa di trasportare altrove quella or-
chestrina, di moltiplicarla. Dal bugigattolo dove
mi trovo non mi è dato vederlo lavorare, ma di
sentirlo e immaginarlo com’è, come io lo vedo
come vorrei che lo vedessero gli altri. Non come
una curiosità da teatro, ma come una luce che
miracolosamente assume le fattezze di una cre-
atura irreale che ha facoltà di rompere, spezzet-
tare e far cadere a terra i suoi gesti e raccoglierli
poi per ricomporli di nuovo, e assomigliare a
tutti noi, e che va e viene, viene e va, e poi torna
sulla Luna da dove è disceso.
Ora sono travolgenti gli applausi e le grida di
entusiasmo di quel pubblico: il numero è finito.
Un rumore di passi lenti e stanchi si avvicina,
la porticina del bugigattolo viene spinta dall’e-
sterno. Egli deve aprire e chiudere più volte le
palpebre e sbatterle per liberarle dalle gocce di
sudore che gli scorrono giù dalla fronte per po-
termi vedere e riconoscere, e finalmente dirmi:
«Edua’, stai cca’! ” E un abbraccio fraterno che
nel tenerci per un attimo avvinti ci dava la cer-
tezza di sentire reciprocamente un contatto di
razza. E le quattro chiacchiere, quelle riguarda-
vano noi due, le abbiamo fatte ancora per anni,
fino a pochi giorni fa».
pubblicato su Paese Sera
in occasione della morte di Totò,
il 15 aprile 1967
Addio Totò,amico mio, fratello miodi Eduardo de Filippo
Abner Rossi nasce a Firenze il 24 novembre
del 1946. Autore e regista teatrale da circa qua-
rant’anni ha al suo attivo diverse sceneggiature
cinematografiche, opere teatrali e monologhi
adottati da molte scuole di teatro come testi di
studio e di esame nonché per le audizioni. Ha
pubblicato tre libri di poesie e non ha mai par-
tecipato, per scelta, a concorsi poetici. Ha scritto,
collaborato e poi diretto G. Albertazzi, Omero
Antonutti. Come dirigente dell’Arci di Firenze
ha partecipato alla grande stagione della nascita
della comicità toscana. Recentemente alcune sue
poesie sono state pubblicate sulla Enciclopedia
della Fondazione Mario Luzi,
Spiritidimateria
di Abner Rossi
Limen
Con quelle linee di salita,
quei riccioli di campi in fiore,
quei muri a fresco
a circondar le frutta.
Le batterie di grilli esperti
nei loro amorosi richiami.
Oltre, una striscia
di acqua, sogno e gioco
che delimita le scorrerie,
un confine amico,
superato il quale
non si torna.
1815 APRILE 2017
azzeramento del fattore politico, generale,
nelle trattative sindacali. L’accentuazione
portata sulla contrattazione decentrata ri-
spetto ai contratti collettivi nazionali ha, tra
gli altri aspetti, anche quello di eliminare il
generale rispetto al particulare dell’azienda
o addirittura del singolo stabilimento.
Non appaia strano che questo approccio
non dispiaccia ad alcune delle sigle sinda-
cali autonome che si professano all’arco op-
posto delle forze datoriali. Per scopi diversi
anche le sigle autonome ambiscono alla fine
della componente confederale della rap-
presentanza sindacale e alla gestione del
conflitto nell’ambito aziendale o al massimo
settoriale.
Non sfugga poi che tale situazione ha re-
sponsabilità sindacali, naturalmente. Da
un lato l’eccesso del ricorso ai tavoli politi-
ci da parte delle sigle confederali su molte,
troppe vertenze aziendali (complici natu-
ralmente le aziende che in questi anni, pur
professandosi liberiste, non hanno lasciato
cadere nessuna opportunità di socializzare
le perdite), dall’altro lato una lentezza con-
genita nel comprendere e adattarsi alle mu-
tate condizioni lavorative e sociali (in buona
compagnia sia chiaro di tutto il Paese).
La mossa dei cinque stelle dunque va in due
direzioni, contrarie ma che tatticamente po-
trebbero convergere, come spesso accade a
quel movimento politico. Da un lato accre-
ditarsi come soggetto rappresentativo delle
istanze dei sindacati di base, pur non po-
nendosi con essi come “cinghia di trasmis-
sione”; un semplice veicolo, un compagno
di strada, del sindacalismo di base. Una pos-
sibilità rappresentata dalla presenza, sem-
pre sul blog di Grillo a supporto del tema
messo in votazione, di un video messaggio
di Giorgio Cremaschi, ex Fiom uscito a si-
nistra dalla CGIL anche in disaccordo con
il sindacato di Corso Italia proprio sui temi
del rapporto col sindacalismo di base.
Accanto a questo però, il tema sollevato
dai grillini, strizza l’occhio a tutti quegli
imprenditori convinti che un sindacato
confederale debole sia preferibile all’attua-
le stato delle relazioni industriali e che la
conflittualità del sindacalismo di base sia
arginabile (o estinguibile) o comunque sia
localizzata in settori marginali per le forze
produttive del Paese.
Il tema quindi chiederebbe qualcosa di più
dell’attenzione ad un titolo ma l’apertura di
una riflessione più ampia e complessa sul
tema dei corpi intermedi come funzioni di
base, mattoni, di una democrazia economi-
ca compiuta che supera il concetto basila-
re della rivendicazione puntuale per dare
diritti e dignità generali ai lavoratori e alle
imprese.
La fine dell’intermediazione sindacale pro-
posta dai grillini rischia di essere qualcosa
di peggio dello slogan seppur minaccioso
apparso sui quotidiani in queste settimane.
È infatti apparso sul sacro blog il secondo
punto del programma del lavoro del movi-
mento cinque stelle, che non elimina l’in-
termediazione sindacale, ma la declina in
modo grillino e di fatto la trasforma. Per sin-
tetizzare il programma grillino non prevede
la fine dei sindacati tout court ma la fine dei
sindacati confederali.
Il punto infatti messo alla votazione del
blog è la possibilità da parte dei lavoratori di
eleggere le proprie rappresentanze sindaca-
li anche di al di fuori delle sigle che abbiano
firmato accordi con la controparte datoriale
(a livello nazionale, territoriale o aziendale).
Di fatto questo significa legittimare e sdo-
ganare il fenomeno delle sigle sindacali
autonome (Cobas, Usb, ecc…) all’interno
di fabbriche e luoghi di lavoro, indipenden-
temente dalla loro capacità negoziale ma
soltanto in funzione della loro capacità di
interdizione e di protesta.
È evidente che il fenomeno Cobas non
può oggi essere trattato col solo approccio
“normativo” appellandosi all’art.19 dello
Statuto dei Lavoratori e alle sue successive
interpretazioni. Intanto perché questo ap-
proccio è stato smentito dalle stesse catego-
rie sindacali confederali quando ad essere
escluse dalle fabbriche erano loro stesse. È
il caso della FIOM contro la Fiat di Mar-
chionne che ha portato il tema in Corte Co-
stituzione. La suprema corte infatti, dando
ragione alla sigla di Landini, ha di fatto reso
vana la modifica all’art.19 dello Statuto dei
Lavoratori, voluta proprio anche dalle sigle
sindacali con un referendum, per arginare
il fenomeno delle sigle sindacali autonome.
Vi è poi il tema dell’analisi concreta del
fatto concreto, per dirla con il compagno
Lenin, cioè del fatto che in interi settori o
in alcune aree geografiche le forze sindacali
autonome rappresentano l’unica contropar-
te che si trova nei luoghi di lavoro. Penso ad
esempio al settore della logistica nel nord
Italia.
Dunque il tema esiste ma la risposta grilli-
na è una risposta possibile o che migliora le
cose? La fine o la trasformazione della inter-
mediazione sindacale non è un tema nuovo.
Una larga parte delle associazioni datoriali
hanno in questi anni, più o meno inconscia-
mente, teorizzato una riduzione se non un
di Michele Morrocchi
Il sindacatodi Grillo
1915 APRILE 2017
di Orly per incontrare Philippe in transito ver-
so il Marocco. Lì si sono baciati per la prima
volta.
Il 2 gennaio Philippe è riuscito finalmente a
venire a Parigi per due giorni. Nei 14 mq. ap-
pollaiati sui tetti e carichi dei mobili e dei tan-
ti libri di Krystyna, per la prima volta fanno
l’amore e promettono di sposarsi. Vivranno un
po’ a Parigi e un po’ a Varsavia. In entrambe
le città entrambi hanno amici. Parleranno un
po’ in francese e un po’ in polacco. Lei, per la
prima volta, mi ha detto di avere 61 anni, lui
62. Sono dello stesso segno zodiacale.
Il 4 gennaio Philippe è partito e nello stesso
giorno Krystyna è andata a fare quelle radio-
grafie per tanto tempo rimandate nonostante
dei dolori sempre più lancinanti. Dopo un’ora
il responso. Terribile. Un tumore di 8 centime-
tri con una piccola metastasi.
La felicità appena raggiunta sembra dissolversi
come un sogno.
Ma Philippe ormai non la lascerà andare via
facilmente. La incoraggia, le telefona tutti i
giorni, le dice ti amo, ti amo, ti amo, le dice che
è la donna più bella del mondo.
E Krystyna, senza capelli per la chemio e sem-
pre più magra, è diventata veramente bella.
Mi ha detto che sta combattendo per riuscire a
vivere questa splendida storia. La chemio aiuta
ma l’amore è la sua vera medicina. Il tumore,
con una certa sorpresa dei medici, sta regre-
dendo. Krystyna ha un permesso lungo per
malattia, poi tra pochi mesi andrà in pensione.
Quindi ormai non lavorerà più in quel posto
che l’ha fatta tanto soffrire. Sarà libera di suo-
nare il flauto quando vuole, di vivere sul mare
della Bretagna con la sua nuova, numerosa fa-
miglia, o a Parigi, o a Varsavia, o dappertutto.
Le favole hanno sempre un lieto fine e anche
per questa DEVE essere così.
Krystyna è arrivata a Parigi da Varsavia qua-
si vent’anni fa. In Polonia aveva studiato arte,
musica e canto. A Parigi, lei che parla cinque
lingue, ha trovato lavoro alla reception di un
albergo vicino all’Opera. Krystyna ha sem-
pre odiato quell’impiego, i grezzi proprietari,
le colleghe pettegole, gli orari impossibili, lo
stipendio minimo. Ma ha voluto vivere nel
quartiere più esclusivo di Parigi, sia pur in un
minuscolo monolocale di 14 mq, andare spesso
al teatro riuscendo a trovare all’ultimo momen-
to biglietti scontatissimi, permettersi il lusso di
un abbonamento annuale ai musei. Pare che
Krystyna abbia avuto un passato molto felice,
e per me misterioso, che abbia sposato un ita-
liano colto e ricco, che poteva permettersi viag-
gi e vacanze in barche da sogno. Ma l’italiano
morì in un incidente di macchina, la famiglia
di lui impugnò il testamento e, non si sa come,
Krystyna si ritrovò senza un soldo. Da anni la
incontro saltuariamente a Parigi. Parlare con
lei è sempre stato faticoso perché l’argomento
principale, anzi l’unico, era la sua vita solitaria
e senza soddisfazioni, il lavoro umiliante, la
casa minuscola....Vestita con grazia ma sempre
uguale per non spendere, i capelli tinti in casa
nerissimi o biondissimi, nessuno sapeva la sua
età.
Ieri sera Krystyna è venuta a cena a casa mia.
Ero già da qualche giorno a Parigi ma non mi
ero fatta sentire proprio per non ascoltare per
l’ennesima volta il racconto, narrato con en-
fasi eccessiva, delle sue disgrazie e di tutti i
sogni infranti. Quando ho aperto la porta mi
è apparsa una Krystyna diversa: sorridente,
quasi radiosa, un frivolo baschetto dal quale
(finalmente, ho pensato) non uscivano quei fili
stremati di capelli nerissimi o biondissimi. Ma
sei bellissima! Sei innamorata? Era veramente
molto bella, diversa appunto, ma la frase dopo
averla detta rimaneva in attesa, come accade
sempre, di un magari. Invece Krystyna mi ha
risposto Sì , sono innamorata.
A tavola, con voce tranquilla e non più sovra-
eccitata, mi ha raccontato la sua storia. Una
bellissima storia vera talmente incredibile da
sembrare la trama di un brutto romanzo.
A novembre a Varsavia, dove era ritornata per
qualche giorno per visitare la famiglia, aveva
conosciuto a casa di amici un parigino che vive
da quasi vent’anni in quella città. Philippe ha
un buon lavoro che lo porta spesso a viaggia-
re, dei figli simpatici in Bretagna e dei teneri
nipotini. E’ vedovo, ama l’arte e il teatro, è gen-
tile e soprattutto si è innamorato follemente di
Krystyna.
A dicembre Krystyna è andata all’aereoporto
di Simonetta Zanuccoli
La storiavera di Krystyna, fra Parigie Varsavia
2015 APRILE 2017
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È bandita la prima edizione del concorso «Racconti Commestibili», la sfida letteraria lanciata
da Cultura Commestibile e Maschietto Editore, in collaborazione con il Ristorante Caffetteria
La Loggia. Il concorso è dedicato al tema del cibo, inteso in tutti i sensi letterali e figurati. Può
partecipare chiunque, senza limiti di nazionalità e di età, inviando un solo racconto della lun-
ghezza massima di 5000 battute entro il 15 aprile 2017 all’indirizzo email . La partecipazione è
gratuita. La valutazione e selezione degli elaborati sarà affidata a due giurie: la prima, formata da
redattori interni alla casa editrice e della rivista, individuerà la rosa dei 10 testi finalisti, La giuria
tecnica, composta da Marco Vichi (scrittore), Francesco Mencacci (direttore della scuola Carver
di scrittura creativa), Sandra Salvato (giornalista), selezionerà i tre racconti vincitori che saranno
pubblicati sulle pagine di Cultura Commestibile. Al primo classificato sarà offerta una cena per
due persone al Ristorante Caffetteria La Loggia. Il regolamento completo è scaricabile dal sito .
PRIMA EDIZIONE 2017
premio letterario Maschietto Editore
2115 APRILE 2017
Novanta disegni di Arianna Fioratti Loreto
sono in mostra alla Specola di Firenze fino al
prossimo 18 giugno, sistemati a bella posta in
una sorta di confronto, di dialogo - quasi di
controcanto -, rispetto alla ricca collezione di
questo antico museo, dove sono esposti oltre 5
mila animali. Si chiama “Biophilia” e si tratta
di un evento affatto particolare che si presta a
richiamare la curiosità e l’interesse di grandi e
piccini.
E’ un grande, un profondo amore, quello che
deve aver mosso questa artista a realizzare i
suoi disegni a penna e inchiostro che ritraggo-
no, senza tralasciare il più piccolo dettaglio, in-
numerevoli specie di mammiferi, rettili, uccelli,
anfibi, insetti, molluschi e perfino alghe e orga-
nismi unicellulari. Un amore che mi rimanda,
in modo incoerente rispetto al tempo e alla
storia, un po’ a Charles Darwin, un po’ a Rem-
brandt Bugatti; ma anche a Esopo o, per dire, a
Trilussa e a quanti, tratteggiando e dando voce
con la scrittura a specie/figure animali, hanno
in realtà ritratto caratteri e tipologie umane. Un
sentimento e una passione che si divide, dun-
que, tra l’arte, la scienza e la letteratura. Scrive,
forse non a caso, il paleo-ecologo e naturalista
Marco Masseti, nella introduzione al catalogo
della mostra, che “nel caso di Arianna Fiorat-
ti Loreto, ci troviamo di fronte ad un universo
animale composto da racconti grafici che ci
parlano di specie diverse ed affascinanti, appa-
rentemente ispirate alla realtà scientifica, ma
non private del mistero delle favole antiche”.
Un universo, uno ‘zoo’ – quello di Arianna -
che non ha confini, tanto meno geografici: vi si
trovano parimenti il bufalo e la salamandra ma
anche il varano di Komodo, il lama e la giraffa.
Ho parlato di amore non per un omaggio/
aggancio formale al titolo stesso della mostra,
ma perché questi disegni lo essudano, lo resti-
tuiscono in modo irrefutabile all’osservatore. E
come l’artista afferma piacerle “l’idea di trovare
la bellezza anche in animali che sono conside-
rati brutti o pericolosi dalla maggior parte delle
persone”, così conferma che anche questo amo-
re - come ogni amore - nasce dalla conoscenza
e consente di superare diffuse barriere, consoli-
dati pregiudizi.
Il senso del disegno – e dell’arte, in generale – è
allora che esso può costituire una via insospet-
tata, particolarmente efficace alla conoscenza
del mondo fenomenico; nel caso di Arianna,
quasi lascia indovinare una sorta di ‘carattere’,
di pensiero imperscrutabile o intraducibile
dell’animale, qualcosa della sua anima che l’ar-
tista può e sa cogliere nell’impresa, mai sconta-
ta, di fedelmente raffigurarlo.
di Paolo Marini Biophilia
2215 APRILE 2017
Mangiare è uno dei quattro scopi della vita…
quali siano gli altri tre, nessuno l’ha mai saputo.
Proverbio cinese
Preparazione:
Per preparare la base della torta pasqualina ai
carciofi, iniziate con impastare la farina con
i quattro cucchiai di olio. Aggiungete il sale
e cercate di rendere l’impasto compatto ver-
sandoci dell’acqua. Dividete il composto in
7 parti: sei della stessa dimensione e uno più
grande; ricopritele con un canovaccio umi-
do e lasciatele riposare per 15 minuti circa.
Iniziate così a preparare il ripieno: mondate
i carciofi, lavateli e fateli lessare, poi scolateli
e fateli insaporire passandoli in padella a fuo-
co medio con un soffritto di scalogno e olio.
Prendete la ricotta e lavoratela aggiungendo
un pizzico di sale e il latte. Stendete le parti
di pasta che avete lasciato a riposare, fino a
ottenere dieci dischi uguali e spennellateli
con l’olio. Imburrate e infarinate una tortiera;
adagiate quindi il primo disco di pasta, quello
più grande, e lasciate che esca fuori dai bordi
dalla tortiera; spennellate con olio e versateci
sopra uno strato di carciofi e parmigiano. Cre-
ate nel primo strato di ripieno delle piccole
buche che riempirete con delle noci di burro
e con le uova. Cospargete con un po’ di sale e
di pepe e coprite il tutto con i restanti dischi
di pasta cosparsi di olio. Prima di infornare a
180°, con forno già caldo, punzecchiate con
una forchetta l’intera torta. Dopo un’ora la
vostra torta pasqualina di carciofi sarà pronta
da gustare.
Ingredienti per la sfoglia:
1 kg di farina
4 cucchiai di olio
Un pizzico di sale
Acqua q.b.
Per il ripieno:
10 carciofi
60 g Burro
500 g di ricotta
1 bicchiere di latte
6 uova
½ scalogno tritato
120 g di parmigiano a scaglie
sale e pepe
Accade, talvolta, che con pervicacia ci si co-
stringa ad andare al cinema, forse per vincere
il tedio della socialità sguaiata del sabato sera
ed evitare gli scaracchi, le urla, le cogitazioni
di comitive di forsennati. E così, reduce da vari
viaggi, come un galeotto alla sua ora d’aria, mi
trascino in multisala e propendo (ah, sciagura!)
per “The Startup”, nulla sapendo, nulla sospet-
tando, nulla immaginando. Un azzardo, un col-
po di testa, una pazzia!
Le prime immagini mostrano che di cinema
italiano si tratta e vengo accolto da bracciate in
piscina al rallentatore e bollicine e bollicione
dorate, schiume e schiumazze: ok, ci stanno dei
tizi che nuotano e fanno la gara.
Il mio malessere si accentua in occasione dei
primi dialoghi: non ci siamo.
Vabbè stiamo parlando della storia vera di ‘sto
Matteo Achilli, il giovane “startupper” (neo-
logismo osceno) fondatore di “Egomnia” ecc.
ecc.; ma la cosa conta davvero poco, giacché il
mio animo è da subito ottenebrato dalle cacofo-
nie musicali urlate da tal Ginevra e concepite
dalle fervide menti dei maestri Pivio & Aldo
De Scalzi. Fantastico.
La recitazione dei protagonisti è al livello di un
mix tra la recita parrocchiale e il teatro ama-
toriale della domenica pomeriggio, laddove
queste ultime nobili attività sono da conside-
rare preziosa maieutica corale rispetto alla im-
barazzante supponenza di questa passerella di
fichetti.
D’Alatri mette su un baracchino da poco nel
tentativo provinciale di scimmiottare il Fincher
di “The Social Network”, utilizzando una nar-
razione pedante, peraltro mortificata dalla qua-
lità dei dialoghi e da una sceneggiatura davvero
modesta.
La solita parabola descrive le vicende del prota-
gonista che trova “redenzione” nel prevedibile
finalone targato Ferrovie dello Stato, dopo un
“avventuroso” percorso che lo porterà a sradi-
carsi dalla Roma agreste e bucolica in direzione
di una tentacolare e “lucignolesca” Milano. In-
somma, siamo alla fresca tematica della dicoto-
mia campagna-città: da non credersi.
Ci sciroppiamo un’altra oretta di panegirico
sulla Bocconi, con tanto di docente integerrimo
che richiama all’ordine la truppa, e fra un sus-
seguirsi di inquadrature da rotocalco, occhioni
lacrimosi, capriccetti, musetti lunghi, faccine
imbronciate, gare improvvisate di nuoto, bau-
scia stagionati e non, amplessi abbozzati, un
pochetto di cosce e di tettine, la microstoriella
dell’amichetto buono…che altro aggiungere?
Forse che questa sbobba è ovviamente finanzia-
ta e prodotta dal ministero per i Beni artistici e
culturali e che posso solo vergognarmi per l’o-
bolo concesso a questa scialba operetta.
di Francesco Cusa
di Michele Rescio
Una Startup che non funziona
La Torta pasqualina
2315 APRILE 2017
Paolo della Bella - Sconclusione
Il 9 aprile alle ore 17.30 è stata inaugurata la
mostra “Due memorie” dell’artista Resmi Al
Kafaji, presso la Galleria ZetaEffe di Firenze,
e sarà visibile fino al 12 maggio 2017.
Saranno esposte in mostra una selezione del-
le opere recenti dell’artista Resmi Al Kafaij,
realizzate con inchiostro e incisione su carta.
Un percorso visivo che pone costantemente in
relazione due condizioni estetiche che intera-
giscono come ragioni dialettiche, in quanto de-
finizioni di due terre (quella originaria e quella
adottiva dell’artista) che emergono nette, per
mezzo della presenza del nero che si delinea
dal bianco della carta. Sono luoghi densi, co-
stituiti da sovrapposizioni impercettibili di
colore che indicano la stratificazione di un
vissuto. Le opere nascono dalla memoria del
presente e dal ricordo della terra nativa, le cui
tracce permangono vivide nella loro trasposi-
zione artistica.
Inaugurazione a Urbino giovedì 13 aprile alle
13.30, del progetto nuovo progetto culturale
dedicato a Giorgio Manganelli. A cura di Vit-
torio Sgarbi e Lietta Manganelli Nella Casa
della Poesia (Via Vale rio n.1) e nel Collegio
Raffaello (Piazza della Repubblica) sarà pre-
sentata un’ampia selezione di materiale legato
al famoso scrittore, giornalista e critico d’arte.
Opere di Nanni Balestrini, Paolo Beneforti,
Paolo della Bella, Giuliano Grittini, Giuliana
Maldini, Franco Nonnis, Gastone Novelli,
Giovanna Sandri, Marisa Bello e Giuliano
Spagnul. Parafrasando un famoso detto di
Manganelli: «Non riesco a pensare ad una
vita senza sogni, come mi è impossibile imma-
ginare una moneta che abbia solo il diritto e
sia priva del rovescio», potremmo affermare:
«Non riesco a pensare ad una vita senza arte»
e, trattandosi di Manganelli, «mi è impossibile
immaginare una vita senza menzogna». Amo-
re, quello per l’arte, assolutamente ricambia-
to: i suoi migliori amici erano pittori, gli unici
veramente in grado di «vedere» e non sempli-
cemente di «leggere» gli scritti del Manga, il
più immaginifico degli scrittori. Per questo
abbiamo voluto (o l’ha voluto il Manga, questo
è tutto da definire) riunire tutte o almeno la
maggior parte delle opere ispirate ai suoi libri
(sempre che, trattandosi di lui, di libri si possa
parlare). Opere dell’epoca e attuali. Opere di
artisti che hanno letto Manganelli, e da allora
non sono stati più gli stessi.
Manganelli Finxit. Arte come menzogna Ur-
bino l Casa della Poesia - Collegio Raffaello
(13 aprile - 30 giugno 2017)
Le due memorie di Resmi Al Kafaji
Manganelli FinxitArte come menzogna
2415 APRILE 2017
Ho di Maurizio Bossi un nitido e cristallino
ricordo di un uomo gentile e riservato, ma al
contempo appassionato, negli anni in cui lo
conobbi da assessore alla cultura di Firen-
ze. Uno dei nostri primi incontri fu quando
mi parlò della Biblioteca Orientale di Fosco
Maraini che il Gabinetto Vieusseux aveva ac-
quisito, ordinato e che si apprestava a rendere
accessibile, celebrando il suo proprietario con
una serie di iniziative sul rapporto fra Marai-
ni e la cultura giapponese. Me ne parlò con
quel misto di timidezza e felicità che era la
sua cifra umana. Gli si accendevano gli oc-
chi a poter portare lì nel tempio della cultura
letteraria italiana moderna, una ventata d’O-
riente attraverso uno degli intellettuali italia-
ni più laterali ed eterodossi del Novecento.
Hai ragione gli amici del Gabinetto Vieus-
seux a mettere al primo posto fra le caratteri-
stiche della personalità di Maurizio Bossi nel
titolo del convegno a lui dedicato (nel primo
anniversario della scomparsa) il prossimo 21
aprile la curiosità. Non era Maurizio un intel-
lettuale mainstream, di quelli che ripercorro-
no per una vita intera sentieri usati e battuti;
preferiva decisamente quelli impervi e non
tracciati. Ed è appunto la curiosità per l’igno-
to la molla che fa scattare questa irresistibile
attrazione per simili viaggi. Ma è questo, e
solo questo, che definisce il territorio della
cultura; non la posizione (alta o bassa), non
le peraltro arbitrarie separazione in generi
(scientifica, umanistica, ecc.), bensì la ricerca
del libro non ancora scritto, del film non anco-
ra girato, delle culture non ancora conosciute.
E Maurizio era certamente un esploratore di
queste terre sconosciute. Ma lo faceva con il
rigore del metodo scientifico e della dedizio-
ne totale all’approfondimento che di addice
all’intellettuale che non si fa distrarre da luci
di varie ribaltare mediatiche, cui invece cedo-
no troppi degli intellettuali d’oggi. Maurizio
adempiva a questo compito intellettuale ri-
tenuto ingiustamente oscuro (penso al lavoro
sulle carte, le copialettere, i repertori), con
passione e credo allegria. Sempre con quel
tono dimesso, umile, gentile che a me ha ispi-
rato una immediata simpatia. Vorrei dire che
avremmo sempre più bisogno di questa tem-
pra di intellettuali, di uomini: abbiamo fin
troppi showman, istruzioni, gente che pensa
che basti fare un po’ di spettacolo per fare
cultura. Ma verrà ancora il tempo, lo so, in cui
i Bossi torneranno ad essere apprezzati per il
loro insostituibile è necessario contributo ad
una società migliore, più umana e profonda.
di Simone Siliani
La curiosità di Maurizio Bossi
2515 APRILE 2017
Per ragioni di attualità si parla molto di Stato
Islamico, in riferimento soprattutto alla forma
parastatale insediatasi tra Iraq e Siria nel 2014,
meglio nota come Daesh. Tuttavia unire insie-
me il sostantivo “Stato” e l’aggettivo “islamico”
non è una cosa così facile e immediata come po-
trebbe sembrare. Per lungo tempo dotti, filosofi,
studiosi si sono interrogati su quali fossero le ca-
ratteristiche principali per far sì che una forma
di governo fosse realmente islamica.
La questione, in realtà, è abbastanza comples-
sa e non può semplicemente essere ridotta alla
formula: uno Stato è islamico quando viene
applicata la shari’a. Questa formula è riduttiva
ma coglie un aspetto importante del problema,
la definizione islamica dello Stato dipende ef-
fettivamente dal rapporto che intercorre tra la
dimensione politica, siyasa, e la dimensione
giuridica religiosa, shari’a. La politica come me-
todo di organizzazione della comunità dei fede-
li consiste nell’applicazione della legge. La sha-
ri’a, però, è un insieme di dogmi, precetti, riti
comunicati da Allah per mezzo della Rivelazio-
ne che ha la funzione di indicare una corretta
via da seguire (il termine shari’a letteralmente
significa “via, strada”), diventa normativa dopo
essere stata interpretata. La legge islamica si
compone, inoltre, di altri elementi come il fiqh
(“discernimento”), il codice di applicazione
effettiva della legge che ha la funzione di inte-
grare i vuoti normativi della shari’a e il qanun,
“canone”, una sorta di codice amministrativo di
epoca ottomana. A questi si aggiunge, solo per
i sunniti, la Sunna, la Tradizione del Profeta,
l’insieme delle leggi desunte dal comportamen-
to e dalle indicazioni di Maometto.
In ogni caso, il diritto islamico ha delle carat-
teristiche particolari per cui a differenza di al-
cune correnti giuridiche sviluppate in Europa,
come per esempio il giusnaturalismo, non pre-
vede alcuna categoria aprioristica. Non sono
previsti diritti svincolati da un controllo supe-
riore, niente peraltro è giusto in sé ma è giusto
in quanto Allah lo ha determinato. Da ciò de-
riva un forte determinismo, non vi è utopia ma
solo la realizzazione di un ordine che è già stato
indicato con delle norme che sono già state sta-
bilite. Il tipo di ordine, però, non è indicato o
definito in modo chiaro e univoco, deve essere
interpretato.
La prima forma di governo successiva alla Rive-
lazione è quella di Maometto e della comunità
di primi fedeli. Per la vicinanza alla Rivelazio-
ne e per la presenza di Maometto stesso, questo
primo governo era necessariamente rispettoso
di tutte le leggi divine appena rivelate. Ma, se
da un lato la dimensione della shari’a era rispet-
tata, mancavano alcuni elementi della siyasa.
Nel Corano e nelle altre fonti del diritto, man-
cavano i criteri per individuare il successore di
Maometto alla guida della comunità. L’indivi-
duazione di un khalifa (“califfo, vicario”) non
è stata cosa facile. Si è venuta, inoltre, a creare
un’ambiguità di fondo circa la figura del Calif-
fo: il Califfo è vicario del Profeta o di Allah? È,
perciò, una figura solamente politica incaricata
di mantenere l’ordine e la protezione, il benes-
sere, della comunità, o è anche una figura reli-
giosa in quanto trae la propria legittimazione
dal divino? Problemi di questo genere si sono
ovviamente moltiplicati con l’estensione della
religione a territori sempre più ampi e popola-
zioni diverse tra loro. Non c’è stata quindi una
soluzione unica a questi dubbi ma diverse, in
relazione alle tante interpretazioni che si sono
venute a creare come risultato dell’incontro di
diverse culture, anche non islamiche, e in rela-
zione alla divisione interna tra musulmani sun-
niti e musulmani sciiti (per i quali bisognerebbe
fare un discorso a parte).
Negli ultimi decenni, sono nate nuove teorie
che hanno riletto in chiave negativa la storia
musulmana. Per esempio, c’è chi vede nell’epo-
ca di Maometto l’unico governo effettivamente
islamico mai esistito, dopo il quale vi è stata una
lunga decadenza. Per realizzare l’ideale religio-
so-politico è dunque necessario riferirsi a quel
modello preciso, di conseguenza l’aspirazione
dell’uomo deve essere quella di restaurare quel
governo e difenderlo dai suoi nemici o detratto-
ri. In modo simile, le dottrine salafite predica-
no il ritorno necessario all’epoca dei Salaf per
tornare sulla retta via. I Salaf sono gli “antichi”,
ovvero Maometto e i suoi quattro successori,
i Califfi Ben Guidati. L’epoca in cui essi sono
vissuti è considerata una sorta di età aulica isla-
mica in virtù della vicinanza alla Rivelazione e
sono per questa la giusta via da imitare.
Le precedenti non sono che alcune delle idee
che si sono diffuse, anzi queste in particolare
sono state contestate da altri pensatori che non
credono che per realizzare l’ordine già prestabi-
lito da Allah sia necessario guardare al passato,
piuttosto propongono di integrare alcuni dei
concetti nati dalla modernità con la religione e
le sue leggi.
La corrente islamista radicale, sviluppatasi solo
nel XX secolo, fornisce oggi un’interpretazione
molto ristretta di questo lungo discorso politi-
co-filosofico. Riduce molto la distanza tra siyasa
e shari’a arrivando a proporre un nuova conce-
zione dell’autorità che gira intorno al termine
hukm. Questo in realtà sarebbe il termine usato
nel Corano in riferimento al giudizio ultimo
sulle azioni dell’uomo come prerogativa divina.
Non avrebbe alcuna dimensione politica, ma
lcuni membri della corrente radicale lo ha in-
terpretato non tanto come “giudizio” ma come
“potere” del divino sulle azioni dell’uomo, for-
nendo così la base per una islamizzazione del
governo e quindi dello Stato. Da questa visione
molto ristretta della politica derivano in conse-
guenza delle nozioni ristrette di altri concetti di
ordine sociale, legale e religioso.
Lo Stato Islamico per come si conosce oggi è,
quindi, il frutto di una visione ristretta (molto
ristretta) e radicale di come quell’ideale politi-
co-religioso deve essere tradotto nella pratica.
di Barbara Palla
Che cos’è lo Stato islamico?
La Grotta Grande all’interno del Giardino di Bo-boli, al termine del Corridoio Vasariano che col-lega gli Uffizi a Palazzo Pitti, è una straordinaria opera del tardo Rinascimento fiorentino, proget-tata dal poliedrico artista, architetto e ‘designer’ Bernardo Buontalenti. I più autorevoli studiosi della materia trattano la storia di questa architettura unica, gli affreschi e le sculture che contiene (compresi i Prigioni di Mi-chelangelo, oggi presenti in copia), le simbologie alchemiche e le allegorie sottese, le funzioni e i si-gnificati nascosti del monumento.
La seconda parte del volume è dedicata al viaggio fo-tografico compiuto da Luca Stoppini, art director di “Vogue Italia”. Dal viale di accesso fino all’ultimo an-fratto, con sguardo libero e con straordinaria poten-za iconografica, l’artista percorre le meraviglie della Grotta Grande, fissandole in prospettive vertiginose o in dettagli di grande sensualità, per restituirci l’ori-ginalità delle forme, i colori che mutano con il passare delle ore, tutte le sfumature di luce di un luogo mera-viglioso e pieno di segreti, in continua metamorfosi.Il libro è disponibile in edizione in italiano e in edi-zione in inglese.
Bernardo Buontalenti e la Grotta Grande di BoBoli
Saggi di Cristina AcidiniAlessandro CecchiCarlo CinelliValentina ConticelliCarlo Francini Mino GabrieleSergio Risaliti Francesco Vossilla
Fotografie di Luca Stoppini
alla scoperta di una delle più sinGolari meraviGlie del tardo rinascimento nel cuore di firenze
Maschietto Editore libri d’arte
Maschietto Editore – Via del Rosso Fiorentino 2/D – 50142 FirenzeTel/fax +39 055 701111 – [email protected] – www.maschiettoeditore.com