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Abbonamenti versamento sul conto corrente bancario: Banca Intesa IBAN: IT37 G030 6901 4950 5963 0260 158 intestato a SATURA ASSOCIAZIONE CULTURALE ANNUALE EURO 30,00 SOSTENITORE EURO 50,00 Anno 3 n° 12 quarto trimestre Autorizzazione del tribunale di Genova n° 8/2008 In copertina Lucia Pasini, Senza titolo, tecnica mista, 2008 SATURA è un trimestrale di Arte Letteratura e Spettacolo edito dall'Associazione Culturale Satura Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l'autorizzazione scritta della Direzione e dell'Editore Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile per la redazione per la pubblicazione vanno inviati a: SATURA associazione culturale, piazza Stella 5/1 16123 Genova Le opinioni degli Autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quella della direzione della rivista Tutti materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti SaTuRa Trimestrale di arte letteratura e spettacolo Redazione Giorgio Bárberi Squarotti, Milena Buzzoni, Manuela Capelli, Giuseppe Conte, Gianluigi Gentile, Rosa Elisa Giangoia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Guido Zavanone Redazione milanese Simona De Giorgio via Farneti,3 20129 Milano tel.: 02 74 23 10 30 e-mail: [email protected] Direttore responsabile Gianfranco De Ferrari Segreteria di Redazione Valentina Isola Collaboratori di Redazione Silvia Barbero, Agnese Campodonico, Barbara Cella, Maura Fidenti, Maura Ghiselli, Federica Giudici, Valentina Isola, Flavia Motolese, Sara Odorizzi, Simone Pazzano, Elena Putti, Susanna Rossini, Serena Vanzaghi Editore SATURA associazione culturale Amministrazione e Redazione SATURA piazza Stella 5, 16123 Genova tel.: 0102468284 cellulare: 338-2916243 e-mail: [email protected] sito web: www.satura.it Progetto grafico Elena Menichini Stampa Sorriso Francescano Via Riboli 20, 16145 Genova

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In copertina Lucia Pasini, Senza titolo, tecnicamista, 2008

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sommario

03 PREMIO DI POESIA INEDITA“SATURA - CITTÀ DI GENOVA”

15 INTERVISTA A ANGELO MUNDULALiliana Porro Andriuoli

18 VITA E CULTURA NELLA POESIA DI DAVIDE PUCCINIRosa Elisa Giangoia

26 LA VOLPONAGuido Zavanone

30 PIANETA HOUELLEBECQGiuliana Rovetta

35 SIRIA O LE RADICI DELLA CIVILTÀMilena Buzzoni

46 “LE PAROLE ERANO QUASI LA MIA SOLA REALTÀ”Per un’analisi “sociolinguistica”del «Racconto della piattola»di Tommaso LandolfiCostanza Geddes da Filicaia

52 UNA POESIAElegia dell’osteria del Ferro SetteBruno Bonfanti

53 UNA POESIAVent’anni a Parigi Fabio De Mas

54 UNA POESIARane Gian Citton

60 PROSPEZIONIUna maniera di sopravviveredi Guido ZavanonePaesaggi di Poesiadi Antonio De Marchi-GheriniSu cosa si fonda il mondo?di Rosa Elisa GiangoiaLa rinascita della fiduciadi Rosa Elisa GiangoiaMa i fiori hanno un pudore?di Rosa Elisa GiangoiaUna fine annunciatadi Giuliana RovettaLa Grande Madredi Simone Turco

65 INTERVISTA LUCIA PASINIBarbara Cella

70 TEATROCamille - Dacia MarainiSilvana Zanovello

72 L’ANGOLO DI FRINOElia Frino

74 EVENTI A GENOVAMediterraneo, da Courbet, a Monet, a MatisseValentina IsolaRaimondo sirotti, Mediterraneo.Il colore della luceValentina Isola

77 VETRINA ANTONIO FINELLISimone PazzanoSIMONA BRAMATISimone Pazzano

83 RUBRICAMilanoSerena Vanzaghi

86 SATURAPRIZE 2010 E ARTSCHOOL SATURAPRIZEMario Napoli

90 GENOVA SI TINGE DI GIALLOMario Napoli

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SATURA arte letteratura spettacolo1^ EDIZIONE PREMIO DI POESIA INEDITA “SATURA - CITTÀ DI GENOVA”

Palazzo Stella / GenovaPremiazione sabato 11 dicembre 2010

GIURIA: Giorgio Barbéri Squarotti, Milena Buzzoni, Giuseppe Conte, Rosa Elisa Gian-goia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Guido Zavanone.

POETI PREMIATI:•PRIMO PREMIO alla poesia di Antonio De Marchi Gherini•SECONDO PREMIO alla poesia di Loriana Capecchi•TERZO PREMIO alla poesia di Gianluigi Sacco•QUARTO PREMIO alla poesia di Maria Luisa Gravina •QUINTO PREMIO alla poesia di Daniela Raimondi•SESTO PREMIO alla poesia di Luciana Amisano•SETTIMO PREMIO alla poesia di Cheikh Tidiane Gaye •OTTAVO PREMIO alla poesia di Maria Maddalena De Franchi•NONO PREMIO alla poesia di Mariangela De Togni•DECIMO PREMIO alla poesia di Fabio Delucchi

POETI SEGNALATI: Pia Bandini, Anna Bani, Fabio Barbon, Gianluigi Bavoso, Pao-lo Borsoni, Franco Castellani, Francesco Colloca, Giada Colombi, Maria RomanaDellepiane, Maricla Di Dio Morgano, Paola Farah Giorgi, Franco Fiorini, Emilia Fra-gomeni, Lucetta Frisa, Giulio Fumagalli D'Osnago, Roberto Gennaro, Edoardo Gen-zone, Margherita Janin, Sergio La China, Francesco Macciò, Eliana Maffei, Alber-to Mainardi, Rossella Maiore Tamponi, Luigi Paraboschi, Renzo Piccoli, Clelia Pie-rangela Pieri, Marco Polidori, Jacopo Ricciardi, Marilina Severino, Orietta Tosi.

Prem

io di poesia in

edita “Satu

ra - Città d

i Gen

ova”

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Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna cinereaDilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto

Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande:Come le cateratte del Niagara

Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare:Genova canta il suo canto!

DINO CAMPANA

Nell’ambito della complessa attività culturale svolta dalla nostra rivista,s’inserisce il Premio “Satura – Città di Genova”, che ha il patrocinio della Re-gione Liguria, della Provincia e del Comune di Genova.

Il Premio, a tema libero e aperto a tutti, è finalizzato a dare particolarerisalto alla poesia, la meno mercificata delle arti e, negli ultimi tempi, relega-ta in angusti spazi del panorama culturale italiano. Noi riteniamo invece chela poesia sia l’attività umana che più di ogni altra tende, in mezzo al trionfodell’inautentico, a restituirci quello che ci è stato sottratto, a dare un senso noneffimero alla nostra esistenza, a porsi come un itinerario verso la verità attra-verso la Parola.

L’istituzione del Premio, che si ripeterà nei prossimi anni, vuole anchetestimoniare la crescente sensibilità della Città di Genova per la cultura.

La Giuria, composta dai redattori della rivista, desidera segnalare il buonlivello generale delle composizioni sottoposte alla sua valutazione e la parte-cipazione di molti poeti già noti ed affermati nell’attuale panorama letterarionazionale.

La Liguria è terra di poeti: molti vi ebbero i natali e altri, giungendo daluoghi lontani, se ne innamorarono e le dedicarono il loro canto.

In questo solco vuole porsi, con umiltà, il Premio “Satura – Città di Genova”.Si presentano qui le poesie premiate: una per autore.

Premio di poesia inedita

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Antonio De Marchi-GheriniBATTUTA DI CACCIA

A Como un viso smorto d’acqua stagnantecon lampi d’azzurro negli occhi(qui e a Nizza dicono sia il cielo migliore)cerca qualcosa nelle tasche, frugacome il remo della Lucia tra le acqueriverbera poco distante il duomocon i due Plinii che litigano con i piccioni

In alto lago sparano alle folaghemio padre ha una smorfia sul visomentre spinge la spingarda tra le canneci guardiamo muti mentre albeggiaora i nostri pensieri si leveranno in volo

Crepita il cannoncino ed è il caosa colpi di remi si aprono varchile mani scendono nell’acquaraccolgono occhi stranitiqualche piuma volteggia nell’ariaanche oggi la caccia è stata buona

Portavo pantaloni di fustagno verdee una giacca di vellutocon un discusso stemma d’antico casatoUn tempo (erano gli anni sessanta)anch’io credevo fosse giustocacciare sotto i colonnati del cielocomplici i rudi insegnamentidi una vita che avrebbe dovuto essere dura

Ora che da trentasei anni un improbabile padreriposa (questo è l’eufemismo concesso)frugo fra le sue armerietra gli strumenti di caccia e di pescama poi ritorno alle mie battute preferite

Certo i poeti non sono allegricon le loro querimoniee la poca vita

…Zitto –diceva lui- che spaventi la selvagginami accorgo ora che i pavidi eravamo noiuccidere i pensieri era un’illusionerisorgevano più vivi di primae non aspettavano nemmeno tre giorni.

(1° premio)

An

ton

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ta di caccia

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Loriana CapecchiNARRATE EMOZIONI

“Ho conosciuto un luogo solitariodi crete rotte tra gli ulivi e il mare

dove la terra non teme mostraredelle colline i seni d’ocra al sole

e ombrose querce stendono confinisu fieni arresi al vento dell’estate.

Inganno di nubile pecore bianche posate sul prato.

Oltre fuga di poggiil maestrale

la voce portava odorosa del marealle narici fresche di cavalli

che sciolte hanno criniere nella brezzanei cui occhi pensosi affonda il cielo.”

Questo mi disse il volto di mio padrenelle sere d’inverno al focolare

che la fiamma accendeva di bagliori.

Ed un sorriso ambiguo sulle labbrami parlò di fatiche e di canzoni

bivacchi presso fumi di carbonee stelle sui crinali

una chitarrasenza pretese

forse un po’ stonatatrinciato di tabacco nel taschinoe un organetto più vicino al cuore

per dire malinconica bellezzadi un amore non uso alle parole.

(2° premio)

Lori

ana

Cap

ecch

i Narrate emozioni

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Gianluigi SaccoIL VINO DEL CLANDESTINO

Si spengono le luci delle Festeritornano in soffitta il gregge il Bimbola Madonna e San Giuseppe. Poi smettedi nevicare: chiamano uominia spalare, pulire le contrade.Tu leggi le etichette variopintedi spumanti e del vino più preziosoche qui nell’Oltrepò scorreva a fiumi;vai tra gli smorti lumi di stazionivanamente: per te non c’è presepio.Cerchi un giaciglio al buio d’un lampione;togli poche monete dal marsupio;non ti riscalda il vino che hai compratonella bottiglia fatta di cartonelà tra i bagliori del supermercato.

(3° premio)

Gian

luig

i Sacco Il vin

o del clan

destin

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Maria Luisa GravinaLA VIAGGIATRICE

Terra e terraho calpestatoper acquietare lo sgomentoche al mattino si desta ancor prima di me.

Partire ogni volta percercare una effimera felicitànuovadiversache sappia mitigarequesta assoluta in-consapevolezza.

Indosso il fardellodelle povere coseche come un guanto rivestonolo smarrimento d’esistere.

Sono in viaggio da tempoforse da sempreper cercartiper cercarmiper cercare il sensodi questo mio divenireper cercare pace e riposoil riposo che abbassa gli occhicome saracinesche alla seraquando ormai il tramontoha ritirato ogni coloree la notte sembra tutta uguale.

Terra ed acquacielo e pioggiasulla pelle riarsa.

Ad ogni viaggiosempre più breveil ritornonella piccola casadi libri appilatidi disegni abbozzatidi cose insolutelasciate ad ingannare il tempoil mio tempo.

(4° premio)

Mar

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na La viaggiatrice

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Daniela RaimondiANORESSIA

Sono quella che di notte ha paurache tende l’orecchio e cerca il tuo respiro.Sono quella che più non mangerà se tu non mangi.Che ti lascia da sola e finge di non vederequando rubi il cibo in cucina,o divori di nascosto una coscia d’agnello.

Anni senza gridare.Anni spingendo indietro l’urlo,la tua fame rossa.Ma adesso un boccone può ucciderti, amore.Lo stomaco può lacerarsi sotto il pesodi un piccolo pezzo di pane.

Sono quella che contauna ad una le tue costole, che ti abbraccia, tornata piccolacome quando eri bambina.Sono quella che non si rassegna,che sempre ti chiamamentre tu muori

di nuovoogni mattina.

Esilio dal cibo, orde di soldatiche avanzano verso le tue ossa.Ogni mattina

tu muori:carne senza sudoreil sangue leggero come fiato.La tua pelle cede,svela la luce delle giunture.Ti mangio poco a poco:consumi il tuo ultimo filo di carnepoi il fegato, la milza.Mio fragilissimo giglio,in te tutto è bianco.Bambina senza sessole uova seccate nella pancia,i sogni che non hanno peso.

(5° premio)

Dan

iela Raim

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di Anoressia

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Luciana AmisanoSÌ, SI VOLTÒ

Si voltò a guardare ma poco poco pocoSai, davvero si voltò ma lui era giàoltre di tanto oltre da sentire strazioe rancore e pena ma non tanto da voltarsida voltarsi no Lei capì di non essere amataE nella voragine, nella voragine dell’obliogettò la sua colpa la sua impazienza la suagiovinezza Nessuno di loro ebbe il coraggiodi un ripensamento di un gesto di nullaSolo sofferenza, amore, e sofferenzaEntrambi pativano il disastro del cuore

(6° premio)

Luci

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o Sì, si voltò

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Cheikh Tidiane GayeDIETRO GLI SPECCHI

La vita mi ingaggia sin dalla mia nascitail destino mi inganna, la mia esistenza è come un libro senza scrittipagine vuote e foglie secche e sofferenti, perdute nelle ceneri della viltà.

Solitario, mi tradisce il destino e mi delude ogni fruscio del ventoche porta malincuore e disgraziail sole non ha riscaldato il mio voltola luna non ha santificato le mie preghieresolchi viscerali come occhi senza aliil mio sguardo non brillava, non lisciava, non cantavaera appassito come l’albero morto.

Cercavo nel respiro di marzo, il sorriso della primaveraper cantare e gioire ma la vita mi offriva un altro binario. Mi alzo lentamente e cerco negli angoli remoti un’altra lingua, altri odori e profumi;lentamente esploro altri orizzontisono nato per unire i monti;lentamente mi libero dalle nuvoleho la forza per sollevare il cielo;lentamente profumo ogni mia parola per adibire il mio futuro di tenerezza e di esultanza.Sulle sponde del pensiero pianto i semi fiorirà la flora, il fogliame la mia casa di riposoper scavare nell’intimità delle memorie e colorare il mio cammino.Mordo il sole infine per illuminare la mia sciaaccendo tutte le candele per cercare la fiamma della gioiaattingo dalle righe dei miei occhi per accarezzare i quadri meravigliosi.

Adesso mi giro e davanti allo specchio che mi ingannalancio il mio sorriso per accogliere non più a malincuorela vita che mi ingaggia per combattere fino quando il destino chiuderà per sempre il mio sguardo e spegnerà il battito del mio cuore.Allora si rivestirà di un nome il mio Esseredi un cognome e forse di un indirizzo voglio essere chiamato POETAil fornaio dei V-E-R-S-I.

(7° premio)

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Maria Maddalena De Franchi

“Mirabilmente il tempo si dispiega…”ricondurrà nel tempo questo minimocorso, una donna, un atomo di fuoco:

noi che viviamo senza fine.Biglietto di Natale a M.L.S.

Cristina Campo

UNIVERSO PERFETTO È LA MIA CASA

È stata certo un bozzolo di pupa,piccolo essere che non volle ali,per non dovere partire verso un cielogià presagito colmo di battaglia.Forse fu buen retiro,se l’arredo rimiro nel suo meglio:gli oli sapienti dello zio Tonino,che povero morì, misconosciuto,nella Toscana primo Novecento,la tela impressionista in buono statodella dama coi guanti, in place Pigalle.Il fatto più inaudito, l’altro giorno,fu trovarli a parlare, i cari oggetti:le miniature appese sotto i quadribisbigliavano inquiete tra di loro,dardeggiava la bella del ritrattosegni di ribellione ad una vitamuta e ammuffita (come la sua non fu)la fronte a gronda ed i begli occhi vuoti.C’era aria di fronda, mi pareva.Spalancai comprensiva la finestraper fare spazio al sole e all’aria pura,ma silenzioso quale serpe d’acquascivolò dentro, insieme a loro, il Tempo.Micidiale, il sorriso dell’ospite inattesosi posò su quegli occhi timorosi,che videro svanire in un balenola loro, pur precaria, eternità di cose.Trasalì di dolore, Mademoiselle,ed io con lei.

(8° premio)

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i Universo perfetto è la mia casa

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Mariangela De TogniFU IL NIDO DEL PETTIROSSO

Fu il nido del pettirossoa risvegliare il solesul candore nuzialedegli ulivi infreddolitidal vento che facevafremere l’alba.Il mare tratteneva ombreazzurrinefra bagliori rosaticome nel compiersidi una solenne liturgia.

Questo evento di stuporeche danza nell’anima,è forse il volto di Dio,la sua voce che salva?

Lembi di roccia ametistasussurrano l’attesaall’acero sull’angolodella strada.

In un mormorio di sillabe.

Come una salmodiaimpastata di sale.

(9° premio)

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Fabio DelucchiPORTO ANTICO

1

‘Camminavo per un viale alberato’…

[…]: non so se tu sia stato al PortoAntico, quando al vento impazzisconole vele (su se stesse) come aquilonipresi nel groviglio e il drago trafittoda mille sfere resiste, non le schiva: riposaforse ora dalla continua lotta, come io m’aggirosui miei passi e con lo sguardo fissoal nuovo tempio – totem, polipo bianco d’ossacon le braccia al cielo, anche tu, “fratello!”-miro i riflessi franti nell’acqua scurache ristagna e trema – archi lucenti,preziosi intarsî, lucide effigi, pesci angeliboccheggianti – candidamente

Prego.

Prosegui: oltre la nave ancorata nel cemento,oltre il sentiero acceso e il tintinnare lievedelle balùmine quiete scosse, oltre i pesci in scatolette(d’extra lusso), yachts a cinque stelle e i battellidella domenica a riposo, la chiatta intonala sua musica antica, brividi rugginosie sussurri lievi d’acqua –‘sospiri’- : è qui che attendo(così i gabbiani, sul trespolo, aspettano il ventonuovo, tentano il volo, rallentano) tu discenda,esca, dall’intrico dei budelli sporchi(vecchia Genova!) e posi dov’è il vuotoche –per te-

Preservo.

(10° premio)

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i Porto Antico

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INTERVISTA A ANGELO MUNDULA

A cura di Liliana Porro Andriuoli

Nei tuoi libri di versi si nota sempre la volontà di andare oltre le appa-renze, di ricercare una verità difficile da penetrare, che si nasconde agli occhidella mente: costituisce questo il tema portante della tua poesia?

Penso proprio di sì. Il mio primo libro di versi s’intitola, infatti, (signifi-cativamente, credo) Il colore della verità : ed è questo “colore” che io sono an-dato cercando, nella mia poesia, da quel lontano 1969 fino a oggi, sempre piùsperando che coincidesse infine, con la Verità, che del resto mi portavo den-tro come grazia illuminante anche per i miei versi. Il mio esercizio di poesia èstato, io credo, una sorta di continua, appassionante “lotta con l’angelo” (an-che, sì, con quello che portava il mio nome ed ero io), un esaltante e alla fine,sempre perdente, confronto tra verbo e Verbo.

Che cosa ha significato e significa per te la tua terra di origine, la Sardegna? La Sardegna, peraltro scarsamente evocata nei miei versi, non ha quasi

mai una consistenza reale, semmai mi si rappresenta come un fantasma cheporta in sé tutti i miei sogni e i miei desideri. Del passato e del presente.

Quale valore ha per te il tema del viaggio al quale s’ispirano molte del-le tue poesie più significative?

Quasi tutta la mia poesia si svolge nella dimensione del viaggio, che sicarica ogni volta, come ogni vero viaggio, di nuove emozioni, di esaltanti sco-perte e conoscenze, ma è soprattutto, ogni volta, una sorta di itinerario dellamente verso Dio.

Che valore ha il mare nella tua poesia? E il cantiere di cui sovente parli? Il mare dovrebbe avere (e spero che abbia) nella mia poesia una molti-

tudine di valori, una incalcolabile polisemia, ma per dirla con una sola paro-la, esso rappresenta, prima di tutto, l’immensità in cui, volenti o nolenti, sia-mo immersi da sempre. E il cantiere (rectius : il Cantiere) è, insieme, il luogoreale e simbolico, in cui si è spesa la mia prima giovinezza, il luogo della miaformazione, spirituale e poetica, e perciò una fucina perenne a cui sempre at-tingo per aggiustare meglio l’immagine di me e della mia poesia.

Ti consideri un poeta religioso, dal momento che sovente rivolgi il pen-siero a Dio, anche sotto forma di preghiera?

Penso che ogni poeta sia un poeta “religioso” e, del resto, la poesia è nata,in Italia, con questo stigma. Ciò può dirsi, in senso lato, per tutti. In senso piùristretto e specifico e coerentemente con quanto ti dicevo nella mia prima ri-sposta, io penso che la mia immagine sia andata sempre più (e, spero, meglio)disegnandosi come quella di un poeta cristiano tout court. E, dunque, il miopercorso poetico si presta a diverse chiavi di lettura.

Liliana P

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tervista a Angelo Mundula

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Cos’è per te il Nuraghe? Quale significato ancestrale gli attribuisci? Il nuraghe è la prigione da cui bisogna uscire per incontrare gli altri, l’Al-

tro. Questo il primo significato, simbolico, dell’antichissimo monumento sardo.

Più volte nelle tue poesie compare un animale, il gatto: quale rapportohai con questo felino?

Ho sempre uno sguardo attento verso il mondo animale, verso tutte lecreature che abitano il mondo e mi sforzo, quando capita, di donare un’ani-ma (mi pare si dica così) a tutti gli animali e perfino alle cose.

Come t’inserisci nelle poetiche del Novecento, dal momento che non tipuoi considerare né un ermetico né un neoavanguardista?

Sono un poeta di difficile inserimento in questa o quella poetica. Non per-ché non ne abbia conoscenza ma perché, per mia natura e vocazione, me nesento estraneo, badando solo a coltivare il mio piccolo campicello al di fuoridi mode, correnti e movimenti, in perfetta solitudine, consolandomi al pensie-ro che solo gli isolati parlano, come pensava Montale forse in altro contesto.

Che valore ha avuto per te la nuova metrica del ‘900? Certo un gran valore e te lo dico pensando al modo mio di pormi libe-

ramente davanti al verso che mi nasceva, per dirla col Manzoni, quasi sotto ipiedi, e perciò servendomi, all’occasione, di tutti quegli strumenti e metri chesentivo, ogni volta, adeguati allo scopo, come dire rispondenti alle mie neces-sità interiori. Questa musicalità più libera, diciamo così, mi ha certo consen-tito di farlo, spero, con maggiore efficacia.

Qual è per te la funzione dell’arte? L’arte, a mio sommesso avviso, non ha certo lo scopo di stupire né di me-

ravigliare nessuno né di cambiare la storia del mondo. L’arte ha la funzione direstituire, ogni volta, un’immagine probante dell’uomo o, per essere più pre-ciso, la sua immagine più umana, più degna, cosi migliorando, anche se nonce ne avvedessimo, la qualità della vita.

In una tua poesia intitolata Brechtiana, tu scrivi: “... dentro di me io por-to il vuoto di un’epoca / una grandiosa assenza”: che cosa hai inteso dire conquesti versi?

Il poeta, che ne abbia coscienza o non, canta sempre in coro. E dal coroapprende splendori e miserie dell’uomo. A me pare (è parso quando scrivevoquella poesia: e oggi le vicende che ci toccano sembrano confermarlo) che ilnostro tempo stia mostrando un vuoto (di attese, di valori) che sarebbe diffi-cile negare o nascondere. Viviamo una “grandiosa assenza”: grandiosa, perchériguarda quell’uomo vero, autentico, di cui stiamo perdendo o abbiamo persole tracce e di cui ogni giorno, purtroppo, dobbiamo constatare l’assenza.

E, per concludere, che progetti hai per l’avvenire? Nessun progetto, se non quello di seguire (d’inseguire) nella vita e nel

verso, la verità del cuore e della mente, badando, sempre, più a conoscermi chea farmi conoscere. Del resto la grandezza di una poesia è, per me, strettamen-te legata ai valori umani, morali e cristiani che riesce a trasmettere e che, cer-tamente, ne condizionano la durata, nel tempo e nello spazio.

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Intervista a Angelo Mundula

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PROFILO BIO-BIBLIOGRAFICO

Angelo Mundula è nato a Sassari,dove esercita la professione di avvocato.Ha collaborato con i maggiori quotidia-ni e le più qualificate riviste nazionali e,da vent’anni, continua a collaborare in-tensamente con le pagine letterarie e cul-turali dell’ “Osservatore Romano”. È pre-sente in alcune prestigiose letterature eantologie italiane e straniere come Poe-sia & C. (Zanichelli), Gli anni ottanta e laletteratura (Rizzoli), La poesia religiosaitaliana (Piemme), Storia della civiltà let-teraria italiana (UTET), Storia d’Italia. Leregioni d’Italia dall’unità a oggi (Einaudi),Il pensiero dominante (Garzanti), Lette-ratura e lingue in Sardegna (EDES), Le pro-porzioni poetiche (Laboratorio delle arti),Yale Italian Poetry (Yale University), Re-flexos de poesia contemporanea do Bra-sil Franca Italia e Portugal (UniversitariaEditora, Lisboa), È morto il Novecento? Ri-leggiamo un secolo (Passigli), Le confuse utopie (Sciascia). È stato tradotto in maltese,rumeno, macedone, francese e portoghese. Sue poesie sono state pubblicate su nume-rose riviste, tra le quali: “L’approdo letterario e radiofonico”, “La fiera letteraria”, “Al-tri termini”, “Il lettore di provincia”, “L’Albero”, “Astolfo”, “Il Belpaese”, “Origini”, “Car-te d’Europa”, “La cifra”, “La Corte”, “Galleria”, “Hellas”, “L’immaginazione”, “L’ozio let-terario”, “Pagine”, “Resine”, “Spirali e Spirales”, “Lunarionuovo”, “Nuovo Contrappun-to”, “Satura” e molte altre. Sue liriche sono anche apparse sui quotidiani “Il Giornale”di Montanelli, “Corriere della Sera”, “L’Osservatore Romano” e sui settimanali “Epoca”e “Grazia”. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Il colore della verità (Padova, Rebel-lato, 1969); Un volo di farfalla (Pisa, Giardini, 1973); Dal tempo all’eterno (Firenze, Nuo-vedizioni Vallecchi, 1979); Ma dicendo Fiorenza (Milano, Spirali, 1982); Picasso fortemen-te mi ama (Firenze, Nuovedizioni Vallecchi, 1987); Il vuoto e il desiderio (Catania, Pro-va d’autore, 1990); Per mare (Cittadella di Padova, Amadeus, 1993); La quarta triade (Mi-lano, Spirali, 2000) con Giorgio Bárberi Squarotti e Giuliano Gramigna; Americhe infi-nite (Milano, Spirali, 2001) e Vita del gatto Romeo detto anche Meo (Milano, Spirali, 2005);Il Cantiere e altri luoghi (Sassari, Carlo Delfino Editore, 2006). In prosa ha pubblicato:Tra letteratura e fede (Firenze, Edizioni Feeria, 1998) e L’altra Sardegna (Milano, Spira-li, 2003). Ed è imminente l’uscita, presso le edizioni Feria, di un altro libro intitolato Dia-loghi. Ha vinto il premio Val di Comino, il Circe-Sabaudia e il premio speciale Dessì. Sisono occupati di lui Carlo Betocchi, Giorgio Bárberi Squarotti, Stefano Jacomuzzi, Ma-rio Luzi, Ferruccio Ulivi, Franco Loi, Paolo Ruffilli, Bruno Rombi, Gilberto Finzi, SergioPautasso, Oliver Friggieri, Carmelo Mezzasalma, Paolo Briganti, Vico Faggi, Guido Zava-none e molti altri ancora. Angelo Mundula dedica, ormai da molti anni, una particola-re attenzione alla poesia dialettale. Suoi sono il saggio e le note introduttive ai poeti del-la Sardegna nell’antologia: Dialect poetry of southern Italy uscita a New York a cura delBrooklyn College, in tre lingue (dialetto, italiano, inglese).

Profilo

bio-bibliografico

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VITA E CULTURA NELLA POESIA DI DAVIDE PUCCINI

di Rosa Elisa Giangoia

La recente pubblicazione del nuovo libro di poesie di Davide Puccini Pa-role e musica 1 sollecita a ripercorrere l’itinerario poetico di quest’autore, giun-to ormai alla sua quarta silloge2, per individuarne le tematiche ed il carattere.È un poeta che si è dedicato alla poesia solo negli ultimi dieci anni, intellettual-mente irrobustito da una lunga militanza di studi letterari di carattere stori-co e filologico e da una persistente attività di critico. Gli esordi di Puccini, in-fatti, sono da critico, appassionato lettore in età giovanile di un poeta decisa-mente moderno come Camillo Sbarbaro, a cui dedica la tesi di laurea, pubbli-cata qualche anno dopo3. I suoi interessi rimangono sulla poesia contempora-nea con la collaborazione al volume Poesia italiana del Novecento4 e con il la-voro editoriale su Boine, per andare poi più indietro nel tempo con edizioni estudi su Pulci, Poliziano, Ariosto e Sacchetti, fino all’attuale, in corso di pub-blicazione presso la Casa Editrice Le Lettere di Firenze, su Fucini5.

L’ attività creativa si è fatta spazio a poco a poco tra gli studi filologicie critici con la pubblicazione di liriche su riviste (“Resine”, “Lunarionuovo”, “Nuo-vo Contrappunto”, “Astolfo”), per essere poi raccolte nella prima silloge cheha subito mostrato la maturità espressiva ed il controllo formale di chi si de-dica alla letteratura con competenze storiche, filologiche e critiche.

La prima raccolta, Il lago del cuore, ha un suggestivo titolo dantesco, conriprese montaliane ben presenti al poeta6, che è anche quello della prima se-zione, nella quale il sintagma eponimo ricorre con frequenza ad indicare comele liriche siano l’espressione di quanto di tumultuoso avvenga nell’animo delpoeta e del suo sforzo per coglierlo e comunicarlo: “Ah, poesia, lento tormen-to / quando mi sembra di dire / non ciò che sento nell’arido lago / del cuorema ciò che dovrei sentire / se scrivessi onestamente poesia” . La silloge iniziacon una lirica sul tema del tempo (Tempo), con andamento e cadenze da lita-nia, che fanno ipotizzare un atteggiamento di omaggio a Caproni, in un flui-

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1 LietoColle, Faloppio (Co) 2010.2 Il lago del cuore, Lineacultura 2000; Gente di passaggio, Genesi, Torino 2005 ; Madonne e donne,LietoColle, Faloppio (Co) 2007.3 Lettura di Sbarbaro, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, Firenze1974.4 Garzanti, Milano 1980, in cui si occupa in particolare di Girolamo Comi, Adriano Grande, Anto-nia Pozzi, Adriano Guerrini e Angelo Maria Ripellino.5 G. Boine, Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, Garzanti, Milano 1983; L. Pulci, Morgan-te, Garzanti, Milano 1989; A. Poliziano, Stanze. Orfeo. Rime, Garzanti, Milano 1992; L. Ariosto, Or-lando furioso, Newton & Compton, Roma 1999 (2° ed. 2006); F. Sacchetti, Trecentonovelle, UTET,Torino 2004; Libro delle rime, UTET 2007.6 Inf. I, 20; “Ed ora sono spariti i circoli d’ansia / che discorrevano il lago del cuore…” (E. Montale,Tramontana, 1-2; “Non so come stremata tu resisti /in questo lago /d’indifferenza ch’è il tuo cuo-re… (E. Montale, Dora Markus, I, 22-4).

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re metrico continuo, senza segni di interpunzione, ma scandito dall’anafora TEM-PO, che apre e chiude il testo conferendogli una sua dimensione circolare: “TEM-PO / indocile strumento all’impazienza / che ti sprona ed all’ansia che ti fre-na / […] TEMPO / disperazione gioia vita morte / TEMPO.” Di questo tema ilpoeta si impegna a dare una definizione attraverso folgorazioni liriche che nefanno emergere i molteplici, ma anche contradditori, aspetti, sfruttando am-piamente le potenzialità ossimoriche del lessico. Il tema del tempo si riverbe-ra anche nelle liriche successive della raccolta, attraverso tre figure femmini-li, la madre e due donne, che scandiscono e contraddistinguono il tempo esi-stenziale del poeta, attraverso momenti di passaggio tra fasi successive, cia-scuna delle quali costituisce un’occasione di crescita umana e di arricchimen-to sul piano delle emozioni e degli affetti, pur tra esperienze diverse, gioiosee dolorose.

Alla figura della madre è dedicata la lirica Ada, in cui il poeta rivede i suoirapporti con lei fin dall’infanzia, con qualche rimorso e qualche dubbio su cer-ti suoi comportamenti, ne tratteggia con riconoscenza le abitudini di vita e so-prattutto la ritrae nel momento della morte, in cui le incombenze esequiali siconfigurano quasi come profanazioni ai suoi occhi. Accanto alla madre si puòcollocare la figura di Zio Cecco, “fratello di mia madre”, dice il poeta, ricordan-do che amava “l’arte, / soprattutto l’arte difficile della parola”. Questo com-ponimento è in qualche modo un epicedio, con una nota di amaro realismo,in quanto il poeta trova consolazione nel fatto che il congiunto sia morto lon-tano da casa, quando anch’egli era distante, per cui la lontananza lo “tolse dal-la solita incombenza / di come dimostrare il mio dolore”. Il senso del tempoè dato dal fluire stesso della vita, soprattutto per quanto le vicende che la con-traddistinguono lasciano nel lago del cuore dell’autore, lungo naturali percor-si esistenziali che vanno per ognuno dalla nascita alla morte.

Nella prima sezione il poeta analizza i suoi sentimenti, soprattutto alla lucedel rapporto con la donna amata, a cui dice: “Mi chiedi di parlarti, di svelarti / illago misterioso del mio cuore, / quello che lo attraversa e mi arrovella”. Per il poe-ta quest’indagine e questa manifestazione non sono facili, soprattutto non sonoabituali, ma la donna glielo impone (“Ed ecco tu dirocchi con un soffio / il castel-lo di carta edificato in tanti anni”), ed anche se il poeta confessa di essere sem-pre stato “molto misurato / nel campo degli affetti”, deve scandagliare il suo ani-mo per dare una risposta ad interrogativi pressanti, come “Sei felice?”e “Mi vuoibene”. Ecco che allora la poesia diventa occasione di indagine della sfera emoti-va e la parola poetica si fa strumento di rivelazione e di comunicazione del mon-do degli affetti. Purtroppo il tempo della felicità è sempre troppo breve, si stabi-liscono altri legami affettivi, ma anche questi si spezzano per la malattia e la mor-te della donna amata, per cui non restano che i Ricordi ai quali è dedicata la se-conda sezione. I ricordi non bastano e sono anche dolorosi: “Mi aggrappo al tuoricordo, ma la presa / è fitta lancinante” (Frammenti). La dominante tematica esi-stenziale ci presenta quindi in questa sezione un uomo alla ricerca di equilibri per-duti e di nuove certezze, soprattutto nella prospettiva del limite ontologico del-l’esistenza, la morte, la quale viene progressivamente acquisita dall’autore, attra-verso un itinerario intellettuale, come un ritorno ad una nuova forma di vita, comebene indica il titolo della III sezione, ancora una volta dantesco, La vita nuova. Ilpoeta accetta di avere “un atteggiamento / di disponibile apertura verso la vita”,che lo può portare alla “lenta costruzione della vita / nuova” o a condividere “al-

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l’improvviso un’altra nuova vita”. Lo stato d’animo è di apertura, di disponibili-tà, anche se “Il peso della vita può diventare a volte / insopportabile” ed il poetavuole “l’impossibile: la vita / è già di per sé stessa cambiamento”. Sono liriche diintensa riflessione sull’esistenza di ognuno, che portano ad una saggezza che safar accettare la vita e la morte, perché “È dalla vita che occorre imparare / a sop-portare la vita”.

Questa prima silloge di Puccini presenta indubbiamente un autore che esor-disce con notevole maturità letteraria, sicurezza di mezzi espressivi ed autono-ma autenticità di voce lirica. Il verso è sostanzialmente quello classico, per cuiil poeta, pur operando con intensa ricercatezza espressiva, soprattutto in ordi-ne alle figure, si pone su un piano di immediatezza e di comunicazione che lotengono lontano dagli sperimentalismi e dagli innamoramenti verbali, che agliinizi del nuovo millennio sembrano ormai aver concluso la loro esperienza.

Anche nella seconda raccolta Gente di passaggio permane la chiarezzadel dettato, che si mantiene limpidamente comunicativo. La presenza frequen-te dell’enjambement conferisce al testo una fluidità musicale, con cadenze rit-miche date dall’uso misurato di rime, interne ed esterne, e specie nelle chiu-se, di assonanze e allitterazioni. È una silloge dall’impianto cabalistico [3 se-zioni, 21 (3x7) le poesie per ogni sezione, 63 (6+3=9) l’insieme delle composi-zioni], cosa che, analizzata l’intera opera, si scopre avere un suo significato.La prima sezione, quella eponima, metafora della brevità della nostra vita sul-la terra, che si divide in due sottosezioni, Nonni e Germinale, ha come temadominante la riflessione sulla morte. La seconda sezione Fra terra e mare si in-centra sulla sempre viva meraviglia del poeta di fronte agli spettacoli che il mon-do con le sue molteplici manifestazioni sa offrirci. Questa nuova silloge, con-traddistinta ancora dalla percezione del tempo, ma sostenuta da un tenace at-taccamento alla vita, nonostante le ferite che la quotidianità infligge, si con-centra sul tema degli affetti familiari, colti soprattutto nei momenti dolorosidelle perdite, che nell’esperienza personale del poeta sono quelle dei quattrononni, a ciascuno dei quali è dedicata una lirica che ne puntualizza le caratte-ristiche più tipiche, e del padre, la cui figura è dominante, tratteggiata in quat-tro liriche con affettuosa sobrietà e con lievi tocchi di ironia che tengono a badala commozione, pur lasciando trasparire la sofferenza del distacco e il rimpian-to. Parallelamente alle vicende legate alle persone care avviene per il poeta ilsuo individuale processo di recupero della fede, che lo porta a guardare le vi-cende dolorose con un occhio capace di porle in una luce nuova e di coglier-ne ed esprimerne gli elementi simbolici per inserirli in una generale interpre-tazione esistenziale. La conversione lo induce a considerare in modo diversosoprattutto la morte, che è sì ancora percepita come termine della vicenda esi-stenziale, ma anche, e soprattutto, come inizio di una vita non solo nuova, mavera. Questo naturalmente porta l’autore a vivere la perdita delle persone carecon grande sofferenza, ma pur sempre alonata da quella serenità che derivadalla consapevolezza e dalla fiducia.

In questa seconda raccolta si evidenzia in forma più chiara e compiuta l’espres-sione poetica di Puccini che presenta un approccio piano con il lettore, senza peròmai cadere nella piattezza o nella banalità, mantenendo un tono colloquiale, macon improvvise accensioni liriche che nascono anche dall’attrito di materiali lin-guistici di estrazione molto diversa. Così nella poesia eponima in cui un avvio vo-lutamente sotto tono e linguisticamente dimesso prepara il tono alto del finale:

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“[…] la caduta / dell’illusione che le cose siano /indifferenti al tempo ci ricorda/ la nostra condizione / di gente di passaggio”, di forte intensità lirica. E qui pos-siamo ritornare sulla struttura cabalistica, a cui avevamo accennato prima, per de-sumere che il poeta individua nell’esistenza degli uomini, scandita dal tempo, nonun evolversi casuale di eventi, ma qualche cosa di preorganizzato, secondo un di-segno che dobbiamo sforzarci almeno di intuire. L’osservazione del poeta nellaseconda sezione si allarga sul mondo e qui egli può mettere a frutto tutte le suecapacità di poeta visivo per cogliere con immediatezza e stupore le immagini chepuò osservare in angoli diversi del mondo, da quelli a lui abituali del mar Tirre-no con le sue isole, protagonisti delle sezioni Arcipelago e Scogli, a quelli dei po-sti lontani a cui l’hanno portato i suoi viaggi, nella sezione In viaggio. L’atteggia-mento del poeta è quello di osservare, ma anche di meditare e soprattutto di tro-vare le parole efficaci per esprimere la sua costante meraviglia per ciò che lo cir-conda, in una sorta di primordiale sfida a nominare le cose del mondo degne diattenzione e di ammirazione. Di particolare interesse è la terza sezione di que-sto libro, che, con memoria classica, si intitola Aesopica ed è riservata alle crea-ture animali: nella Dichiarazione iniziale amore e crudeltà si intrecciano in stret-ta convivenza, anche se si tratta di forme di crudeltà non gratuita, ma concreta-mente e dolorosamente sofferta. In tutta la serie delle altre venti poesie passa da-vanti ai nostri occhi una teoria di creature vive e teneramente osservate e spes-so, esse stesse, capaci di riemergere dalla memoria della fanciullezza del poeta,con le sue esperienze di innocente crudeltà (La lucertola) o di provvido amore (Bec-chino rotto).

Diverse, in quanto intellettuali e culturali, sono le motivazioni che ispi-rano la terza silloge di Puccini, che trova qui una riconferma e una piena rea-lizzazione del carattere visivo della sua poesia. Madonne e donne sembra natada uno ζη∼λος tra poesia e pittura, all’insegna di quella concezione oraziana del-l’ut pictura poësis, ma si configura soprattutto come evasione in quel mondodi assoluta bellezza che solo l’arte sa offrire. Anche questo volumetto ha unimpianto architettonico che ci riporta ad un gioco cabalistico, essendo compo-sto da 63 poesie, divise in tre sezioni (Madonne – Donne – Donne e Madonne)di 21 testi ciascuna. È un libro molto elegante anche nella sua veste grafica, giàdalla splendida immagine in copertina: il volto di Giovanna Tornabuoni, ma-gistralmente dipinto da Domenico Ghirlandaio. Secondo il più raffinato gustodel rinascimento fiorentino, la donna eretta ed assorta nella sua nobiltà alte-ra, è ritratta di profilo con il suo abito prezioso del tutto in sintonia con il ran-go, il prestigio e la personale bellezza. È un’immagine che ci guida e ci intro-duce nel carattere del libro, tutto all’insegna del fascino della bellezza e del-la capacità di fruirne e di esprimerla con le parole. Le poesie nascono da oc-casioni diverse, in primo luogo da emozioni vissute in momenti differenti chetrovano nell’espressione lirica la loro forma compiuta e soddisfacente. È innan-zitutto il fascino della Madonna del parto di Piero della Francesca, ammirataa Monterchi (come ha rivelato l’autore in un’intervista), ad aprire la strada perrecuperare il ricordo di altri quadri visti in tanti musei in giro per il mondo oincontrati riprodotti in testi.

La grazia e il mistero soffusi in quest’intensa rappresentazione impon-gono al poeta un atteggiamento di lontananza e di discrezione: “Accarezzi contocco delicato, / quasi incredula, il frutto del tuo ventre / ormai palese, assor-ta in un destino / che t’ha innalzata fino al cielo viva.”

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Accanto alle Madonne più celebri della tradizione artistica europea, talvol-ta anche l’immagine della donna diventa di rilievo sia pittorico che letterario, comeè il caso di Simonetta Cattaneo Vespucci, amata dal Poliziano e cantata in quei ver-si con cui Puccini aveva acquisito consuetudine letteraria attraverso i suoi studi,e magistralmente ritratta da Piero di Cosimo, con un volto enigmatico e un’espres-sione sospesa tra l’angelico e il carnale: “Simonetta in figura di Cleopatra, / l’aspi-de ti minaccia attorcigliato / al monile, monile anch’esso, troppo / vicino all’indi-feso seno nudo /(...)/ la tua pura bellezza scandalosa / (...) / ti dona lo scudo / diuna gloria infinita”. Proprio in questa “gloria infinita” anche lei ora mira “oltre lavita”, come Giovanna Tornabuoni che “guarda lontano ormai non più presente”:oltre la vita, ma eterne nel fascino dell’arte, in quell’immortalità laica che solo lapoesia e la pittura sanno dare. Accanto, molte donne la cui vita è solo quella del-la luce e dei colori che i pittori hanno saputo dare loro, come le quattro figure fem-minili ritratte da Vermeer. L’atteggiamento del poeta è soprattutto quello di affer-rarne il mistero, di catturare lo sguardo, di individuare un particolare per coglie-re, a livello psicologico e di destino, molto di più di quanto l’immagine rappresen-ta. Questa chiave di lettura trova naturalmente il suo momento più intenso nelladonna misteriosa per eccellenza della pittura di tutti i tempi, La Gioconda, il cui“ambiguo sorriso” è “maschera” che “copre un sentimento / che sulla scena ame-na ma nebbiosa / dietro l’oscura gonna / comincia a somigliare alla paura”. Il mi-stero rimane serrato, anche perché la donna è “costretta in una posa / a un’immo-bilità che la snatura, / a rinunciare alla mutevolezza / del suo cuore di donna”. Ac-canto a lei, tante altre donne il cui mistero non si disvela e proprio per questo sem-pre più affascinanti: La Fornarina e La muta di Raffaello, Le cortigiane del Carpac-cio, Laura e La vecchia del Giorgione, La madre laboriosa di Chardin e La Marche-sa di Nétumières di Liotard. Sono donne reali, colte nelle sfaccettature delle lorocondizioni individuali, che vanno dalla ammiccante sensualità della fanciulla, allasolennità composta della sposa illustre, all’allegra malizia della popolana che stasbrigando le sue faccende quotidiane. Per ognuna il poeta trova un tono espressi-vo adatto nei suoi versi, ma forse l’esempio più mirabile di questa consonanza trapittura e poesia viene raggiunto con i Coniugi Arnolfini di Van Dyck. La poesia siappropria dell’attento e realistico miniaturismo tipico della pittura fiamminga perrealizzare una minuziosa descrizione degli elementi di valore simbolico: l’ampioabito della donna, le mani congiunte, il cagnolino, gli zoccoli, la frutta, la candelaaccesa, fino al concentrarsi di tutta l’attenzione sullo specchio convesso, in cui siriflette la coppia di spalle, insieme a due altri personaggi, uno dei quali probabil-mente è il pittore: “Non potevi davvero immaginare / che a renderti immortale /fosse un salto mortale del pittore / che nel convesso specchio alle tue spalle, / nonsoddisfatto di raffigurare / con precisione nei piccoli tondi / della cornice scene/ della passione che recano al vertice / una crocifissione, / vi ha preso per didie-tro / con la finestra e il letto a baldacchino / aggiungendo se stesso e un testimo-ne”, con forti sottolineature dei particolari date dal rincorrersi di rime e assonan-ze. Dalle multiformi e variegate figure delle donne, alla sublimazione nel model-lo di virtù della Madonna, unica, ma sempre diversa nelle raffigurazioni pittoriche.Le immagini delle Madonne seguono, in un certo qual modo narrativo gli eventi del-la vita della Vergine e nello stesso tempo accompagnano l’itinerario di riconqui-sta della fede da parte del poeta per cui, iniziando da raffigurazioni della Madon-na più terrestri ed umane si arriva a rappresentazioni in cui l’elemento del divinoè più sottolineato. Emblematica è l’ Annunciata di Antonello da Messina, in cui il

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gesto della Madonna, forzatamente interpretato come un saluto (pur nella consa-pevolezza che si tratti della conturbatio di Maria), conferisce all’immagine un ca-rattere ancora terreno, mentre l’Annunciazione di Lotto è una figura guardata conl’ammirazione che deriva dalla fede, con l’attenzione posta tutta sulle mani dellaVergine, incerte tra il respingere l’annuncio e l’”unirsi in preghiera” per dire il suo“così sia”. Le raffigurazioni più intense sono quelle della Pietà, fra le quali spiccail Compianto su Cristo Morto del Perugino, tutto incentrato sullo strazio dell’ani-mo di Maria: “Spicca tragico il volto tuo velato: / la bocca aperta emette / un la-mento infinito silenzioso, / scende dagli occhi una pesante lacrima / che dice il tuoumanissimo tormento”. Accanto all’eccezionalità della figura della Madonna, si col-gono anche aspetti della sua realtà terrestre di donna vista nella quotidianità del-la sua pur straordinaria esistenza. Così la sua bellezza, anche pienamente terre-na, è colta nella Sacra Famiglia con Sant’Anna di El Greco: “I tuoi occhi grandi conle ciglia lunghe. / il perfettissimo ovale del volto / con il mento appuntito, / la boc-cuccia vezzosa / fanno pensare più che alla madonna / ad una nobildonna” e an-cor più realistica l’immagine che viene fissata con le parole nella Madonna con Bam-bino di Dürer: “I riccioli che sfuggono dal velo / un po’ a sghimbescio dicono / chel’affanno di madre / non ha perduto il fascino di donna”. Quello che si coglie, indefinitiva, attraverso la trascrizione poetica di ciò che queste immagini pittoriche,tutte di altissimo livello, suscitano è un senso di conquista della bellezza e dellafede, grazie anche all’effetto ottenuto tramite l’uso di versi della nostra tradizio-ne letteraria, gli endecasillabi e i settenari, e della rima in clausola, che ben sannoritmare un percorso dialettico che corrisponde a quello reale che il poeta ha com-piuto verso l’acquisizione della fede, forse aiutato anche dal soffermare i suoi oc-chi sulla bellezza artistica.

La recente nuova silloge Parole e musicaallarga l’orizzonte dei rapporti del-la poesia dalla pittura alla musica, in una sorta di trilogia in cui si evidenziano leconvergenze e le divergenze espressive delle tre arti, anche qui aiutati dalle splen-dide riproduzioni di dipinti, in questo caso legati alla figura e alla vita di Mozart.Anche questa silloge è divisa in tre sezioni (La poesia e i poeti – Parole e musica– Variazioni canoniche) ed è anch’essa sostenuta da un retroterra di forte spes-sore intellettuale e di sicura sensibilità estetica. Pure in questo caso l’architettu-ra del testo ha un significato: la prima sezione ha 33 poesie e in totale i testi sono99. La prima sezione (La poesia e i poeti) rappresenta l’impegno dell’autore ad espri-mere la quidditas della poesia e a cogliere le vie della creatività sue e dei poeti ingenere. È un tema che ha sempre appassionato i poeti, su cui la rivista “Poesia”ci ha offerto un’ampia e interessante panoramica per festeggiare i suoi vent’an-ni (n.° 223) e a cui dedica un recente libro anche un critico raffinato ed un poetadi valore come Giovanni Casoli7. Nella prima lirica Il poeta, Puccini esordisce di-cendo “chiude come un’ostrica qualcosa / di prezioso cresciuto a poco a poco, /che ha coltivato a lungo con amore / e cerca di proteggere / sotto un’ostica scor-za / ma nella polpa tenera, / qualcosa di perfetto e di lucente / che un tempo haprovocato una ferita / dolente quanto un’offesa o una colpa / prima d’esser smus-sato o arrotondato”. Da questi versi emerge subito la concezione della poesia comequalcosa di difficile realizzazione, lacerante per l’animo del poeta, tendente a rag-giungere livelli altissimi di bellezza, prossimi alla perfezione. Questo porta l’au-

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7 Sul fondamento poetico del mondo, L’ora d’oro, Poschiavo (CH) 2010.

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tore alla solitudine che gli deriva dalla vicinanza di “Muti compagni pieni di pa-role”, una solitudine “che ha scelto eppure pesa”, che lo differenzia dagli altri uo-mini (“mentre fuori / non si smorza il clamore / di un carnevale ormai senza qua-resima”). Soprattutto la poesia non è qualcosa di materiale (“il candido pallore d’unaperla) e neppure di acquisito una volta per sempre: “Non è bottino che si tengain pugno, / la poesia: viene quando vuole, / quando vuole va via con la sua gra-zia”. Il tema della fatica, della sofferenza nel creare poesia viene approfondito nel-la lirica successiva: “Le poesie più belle / sono delle profonde cicatrici / di cui unfanciullo grandicello / ma ancora birichino / e tanto bricconcello da cercare / lebugie di faconde meretrici / vuole dire la storia meritoria / per coprirsi di gloria”.Ma, ad alleggerire il tono, è il registro scherzoso sottolineato dal rincorrersi di rime,allitterazioni e assonanze, che trovano la possibilità di dipanarsi dal sostantivo“fanciullino”, che viene così a prendere le distanze da quello del Pascoli per il tonopiù leggero e smaliziato. L’elemento fanciullesco permane nella lirica successiva(“Il poeta distilla / in sillabari molto ricercati) in cui il vocabolo “sillabari” ci fa ca-pire la semplice autenticità originaria della parola poetica, capace però di svela-re “il retroscena / della parola a tutti sconosciuta” per comunicare qualcosa di il-luminante (“una favilla”) e di seducente (“un canto di sirena”), anche se solo mo-mentaneo e purtroppo ambiguo. Sul carattere di mistero della parola poetica sisofferma anche la lirica La resistenza della poesia, che ne individua l’essenza nel-lo scarto rispetto al linguaggio quotidiano da perseguire con abbandono e fidu-cia (“come un fedele davanti all’altare”). Il poeta ha chiara coscienza che l’elemen-to costitutivo della poesia, quello che la differenzia dall’oratoria, è la parola, incui determinante diventa l’imperativo catoniano rovesciato (verba tene): a guida-re il poeta è la parola che lo porta a schiudere nuove porte del sapere, ad inda-gare catene di misteri senza fine. “La poesia è fatta di parole”, dice Puccini e que-sta sembra un’affermazione scontata, ma nella lirica che così inizia il poeta evi-denzia soprattutto la funzione fonica delle parole, grazie ad una tramatura deltesto in cui si susseguono rime e assonanze, nella serie “udite /smarrite / ami-che / editrice / fatiche” e in quella più compatta “lemma / dilemma / stratagem-ma / flemma”. Il dilemma del poeta riguarda soprattutto il rapporto con la veri-tà, in quanto, a suo giudizio, “La poesia è l’arte / di dire verità / mentendo, di men-tire / dicendo verità”. Questa è la realtà, perché “La poesia è l’arte dell’obliquo /che denuncia e non dice”, per cui, in conclusione, in una sorta di breve congedo,il poeta si rivolge alle “Rime esitanti” con un’esortazione. “”puntellate / l’insicu-rezza che inchiostra il sublime”. È questa una quartina, presa in prestito dal Con-gedo del Lago del cuore, in cui si crea un interessante rincorrersi fonico, in quan-to tutte le parole sono in rima.

La seconda sezione Parole e musica è scopertamente all’insegna di Mozart,quasi che la musica di quest’autore fosse l’unica veramente degna di questo nome,come si evince anche dalla citazione di Kierkegaard in esergo (“Fonderò una set-ta che non solo ponga Mozart in alto, ma non conosca altri che Mozart…”). Seguo-no 23 liriche, ciascuna delle quali ha per titolo un componimento mozartiano, sucui il poeta, con arguzia e finezza, fa considerazioni diverse, in relazione all’occa-sione della creazione, al carattere e all’andamento musicale, alla ricezione da par-te del pubblico, alle sue personali preferenze. La sezione successiva, la terza, Va-riazioni canoniche, si apre con la sottosezioneGabbiano controvento, in cui domi-nante è il desiderio del poeta di identificarsi in questo volatile, forte e robusto. “Aves-si anch’io i tuoi occhi d’acciaio, / la tua sicura forza contro il vento / di tempesta

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Vita e cultura nella poesia di Davide Puccini

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che irrompe ma non straccia / l’esile eppure resistente velo / dell’immobilità traacqua e cielo”. Il poeta lo ammira nella sua dimensione naturale, tra acque e aria,in quel saper andare controvento: “Controvento è l’essenza del gabbiano”, che glifa esclamare: “potessi anch’io così fermare il tempo / come fai di te stesso contro-vento”. Di questo “funambolo del cielo”, di questo “Aquilone piumato” “rimane soloil sentimento /di un passaggio che non è stato invano”. Naturalmente il gabbianocon la sua capacità di andare controvento è metafora, o potremmo dire meglio cor-relativo-oggettivo del poeta, ma anche del musicista, come Mozart, spinti entram-bi dal desiderio di andare contro il flusso della banalità dell’esprimersi umano conla forza illuminante delle parole poetiche e delle note musicali.

Nella sottosezione successiva, Per W.A. Mozart, protagonista torna ad esse-re il musicista salisburghese, di cui attraverso 19 componimenti il poeta tratteggiala figura (“Un bimbo rotondetto / in abito di gala color lilla, /con panciotto alla modadello stesso / colore, giacca e giubbetto con larghe / bordature dorate”), accennaagli episodi salienti della vita (“Troppe volte lo spettro pauroso / della miseria qua-si indecorosa / s’è affacciato per essere puro caso”) e agli aspetti particolari del ca-rattere e della personalità (“Marito affettuoso o libertino, /sposo fedele e onesto odongiovanni, /amante fortunato per gli inganni / di provato mestiere / o irriso dal-le donne”), con riferimenti anche ai personaggi della famiglia, come il padre (“Ed ilpadre (caro amico, / nemico del tuo cuore) / avrà capito chi veramente eri […]?”) ela moglie (“La tua Costanza sfugge alla nozione / un po’ maschile di buona consor-te”). Viene così a delinearsi un affresco garbato, ma anche ironico, sospeso sui gran-di interrogativi esistenziali, della vita, sempre un po’ sfuggente e misteriosa di que-sto genio straordinario della musica, che ci sovrasta “da altezze irraggiungibili”, la-sciandoci sempre sconcertati per la perdurante “allegria / scomposta e birichina del-l’infanzia” che l’ha accompagnato per tutta la vita.

Nell’ultima sottosezione, Variazioni canoniche, i due fili che il poeta ave-va dipanato, quello della figura di Mozart e quello del gabbiano controvento, siintrecciano in un contrappunto tematico e lessicale di rispondenze che illumina-no vicendevolmente le due figure, per dare un’unica immagine di forza, di poten-za creativa, di esemplarità in ambito naturale ed artistico, fino all’acuto finale, gri-do e suono, rappresentato da Stretto, costituito da un centone di autocitazioni abil-mente combinate.

Questa nuova, ultima silloge di Davide Puccini, tutta giocata sulle risorseculturali e tecniche dell’autore, capaci di generare una poesia descrittiva, ma leg-gera ed armoniosa, venata di sottili interrogativi esistenziali, è anche uno studiosulla rima, insistita fino all’eccesso, bilanciata tra esterna e interna e non raramen-te ripresa in testi vicini come richiamo fonico avvertibile a una lettura (e soprat-tutto a un ascolto) senza interruzione. È soprattutto uno studio nel senso preci-samente musicale del vocabolo, in quanto l’esercizio volto a superare le difficol-tà tecniche tende a raggiungere un autonomo valore espressivo.

A questo punto della sua produzione poetica, Puccini appare come unautore dalla voce sicura, limpida e comunicativa, pur nell’originalità delle scel-te e dei percorsi espressivi, capace di recuperare con intelligenza e gusto il me-glio della nostra ricchissima tradizione artistica, per andare oltre, per dar vitaad una poesia nuova in cui i sentimenti si sostanziano di riflessioni esisten-ziali e ciò che è più amato del proprio personale bagaglio culturale non vienesolo presentato e descritto, ma analizzato con tensione emotiva e sforzo perindividuare risposte agli eterni interrogativi dell’uomo.

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LA VOLPONA

di Guido Zavanone

Riassunto delle puntate precedenti (1)

Maria, detta la Volpona, è un’anziana e ricca vedova che vive nel culto del dena-

ro. Ha una piccola corte o “squadra”: una lontana parente che le tiene compagnia

per buona parte dell’anno, due domestiche ad ore, un’infermiera, un’insegnante

cinese di yoga. Tutte l’accudiscono quasi gratuitamente, essendo state designa-

te quali eredi in un testamento che la Volpona ha mostrato loro ad arte, minac-

ciando poi continuamente di modificarne o revocarne le disposizioni. Vivono così

sotto ricatto, ma a sua volta Maria è succuba di una santona, Gianna, che le assi-

cura, sotto la sua guida, una posizione di privilegio anche nell’Aldilà.

La Volpona è tutta tesa ad accrescere il suo patrimonio e, con ingegnosi quanto

spregiudicati artifici, acquista a prezzo irrisorio un grande appartamento di pro-

prietà della Parrocchia per poi destinarlo a Casa di riposo, che gestisce senza scru-

poli, ricavandone ottimi guadagni.

Maria ha un solo cruccio: una notte, è stata derubata dei suoi quadri ad ope-

ra d’ignoti introdottisi nella sua abitazione, forse – sospetta- agevolati da qual-

cuna delle persone che la circondano.

La Casa San Pio, che ospita una ventina di anziani, viene visitata da Gianna, la

quale prodiga a Maria utili consigli, come quello di adornare la cappelletta in-

terna alla Casa con un grande quadro raffigurante la Madonna di Medjugorie

in una delle sue miracolose apparizioni. Ma è proprio tale suggerimento a tra-

dire Gianna, che non ha mai avuto modo di vedere questo quadro presso Ma-

ria e deve confessare che sono stati i suoi figli, carpendole le chiavi dell’appar-

tamento affidatele dall’amica, a compiere il furto.

(1) apparse sui numeri 5, 7, 9, 10 e 11 di questa rivista.

Pur tra le consolazioni che le procurava la Casa San Pio (la Casa e SanPio, soleva dire), Maria non aveva completamente superato il turbamento perquello che lei riteneva il tradimento di Gianna, rea di non aver imposto ai fi-gli di restituirle la refurtiva (che lei poi aveva dovuto “riscattare” presso i ri-cettatori) e di averle per tanto tempo taciuto la verità.

Il primo pensiero era stato quello di cancellarla dalla propria esistenzae visione, così come, secondo i teologi, fa Dio nei confronti dei reprobi.

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Ma se l’affetto per Gianna era ormai svanito (e la punizione sarebbe co-munque avvenuta per via testamentaria) sopravvivevano in Maria alcune con-siderazioni di ordine utilitaristico.

È vero che per la Volpona amicizia ed interesse erano indissolubilmen-te uniti, ma solo nel senso che la prima non poteva sussistere senza il secon-do, mentre non valeva la proposizione reciproca. Per dirla nel linguaggio deifilosofi, in questa unione l’interesse era “la sostanza”, l’amicizia “l’accidente”non indispensabile.

E Maria rifletteva appunto su alcune utilità che avrebbe perduto se aves-se rotto i rapporti con Gianna. Una di queste era l’uso di internet, che Gianna,a differenza di Maria, padroneggiava ricavandone utili notizie che riversava poisull’amica per le sue varie attività economiche e finanziarie.

Non era poi facile per Maria rinunciare agl’insegnamenti religiosi di Gian-na, ancorché non suscitassero più in lei l’incondizionata adesione di un tem-po, quando, per la grande fiducia nell’amica, costituivano promessa e garan-zia di un felice approdo nell’Oltre.

C’era poi una preoccupazione più frivola: l’interruzione delle conversa-zioni telefoniche tra le due donne non sarebbe passata inosservata e avrebbefatto gongolare la sua “squadra”, che tali conversazioni odiava e, quando po-teva, ostacolava. Sarebbe stata la prova che la tanto accorta Volpona aveva malriposto la sua predilezione per Gianna.

Maria decise quindi di chiamare al telefono l’amica fedifraga e le disseche, pur profondamente delusa e amareggiata, desiderava che il loro rappor-to continuasse per quei principi morali e religiosi che le univano.

Gianna ne fu felice, convinta di essere scampata al naufragio delle suenon disinteressate aspettative. Lodò la nobiltà d’animo di Maria, che aveva sa-puto comprendere e perdonare, ed inneggiò ad un’amicizia che sarebbe statapiù forte dopo la burrasca attraversata.

Ma ora Maria sentiva, non senza un inconfessato compiacimento, che traloro i rapporti di forza erano profondamente mutati, ed era lei a tenere in pu-gno l’amica per le malefatte dei figli.

Ricucito – in ciò che le interessava – lo strappo, restava in Maria una sor-ta di scombussolamento per quanto avvenuto, un disagio nell’adattarsi alla ve-rità quale si era all’improvviso rivelata, la sensazione di annaspare cercandoqualcosa cui aggrapparsi.

Dimenticare, intanto. Maria era consumatrice assidua di romanzi rosa alieto fine (pagare per piangere – diceva – è stupido) e aveva bene in mente ilrimedio, scelto dalle sue eroine, per le delusioni d’amore: un viaggio.

Ma non già in Paesi lontani, ormai falsamente esotici e sicuramente co-stosi, quanto piuttosto alle sue radici. Quale svago migliore che ritornare nelproprio paese, adorna dei suoi successi e della sua ricchezza. L’avrebbe accom-pagnata il suo figlioccio Carlo, che un po’ di vacanza se la meritava. Il malca-pitato aveva detto di sì, mascherando abilmente il disappunto per un viaggioche si profilava privo, per lui, di ogni attrattiva. Sebbene, a ripensarci, potevaessere l’occasione buona per conoscere altri possedimenti della madrina, che,nel suo paese, aveva ancora numerosi terreni agricoli.

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Partirono dunque insieme, lei e Carlo, “la strana coppia” l’aveva battez-zata la domestica Elisabetta, e presero alloggio nell’unico albergo del paese, pococonfortevole ma, almeno, poco costoso.

I cugini erano stati avvisati per tempo ed erano lì, tutti e tre, ad atten-derla nella hall – denominazione un poco pomposa – dell’albergo.

Avevano letto su internet la pubblicità relativa alla Casa di riposo San Pio,e ammirato il sontuoso palazzo nel cui attico era sistemata. Avevano visto “lasfilata” delle camere, con i vispi vecchietti sorridenti, e la cappelletta dedica-ta al Santo, dove idealmente si erano raccolti in preghiera, chiedendo la gra-zia di non essere trascurati dalla ricca parente. I cui terreni erano di partico-lare pregio e, per di più, confinanti con quelli dei cugini. Quanto ai beni “cit-tadini”, le speranze erano poche, ma un pensiero lo si poteva sempre fare.

Quando Maria discese dalla bella automobile guidata da Carlo, i cuginile andarono incontro, caninamente festosi.

Facevano a gara a complimentarla per il suo aspetto: “Non sei cambia-ta per nulla dall’ultima volta” e, in un crescendo affettuoso: “Sembri ringiova-nita” assicuravano.

Maria non se la sentiva di contraccambiare i complimenti. Guardava i voltiinvecchiati dei cugini, i loro corpi flaccidi e, in cuor suo, provava un sottile piacere.

“Ma perché in albergo?” chiese, con voce di dolce rimprovero, il cuginoGiacomo. “Saremmo stati felici di ospitarti” completarono gli altri. “Il paese pen-serà che non ti vogliamo bene” aggiunsero accorati.

Erano sinceri. Questo alloggiare all’albergo non era buon segno.Intanto osservavano sottecchi Carlo, elegante nel suo Principe di Galles.

Un parente non poteva essere, un autista neppure. Di fronte a loro era un sog-getto misterioso e inquietante. Maria lo aveva presentato per nome, senza pre-cisare chi fosse per lei. Un amante sembrava poco verosimile, in quanto l’uo-mo appariva giovane, non dimostrava più di quarant’anni. Al colmo delle con-getture, Maria spiegò che Carlo era suo figlioccio e un prezioso collaboratore,ciò che accrebbe le loro apprensioni.

Non fu possibile per Maria sottrarsi al grande pranzo offerto, in suo ono-re, dai cugini, in casa di uno di essi. Partecipavano anche i figli e la loro prolerigogliosa e chiassosa. I bambini erano in tutto una decina e si rincorrevanointorno e sotto il grande tavolo. Tanto che Maria non poté dissimulare il suofastidio e, ad un tratto, sbottò: “Ma come avete educato questi ragazzi!” Nes-suno osò replicare e anzi volò qua e là qualche scappellotto.

Certo “la zia” non si era accattivata la simpatia dei pargoli, anche per-ché fece seguire al rimbrotto un trattatello sulla buona educazione da impar-tire ai figli, che prevedeva salutari punizioni.

Finito il pranzo, davvero squisito e che Maria non poté fare a meno diconfrontare con i pranzi giornalmente ammannitile da “quelle sciagurate”, ini-ziò, riservata ai quattro cugini, una fitta conversazione, che Maria condusse su-bito in medias res, chiedendo notizie sul raccolto e sui fitti che i cugini riscuo-tevano per lei. “Prima di andare in visita al cimitero facciamo i conti”- disse laVolpona con sano pragmatismo.

“Ma non ci hai ancora raccontato nulla della Casa San Pio!” esclamò il cu-gino Emanuele.

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“Ne parleremo un’altra volta” troncò Maria.I conti furono fatti ed erano, come sempre, deludenti: “Adesso, se i fit-

tavoli non pagano o pagano in ritardo, inventano pure il pretesto della crisi agri-cola” – sibilò Maria – “Ma cacciamoli una buona volta!” – concluse con rabbia.

“Ci sono leggi che non lo permettono” – azzardò il cugino Andrea.“E voi che ci state a fare? A voi va bene così! Tanto i soldi sono i miei”.

Era esasperata, anche di fronte alla supposta inerzia dei “parenti paesani”, comelei li chiamava. Seguì un silenzio, durante il quale la Volpona recuperò la cal-ma perduta.

“Non importa” – disse gelidamente – “Tanto faccio conto di vendere tut-ti i miei terreni”.

L’annuncio, del tutto inaspettato, piombò nella stanza come un fulmi-ne a ciel sereno.

“ Non ti conviene” riuscì a dire con voce strozzata il cugino Giacomo.“Non ti conviene” ripeterono gli altri con foga. “È un momento pessimo

per vendere, non ci sono acquirenti se non a prezzi stracciati” soggiunsero.“Sentirò un mediatore” replicò decisa la Volpona.Queste parole gettarono nello sconforto i cugini. Fino a che il cugino Gio-

vanni raccolse tutte le sue forze ed assunse un tono grave: “Non è bello – enun-ciò – che i beni della famiglia vadano in mano ad estranei. I nostri genitori, chece li hanno lasciati – aggiunse con enfasi – si rivolterebbero nella tomba”.

Le eventuali performances dei genitori non preoccuparono più che tan-to Maria, la quale chiuse il discorso con un sibillino “Ci penserò”, mentre Gia-como le porgeva timidamente l’assegno con l’importo dei fitti riscossi, offer-ta inadeguata a placare una irata divinità.

Più tardi, si recarono tutti insieme presso la tomba di famiglia, il cui tet-to appariva dissestato a causa di un’abbondante nevicata. Si decise di rifarlodi rame: soluzione sciagurata, avrebbe poi detto Maria, che, a seguito di con-turbanti notizie giornalistiche, vedeva in sogno torme di zingari arrampicarsifino al tetto della cappella per rubare il rame.

Il giorno dopo, Maria era di partenza e dovette ancora subire gli abbrac-ci dei suoi affezionati parenti.

“Gli ho messo un bello spavento” disse poi Maria durante il viaggio, rac-contando a Carlo la conversazione con i cugini.

Era stanca, ma, nonostante tutto, soddisfatta di sé. Ora assaporava il pia-cere per qualcosa che era stato, fino ad allora, un po’ in ombra nel suo animo:non più soltanto la ricchezza, per puro amore della ricchezza, ma anche il suoalone luminoso: la supremazia sugli altri, proni per raccattare qualche bricio-la dei suoi averi.

Appena giunta in città, Maria si recò con Carlo presso l’amata sua crea-tura, la Casa di riposo San Pio. Qui l’attendeva un’amara sorpresa.

(continua)

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PIANETA HOUELLEBECQ

di Giuliana Rovetta

In occasione dell’uscita in Italia di La carta e ilterritorio, l’ultimo atteso romanzo di MichelHouellebecq, merita soffermarsi sull’attività esulla presenza letteraria di questo beniaminodell’editoria francese che da sempre scatenala bagarre fra i critici, riuscendo a tenere altele vendite in tempi abbastanza magri comequelli che si stanno vivendo1.

Personaggio singolare e quanto mai discusso,questo “cantore dell’Occidente”, così si espri-

mono i suoi colleghi francesi, è stato avvicinatoa Céline per via dell’alone un po’ sulfureo che lo

circonda e per lo stile dirompente e disinibito, al li-mite del trash, ma anche per un certo atteggiamento che si potrebbe definire“sgradevole” nei confronti del pubblico e degli addetti ai lavori.

Nato a La Réunion nel febbraio 1958, specialista informatico di profes-sione, questo autore multiforme (ha pubblicato poesie, è sceneggiatore e re-gista) si mantiene sulla breccia da una quindicina d’anni. Continuamente allaribalta nel panorama culturale francese e internazionale (è uno dei pochi au-tori europei di cui si segnalano all’estero le novità non ancora tradotte) si com-piace di ostentare un’aria perennemente imbronciata, presentandosi spessocon una scorrettissima sigaretta fra le labbra, indossando sempre camicie epullover di colore azzurro, quello che meglio si intona ai chiarissimi occhi.Per nulla disposto a relazionarsi con gli intervistatori (dichiara che non gli vadi fare il cane ammaestrato), vanesio e scostante, rappresenta insomma unpersonaggio. Vi sono però dei casi in cui l’assumere caratteristiche di estremariconoscibilità fisica e caratteriale può nuocere, cioè può andare a scapito dellavisibilità dell’opera e della valutazione che dovrebbe esserne data sulla basedelle intrinseche qualità letterarie. Per quanto consistente e innovativa, l’operapuò insomma essere quasi fagocitata, per la superficialità o la disattenzionedei mezzi di comunicazione, dalla serie di attacchi e polemiche che circon-dano ogni volta l’uscita di una nuova pubblicazione. L’evento col suo corolla-rio di commenti, può diventare preminente rispetto al giudizio critico chedovrebbe più propriamente attenersi al prodotto della scrittura.

Il romanzo Le particelle elementari2 che ha dato il successo a Houelle-becq in Francia e in Italia, ha scatenato a suo tempo una serie infinita di di-

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tta Pianeta Houellebecq

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1 M.Houellebecq, La carta e il territorio, Bompiani, Milano, 2010, traduzione di Fabrizio Ascari;La carte et le territoire, Flammarion, Parigi, 2010.2 M.Houellebecq, Le particelle elementari, Bompiani, Milano, 1999, traduzione di Sergio ClaudioPerroni; Les particules élémenataires, Flammarion, Parigi, 1998.

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scussioni sulle pagine dei quotidiani e sulle principali reti televisive. La storiadi uno scienziato che ha orrore del contatto fisico (e auspica un metodo di ri-produzione totalmente artificiale), il quale a un certo punto della vita si trovaad interagire con un fratellastro erotomane - su cui aleggia, con connotati edi-pici, la figura destabilizzante di una madre hippie dedita al libero amore-, nonera fatta per piacere a tutti. In realtà, aldilà delle elucubrazioni filosofico-ideo-logiche che alimentano il libro (ma senza intaccare la sua natura di romanzo,secondo il parere del filosofo Finkielkraut3) ci troviamo in presenza di una vi-sione acuta e sorprendente della società in cui viviamo, delle sue disfunzioni edelle possibilità offerte dalla scienza per bypassarne i limiti, tra clonazione,manipolazione genetica e semplificazione riproduttiva, mentre l’autore con ilsuo disperato pessimismo si fa beffe di ogni correttezza e di ogni conformismo.Alle accuse di voler abilmente lanciare dalle sue pagine una provocazione de-stabilizzante per la gran parte dei lettori, l’autore controbatte blan damente,ma senza modestia, richiamandosi al suggestivo esempio di un romanzo to-tale, in cui si intrecciano elementi tecnici, scientifici, economici, psicologici. Tragli argomenti trattati, alcuni sicuramente indigesti, il primo è l’inaccettabilitàdell’idea di morte nella nostra società, un tabù talmente angosciante da nonpoter essere rimosso senza pagare un alto prezzo. Collegato per vie traverse aquesto tema, è quello di una sessualità declinata in scene erotiche freddamenteverbalizzate, senza alcuna partecipazione emotiva: sconcertanti proprio perché,contro ogni cliché, risultano insoddisfacenti e deprimenti per chi le vive e perchi ne viene messo a parte.

È evidente che una poetica come quella di Houellebecq può incontraremolti detrattori accaniti: l’accademico Angelo Rinaldi, considera l’autore “aridoe oscuro” e Jacques-Pierre Amette (premio Goncourt 2003) definisce la sua scrit-tura “assommante”, cioè deprimente. Ha però anche degli estimatori di vaglia,fra questi il giornalista e critico Pierre Lepape che vede in Houellebecq l’oiseaurare tanto invocato dalle lettere francesi (un nuovo Sartre? un altro Camus?) oil solitamente severo Philippe Sollers che si dichiara compiaciuto di tanta one-sta cattiveria nel denunciare le colpe e i guasti della società moderna4. L’enfantterrible (ormai ultracinquantenne!) delle lettere francesi riesce a mettere tuttid’accordo su un punto: o lo si ama o lo si odia. E in margine a questa osserva-zione val la pena segnalare che la madre dell’ingrato Michel, sentendosi ingiu-stamente tirata in causa (in Le particelle elementari) con l’accusa di aver preferitoun distensivo giro in Africa all’obbligo genitoriale nei confronti del figlioletto,smentisce tutto in un libro appositamente scritto e pretende pubbliche scuse5.

Malgrado le funzioni narrative vagamente alterate e l’intreccio infram-mezzato da molte considerazioni non strettamente pertinenti, Le particelleelementari poteva pur sempre essere ascritto al genere romanzo. Con l’Esten-sione del dominio della lotta6, il discorso si fa più complicato. Secondo Folco

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3Alain Finkielkraut, Le dernier homme face au roman, in L’Atelier du roman, n. 18/ giugno19994 Angelo Rinaldi, Le Figaro, 18 agosto 2005; Jacques-Pierre Amette, Le Point, 18 agosto 2006; argo-menti a favore di Houellebecq, in particolare riguardo allo stile di scrittura, sono ampiamente illu-strati in Dominique Noguez, Houellebecq, en fait , Fayard, Parigi, 2003.5 Lucie Ceccaldi, L’innocente, Scali éd., www.scali.net6 M. Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, Bompiani, Milano, 2001, traduzione di SergioClaudio Perroni. L’extension du domaine de la lutte, Maurice Nadeau, Parigi, 1994.

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Portinari l’Estensione più che un romanzo sarebbe “un documento testimo-niale reso in forma fabulatoria” che si sforza di circostanziare la fine soprag-giunta delle civiltà umanistiche in favore del cervello meccanico. La storia,esile, ci racconta di un antieroe trentenne, programmatore informatico, pro-gressivamente autoestraniatosi dal mondo, di cui non condivide né le leggi néle dinamiche. Lucido e razionale, troppo forse per accettare la semplificazionedegli schemi ordinari del lavoro, del denaro, dell’amore, del sesso, il giovaneprotagonista si rende progressivamente estraneo a tutto ciò che lo circonda,in un delirio di sarcastica ironia che non riesce a nascondere però il perduraredi un sotterraneo bisogno di calore affettivo. Il “dominio” (cioè le domaine,nel senso del campo d’azione) della lotta per sopravvivere è diventato per Ho-uellebecq sempre più vasto, coinvolgendo non solo beni e oggetti essenziali matutto ciò che può essere conteso ad altri. Alla moltiplicazione degli obiettiviambiti e dei motivi contingenti, corrisponde però l’incertezza e il dubbio circalo scopo ultimo: a che serve lottare se non si sa perché si combatte? Di frontea questo interrogativo irrisolto non resta che “sfilarsi” dal mondo nella piùcompleta e glaciale indifferenza. Afferma l’autore in un’intervista; “Procediamoverso il disastro, guidati da una falsa immagine del mondo; è un incubo dalquale finiremo per svegliarci. Se manterremo una visione meccanicistica e in-dividualista del mondo, allora non riusciremo a sopravvivere7”.

Le sense du combat, cioè proprio l’elemento di cui si denuncia la ca-renza nel romanzo-testimonianza di cui abbiamo appena parlato, è il titolo diuna raccolta di versi di Houellebecq8. Quale sia il senso della lotta, se “siamonella posizione eterna del vinto…” non è ovviamente possibile sapere, ma sitorna comunque al dato “scientifico” dell’appartenenza dell’uomo al suocorpo, con i limiti che ne derivano (“Le corps, le corps pourtant, est une appar-tenance”) all’interno di un sistema in cui gli oggetti e le persone si conten-dono gli spazi: “I cocci della tua vita si stendono sulla tavola:/ Un pacco difazzoletti iniziato a metà,/ un po’ di disperazione e il doppione delle chiavi;/Miricordo che eri molto attraente.”

A scatenare la polemica attorno a Piattaforma9 è la presenza di untema sensibile come quello del turismo sessuale, che tuttavia nel romanzo diHouellebecq rappresenta un argomento secondario, mentre quello principale,tratteggiato sullo sfondo di una ricognizione dei costumi pubblici e privati al-l’alba del XXI secolo, è l’eterna questione dei rapporti fra i sessi, dei malintesiche ne derivano e che possono essere superati solo in virtù di un incontro as-solutamente unico e speciale. Il personaggio di questa storia, in cui l’io nar-rante non ha nulla di autobiografico, si comporta in modo assolutamenteriprovevole, cioè cerca compensazione ad una vita priva di stimoli con un viag-gio in Thailandia dove sa di poter trovare soddisfazione ai suoi inconfessabiliistinti. Questo quarantenne (che come i protagonisti di molti romanzi di Ho-uellebecq si chiama a bella posta Michel) nel corso del romanzo di cui è pro-tagonista esprime una serie di osservazioni critiche oltraggiose nei confronti

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7 Entretien, in Art Press, febbraio 1995.8 M.Houellebecq, Il senso della lotta, Bompiani, Milano, 2000, traduzione di Anna Maria Lorusso; Lesens du combat, Flammarion, Parigi, 1996.9 M. Houellebecq, Piattaforma, Bompiani, Milano, 2003, traduzione di Sergio Claudio Perroni; Pla-teforme, Flammarion, Parigi, 2001.

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dei musulmani, essendo un musulmano colpevole di aver assalito e ucciso suopadre. Nel corso di un complicato processo per istigazione all’odio razziale ilvero Michel ha dovuto difendersi dall’accusa di islamofobia (confortato anchedalla puntuale solidarietà di Salman Rushdie10, ma senza che l’editore mani-festasse il suo appoggio) come se un testo letterario non dovesse essere inter-pretato di per sé, ma sempre in relazione alla vita del suo autore. Secondoquesta teoria, vane sarebbero tutte le parole spese per spiegare che l’io nar-rante della Recherche du temps perdu non è Marcel Proust. Il processo si ècomunque concluso con l’assoluzione dello scrittore.

Titolo interrogativo, quanto invece assertivo era Estensione del domi-nio della lotta, il romanzo La possibilità di un’isola11 ha nuovamente di miral’obiettivo di una “humanité moyenne”, come la definisce Houellebecq12, cioèdi una normalità disperata sull’orlo di un’evoluzione sempre più disumaniz-zante e robotizzata. Ossessivamente legato alla contemporaneità, in questocaso Houellebecq si spinge, su un versante quasi fantascientifico, a ipotizzareun mondo di cloni, discendenti degli esseri umani che vivono nella società dioggi, in preda a una progressiva degenerazione. Il protagonista, un attore co-mico volgare e interessato, così si esprime riguardo ai suoi esordi: “Avevo co-minciato con scenette sulle famiglie ricomposte, sui giornalisti di Le Monde,sulla mediocrità delle classi medie in generale. […] Mi riuscivano benissimo letentazioni incestuose degli intellettuali in carriera. Riassumendo, ero un pun-gente osservatore della società contemporanea”. Provocatorio e pessimista,Houellebecq dice con crudezza ciò che pensa dell’uomo: non c’è isola in cuipossa salvarsi, non esiste nessun luogo preservato, incontaminato, in cui possasperare di ricostruirsi un futuro.

A monte di questo pessimismo c’è la constatazione che il potere nato,secondo Houellebecq, dai falsi miti sessantottini ha occupato tutti gli spazi delvivere, anche quelli in cui avrebbe potuto esercitarsi liberamente il pensiero.A chi gli rimprovera la ruvidezza e l’assoluta mancanza di diplomazia lo scrit-tore risponde candidamente “Non so davvero che cosa si debba fare per pas-sare per una persona gentile” e si diverte a incrociare le armi con un altroantipatico per eccellenza, il filosofo Bernard-Henri Lévy nel libro scritto a duemani Nemici Pubblici13.

Proprio nei giorni in cui La carta e il territorio fa la sua comparsa negliscaffali delle librerie italiane, quel diavolo di Michel riesce finalmente ad affer-rare (dopo tre tentativi andati a vuoto) il preziosissimo Prix Goncourt. I novegiurati dell’Académie Goncourt (assente Michel Tournier) hanno riconosciutocon sette voti a favore e due contrari, tra cui l’irriducibile oppositore Tahar BenJalloun,14 l’incontestabile valore di un libro che, ancora una volta, getta uno

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10 Salman Rushdie, Versi satanici, Mondadori, Milano, 2006.11 M. Houellebecq, La possibilité d’une île, Fayard, Parigi, 2005. La possibilità di un’isola, Bompiani,Milano 2005, traduzione di Fabrizio Ascari. 12 In un’intervista apparsa sul magazine Les Inrockuptibles, 4 maggio 2005. 13 M. Houellebecq, Nemici Pubblici, Bompiani, Milano, 2009, traduzione di Fabrizio Ascari; EnnemisPublics, Flammarion, Parigi, 2008.14 L’Express, 25 agosto 2010, riporta con rilievo la stroncatura del nuovo libro di Houellebecq cheTahar Ben Jalloun ha affidato a La Repubblica, 24 agosto 2010. Sintetizzando le critiche: “Ho persotre giorni a leggere questo libro”.

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sguardo disincantato e penetrante sulla modernità, ma anche sulla capacità diresistenza degli individui .

Meno spettacolare dei romanzi precedenti, pervaso di un grado minore diasprezza, questo testo dipinge un mondo desertificato, senza gli esotismi di Piat-taforma e senza la vocazione apocalittica delle Particelle elementari. Un mondocome può essere il nostro (con una très légère anticipation, va detto, poiché il rife-rimento è al 2016), cioè popolato di esseri soli, ormai distanti dall’ambiente natu-rale e abbondantemente sopraffatti da ogni sorta di beni e generi di consumo. Lacontrapposizione fra la carta, che qui vale ad indicare la riproduzione cartacea chele famose Guide Michelin fanno del paese Francia, e il territorio autentico a cui siriferiscono, illustra la capacità della società dello spettacolo e dei consumi (domi-nata in definitiva dal denaro) di trasformare la realtà, secondo un criterio di ripro-duzione che ora arricchisce e ora confonde, immettendo il lettore in una galleriadegli specchi dove può capitare all’essere umano di perdere l’orientamento. Dalschopenaueriano mondo “come volontà e come rappresentazione” eccoci al di-lemma fra la carta e il territorio (ma si potrebbe anche dire: fra spazio del mercatoe territorio dell’anima)15. Quale dimensione è più interessante? Il protagonista JedMartin (riferimento a Heidegger) un artista con la pretesa di procedere alla mappa-tura della realtà attraverso le sue foto prima e i suoi quadri poi, sostiene che il pri-mato spetta alla carta. Dunque anche il romanzo è più intenso e in definitiva piùvero della realtà, per lo meno della realtà artificiale che è l’unica fruibile? Verrebbeda rispondere di sì, dato che la struttura della narrazione riesce a coinvolgere moltie diversi piani di lettura, in una fantasmagoria di divagazioni metafisiche e di cita-zioni legate alla contemporaneità (luoghi emblematici della vita quotidiana, perso-naggi noti dello spettacolo, una ben riuscita parodia del milieu intellettuale di cuilo scrittore stesso fa parte) che hanno valso all’autore l’ennesima polemica circaun eventuale plagio (più propriamente si può parlare di un innocuo saccheggio daimodelli pubblicitari e dalle fonti che in rete sono a disposizione di tutti).

Se è vero che anche nei suoi precedenti romanzi Houellebecq ha filosofeg-giato sulla società e sul mondo passando per la vita reale (la sua), con relative espe-rienze di dolore e di amore, qui per la prima volta si pone al centro della vicenda,alquanto labirintica, con nome e cognome (è lo scrittore a cui Martin si rivolge perla redazione del suo catalogo), forse per dare la prova che anche gli esseri, come glioggetti, sono in qualche modo dei manufatti replicabili. L’ultima parte del librostrizza l’occhio al genere letterario polar, che in Francia ha un’alta tradizione e ungran successo di vendite. A morire (assassinato, anzi di più: fatto letteralmente apezzi insieme al suo cane) nell’anno di grazia 2035, è lo stesso Houellebecq. Par-liamo, ovviamente del personaggio che porta il suo nome, destinato alla morte dal-l’autore suo omonimo perché giudicato a un certo punto “troppo invadente”. Suquesto caso poliziesco, Jasselin, un tipico commissario in stile Quai des Orfèvres,chiamato ad indagare sulla vittima, pronuncia questo commento tombale: “In con-clusione, raramente aveva visto qualcuno con una vita così squallida”.

In La carta e il territorio c’è uno sguardo freddo, quasi scientifico, chespinge il bisogno di interrogarsi ben aldilà della morte: l’eternità non esiste,afferma l’autore e, da moralista un po’ nostalgico, si assume il compito di fis-sare sulla pagina le immagini finali di un mondo votato all’estinzione.

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15 Floriane Place Verghnes, Houellebecq/Schopenauer, nel lavoro collettivoMichel Houellebecq sousla loupe, Rodopi, collana Faux Titres, Amsterdam/New York, 2007.

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SIRIA O LE RADICI DELLA CIVILTÀ

di Milena Buzzoni

Cara Moà, stai lì accovacciata a fianco alcomputer e mi guardi. Quando non scri-vo azzardi una passeggiata sulla tastie-ra, annusi lo schermo, poi riprendi la tuapostazione. Indifferente a quello che stofacendo, certo non sai da dove viene il tuogrigio mantello, i tripli giri di collane sulpetto, la tua coda tigrata. Eppure i tuoi an-tenati venivano proprio da quella terra dal-la quale siamo atterrati tre giorni fa, unaterra di sassi e deserto, di rovine stupe-facenti, di gigantesche fortezze, una ter-ra dalla quale, intorno all’anno Mille, unanave mercantile approdata a Venezia ave-va trasportato una nidiata di gattiniuguali a te che i veneziani battezzaronosubito “soriani”, cioè provenienti dalla Si-ria, la medioevale “Sorìa”. E neppure saiche persino la parola “gatto” deriva dal-l’arabo quit.

Con i tuoi bisnonni sono sbarcatiin Occidente, provenienti dalla Grande Si-ria, una regione ben più vasta dell’attua-

le, comprendente anche la Giordania, una serie di svariati prodotti, dalla seta alcotone, dal riso agli agrumi alla carta alle stoffe appunto “damascate” e persinoalle marmellate degli agricoltori dell’oasi di Damasco. Sempre i veneziani nel 996importarono proprio dalla Siria il primo carico di sukkar della storia europea. Igenovesi, invece, furono i primi ad importare dal Medio Oriente il fazzoletto danaso, l’arabo mindil , il nostro dialettale mandillu.

Dovrebbero bastare queste poche notizie per farti capire che razza di ci-viltà fioriva tra Damasco Aleppo e l’Arabia, una civiltà non certo creata dall’Islam,ma che l’Islam aveva ereditato dal mondo classico (mesopotamico, greco, ro-mano, fenicio, bizantino, ebraico, nabateo).

Ne avevamo tanto sentito parlare che siamo andati a vedere.Viaggiamo chiacchierando sull’Idea di Lorenzo. Arriviamo al nostro Pla-

net Parking tra distese arate e bordi insanguinati di papaveri, quei papaveri cheinsieme alle spighe sono una sepolta immagine infantile, di quelle scoccate daivecchi sussidiari che illustravano il mese di maggio.

Il Milano-Larnaca parte “ solo” con mezz’ora di ritardo e la sosta a Ci-pro mi permette di cercare certe scatole esagonali di lukumi che qualcuno miaveva portato anni fa e che erano squisiti.

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Grazie al nostro Cristoforo Colombo collegato con il nulla, alla sosta a Lar-naca, ai ritardi, arriviamo a Damasco alle undici passate. Attraverso una serie distradine raggiungiamo il Talisman Hotel, nel centro storico, un susseguirsi di cor-tili, facciate arabescate, pannelli in legno traforati, giare piene di fiori, rampican-ti. La piscina turchese somiglia più a una grande fontana araba e rischiara un giar-dino circondato da tavolini di ferro battuto bianco. Dormiamo in una camera enor-me con un armadio interamente ricoperto da un mosaico di madreperla, un mo-bile antico sotto la tv, un bel copriletto a fiori ricamato.

A colazione si può scegliere tra un english, un continental o un sirian bre-akfast. Optiamo per un continental senza rischi mentre Lorenzo dal tavolinoaccanto, davanti a un sirian breakfast decanta la bontà del suo muttabel, unacrema di melanzane e spezie e del suo hummus , un patè di ceci che trovere-mo quotidianamente sulle nostre tavole.

Il nostro viaggio prevede una prima sosta a Damasco, prosegue verso nord-est alla volta di Palmira e ai siti archeologici di Dura Europos e Mari per segui-re il corso dell’Eufrate quasi al confine con l’Iraq, tornare verso ovest fino adAleppo e scendere visitando Apamea, Homs, il Crak dei Cavalieri e di nuovoverso Damasco.

Partiamo di buon ora dal Talisman alla volta del Museo Nazionale, unavisita che avrebbe avuto più senso a fine viaggio essendo un compendio nonsolo della civiltà siriana ma della civiltà in generale dato che ospita una dellepiù estese ed importanti collezioni di reperti archeologici. L’ingresso monumen-tale dell’edificio è una ricostruzione del castello arabo di Qasr al-Heir . Distrut-to dai Mongoli, sopravvive qui nei due poderosi torrioni ingentiliti alla sommi-tà dai motivi architettonici dei triangoli dentati che riproducono la sagoma del-le foglie di palma e che, provenienti da Bagdad, si ritrovano in tanto mondoorientale, persino nella balaustra del ponte di Kandy in Sri Lanka.

La struttura chiude come in un pugno gli albori delle più antiche civiltà, quel-le che ci imponevano i libri dei nostri indifferenti anni scolastici e che qui diven-tano vive e vere: dai piatti in ceramica turchese ai vetri derivati dai veneziani, dal-la Tomba del Dentista con gli strumenti del mestiere alla ricostruzione della si-nagoga di Dura Europos del II secolo d.C., alla sala di Mari con reperti dell’omo-nimo sito dell’età del bronzo, tra cui il notissimo pettorale d’oro e lapislazzuli ri-salente al 2500 a.C. e appartenente al tesoro di Ur. Della stessa epoca è la statuadel re di Mari con le mani giunte in preghiera, la gonna a balze formata da unasequenza di petali e il contorno degli occhi e le sopracciglia segnati da una spes-sa traccia nera che gli conferisce uno sguardo vivo e penetrante, lo stesso, indi-menticabile, in cui mi imbattevo sfogliando il libro di storia e che sembrava e an-cora sembra quella di un uomo curioso che sa che avrebbe scavalcato i secoli edato un’occhiata a tutto. Fino alla sala di Ugarit dove, attraverso una lente, si puòosservare una tavoletta di argilla con il primo alfabeto a caratteri cuneiformi, unasequenza di minuscoli triangoli diversamente posizionati e un’altra con le primenote musicali introdotte dai Fenici. Da sempre sento parlare della scrittura cunei-forme che ho immaginato con difficoltà pensando a un cuneo tridimensionale, diquelli che si infilano sotto le porte, ma trovarla qui è un’emozione violenta comeessere riusciti a risalire l’immenso fiume della storia fino ai primitivi balbettii del-la civiltà, al suono della prima voce, alla forma del primo pensiero!

Saliamo poi al monte Qassioun da cui si gode la vista di tutta Damascoe lo lasciamo per visitare la moschea degli Omayyadi. Rari gli edifici nel mon-

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do in cui sia stato fatto un così largo e spettacolare uso di mosaici. Parzialmen-te distrutti dai bombardamenti francesi degli anni ‘20, ricoprono la facciata in-terna della moschea e, caso unico nell’arte islamica, non sono astrattamentegeometrici ma figurativi. Ci arriviamo attraverso il frastuono della folla che siaccalca nel Suq al-Hamidiyya, storditi dai colori e dai profumi. La grande mo-schea sta lì imponente come una fortezza, a proteggere un’oasi di silenzio, rac-coglimento ma anche incontro di uomini, donne , bambini che vi convergonocome a un appuntamento quotidiano mischiando preghiere e confidenze, sa-cro e profano.

Costruita su un tempio romano dedicato a Giove, a sua volta soppian-tato da una delle più importanti basiliche bizantine del Medio Oriente dedica-ta a San Giovanni Battista, dopo che Damasco nel 664 divenne capitale di unimpero che dalle Colonne d’Ercole arrivava all’Indo, fu voluta talmente gran-diosa dal califfo Abdul Malik da essere considerata nel medioevo l’ottava me-raviglia del mondo.

Le architetture rappresentate sono immerse in uno scenario simbolicodi campagne verdeggianti e giardini fioriti, tra fiumi, fontane, ulivi, cipressi ealberi da frutta.

Come si è detto è sorprendente che , per decorare un luogo di culto, venis-sero scelte delle immagini, visto che nell’Islam ortodosso era bandita ogni raffi-gurazione del mondo reale; ma gli artigiani bizantini che le realizzarono influen-zarono il gusto della corte omayyade e quei mosaici vennero accettati dai saggimusulmani in quanto non volevano rappresentare altro che “ la città di Dio”. E peri popoli musulmani vissuti tra le sabbie del deserto, il Paradiso non poteva esse-re immaginato che tra zampilli di fontane, ruscelli e boschi profumati!

Entrando nell’immensa sala di preghiera, più delle dimensioni a colpire èil senso di pace. I folti tappeti attutiscono i suoni mentre i raggi schermati del solediffondono una luminosità irreale, annullando ogni riferimento all’ora del gior-no. La preziosità geometrica degli intarsi di legno alle pareti accresce il senso diastrazione mistica e ci si ritrova in uno spazio quasi sospeso tra cielo e terra. Comese, a sottolineare il significato di questa moschea, influisse il senso di una religio-sità universale, la percezione di un’opera comune di uomini che, diversi per fedee cultura, hanno costruito insieme un tempio a Dio.

Al centro della moschea la tomba di San Giovanni catalizza la devozio-ne dei fedeli. La leggenda vuole che qui sia custodita solo la testa, mentre il cor-po sarebbe rimasto a Gerusalemme.

Mi sono sempre chiesta perché mai Salomè avesse voluto la testa del Bat-tista e ora scopro un’intricata vicenda familiare: in realtà fu Erodiade, madredi Salomè e cognata e concubina di Erode, a indurre la figlia a domandare alre la testa di Giovanni che non si stancava di lanciare condanne e anatemi con-tro la loro relazione!

Lasciamo l’atmosfera protetta della moschea e ripassiamo dall’ampiocortile dove ci lasciamo di nuovo abbagliare dai mosaici illuminati dal sole. Unvento caldo solleva le sottili jallabia che abbiamo dovuto indossare per acce-dere alla moschea e prima di recuperare le nostre scarpe passiamo davanti auna fila di ciechi seduti sotto il porticato. Ai “vecchi della moschea” si rivol-gono i fedeli perché credono che le invocazioni ad Allah fatte da questi uomi-ni pii abbiano maggior valore. I loro occhi bianchi sembrano guardare un’infi-nità al di fuori del tempo e dello spazio come se davvero fosse concessa loro

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una visione soprannaturale. Mi viene in mente quel “Rapporto sui ciechi” nelromanzo di Ernesto Sàbato “Sopra eroi e tombe” in cui lo scrittore argentinosopraffatto dall’enigma della cecità, ossessionato dal mistero di quel mondobuio, allarmato dalla sua visionarietà, ipotizza l’esistenza di una setta che mi-naccia l’umanità.

Ci ritroviamo nel caos del suq tra il luccichio dei vestiti da sera, i pizzidi biancheria osé, l’aroma oleoso del sapone di Aleppo, le voci strascicate del-la gente. Attraverso una ragnatela di stradine raggiungiamo il palazzo della fa-miglia Azem e precisamente la dimora di Assad Pashà al-Azem, governatoredi Damasco che fece costruire a metà del ‘700 uno dei più sontuosi esempi diarchitettura ottomana. In un bel cortile le cui pareti sono ornate di intarsi inmarmi policromi, con fontane, albicocchi e gelsomini, si apre una serie di stan-ze ognuna delle quali è un piccolo museo. Ci sediamo in un bar all’interno del-lo stesso cortile sotto l’ombra di un pergolato. Mangiamo diversi tipi di borek,sfoglie calde ripiene di formaggio, spinaci o condite con olio e origano.

Riprendiamo il nostro percorso e raggiungiamo la chiesa di San Ananìa,dal nome del discepolo di Cristo che ospitò San Paolo. Proprio qui nelle duegrotte sotterranee il santo ricevette la famosa “folgorazione” e l’episodio è cosìfamoso da essere diventato un’espressione proverbiale!

Ci imbattiamo di nuovo nel suq al-Hamidiyya dove il nostro gruppo didieci si disperde un po’ qua un po’ là secondo l’attrazione del momento: qual-cuno rallenta davanti a un negozietto di spezie ipnotizzato dai profumi, io fre-no davanti a una gigantesca gelateria per assaggiare il famoso booza alla pan-na e pistacchi. Qualcuno compra dell’acqua. Francesca, Fede e io ci accuccia-mo davanti alle vetrine degli antiquari per vedere la roba ammucchiata e im-polverata sotto gli oggetti puliti e scintillanti esposti sopra. Mazem, la nostraguida, ogni tanto si innervosisce, cerca di tenerci uniti, si lamenta del nostrogruppo a suo avviso disordinato e ribelle. Come scolaretti sgridati dalla mae-stra serriamo le righe e ci rimettiamo al passo brontolando sottovoce .

Per tornare in albergo percorriamo la “Via Recta” o decumano, una spe-cie di spaccanapoli mediorientale che taglia tutta la città, dal quartiere ebrai-co a quello cristiano, fitta di negozi di artigianato, antiquariato, tappeti, gio-ielli di buona fattura.

Usciamo da Damasco lasciando le mura basse e le porte massicce che lachiudono. Attraversiamo la solita povera periferia di cemento e parabole. Dalontano Damasco sparsa su brulle colline è una manciata di formaggio su unaconca color deserto.

Sul pulman Mazem ci dà qualche informazione sulla Siria attuale, infor-mazioni sempre filtrate dal suo smaccato sciovinismo. Non a caso di fronte alladomanda se si verifichino a volte episodi di violenza sessuale o pedofilia e si-mili si trincera dietro un definitivo: “queste cose qui no succede, no succedemai!” ( identica affermazione fatta da Ahmadinejad nel discorso alla Colum-bia University a proposito degli omosessuali!)

Porta subito il discorso sugli stipendi medi che si aggirano attorno ai 5-600 euro mensili, sul costo della benzina, circa 40 lire siriane, 25 per un litrodi gasolio e 10 per un chilo di pane proveniente dai forni cui lo stato di stam-po socialista , fornisce gratuitamente la farina.

La strada che copre i 230 chilometri da Damasco a Palmira è una fettuc-cia in mezzo a un deserto ostile di ghiaia e sassi dove crescono piccoli cespu-

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gli di un’erba ricca d’acqua e insulina di cui sono ghiotti i cammelli. Il paesag-gio diventa ondulato, ci accompagnano colline basse che si inseguono come ondemarine ma senza la morbidezza accogliente delle dune africane. Oltrepassia-mo cumuli isolati di terra rossa usata per le tinture. Sostiamo a un Bagdad Cafésperduto nel deserto, un po’ bar, un po’ bazar, un po’ libreria. Fede mi si paradavanti sbandierando un opuscolo. “Come hai fatto? Come hai fatto a trova-re in un posto simile una raccolta di poesie siriane!?” Ammucchiati in un an-golo una decina di libri, tutti uguali e tutti tradotti in spagnolo nei quali, stu-pita e contenta, rovisto a mia volta.

Oltrepassando campi di fosfati ci avviciniamo a Palmira che da lontanosi presenta adagiata su una vasta conca coperta a destra da una fitta macchiaverde da cui svettano mazzi di palme e a sinistra da una brulla pianura costel-lata a perdita d’occhio di sorprendenti rovine: una sequenza infinita di colon-ne e archi e, sul versante opposto, sporadiche tombe-torre; il tutto sembra im-pastato della stessa sabbia del deserto. Non c’è soluzione di continuità tra l’ocradel terreno e i blocchi di pietra calcarea che formano i parallelepipedi di que-ste tombe a due o tre piani abbellite da una o due finestre decorate che pote-vano contenere fino a duecentocinquanta salme o gli archi e i colonnati di que-sta città che vantava un muro di cinta di sette chilometri e mezzo. Da lonta-no queste rovine appaiono fragili e deperibili nella leggerezza della loro sequen-za come castelli di sabbia che possono scomparire appena distogli lo sguar-do. Da vicino invece la città appare in tutta la sua poderosa suggestione: daltempio di Baal alle terme, al teatro, alla via colonnata di un chilometro per ven-tidue metri di larghezza, tutto testimonia il prestigio di Palmira che tra il I eil III sec. d.C. fu la più importante città carovaniera dell’impero romano, situa-ta in un’oasi ricca di sorgenti, tra il Mediterraneo e l’Eufrate.

La posizione strategica sulla strada per la Mesopotamia, la ricchezza, ilpotere avevano indotto la sua regina, la bellissima Zenobia, a sfidare Roma doveinvece, confinata in una villa di Tivoli, finì i suoi giorni prigioniera.

La cena, in un ristorante a ridosso delle rovine con i colonnati illumina-ti sotto la suggestione del castello arabo che domina dall’alto, ci compensa delmodesto albergo nello squallido villaggio di basse case in cemento sorto attor-no alle rovine che meriterebbero un più degno contesto.

La mattina seguente ci muoviamo alla volta di Dura Europos ( dura in as-siro significa muro ed Europos è la città natale di Alessandro Magno), una va-sta città fortificata ellenistico-romana su un altopiano desertico a strapiombosull’Eufrate.

“C’era un fiume che usciva dall’Eden per irrigare il giardino, poi da lì sidivideva e veniva a formare quattro bracci. Il primo richiama Pishon (….) Il se-condo Ghihon (….) Il terzo Tigri: è quello che scorre a oriente di Assur. Il quar-to fiume è l’Eufrate”. Per il libro della Genesi quattro fiumi sgorgavano dal Pa-radiso Terrestre. Se sui primi due si sono fatte solo ipotesi, il Tigri e l’Eufratenati dallo stesso grembo anatolico e culla delle più antiche civiltà urbane del-la Mesopotamia, non solo sono fiumi geograficamente connotati, ma sono an-che fiumi della fede. Di essi non si parla solo nella Genesi, ma in molti altri miti(sumeri e assiro-babilonesi) sulla creazione del mondo. Nell’Eufrate Gilgameshsi lava le mani sporche del sangue del Toro celeste che ha appena ucciso. Sonoil Tigri e l’Eufrate i “fiumi di Babilonia” del salmo 137 sulle cui rive Israele com-piange la propria sorte di popolo deportato: “Là eravamo seduti e piangevamo,

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ripensando a Sion. Sui salici, laggiù, avevamo appeso le nostre cetre.” Il filo-sofo ebreo Filone di Alessandria definiva l’Eufrate un fiume che non circondanessun popolo, ma a tutti porta gioia e fertilità (in greco eufrànein significa ral-legrarsi ) Nel nome stesso, in effetti, l’Eufrate conserva qualcosa di benaugu-rate, di mistico e condiviso, come il lento fluire della memoria verso una rive-lazione. In fondo tutta la storia è stata sabbia filtrata dal fiume.

Ma l’Eufrate che vediamo oltrepassata la massiccia porta di Palmira e at-traversati i perimetri dei principali edifici, è un miraggio verde e lucente, undesiderio d’acqua e di fresco sotto un sole che dà fuoco alla pelle e trasformaquesto sito in una fornace. Ci affrettiamo al pulman inseguendo aria condizio-nata e bottigliette di minerale ghiacciata. Va un po’ meglio a Mari, crocevia deitraffici tra Mediterraneo e Mesopotamia, dove i resti del palazzo reale di Zim-ri-lim costruito in mattoni di fango e paglia, sono protetti da una tettoia. Le datesono sconvolgenti : Mari fu distrutta dai babilonesi di Hammurabi nel 1759 a.C.!Siamo nel punto più orientale della Siria, a 40 chilometri dalla mitica Bagdad!

Dopo una pausa sotto un pergolato affollato di mosche dove ci rinfre-schiamo tenendo le gambe in un catino che funge da rudimentale fontana, pro-seguiamo per Deir ez-Zor dalla quale ci siamo staccati per procedere verso l’Iraqe visitare Dura Europos e Mari. Una breve sosta ci permette di percorrere a pie-di il bel ponte sull’Eufrate fatto costruire dai francesi nel 1929. Leggero pur nelcomplesso intersecarsi di tiranti di ferro e giganteschi bulloni, è affollato di ra-gazzi che si arrampicano sulla struttura e si buttano nel fiume. Proviamo a fo-tografarne qualcuno nel momento dell’impatto con l’acqua costringendoli a ri-petuti tuffi. Ridono e ostentano la loro abilità, percorrendo gocciolanti la car-reggiata metallica. Dormiamo fuori del centro e la mattina seguente proseguia-mo per Rasafa. Sulla strada si scatena una tempesta di sabbia che ci avvolgein un’atmosfera irreale. A stento distinguiamo il mezzo che ci precede ma ilpulman non rallenta e va avanti disinvolto.

A Rasafa la temperatura è più bassa rispetto a ieri e soffia una brezzapiacevole. Le rovine sorgono dal deserto in un totale isolamento e silenzio. Ilsito è vastissimo circondato da arcate massicce al cui interno, tra l’altro, ve-diamo da un finestrone posto in alto, le cisterne che potevano garantire unariserva idrica di cinque anni. Aggirarsi da soli tra gli archi e le absidi della chie-sa di San Sergio sotto rosoni e colonnati è sentirsi sopravissuti di una setta pri-vilegiata cui è stata consentita un’incursione nel passato per riappropriarsi diuna pace primordiale, di un irripetibile raccoglimento.

Arriviamo al lago Assad sbarrato da una diga imponente che crea un ba-cino del tutto simile a un mare con onde increspate che lambiscono piccole spiag-ge dove qualcuno fa il bagno. Percorriamo una strada stretta che taglia una ve-getazione rigogliosa per arrivare a un’isola dove pranzeremo. Il ristorante, pro-prio sul turchese dell’acqua, è riparato da un pergolato di vite ma non man-cano eucalipti e alberi del pepe. E la luce che si sbriciola sulla tovaglia in om-bra, il profumo e quei baluginii marini evocano una Grecia estiva e isolana.

Il locale sorge ai piedi di una fortezza costruita dal fratello del Saladinoe utilizzata come forziere. Dalla sommità si gode una mediterranea vista del lago.Mangiamo salsa di melanzane e di ceci, olive e carpe fritte. Ripartiamo alla vol-ta di Aleppo che si presenta con una sequenza di palazzi di cemento sormon-tati da un incredibile numero di parabole che sembrano le decorazioni di unospettrale luna park. Il nostro albergo è in una stradina che si stacca da un’arte-

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ria principale piena di traffico smog e clacson per spingersi nella città vecchiasilenziosa e appartata. Il portone di ferro borchiato del Marrash hotel si apre suun cortile quadrato fitto di piante con una decina di camere che porgono tuttesu questa corte a diversi livelli. Usciamo dalla strada dell’albergo dove si affac-ciano le vecchie case turche con i balconi chiusi da grate di legno e sostenuti davecchie travi in rovina, per uscire nel sole e, svoltato l’ultimo vicolo, scoprire da-vanti a noi una spettacolare cittadella emergente da una collina naturale, anti-co luogo di culto. Alla base stanno costruendo una passeggiata che le girerà at-torno costeggiando l’antico fossato profondo 20 metri e largo 30. La parte dal-la quale si accede alla fortezza è di recente ristrutturazione, movimentata da mol-ti caffè con tavolini all’aperto, un palmeto, i bagni arabi e il vecchio municipioche sta per diventare un albergo. Entriamo attraverso una bella porta monumen-tale del 1200 e un ponte a bassi gradini che collega le due sponde del fossato.Il primo portale d’ingresso è stato collocato a destra del ponte anziché di fron-te per impedire le cariche con l’ariete. Assistono la nostra entrata i draghi avvin-ghiati sopra l’architrave e la porta decorata con ferri di cavallo. Da lì imbocchia-mo una successione di cinque svolte ad angolo retto con tre serie di porte. Le te-ste di due leoni di basalto recuperati dal tempio del X sec. che sorgeva su que-sto luogo di culto, ci guardano dalla loro imperturbabile eternità. Da qui è tut-ta una salita verso le rovine di un palazzo ayyubide del XIII sec. con un portaled’ingresso a sesto acuto decorato con stalattiti di pietra, verso la moschea di Abra-mo e verso l’hammam di epoca mamelucca. Tra sentieri di sole, si arriva in cimaal panoramico caffè ricavato da quelli che in epoca ottomana erano gli alloggidei militari. Dalla terrazza è visibile tutta Aleppo con il suo mosaico di tetti, cu-pole e minareti. Scendiamo e ci fermiamo a uno di quei bar ai piedi della citta-della per osservarla nel suo insieme. Se dall’interno si presenta come un insie-me di percorsi in salita verso le rovine di una trascorsa grandezza, dall’esterno,dal tavolino del bar davanti a una spremuta, è la materializzazione di una for-za soprannaturale in grado di suscitare solo tranquillità e sicurezza come unadivinità protettrice e benevola. I secoli l’hanno man mano spogliata della sua ag-gressività per lasciare il posto a una compostezza squadrata, all’energia delle mura,alla bellezza dei fregi. Un volo di rondini nasce alle nostre spalle e si disperdeoltre le torri, il cielo si ricompone nella densità del suo azzurro. Accanto al no-stro tavolo arrivano due ragazze coperte dal velo e da un cappotto lungo finoai piedi. Prima di sedersi si spogliano sfoggiando camicette leggere e spensiera-te scollature. Si accendono una sigaretta e ci sorridono.

Questo posto ridente e vivo, dall’atmosfera leggera, è l’esatto contrariodel mitico Baron Hotel al quale approdiamo un pomeriggio spinti dalla curio-sità per il locale dove sono passati gli ospiti più illustri dell’Orient Express daLindbergh a Lawrence d’Arabia ( di cui esiste ancora il conto del bar) a Roosveltad Agatha Christie che qui scrisse una parte di “Assassinio sull’Orient Express”aPasolini che ad Aleppo girò alcune scene di “Medea”. Costruito attorno agli anni’10 da due fratelli di una famiglia armena, i Mazloumian, sfuggiti al primo ge-nocidio del ‘900, è in totale decadenza rimanendo aggrappato a squallidi arre-di anni ’50, data dell’ultima ristrutturazione, con poltrone di pelle scrostata, scaf-fali spogli, tavolini malfermi. Anche gli ospiti sembrano della stessa epoca: fi-gure in bianco e nero senza età che girano spaesati tra il bar e la terrazza.

La strada da Aleppo verso Hama diventa più verde tra ulivi, cipressi, al-beri di pistacchio. Prima di proseguire a sud nella direzione che a fine viaggio

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ci riporterà a Damasco, deviamo verso nord per raggiungere uno dei siti piùsuggestivi e memorabili, situato su uno sprone roccioso tra il silenzio e l’om-bra degli alberi. La grande chiesa di San Simeone lo Stilita è composta da benquattro basiliche disposte a croce che si aprono ciascuna su un cortile centra-le ottagonale coperto da una cupola. La facciata romanica è ancora in piedi e,dietro a questa, le arcate del cortile ottagonale sono ancora in buona parte com-plete e circondano una pietra centrale che è ciò che resta della colonna di 18metri sulla cui sommità l’anacoreta del 400 d.C. Simeone, un tipo piuttosto mi-santropo, pare abbia trascorso quarant’anni della sua vita. Siamo soli a visita-re questo luogo dal quale si gode una vista verde e aperta e ci sentiamo pio-nieri premiati dalla grandiosità della scoperta, come se queste rovine si fos-sero conservate per noi.

Ma la Siria non smetterà di sorprenderci fino alla fine ( come sostienel’archeologo canadese Greg Fisher è uno dei più preziosi forzieri del mondo!)e quando pensiamo che le cose più spettacolari siano esaurite, spuntano altretestimonianze di un passato che qui sembra più vicino che altrove, anzi piùaffonda le radici nei secoli lontani più si mantiene tenacemente al presente comese qui avesse avuto più portata e più potere. Ecco allora tra la statale Aleppo-Hama e l’Oronte, nell’entroterra della città cristiano-bizantina di Antiochia, ungruppo di antiche città, le cosiddette “città morte” sparse su colline calcareee abbandonate da quando, circa quindici secoli fa, i mutamenti delle rotte com-merciali costrinsero gli abitanti a trasferirsi: Serjilla, con le sue facciate di pie-tra emergenti da una brughiera erbosa e gli edifici quasi intatti con porte e fi-nestre finemente intagliate, è la più enigmatica e suggestiva. Vita e morte si al-ternano tra case deserte e case ancora abitate, tra androni spettrali e giardinifioriti, tra sarcofagi rovesciati e panni stesi ad asciugare.

Un colonnato di due chilometri di granito grigio contende il primato d’im-ponenza a quello di arenaria rosa di Palmira: è Apamea, visitata per il suo splen-dore anche da Antonio e Cleopatra, con il suo cardo e il suo decumano intat-ti e la sequenza a perdita d’occhio delle colonne ora lisce, ora scanalate, ora,unico esempio nell’antichità, con scanalature a spirale, ancora in piedi nono-stante il terremoto del 1157 .

Lasciamo le rovine per tuffarci nella vitalità dell’Oronte che ad Hama riem-pie la città di fresche modulazioni. Il fiume è ovunque, le strade risuonano delsuo scorrere, l’aria ha la friabilità della vicinanza dell’acqua.

Quando finalmente ci affacciamo alle sue sponde, non abbiamo bisognodi aguzzare la vista per cercare le sue famose norie, ruote idrauliche in legnodi ulivo alte come un palazzo di cinque piani che continuano a girare cigolan-do e scricchiolando. Disposte in diverse posizioni, progettate nel XIII secolo da-gli Ayyubidi e restaurate ogni anno, sono parte integrante di un sistema di ir-rigazione che risale al V sec. d.C.

Dormiamo in una vecchia residenza ottomana con una vasta corte doveceniamo e dove si apre un laboratorio tessile con un vecchio telaio di legno cheproduce asciugamani e accappatoi.

Dal raccoglimento delle cripte alla mistica soggezione delle arcate bizan-tine, all’ecumenismo delle immense moschee, al rigore delle fortezze cristia-ne, al potere evocativo dei fiumi biblici, la fede trova in Siria le sue proteifor-mi declinazioni. Eccoci all’ombra delle pietre brunite dal sole del Crak dei Ca-valieri, la più potente piazzaforte cristiana del Medio Oriente retta dai cava-

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lieri ospitalieri di San Giovanni, sopravissuti sino ad oggi con il nome di Ca-valieri di Malta. Soggiogati da tanta imponenza perlustriamo la fortezza desti-nata, come tutte quelle poste a linea difensiva dalla Siria al Mar Rosso, a pro-teggere il regno crociato di Gerusalemme. Ma se qui il misticismo si disperdeun po’ nell’anonimato degli spazi che a volte ritrovano una fisionomia più in-tima sotto le arcate gotiche e i fregi di qualche portale, nel vicino villaggio diMaalula con le case colorate ammassate su una ripida parete rocciosa e la grot-ta di Santa Tecla, si riappropria di una più autentica valenza meditativa. La crip-ta della piccola chiesa è piena di icone che con la loro patina d’oro, le sfuma-ture annerite, l’espressione rigida dei volti, gli sguardi attoniti, evocano un mi-sticismo arcaico fatto di riti, fumo di candele, canti e incenso.

Andare in Siria non è solo, come ho detto, risalire alle origini della civil-tà, ripercorrere il tempo verso la creazione, ma anche ritrovare protagonisti eluoghi di un catechismo infantile, di parabole sentite a scuola, di storie di san-ti e martiri che s’imprimevano nella memoria bambina e che qui vivono comevere e inconfutabili testimonianze. Così Santa Tecla che sfugge ai leoni perchéla roccia si apre dietro di lei e la mette in salvo!

Dopo il ritorno a Damasco e un’immersione nel caos delle sue stradine, citroviamo al confine con un Libano apparentemente ancora in guerra: code allafrontiera, fasi di controllo differenziate, timbri e visti. L’atmosfera è militareg-giante, tute mimetiche, mitra, sacchi di sabbia, le bandiere gialle e verdi di Hez-bollah. Il paesaggio da brullo si fa poco a poco più verde fino ad incontrare i brac-ci frondosi dei cedri, l’ombra densa che emanano sotto ogni giro di rami.

Baalbec, la nostra destinazione libanese così chiamata dal dio Baal e ri-battezzata Heliopolis da Alessandro Magno, è a una cinquantina di chilome-tri dal confine e ci arriviamo per una strada accidentata, a una sola corsia per-ché l’altra è in allestimento.

Fondata dai Fenici attorno al terzo millennio a.C., poi colonia romana inposizione strategica tra Palmira, il deserto e le località della costa, la città videiniziare la costruzione dei suoi giganteschi templi attorno al 60 a.C.. In parti-colare il tempio di Giove fu ultimato sotto Nerone e resta uno degli edifici piùspettacolari con colonne che sono le più grandi del mondo, alte 22 metri conun diametro di 3 e blocchi megalitici di pietra di peso superiore alle mille ton-nellate: capitelli intagliati con la grazia di un pizzo, grondaie con teste di leo-ne per lo scarico dell’acqua giacciono qua e là in un susseguirsi di cortili a ese-dra, simmetriche fontane, scalinate scavate in un unico blocco di pietra. Alzan-do lo sguardo fino alla sommità delle colonne, fino a quei capitelli corinzi lecui foglie di acanto sporgono e si incurvano con la morbidezza di quelle fre-sche, tra tempio e colonnato, scopriamo un soffitto in parte crollato ma in buo-na parte ancora al suo posto interamente scolpito a motivi floreali e geome-trici e arricchito da figure femminili. Tanta grandiosità riduce i templi greci amodeste chiesette e a buon diritto Baalbec può competere con l’Egitto. È l’ul-timo tentativo di rilancio, l’ultimo colpo di coda di un paganesimo in crisi chevuole strafare per farsi rimpiangere.

Considerato che l’umanità di fronte al mistero divino si trova davanti duesole possibilità: la disperazione (in senso etimologico e non emotivo) e il fa-natismo ( nel senso di considerare tale ogni esternazione della dottrina) e con-siderato che buona parte delle forme d’arte, dalla pittura all’architettura, deb-bono il loro esistere al secondo, è dura per due agnostici come me e Fede, in-

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namorati delle opere dell’uomo, ammettere che larga parte del nostro piace-re sia debitore della fede! Se il fanatismo è esaltante ed edificante (nel senso“costruttivo” del termine, anche perché, come dice Emerson, non c’è niente diimportante che sia stato fatto senza l’entusiasmo!) e la disperazione deprimen-te e distruttiva, non c’è dubbio che noi, deragliati dal credo, ultima fermata ilnulla, ce lo siamo potuti permettere perché eravamo in pochi. Disertori dell’im-mortalità, non avremmo eretto né templi né piramidi né cattedrali solo fatiscen-ti, caduche capanne!

Torniamo a Damasco con tante cose belle negli occhi, da un lato un po’saturi di rovine, dall’altro ancora tentati da un’ultima escursione a Bosra, a suddella capitale. Federico rinuncia, è stufo di anfiteatri e colonne e arrabbiato conla guida che ha sentito parlare al cellulare di un gruppo di mummie rompisca-tole! Con Agnese e Lorenzo e un ultimo sforzo, arriviamo a Bosra, quasi al con-fine con la Giordania, capitale, nel I sec. d. C. della Provincia d’Arabia, per ag-girarci fra le stradine di questo villaggio dove i chiaroscuri sono enfatizzati dalcontrasto tra la luce del sole, la pietra nera degli edifici e il rosso dei tappetiesposti all’aperto. Giriamo nei corridoi bui della cittadella araba per uscire alchiarore del giorno, in bilico sulla vasta distesa di sedili di pietra del suo tea-tro : al basalto nero in cui è costruita tutta la città si oppone il marmo biancodel colonnato ingentilito dai capitelli corinzi. È una visione mozzafiato per lavastità dello spazio che si apre sotto di noi ( era un teatro da 10000 spettato-ri!) e la potenza del colore.

Il nostro viaggio è terminato; ci aspettano un paio di giorni di soggior-no a Damasco per esplorarla ancora un po’. In serata Francesca che è una bra-va pittrice e possiede quell’istintiva creatività in grado di trasformare qualun-que materiale in un oggetto d’arte, ci porta al vernissage di una delle tante mo-stre che stanno rendendo Damasco più viva e stimolante. Mustafà Alì, l’arti-sta, che ha conosciuto il giorno prima, ci accoglie con grandi sorrisi tra una fol-la di giovani che riempie non solo la corte dove, in varie sale, è allestita l’espo-sizione, ma anche le stradine adiacenti. Giriamo tra tele appese un po’ ovun-que di diversi pittori e le opere di Mustafà, grandi suggestivi bronzi posti sudiversi piani e raccolti tutti in una stanza.

Arriviamo al ristorante per la cena attraverso stradine animatissime, pie-ne di luci e colori. Il ristorante è una vecchia casa che assomiglia a un nego-zio d’antiquario: vetrine con gioielli, pugnali, ceramiche sono sparse qua e làtra mobili, divani e specchiere che formano un arredamento accogliente. Il buf-fet è ricco, specie certi vassoi di piccoli dolci allettanti. A fine cena un dervi-scio dall’abito bianco a campana ci ipnotizza con i giri della sua danza.

Tornando in albergo, prima di addormentarmi, sfoglio pubblicazioni eguide su Damasco in cerca di qualche particolare, qualche ultima curiosità.

Scopro la testimonianza di un antico viaggiatore, Muhammad ibn Giu-bayr, cittadino dell’Andalusia islamica di ritorno da un pellegrinaggio alla Mec-ca, che nel 1184 raggiunge Damasco e vi si ferma per un mese. La sua mera-viglia dinanzi alla città che gli arabi definiscono “Paradiso d’Oriente” è vibran-te e intensa. Ma ancor più acuto è il realismo che lo porta a osservare e poi ariferire nella sua “Rihla”, una delle più celebri relazioni di viaggio della lette-ratura araba, le usanze e i caratteri degli abitanti.

Ecco cosa dice, fra l’altro, di Damasco: “Questo è l’ultimo dei paesi del-l’Islam da noi percorsi, è la sposa novella delle città che abbiamo ammirato.

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Essa era adorna di fiori di piante profumate, e si mostrava nello splendore deivestiti di broccato dei giardini. I suoi ruscelli, come serpi, corrono tortuosi perogni via, e le sue aiuole fiorite spandono un alito leggero che vivifica gli spiri-ti….È il luogo dove la bellezza pernotta e fa la siesta….Se il Paradiso è in ter-ra, senza dubbio è Damasco; se è in cielo, essa è tale che rivaleggia in gloriacon lui e gli sta alla pari”.

Alcuni secoli più tardi, Mark Twain, a proposito della stessa città, aggiun-geva: “Vai indietro quanto vuoi nel passato, e Damasco c’è sempre stata. Essanon misura il tempo con i giorni, i mesi, gli anni, ma con gli imperi che ha vi-sto nascere, prosperare e andare in rovina. Ha assistito alla costruzione di Roma,l’ha vista coprire il mondo con la sua ombra, ed era lì mentre moriva……”

***

“Allo scopo di presentare alcune forme poetiche e di aprire la porta allaletteratura araba in un momento in cui è importante sviluppare il dialogo trai popoli e le culture per consolidare forme pacifiche di convivenza”, BassamRaja nella raccolta scovata al Bagdad Cafè, da lui curata e tradotta, selezionacinque poeti siriani e ci lascia, tra le altre, la voce di Ahmed Yussef Daoud, poe-ta e scrittore, direttore della rivista settimanale “Teshrin Al-Osbouei”:

Lettera ai poeti

So che le parole riposano semprenelle cartee che il mondo bello lo costruiamo di carta,e il cerchio del tempoe i desiderie il fuoco superstizioso,e il quadro dell’infanzia verginale,e la sua attesae il bel sogno di libertà.So che tutto è enigmaticogridatosofferente nella carta,però attenzione che vediamo le baionette neinostri occhie sotto: i nostri cuori di carta !!

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“LE PAROLE ERANO QUASI LA MIA SOLA REALTÀ”.

PER UN’ANALISI “SOCIOLINGUISTICA” DEL «RACCONTODELLA PIATTOLA» DI TOMMASO LANDOLFI

di Costanza Geddes da Filicaia

Sulla figura intellettuale di Tommaso Landolfi esiste ormai un’ampia earticolata bibliografia1: non è dunque nostra intenzione proporre, in questa oc-casione, un’analisi complessiva della sua poetica, bensì ipotizzare una chiavedi lettura di alcuni aspetti del modo di scrivere landolfiano e del suo rappor-to con il linguaggio e le parole. In un passo di Ombre, il volume del 1954 cheraccoglie una serie di racconti di Landolfi, lo scrittore rievoca il periodo ado-lescenziale trascorso, peraltro analogamente a quanto era avvenuto a Gabrie-le d’Annunzio, al liceo «Cicognini» di Prato. Ripercorrendo quegli anni, egli cosìsi esprime a proposito del suo rapporto con la lettura di libri e, più in genera-le, con la letteratura: «Io avevo una sorta di religioso, e superstizioso, amoree terrore delle parole (che mi è rimasto poi a lungo), sulle quali concentravotutta la carica di realtà, invero scarsa, che mi riusciva scoprire nei vari ogget-ti del mondo; più semplicemente, le parole erano quasi la mia sola realtà»2.

È d’altra parte noto come il tema del linguaggio, e dell’invenzione del lin-guaggio in particolare, abbiano in Landolfi un’importanza essenziale: si pen-si, ad esempio, alla raccolta Dialogo dei massimi sistemi, del 1937, e all’omo-nimo racconto, che dà il titolo all’intera opera, nel quale il protagonista è unpersonaggio che scrive poesie in una lingua ignota insegnatagli da un non me-glio identificato «persiano». Tuttavia, se è accertata l’importanza del linguag-gio nel sistema di pensiero landolfiano, bisogna però considerare come la re-miniscenza autobiografica, evocata in Ombre, contribuisca a porre la questio-ne in un’ottica assolutamente particolare: viene infatti messo in risalto che, quan-tomeno in età adolescenziale, l’autore ha vissuto interamente assorbito in unarealtà verbale. C’è peraltro da chiedersi se, come probabile, ciò sia andato a sca-pito della piena fruizione di altre forme di realtà, quale ad esempio quella vi-siva e se dunque ciò che lo circondava fosse in quella fase definibile, per Lan-dolfi, non in base alle immagini ma primariamente, o esclusivamente, attraver-so le descrizioni verbali.

Notoriamente, il linguaggio è prerogativa umana, poiché non lo possie-de nessun altro animale, ivi comprese quelle scimmie antropomorfe, con cui

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1 Si vedano in particolare gli atti dei seguenti convegni: La liquida vertigine: atti delle giornate distudio su Tommaso Landolfi, a cura di Idolina Landolfi, Firenze, Olschki, 2002, Gli altrove di Tom-maso Landolfi, a cura di Idolina Landolfi e Ernestina Pellegrini, Roma, Bulzoni, 2004. Interessante,sebbene incentrata esclusivamente sull’attività traduttiva di Landolfi, la monografia di Valeria Pala,Tommaso Landolfi traduttore di Gogol’, Roma, Bulzoni, 2009.2 Tommaso Landolfi, Ombre, a cura di Idolina Landolfi, Milano, Adelphi, 1994, p. 103.

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condividiamo il 98,5% di DNA3 e che possono essere in grado, secondo il pa-rere degli studiosi, di produrre una sorta di linguaggio non verbale tramite ilquale instaurano una forma di comunicazione con i propri simili e anche congli uomini, ma che non sono in grado di creare una lingua né come strumen-to comunicativo né tantomeno come fatto culturale. In questo senso, apparesommamente curioso che proprio Tommaso Landolfi abbia, quantomeno in gio-ventù, individuato nelle parole il suo mezzo precipuo, se non addirittura esclu-sivo, di approccio con la realtà: infatti egli ha in seguito scelto di dare ampiospazio, nella sua narrativa, a esseri costituzionalmente incapaci di parlare comegli animali, o, alternativamente, a uomini dotati di caratteristiche animalesche,dei quali è inquietante, paradigmatico esempio, la donna-capra Gurù del roman-zo La pietra lunare del 1939. Più precisamente, Landolfi crea un vero e proprio«bestiario» in cui dominano insetti repellenti e animali mostruosi dietro le cuisembianze orrende si annida però una sottile capacità fascinatoria; peraltro al-cuni di essi, come il «porrovio» e le «labrene», non esistono realmente ma sononati dalla multiforme fantasia dell’autore.

Va peraltro notato che la scelta landolfiana di privilegiare nelle sue ope-re personaggi i quali, per loro natura, sono privi di linguaggio comporta da par-te dell’autore un frequente sovvertimento della realtà stessa poiché egli attri-buisce ad alcuni di essi, nella finzione narrativa, la facoltà di parlare.

A ciò va aggiunto che il grado di stupore ingenerato nel lettore da que-sti animali parlanti è naturalmente soggetto a variare a seconda della partico-lare natura di questi stessi esseri: ad esempio, il fatto che si attribuisca facol-tà di parola alla donna-capra Gurù non desta particolare stupore poiché essaè dotata, accanto all’identità animalesca, anche di una essenza umana dalla qua-le si potrà dunque far dipendere la sua capacità di parlare. Molto più curiosoappare invece il caso del Racconto della piattola che costituisce il segmento nar-rativo finale della Spada, raccolta risalente al 1942 e dunque appartenente auna fase prettamente narrativa che precede la svolta diaristica aperta, nel 1950,da Cancroregina.

Di questo brevissimo testo, di cui è protagonista il repellente insetto giàevocato da Landolfi, con termine sinonimico, nella raccolta di racconti Il mardelle Blatte, risalente al 1939, diamo di seguito la trascrizione integrale:

Io, piattola, vivevo in un bosco folto e mi aggiravo beata; quello era ve-ramente il mio regno. La mia vita scorreva felice, traevo per il mio nutrimen-to colla massima facilità dalla terra il mio rosso succo, deponevo la mia pro-genie in sicurezza nel proprio involucro a piè d’un tronco, e insomma nulla tur-bava la nostra fiorente colonia. Ma un giorno sentii la terra raggelarmi sotto,il suo succo, pari a una linfa stagnante, si rapprese e acquistò un gusto di mor-te. Nel gelo, in un mondo rabbuiato dunque finii. Ora, di questo non voglio in-colpare nessuno, neanche chi ci ascolta di lassù: può darsi (sebbene io non locreda) che così dovesse essere e che sia stato bene. Ma voi, uomini che intra-

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3 Si veda, a questo proposito, il volume di Guido Barbujani, L’invenzione delle razze. Capire la bio-diversitá umana, Milano, Bompiani, 2006. Ovviamente, il dato riguardante la condivisione del 98,5%del DNA con le scimmie antropomorfe, certamente di per sé impressionante, desterà minore im-pressione se si considera che gli esseri umani condividono parimenti il 40% del DNA con i mosce-rini della frutta.

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vedo nell’ombra, perché mi guardate in atto superbo? Tale sarà anche la sor-te dei vostri simili un giorno4.

Si noti innanzitutto come la piattola, che si autopresenta come tale («Io,piattola»), affermi che la sua vita nel bosco, suo regno, dapprima beata e felice,è poi finita risucchiata dalla terra, in un mondo rabbuiato e gelato. Essa non cer-ca colpevoli per questa fine, non esprimendo risentimento o rancore nemmenoverso l’Onnipotente, da lei indicato con la perifrasi «chi ci ascolta di lassù». Tut-tavia, nel finale si scaglia contro gli uomini, da lei accusati di guardarla “in attosuperbo”, profetizzando che la loro sorte sarà, un giorno, simile alla sua.

Appare importante precisare che non si verifica qui il caso di un auto-re che si faccia interprete del presumibile stato d’animo della piattola e lo ren-da in parole, così come avviene, pur fatte naturalmente le debite proporzioni,allorquando Alessandro Manzoni si arroga il compito di palesare, nell’ “Addioai monti”, con parole auliche e con tono elevato, quei pensieri che agitano lamente di Lucia Mondella, ma che ella, priva di tali capacità e di adeguati stru-menti linguistici, non è in grado di estrinsecare, bensì il caso di un personag-gio, appunto la piattola, che parla direttamente e in prima persona. Utile a sup-portare questa interpretazione risulta d’altra parte il titolo stesso della pro-sa, laddove «della piattola» va interpretato come un complemento di specifi-cazione e non di argomento: si tratta dunque, parafrasando, del racconto pro-nunciato dalla piattola e non del racconto riguardante la piattola la quale in-fatti, lo ribadiamo, si arroga il diritto di parlare in prima persona.

Ciò detto, resta evidentemente da spiegare quali siano gli elementi so-ciolinguistici, quantomeno in senso lato, di questo racconto. A nostro giudi-zio, la valenza sociolinguistica del Racconto della piattola consiste nel fatto chel’animale dà una immagine, e una definizione, di sé, del suo carattere e, dicia-mo così, del suo ruolo nell’ordine cosmico, primariamente attraverso le scel-te linguistiche: la sua lingua è infatti piana e pur tuttavia del tutto corretta senon addirittura, a tratti, ricercata come in espressioni quali «traevo per il mionutrimento» oppure «mi guardate in atto superbo». Inoltre, l’uso dei tempi ver-bali appare sia corretto che sapientemente equilibrato poiché, nei momenti dievocazione del passato, si verifica l’uso dell’imperfetto e del passato remoto,mentre il presente e il futuro sono i tempi verbali utilizzati nell’invettiva con-tro il genere umano e nella susseguente profezia di sventura.

Conducendo, dunque, un ragionamento sul filo dell’assurdo – e tuttaviacoerente con i presupposti del racconto – possiamo affermare che la piattolaè un personaggio perfettamente compos sui, dotato di un livello di cultura piùche accettabile e pertanto in grado di dialogare alla pari con gli uomini ai qua-li formula sagge osservazioni nonché profetizza future sventure. Essa risultadunque, almeno da un punto di vista linguistico, sociologicamente pariteticarispetto a un qualsiasi essere umano dotato di strumenti culturali medio-alti.Appare pertanto opportuno domandarsi quale messaggio sia sotteso alla scel-ta di creare questa saggia bestiola capace di esprimersi, per così dire, in ita-liano standard e di regalare al genere umano acute perle di saggezza: da par-te nostra riteniamo che se Tommaso Landolfi, il quale così tanto amava l’espres-

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4 Tommaso Landolfi, La spada, Milano, Adelphi, 2001, p. 131.

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sione verbale, ha equiparato il linguaggio della piattola a quello di un essereumano, egli lo abbia fatto nell’intenzione di eliminare ogni prevalenza dell’es-sere umano non solo sugli animali in generale, ma anche sul più infimo deglianimali, cioè su un disgustoso insetto strisciante, assestando così un durissi-mo colpo ai principi basilari dell’antropocentrismo cosa che, se certo è in li-nea con la tendenza landolfiana a scegliere figure di animali o di uomini zoo-morfi quali protagonisti delle sue opere, è tuttavia particolarmente sorpren-dente se si considera come la piattola si ponga a una distanza siderale, quan-tomeno nell’immaginario collettivo, da ogni prerogativa antropomorfa. Proprioper questo ci sentiamo di affermare che una situazione narrativa di tal gene-re non abbia sostanzialmente alcun preciso antecedente letterario. Notoriamen-te, infatti, molte opere letterarie propongono le figure di animali saggi, ovve-ro profetici, a partire dai protagonisti delle favole di Fedro, nelle quali tutta-via lo scopo pedagogico limita fortemente il valore letterario dell’opera, per giun-gere al gallo silvestre delle Operette morali leopardiane. Tuttavia, in nessunodi questi casi le doti locutorie sono attribuite a un insetto. Costituisce certa-mente una parziale eccezione la favola di Esopo dedicata alla cicala e alla for-mica, riproposta nel XVII secolo da Jean de La Fontaine, grazie al quale l’apo-logo acquistò nuova fama. Vi troviamo rappresentata una saggia formica chelavora indefessamente tutta l’estate per accumulare scorte di cibo ed affron-tare così in tranquillità i rigori dell’inverno; al contrario, una irresponsabile ci-cala passa le belle giornate estive dedita a svaghi e a esibizioni canore. Quan-do infine giunge l’inverno, la cicala avverte i morsi della fame e chiede dunquealla formica di donarle del cibo. Ma il saggio insetto domanda alla cicala checosa abbia mai fatto durante l’estate: alla replica di quest’ultima, che ammet-te di aver cantato, la formica risponde duramente “allora adesso balla!”, rifiu-tandosi così di prestarle soccorso. Se gli elementi di affinità tra la favola pro-posta da Esopo e da La Fontaine da un lato e il racconto landolfiano dall’altrorisiedono nel fatto che in entrambi i casi si attribuisce a degli insetti la capa-cità di parlare, va però rilevato come quello della cicala e della formica sia inbuona sostanza un apologo, peraltro ammantato da forte intento pedagogico,nel quale i due insetti dialogano e assumono dei caratteri che sono loro pro-verbialmente attribuiti, essendo la formica notoriamente identificata come ani-male laborioso, relativamente longevo, inquadrato in una rigida struttura or-ganizzativa per molti versi simile a una forma embrionale di società e invecela cicala destinata a una esistenza estiva racchiusa in non più di tre settima-ne di continuo frinire5. Al contrario, la piattola creata da Tommaso Landolfi as-sume caratteri di profetica saggezza del tutto alieni alla sua raffigurazione nel-l’immaginario collettivo e si permette inoltre non solo di parlare, ma anche dirivolgersi, quasi si trovasse in una dimensione iperuranica, al genere umanonella sua interezza del quale, al contrario del metamorfico scarafaggio kafkia-no, non è peraltro mai stata membro a nessun titolo.

In questo senso, il precedente più diretto e calzante a cui Tommaso Lan-dolfi potrebbe essersi ispirato è verosimilmente il grillo-parlante delle collo-

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5 A puro scopo di completezza ricordiamo che le formiche operaie possono vivere fino a dieci anni,mentre la regina può raggiungere i venti anni; la vita delle cicale è invece di due-tre anni nella for-ma larvale e solo di tre settimane circa nell’ultimo stadio di sviluppo. Il canto è emesso dagli esem-plari maschi come forma di attrazione nei confronti delle femmine al fine dell’accoppiamento.

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diane Avventure di Pinocchio i cui motti, rivolti al burattino antropomorfo,hanno certamente una valenza profetica. Inoltre, tanto il grillo quanto la piat-tola finiscono schiacciati da un essere fisicamente più forte: nel caso del gril-lo, l’assassino è Pinocchio stesso accecato dall’ira ma, come noto, il grillo saràoggetto di una ben misteriosa resurrezione palesandosi così in molti altri epi-sodi del romanzo e financo nella parte finale dello stesso, laddove sarà pro-prio lui a procurare un confortevole alloggio a Geppetto e al burattino ormairedento e in procinto di trasformarsi in bambino; nel caso della piattola, in-vece, il colpevole è un anonimo essere umano indifferente al destino-e fors’an-che alla stessa esistenza-dell’insetto strisciante. Va tuttavia rilevato, anche inquesto caso, il fatto che attribuire capacità di parola a un grillo rappresentiuno sforzo immaginativo meno accentuato rispetto a quello operato da Lan-dolfi poiché questi insetti, al contrario delle afone piattole, emettono un ver-so comunemente definito «canto». Ciò posto, il principio ispiratore appare tut-tavia simile per entrambi gli autori e consistente nella volontà di sovvertireil dogma antropocentrico secondo il quale solo l’uomo è dotato di capacità lo-cutoria. Andrà d’altra parte ricordato che il romanzo collodiano, così come mol-ta narrativa landolfiana, è a sua volta popolato da numerosi animali parlan-ti; inoltre, se la metamorfosi più celebre del romanzo è quella del burattinoin bambino, evidentemente volta ad affermare la preminenza della natura uma-na su altre condizioni esistenziali, va tenuto presente che nell’opera si veri-ficano anche metamorfosi di altro genere come quella in asino dello stessoPinocchio e dei suoi accidiosi amici, i quali perdono però, a causa della loronuova essenza asinina, la capacità di parlare, e quella della fata turchina incapretta, anch’essa peraltro capace, in questa nuova condizione, di esprimer-si solo tramite belati.

Se dunque va indubbiamente postulata un’influenza, su Landolfi, del mo-dello collodiano, che appare il più diretto ispiratore del Racconto della piat-tola6, pur date le differenze già poste in evidenza e pur ribadendo come talefolgorante, brevissima narrazione landolfiana costituisca, nelle sue caratteri-stiche complessive e nella sua forma quasi aforistica, una sorta di unicum quan-tomeno nel panorama letterario italiano, resta ancora da chiarire pienamenteil significato della perdita di antropocentrismo che questa narrazione denun-cia, peraltro in evidente continuità con quanto avviene nelle altre opere di Lan-dolfi. In questo senso, vorremmo proporre una chiave di lettura fors’anche gio-cata sul filo del paradosso e pur tuttavia sostenuta, a nostro parere, da alcu-ni elementi di riscontro. Se infatti da un lato non vi è dubbio che attribuire ildono della parola a esseri non umani rappresenti per molti versi un netto scac-co all’antropocentrismo7, va tuttavia notato il fatto che un insetto come la piat-

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6 Vorremmo segnalare come Gabriella Maleti inserisca nella raccolta di racconti Sabbie (Firenze, Gazebo,2010) una narrazione dal titolo La blatta nella quale l’insetto, pur privo di favella, è tuttavia correlativooggettivo della angoscia esistenziale che attanaglia il protagonista in forma sempre più accentuata.7 Si ricordino, d’altra parte, le implicazioni teologiche legate alla creazione della lingua, all’idea del-la nominatio rerum ad opera divina e della moltiplicazione delle lingue in forma di punizione a se-guito dell’empio gesto di tentare la costruzione della torre di Babele. All’uomo, plasmato a sua im-magine e somiglianza, Dio attribuisce la favella: ipotizzare, come fanno Landolfi e Collodi, pur que-st’ultimo in un contesto favolistico comunque denso di chiavi interpretative complesse, che la ca-pacità di parlare sia propria anche di altri esseri oltre all’uomo, contrasta ovviamente con i più con-solidati principi della tradizione ebraico-cristiana.

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tola, comunemente percepito come disgustoso e ributtante, acquisisce digni-tà e -per così dire- credibilità, giungendo pertanto ad insidiare l’antropocen-trismo, solo allorquando assume la caratteristica più peculiare dell’uomo, quel-la propria soltanto dell’ἄνθρο�ος e nemmeno della scimmia antropomorfa purdotata di un 98,5% di DNA in comune con l’uomo, e cioè la capacità di parola.Da ciò ne consegue che, in fin dei conti, l’unica possibilità per la piattola lan-dolfiana- e per tutti gli animali parlanti- di contendere all’uomo la centralitàconsista nell’umanizzarsi alla massima potenza, mutuando dall’odiata razzaumana proprio la parola che è sua caratteristica e fors’anche suo privilegio pe-culiare. Tommaso Landolfi affermava, l’abbiamo ricordato all’inizio di questostudio, che nei suoi anni giovanili le parole erano state, per così dire, la sua solarealtà8. Appare legittimo chiedersi se esse, nella congerie di esseri zoomorfi edi ibridi che popolano il suo orizzonte narrativo così superbamente allucina-to, non siano state alla fin fine la sua sola certezza.

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8 Tommaso Landolfi, Ombre, cit., p. 103.

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UNA POESIA

di Bruno Bonfanti

ELEGIA DELL’OSTERIA DEL FERRO SETTE

Qui, in alto, sulla Costa degli Orecchi,tra goffi resti dell’incendio estivo,il simposio notturno si è disperso.Con risa un po’ artefatte e abbracci monchisi è spento, ormai, l’afoso cicaleccio.Mute per la distanza, all’orizzonte,le gocciole di fuochi artificialimuoiono nella pece opaca e densache la luna trafigge col suo raggio.La intermittente sistole del faroaccarezza la fitta ragnateladi lumi che imprigionano la notte.Del brulichio che trepida nel buiocercano un senso la vecchiaia e il vino.Ma la festa è finita ed è calatosulle quinte di scene consueteil sipario che limita il proscenio.Mentre rumino sillogi avventatepoggia Saturno, il vecchio, la sua manosulla mia spalla ed è lieve ed è greve,il suo sguardo accorato è piombo e fumo.Ha con sé il sestante e l’astrolabio,la cabala ed i numeri segretie la cieca Signora che dispensaalla Rosa dei Venti semi e spore.Forse è concluso il giro del compassoma non, certo, è l’addio quello che avverto.(Pulsante è il ribollio del non finito)Ecco, rivivo l’agonia perennela lunghissima storia della mano,l’essere enzima, l’essere concime,l’essere ameba ed aver scelto il dubbio,l’essere altro in altri ed in me stessoe l’ardente roveto e il mare urlantee la guerra e la pace ed il fardelloche fermenta nel mosto sconfinato.Questo mi basta. Anche il gufo, ora, tace.Mi sento eterno. È l’alba. Mi addormento.

(Riproponiamo questa poesia in quanto nel numero scorso della rivista era stata

pubblicata solo in parte.)

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ti Elegia dell’osteria del Ferro Sette

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UNA POESIA

di Fabio De Mas

VENT’ANNI A PARIGI

Tutto quel francese ci piovve addosso improvviso,nelle sere di voli pindarici e pastis a buon mercato.Noi provinciali entusiastidi rive gauche e dei nostri vent’annisegnati più che da Sartre e Baudelairedai capelli e dallo sguardo d’inarrivabili venerei.Tavolini all’aperto, bistrote croissant per cena,ma come erano dolci di futuro quelle notti:scopriremo, andremo, ameremo.Con la tenerezza degli sprovvedutirespiravamo sogni, tepori di promessee bastavamo a noi stessi,artisti e letterati,veri e sinceri come le stelle ad agosto.Sarà stato il Louvre o il quartiere latinoa convincerci che la vita fosse solo en rose,a illuderci di essere immortali,a farci innamorare di tutto quelloche saremo potuti diventare.Ora chissà, amico mio, se fumi pipe,se ti sei arreso e sfogli i ricordi e la malinconia,se rimpiangi perfino tutto quel franceseche ci piovve addosso improvvisosenza che avessimo neanche un ombrello,o un grano di consapevolezza,per difenderci dai nostri vent’anniche svanivano piano nell’alba parigina.

Fabio

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UNA POESIA

di Gian Citton

RANE

Cό le se senta le se pùja saldecome ‘n sass tondo a far da fermacarte,e le te varda spanzhade come ‘n Budha.

Invezhe te ‘l saltar, cό le se studiaa slongarse pì in là quant che ghe basta,le à ‘l ‘lastico planar de ‘n paracadutista.

Le mόr schinzade su l’asfalto comete l’ultim’ato mόre el tenor cantandoa testa alta e co le man in crόse.

E le me incanta cό le scanpa vianodando su ‘n pel d’aqua de posain precisi triangoli quilàteri

co quele zhate che no l’é pì zhatema ganbe fine de na balarina.

Parché mi sò che drento ‘l cόr ghe batel’estro de n’étoile pariĵna.

RANE – Quando si siedono si poggiano salde / come un sasso rotondoche fa da fermacarte, / e ti guardano spanciate come un Buddha. // Invece nelsalto, quando provano / ad allungarsi più in là quanto basta, / hanno l’ela-stico planare di un paracadutista. // Muoiono schiacciate sull’asfalto come /nell’ultimo atto muore il tenore cantando / con la testa alta e con le mani incroce. // E mi incantano quando fuggono via / nuotando su un pelo d’acquadi stagno / in perfetti triangoli equilateri // con quelle zampe che non sonopiù zampe / ma gambe sottili di una ballerina. // Perché io lo so che in cuoregli batte / l’estro di una étoile parigina.

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i Computisteria Rossa

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UNA MANIERA DI SOPRAVVIVEREDi Guido Zavanone

“Non trovando il modo di evitare il do-lore”, Evelina De Signoribus gli viene in-contro con questi versi che guardano“con occhi asciutti” la condizione uma-na, qui e ora, nello scenario sconvolto –e, nella quotidianità, banale – di una ci-viltà, quella occidentale in particolare, incrisi; nella quale è vano cercare certez-ze, punti fermi, segnali. Ci aggiriamo nella desolazione che ci at-tornia e che è anche in noi, senza nep-pure conoscerne le cause; quando, d’im-provviso, “tra sedute e tran tran quoti-diani / ci accorgiamo di essere feriti”.Così scrive la De Signoribus nella sua rac-colta Pronuncia d’inverno. Un inverno incui è difficile “distinguere i vivi dai mor-ti” per la nebbia che sale azzerando anchela mente, cancellando comprensione e ri-cordi, sommergendoci nella routine avvi-lente delle lavatrici, delle fatture, delle car-te bancomat.Ci accoglie “immaterna” una terra di nes-suno, dove l’alba d’ogni giorno ha “i no-stri occhi sgomenti”, e ci avvolge e ac-compagna la solitudine. Qui anche le parole perdono senso,sono puro suono, “tutto quello che vie-ne detto è irrilevante”, è già stato ascol-tato.Solo il silenzio è annuncio: del nulla, di cuiè immagine, mentre, nella casa avita, il tar-lo del tempo “rosicchia le antiche icone difamiglia”. Anche il nonno è uno sconosciu-to nella casa, però lo si può immaginareseduto al fianco di Evelina, che salva gli af-fetti: “Io lo riconoscerei da un profumo mi-sto a tabacco, / sillaberei il suo nome / pri-ma della presentazione, / quantifichereiil suo avvenire, / la sua voglia di vivere /o la sua noia. / Lo chiamerei figlio / comeuna madre…”.Ma la stessa identità personale va perden-dosi (“Mi chiedo se sono ancora io / se

ancora sono in possesso del mio corpo…Cerco un ricordo di lui”); come in un so-gno, si confondono le generazioni.Resiste, a dirci vivi, il dolore, più umanoquando lo si conosce: quasi un famiglia-re che ci sta accanto fedele. E tuttavia noisiamo inerti dinanzi al dolore degli altri,non abbiamo la forza di correre in soccor-so a medicarne le ferite (“Dovendo conclu-dere io contemplavo la ferita di Emma /che Anna lasciava sanguinare”).Anche il semplice contatto con gli altri ciappare penoso (“Divincolarsi o semplice-mente uscire / da questa folla domestica”).Ogni giorno – conclude la poetessa – spe-rimentiamo “la beffa del vivere”, treman-do “al presente e al futuro”.Si può, in questa rappresentazione scon-solata della discesa umana nel vuoto, nelnon senso, scorgere un barlume di spe-ranza? Forse sì, se qua e là si accenna auna preghiera, se la poetessa ci dice: “Cer-co di rialzarmi”, “di partire dai nomi del-le cose certe” se, nella poesia che chiu-de la raccolta, invoca: “Aprimi uno spi-raglio” e confida alla persona amata: “…nella paura improvvisa di non vederti più/ mi sento viva…”.Come osserva molto bene Enrico Capo-daglio nella sua acuta e partecipe prefa-zione, “È grazie alla sopravvivenza delcuore (…) che la sua poesia si fa illumi-nare, se non scaldare, da un fuoco nasco-sto di natura, che brucia profetando som-messamente”.Resta a dire che questa raccolta poeticadi Evelina De Signoribus mostra, con af-fascinante contraddizione, una viva,perdurante fede nella virtù delle parole,che essa piega a rendere, con rara effi-cacia – anche attraverso immagini emetafore di spiccata originalità – i suoicangianti stati d’animo, il suo opporsi,nonostante tutto, al male e, nel tempo incui siamo chiamati a vivere, alla soffocan-te banalità dell’esistenza. L’inverno è“pronunciato” con una musicalità diffi-

PROSPEZIONI Letture di Antonio De Marchi-Gherini, Rosa Elisa Giangoia,Giuliana Rovetta e Simone Turco

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cile e volutamente contrastata, ma è unamusicalità che viene dal profondo, dal-l’intimo della sua “anima corporale”.

Evelina De Signoribus, Pronuncia d’inver-no, Ed. Canalini e Santoni, Ancona 2009,pagg. 72, € 12.

PAESAGGI DI POESIADi Antonio De Marchi-Gherini

Se dobbiamo crederci, Paesaggi inospiti,dovrebbe essere l’ultima fatica poetica diGiampiero Neri, e titolo mai fu più calzan-te per i tempi e i luoghi, del corpo e del-lo spirito, che viviamo in questo primoscorcio del nuovo secolo e del terzo mil-lennio dell’era cristiana. Come nelle pre-cedenti raccolte, più volte rimaneggiate,accorpate, limate; Paesaggi inospiti nonè terra di spreco. Si ravvisa una levigatez-za di linguaggio e una strutturale e sa-piente sintassi classica che è merce raradi questi tempi, sia in prosa che in poe-sia. Linguaggio dicevo, e d’altra parte giàsottolineato da più parti, ridotto alla puraessenza, non solo controllo dello scialoverbale ma anche emozionale, questa èla cifra stilistica di Neri, che ne fa un casounico nel panorama della poesia contem-poranea italiana. Non è neppure regionedi canti salmodianti o di tiritere, tanto perriempire pagine, anche se una religionelaica, una pietas per gli uomini, gli ani-mali e le cose è ben presente; religione in-tesa come religo: tenere insieme, primache il tempo cancelli tutto. Il poeta sca-va minuziosamente in profondità allaricerca dell’eterna sorgente dell’essere edell’esserci, qui e ora, con il suo carico dimemoria dolente ed euforica ad un tem-po. Un’euforia particolare, quella gioia chescaturisce per improvvise folgorazioni dimemoria che una via, un monumento,una piazza, anche solo una nenia o unprofumo, ci riporta magicamente indie-tro nel tempo, ladro dalle mani rapaci.Con un amore quasi maniacale, parreb-be che il nostro si trovi più a suo agio congli animali che con gli esseri umani, ecome dargli torto. Queste creature, a vol-

te indifese, non sanno commettere le atro-cità che l’uomo d’oggi come quello di ieriè capace di mettere in atto. Amore per glianimali, anche se a volte usato come pre-testo descrittivo, per raccontare altro, chericordano il Gozzano dei Colloqui. Ma lesue poesie, da sempre, fanno venire allamemoria le nature ‘morte’? di Morandi.Spoglie all’osso ma con una luce semprecrescente, cambio d’angolo, aggiusta-mento di prospettiva o ‘occhio di bue’, perilluminare zone d’ombra. Eppure, pur nelverso libero, le sue poesie hanno un rit-mo, una musicalità interiore, il suo,però, è un solfeggiare a togliere, più chea mettere. Quasi a scolpire una sintesi nelgranito, più che a scrivere, conscio chetanto rimane poco o nulla di tutto l’affan-narsi a vivere e a scrivere. Per dirla conPaul Valéry: ”Quello che colpisce in lui ece lo rende vivo, è la consapevolezza disé; dell’essere interamente raccolto entrola propria attenzione; e l’acuta coscien-za delle operazioni del pensiero, co-scienza così volontaria e così esatta chepuò fare dell’Io uno strumento la cui in-fallibilità dipende soltanto dal grado dicoscienza che egli ne ha”. La vita di ognu-no diventa paradigma del male e della sof-ferenza universale: “La madre non ne ave-va sopportato il lutto, / ed era stata trova-ta annegata / nella piscina della villa, /i suoi gioielli in ordine sul bordo / sen-za nessun messaggio”. E qui un doloreatroce, quando il poeta aveva solo diciot-to anni, dolore che si sommava ad altrodolore di cui, dopo un rovello durato unavita, Neri è riuscito a ‘liberarsi’ calibran-do il tiro al millimetro. “Quella mattinadi novembre / aveva visto l’arrivo di suopadre / davanti alla scalinata del Terrag-ni. / Nell’abbracciarlo la bicicletta eracaduta a terra, / “ se erano tutti da am-mazzare” / aveva detto “doveva esserel’ultimo”. / Ma come sfuggire all’idea che:/ a sentire il contadino / che guidava ilcarretto / l’asino sia stato colpito / da unapallottola vagante / Si era trovato sullascena / di un crocevia conteso / negli ul-timi sussulti della guerra / e come uneroe di Metastasio / vi era condotto a

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morire”. Questi versi, che idealmentechiudono la trilogia iniziata con L’abitooccidentale del vestito (1976), seguita poida Armi e mestieri (2004) che includevae arricchiva Teatro naturale (1998), han-no la forza quieta della memoria che re-sta tale come sigillata in istantanee sen-za tempo, che forse ingialliranno unpoco, ma, sia pure con il pudore del na-scondimento e la rappresentazione mi-metizzata di un ‘bestiario sociale’, han-no la peculiarità di ridare dignità e sen-so ai fatti e alla realtà vissuta ma sem-pre presente. Il poeta però è cosciente chetutto scorre, o come direbbe un buonbuddista, tutto è impermanente, ma losforzo e la ‘fatica’ della scrittura è pro-prio questo remare controcorrente perrisalire al punto alfa, da dove nascono esi generano tutti gli eventi del destinopersonale, epperò universali se è vero,come amava ripetere David Maria Turol-do, che ogni uomo è un’esperienza uni-ca e irripetibile, con tutto il suo carico dieventi, di gioie, di sofferenze, insommaquella che con un termine abusato, mache trova pochi sinonimi, si chiamavita.

Giampiero Neri, Paesaggi inospiti, Mon-dadori, Milano 2009

SU COSA SI FONDA IL MONDO?Di Rosa Elisa Giangoia

Il nuovo recente libro di Giovanni Caso-li Sul fondamento poetico del mondo, èun testo molto originale, in quanto si av-vale della produzione dell’autore siacome poeta che come saggista e narra-tore per indagare quale sia il fondamen-to del mondo. L’ispirazione poetica por-ta l’autore a penetrare oltre l’opacità del-la realtà presente per individuare quel-la realtà che ne sta al di là e che si rive-la progressivamente come quella auten-tica, che consiste appunto nel compren-dere che “abitare poeticamente su que-sta terra è la misura dell’uomo”, comedice Hölderlin. Secondo Casoli, la cultu-ra di oggi è nemica della poesia, è

un’”incultura”, in balia degli ingaggimercenari, contro cui lui cerca di com-battere usando gli strumenti intellettua-li dell’idealismo e del preromanticismonella loro valenza diacronica, cioè univer-sale. È la poesia che, in recupero fosco-liano, come ben afferma l’autore nel con-clusivo testo Un appello per la poesia, savincere sul tempo e sa riscattare inogni tempo l’impoeticità contingente,consolando gli individui sensibili e capa-ci di trascendere il presente, con i suoilimiti e i suoi lati negativi, per attingere,al di là dell’effimero, la dimensione as-soluta della poesia. Queste idee, che bencostituiscono un’organica poetica, ven-gono espresse dall’autore nella primaparte del testo in gustosi capitolettinarrativi, garbatamente venati di ironiae di autoironia. Ad essi segue la secon-da parte, rappresentata da delle episto-le (Sulla poesie. Lettere), che, come giu-stamente dice Giovanni D’Alessandro nel-la prefazione, possono essere interpre-tate come un protrèpticon, cioè un’esor-tazione ad un giovane per incamminar-si sulla strada della poesia, ma, attraver-so le quali, secondo la più consolidata ti-pologia classica di questo genere lette-rario, l’autore chiarisce a se stesso, argo-mentandole, le questioni che a mano amano si presentano alla sua mente.L’impegno e lo sforzo sono per l’autorequello di individuare –osiamo dire- laquidditas della poesia, quella vera, auten-tica, che, riprendendo ancora Hölderlinfa sì che “Pieno di meriti / ma poetica-mente / abita l’uomo su questa terra”. Inparticolare Casoli esprime il dubbio chela poesia possa ancora essere tale se lasi afferra, in quanto, a suo giudizio, “lapoesia è un trauma, un terremoto del lin-guaggio, un inatteso parlare che dice nondicendo le abituali parole”. Bellissima de-finizione della poesia, capace di esprimer-ne ad un tempo la forza e il mistero, lepotenzialità espressive e nello stessotempo il suo segreto. Si capisce allora chedire che l’uomo vive “poeticamente” suquesta terra, vuol dire che egli vive in unamaniera che non si può dire, che non si

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può adeguatamente esprimere, ma pro-prio nel balenio folgorante di questo scar-to, nell’inadeguatezza tra l’intuizione ela parola, sta il fondamento del mondoche ha proprio nella poesia la sua essen-za. Nell’ultima parte di questo testo (Cin-quanta progressi sul fondamento) Caso-li ci presenta la sua poesia, quella che ave-vamo già avuto modo di apprezzare inCinque poemetti (2002) e in La bellissi-ma perdita (2006) e che qui si dispiegain 50 componimenti, dal ritmo largo efluente, attraverso i quali il poeta cercaun progressivo avvicinamento proprioper raggiungere quella compiutezza diesprimere il “fondamento poetico delmondo” che solo la poesia stessa può riu-scire a dire compiutamente. A domina-re è il senso del capovolgimento delle opi-nioni comuni, correnti nella mentalità delnostro mondo e del nostro tempo. Adesemplificarlo sono sufficienti per la loroemblematicità questi versi: “Quandoverrà il momento della festa vera, / nonil lutto, ovviamente, che è anche passa-to di moda, / ma non vi venga in menteneppure di compiangere / (di piangeresì, se vi piace) o di sentirvi tristi.

Giovanni Casoli, Sul fondamento poeti-co del mondo, L’ora d’oro, Poschiavo(CH), pagg. 160. € 11.000.

LA RINASCITA DELLA FIDUCIADi Rosa Elisa Giangoia

Per scrivere un testo letterario bisognainnanzitutto affidarsi ad una lingua. Disolito la scelta è facile ed immediata, inquanto si privilegia quella materna, cheè poi quella del proprio paese, attraver-so la quale ci si è formati la propria cul-tura e della cui tradizione letteraria ci sisente in qualche modo partecipi ed ere-di. Non sempre, però, è così, e non sem-pre lo è stato nella storia, anzi propriodalle scelte non scontate e convenziona-li della lingua in cui scrivere hannoavuto origine inaspettati rinnovamentinella storia letteraria. Così è stato quan-do alcuni coraggiosi, in Sicilia e in Um-

bria, hanno deciso, pur per ragioni mol-to diverse, di abbandonare il latino e diusare il volgare per i loro testi, ma altret-tanto importante è stato, qualche seco-lo dopo, quando la nostra letteratura haripreso vigore proprio dal rinnovatocontatto con il mondo classico le cui lin-gue sono entrate vitalisticamente anchenella nostra letteratura, per venire poi alNovecento, quando scrittori dell’ImperoAustro-ungarico hanno voluto scrivere initaliano ed entrare, di conseguenza, perloro libera scelta, nella nostra letteratu-ra, o altri hanno deliberatamente utiliz-zato le lingue marginali delle loro ristret-te aree geografiche. Oggi emerge un altro interessante aspet-to della scelta del proprio linguaggio let-terario, quella di chi, emigrato da paesi lon-tani di altri continenti, sceglie di scriverein italiano, impegnandosi di conseguenzaanche a conoscere sempre meglio questanostra lingua per sfruttarne tutte le pos-sibilità espressive. La cosa aveva già avu-to negli ultimi decenni significativi esem-pi, ma soprattutto a livello di diario e dimemorialistica, mentre particolarmentesignificativa si sta rivelando la produzio-ne del senegalese Cheik Tidiane Gaye, giun-to con Ode nascente/ Ode naissante (Edi-zioni dell’Arco, 2009) alla sua seconda sil-loge bilingue, dopoIl canto del djali (2007)ed alcune opere in prosa. Un corpus poe-tico, ormai di una certa consistenza e disicuro rilievo, di un poeta di solida cultu-ra francofona, ma anche erede di una tra-dizione della voce, ovvero dell’oralità,che appunto porta alcune caratteristichedi questa prassi nella nostra lingua, pie-gandola e forgiandola per un’espressioneefficacemente comunicativa, non solo a li-vello della scrittura, ma soprattutto sul pia-no fonico. Il suo è un verso ricco di sono-rità (allitterazioni, rispondenze e richiami)e ritmato da cadenze, il che rivela un for-te legame con una lunga storia di oralitàancora vicina, palpitante di vita comuni-cativa. Bastano anche solo pochi esempiper capire che l’andamento dei versi diGaye è di ampio respiro, con elaborata ri-cerca di immagini che nascono sia dalla sua

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terra che dalla nostra, ma soprattutto dal-l’incontro di entrambe, grazie ad unapercezione acuta e fantasiosa: tutto que-sto vuol dire saper sfruttare al massimole possibilità espressive della nostra lin-gua, amplificandone le potenzialità. Gayeevidenzia un itinerario culturale ricco ecomplesso, in cui la sua formazione afri-cana di nascita, wolof e senegalese, si ar-ricchisce dell’apporto di esperienze lette-rariamente significative, come quelle diLéopold Sédar Senghor e Aimé Césaire, perapprodare all’adozione dell’italiano (linguavergine di implicazioni colonialistiche, adifferenza del francese lingua acquisita nel-la formazione scolastica e culturale post-coloniale), in cui esprimere il so mondo ela sua condizione. Proprio attraverso la pa-rola poetica viene così gettato un ponte percreare un collegamento con il passato epreparare il futuro, come dimostra il tito-lo stesso della silloge, Ode nascente, in cuila forma poetico-musicale della classicitàviene recuperata da questa poesia che lafa rinascere in un’esperienza transcultu-rale, vistosamente segnata dalla dialetti-ca dell’individuale e dell’universale, capa-ce di fondere il passato e il presente e dicreare un’apertura al futuro proprio attra-verso la connotazione della scrittura let-teraria. Nel leggere le poesie di Gaye abbiamol’impressione che le maglie del tessutolinguistico italiano si allarghino per farsì che la negritudine s’innesti nel solcodella nostra tradizione nelle notti quan-do le parole sorgono come semi, in unconcatenarsi di espressioni che sanno darvita ad una tramatura lirica in cui allaclassica Kora si affiancano i tam-tam egli spiriti protettori delle savane. La pa-rola è nuova anche se nasce scolpita nel-la corteccia dei baobab millenari e gran-de è la fiducia in essa, perché è la silla-ba che raccoglie le stelle dell’unico cie-lo / la parola che canta il grano della sab-bia / il peso del ritmo ed il tempio del-la cadenza. A dimostrare questa fiduciasono in particolare le liriche Parola eRima, mentre In memoria di Dante atte-sta la volontà e il desiderio di entrare in

una ben precisa tradizione culturale. An-che se si avverte la ferita dell’allontana-mento di tanti figli dall’Africa (Terra mia),dominante diventa il miraggio del nostropaese, visto nell’estrema sua propaggi-ne verso l’Africa: O Lampedusa, / perlasabbiosa, stenditi come una stuoia, / siiaccogliente per asciugare le nobili lacri-me. In questa prospettiva la fiducia ver-so il nuovo rende meno lacerante e do-loroso il distacco, consolato anche dal-la possibilità di annodare passato, pre-sente e futuro attraverso le parole, tan-to che il poeta, sempre rivolgendosi aLampedusa, dice: Offri alla storia lapenna di pappagallo / così le righe diven-teranno colorate. Egli ha chiara coscien-za e percezione di questa sua particola-re condizione, quella di chi vive lontanodalla terra d’origine, ma con fiducia e spe-ranza, nell’ottica dell’ apertura di un oriz-zonte nuovo, come dice chiaramente nel-le liriche Universale e Partire. A testimo-niarlo è il suo omaggio alle radici (A miamadre), con il ricco repertorio di meta-fore sul tema terra-madre, e la sua aper-tura al futuro rappresentato dal figlio (Ilsoffio), in quanto l’esaltante esperienzadella paternità italiana lo lega ancora dipiù al nostro paese, per cui il suo esse-re in Italia è sentito come un fatto posi-tivo, animato da impulsi vitali. A dare ilcarattere originale alla poesia di Gaye ea renderla particolarmente apprezzabi-le è proprio questo afflato fiducioso divita nuova, è il senso di accettazione del-la propria condizione, che risulta perva-sa da un dinamismo costruttivo.

Cheikh Tidiane Gaye, Ode nascente / Odenaissante, Edizioni dell’Arco, Milano2009, pagg. 113, €.6.90.

MA I FIORI HANNO PUDORE?Di Rosa Elisa Giangoia

Lungo un itinerario già percorso con fe-lici esiti lirici da Giuseppe Ungaretti, Ade-le Desideri nella sua terza silloge poeti-ca Il pudore dei gelsomini recupera tut-ta la forza espressiva delle singole paro-

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le (sostantivi, aggettivi, verbi ed avverbi)che nelle raccolte precedenti aveva anchetipograficamente isolato sulla paginabianca in versi prevalentemente mono-vocabolo per comporre una tessitura li-rica sempre forte, incisiva, vibrante diemozioni e sentimenti, ma più distesa ecomposta a livello espressivo. I versi in-fatti si organizzano in misure ritmica-mente più ampie con frequenti prosecu-zioni in enjembement. Questa rinnova-ta tramatura lirica, che recupera unductus più tradizionale, soprattutto nel-la misura e nel ritmo, ma che permanecaratterizzata da legature semantiche acontrasto, ha il suo corrispettivo a livel-lo emozionale e concettuale in un perce-pire il suo vivere da parte della poetes-sa meno doloroso e conflittuale, anchese pur sempre in bilico tra lo sconfortoe la consolazione. Il contrasto è soprat-tutto, fin dalla lirica d’apertura (Delirio),sul piano della sensualità e dei sentimen-ti, con il ricorso a vocaboli di aree seman-tiche contrapposte (“il cielo tra le gam-be / il concime nella pelle”) e proseguenell’ampia lirica successiva Soverato, incui agli elementi diaristici e descrittivi (“laluce di una candela che illumina la sera/un giardino fiorito, il pane fresco delmattino”) della prima strofa, segue la sen-sualità dell’inizio della seconda (“Una lus-suria cremisi nel cielo sgomento d’oro”),creando una bipolarità di motivi che per-corre tutta la lirica fino alla strofa fina-le (“La nota del piacere si espande / finoalle colline brunite di sole. / Soffoco unsingulto e mi addormento / nelle acqueodorose dei tuoi ruscelli.”). In questa chia-ve, anche nelle liriche successive vengo-no percepiti e utilizzati nel testo poeti-co gli elementi della natura, semprecorrispettivi dello stato d’animo del-l’autrice, anche lei costantemente sospe-sa tra “il mito e l’orrido” (Casta meretrix).A reggere tutta la silloge poetica è la tra-ma dei sentimenti, è il rapportarsi posi-tivo o negativo, confortante o deluden-te, dell’autrice con gli altri, in una rete che,rispetto alle raccolte precedenti, ha allar-gato il cerchio della famiglia d’origine e

propria, per aprirsi al dialogo, pur sem-pre piuttosto problematico con un “tu”,anche se i legami parentali continuano adessere importanti. Il nucleo lirico comun-que ruota intorno al dialogo con il “tu”,in un costante accostarsi ed allontanar-si: “Stringi forte la mano, poi mi scorgifarfalla, / allenti la presa e mi perdi. (Diquello che, amato, si perde per incuria).La voce della poetessa è sempre tesa tradue poli, quello del dolore e quello del-l’amore, come ben si evince dalla lirica Deldolore e dell’amore, che dalla dimensio-ne terrena si allarga alla sfera religiosa(“Una vita spesa / a bruciare i crocefis-si / nei giorni appesi ai chiodi.” […] “Ècome Pietro la mia ira, / una tempesta difughe e viltà.”). Ma in questo suo analiz-zarsi, in questo guardarsi dentro per com-prendere e giustificare il suo agire la poe-tessa scava nel profondo a ritroso nellasua vita e recupera il suo sé Bambina, neldualismo problematico tra la “stella”…“nel cielo” e il “buio” … nel cielo”, riper-corre i rapporti con i genitori, facendo rie-mergere soprattutto il difficile e comples-so legame con il padre (A te, padre; Pa-dre, io amo e Caro babbo), per poi dia-logare con i figli (Figli miei). Nell’ultimasezione Sono fuggiti anche gli dei si ad-densano i riferimenti alla fede cristiana,gli accenni a Cristo, a Dio, ai Santi, ai sim-boli, come il vino, ai luoghi della fede, an-che se nulla sembra sufficiente a rassi-curare pienamente, tutto resta nel dub-bio, nell’ambiguità (Cementi surreali), al-l’insegna del contrasto e della contrad-dizione (Le cose), fino alla conclusionedella lirica Testamento, in cui il futurosembra affidato ai figli (“Lascerò tre soli:tra i loro raggi qualcuno / potrà scorge-re un volto amoroso / celato nel decom-posto ghigno.”). Ma certo questo testo(nonostante il titolo), ce lo auguriamo ene siamo certi, non rappresenta la con-clusione dell’attività creativa di Adele De-sideri da cui attendiamo ancora molto.

Adele Desideri, Il pudore dei gelsomini,Raffaelli Editore, Rimini 2010, pagg. 67,€10.00.

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UNA FINE ANNUNCIATADi Giuliana Rovetta

Come reagirebbe ognuno di noi di frontealla notizia di una morte annunciata in tem-pi brevi (un paio di mesi è il tempo conces-so al protagonista di Apocalisse a domici-lio), non per effetto di una diagnosi medi-co-scientifica, ma per un allarme deflagran-te che ci colpisce in seguito alla misterio-sa visione di una sensitiva? Con scarso in-teresse e cinica indifferenza, data la fon-te poco affidabile, oppure con l’ansia di re-cuperare dal passato qualche passaggio an-dato perso, cercando di conseguire, in ex-tremis, un saldo esistenziale in attivo? Sel’annuncio, come in questo caso, è indiret-to (la premonizione non è stata fatta all’in-teressato, ma a suo fratello) l’incredulitàpotrebbe anche essere totale e indurre ilpredestinato ad allontanare da sé un pen-siero così allarmante. Allora continuereb-be sui soliti binari, nella agitata normali-tà della sua altalenante professione di au-tore televisivo, la sua vita di giovane omo-sessuale, non in coppia e non in crisi. Ecco poste le basi di un romanzo che si si-tua all’intersezione fra una fiction segna-ta da un certo tasso di suspense psicolo-gica e un racconto on the road, in cui al-cuni elementi di una storia personale s’in-trecciano a dati di fatto che riproduconocon puntuale evidenza il tessuto della so-cietà odierna. L’aggancio alla realtà inmovimento di città come Milano, ma poianche Roma e San Francisco o luoghi di va-canza come una Sardegna non convenzio-nale, segna attivamente l’alternanza fradramma e ironia, tra tensioni e abbando-ni, una cifra stilistica che appartiene, quipiù che altrove, ad una conseguita matu-rità dell’autore (già premiato dal consen-so alla sua prima pubblicazione, Genera-tions of love), proprio nelle pieghe di un di-sincanto senza amarezza. Ad assumersi la responsabilità della vocenarrante sono tre personaggi che, salvo loscarto iniziale in cui il meccanismo narra-tivo presuppone un incontro, vivono in ma-niera indipendente la situazione insolita esurreale che li accomuna: il fratello Stefa-

no, subito allarmato e reso fragile da unarivelazione che ha le caratteristiche irrazio-nali e arcaiche di una premonizione; Giu-lia la sensitiva, consumata dalla resisten-za che tenta di opporre alle immagini de-bordanti dal vissuto di sconosciuti (di cuiintuisce “brandelli di destino imminente”)e l’innominato protagonista che parla conun coinvolgente tu narrante: questa opzio-ne letteraria che interpella più direttamen-te il lettore fa la differenza –e non solo for-male– rispetto alle scritture che si adatta-no a parlare dell’oggi con un balbettio chescivola spesso verso l’inconsistenza.Qui siamo in presenza di una maniera agi-le del narrare che segue nei suoi sposta-menti il protagonista e si adatta ai diver-si scenari: un viaggio all’interno dei senti-menti e degli incontri, eventuali rifiuti com-presi, alla ricerca di affettuosi riscontri diciò che è stato. Un passato di cui si vorreb-be sapere di più, forse perché percepito nel-l’immediato in modo imperfetto oppureperché leggibile, nell’oggi e nella possibi-le imminenza della fine, secondo chiavi dilettura diverse. Un secondo giro di giostra(l’ultimo, forse?) come nuova opportunitàper vagliare i percorsi intrapresi e poi la-sciati, per volontà o per forza, com’è nel-l’evolversi dei sentimenti. E anche per sag-giare negli altri, le persone che hanno fat-to parte del nostro orizzonte affettivo,quanto è rimasto in loro della nostratemporanea presenza. Alternando paure e ricordi, reticenza econfessioni, Bianchi conduce per manoil suo protagonista fino alla stretta fina-le e fino alla data fatidica: un percorsoincalzante, ma anche un discorso inso-lito su come imprevedibilmente puòmodificarsi il nostro orizzonte.

M. B. Bianchi, Apocalisse a domicilio,Mar-silio, Venezia, 2010, pagg. 240, € 18.00.

LA GRANDE MADREDi Simone Turco

Ecco quello che si può veramente defi-nire un libro composito; composito,non già nella sua unità, bensì nella mol-

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teplicità, pluralità e differenziazione distili, variazioni sul tema e campi disci-plinari rappresentati. Era prevedibile,dato il numero così elevato di autori –una quarantina – di estrazione cultura-le così diversa. Il tema già ci sovrasta, cilascia sopraffatti: la Grande Madre del-l’umanità nelle sue accezioni più dispa-rate. Punto di partenza e fulcro di ognidiscorso è ivi posto il suo valore arche-tipale, la dimensione in-consciamente pri-migenia dettata dalle misteriose configu-razioni psicologichee pre-psicologiche delnostro divenire nascendo. Ecco compa-rire la prima, profonda dicotomia delconcetto di mater quale genitrice e gene-ratrice di carne, sangue, ma anche ani-mus e, forse, spirito: la sua profonda in-fluenza quale formatrice e, conseguen-temente, disfattrice della persona uma-na nella sua totalità. La madre dà vita, eha il potere di toglierla. Ritornano qui gliechi delle superstizioni antiche, il cuistrascico ritroviamo nella prima moder-nità, nell’Amleto conflittuale che lotta conla fedifraga genitrice, inconsciamente me-more dell’insicurezza, dell’angoscia, del-l’essere immersi in quell’amnios nutriti-zio e temibilmente penetrante, alla mer-cé della Grande Madre che ha il potere,col solo pensiero, di uccidere, soffocan-dola, la sua creatura? Non lo sappiamo;certo è che, ad una lettura d’impatto, que-sta è una delle immagini possibili evoca-te dal riferimento alla Madre quale “pri-mo simbolo dell’inconscio che […] puòrivolgersi contro il conscio da lui nato edistruggerlo” (p. 15). La tesi di fondo sem-bra essere l’individuazione di una cre-scente preponderanza, nel nostro mon-do di ormai ultrasorpassata postmoder-nità, dell’immagine della Grande MadreNegativa, la cui distruttività eccede digran lunga la sua positiva o quantome-no naturale valenza di risurrezione, di ri-nascita dopo la morte. Tale ciclicitàcorrisponde al viaggio, alla trasformazio-ne che la creatura subisce provenendo danulla e, attraverso le sue varie fasi, a nul-la pervenendo. La madre è dunque cata-lizzatore e ambito del venire alla vita e

quindi alla percezione della propria in-dividualità; è l’alveo unico in cui si im-pianta il seme dell’uomo e nel quale ilneonascente possa assaporare fugace-mente la propria nullità.Di qui la lotta per il riconoscimento, lascoperta dell’Io staccato dalla molleculla uterina. Come attuare tale opera-zione? Se la donna-madre è principiod’ogni cosa e, forse, come poc’anzi di-chiarato, anche dello spirito, si renderànecessario iniziarsi ai misteri di questaGrande Madre onnicomprensiva e sopra-sensibile ad un tempo: “Occorre un’ini-ziazione infinita per essere senza veli alcospetto del Simbolo”, che è qui visto neipanni di Beatrice (p.26), ma non senza ilpericolo di scivolare indietro nella minac-ciosa selva primordiale che esclude l’ac-cesso alla luce paradisiaca. In quanto di-vinità purificatrice, purgante, essa nonè scevra di una húbris sacrificale diffici-le da gestire. “Ancora una volta Beatri-ce potrebbe indicare una via alla pienez-za della vita, ma anche il pericolo di unacaduta nella violenza primordiale” (p. 28).La pervasività e perigliosità del potere ge-nerativo femminile modella così a imma-gine e somiglianza della Madre – e, piùin generale, della donna – gran parte delmondo antico, al quale il ruolo dell’ele-mento maschile nella procreazione fuprobabilmente a lungo ignoto; e nella(con)fusione di popoli che determinò laformazione della cultura ellenica gliuomini dovettero soffrire, spesso incon-sapevolmente, di una gelosia, una verae propria “invidia dell’utero” (p. 169) chepotrebbe scorgersi paradigmaticamentenella brama di materna cura talvolta mo-strata da Zeus verso i suoi futuri figli:Atena, ch’egli fa maturare nella propriatesta; Dioniso, che salva dalla morte cu-cendolo in un utero ricavato nella pro-pria coscia. Entrambi gli dèi così genera-ti possiedono qualità peculiari rispettoal resto della famiglia divina:“Dalla testa uterina nasce una femmina,maturata dal “giusto” sangue paterno,Atena dea della sapienza, delle arti,delle scienze e delle tecniche, della giu-

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stizia, della guerra che difende lo stato,tanto che nasce completamente armata.Sarà di Zeus la figlia prediletta”(p. 172).In quanto a Dioniso, egli è “il mistico diodel disordine, del vino e dell’ebbrezza,della vegetazione immortale attraversola morte, maschio femminile, infine diodel teatro, l’opposto della virile sorella-stra Atena” (ibidem). Portando a termi-ne la gestazione di figli suoi ma conce-piti, ovviamente, in Madri, in Donne, chesole hanno la prerogativa della cura del-la progenie nel loro grembo, Zeus sem-bra voler supplire alla mascolina, natu-rale inettitudine ad essere tutt’uno conla propria discendenza. Anche a motivodi questo, quale signore degli dèi e de-gli uomini, egli è potente, ma non onni-potente. Non appena gliene viene data lapossibilità, egli concepisce figli che sonoproiezione rispettivamente dell’elemen-to armonico (sarebbe fuorviante, qui, direapollineo) e di quello, appunto, dionisia-co, squilibrato, disordinato. Qualcosa,però, rompe l’armonia di questo ‘gaio’quadro paterno. Osserva l’autore: “I fi-gli gestati dal maschio sono condanna-ti a esaurirsi in se stessi. L’utero maschi-le genera figli sterili, come sterili sono tut-ti i muli maschi. Senza abbracci vive lavergine Atena, senza figli Dioniso dai lun-ghi capelli, dalle vesti muliebri. La ma-ternità maschile resta un sogno che ge-nera chi più non genera. L’uomo invidio-so vendica in vari modi sulla donna, ma-dre delle generazioni, la propria delusio-ne materna.” (pp. 172 – 173).Certo, l’ultimo capoverso contiene un’af-fermazione forte, e forse non scevra diun ben definito sostrato psicoanalitico-evoluzionista che vede nell’uomo lo svi-luppo del primate animale, il cui istintoriproduttivo era tutto volto all’insemina-zione e, almeno nelle specie più comples-se, al godimento dell’atto sessuale. L’ar-gomento ci sembra più complesso e com-plicato, e non esauribile nell’immaginedel “padre [che] procrea soltanto, nell’or-gasmo solitario e ben custodito che in-semina, e più spesso nell’entusiasmo delcoito, poi basta” (p. 173). Innegabile è la

preminenza dell’elemento materno nel-la formazione del nuovo essere umano.Proprio in virtù di tale preminenza, sa-rebbe utile interrogarsi circa le motiva-zioni del fenomeno mitico-antropologi-co – e, di conseguenza, storico – così beneindividuato ed esposto dall’autore di que-sta parte del libro. Forse che questa “in-vidia dell’utero” sia da considerarsi il ri-sultato di una motivazione psicologica,morale e umana più profonda che ha lesue radici in un ormai immemore, o an-ticamente presentito, snaturamento deireciproci ruoli maschile e femminile? Unpunto di partenza già problematico,questo, per ulteriori riflessioni.Sul versante antropologico, è interessan-te come il libro intessa il ragionamentocirca la dimensione sacrale della figuradivino-materna in un popolo distante,spazialmente e culturalmente, da quel-la che definiremmo la nostra comunesensibilità: gli Oksapmin, popolazionedella Papua Nuova Guinea dalle tradizio-ni non scritte, i cui riti legati alla Gran-de Madre Yan-ku includevano, fino aglianni Quaranta del Novecento, sacrificiumani di carattere antropofagico. Secon-do il mito, Yan-ku non fu la madre deiviventi; essi esistevano già, ma come “im-mersi nell’inconscio” (p. 166), compor-tandosi come animali e non essendo do-tati di linguaggio, né aventi distinzionio tabù associati al genere. Yan-ku, qua-le spirito femmineo, donò agli uomini ealle donne attributi che li identificasse-ro con i rispettivi ruoli. La sua copulazio-ne con il fratello determinò la nascita del-l’atto sessuale tra uomo e donna; l’ince-sto fu sottoposto a tabù, evidentemen-te perché, essendo stata la Grande Deaa compierlo, solo agli dèi sarebbe statoconcesso di “copulare tra consanguinei”(p. 167). Il rito nel quale un uomo del clanoriginato dallo spirito ancestrale femmi-nile veniva messo a morte e il suo san-gue consumato dai celebranti non diffe-risce di molto dai rituali atti a garanti-re la fertilità della terra, di mediterraneamemoria. Gli aspetti che più ci interes-sano sono la funzione e il risultato del-

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l’operato della dea verso gli uomini. Essa“estirpò l’umanità dalla sua condizionedi bestialità vicina al mondo della natu-ra per elevarla al rango di cultura, cioèdi Io cosciente” (p. 166). Yan-ku non èdunque madre di per sé; lo diviene nelmomento in cui traghetta gli esseriumani dallo stato animale (e per questo,in qualche modo, indifferenziato e col-lettivizzato) allo stato conscio della pie-na umanità (l’unicità dell’individuo co-sciente). Il prezzo da pagare, se di prez-zo effettivamente si tratta, è l’acquisizio-ne della categoria del genere: l’attributoche ordina, separandola, la materia infor-me dell’umanità delle origini al fine direnderla, almeno per metà, simile alla ma-terna dea femminile.Nella congerie di opinioni, accezioni, in-terpretazioni che necessariamente circon-dano la figura della madre – della donna–, come pure la sua controparte maschi-le, esiste il rischio fondato, e già sperimen-tato, che la lotta altrettanto necessaria trai due concetti, tra i due elementi fondan-ti il nostro divenire collettivo e individua-le, si trasformi in una guerra di stermi-nio dell’uno sull’altro; difficile che la no-zione di Grande Madre, quindi, come os-servano i due autori di una parte del li-bro che stiamo recensendo, possa funge-re da “toccasana o […] riscatto contro unavisione androcentrica”; piuttosto, essi op-porrebbero alla diade antitetica di ma-schio vs. femmina la triade graduale, dieschilea memoria (Sept. 197) “uomo,

donna e ogni essere intermedio”, […]L’oscillazione grammaticale (scambio opassaggio) tra genere maschile e femmi-nile ha esempi notissimi nella tradizio-ne e nella continuazione di alcuni termi-ni greci caratteristici del mondo ctonio,quali la Lete e la Stige, il cui significato,oltre che il genere, sono almeno parzial-mente mutati nel corso dei tempi (pp. 50-1). Femminili sono le Erinni con la lorocruenta vendicatività; femminile è il ter-mine che Eschilo usa per definire la ma-ternale regione ctonia, il suolo e sottosuo-lo, chóra, che in Platone definirà il “ter-zo genere”, ciò che sta “oltre l’intellegi-bile e il sensibile, […] sostrato che non sipuò del tutto penetrare né raggiungere”(p. 52). Chóra: regione, o contrada (Cho-ef. 397), ma non necessariamente patria,bensì ambito che, nell’esposizione degliautori, che non possiamo né vogliamo quiriprodurre, apre alla reinterpretazione delsignificato del termine attraverso varieaccezioni e varie autorità, comparativa-mente – e comparatisticamente – indaga-te. Ancora – e infine, per non togliere al-tro al piacere di una piena e completa let-tura – : chóra assimilata ad “una húle vo-tata al suo morire” (p.54). Magna Mater – selva oscura, contrada, pa-tria ricca di terribile appartenenza.

AA. VV., In nome della Grande Madre, acura di Stefano Baratta e Flavio Ermini,Moretti & Vitali, Bergamo 2008, pagg.195, € 16.00.

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LUCIA PASINI

di Barbara Cella

Lucia Pasini vive e lavora in una bellissima casa sulle alture alle portedi Genova e il suo studio con grandi vetrate è immerso nella lumino-sità e nel verde di queste colline. Sarà forse per tutta questa luce chevi entra e per i colori vividi che la circondano che Lucia riesce ad es-sere così precisa e sensibile verso cromatismi pittorici vividi e decisiche traspone sulla tela facendoli diventare protagonisti assoluti deisuoi quadri e che sono ormai un suo tratto distintivo.I suoi inizi sono figurativi. Studia per lunghi anni con Vito Stragapededove, imparando ad entrare nel soggetto ne libera sia l’immagine cheil rapporto tra segno e luminosità. Ma va anche verso la scultura conAlda D’Alessio e Lorenzo Garaventa. Ed è questo il background dalquale attingerà quando il suo percorso si evolverà verso l’astrattismoe l’informale materico, perché i suoi quadri nascono comunque sem-pre da un frammento di realtà, che può essere lo scorcio di un pae-

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saggio o di un corpo come un pezzettodi giornale o di un anonimo biglietto, dalei poi elaborati e sviluppati in soluzionipittoriche e visive inaspettate.Il figurativo degli esordi viene presto su-perato dallo studio dei lavori di Klee e dalì passa alla scomposizione della realtàevidenziata negli acquerelli dei primianni novanta dove il paesaggio figurativoesiste semprema viene destrutturato conscelte espressive nette e precise.Il passaggio successivo, infatti, la vedeapprodare allo studio del cubismo, Pi-casso in particolare, con opere come Icapitelli blu del 1997, dove è ancora in-dividuabile la realtà iniziale ma chesono la decisa partenza verso l’astratti-smo successivo che diverrà la sua cifrastilistica predominante.Da lì i suoi quadri diventeranno semprepiù informali dove, però, l’attento acco-stamento delle cromie è sempre moltoben bilanciato grazie alla sua naturale

sensibilità e attenzione per le geome-trie. Essa destruttura la realtà nascon-dendola nel colore e la scioglie in ungesto deciso sulla tela.La sua continua ricerca la porta ad af-

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frontare anche collage nei quali introduce materie diverse come ve-line o carta di giornali e riviste e da lì parte per introdurre in seguitosabbia, gessi, colate di cera, come se sentisse il bisogno di tornarealla tridimensionalità della scultura dalla quale aveva iniziato il suopercorso e volesse fondere insieme pittura e materia. I suoi quadridiventano sempre più plastici e i colori decisi si fanno tattili accom-pagnandosi agli elementi naturali.Nei lavori dell’ultimo periodo, invece, ha voluto sperimentare un per-corso inverso: dove prima aggiungeva materia e colore oggi riesce,lavorando comunque con un elemento ancestralmente materico comele terre, a togliere volume, a sottrarre spessore diluendole talmenteda sembrare acquerelli, come volesse tornare alla disciplina degliesordi ma riuscendo, adesso, a rendere sulla tela la forza sottesa dellamateria viva. Questa c’è, esiste ancora ma Lucia la trasforma in una

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sostanza completamente diversa che le permette di trascendere dal-l’elemento primario per approdare al mondo delle sensazioni e del-l’interiorità.Nascono così i suoi colori lievi di oggi, cromaticamente equilibrati maal contempo forti di un’azione che non perde di efficacia perché lipone sicuri protagonisti del quadro, sospesi nel nulla della tela biancache li imprigiona e li esalta. La sua arte è ora puro gesto che non è piùviolento imporsi ma si è acquietato nella consapevolezza dell’essere,dell’esistere come forma pura.E l’ultimissima ricerca la porta a cambiare ancora per sperimentare unritorno alla scultura con un’installazione nella rassegna “Probabili In-dizi” per Satura che vede lievi aste di plexiglass farsi piedistalli perreggere la forza evocativa del semplice foglio cartaceo vergato conparole estremamente drammatiche perché legate a crimini e omicidi.E qui la sua forza sta nel ribaltare nuovamente la realtà facendo la ma-teria leggerissima, quasi eterea, e contrapponendola all’apparente le-vità della carta che in realtà reca incise pesantissime parole.

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BIOGRAFIA di Lucia Pasini

Lucia Pasini vive e svolge la sua attività a Genova dove è nata. Allieva dellascultrice Alda D’Alessio e del pittore Vito Stragapede, ha frequentato lostudio del prof. Lorenzo Garaventa ed ha partecipato ai corsi liberi di di-segno emodellato di nudo dal vero del liceo artistico Nicolò Barabino. Nel2010 ha approfondito con il prof Pier Luigi Bonifacio lo studio dell’ arteastratta. Fa parte del gruppo degli artisti inclusi nel Dizionario degli Arti-sti Liguri curato dal prof. Germano Berlingheri.

Ha iniziato la sua attività espositiva nel 1994 partecipando a diversemostre collettive e personali tra le quali:

1994 “La Prima”, Genova; 1995 Centro Culturale Nicolò Barabino, Ge-nova; 1995 Lega Navale Italiana, Genova; 1998 Galleria “La Pigna”,Roma; 1998 Palazzo della Prefettura di Genova; 1998 Galleria SanDonato, Genova; 1999 Centro Culturale Nicolò Barabino, Genova;1999 Calendario della Società “Promotrice di belle Arti della Liguria”,Genova; 2000 Palazzo San Giorgio, Genova; 2000 Chiostro del Quadri-vium, Genova; 2001 “Qui Arte”, Genova; 2002 Centro Civico RemigioZena, Genova; 2003 Chiesa di Santa Zita, Genova; 2003 Galleria Ga-mondio, Castellazzo Bormida; 2003 Chiesa della Mater Misericordiae,Casale Monferrato; 2003 Satura Associazione Culturale, Genova; 2003Le terrazze del Ducale, Genova; 2005 La Commenda di Prè, Genova;2008 Artefiera, Genova; 2009 2° International Indipendent Art Fe-stival dedicated to the 20 th anniversari of art – center Pushkinskaya10” San Pietroburgo; 2009 Artefiera, Genova; 2010 Rolli Days PalazzoGio. Francesco Balbi, Genova; 2010 Artefiera, Genova.

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CAMILLE - DACIA MARAINIdi Silvana Zanovello

Squassata dalla follia dopo una vita all’ombra dei più grandi artisti eintellettuali del suo tempo, l’amante Pigmalione Auguste Rodin e il fra-tello Paul, scrittore, drammaturgo, diplomatico, la scultrice Camille Clau-del riconquista la fama che in vita fu contrastata. In attesa dell’aper-tura di un museo interamente dedicato alle sue creazioni nel suo pae-se natale, Villeneuve sur Fère, l’anno prossimo, Camille comincia a con-quistare la cultura italiana con la forza dirompente della sua persona-lità, anche grazie al teatro. Il Festival dell’eccellenza femminile le haappena dato un ruolo da protagonista, il 10 novembre, a Genova, inuna cornice che sembra fatta apposta per evocare i suoi tormenti e l’esta-si nel plasmare la materia, i depositi sotterranei, del Museo di sant’Ago-stino aperto per la prima volta al pubblico per l’occasione, una minie-ra di storia e di arte genovese preservata dalle devastazioni urbanisti-che. In questa cornice magicamente evocativa la regista e direttrice delFestival, Consuelo Barilari, ha presentato un testo di Dacia Maraini informa di recital multimediale e in anteprima, con una Mariangela D’Ab-braccio capace di sciogliere in note struggenti una “donna di pietra”.Per la scrittrice la vita di Camille, rinchiusa per trent’anni in manico-mio, dove morì, è un esempio delle difficoltà che le donne hanno in-contrato e continuano a dover superare per affermarsi nel mondo del-l’arte. Rimettendo mano a un dramma elaborato due anni per il festi-val di Spoleto, con un taglio che si ispira al teatro No giapponese, nonha ridisegnato soltanto un affresco della provincia francese e di Mon-tmartre a cavallo tra Otto e Novecento. “Le condizioni della detenzio-ne in manicomio di Camille Claudel sono storia archiviata “commen-ta l’autrice “ma restano attualissime le ragioni che la portarono alla fol-lia: l’aborto impostole dall’amante, la sottovalutazione del suo lavo-ro, il rapporto con una madre castrante”. Nello spettacolo, Auguste Ro-din, Paul Claudel, i genitori rivivono attraverso le parole dell’artista che,uscendo da ogni schema, diventò scomoda per tutti ma che alla finerivolse la propria disillusione soltanto contro se stessa e le sue ope-re. Di due anni più vecchia di Claude, passionale e trasgressiva quan-to più il fratello sceglie di consegnarsi alla fama nell’involucro di unafacciata inappuntabile, marito e padre ossequiato nei salotti che nonsi interrogano sulla compatibilità tra questo ruolo e l’amicizia con Gide,Camille comincia a scolpire quando è poco più che una bambina. La-scia la provincia e approda a Parigi ma non viene ammessa all’Acca-demia, allora riservata agli uomini. Bussa allora alla porta di AugusteRodin che si degna di ammetterla alla sua corte. Diventa la sua allie-va prediletta, l’oggetto dei suoi desideri, la sua ombra. La sua creati-vità può finalmente esprimersi in cento forme che plasmano il movi-mento del corpo nel marmo e soprattutto nella creta senza dare l’im-

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pressione di imprigio-narlo ma, mentre l’auto-re di Giovanni Battistae della porta bronzeadel Musée des Arts de-coratifs passa dalle po-lemiche ai trionfi e ac-quisisce committenzesempre più importanti,le opere di Camille ven-gono puntualmente re-spinte dai galleristi. Illoro amore finisce conun’interruzione di gra-vidanza voluta da lui,che non vuole lasciarela famiglia, anche per-ché ha a che fare conun’altra vittima, unamoglie che, in quel con-testo sociale, abbando-nata diventerebbe unrelitto. Camille di ab-bandona a una crisi au-todistruttiva a tuttocampo, fa a pezzi tuttele sue opere, i suoi bam-bini mai nati. Agli occhidel mondo questa sfu-riata è la dimostrazionedi uno squilibrio che giàda tempo la buona so-cietà sospetta. Camilleviene rinchiusa in manico-mio, dove resta per tren-t’anni, fino alla morte. La madre impedi-sce a tutti di avere contatti con lei e Paul,già famoso per “L’annuncio a Maria”,“Giovanna D’Arco al rogo” e altre deci-ne di drammi, racconti, poesie, obbedi-sce. Nello spettacolo che riprende iltema, già esplorato nella prima versione,di un rapporto familiare aspro tra don-ne diverse per temperamento e cultura,si capisce anche come Camille possa es-sere stata contraltare coscienza critica delfratello. Si allude perfino a un incesto, nel-le ultime scene ambientate in manicomio,ma senza chiarire se si tratti di ricordi o

di delirio. È certo invece che, dopo la gra-vidanza interrotta, Camille sente cresce-re un singolare e probabilmente ammor-bato senso materno nei confronti diPaul. Ragazzina era stata sua compagnadi giochi e sua complice; quasi donna ave-va scoperto e amato con lui i versi di Rim-baud, e imparato sognare un mondo di-verso da quello che a entrambi andavastretto. Aveva capito più ogni altro l’es-senza tormentata della genialità di Paulfissando nella creta, con i suoi tratti, an-che tutto l’orgoglio familiare che a lei in-vece era stato negato.

Cam

ille-Dacia

Marain

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Mariangela D’Abbraccio in una foto di scena

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L’ANGOLO DI FRINOdi Elia Frino

L’uomo moderno, spesso proprietario di molti beni, manca a volte del pos-sesso più importante: la felicità. Un’esistenza piatta ed incolore, lavori ripe-titivi che mortificano la fantasia e la creatività lo rendono facile preda dellanoia e della depressione per uscire dalle quali, a volte, basta un amore, un in-teresse nuovo, una curiosità che lo porti a ricercare, a sognare. È vero che cer-care le cose belle, con le quali si abbia un’affinità spirituale e che acquistinonel tempo una sorta di immortalità virtuale può essere una condanna ma piùspesso è un privilegio . È unamedicina vecchia di secoli, forse di millenni. Tem-po fa, nel massiccio francese, alcuni speleologi trovarono nelle grotte abita-te dai nostri progenitori, accanto a graffiti murali ed utensili di uso comune,conchiglie marine provenienti dall’Atlantico, lontano centinaia di chilometrida quei rifugi. Si domandarono a che cosa mai servissero cose così inutili aquegli esseri apparentemente soprafatti dalla fatica della sopravvivenza. Glistudiosi conclusero che questa prima ordinata collezione di conchiglie rap-presentava un momento di evasione, da ammirare per i colori e le forme cu-riose anche se non servivano a nulla come a nulla servono per noi gli smaltidi Limoges o i dittici paleocristiani in avorio, se non per posarci sopra lo sguar-do. Così andiamo scegliendo, tra i mille frammenti che il passato ha fatto are-nare dalle nostre parti, le cose che più ci sembrano intonate alla nostra cul-tura, alla nostra sensibilità, al nostro concetto del bello. Uno dei più grandibattitori d’asta francesi, Maurice Rheims divise i ricercatori di antichità in tregrandi categorie: i collezionisti, gli amatori, i curiosi. È considerato collezio-nista chi fonda la propria ricerca su un tema ben preciso, dalla maioliche ri-nascimentali o i bronzetti padovani del Cinquecento fino ai cavatappi o ai di-schi in vinile. Spesso è lo stesso soggetto che, da bambino, raccoglieva selet-tivamente figurine o soldatini, cercando con tenacia i pezzi mancanti attra-verso scambi e continue trattative che evidenziavano un’affettività e un coin-volgimento particolare. Con metodo analitico e studio continuo, il vero col-lezionista riesce a classificare, a conoscere ed evidenziare secondo criteri qua-litativi e cronologici ogni oggetto, divenendo spesso un’autorità nel settore.L’amatore è la figura più affascinante perché desidera tutto ciò che è bello eche può generare un’emozione spaziando dal Romanico all’Art Noveau, daivetri agli avori, dai bronzi alle porcellane. È un onnivoro che ha precedentiillustri quali, per citare i più noti, Lorenzo il Magnifico e Federico di Monte-feltro. Quest’ultimo, condottiero spietato che, con i suoi ingegneri militari, scar-dinava a colpi di bombarda mura considerate inaccessibili (rimangonoesemplari gli assedi della rocca di San Leo e della città di Volterra) ritornatotra le mura del palazzo ducale di Urbino, costruito dal Laurana, amava cir-condarsi di artisti, musici, poeti. Nel segreto del suo studiolo, versione italia-na della wunderkammer tedesca e del cabinet de curiosité francese, iniziavaun colloquio intimo con le curiosità che aveva raccolto, tra le quali avevanoun posto particolare i codici miniati, oggi ai Musei Vaticani, impreziositi da

L’angolo

diFrino

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legature in argento e gemme. Si dice che nella produzione della famo-sa Bibbia miniata detta Bibbia Montefeltro, commissionata a Firenze,realizzata da Vespasiano da Bisticci e consegnata nel 12 giugno 1478,il Duca avesse investito diverse migliaia di fiorini, pari quasi alla spe-sa per uno dei suoi celebri assedi. Con uno di questi volumi in mano,intento alla lettura accanto al figlio Guidubaldo, lo ritrae Giusto di Gandin un famoso ritratto giunto fino a noi. Per l’amatore la collezione, avolte, è un patrimonio che va ben al di là delle cose che lo compongo-no, l’oggetto di tanto amore non può subire l’onta del frazionamentoo della dispersione. Pertanto il desiderio di conservare al di là della vita,mortale la testimonianza della propria umana avventura, a volte fa sìche questo unicum intatto venga donato ad un museo o a una fonda-zione disattendendo spesso le aspettative dei discendenti. Sono natecosì le grandi collezioni Poldi Pezzoli a Milano, Carrand al Bargello di

Firenze e, sempre a Firenze, le colle-zioni Bardini, la Kress collec-

tion di Washington e Ja-quemart André a Pari-gi, per citare le piùimportanti. Per ulti-mo, sempre secon-do Maurice Rheims,esistono i curiosi, defi-niti “parassiti del mon-do dell’arte”. Inco-stanti nei gusti, incer-ti sulla vera identitàdelle loro passioni,frequentano mo-stre, sale d’asta,gallerie antiquariesaziandosi, mol-to spesso, più del-l’evento mondanoche dei contenutidelle stesse, esaltatidal valore venale de-

gli oggetti più che dalpatrimonio di emozioniche questipossono suscita-

re. Un oggetto fragile e pre-zioso perché passato indenne

alla dura prova del tempo e de-gli eventi, quando giunge nelle no-stre mani può aiutare anche noi,come l’uomo primitivo che racco-glieva conchiglie, a coltivare i so-gni di cui abbiamo bisogno.

L’angolo

diFrin

o73L ’ A N G O L O D I F R I N O

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MEDITERRANEO,da Courbet, a Monet, a Matissedal 26 novembre al 23 gennaio 2010Palazzo Ducale, Genova

di Valentina Isola

Evento clòu fra le rassegne e le mostre genovesi di quest’anno, di fortis-simo impatto e richiamo internazionale, ecco inaugurata, in una formu-la creativa ed originale, la mostra: “Mediterraneo, da Courbet, a Monet,a Matisse”, con la performance dell’attore Gilberto Colla, che presta la suavoce ai grandi pittori qui esposti (Courbet, Van Gogh, Monet…) e con ilconcerto della Premiata Forneria Marconi e di Antonella Ruggero, geno-vese doc, che omaggiano il grandissimo Fabrizio De Andrè, nostro illu-stre concittadino. Queste ed altre numerose manifestazioni faranno dacornice alla rassegna, che vanta la presenza di ben 80 quadri, provenien-ti da collezioni private e musei di tutto il mondo ed è un excursus, un“viaggio ideale” nell’arte pittorica francese dal ’700 fino al ’900, che hail sapore e l’odore del mare, le luci dei borghi marinari e i profumi deipaesini fioriti dell’entroterra, che prendono forma in una gamma di co-lori e nuances, appunto “mediterranei”. Il Mediterraneo “incantevole”, in-fatti, è ciò che accomuna in questo percorso a tappe, Italia e Francia: dal-

Mediterraneo,d

aCourbet,a

Monet,a

Matisse

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Monet Claude, Veduta di Bordighera, 1884 olio su tela, cm 66 x 81,8

Los Angeles, The Armand Hammer Collection

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le ridenti coste francesi, alla profumata Pro-venza, fino alla rocce aspre, degradanti nelmare sospinto dal vento, della nostra Li-guria. Un “fil rouge” che però, non è soloun mero omaggio al Mediterraneo, al“mare nostrum”,ma un attento studio sulsegno e sul colore, che si snoda lungo due-cento anni di pittura paesaggistica, vistain ogni sua evoluzione, di generazione ingenerazione: due secoli di storia dell’arte,così ricchi e variegati, nei quali “svetta sututti”, la corrente dell’impressionismo. Lesale di PalazzoDucale, cornice sempre sug-gestiva, si aprono a imponenti vedute deicapolavori del ’700 di Vernet e Robert e sisoffermano, poi, su alcune grandi opere diCourbet, dipinti dall’autore presso il villag-gio di pescatori di Palavos. Proseguendonel percorso dell’esposizione vi è un’inte-ra sala dedicata ai pittori della Scuola diMarsiglia, della primametà dell’’800, rap-presentata da Gauguin, Monticelli e Lou-bon. L’interesse dello spettatore si concen-tra tutto, poi, sui grandi pittori impressio-nisti: Cezanne,Monet, Renoir, Boudin e toc-cano l’apice con le “lucide follie coloristi-che” di Van Gogh. Cezanne e Renoir, inve-ce, vengono maggiormente “assaporati”,prendendo visione e soffermandosi, sul-le due opere, da loro dipinte, fianco a fian-co, rappresentanti uno stesso paesaggio:“Rocce a l’Estaque” e “L’Estaque”. En-trambi, conmedesimamaestria, interpre-tano inmodo personale, uno stesso scor-ciomarinaro: il primo, lo dipinge come selo avesse osservato dall’alto; fissando sutela una striscia di mare, il secondo, inve-ce, “ferma” il paesaggio, che si incunea trale rocce, tra mare e cielo… due differentipunti di vista e due diverse angolature perlo stesso “tratto” di Mediterraneo. Bordi-ghera, cittadina elegante e fiorita, ridentemeta turistica di villeggiatura dell’’800, co-nosciuta in tutta Europa e rinomata quan-to le suggestive cittadine di Antibes eMen-tone, viene immortalata, come le sue “cu-gine francesi” dall’ impressionista Monet,con il suo tratto personale e inconfondi-bile in ben dieci tele, che da sole valgonol’interamostra al Ducale. Nelle sale del Pa-

lazzo troviamo anche i ricordi della Pro-venza, del grande VanGogh: tra tutti emer-ge il suo celeberrimo “Campodi grano” convista su Arles. Il filo dellamemoria ripren-de, poi, con le tele dei pittori post-impres-sionisti: Signac, Rijslberghe, Cross, Valtat,Guillaumin, Mauguin, solo per citarne al-cuni, tra i molti esposti. Munch, a torto,noto a più, soprattutto per il celeberrimo“Urlo”, opera, peraltro, tra le più “imponen-ti” del panorama artistico di tutti i tempi,rende giustizia alla bellezza suggestiva diNizza, con alcuni quadri dipinti a cavallotra il 1891 e il 1892. Il “fauvismo” e il cu-bismo sono rappresentati da due dei suoipiù grandi esponenti, Matisse per la primacorrente e Braque, per la seconda e da ar-tisti come Derain, Marquet, Vallaton, Spu-tine e Bernard, che sono, invece, più vici-ni aimovimenti pre-contemporanei. Lamo-stra che passa in rassegna le cinque gene-razioni di artisti paesaggisti, è estremamen-te esaustiva: si passa dal realismo all’im-pressionismo, fino alla modernità in unospaccato dell’evolversi del segno pittori-co, della dissolvenza dell’essenzamateri-ca. Il percorso snello ed accattivante, con-duce lo spettatore anche più distratto (an-che se è impossibile perdere interesse inun contesto così ricco e vario di autenti-ci capolavori!) nelmondo della pittura, conla “P” maiuscola, a contatto con dei veri“mostri sacri”, dalla vita a volte assai ar-dita, complicata ed infelice. La sensazio-ne di essere partecipi, anzi “parte integran-te” di un evento straordinario (nel vero sen-so della parola!) non abbandona il visita-tore permolte ore; ci si domanda come siapossibile tanta bellezza oggettiva nei pa-norami reali e tantamaestria nel riprodur-li fedelmente, ma autonomamente se-condo differenti punti di vista e chiavi in-terpretative. Il comune denominatore ditutte le tele esposte, scorci e vedute, ritrat-ti a distanza di secoli, da personalità, cor-renti e con tecniche stilistiche “altre” di-verse, è il Mediterraneo, multi-sfaccettato,profumato, colorato, vivo, calmo e intempesta, ma fortunatamente, sempreuguale a se stesso, nei secoli.

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Il teatro Falcone, importante spazio esposi-tivo del Museo di Palazzo Reale di Genova,ospita dal 28 novembre 2010 al 30 genna-io 2011, un’interessantissimamostramono-grafica dedicata al grande artista Raimon-do Sirotti, uno dei maggiori esponenti del-la pittura italiana contemporanea. La perso-nale, dal titolo: “Mediterraneo, il coloredella luce”, è organizzata inmaniera super-ba ed esaustiva dalla Sovraintendenza peri Beni architettonici e Paesaggistici della Li-guria, con il patrocinio del Comune di Ge-nova e la collaborazione della FondazioneBogliasco. L’allestimento è scorrevole ed in-trodotto da un coinvolgente sonetto del ce-lebrepoeta EdoardoSanguineti. L’intentodel-la mostra, sebbene il suo percorso e la di-sposizione delle tele all’internodelle sale se-gua un preciso ordine cronologico, non èquello di tracciare unamera rassegnaomap-pa espositiva che tenga conto solodella “datadi nascita” dei quadri, seppur intriganti e dalforte impatto visivo, per bellezza e solu-zioni stilistiche ma di rappresentare fedel-mente, attraverso le cinquanta opere espo-ste, dipinte dal 1970 ad oggi, il lavoro atten-to, critico e conseguenziale dell’autore:un’indagine sull’uso delle tinte e sulla lororesa cromatica, sull’armonia compositiva esugli effetti della luce sul colore, sul trattomaterico e sull’ambientazionedell’opera stes-sa. E’ la lucemediterranea, appunto, che Si-rotti interpreta personalmente, studiando-la e variandola via, via. Non si può parlaredi questo artista e delle sue tele, disgiungen-dolo, infatti, dai colori e dal mare del pae-saggio ligure, a lui tanto caro: panorami e co-lori naturali e luci di rara bellezza e inten-sità che il grande pittore fa suoi. Il paesag-gio e l’uomo che crea sono legati indissolu-bilmente inquestobinomio,manonperque-

sto da esso condizio-nato: è solo andandooltre questo legame,ma non negandolo,che si può com-prendere l’entitàpiù intima deisuoi quadri,mol-ti dei quali, allaloro prima esposizione,perchéprovenienti da collezionipri-vate. Anche se il “fil rouge” della mostra èproprio ilmareMediterraneo, comenella ras-segna del Ducale, “Mediterraneo: da Cour-bet, a Monet, a Matisse”, si può notare, giàad unprimo impatto, quanto affermano siaLeoncini, direttore di PalazzoReale cheGol-din, autore del catalogo dellamostra: Sirot-ti non è interessato tanto al tessutomorfo-logico del territorio e al suo “ritrarlo”,ma afar emergere quel “bisogno”, quasi fisico, diluce che hanno le sue tele e quella propriaparte emozionale: la paura e la caducità del-la vita, intravista e poi rappresentata dallascia di un’onda che si perde nel più vastomare o in un orizzonte che va restringendo-si nel suo viaggio verso la riva. Il giorno 27novembre, data dell’inaugurazione di que-sta personale, è stato segnato damolti altrieventi, quali concerti e conferenze, in occa-sione dell’apertura della rassegna interna-zionale: “Mediterraneo, daCourbet, aMonet,a Matisse” presso il Palazzo Ducale, sem-pre curata da Marco Goldin. Due mostre,un’unica fonte ispiratrice: il marMediterra-neo, ritratto inmodi diversi, in periodi sto-rici e da pittori appartenenti a correnti sti-listiche differenti. Dal settecento, all’ottocen-to impressionista, al fauvismo, alle avanguar-die moderne fino alla contemporaneità as-soluta del grande Raimondo Sirotti.

RaimondoSirotti,Mediterraneo.Ilcolore

dellaluce

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RAIMONDO SIROTTI,MEDITERRANEO. Il colore della lucedal 28 novembre 2010 al 30 gennaio 2011Museo di Palazzo Reale,Teatro Falcone, Genova

di Valentina Isola

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INTERVISTA AD ANTONIO FINELLIVincitore del concorso internazionaled’arte contemporanea under 25 - SaturaPrize 2010

di Simone Pazzano

Antonio Finelli, giovane artista molisano si è diplomato presso il Li-ceo Artistico di Campobasso per trasferirsi poi a Roma per perfezio-nare la sua preparazione presso l’Accademia di Belle Arti. Ha parte-cipato al concorso SaturaPrize vincendo il primo premio nella catego-ria Under 25 con l’operaMare Nostrum, stampa litografica. Artista emer-gente d’ispirazione iperrealista, trasmette con grande naturalezza lasua arte oggetto di una lunga e meticolosa ricerca.

Data la giovane età, quando è ini-ziata questa passione e cosal’ha spinta a fare arte?

È cominciato tutto tra le mura dicasa. Ho preso confidenza conl’arte fin da piccolo in famiglia.Mio nonno infatti era un pittoreauto-didatta e quindi avere vici-no qualcuno che dipingeva mi hafatto subito respirare l’arte. Poiovviamente ho deciso di appro-fondire questa passione permezzo degli studi, con il liceo ar-tistico prima e l’Accademia diBelle Arti di Roma che sto con-cludendo.

Dal Molise a Roma: un passag-gio importante per lei. Che effet-to ha avuto questo cambiamen-to sulla sua arte? La capitale harafforzato le sue concezioni o leha radicalmente stravolte?

Effettivamente Roma è stataportatrice di grandissimi cambia-menti per me. L’Accademia mi hafatto maturare molto a livello ar-tistico, oltre che umanamente e

Intervista

adAntonio

Finelli

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Autoritratto, matite su carta liscia, 160z110, 2010

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devo dire che forse in Molise non avreiavuto le stesse possibilità di sviluppo. Senon altro perché è una regione piccola.Roma invece mi ha permesso di scopri-re l’arte contemporanea, di visitare con-tinuamente nuove mostre, oltre che in-contrare e conoscere molti artisti. Quin-di l’incontro e il confronto con ambien-ti, persone e tecniche nuove hanno incen-tivato il mio percorso di crescita, che ètuttora in corso.

Come nasce l’opera vincitrice di Satura-Prize?

Quando ho un progetto in testa lo elabo-ro eseguendo una serie di lavori tutti ine-renti quest’idea. Nel caso dell’opera cheha partecipato al concorso si tratta delrisultato di un progetto che sto portan-do avanti riguardo al viso, in particola-re quello degli anziani. Mi piace fare inmodo che questi primi piani siano inten-si e comunicativi. Cerco volti caratteri-stici, che trasudino l’esperienza checonservano dentro. La risultante vuoleessere un forte impatto visivo che por-ti a un contatto col fruitore.

Si nota nel suo fare artistico una ricer-ca meticolosa, quasi puntigliosa. Que-sta caratteristica è stata ispirata o in-fluenzata da qualche artista in partico-lare?

Diciamo che l’Accademia e gli insegnan-ti mi hanno portato a lavorare in questomodo. A ciò ovviamente ho aggiunto delmio giungendo a questa maniera studia-ta e dettagliata, quasi iperrealista. Amoriprodurre i miei soggetti in modo quan-to più preciso e particolareggiato possi-bile senza tralasciare nulla. Un artista chesicuramente apprezzo moltissimo è Lu-ciano Ventrone, uno dei più grandi iper-realisti contemporanei.

Da giovanissimo artista, ritiene che inquesto settore ai giovani venga data ade-guata attenzione o le occasioni per met-tersi in mostra sono poche?Devo dire che a volte io mi sento fortu-nato. Certo il settore sinceramente nonè più quello di una quarantina d’anni fa,quando un artista era ricercato e sceltosolamente per le sue qualità. Ora purtrop-po sembra essersi innescato un circolovizioso: un giro in cui se investi allora ot-tieni qualcosa. Fortunatamente perònon tutti si muovono in questa direzio-ne e ci sono realtà che scelgono e valu-tano ancora alla vecchia maniera pre-miando il talento; realtà che quindi mistanno permettendo di crescere e met-termi in mostra.

Progetti per il futuro? Sta lavorando aqualcosa di nuovo?

Sì, ho un progetto che penso si concre-tizzerà l’anno prossimo, ma su cui ho giàiniziato a lavorare. Il soggetto sarà l’au-toritratto, ma non nel senso classico diriproduzione di me stesso: voglio che ilmio ritratto venga fuori dalla rappresen-tazione delle persone che più hanno con-tribuito alla mia crescita e che mi han-

Intervista

adAntonio

Finelli

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Visioni, matite su carta liscia, 100x70, 2007

V E T R I N A

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no caratterizzato. Quindi i ritratti dei miei famigliari, degli amici piùcari, del mio maestro d’Accademia saranno dei singoli tasselli che in-sieme daranno vita al mio autoritratto. Tutti i soggetti sono miei scat-ti fotografici su cui poi lavoro riproducendoli a matita su grande sca-la (anche 180x120), per ottenere la massima attenzione sui dettagli.Questo mi porta quindi a soffermarmi anche mesi su una singola im-magine.

Intervista

adAntonio

Finelli

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Mare nostrum, stampa litografica su carta, 30x18, 2010

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INTERVISTA A SIMONA BRAMATIVincitore del concorso internazionaled’arte contemporanea under 40 - SaturaPrize 2010

di Simone Pazzano

Simona Bramati vive e lavora a Castelplanio (AN) dopo essersi laurea-ta all’Accademia di Belle Arti d’Urbino. Molto apprezzata dal criticoVittorio Sgarbi, Simona Bramati è oggi un artista affermata e conosciu-ta dal grande pubblico. Presso l’Associazione Culturale Satura ha par-tecipato al concorso SaturaPrize vincendo il Primo Premio nella cate-goria Under 40 con la sua opera “Legami”.Artista dalla grande sensibilità e raffinatezza pittorica, oltre che cultura-le, è attenta osservatrice delle cose umane che prendono vita attraversosensuali corpi femminili costantemente soggetti alla mano del destino.

Intervista

aSimonaBramati

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Emma, tecnica mista su tela, 180x180, 2008

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Marchigiana, nativa di Jesi e laureata aUrbino. Dunque una regione fondamen-tale per la storia moderna dell’arte ita-liana. Simili esperienze hanno avuto unruolo nella sua formazione e possono es-sere tuttora spunti validi per una giova-ne artista contemporanea?

Certamente. Anche se ho iniziato l’Acca-demia aMilano per poi trasferirmi a Urbi-no. La città marchigiana ha avuto un in-fluenza importante su di me. Com’è rav-visabile nelle mie opere il Rinascimento èfortemente presente in tutto il mio lavoro.

Al di là di questi fattori geografici, la suaconcezionedell’arte e la conseguente resasu tela hanno risentitodell’influssodi qual-che artista o movimento in particolare?

Come detto, sicuramente il Rinascimen-to è stato fondamentale nella mia conce-zione artistica. In particolare l’opera di Pie-ro della Francesca che ho ammirato mol-to e studiato per il suo uso del colore, perle forme e la composizione dell’opera.

Venendo ai suoi dipinti, si nota subitouna cosa: la dimensione delle tele su cuiopera. È sempre più raro trovare ultima-mente artisti che si mettano alla provacon grandi dimensioni, anzi il formatoè andato spesso riducendosi semprepiù. Cosa la porta ad avere questa pre-dilezione?

Sì anche per quanto riguarda le dimen-sioni, l’influenza forte è sempre quelladegli artisti rinascimentali. Cerco di es-sere continuamente in rapporto con leopere antiche. E anche se lavoro tranquil-lamente su supporti di piccole dimensio-ni, il mio è una sorta di esercizio, allena-mento che mi porta talvolta a provare ariportare su grandi dimensioni sogget-ti elaborati precedentemente in piccolo.

E l’approccio con la creazione è istinti-vo o più meditato?

Io non realizzo bozzetti preparatori. Di-ciamo che il lavoro si sviluppa per mesinella mia testa, viene pensato, ragiona-to per poi essere tirato fuori tutto sullatela nel momento in cui mi sento pron-ta. Perciò in un certo senso può definir-si in entrambi i modi: istintivo, ma mol-to meditato.

Forte è il senso di destino che si compienelle sue opere. Che ruolo giocano in ciòi corpi che rappresenta? Si nota come allaripresa di temi della mitologia classicasi unisca un taglio più disinibito, quasiostentato della nudità.

Intervista

aSim

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Basileia, tecnica mista su tela, 300x150, 2008

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Il corpo subisce profondamente il destino e di fronte a esso non è più pu-dico. È l’elemento per eccellenza che subisce le trasformazioni. In quelmo-mento non penso a un corpo esibito, ma lo vedo nel suo intimo che cam-bia, che subisce il tempo e il fato. Il corpo si trova solo con sé stesso, nonc’è nessuno.Nonhadavanti unpubblico,mabensì si specchia da solo. Quin-di essendo in balia del destino non è più ne pudico ne disinibito.

Il tema con cui si è abilmente confrontata per il concorso SaturaPri-ze èMare Nostrum. Essendo nata e vivendo in città non propriamen-te costiere, qual è il suo rapporto col mare? E com’è nata l’opera?

Mare Nostrum era come i romani chiamavano il Mediterraneo e ho tro-vato quanto mai adatta la loro visione d’insieme. Dunque più che ra-gionare su una personale esperienza in rapporto al mare, ho pensa-to all’Italia come una grande regione che non ha confini se non il Me-diterraneo appunto. E a pensarci bene a nord abbiamo le Alpi che ciseparano ulteriormente dagli altri stati, immergendoci completamen-te nel Mare Nostrum.Nella mia opera ho voluto sottolineare infatti questo forte legame at-traverso una gamba, vista come nostra pinna simbolica, collegata alpesce, elemento che domina le acque.

Progetti futuri? Sta lavorando a qualcosa di nuovo?

Sì, sto lavorandomolto sul tema delle donne e della loro posizione in que-stomondo. Per farlo mi sto interessando della donnamusulmana, comedi quella occidentale. Un lavoro che vuole essere attuale quindi, non piùriferito a temi mitologici. Sarà un’analisi condotta comunque sempre at-

traverso il corpo con le suetrasformazioni e ferite.

Da artista giovane, ma giàaffermata, ritiene che inquesto settore venga datoil giusto spazio ai giovani?

Sinceramente no. Lo spa-zio è poco. Va consideratapoi la crisi che stiamo at-traversando, la quale in-fluenza molto le scelte deigalleristi. Si preferisce fartornare in scena vecchiartisti che danno più sicu-rezza e non si osa abba-stanza, magari lanciandotalenti emergenti.

Intervista

aSimonaBramati

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Arpia 1, tecnica mista su tela, 34x34, 2008

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Rubrica

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MILANOA cura di Serena Vanzaghi

MATTEO BASILÈThisumanityGalleria PackFino al 29 gennaio 2011

Fedele alla sua ricerca artisticadegli ultimi dieci anni che siconcentra sulla fusione tra artedigitale e iconografia classica,Matteo Basile’, in Thisumanity,racconta brani di vita e culturecontemporanee attingendo dalgrande giacimento di suggestioniquale è l’arte del passato. Puntodi partenza è il capolavoro deltardo gotico fiorentino di PaoloUccello, La Battaglia di SanRomano (1397/1475), opera incui, per la prima volta vengonoapplicate in pittura le regoleprospettiche. Matteo Basilè leriproduce attraverso tecnichedigitali di post-produzione,realizzando 10 fotografie digrandi dimensioni. In un’otticadi immaginario proseguimentodell’azione della battagliadescritta nel quadro di PaoloUccello e attraverso unatraslazione temporale che ciriporta dritti alla situazione delledonne nel sud est asiatico, Basilènarra di una moderna battaglia:quella purificatrice, nella qualedonne di etnie differenti siaffrontano per la propriaidentità e la propriaindipendenza.

a porsi sul serio alcune domandescomode, sulle reali motivazionie sui desideri che guidano lenostre scelte e le nostredecisioni.

FRANCESCO CORREGGIAGalleria Antonio BattagliaFino al 24 dicembre 2010.

Una linea ininterrotta di pittura epoesia attraversa tutte le paretidella galleria: in occasione dellasua seconda personale presso laGalleria Antonio Battaglia,Francesco Correggia si propone indue vesti, pittore e autore. Neiquadri esposti infatti il gestopittorico accoglie il gesto poetico,il colore irrequieto incontra laparola sulla linea dell’orizzonte.In un continuo susseguirsi erincorrersi convulso verso unpunto di fuga non delineato,pittura e poesia rivendicano lapropria identità, ora dialogando,ora entrando in contrasto traloro. Una ricerca di spazio e disenso che si sovrappone allacollocazione stessa della lineacontinua di quadri che l’artista hacreato all’interno dello spazioespositivo. Così, lo spettatoreviene invitato non solo a coglierevisivamente il percorso pittorico epoetico della mostra ma anche aseguirne il ritmo e le rispettivecesure, come se si trovasse difronte a un’inusuale partituramusicale.

FRANKLIN EVANSTimes 2Galleria Federico LugerFino al 15 dicembre 2010.

Seconda personale presso glispazi della galleria milanese perl’artista nato a Reno (NV) eresidente nella Grande Mela.

MATTHEW BRANNONThe Inevitable and theUnnecessaryGalleria Giò MarconiFino al 22 gennaio 2011

L’arte di Matthew Brannon, allaseconda personale negli spazidella galleria milanese, mira asollecitare il pubblico allariflessione su alcuni temi chetoccano la contemporaneità e, inparticolar modo, la societàodierna, con i suoi ma, i suoi se ei suoi clichès. Attraversol’impiego di diversi media,l’artista newyorkese focalizza lasua ricerca su particolari temi

come l’incoerenza, il desideriorepresso, l’alcolismo, la carriera.Tutti tasselli che, volenti onolenti, fanno parte della nostraquotidianità e che si manifestanosotto diverse forme, comediversi sono i materiali con cuivengono indagati da Brannon. Equale tassello del grande puzzledell’ “Oggi” rappresenta l’Arte?Mettendo in gioco se stesso inprima persona, essendo unartista in via di affermazionemondiale, Matthew Brannongioca con il “suo” clichè,riproponendo in scultura tutte leimmagini abusate e inflazionatedell’artista solitario, che bevevino, che fuma e leggestropicciate edizioni tascabili.Non fatevi trarre in inganno peròdal tono canzonatorio con cuiBrannon si presenta al pubblico:la sua verve provocatoria induce

M. Brannon, Drinking Games, 2007

Francesco Correggia, Courtesy GalleriaAntonio Battaglia

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Installazione, pittura e disegno,si alternano e si rimandano gliuni agli altri in una continuariflessione sul tempo e laripetizione. Attraverso duepercorsi differenti, Evans mette aconfronto la parola conl’immagine, l’erosione con ladecontestualizzazione, il tuttoanalizzato e incalzato da unaripetizione sistematica esemantica.Come gli oggetti e i concettisorgono senza un ritmodeterminato, così Evans mette inmostra i suoi lavori, svuotati daun senso temporale econcettuale per espanderli econtrarli in una dimensionefluttuante.

LE GRANDI FIRME AMILANO

Il primo decennio del terzomillennio si conclude a Milanocon una festa delle grandi firme(non della Moda, ma dell’Arte,questa volta). Il neo-inauguratoMuseo del Novecento, la mostradi Salvador Dalì a Palazzo Realee la più vasta rassegna italianasu Auguste Rodin a Legnano,non solo concludono il 2010, mainaugurano anche il nuovo anno,offrendo a tutti un auguriod’Arte con firma d’Autore.

MUSEO DEL NOVECENTOPalazzo dell’Arengario

Il 6 dicembre scorso finalmenteha aperto le porte al pubblicol’atteso Museo del Novecento. Ilprogetto di restauro del Palazzodell’Arengario, a cura di Italo Rotae Fabio Fornasari, ha avuto comeobiettivo quello creare un sistemamuseale semplice e lineare,capace di contenere le circa 400

Trione e organizzata incollaborazione con laFondazione Gala, torna acelebrare a Milano la pittura diSalvador Dalì. Una mostra che sirivela uno studio e una ricercaall’interno dell’immensa operadell’artista e che offre spunti dilettura interessanti e inediti. Apartire dall’allestimento:progettato dall’architetto, amicoe collaboratore di Dalì, OscarTusquets Blanca, ripropone perla prima volta all’interno delpercorso espositivo la sala diMae West, ideata insieme almaestro surrealista spagnolo.Nell’intento di estrapolare dallavariegata produzionedell’artista una linea mistica,religiosa e spirituale che tocca ilrapporto con il paesaggio, lametafisica e la memoria, ilpercorso si snoda tra opere nonceleberrime presso il grandepubblico ma egualmenteaffascinanti, sino a concludersicon alla proiezione delcortometraggio “Destino” diSalvador Dalì e Walt Disney, perla primissima volta proiettato inItalia.

AUGUSTE RODINLe origini del genioFino al 20 Marzo 2011Palazzo Leone da Perego,Legnano (MI)

E’forse uno dei felici ma raricasi in cui una città di provinciaospita una mostra di taleportata: è presso il PalazzoLeone da Perego di Legnano cheè esposta la più granderassegna italiana su AugusteRodin. Merito del riuscitoconnubio portato avanti tra

opere del XX secolo selezionatedal Comitato Scientifico e diproprietà delle Civiche Raccolted’Arte. Un excursus artistico chetocca i principali movimenti delsecolo scorso tra cui il Futurismo,il Gruppo Novecento, loSpazialismo, l’Arte Povera,passando dunque per Boccioni,Carrà, Soffici, Morandi, Fontana,Manzoni, Kounellis e altri ancora.Un percorso che volontariamenteaccentra la propria attenzionesulle identità artistiche nazionali

del secolo in questione,tratteggiandone sviluppi econtorni, e lasciando la ricerca piùprettamente internazionale alfuturo Museo d’arteContemporanea, in apertura traqualche anno. Un lavoro condottoda un’equipe di esperti nel campodell’Arte e della Cultura chehanno accompagnato, con unaserie di studi e analisi, la sceltadell’intera collezione esposta.Milano dunque possiede un nuovoMuseo del Novecento e, inprevisione, un Museo d’ArteContemporanea: buon auspicioper poter iniziare a pensare alcapoluogo lombardo come unacittà d’arte in cui, anche a livelloistituzionale, si possano crearequelle giuste realtà per faredell’Arte una vera e importanteesperienza culturale aperta a tutti.

SALVADOR DALI’Il sogno si avvicinaFino al 31 gennaio 2011Palazzo Reale

Grande ritorno delle opere delfamoso pittore surrealista nelleSale di Palazzo Reale: dopo oltre50 anni, la mostra “Il Sogno siavvicina”, a cura di Vincenzo

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Franklin Evans, Fibtree uncut corner,2010. Courtesy Federico Luger Salvador Dalì, Senza Titolo, 1931

G. Pellizza da Volpedo, “Il QuartoStato”, 1898/1901, ora esposto alMuseo del Novecento, già nella CivicaGalleria d’Arte Moderna di Milano

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SALe (Spazi d’Arte Legnano) e ilMusèe Rodin di Parigi,coordinato dai curatori AlineMagnien e Flavio Arensi con lacollaborazione di FrancoisBlanchelière e Hélène Marraud.Sessantacinque sculture (moltedelle quali inedite) ventiseidisegni, diciannove dipinti(anch’essi inediti) e fotod’epoca: una mostra cheraccoglie una cospicuaproduzione dell’artista epiacevoli sorprese, checonducono lo spettatoreattraverso un percorso a tappe

artistiche e biografiche. Temad’indagine è la primaproduzione artistica dell’artistafrancese, circoscrivibile tra il1864 e il 1884. Un ventennioproficuo che vede l’artistamisurarsi con alcuni dei suoicapolavori più importanti, tracui l’approccio con la stupendaopera mai conclusa “La Portadell’Inferno”, che raccoglie in ségran parte della poetica diRodin. L’analisi psicologica eintima dei suoi personaggi e ilplasticismo mosso e inquietodel modellato fanno di Rodin unprecursore di molti movimentiartistici del Novecento,ammirato e apprezzato ancoraoggi per la sua capacità diconfrontarsi con la materia inun modo unico, come solo igrandi maestri sanno fare.

l’artista ha pubblicato in duevolumi e che raccoglie uninteressante confrontogenerazionale e personaleproprio a partire dal concetto didiario. Alla scrittura intima evibrante che si ritrova nel diariodel padre (noto scrittore egiornalista attivo a Milano negliAnni Sessanta), Maria Morganticonfronta le sue paginemonocrome, stese, pennellataper pennellata e risultato diinfiniti incroci cromatici. Ilsecondo volume, elaboratosempre attraverso un’ottica diraffronto personale e affettivo,raccoglie le testimonianza diamici artisti e intellettualidell’artista sull’idea di “diario”,ai quali Maria Morganti hadedicato i 40 monocromipresenti in galleria.

ANNE E PATRICK POIRIERIl Giardino della MemoriaFino al 12 dicembre 2010Palazzo Pirola, Gorgonzola (MI)

La mostra che terminerà il 12dicembre a Palazzo Pirola dicemolto sul grande progetto cheAnne e Patrick Poirier hannostudiato per il cimitero diGorgonzola, in via direalizzazione nel corso del 2011.Disegni, rendering e maquettedocumentano la sensibilità e laspiritualità con cui i due artistifrancesi si sono accostati aquesto luogo. Una sceltainusuale di intervento artisticoma non nel caso di Anne ePatrick Poirier che hannoaffrontato questa esperienzacome “una sfida al tempo stessoartistica e spirituale”:contestualizzando questoprogetto all’interno del loro

INVITO AL VIAGGIO.PARTE 1PROPOSTE DALLACOLLEZIONE DEL MUSEO:AMBIENTIPinot Gallizio, Fabio Mauri,Mario Merz, Superstudio.Museo Pecci MilanoFino al 22 gennaio 2011.

Riapre a Milano la sedeespositiva distaccata del Museoper l’arte contemporanea LuigiPecci di Prato. Proponendo operedella collezione del Museotoscano, la mostra “Invito alViaggio” si presenta come unevento che si svilupperà in piùtranches, ognuna delle quali siconcentrerà su aspetti diversidella collezione stessa. Ainaugurare questo nuovopercorso espositivo sono dunquegli ambienti di Pinot Gallizio,Fabio Mauri, Mario Merz eSuperstudio. Il tema del Viaggio,che verrà sondato sotto diversipunti di vista nel corso delleesposizioni, si configura come iltrait d’union delle opere espostee, allo stesso tempo, come ilsimbolo dello spostamento e delrinnovamento della collezionePecci che, nel frattempo,ristrutturerà anche la sedepratese in vista della riaperturatra due anni.

MARIA MORGANTIUn diario tira l’altroGalleria Otto ZooFino al 29 gennaio 2011

I diari cromatici di MariaMorganti, classe 1965, trovanouna nuova interpretazione inquesta mostra. “Un diario tiral’altro” è il titolo del libro che

A. Rodin, Donna accovacciata

Superstudio Supersuperficie, 1971-72Film 35mm riversato in DVD, 9’ Centroper l’arte contemporanea Luigi Pecci,Prato Courtesy Archivio Superstudio,Firenze

M. Morganti, Diari, 2055-2009,Courtesy Otto Zoo, Milano

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percorso artistico, ci si accorgecome l’idea di creare una sorta dinecropoli contemporanea sia in

sintonia con la loro poetica.L’interesse sempre manifestatodai Poirier verso le necropoliantiche, il legame con lamemoria, il continuo dialogo trapresente e passato, nonché il filrouge che stringeinesorabilmente vita e morte,sono le chiavi di lettura cheportano a comprendere questolavoro. Il cimitero è statopensato dai Poirier con unapianta a forma di foglia diquercia, un’area verde, un parcocollinare. La durezza della pietradelle tombe viene così addolcitadalla presenza di diverse formevegetali. Un giardino fiorenteladdove la vita si spegne, cheaccompagna delicatamente la“corrispondenza di amorosisensi” con i propri cari, lontanoda quell’aspetto asettico e quellasensazione di vuoto che questiluoghi generalmente esprimono.

Rubrica

A. e P. Poirier, Pianta a foglia di querciadel futuro cimitero di Gorgonzola.

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SATURAPRIZE 2010 &ARTSCHOOL SATURAPRIZEConcorso internazionale per giovani artisti dai 18 ai 40 anniindetto dalla rivista SATURA arte letteratura spettacoloabbinato al concorso ArtSchool rivolto agli istituti d’arte

di Mario Napoli

Genova, SSAATTUURRAA associazione culturale4 dicembre – 23 dicembre 2010

Con il patrocinio e la partecipazione finanziaria di Regione Liguria, Provincia di Ge-nova, Comune di Genova, Municipio 1 Centro Est, si è inaugurata sabato 4 dicembrepresso la sede dell’associazione culturale Satura, piazza Stella 5/1, cap 16123 Geno-va, il concorso Internazionale d’arte Contemporanea SaturaPrize 2010 abbinato al con-corso regionale Artschool SaturaPrize 2010.

Il concorso internazionale di arte SaturaPrize, alla sua prima edizione, è un’iniziativache l’Associazione Satura ha voluto interamente dedicare ai giovani artisti italiani edeuropei.

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Questa occasione mette pienamente inluce due importanti punti di forza del-la filosofia che anima i progetti dell’as-sociazione: l’apertura ad una dimensio-ne che sappia guardare oltre i confini na-zionali, unita ad un costante impegno edinteresse nel ricercare e sostenere inuovi talenti del panorama artistico.Filo conduttore del concorso è il tema MareNostrum, concetto dall’affascinante sapo-re antico che inserisce così SaturaPrizenelfilone di eventi prodotti a Genova in oc-casione della Biennale del Mediterraneo.Il concorso vuole così unire idealmente pre-sente e passato, associando un significa-tivo dibattito sulla situazione artistica con-temporanea ad una riflessione sul Mar Me-diterraneo come crogiuolo di popoli e cul-la di antiche civiltà.

Gli artisti finalisti, ognuno con un propriostile ben individuato, hanno saputo riela-borare in modo originale il tema proposto,realizzando attraverso i loro diversi pun-ti di vista, un importante momento di con-fronto e dialogo tra le diverse culture eu-ropee. Dalle opere in gara emergono sug-gestioni molteplici, gli artisti hanno trat-to ispirazione o volgendo il loro sguardoal passato, o focalizzandolo sull’attualità,oppure concependo l’opera in modo inti-mo e personale. La giuria di giovani critici ed esperti di arte,presieduta dal Presidente Mario Napoli, haselezionato le opere finaliste valutando laloro realizzazione, il loro stile e la tecni-ca, ma soprattutto l’idea espressa.In questa rassegna sono presenti dipinti, fo-tografie ed elaborazioni più concettuali: unacommistione di linguaggi e materiali diver-si che esprime al meglio la sperimentazio-ne legata all’arte contemporanea.La buona qualità delle opere in concor-so dimostra come il panorama europeosia ricco di giovani artisti interessanti ecome sia importante dare loro il giustospazio per esprimersi e farsi conoscere.

GIURIA DEL CONCORSO INTERNAZIONALE D’ARTE SATURAPRIZESilvia Barbero critico letterario Barbara Cella critico d’arte Valentina Isola critico d’arte Milena Mallamaci architetto Mario Napoli presidente Satura Sara Odorizzi critico d’arte Simone Pazzano critico d’arte Flavia Motolese critico d’arte

Antonio Finelli 1˚ under 25, Simona Bra-mati 1˚ under 40, Arianna Lerussi 2˚ un-der 25, Andrea Marcoccia 2˚ under 40,Simone Rivabella 3˚ under 25, Paolo Te-deschi 3˚ under 40, Chiara Schiaraturapremio della critica, Camilla Traldi pre-mio della giuria, Carolina Ardia 4˚ un-der 25, Kay Pasero 4˚ under 40, Deme-trio Giacomelli 5˚ under 25, Alessandro

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SIMONA BRAMATI, Legami

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Tambresoni 5˚under 40, Salvatore Van den Busken 6˚under 25, Sil-via Infranco 6˚under 40, AlessandraMaciac 7˚under 25, Laura Baldo7˚under 40, AndryWhite 8˚under 25, Andrea De Pascale 8˚under 40, Simone Delucchi 9˚under 25, Sara Calzolari 9˚under 40, Davide Bran-cato 10˚under 25, Gregorio Adezati 10˚under 40.

I FINALISTI DI SATURAPRIZE 2010Gregorio Adezati, Ombretta Arbasio, Carolina Ardia, Artgei, Badyr Askan-dar, Laura Baldo, Fara Bersano, Simona Bramati, Davide Brancato, SaraCalzolari, Cinzia Cannavale, Maria Josephina Cannizzaro, Meri Ciuchi,Chiara Compagni, Elisa Costantini, Andrea Dagnino, Consuelo D’An-tonio, Paolo Dazio, Giuseppe De Angelis, Simone Delucchi, Enrico DeNapoli, Andrea De Pascale, Niccolò Duse, Giovanni Federico, AntonioFinelli, Laura Gaddi, Demetrio Giacomelli, Stefano Horjak, Silvia Infran-co, Zane Kokina, Arianna Lerussi, Alexandra Maciac, Silvio Maiano, Fa-brizio Mantovani, Andrea Marcoccia, Stefano Marchetti, Marco Mattei,

Mario Napoli Saturaprize 2010 & Artschool Saturaprize

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ARIANNA LERUSSI , Tutte le cose che non parlano

PAOLO TEDESCHI, Io nell'internet non ci volevo venire

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Barbara Mazzone, Laura Merola, Julia Me-skauskas, Massimo Micci, Okiana Mike-li, Francesco Minucci, Federico Morella-to, Opiemme, Maddalena Palladini, SaraParavagna, Kay Pasero, Niccolò Pizzorno,Luana Resinelli, Simone Rivabella, Stefa-nia Rizzelli, Pietro Rossi, Loredana Sal-zano, Chiara Schiaratura, Valentina Ta-bacchi, Alessandro Tambresoni, Fabio Ta-ramasco, Paolo Tedeschi, Camilla Tral-di, Salvatore Van den Busken, CristinaVolpi, Massimo Volponi, Andry White,Alessandra Zecca, Antonello Zito.

I FINALISTI DI ARTSCHOOL SATURAPRIZEGiulio Alvigini, Greta Baiardi, MassimilianoBaldacci, Luigi Barone, Parsifal Bertin, Gior-gia Bonaventura, Fabiola Bracchi, FrancescaBucci, Sofia Caristi, Miriam Cartisano, Giu-lia Casiraghi, Lucio Casorati, Alice Cerret-ti, Andrea Charpentier Mora, Michela Cia-rapica, Chiara Claus, Veronica Di Gaudio,Maria Forziano, Stefano Fucilli, Daniele Gua-sco, Valentina Mangino, Lisa Mansueto, Chia-ra Marchese, Filippo Marcone, FedericaMatteuzzi, Shana Minio, Melissa Moggia, Mi-chele Moretti, Giuditta Napoli, Petra Oeyan-gen, Jacopo Perotti, Luna Poggi, Margheri-ta Ramella, Giorgia Rizzo, Giulia Rossi, Gre-gorio Rossi, Giorgia Rotolo, Elisa Saggini, Jes-sica Schiacchitano, Giacomo Scognamiglio,Valentina Stargiotti, Claudia Tacchella, Da-vide Tesconi, Francesca Testa, Federico Til-li, Agnese Valenza, Giulia Viviani, Valenti-na Vojvodic, Kevin Weicht, Nadia Zrouga.

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ANDREA MARCOCCIA, Wipeout

CAMILLA TRALDI, Acciuga

SIMONE RIVABELLA, Emersione

CHIARA SCHIARATURA, WaterBody

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GENOVA SI TINGE DI GIALLOdi Mario Napoli

FFEESSTTIIVVAALL DDEELLLLAA LLEETTTTEERRAATTUURRAADDEELL CCRRIIMMIINNEECCrriimmee && DDrraammaa 22001100SSeessttaa EEddiizziioonneePPaallaazzzzoo SStteellllaa // GGeennoovvaa2255 –– 2266 –– 2277 nnoovveemmbbrree 22001100

Si è chiuso sabato 27 novembre 2010 il VI Festival della Letteraturadel Crimine Crime & Drama 2010. L’evento, alla sua sesta edizione, haportato a Genova trentacinque Autori nazionali ed internazionali disuccesso, suggeriti dalle maggiori case editrici italiane e straniere. In-sieme agli Autori sono intervenuti personalità di spicco del mondo del-la cultura ed esperti di settore. Il tutto accompagnato da stacchi mu-sicali, brevi letture e coreografie in tema. Questi i numeri del festival:tre giorni dedicati alla letteratura del crimine, trentacinque gli auto-ri, trentatré gli interventi, ventidue gli editori, settantotto i giovani se-lezionati attraverso il concorso “Il Giallo in Classe”, sessanta gli arti-sti invitati a partecipare alla rassegna d’arte “Probabili indizi”.Teatro del Festival Palazzo Stella, sede dell’Associazione, a pochi pas-si dal Ducale e dall’Acquario di Genova. La manifestazione è stata pa-trocinata da Regione Liguria, Provincia di Genova, Comune di Geno-va e Municipio 1 Centro Est. In collaborazione con Il Secolo XIX e Ra-dio 19, il Centro Studi di Criminalistica, il Centro Formazione Artisti-ca di Luca Bizzarri, gli U.R.O.S.S, la libreria Finisterre, Blu Box.Alla domanda: cosa si è fatto in questa edizione il direttore artisticoRenato Di Lorenzo ha risposto che si è proseguito nel programma de-lineato nel 2009, di allargamento degli orizzonti del Festival, ad inclu-dere tutta la letteratura che vuole e sa narrare una storia. Sono rima-sti fuori solo le correnti di avanguardia, gli Autori sperimentali.A ben vedere, afferma: la cronaca quotidiana è intrisa di autentico my-stery. Dai conflitti tra vicini di casa, le uccisioni apparentemente sen-za senso di ragazze inconsapevoli, la disperazione di immigrati ed im-migrate che trovano qui realtà molto diverse da quelle che erano lorostate prospettate: tutto contribuisce a formare un contesto sociale checostituisce poi il nostro vissuto quotidiano e di cui la letteratura è chia-mata a dare conto.Anche sul piano delle opere presentate il nostro intento ha dato voceanche alle piccole case editrici, quelle che hanno poca o nulla capaci-tà di imporre i propri autori alla stampa e ai critici cioè, di conseguen-za, al pubblico.

VI Festival della letteratura del crimine

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Sono stati invitati a rispondere a questedomande o a porne delle altre scrittori in-nanzitutto, perché il focus era sulla let-teratura, ma anche giornalisti, psicolo-gi, medici legali, sociologi, storici e altri.Ogni giorno sono stati presentati più ro-manzi di recente pubblicazione, nell’ar-co di tempo di mezz’ora ciascuno.

GLI AUTORI:Giuseppe Aloe, Alan D. Altieri, Claudio Ba-gnasco, Guido Barbazza, Antonella Becca-ria, Lucia Bruni, Dario Camilotto, Gianni Ca-nova, Enzo Ciconte, Leonardo Coen, Alfre-do Colitto, Emanuele Oscar Crestani, Val-ter Esposito, Roberto Keller, Angelo Langé,Massimo Lugli, Vincenzo Macrì, SimonaMammano, Patrizia Marzocchi, ClaudioPaglieri, Giuseppe Pederiali, Simone Perot-ti, Pierluigi Porazzi, Marco Preve, Andrea Pu-gliese, Cristina Rava, Silvano Rubino, Giu-seppe Salvaggiulo, Ferruccio Sansa, SandroSansò, Carlo Simoncini, Gianni Simoni,Giorgio Sturlese Tosi, Renato Vallanzasca,Maria Teresa Valle.

GLI EDITORI:Baldini Castoldi Dalai,Chiarelettere,De Fer-rari,Dario Flaccovio, Fratelli Frilli, FBE,Gar-zanti, Giulio Perrone, Il Maestrale, Ilmio-libro.it, Il Prato, Keller, Kowalski, Libero-discrivere, Marsilio,Mursia, NewtonCom-pton, Piemme, Rizzoli, Rubbettino, Stam-pa Alternativa, Tea

GLI INTERVENTI:Gigliola Bartolini, Annalisa Berra, AngelaBurlando, Sara Busoli, Riccardo Caramel-lo, Alberto Caselli Lapeschi, Antonio Ca-valieri, Alfredo Chiti, Guido Colella, IgorDante, Gianni Di Meo, Mario Erasmi, Fabri-zio Fano, Roberto Frank, Laura Lizzio, Raf-faella Multedo, Paolo Musso, Pietro Oddo-ne, Emanuele Olcese, Paola Pellegrino, SaraPinton, Alberto Poli, Pierangelo Quartero,Maurizio Raso, Fernando Rocca, Amedeoe Miriam Ronteuroli, Sivia Sale, Sandro San-sò, Emilio Steri, Fabio Strata, Lorenzo Ter-manini, Chiara Urci, Sergio Verdacchi

I GIOVANI: Valentina Acerbi, Barbara Acciarito, Rober-to Agates, Noemi Alpestre, Mariachiara Ar-minio, Lucrezia Bacchi, Giulia Barattini, Su-sanna Boiocchi, Alessandro Braico, MatteoBrunelli, Noemi Bruzzone, Ludovico Calde-rini, Sara Caldini, Antonino Calvaruso, Da-vide Calvaruso, Giulia Camedda, Cristina Ca-sula, Ana Gabriela CedenoHidalgo, DavideChignola, Fabio Comazzi, Elisabetta Consil-vio, Alfredo Coppo, Alessia De Stefani, Eleo-nora Dal Corso, Sergio Di Bella, Giovanni DiNoto, Salvatore Di Noto, Riccardo Dornet-ti, Dalila Fassina, Daniela Ferrara, Alessan-dra Ferraris, Beatrice Fontana, Valeria Gal-van, Alessandro Gangemi, Riccardo Geno-vese, Valeria Gianfalla, Jessica Giardina, Gior-gia Grandi, Simone Italiano, Catia Leonci-ni, Altea Leoni, Valeria Lo Verso, Yi Luna Lu,Davide Maisano, Francesco Maisano, Nicho-las Mauri, Debora Mazzotta, Mirlinda Meta,Eleonora Molti, Giulia Murano, Maria Navar-ra, Cristina Novello, Giovanni Nuzzo, Mar-ta Onorato, Sara Ottonello, Matteo Paolini,Francesca Patti, Flavio Petruzzellis, Domi-nique Pietropaolo, Elide Fortunata Polizzot-to, Carlotta Protopapa, Luca Pruner, GiuliaRe, Chiara Ricci, Rossella Romano, Ar-mando Ruggirello, Matteo Scovino, Concet-ta Seggio, Lorenzo Sovera, Clara Timossi,Matteo Torriglia, Nicoletta Traverso, Rebec-ca Trevisan, Alice Twiss, Andrea Twiss,Omar Varvicchio, Alessandro Vercesi, Pa-squale Zampella, Elena Zanella

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el crimine

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Page 92: SaTuRa 12.pdf · Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande: ... Anni spingendo indietro l’urlo, la tua fame rossa. Ma adesso un boccone può ... il sangue leggero come ...

GLI ARTISTI:PaoloAncarani, Adriana Bacigalupo, Lau-ra Baldo, Raffaella Bisio, Luca Braglia, Lu-ciana Bornheber, Virginia Cafiero, MarinaEdith Calvo, Sara Calzolari, GianfrancoCarrozzini, Milly Coda, Giancarlo Contu,Alfredo Coppo, MarcoDe Barbieri, GigiDe-gli Abbati, Enzo Di Franco, Maria Di Nit-to, Cira D’Orta, Josine Dupont, Silvia Fu-cilli, FrancescaGalleri, GraziellaGemigna-ni Menozzi, Gianluigi Gentile, Maura Ghi-selli, Giacomo Grasso, Karl-Heinz Hinz,Andi Kacziba, Giò Lacedra, Grazia Lavia,Milena Lionetti, Sylvia Loew, LauraMero-la, Francesco Minucci, MaurizioMorandi,Riri Negri, Patrizia Oliveri, Natale Pasca-le, Sofia Paoletti, Lucia Pasini, Paola Pastu-ra, Mario Pepe, Giuliana Petrolini Arcella,Giuliana Piccardo, Sergio Poggi, Marco Pon-te, Sabina Romanin, Guido Rosato, GioSciello, Gaspare Sicula, Gabriella Soldati-ni, Giovanni Soncini, Alessandro Tambre-soni, Maria Vittoria Vallaro, Sergio Vecia

NUMEROSI GLI EVENTI CORRELATI:

LE CONFERENZE: “Liguria noir” curata dalCentro Studi di Criminalistica Genova

LE MOSTRE: “Il peso di un giorno oscuro”di Simona Bramati, “Scene Crime” di LucaRossato, “Identikit” di Niccolò Pizzorno

IL TEATRO: “Finché morte non vi s(e)pari“a cura del Centro Formazione Artisticadi Luca Bizzarri, “Aperitivo con delitto”a cura di Agnese Campodonico e GiuliaRomagnoli, “Intervista sulla scena” a curadi Daniela Biasoletto, Barbara Cella

LA MUSICA: Alibi Fulmine in “Concerto”,“Musica noir” a cura di Fiorenza Buccia-relli (Beatrice Ghezzi soprano, MariaCecilia Brovero, Veronica Nicolis piano-forte, Mauro Massaro trombone)

I CORI: I Phonambuli diretto dal MaestroMaria Collien, Claudio Monteverdi diret-

to dal Maestro Silvano Santagata, Opera-laboratorio diretto dal Maestro Paola Pit-taluga

L’ESPOSIZIONE: “Giallo sulle scale” cura-ta da Silvia Barbero, Maura Ghiselli, Fla-via Motolese, “Piccoli Indizi” a cura deibambini delle classi IV e V della scuolaelementare Garaventa di Genova

IL VIDEO: “Video Contest” a cura diU.R.O.S.S. (Alessandro Bellagamba, Gian-luca Leonardi, Alberto Minghella, MatteoTrillo)

IL CORTOMETRAGGIO: “Nella terra delmai” a cura di Fabio Giovinazzo, Erik Ne-gro, Luca Villani

L’INIZIATIVA EDITORIALE: “Il Giallastro”presentazione del volume che raccoglie lestorie gialle dei giovanissimi vincitori delconcorso nazionale “Il giallo in classe2009” con la collaborazione della De Fer-rari Editore che ha permesso la pubblica-zione e distribuzione del volume

CON IL PATROCINIO E LA PARTECIPA-ZIONE FINANZIARIA DI:

IN COLLABORAZIONE CON:

VI Festival della letteratura del crimine

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Regione Liguria

Provincia di Genova

Comune di GenovaMunicipio 1 Centro Est

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