124767819 Wittgenstein Lezioni E Conversazioni Sull Etica L Estetica La Psicologia E La Credenza...

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file:///H|/...Lezioni%20E%20Conversazioni%20Sull'Etica%20L'Estetica%20La%20Psicologia%20E%20La%20Credenza%20Religiosa.txt[29/12/2011 12:25:49] Ludwig Wittgenstein. LEZIONI E CONVERSAZIONI SULL'ETICA, L'ESTETICA, LA PSICOLOGIA E LA CREDENZA RELIGIOSA. Adelphi Edizioni, Milano. Prima edizione: ottobre 1967. A cura di Michele Ranchetti. Copyright © 1965 G. E. M. ANSCOMBE, RUSH RHEES, GILBERT RYLE E B. F. MCGUINNESS. Copyright © 1966 BASIL BLACKWELL - OXFORD. Copyright © 1967 ADELPHI EDIZIONI S. P. A. MILANO. Nei testi raccolti in questo volume, tutti appartenenti al periodo compreso fra la pubblicazione del "Tractatus" (1921) e la composizione delle "Philosophische Untersuchungen" (1941-1949), Wittgenstein tratta alcuni temi fondamentali della ricerca filosofica: la natura del «bello» e delle proposizioni di fede, l'interpretazione psicologica, soprattutto in riferimento a Freud, e i fondamenti dell'etica, temi cioè che, pur presenti nell'unica opera da lui pubblicata e negli scritti postumi finora editi, non vi hanno né rilievo né trattazione particolare. Questi scritti, quindi, sia nella forma definitiva data da Wittgenstein stesso, come nella "Conferenza sull'etica", sia nella forma di appunti, presi da Friedrich Waismann durante e dopo conversazioni con Wittgenstein e Moritz Schlick, e da allievi durante lezioni tenute a Cambridge nel 1938, costituiscono un'aggiunta e un chiarimento indispensabili alla comprensione di una personalità filosofica così singolare e determinante per la nostra cultura. In particolare gli appunti, proprio per la forma diretta della conversazione filosofica, conservata nella trascrizione non elaborata dagli allievi, suggeriscono il modo di procedere della sua intelligenza creativa e il rigore non soltanto intellettuale della ricerca, poiché, come dice Erich Heller: «Per Wittgenstein, la filosofia non era una professione; era una passione divorante; e non solamente "una" passione, ma la sola forma possibile della sua esistenza: pensare di poter perdere la propria capacità di filosofare era per lui esattamente come pensare al suicidio». Il volume che qui si presenta fa precedere alla raccolta di testi pubblicata nel 1966, in Inghilterra, a cura di Cyril Barret ("Lectures and Conversations on Aesthetics, Psychology and Religious Belief"), la sopra menzionata "Conferenza sull'etica", tenuta da Wittgenstein a Cambridge nel 1929 o 1930 (l'unica conferenza pubblica che di lui si conosca), oltre a una serie di appunti, sempre sull'etica, presi nello stesso periodo da Friedrich Waismann, e infine a un recente saggio di Rush Rhees dal titolo "La conferenza di Wittgenstein sull'etica". INDICE. SULL'ETICA. Conferenza sull'etica. Note. Appunti di conversazioni con Wittgenstein (Friedrich Waismann). Note. La conferenza di Wittgenstein sull'etica (Rush Rhees). Note. LEZIONI E CONVERSAZIONI SULL'ESTETICA, LA PSICOLOGIA E LA CREDENZA RELIGIOSA. Prefazione di Cyril Barrett. Lezioni sull'estetica. - Prima lezione. - Seconda lezione. - Terza lezione.

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Ludwig Wittgenstein.LEZIONI E CONVERSAZIONISULL'ETICA, L'ESTETICA, LA PSICOLOGIA E LA CREDENZA RELIGIOSA.Adelphi Edizioni, Milano.Prima edizione: ottobre 1967.

A cura di Michele Ranchetti.

Copyright © 1965 G. E. M. ANSCOMBE, RUSH RHEES, GILBERT RYLE E B. F. MCGUINNESS.Copyright © 1966 BASIL BLACKWELL - OXFORD.Copyright © 1967 ADELPHI EDIZIONI S. P. A. MILANO.

Nei testi raccolti in questo volume, tutti appartenenti al periodo compreso fra la pubblicazione del "Tractatus" (1921) e la composizione delle "Philosophische Untersuchungen" (1941-1949), Wittgenstein tratta alcuni temi fondamentali della ricerca filosofica: la natura del «bello» e delle proposizioni di fede, l'interpretazione psicologica, soprattutto in riferimento a Freud, e i fondamenti dell'etica, temi cioè che, pur presenti nell'unica opera da lui pubblicata e negli scritti postumi finora editi, non vi hanno né rilievo né trattazione particolare. Questi scritti, quindi, sia nella forma definitiva data da Wittgenstein stesso, come nella "Conferenza sull'etica", sia nella forma di appunti, presi da Friedrich Waismann durante e dopo conversazioni con Wittgenstein e Moritz Schlick, e da allievi durante lezioni tenute a Cambridge nel 1938, costituiscono un'aggiunta e un chiarimento indispensabili alla comprensione di una personalità filosofica così singolare e determinante per la nostra cultura. In particolare gli appunti, proprio per la forma diretta della conversazione filosofica, conservata nella trascrizione non elaborata dagli allievi, suggeriscono il modo di procedere della sua intelligenza creativa e il rigore non soltanto intellettuale della ricerca, poiché, come dice Erich Heller: «Per Wittgenstein, la filosofia non era una professione; era una passione divorante; e non solamente "una" passione, ma la sola forma possibile della sua esistenza: pensare di poter perdere la propria capacità di filosofare era per lui esattamente come pensare al suicidio».

Il volume che qui si presenta fa precedere alla raccolta di testi pubblicata nel 1966, in Inghilterra, a cura di Cyril Barret ("Lectures and Conversations on Aesthetics, Psychology and Religious Belief"), la sopra menzionata "Conferenza sull'etica", tenuta da Wittgenstein a Cambridge nel 1929 o 1930 (l'unica conferenza pubblica che di lui si conosca), oltre a una serie di appunti, sempre sull'etica, presi nello stesso periodo da Friedrich Waismann, e infine a un recente saggio di Rush Rhees dal titolo "La conferenza di Wittgenstein sull'etica".

INDICE.

SULL'ETICA.

Conferenza sull'etica.Note.

Appunti di conversazioni con Wittgenstein (Friedrich Waismann).Note.

La conferenza di Wittgenstein sull'etica (Rush Rhees).Note.

LEZIONI E CONVERSAZIONI SULL'ESTETICA, LA PSICOLOGIA E LA CREDENZA RELIGIOSA.

Prefazione di Cyril Barrett.

Lezioni sull'estetica.- Prima lezione.- Seconda lezione.- Terza lezione.

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- Quarta lezione.Note.

Da una lezione tenuta durante un corso sulla descrizione.

Conversazioni su Freud.

Lezioni sulla credenza religiosa.- Prima lezione.- Seconda lezione.- Terza lezione.Note.

°°°

SULL'ETICA.

La conferenza sull'etica, pubblicata per la prima volta nel gennaio 1965 in «The Philosophical Review», 75 (Cornell University, Ithaca), fu pronunciata, probabilmente, fra il settembre 1929 e il dicembre 1930, davanti ai componenti di un'associazione chiamata «The Heretics», a Cambridge. Di essa si conservano, fra i manoscritti di Wittgenstein depositati nella Wren Library del Trinity College di Cambridge, due redazioni. La prima è verosimilmente il testo che è stato letto da Wittgenstein, e come tale figura nell'edizione inglese: su dì esso è stata condotta la versione italiana, come anche è avvenuto per le versioni tedesca e francese. La seconda redazione, manoscritta, è certamente l'originale, scritto a matita copiativa da Wittgenstein, di getto, con pochissime correzioni, e direttamente in inglese. Un confronto fra le due redazioni non rivela varianti sostanziali di contenuto, solo numerose correzioni di forma (di cui, alcune, non apparentemente giustificate), come se - ed è l'ipotesi più probabile - il testo fosse stato 'riveduto e corretto' da qualcun altro, certamente un inglese, forse un suo allievo. Da questa revisione deriva un certo carattere 'non autentico' dello stile, la scelta di esempi (il «giuocare a tennis» di fronte all'originale «suonare il pianoforte») per nulla wittgensteiniani e molto lontani da quelle 'similitudini' in cui egli riteneva, talvolta, consistesse il carattere proprio - e l'importanza - della sua 'filosofia'.In ogni caso, la Conferenza sull'etica rappresenta l'unico esempio sinora noto di uno scritto di Wittgenstein incorso, col suo consenso, in una correzione stilistica, ed essa potrebbe offrire l'occasione per un esame della revisione 'riduttiva' che il suo pensiero ha subito nel confronto con la cultura 'linguistica' anglosassone in cui esso si è espresso.Il testo che segue la conferenza è la trascrizione di appunti stenografici presi nel 1929-30 da Friedrich Waismann durante e dopo alcune conversazioni con Wittgenstein e Moritz Schlick, ed è ora contenuto nel volume "Wittgenstein und der Wiener Kreis, Gespräche, aufgezeichnet von Friedrich Waismann", a cura di Brian F. McGuinness (Ludwig Wittgenstein, "Schriften", 3, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1967). Ringraziamo il prof. B. F. McGuinness per avere autorizzato la traduzione di questo testo e il professor Rush Rhees per l'autorizzazione relativa al suo saggio "La conferenza di Wittgenstein sull'etica".M. R.]

CONFERENZA.

Prima di entrare in argomento, farò qualche osservazione preliminare. Sento che mi sarà molto difficile comunicarvi i miei pensieri, e penso che alcune delle difficoltà potrebbero ridursi se ve le esporrò subito. La prima, che potrei quasi fare a meno di menzionare, è che l'inglese non è la mia lingua, e quindi il mio modo di esprimermi manca spesso di quella precisione e sottigliezza che sarebbero desiderabili quando si parla di un argomento difficile. Posso solo chiedervi di facilitare il mio compito, cercando di capire il mio pensiero a dispetto degli errori che verrò continuamente commettendo nei confronti della grammatica inglese. La seconda difficoltà è che probabilmente molti di voi sono venuti a questa mia conferenza con aspettative leggermente sbagliate. E, per chiarirvi le cose su questo punto, voglio dirvi qualche parola sulle ragioni della mia scelta dell'argomento. Quando l'allora segretario della vostra associazione mi fece l'onore di chiedermi di tenere una conferenza, il mio primo pensiero è stato di accettare senz'altro; poi ho pensato che, se avessi avuto l'occasione di parlare a voi, avrei dovuto

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parlare di qualcosa che voglio davvero comunicarvi, e non sprecarla facendovi una conferenza, ad esempio, di logica. Ho detto «sprecarla» perché per trattare con voi un argomento scientifico sarebbe necessario disporre di un intero corso di conferenze e non di un'ora sola. Un'altra alternativa avrebbe potuto essere quella di una conferenza cosiddetta scientifico-popolare, intesa cioè a farvi credere di capire una cosa che di fatto non capite, e di soddisfare quel che, secondo me, è uno dei più bassi desideri dell'uomo moderno, ossia la curiosità superficiale per le ultime scoperte della scienza. Ho respinto queste alternative e ho deciso di parlarvi di un argomento che a me sembra di importanza generale, nella speranza che possa contribuire a chiarire le vostre idee al riguardo (anche se doveste totalmente dissentire con quanto verrò dicendo). La mia terza e ultima difficoltà è di quelle proprie in realtà ad ogni discorso filosofico di una certa ampiezza: chi ascolta è incapace di vedere la via per cui è condotto e la meta a cui conduce. Ossia pensa «Capisco tutto ciò che dice, ma dove mai vuole arrivare?», oppure «Vedo dove vuole arrivare, ma come farà a pervenirvi?». Posso solo, di nuovo, chiedervi di essere pazienti, sperando che alla fine possiate vedere tanto la strada quanto dove essa conduce.E ora incomincio. Il mio argomento, come sapete, è l'etica, e io adotterò la spiegazione del termine data dal professor Moore nel suo libro "Principia Ethica" (1). Egli dice «Etica è la ricerca generale su ciò che è bene». Ora, io userò il termine «etica» in un senso un poco più lato, in un senso, di fatto, che include la parte secondo me più essenziale di ciò che di solito viene chiamato estetica. E per farvi vedere il più chiaramente possibile che cosa assumo come oggetto proprio dell'etica, vi presenterò alcune espressioni più o meno sinonime, ciascuna delle quali può essere sostituita alla definizione precedente; enumerandole, voglio produrre lo stesso tipo di effetto prodotto da Galton quanto disponeva sulla stessa lastra fotografica un certo numero di fotografie di facce diverse per avere il quadro delle caratteristiche tipiche comuni a tutte. E come, mostrandovi una tale fotografia collettiva, potrei farvi vedere quale sia, ad esempio, la tipica faccia cinese, così, passando lo sguardo sulla serie di sinonimi che vi porrò di fronte, sarete in grado, spero, di vedere le caratteristiche tipiche comuni a tutti, e che sono le caratteristiche tipiche dell'etica. Ora, invece di dire che l'«etica è la ricerca su ciò che è bene», avrei potuto dire che l'etica è la ricerca su ciò che ha valore; o su ciò che è realmente importante, o sul significato della vita, o su ciò che fa la vita meritevole di essere vissuta, o sul modo giusto di vivere. Io credo che se voi guardate a tutte queste frasi, avrete un'idea approssimativa di ciò di cui l'etica si occupa. Ora, quel che subito colpisce, in tutte queste espressioni, è che ciascuna di esse è in realtà usata in due sensi molto diversi. Li chiamerò il senso corrente, o relativo, da una parte, e il senso etico, o assoluto, dall'altra. Se dico, per esempio, che questa è una "buona" sedia, ciò significa che la sedia serve a un certo scopo ben determinato e la parola "buono", qui, ha significato solo se questo scopo è stato fissato in precedenza. Infatti, la parola buono, nel senso relativo, significa semplicemente raggiungere un certo predeterminato livello. Così, quando diciamo che quest'uomo è un buon pianista, vogliamo intendere che può suonare pezzi di un certo grado di difficoltà con un certo grado di destrezza. E similmente se dico che per me è "importante" non prendere freddo, voglio significare con questo che prendere un raffreddore produce certi disturbi, descrivibili, nella mia vita, e se dico che questa è la via "giusta", voglio dire che è giusta relativamente a una certa meta. Usate in tal modo, queste espressioni non presentano problemi gravi e di difficile soluzione. Ma questo non è il modo in cui l'etica le usa. Supponiamo che io giochi a tennis e che uno di voi mi veda giocare, e dica «In realtà lei gioca abbastanza male». Supponiamo che io replichi «Lo so, gioco male ma non voglio giocare meglio»; quell'uno di voi potrebbe allora solo dire «Ah, se è così va tutto bene». Ma supponiamo invece che io abbia detto a uno di voi una bugia assurda e che costui venga da me e mi dica «Lei si comporta come un disgraziato», e io gli risponda «Lo so di comportarmi male, ma non voglio comportarmi meglio», potrebbe forse dire, costui «Ah, se è così va tutto bene»? Certamente no; direbbe piuttosto «Ma lei "dovrebbe" desiderare di comportarsi meglio». Qui abbiamo un giudizio assoluto di valore, mentre il primo era un caso di giudizio relativo. L'essenza di questa differenza sembra, ovviamente, essere questa: Ogni giudizio di valore relativo è una pura asserzione di fatti e può quindi essere espresso in una forma tale da perdere del tutto l'aspetto di un giudizio di valore. Invece di dire «Questa è la via giusta per Granchester», avrei potuto dire altrettanto bene «Questa è la via giusta che dovete percorrere se volete raggiungere Granchester nel più breve tempo possibile». «Quest'uomo è un buon corridore» significa solo che percorre un certo numero di chilometri in un certo numero di minuti, eccetera. Ora, io voglio affermare che, mentre si può mostrare come tutti i giudizi di valore relativo siano pure asserzioni di fatti, nessuna asserzione di fatti può mai essere, o implicare, un giudizio di valore assoluto. Permettetemi di spiegare ciò: supponiamo che uno di voi fosse onnisciente, e conoscesse, quindi, tutti i movimenti di tutti i corpi nel mondo, vivi o morti, e conoscesse anche tutti gli stati mentali di tutti gli esseri umani che siano mai vissuti, e supponiamo che quest'uomo abbia scritto tutto ciò che sa in un grosso libro, che conterrebbe quindi l'intera descrizione del mondo: quel che voglio dire è che questo libro non conterrebbe nulla che noi potremmo chiamare un giudizio "etico" o qualcosa che logicamente implichi un tale giudizio. Conterrebbe, certo, tutti i relativi giudizi di valore e tutte le vere proposizioni scientifiche, e, in realtà, tutte le vere proposizioni possibili. Ma tutti i fatti descritti, sarebbero, per così dire, allo stesso livello, e, allo stesso modo, tutte le proposizioni. Non vi sono proposizioni che, in qualsiasi senso assoluto, sono sublimi, importanti o correnti. Ora, forse, alcuni di voi saranno d'accordo su questo, e si

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ricorderanno delle parole di Amleto «Nothing is either good or bad, but thinking makes it so» (2) [Nulla è o buono o cattivo, ma il pensiero lo fa tale]. Ma anche questo potrebbe portare a un malinteso. Ciò che dice Amleto sembra implicare che bene o male, benché non siano qualità del mondo a noi esterno, siano attributi del nostro stato mentale. Mentre, secondo me, uno stato mentale - intendo per esso un fatto passibile di descrizione - in un senso etico, non è né buono né cattivo. Se, per esempio, nel vostro libro universale leggiamo la descrizione di un delitto, compresi i particolari fisici e psicologici, la pura descrizione di questi fatti non conterrà nulla che potremmo chiamare una proposizione "etica". Il delitto sarà esattamente sullo stesso livello di un qualsiasi altro evento, per esempio la caduta di una pietra. Certo, la lettura di questa descrizione può causarci dolore o rabbia, o ogni altra emozione, oppure possiamo leggere del dolore e della rabbia causati da questo assassinio in altri quando ne ebbero notizia, ma saranno sempre fatti, semplicemente, fatti e fatti, e non etica. E ora debbo dire che se osservo ciò che l'etica veramente dovrebbe essere, se ci fosse una scienza del genere, il risultato mi sembra del tutto ovvio. Mi sembra evidente che nulla di ciò che noi potremmo pensare o dire sarebbe "la" cosa; che noi non possiamo scrivere un libro scientifico, il cui tema possa essere intrinsecamente sublime e superiore a qualsiasi altro tema. Posso solo descrivere i miei sentimenti con la metafora che, se un uomo potesse scrivere un libro di etica che fosse veramente un libro di etica, questo libro distruggerebbe, con un'esplosione, tutti gli altri libri del mondo. Le nostre parole, usate come noi le usiamo nella scienza, sono strumenti capaci solo di contenere e di trasmettere significato e senso, senso e significato "naturali". L'etica, se è qualcosa, è soprannaturale, mentre le nostre parole potranno esprimere solamente fatti; così come una tazza contiene solo la quantità d'acqua che la riempie fino all'orlo, e io ne facessi versare un ettolitro. Ho detto che per quanto riguarda fatti e proposizioni, c'è solo valore relativo e bene relativo, eccetera. Permettetemi, prima di andare avanti, di darne un esempio abbastanza ovvio. La via giusta è quella che conduce a una meta arbitrariamente predeterminata, ed è abbastanza chiaro a tutti noi che non ha senso parlare di una via giusta indipendentemente da una tale meta predeterminata. Vediamo ora che cosa potremmo eventualmente voler dire con l'espressione «"la" via assolutamente giusta». Penso sarebbe la via che "ciascuno", vedendola, dovrebbe, "per necessità logica", percorrere, o vergognarsi di non farlo. E, similmente, il "bene assoluto", se è uno stato di cose descrivibile, sarebbe quello che chiunque, indipendentemente dai propri gusti e dalle proprie inclinazioni, dovrebbe "necessariamente" conseguire, o sentirsi colpevole per non conseguirlo. Voglio dire, inoltre, che un simile stato di cose è una chimera. Nessuna situazione possiede, in quanto tale, quello che mi piacerebbe chiamare il potere coercitivo di un giudice assoluto. Ma allora, tutti noi che, e io tra questi, siamo tuttavia tentati di usare espressioni come «bene assoluto», «valore assoluto», eccetera, che cosa abbiamo in mente, e che cosa cerchiamo di esprimere? Ora, ogni volta che io cerco di chiarirlo a me stesso, è naturale che io ricordi dei casi in cui farei certamente uso di queste espressioni, trovandomi allora nella situazione in cui sareste voi se, per esempio, io stessi tenendovi una conferenza sulla psicologia del piacere. Cerchereste allora di ricordarvi qualche situazione tipica in cui sempre avete provato piacere, perché, avendo richiamato alla mente una simile situazione, diverrebbe per voi concreto e, in certo modo, controllabile, tutto quello che io potrei dirvi. In un caso del genere, uno potrebbe scegliere come esempio tipico la sensazione provata durante una passeggiata in un bel giorno d'estate. Ora, appunto, io mi trovo in un caso analogo, volendo fissare la mia mente su ciò che intendo per valore assoluto o etico. E sempre mi capita che mi si presenti l'idea di un'esperienza particolare che quindi è, in un certo senso, la mia esperienza "per eccellenza": ed è per questa ragione che ora, parlando a voi, userò questa esperienza come il mio primo e principale esempio. (Come ho detto prima, si tratta di una questione del tutto personale, e altri, quindi, potrebbero trovare esempi diversi e più persuasivi). Descriverò questa esperienza in modo che voi possiate richiamare alla vostra mente la stessa esperienza, o esperienze simili, così da avere una base comune per la nostra ricerca. Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che, quando io ho questa esperienza, "mi meraviglio per l'esistenza del mondo". E sono allora indotto a usare frasi come «Quanto è straordinario che ogni cosa esista», oppure «Quanto è straordinario che il mondo esista». Farò menzione di un'altra esperienza, subito, che mi è pure nota e che può essere nota anche ad alcuni di voi: l'esperienza, si potrebbe dire, di sentirsi "assolutamente" al sicuro. Intendo lo stato d'animo in cui si è portati a dire «Sono al sicuro, nulla può recarmi danno, qualsiasi cosa accada». Ora prenderò in considerazione queste esperienze, dal momento che, secondo me, presentano proprio quelle caratteristiche che cerchiamo di chiarire. E, prima di tutto, voglio dire che l'espressione verbale che diamo a queste esperienze non ha senso! Se dico «Mi meraviglio per l'esistenza del mondo», faccio un cattivo uso della lingua. Lasciatemi spiegare: ha un significato chiaro e preciso il dire che mi meraviglio di qualche cosa perché è come è, tutti capiamo cosa voglia dire meravigliarsi per le dimensioni di un cane più grosso di qualsiasi cane mai visto, o per qualcosa di straordinario, nell'accezione comune del termine. In tutti questi casi, io mi meraviglio di qualcosa perché è come è, e che "potrei" concepire come diversa. Mi meraviglio per le dimensioni di questo cane, perché potrei immaginare un cane di dimensioni normali, per esempio, di cui non mi meraviglierei. Dire «Mi meraviglio di questo e di quest'altro», ha senso solo se posso immaginarmi che le cose non stiano così. In questo senso, ci si può meravigliare, diciamo, per l'esistenza di una casa, vedendola, non avendola visitata da molto tempo e avendo immaginato che l'avessero demolita nel frattempo. Ma non ha senso dire che mi meraviglio per l'esistenza

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del mondo poiché non posso immaginarlo non esistente. Posso certo meravigliarmi che il mondo attorno a me sia così. Se, per esempio, avessi una tale esperienza mentre guardo il cielo azzurro, potrei meravigliarmi del suo essere azzurro, invece che coperto di nubi. Ma non è questo che voglio dire. Mi sto meravigliando del cielo, "comunque esso sia". Si potrebbe essere tentati di dire che mi sto meravigliando di una tautologia, e cioè del cielo azzurro o non azzurro che sia, ma allora non ha senso dire di meravigliarsi di una tautologia. Ora, capita lo stesso per l'altra esperienza da me menzionata, l'esperienza cioè di sentirsi assolutamente al sicuro. Sappiamo tutti cosa voglia dire, nella vita normale, essere al sicuro. Sono al sicuro nella mia stanza, dove non posso essere travolto da un autobus, sono al sicuro se ho avuto già la pertosse e quindi non posso averla una seconda volta. Essere al sicuro significa, essenzialmente, l'impossibilità fisica che mi possano capitare certe cose, e quindi non ha senso dire che io sono al sicuro, "qualsiasi cosa" capiti. Di nuovo, è un uso errato della parola «sicuro», come, nell'altro esempio, per le parole «esistenza» e «meravigliarsi». Vorrei ora imprimere nella vostra mente che un certo caratteristico uso errato della nostra lingua percorre "tutte" le espressioni etiche e religiose. Le quali, "prima facie", "sembrano" solo "similitudini", e sembra quindi che, quando usiamo la parola "giusto" in senso etico, benché non intendiamo «giusto» nel suo senso corrente, si tratti di qualcosa di simile, e così pure nell'espressione «E' un brav'uomo», benché la parola «bravo», non abbia qui lo stesso significato che ha nella frase «E' un bravo giocatore di calcio». E quando diciamo «La vita di quell'uomo aveva un valore», non lo intendiamo nello stesso senso in cui parliamo del valore di un gioiello, ma sembra si dia una qualche analogia. Orbene, sembra che tutti i termini religiosi, in questo senso, siano usati come similitudini, o in modo allegorico, perché, quando parliamo di Dio, che vede tutto, e quando ci inginocchiamo e lo preghiamo, tutte le nostre parole e le nostre azioni sembrano parti di una grande elaborata allegoria che rappresenta Dio come un essere umano che ha un grande potere, la cui grazia cerchiamo di cattivarci, eccetera, eccetera. Ma questa allegoria descrive anche le esperienze già riferite, perché la prima è, secondo me, esattamente l'esperienza cui si fa riferimento quando si dice che Dio ha creato il mondo; mentre l'esperienza di sicurezza assoluta è stata descritta dicendo di sentirci sicuri nelle mani di Dio. Una terza esperienza dello stesso genere è il sentirsi colpevoli, e, di nuovo, la si è espressa dicendo che Dio disapprova la nostra condotta. Così sembra che nel linguaggio etico e religioso noi usiamo sempre similitudini. Ma una similitudine deve essere una similitudine per "qualcosa", e se posso descrivere un fatto usando una similitudine, devo anche essere in grado di toglier via questa e di descriverlo senza di essa. Ora, nel nostro caso, se cerchiamo di eliminare la similitudine e di asserire semplicemente i fatti che vi stanno dietro, troviamo che questi fatti non ci sono. Così, quanto sembrava dapprima una similitudine, appare come un puro nonsenso. Ora, le tre esperienze che vi ho menzionato (e avrei potuto aggiungerne altre), a coloro che le hanno provate, e per esempio a me, sembrano possedere, in un certo senso, un valore intrinseco, assoluto. Ma se dico che sono esperienze, vuol dire certamente che sono fatti; accaduti in un certo posto, in un certo tempo, hanno avuto una certa durata e, per conseguenza, sono descrivibili. E allora, per quanto ho detto pochi minuti orsono, devo riconoscere che non ha senso dire che hanno un valore assoluto. Sarò ancora più persuasivo, dicendo «E' un paradosso che un'esperienza, un fatto, sembri avere un valore sovrannaturale». C'è però un modo in cui sarei tentato di affrontare questo paradosso. Permettetemi di considerare, ancora una volta, la nostra prima esperienza del meravigliarsi per l'esistenza del mondo e di descriverla in un modo un po' diverso. Sappiamo tutti cosa si direbbe un miracolo nella vita normale. E' ovviamente solo un evento di cui non abbiamo ancora mai visto l'uguale. Supponiamo ora che un evento simile si verifichi. Supponiamo che a uno di voi cresca improvvisamente una testa di leone e cominci a ruggire. Sarebbe certamente una cosa straordinaria davvero. Ora, una volta rimessici dalla sorpresa, la prima cosa che suggerirei, sarebbe di chiamare un dottore e di fargli esaminare il caso in modo scientifico, e, se non fosse per non fargli male, vorrei che fosse vivisezionato. Ma dove se ne sarebbe andato il miracolo? E' chiaro infatti che se osserviamo le cose in questo modo, tutto quel che c'è di miracoloso sparisce, a meno che intendiamo per «miracoloso» solo ciò che la scienza non ha ancora spiegato, il che vuol dire, di nuovo, che non siamo finora riusciti a raggruppare questo fatto insieme con altri in un sistema scientifico. Questo mostra come sia assurdo dire che «la scienza ha provato che non ci sono miracoli». La verità è che il modo scientifico di guardare un fatto non è il modo di guardarlo come un miracolo. Perché, qualsiasi fatto voi possiate immaginare, non è miracoloso in se stesso, nel senso assoluto del termine. Vediamo ora, quindi, di aver usato la parola «miracolo» in senso relativo e in senso assoluto. E ora descriverò l'esperienza di meravigliarsi per l'esistenza del mondo, dicendo: è l'esperienza di vedere il mondo come un miracolo. Sono ora tentato di dire che l'espressione giusta nella lingua per il miracolo dell'esistenza del mondo, benché non sia alcuna proposizione "nella" lingua, è l'esistenza del linguaggio stesso. Ma allora cosa significa essere consapevoli di questo miracolo in certe occasioni e non in altre? Infatti, trasferendo l'espressione del miracoloso da un'espressione "per mezzo del" linguaggio alla espressione "per l'esistenza" del linguaggio, ho detto solo, di nuovo, che non possiamo esprimere ciò che vogliamo esprimere e che tutto ciò che "diciamo" sul miracoloso assoluto rimane privo di senso. Ora, la risposta a tutto questo sembrerà perfettamente chiara a molti di voi. Direte: allora, se certe esperienze ci inducono sempre nella tentazione di attribuire a esse una qualità che chiamiamo valore e importanza assoluti o etici, questo mostra semplicemente come con queste parole noi "non"

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intendiamo un nonsenso e che quindi, dopo tutto, dicendo che un'esperienza ha un valore assoluto, intendiamo "solo un fatto come un altro", e che tutto equivale a dire di non essere ancora riusciti a trovare la corretta analisi logica di ciò che intendiamo con le nostre espressioni etiche e religiose. Ora, di fronte a una tale asserzione, io vedo subito chiaro, come in un lampo di luce, non solo che nessuna descrizione pensabile per me sarebbe adatta a descrivere ciò che io intendo per valore assoluto, ma anche che respingerei ogni descrizione significante che chiunque potesse eventualmente suggerire, "ab initio", sulla base del suo significato. Cioè, voglio dire: vedo ora come queste espressioni prive di senso erano tali non perché non avessi ancora trovato l'espressione corretta, ma perché la loro mancanza di senso era la loro essenza peculiare. Perché, infatti, con esse io mi proponevo proprio di "andare al di là" del mondo, ossia al di là del linguaggio significante. La mia tendenza e, io ritengo, la tendenza di tutti coloro che hanno mai cercato di scrivere o di parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio. Quest'avventarsi contro le pareti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente disperato. L'etica, in quanto sorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l'assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice, non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è un documento di una tendenza nell'animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo.

NOTE.

N. 1. G. E. Moore, "Principia Ethica", Cambridge, 1903, p. 2 [N.d.T.].N. 2. For there is nothing either good or bad, but thinking makes it so. "Amleto", atto 2, scena 2 [N.d.T.].

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APPUNTI DI CONVERSAZIONI CON WITTGENSTEINdiFRIEDRICH WAISMANN.

Lunedì, 30 dicembre 1929 (in casa di Schlick).

L'uomo (1) ha l'impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio. Pensate per esempio alla meraviglia che qualcosa esista. La meraviglia non può essere espressa nella forma di una domanda, e non vi è neppure alcuna risposta. Tutto ciò che vorremmo dire può, a priori, essere solo nonsenso. Tuttavia, noi ci avventiamo contro i limiti del linguaggio. Questo urto l'ha visto anche Kierkegaard e l'ha descritto in modo del tutto analogo (come urto contro il paradosso) (2). Quest'avventarsi contro i limiti del linguaggio è l'"etica". Ritengo davvero importante por fine a tutte le chiacchiere sull'etica - se si dia una conoscenza, se si diano valori, se si possa definire il Bene, eccetera. Nell'etica si compie sempre il tentativo di dire qualcosa che non riguarda e non potrà mai riguardare l'essenza della cosa. E' a priori certo che qualsiasi definizione si possa dare del Bene, è sempre un malinteso supporre che nella formulazione si esprima ciò che in realtà si vuol dire (Moore) (3). Ma la tendenza, l'urto, "indica qualcosa".

Mercoledì, 17 dicembre 1930 (Neuwaldegg).

[SULL'«ETICA» DI SCHLICK] (4). Schlick dice che nell'etica teologica si danno due concezioni dell'essenza del Bene: secondo l'interpretazione più superficiale, il Bene è bene, perché Dio lo vuole; secondo l'interpretazione più profonda, Dio vuole il Bene perché è bene.Io penso che sia più profonda la prima concezione: Bene è ciò che Dio ordina. Infatti, taglia la strada a ogni possibile spiegazione del «perché» sia bene, mentre proprio la seconda concezione è superficiale, razionalistica, operando «come se» ciò che è bene potesse essere ulteriormente fondato.La prima concezione esprime chiaramente che l'essenza del Bene non ha nulla a che fare con i fatti e quindi non può essere spiegata da nessuna proposizione. Se vi è una proposizione che esprime proprio ciò che intendo, è: Bene è ciò che Dio ordina.[VALORE] (5). Se descrivo la realtà, descrivo ciò che trovo presso gli uomini. La sociologia deve quindi descrivere le nostre azioni e le nostre valutazioni come descrive quelle dei negri. Può solo riferire ciò che accade. Ma nella descrizione sociologica non deve figurare mai l'asserzione «Questo o quest'altro costituisce un progresso».

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Posso descrivere il fatto che si abbiano preferenze. Supponiamo io avessi scoperto, per esperienza, che, fra due quadri, tu preferisci sempre quello in cui c'è più verde, che ha un'intonazione più verde, eccetera. Allora ho descritto solo questo, e non che quel quadro ha maggior valore.Cosa è che ha valore in una sonata di Beethoven? Il susseguirsi delle note? No, è solo una successione fra molte. E direi perfino che i sentimenti di Beethoven nel comporre la sonata non avevano più valore di altri sentimenti qualsiasi. Il fatto di venir preferito, ha in sé un valore altrettanto scarso.Il valore è un determinato stato d'animo? Oppure una forma inerente a certi dati della coscienza? Risponderei «Qualsiasi cosa mi si dicesse la respingerei», e non perché la spiegazione sia falsa, ma perché è una "spiegazione".Se qualcuno mi propone una "teoria", direi «No, no! questo non mi interessa». Anche se la teoria fosse vera, non mi interesserebbe - non sarebbe mai "ciò" che io cerco.L'etico non si può insegnare. Se io potessi spiegare a un altro per il solo tramite di una teoria, l'essenza dell'etico, allora l'etico non avrebbe proprio alcun valore (6).Alla fine della mia conferenza sull'etica, ho parlato in prima persona. Credo che sia abbastanza essenziale. Là non c'è più nulla da constatare, posso solo intervenire come individualità e parlare in prima persona."Per me", la teoria non ha alcun valore. Una teoria non mi dà nulla. [RELIGIONE]. E' essenziale il parlare, per la religione? Posso immaginarmi molto bene una religione in cui non vi siano dottrine, in cui, quindi, non si parli. L'essenza della religione evidentemente può non aver a che fare con il fatto che si parli, o piuttosto: se si parla, è questo stesso una componente dell'atto religioso e non una teoria. E quindi non importa se le parole sono vere o false o insensate.I discorsi della religione non sono neppure "metafore", perché altrimenti sarebbero anche esprimibili in prosa. Avventarsi contro i limiti del linguaggio? Il linguaggio non è certo una gabbia.Posso solamente dire «Non mi prendo gioco di questa tendenza umana, mi levo il cappello di fronte a essa». E qui è essenziale il fatto che non è una descrizione sociologica, ma che io parlo "per me" stesso.I fatti per me non sono importanti. Ma a me sta a cuore quel che intendono gli uomini quando dicono che «"il mondo c'è"»."Waismann domanda a Wittgenstein": L'esistenza del mondo è connessa con l'etico?"Wittgenstein": Che si dia, qui, una connessione, gli uomini l'hanno sentito e l'hanno espresso così «Il Padre ha creato il mondo, il Figlio (o la Parola, che da Dio procede) è l'Etico». Che si sia divisa la divinità e di nuovo la si immagini come Una, indica che esiste qui una connessione.

NOTE.

N. 1. Nel volume già citato "Wittgenstein und der Wiener Kreis von Friedrich Waismann", Frankfurt a. M., 1967, p.p. 68-9, il passo è preceduto da: «Posso bene immaginarmi che cosa intenda Heidegger per Essere e Angoscia», ed è seguito da un'aggiunta, posteriore, di Waismann, di un possibile riferimento a sant'Agostino. Il curatore, B. F. McGuinness, cui si deve l'indicazione degli argomenti delle conversazioni, intitola il brano «Zu Heidegger» [N.d.T.].N. 2. Nell'edizione in volume sono riportati qui, in nota, pensieri di Wittgenstein sullo stesso argomento, ricordati e inseriti in un secondo momento da Waismann: «Il mistico è il sentimento del mondo come di un tutto che ha confini». 'Non mi può capitare nulla', cioè: qualsiasi cosa mi possa capitare, non ha alcuna importanza per me» [N.d.T.].N. 3. Il riferimento è alla discussione sull'indefinibilità del bene, nei "Principia Ethica", cit., paragrafi 5-14 [N.d.T.].N. 4. La conversazione verte sull'opera di Moritz Schlick "Fragen der Ethik", Wien, 1930. Il confronto fra le due concezioni è a p. 8. Nella traduzione inglese, in parte riveduta ("Problems of Ethics", Englewood Cliffs, N.J., 1939, p. 11), Schlick attenua il confronto, forse per suggerimento di Wittgenstein, in: «Una interpretazione... un'altra, forse più profonda...» [N.d.T.]N. 5. Probabilmente da una discussione sullo stesso libro di Schlick, in particolare sul paragrafo 9 (p.p. 14-15) «L'etica come scienza dei fatti». «Ciò che è ritenuto come norme ultime o valori supremi deve essere tratto dalla natura umana e dalla vita come fatto. Per cui nessun risultato dell'etica può essere mai in contrasto con la vita (...). Quando capita questo, si tratta di un indizio sicuro che l'individuo etico ['il filosofo' nell'edizione in inglese] ha frainteso il suo compito, e quindi non lo ha assolto [commento sul margine dell'esemplare di Wittgenstein: 'Com'è strano, tuttavia, che si verifichi questo fraintendimento!'], che è divenuto senza accorgersene un moralista, che non si ritrova più a proprio agio nel ruolo del conoscitore ma vuole piuttosto essere un creatore di valori morali. [Commento di Wittgenstein: 'Ma come si può allora essere un siffatto creatore? E non si è detto che un creatore, in questo senso, ha soltanto affermato qualcosa?']» [N.d.T.]N. 6. In data 15 novembre 1929, Wittgenstein scrive nei suoi appunti inediti: «Non si può guidare gli uomini al

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bene, si può solo condurli in un qualche luogo. Il bene è al di fuori dell'ambito dei fatti» [N.d.T.]

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LA CONFERENZA DI WITTGENSTEIN SULL'ETICAdiRUSH RHEES.

Nel 1919, quando Wittgenstein cercava un editore per la sua "Logisch-Philosophische Abhandlung" (l'opera poi chiamata, generalmente, "Tractatus"), inviò un dattiloscritto a Ludwig von Ficker, che allora pubblicava la rivista «Der Brenner». In una delle sue lettere a Ficker di quel periodo, Wittgenstein scriveva: «... il senso del mio libro è etico... Cioè l'etico viene in certo modo delimitato dall'interno; e io sono persuaso che, "a stretto rigore", esso possa essere delimitato "soltanto così". In breve, io credo di avere fissato nel mio libro, appunto in quanto ne taccio, tutto ciò di cui "molti" oggi "parlano a sproposito»" (1).Consideriamo l'inciso: «appunto in quanto ne taccio». Era questa, per lui, l'unica cosa giusta da fare, e non solo per disgusto verso gli argomenti di cui quei molti vengono cianciando. Molti, infatti, parlano altrettanto a sproposito di ciò che si dice un problema filosofico, di ciò che ne sarebbe la soluzione, di 'potere' e 'dovere', della deduzione logica e altro: e qui Wittgenstein non riteneva affatto di dover tacere. Ma dell'"etico" sì, e chi non se ne rende conto lo ha frainteso.Parliamo di convinzioni etiche, ad esempio, e pensiamo a ciò che è profondamente radicato nel cuore di un uomo. Forse parliamo anche del suo modo di porsi di fronte al mondo e di contrapporvisi, del suo atteggiamento verso gli altri, sia verso la società sia verso coloro con cui ha a che fare, e così via. (Solo di rado noi pensiamo a che cosa egli dice del bene e del male).Anziché di 'convinzioni etiche' si parla più spesso di 'ideali'; e anche di essi si dice che affondano le loro radici nell'intimo del cuore umano. Per Wittgenstein sarebbe insensato chiedersi se un certo ideale sia giusto o vero così come la domanda si pone riguardo a una teoria scientifica.(In senso diverso si potrebbe dire che, ad esempio, l'ideale cristiano è quello giusto. Ma in questo caso si esprime la propria professione di fede al riguardo, non si intende asserire che l'ideale cristiano ha un preciso riscontro nei fatti - il che non significherebbe nulla).

Ma se si vuol "parlare" delle convinzioni etiche più profonde dell'uomo - come si farà? Si dovrà descrivere qualcosa?Nel "Tractatus", 6.421, Wittgenstein scrive «E' chiaro che l'etica non si può enunciare».E io sarei tentato di dire che essa "si mostra" in ciò che gli uomini fanno e dicono, nel loro modo di lodare e di disprezzare, di criticare gli altri e se stessi, in ciò a cui si sentono costretti, in ciò che per essi è 'escluso', nel loro modo di soffrire, di gioire, e così via.Oppure direi che l'etico è il fondamento sul quale si pongono, si risolvono, si discutono certi quesiti. Che si abbia, qui, un'analogia con la logica l'esprime il "Tractatus" dicendo: «La logica è trascendentale» (6.13), e poco più oltre: «L'etica è trascendentale» (6.421). (Meglio, oggi, la formulazione precedente, contenuta nei quaderni del 1916: «L'etica non tratta del mondo. L'etica è piuttosto una condizione del mondo, come la logica», se la parola «trascendentale» concorre a diffondere l'epidemia per cui Wittgenstein viene scambiato per un kantiano). Naturalmente, l'analogia con la logica rivela ben presto i suoi limiti e si potrebbe attribuire alla loro diversità un'importanza molto maggiore. E tuttavia Wittgenstein non cederebbe sul fatto che, sia per la logica sia per l'etica, non si può parlare di una 'fondazione'.Ma allora che senso ha il passo della sua lettera a Ficker dove dice che l'etico dal "Tractatus" viene «delimitato in certo modo dall'interno»?. Che significato ha, qui, «delimitato»? Molto in breve, io credo voglia dire che il libro mostra come tutto ciò che si può enunciare - ossia tutto ciò che può essere asserito o negato oppure che può costituire l'oggetto di una teoria - descrive, direttamente o indirettamente, dei "dati di fatto". In ciò che si riconosce come dato di fatto, così come nella frase che lo enuncia, non troviamo alcunché di 'superiore'. E questo vuol dire che 'esprimere qualcosa' ha sempre lo stesso significato. Altrimenti ogni deduzione, ogni verifica sarebbero impossibili. In questo ambito - e, per il "Tractatus", è questo l'ambito di ogni discorso sensato - l'etica non ha nulla a che fare.

Dopo aver mostrato nella "Conferenza sull'etica" che ogni tentativo di asserire in una proposizione un valore assoluto produce soltanto un nonsenso, Wittgenstein si domanda che cosa intendiamo allorché usiamo espressioni come «il bene assoluto», «valore assoluto» e simili. Come risposta, egli adduce tre esempi di esperienze che

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sembrano rivestire, per coloro che le hanno vissute, un valore assoluto. Se li "definiamo" esempi di giudizi "etici" è soltanto perché si da al termine una accezione molto ampia, quella, appunto, che Wittgenstein dice di voler adottare, all'inizio della lezione. Con questi esempi egli vorrebbe mostrare perché denomini «insensate» le espressioni di giudizi di valore assoluto e anche perché questa insensatezza sia importante per lui. Il primo esempio di giudizio etico, in senso tradizionale, - «Lei "dovrebbe" desiderare di comportarsi meglio» - non viene più ripreso da Wittgenstein. Fino a che punto "questa" proposizione «voglia uscire dai limiti del linguaggio» non risulta subito evidente. Perché Wittgenstein non l'ha messo in chiaro?Perché, io credo, ne avrebbe dovuto esporre i presupposti già formulati ed esaminati nel "Tractatus", non certo facilmente comprensibili in una conferenza come questa, e che avrebbero richiesto un'ampia digressione. Quando l'interlocutore dice: «Lei "dovrebbe" desiderare di comportarsi meglio», parla di una volontà che può essere buona o cattiva. Nel "Tractatus", Wittgenstein ha mostrato come, o in qual senso, una simile volontà risieda «al di fuori del campo dei dati di fatto»; avrebbe detto, allora, che questa volontà non appartiene al mondo, bensì lo «delimita». Non è facile spiegare perché egli dica così - e nell'ambito della conferenza non è possibile.Nei quaderni del 1916, alcuni anni prima di porre fine al "Tractatus", Wittgenstein aveva esaminato il concetto di volontà sotto diversi aspetti. Accennerò qui al tema con qualche esempio:

«Se sono nel giusto, allora non è sufficiente per il giudizio etico che si dia un mondo.

«Il mondo quindi in sé non è né buono né cattivo....«Bene e male intervengono solo tramite il "soggetto". E il soggetto non appartiene al mondo, bensì è un limite del mondo.

«Come il soggetto non è una parte del mondo, ma un presupposto della sua esistenza, così buono e cattivo sono predicati del soggetto, non proprietà del mondo».

Che buono e cattivo siano "predicati" del soggetto, Wittgenstein non l'avrebbe detto nella conferenza. Né si deve dimenticare che i quaderni sono in parte 'materiale su cui riflettere', nulla, quindi, che egli abbia preparato per la stampa. Queste frasi mostrano però che 'volontà' e 'soggetto' sono, per Wittgenstein, strettamente connessi. Si veda anche, nel "Tractatus":

«5.632. Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo.«5.641. (...) L'Io filosofico non è l'uomo, non è il corpo umano o l'anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, il limite - non una parte del mondo.«6.423. Non si può parlare della volontà in quanto portatrice dell'etico. E la volontà in quanto fenomeno interessa solo la psicologia».

(Questa concezione della volontà ha presentato per Wittgenstein grandi difficoltà. Al tempo delle "Ricerche filosofiche" scriverà tutt'altro).

L'idea della delimitazione poteva reggersi finché reggeva l'idea dell'unità formale del linguaggio, ossia finché egli poteva pensare a una forma proposizionale generale, a una struttura essenziale «che fa del linguaggio il linguaggio», finché reggeva l'idea di una 'realtà' unitaria, ossia l'ipotesi che per tutti noi 'realtà' abbia sempre lo stesso significato. E questa idea della 'realtà' era, per così dire 'l'altra faccia' dell'idea della forma proposizionale generale.Già al tempo della "Conferenza sull'etica", Wittgenstein si stava gradualmente allontanando dalla idea di una forma proposizionale generale o di una struttura generale del linguaggio. Per tutta la vita si è occupato del problema di che cosa sia il 'dire qualcosa', della differenza che intercorre fra questo e un rumore o un complicato groviglio di segni, oppure del problema di 'che cosa sia una proposizione'. Al tempo del "Tractatus" aveva pensato che la forma (essenza) del 'dire qualcosa' - ossia ciò che ne fa un '"dire" qualcosa' - dovesse essere sempre la stessa. Altrimenti, andrebbe perduta la coerenza del linguaggio, non sarebbe possibile passare dalla domanda alla risposta, 'misurare' ed esaminare la risposta con altre asserzioni, dedurne altre e così via. Non vi sarebbe nulla di simile a ciò che chiamiamo linguaggio o parlare tra noi. Questo gli sembrava incontestabile e non fu certo agevole, per lui, discostarsene. Eppure, gradualmente, vi pervenne, se giungerà a dire che per 'linguaggio' noi intendiamo una quantità di 'giuochi linguistici', non a causa di una struttura comune, ma per una somiglianza di famiglia. Di qui, poi, una serie di conseguenze rilevanti.Ma era questo l'essenziale: 'parlare', 'dire qualcosa' sono fatti di specie diverse, hanno vari significati. Che cosa sia

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il 'linguaggio', lo si vede nei giuochi linguistici. Come questi sono diversi, così anche 'parlare' ha vari significati, spesso molto distinti fra loro.Se si domanda poi che cosa intendiamo per 'realtà', il procedimento è simile: si guarda ai vari giuochi linguistici e si nota in quali circostanze e con quali criteri si cerchi di distinguere il reale dallo ingannevole, la realtà dalla supposizione, come si parli di sentimenti 'reali' - e quindi dell'"autenticità" della loro espressione in contrasto con la finzione, e così via.Se però 'linguaggio' e 'realtà' possono essere così variamente adoperati, allora non si potrà certo parlare di «limiti del linguaggio», di «limiti del mondo», di «avventarsi contro i limiti del linguaggio»... E Wittgenstein si avvede ora che le espressioni che il "Tractatus" dedica alla 'proposizione' o al 'linguaggio' riguardano una parte, un ambito preciso del nostro parlare, anche se straordinariamente importante, e cioè l'ambito dei risultati delle scienze naturali. Qui, in questo ambito, si può dire: «Se l'espressione ha senso, allora dovrà concordare con i dati di fatto - ad esempio misurazioni, risultati sperimentali... Se non posso "domandare" se concorda con i dati di fatto, allora non è una proposizione, è un mostro linguistico. Se esprime qualcosa, allora esprime un dato di fatto». Ed è per questo che non possono esserci proposizioni etiche, o piuttosto, "qui", tra i risultati delle scienze naturali, non vi sono proposizioni etiche. E questo è giusto. Wittgenstein però aggiunge che non possiamo capire il nostro uso di 'proposizione' e di 'linguaggio' in questo ambito, se non ne prendiamo in considerazione altri "al di fuori" di esso. Pensiamo ad esempio a un comando, oppure all'espressione di una speranza. Non diremmo certo che un comando è insensato perché non afferma un dato di fatto. Noi comprendiamo queste espressioni. E così anche comprendiamo se uno dice: «Tu dovresti desiderare di comportarti meglio».Qui il problema non è se ciò concordi o meno con i dati di fatto, ma piuttosto se ne facciamo uso nella nostra vita. (Vedi "Ricerche filosofiche", paragrafo 520). Se un tale formula quel particolare giudizio, dice qualcosa: potrò forse essere d'accordo o contrario, ma l'effetto che esso ha nella nostra vita proviene dal genere di giudizio che esso è, in rapporto al quale è caratteristico il nostro modo di accoglierle sdegno, riconoscenza, eccetera.

Qual è, dunque, nella conferenza, la concezione dell'etica, oppure la presa di posizione riguardo a essa? Osserviamo, in breve che:1) sono "lasciati cadere":a) la dizione dell'«avventarsi contro i limiti del linguaggio»;b) osservazioni del tipo: «non possono esserci proposizioni dell'etica»;n) viene "conservata":a) la convinzione che sarebbe errato parlare di una fondazione dell'etica.Nel corso di conversazioni degli anni successivi, Wittgenstein ha detto che dove si hanno opinioni diverse in questioni etiche e si esprimono giudizi favorevoli o contrari, si deve badare alle "varie" ragioni che valgono come tali, anche se ci dovesse apparire strano considerare "ciò" come una ragione di lode o di biasimo. Altrimenti non potremmo capire mai che cosa sia 'lodare' per queste persone. Siamo in errore se riteniamo che nell'etica le ragioni vere debbano soddisfare determinate condizioni. No, la ragione vera è quella che funziona come ragione. E non ha senso chiedersi se la gente faccia bene o no a reagire a essa come a una ragione.Un uomo ha una malattia nervosa e i medici dicono che dovrà trascorrere in ospedale il resto della sua vita. Sua moglie decide di andarsene per iniziare altrove un'altra vita. Uno approva la sua decisione, un altro la biasima, entrambi offrono ragioni per il proprio giudizio e ritengono naturale che ci si possa "chiedere" se il comportamento della moglie sia o meno giustificato.«Il fatto che questa sia una domanda, che queste siano ragioni pro o contro. Ma se uno chiedesse: perché chiamate "queste" delle ragioni? Io non comprenderei il suo perché».

Nelle "Ricerche filosofiche" (conf. "Schriften", p. 537), Wittgenstein scrive: «Il tipo della sicurezza è il tipo del giuoco linguistico». Similmente si esprimerà nelle osservazioni di "Über Gewissheit".«Noi valutiamo il motivo di un'azione... Ma non sembriamo accorgerci, per questo, che esiste un qualcosa come 'la valutazione dei motivi'. E che questo è un giuoco linguistico del tutto particolare - che il tavolo e la pietra non hanno motivi. E che si può chiedere: 'E' questo un modo attendibile di valutare i motivi di un uomo?', ma allora già deve esserci noto cosa vuol dire in genere valutare dei motivi. Dev'esserci già una tecnica che abbiamo in mente, qui, perché si possa parlare di una sua alterazione, che noi designiamo come valutazione più attendibile».Una formulazione più breve dello stesso tema nelle "Ricerche filosofiche" si chiude così: «...Ma per poter formulare questa domanda, dobbiamo già sapere che cosa significhi 'valutare il motivo', e questo non l'apprendiamo con l'esperire che cosa sia '"motivo"' e che cosa sia '"valutare"'».L'ultima frase è oltremodo importante. Wittgenstein ne chiarisce il significato con un altro esempio: «Si valuta la lunghezza di un bastone e si può cercare e trovare un metodo per valutarla con maggiore precisione o attendibilità. Così - tu dirai - ciò che qui si valuta è indipendente dal metodo adottato per la sua valutazione. Ciò che sia la

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'lunghezza' non si può chiarire mediante il metodo della sua determinazione. "Chi pensa così, commette un errore" [Corsivo di Rhees]. Quale? Dire che 'l'altezza del Monte Bianco dipende dal modo di scalarlo' sarebbe strano. Con 'misurare la lunghezza in modo sempre più preciso' si vogliono mettere a confronto i gradi di approssimazione alla lunghezza di un oggetto. Ma in certi casi è chiaro, in altri "non" è chiaro, cosa voglia dire 'approssimarsi alla lunghezza dell'oggetto'. Cosa sia 'determinare la lunghezza', non lo si impara apprendendo cosa sia 'lunghezza', lo si apprende piuttosto imparando, ad esempio, che cosa sia la determinazione della lunghezza».Similmente, impariamo il significato della parola 'motivo' imparando a valutare il motivo ispiratore di qualcuno.'Valutare il motivo' e 'determinare la lunghezza' sono in verità a più riguardi diversi. Nella prima redazione, che ho citato ora, Wittgenstein parla di una «tecnica» per la valutazione dei motivi ispiratori, e questo pone l'accento su qualcosa di importante. Il problema si connette, però, anche con ciò che egli dice nelle "Ricerche" a proposito del giudicare l'autenticità dell'espressione di un sentimento e quindi a proposito della "conoscenza degli uomini".Si potrebbe dire che il 'metodo' che io adotto per giudicare i motivi ispiratori di un uomo dipende in larga misura dal tipo di uomo di cui si tratta. La 'determinazione della lunghezza' è qualcosa di diverso nel caso della determinazione dell'altezza di montagne, della lunghezza d'onda, delle oscillazioni luminose o delle distanze degli altri pianeti dalla terra. Ma finché si tratta di misurare l'altezza di montagne, è possibile adottare 'sempre lo stesso metodo'. La diversità fra due montagne non ha al riguardo la stessa importanza della diversità che intercorre fra due uomini, quando io penso ai motivi ispiratori dell'uno e dell'altro. La natura di ciò che per me è un 'dato di fatto' - qualcosa, cioè, con cui devo fare i conti -, può essere infatti diversa in un caso e nell'altro, anche se magari le circostanze sono molto simili.Circa due pagine dopo (conf. "Schriften", p. 540), Wittgenstein pone la domanda: «Si può dare un giudizio 'tecnico' sull'autenticità dell'espressione di un sentimento? - Si hanno, anche qui, persone dal giudizio 'migliore' e persone dal giudizio 'peggiore'.«Dal giudizio di chi è miglior conoscitore di uomini risultano in generale previsioni più giuste.«Si può apprendere la conoscenza degli uomini? Sì, certi possono apprenderla. Ma per "esperienza", non con un corso di lezioni. - Può esservi uno che fa da maestro all'altro? Certamente. Egli gli da il giusto accenno. Così appaiono qui l''imparare' e l''insegnare'. - Ciò che si apprende non è una tecnica; si imparano giudizi giusti. Vi sono anche delle regole, ma esse non formano alcun sistema, e solo colui che ha esperienza può applicarle in modo giusto. Non è come per le regole di calcolo». Wittgenstein sviluppa ampiamente l'argomento, poi scrive: «Si può ben essere mossi dall'evidenza a persuaderci che una persona si trovi in un particolare stato d'animo, che egli, per esempio, non stia fingendo. Ma anche qui vi è un'evidenza 'imponderabile'... All'evidenza imponderabile appartengono le sottili peculiarità dello sguardo, del gesto, dell'accento. Posso riconoscere lo sguardo d'amore vero, distinguerlo da quello simulato (e naturalmente può esserci qui una conferma 'ponderabile' del mio giudizio). Potrei essere però del tutto incapace di descrivere la differenza. E non perché le lingue a me note non abbiano le parole necessarie...».In queste frasi non vi è un riferimento diretto ai giudizi etici. Ma nei giuochi linguistici compaiono espressioni di valore ('autentico', 'falso', 'simulato'), mentre gli interrogativi, il genere di 'evidenza' e di motivazione si potranno ritrovare identici o molto simili in quei giuochi linguistici in cui si esprimono in particolare idee e giudizi morali. In essi conta anche la conoscenza degli uomini. Wittgenstein parla di persone dotate di un giudizio 'migliore' sull'autenticità della manifestazione di un sentimento, ma sarebbe essenzialmente diverso parlare di persone dotate di un 'miglior' giudizio in questioni etiche e morali. Non avrebbe alcuna importanza, ad esempio, se dal giudizio migliore «risultano in generale previsioni più giuste». Mettiamo che pensi a qualcuno a cui vorrei rivolgermi quando ho delle difficoltà morali e non so prendere una decisione: è forse l'unico a cui vorrei chiedere consiglio, perché mi fiderei del suo giudizio più che del mio. Ma questo che cosa vuoi dire? Come si "mostra", che il suo giudizio è 'migliore'? Non certo con migliori previsioni - lo ammettiamo senz'altro -, bensì... che cosa sia, potrei accennarlo soltanto mediante espressioni di "valore" oppure etiche, come appare evidente quando parlo dell'autenticità di una certa persona, della sua modestia, della sua nobiltà d'animo, persino quando parlo del suo 'acume' (qualcosa di diverso dall'acume teoretico). Ammettiamo pure tutto questo. E tuttavia io ritengo che tutto ciò che Wittgenstein dice del giudizio sull'autenticità nell'espressione di sentimenti, sulla conoscenza degli uomini, su chi conosce 'meglio' gli uomini, sull'imparare a conoscere gli uomini, sull'evidenza «imponderabile», sul tipo di regola che vale in questi casi - io penso che tutto ciò sia illuminante per chi vuole capire che cosa è o può essere in giuoco quando qualcuno vuole valutare il carattere di una persona, lodare o biasimare il suo comportamento, e così via.RUSH RHEES

NOTE.

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N. 1. Ludwig Wittgenstein, "Briefe an Ludwig von Ficker", a cura di H. von Wright e W. Methlagl, Salzburg, 1960, p. 35 [trad. it.: "Lettere a Ludwig von Ficker", Roma, 19741. Questo libro contiene due preziosi saggi dei curatori sulla vita di Wittgenstein e sulla storia del testo del "Tractatus". La lettera citata si trova anche nell'introduzione di von Wright al "Prototractatus" di Wittgenstein (London, 1971).

°

LEZIONI E CONVERSAZIONISULL'ESTETICA, LA PSICOLOGIA E LA CREDENZA RELIGIOSAa cura diCYRIL BARRETT.

PREFAZIONE.

Di questo libro si deve dire prima di tutto che non contiene nulla che sia stato scritto da Wittgenstein. Gli appunti, qui pubblicati, non sono note, stese da Wittgenstein per le proprie lezioni, sono appunti presi da studenti, non visti né controllati da lui. E' pure dubbio che egli ne avrebbe approvata la pubblicazione, almeno in questa forma, ma si è ritenuto più opportuno pubblicarli, in una forma approvata dai loro autori, sia perché riguardano argomenti toccati solo brevemente negli altri scritti editi di Wittgenstein, sia perché, per qualche tempo, hanno avuto una circolazione privata.Le lezioni di estetica sono state tenute a Cambridge, nell'estate del 1938, nelle residenze di docenti, a un piccolo gruppo di studenti, tra cui Rush Rhees, Yorick Smythies, James Taylor, Casmir Lewy, Theodore Redpath e Maurice Drury (i cui nomi ricorrono nel testo). Il nome di un altro studente, Ursell, figura pure nel testo (p. 96), ma in realtà egli non era presente. Le lezioni sulla credenza religiosa appartengono a un corso su questo tema tenuto circa nello stesso periodo. Le conversazioni su Freud, tra Wittgenstein e Rhees, ebbero luogo tra il 1942 e il 1946.Sono di Rhees, oltre agli appunti delle conversazioni su Freud, quelli della quarta lezione di estetica; il resto è di Smythies. Disponendo di tre versioni delle prime tre lezioni di estetica (di Smythies, Rhees e Taylor, cui si fa riferimento rispettivamente con S., R. e T.), e di due versioni della quarta, è stata scelta come testo la versione più completa, e si sono aggiunte in nota le varianti significative [Nota dei curatori della versione digitale: qui in gran parte omesse per non appesantire la lettura in sintesi vocale]. Gli appunti sono stati stampati così come sono stati raccolti sul momento, tranne piccole correzioni grammaticali e poche omissioni, là dove l'originale risultava indecifrabile. Benché le diverse versioni concordino in misura notevole, i loro autori non garantiscono della loro accuratezza in ogni singolo particolare: essi non pretendono di dare un resoconto letterale delle parole di Wittgenstein.L'inclusione di varianti potrebbe dare importanza e solennità in apparenza inappropriate a discussioni, dopo tutto, non accademiche, ma, d'altra parte, come dovrebbe essere chiaro, le differenti versioni si completano e si chiariscono a vicenda e, nello stesso tempo, testimoniano della loro stretta concordanza (quale potrebbe essere dimostrata solo dalla loro pubblicazione integrale). Sarebbe stato possibile comporre le versioni in un solo testo, ma è apparso meglio conservare ogni versione nella forma originaria, e lasciare al lettore di ricostruire, per conto suo, un testo composito. In certi punti, per maggiore chiarezza e semplicità di lettura, alcune varianti sono state introdotte nel testo e, a indicare questi passi, e dove sono stati apportati emendamenti editoriali, sono state usate parentesi quadre. I tre puntini (...) indicano, di solito, una lacuna o un passo indecifrabile nel testo.Infine, qualche parola sulla scelta del materiale.Si conservano molti appunti presi dagli studenti durante le lezioni di Wittgenstein. Di essi, quelli qui pubblicati sono solo una scelta che, a dispetto delle apparenze, non è casuale. Essi riflettono l'atteggiamento di Wittgenstein verso la vita e le sue opinioni su problemi religiosi, psicologici e artistici. Che Wittgenstein stesso non tenesse separati questi problemi risulta evidente, per esempio, dal resoconto, fatto da G. E. Moore, delle sue lezioni del 1930-1933. («Mind», 1955).

Cyril Barrett

LEZIONI SULL'ESTETICA.

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1.

1. L'argomento (Estetica) è molto vasto e del tutto frainteso, per quanto posso vedere. L'uso di un termine come «bello» è persino più atto a essere frainteso, se si guarda alla forma linguistica delle proposizioni in cui compare, di molti altri termini. «Bello» [e «buono» - R] è un aggettivo, e si è quindi inclini a dire «Questo ha una certa qualità, quella di essere bello».2. Noi passiamo da un argomento filosofia) a un altro, da un gruppo di parole a un altro gruppo di parole.3. Un modo intelligente di sezionare un libro di filosofia sarebbe di distinguere parti del discorso, tipi di parole. Dove, di fatto, si dovrebbero distinguere molte più parti del discorso di quanto faccia una comune grammatica. Si dovrebbe parlare per ore e ore sui verbi «vedere», «sentire», eccetera, verbi che descrivono esperienza personale. Tutte queste parole comportano un tipo particolare di confusione, o di confusioni. Ci dovrebbe essere un capitolo sui numerali - e qui si darebbe un altro tipo di confusione: un capitolo su «tutti», «ogni», «alcuni», eccetera, un tipo di confusione diverso: un capitolo su «tu», «io», eccetera - un altro ancora; un capitolo su «bello», «buono» - un altro tipo. Entriamo in un nuovo gruppo di confusioni; il linguaggio ci fa degli scherzi del tutto nuovi.4. Ho spesso paragonato il linguaggio a una cassetta di attrezzi, contenente un martello, uno scalpello, fiammiferi, chiodi, viti, colla. Tutte queste cose non sono state messe insieme a caso, ma vi sono differenze notevoli tra i diversi strumenti - sono usati in un contesto di modi - benché tra scalpello e colla non potrebbe esserci nulla di più diverso. Quando penetriamo in un nuovo campo, i nuovi scherzi che il linguaggio ci riserva provocano una costante sorpresa.5. Quando discutiamo una parola, ci domandiamo sempre come ci è stata insegnata. Far questo, distrugge, da una parte, molte concezioni errate, dall'altra fornisce un linguaggio primitivo in cui si fa uso della parola. Benché questo linguaggio non sia quello che si parla a vent'anni, si approssima in certo modo al tipo di gioco linguistico che verrà giocato. Conf. Come abbiamo imparato «Ho fatto un sogno così e così»? L'elemento interessante, qui, è che non l'abbiamo imparato osservando un sogno mostrato a noi. Se chiedi come un bambino impari «bello», «grazioso», eccetera ti accorgerai che, grosso modo, li impara come interiezioni. («Bello» è parola di cui è strano parlare, perché non è usata quasi mai). Un bambino applica generalmente una parola come «buono» prima di tutto al cibo. Una cosa straordinariamente importante nell'insegnamento è l'esagerazione dei gesti e delle espressioni del volto. La parola viene insegnata come sostituto di un'espressione del volto o di un gesto. I gesti, i toni della voce, eccetera, in questo caso sono espressione di assenso. Che cosa "fa", di una parola, un'interiezione di assenso? E' il gioco in cui appare, non la forma della parola. (Se dovessi dire quale sia l'errore più grave commesso dai filosofi della presente generazione, Moore incluso, direi che consiste nel fatto di aver considerato il linguaggio come forma delle parole e non come uso che della forma delle parole si è fatto). Il linguaggio è una parte caratteristica di un vasto gruppo di attività: parlare, scrivere, viaggiare su un autobus, incontrare un uomo, eccetera. Non ci stiamo concentrando sulle parole «buono» o «bello», che non sono affatto caratteristiche, e generalmente sono usate solo come soggetto e predicato («Questo è bello»), ma sulle occasioni in cui vengono dette - sulla situazione enormemente complicata in cui l'espressione estetica è importante, mentre l'espressione stessa ha per lo più un ruolo trascurabile.6. Se giungeste presso una tribù ignota, di cui non conoscete affatto la lingua e se voleste sapere quali parole corrispondano a «buono», «bello», eccetera, che cosa guardereste? Guardereste i sorrisi, i gesti, il cibo, i giocattoli. ([Replica a un'obiezione:] Se arrivaste su Marte e gli uomini fossero sfere con bastoni sporgenti, non sapreste a cosa guardare. Oppure se giungeste presso un popolo dove i soli suoni prodotti con la bocca fossero il respirare o il far musica, mentre il linguaggio fosse fatto con le orecchie. Conf. «Quando vedi gli alberi ondeggiare, stanno parlando fra loro». («Ogni cosa ha un'anima»). Tu paragoni i rami alle braccia. Certamente bisogna interpretare i gesti della tribù in analogia con i nostri). Quanto lontano dalla estetica normale [e dall'etica - T] ci porta, questo. Non partiamo da certe parole, ma da certe occasioni o attività.7. Caratteristica del nostro linguaggio è che un alto numero di parole usate in queste circostanze è costituito da aggettivi - «bello», «grazioso», eccetera. Ma vedete come questo non sia affatto necessario. Avete visto che erano dapprima usati come interiezioni. Che importanza avrebbe se, invece di dire "( questo è grazioso», io avessi detto solo «Ah!», e avessi sorriso, oppure mi fossi solo massaggiato lo stomaco? Finché si tratta di questi linguaggi primitivi, non sorgono affatto problemi intorno a ciò a cui queste parole si riferiscono, a ciò che è il loro soggetto reale [che è chiamato «bello» o «buono» - R].8. E' notevole che nella vita reale, quando si danno giudizi estetici, aggettivi estetici come «splendido», «bello», eccetera, abbiano scarsissima importanza. Si usano aggettivi estetici in una critica musicale? Tu dici «Guarda questo passaggio», oppure [Rhees] «Questo brano è incoerente». Oppure dici, in una critica a una poesia [Taylor] «Il suo uso delle immagini è preciso». Le parole che usi sono più affini a «giusto» e «corretto» (così come sono usate nel linguaggio comune) che a «bello» e «grazioso» (1).

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9. Parole come «grazioso» sono usate prima di tutto come interiezioni. Più tardi, sono usate in pochissime occasioni. Possiamo dire, di un brano di musica, che è grazioso, non per apprezzarlo ma per caratterizzarlo. (Parecchi, certo, che non sanno esprimersi con proprietà, usano la parola molto spesso. Nel loro caso, la parola è usata come interiezione). Potrei chiedere «Per quale melodia mi piacerebbe soprattutto usare la parola 'grazioso'?». Potrei scegliere tra chiamare una melodia «graziosa» o chiamarla «giovanile». E' stupido chiamare un brano di musica «Melodia primaverile» o «Sinfonia primaverile». Ma la parola «agile» (1) non sarebbe affatto assurda, non più di «imponente» o «pomposo».10. Se fossi un buon disegnatore, potrei suggerire un'infinità di espressioni con soli quattro tratti:

[figure qui omesse]

Parole come «pomposo» e «imponente» potrebbero essere espresse da facce. Così facendo, le nostre descrizioni sarebbero molto più flessibili e varie di quanto siano se espresse con aggettivi. Dire di un brano di Schubert che è melanconico, è come dargli una faccia (non esprimo approvazione o dissenso). Potrei invece usare gesti o [Rhees] danzare. Di fatto, se si vuole essere esatti, usiamo un gesto o un'espressione della faccia.

11. [Rhees: Quale regola usiamo o a qual regola ci riferiamo quando diciamo «Questa è la maniera giusta»? Se un maestro di musica dice che un pezzo "dovrebbe" essere suonato in questo modo, e lo suona, a cosa si richiama?].12. Prendi il problema: «Come deve essere letta la poesia? Qual è il modo corretto di leggerla?». Se parlate di poesia ritmica, il modo giusto di leggerla può essere di accentuarla correttamente - discutete su quanto bisogna mettere in evidenza il ritmo e quanto bisogna nasconderlo. Un tale dice che deve essere letta in "questo" modo e ve la legge ad alta voce. Voi dite «Oh, sì. Ora ha senso». Vi sono casi di poesie che dovrebbero essere soprattutto scandite - dove il metro è chiaro come il cristallo -, altre dove il metro è interamente sullo sfondo. Ho fatto un'esperienza con il poeta Klopstock (2), del diciottesimo secolo. Ho trovato che il modo di leggerlo era di mettere in evidenza il suo metro in modo anormale. Klopstock poneva [dei segni qui omessi] (eccetera.) all'inizio dei suoi versi. Quando lessi le sue poesie in questo nuovo modo, dissi «Ah, ora so perché lo ha fatto». Cos'era accaduto? Avevo letto questo tipo di roba e mi ero abbastanza annoiato, ma avendolo letto, intensamente, in quest'altro modo, ho sorriso, dicendomi «Questo è "grande"», eccetera. Ma avrei anche potuto non dir nulla: il fatto importante era che continuavo a leggerlo e a rileggerlo. E, leggendo queste poesie, facevo gesti e espressioni che si sarebbero potuti definire gesti di approvazione. Ma il fatto importante era che ora leggevo le poesie in modo totalmente diverso, più intensamente, e dicevo agli altri «Ecco come dovrebbero essere lette». Gli aggettivi estetici avevano importanza molto scarsa.13. Cosa dice una persona che sa cosa sia un buon vestito durante la prova dal sarto? «Questa è la lunghezza giusta», «Questo è troppo corto», «Questo è troppo stretto». Parole di approvazione non hanno parte alcuna, eppure la persona apparirà soddisfatta se il vestito gli andrà bene. Invece di «Questo è troppo corto», potrei dire «Guardi!», o invece di «Va bene», potrei dire «Lo lasci come è». Un buon tagliatore può non usare alcuna parola, ma fare solo un segno col gesso e, dopo, eseguire la modifica. Come mostro la mia approvazione per un vestito? Soprattutto indossandolo spesso, gradendo che sia osservato, eccetera.14. (Se vi do la luce e l'ombra di un corpo, in un quadro, posso, così, darvi la sua forma. Ma se vi do i punti di luce, in un quadro, voi non sapete quale sia la forma).15. Per la parola «corretto» si ha un gran numero di casi correlati. Vi è, dapprima, il caso in cui imparate le regole. Il tagliatore impara quanto debba esser lungo un vestito, quanto larghe le maniche, eccetera. Impara regole - è addestrato - come, in musica, si è addestrati nell'armonia e nel contrappunto. Supponiamo che io mi sia dedicato alla sartoria e abbia, prima, appreso tutte le regole; potrei avere, in generale, due tipi di atteggiamento. 1) Lewy dice «Questo è troppo corto». Io dico «No, è giusto, corrisponde alle regole». 2) Acquisto una sensibilità per le regole, le interpreto. Potrei dire «No, non è giusto, non corrisponde alle regole». Esprimerei qui un giudizio estetico sulla cosa che corrisponde alle regole nel senso di 1). D'altra parte, se non avessi appreso le regole, non sarei in grado di dare il giudizio estetico. Imparando le regole, si acquista un giudizio sempre più raffinato. L'apprendimento delle regole modifica in realtà il vostro giudizio. (Benché, se non avete studiato armonia e non avete un buon orecchio, non potrete mai, ciononostante, scoprire una qualsiasi disarmonia in una sequenza di accordi).16. Puoi considerare le regole fissate per le misure di un soprabito come una espressione di ciò che certuni desiderano. La gente si differenziava relativamente alle misure che deve avere un soprabito: c'erano alcuni che non si curavano se era largo o stretto, eccetera; c'erano altri cui importava moltissimo. Le regole dell'armonia, puoi dire, espressero il modo di successione degli accordi desiderato dalla gente - i loro desideri si cristallizzarono in queste regole (la parola «desideri» è troppo vaga). Tutti i grandi compositori hanno scritto musica conformandosi a esse. ([Replica a un'obiezione: ] Puoi dire che ogni compositore ha mutato le regole, ma la variazione era molto piccola;

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non tutte le regole erano cambiate. La musica era ancora buona rispetto a molte delle vecchie regole. - Questo, però, non dovrebbe intervenire a questo punto).17. In ciò che chiamiamo le Arti, una persona capace di giudicare si sviluppa. (Una persona capace di giudicare non vuol dire una persona che dice «Splendido!» di fronte a certe cose). Se parliamo di giudizi estetici, pensiamo, fra mille altre cose, alle Arti. Quando formuliamo un giudizio estetico su una cosa, non ci limitiamo a rimanere a bocca aperta dicendo «Oh, che splendido!». Distinguiamo tra una persona che sa ciò di cui sta parlando e una che non lo sa. Se uno ammira la poesia inglese, deve sapere l'inglese. Supponiamo che un russo che non sa l'inglese sia emozionato da un sonetto riconosciuto buono. Diremmo che non sa affatto che cosa sia. Similmente, di uno che non conosce la metrica ma che sia emozionato, diremmo che non sa di che si tratta. In musica, questo ha più rilievo. Supponiamo che ci sia una persona che ammira e ama ciò che è riconosciuto buono, ma che non sa ricordare le più semplici melodie, non sa quando subentra il basso, eccetera. Diciamo che non ha visto di che si tratta. Usiamo la frase «Un uomo è musicale» non per chiamare musicale un uomo che dice «Ah!» quando si suona un pezzo di musica, allo stesso modo che non chiamiamo musicale un cane se muove la coda quando si esegue musica.18. La parola di cui dovremmo parlare è «valutato». In che cosa consiste la valutazione?19. Se un uomo esamina uno dopo l'altro un'infinità di modelli, in una sartoria [e] dice «No, questo è un po' troppo scuro, questo un po' troppo carico», eccetera, lo definiremmo uno che sa valutare il prodotto. Che egli sia tale non si rileva dalle interiezioni che usa, ma dal suo modo di scegliere, selezionare, eccetera. Similmente in musica «Si armonizza, questo? No, il basso non è abbastanza forte, qui voglio qualche cosa di diverso...». Questo è ciò che chiamiamo una valutazione.20. Non solo è difficile descrivere in che cosa consista la valutazione, ma è impossibile. Per descrivere in che cosa consiste, dovremmo descrivere tutto il contesto ambientale.21. So esattamente cosa capita quando uno che se ne intende davvero di vestiti va dal sarto, so dunque cosa capita quando ci va uno che non ne sa nulla - ciò che dice, come si comporta, eccetera. Vi è un numero straordinario di casi diversi di valutazione. E, certo, ciò che so non è nulla in confronto di ciò che si potrebbe sapere. Dovrei - per dire ciò che sia la valutazione - per esempio spiegare un'enorme escrescenza come le arti applicate, questa particolare sorta di malattia. Dovrei anche spiegare cosa fanno oggi i nostri fotografi - e perché sia impossibile avere un ritratto decente del tuo amico anche se paghi mille sterline.22. Puoi avere un'immagine di ciò che puoi chiamare una cultura molto elevata, per esempio la musica tedesca nell'ultimo secolo e nel secolo precedente, e cosa capita quando si deteriora. Un'immagine di cosa capita in architettura quando si hanno imitazioni - o quando migliaia di persone sono interessate ai particolari più minuti. Un'immagine di cosa capita quando un tavolo da pranzo è scelto più o meno a caso, quando nessuno sa da dove venga.23. Abbiamo parlato di correttezza. Un buon tagliatore non userà altre parole all'infuori di parole come «Troppo lungo», «Va bene». Quando parliamo di una sinfonia di Beethoven non parliamo di correttezza. Subentrano cose totalmente differenti. Nessuno direbbe di valutare le cose "straordinarie" in arte. In certi stili architettonici una porta è corretta, e il fatto è che l'apprezzate. Ma, nel caso di una cattedrale gotica, facciamo ben altro che trovarla corretta - essa ha un ruolo totalmente diverso, per noi. L'intero "gioco" è diverso. E' altrettanto diverso che giudicare un essere umano e, da una parte, dire «Si comporta bene», dall'altra «Mi ha fatto una grande impressione».24. «Correttamente», «piacevolmente», «graziosamente», eccetera. hanno un ruolo del tutto diverso. Conf. il famoso discorso di Buffon - un uomo straordinario - sullo stile nella scrittura; dove fa tante distinzioni che io capisco solo vagamente ma che per lui non avevano un significato vago - ogni genere di sfumature come «grandioso», «piacevole», «grazioso» (3).25. Le parole che chiamiamo espressioni di giudizio estetico hanno un ruolo molto complicato, ma ben definito, in ciò che chiamiamo la cultura di un periodo. Per descrivere il loro uso o per descrivere ciò che intendi per un gusto cólto, devi descrivere una cultura. Ciò che ora chiamiamo gusto cólto forse non esisteva nel Medio Evo. Nelle diverse età si gioca un gioco del tutto diverso.26. Ciò che appartiene a un gioco linguistico è un'intera cultura. Nel descrivere il gusto musicale devi descrivere se i bambini danno concerti, se li danno le donne oppure solo gli uomini, eccetera, eccetera. Nei circoli aristocratici viennesi, si aveva un [certo] gusto particolare, questo gusto poi si diffuse nei circoli borghesi, e le donne parteciparono ai cori, eccetera. Questo è un esempio di tradizione in musica.27. [Rhees: Esiste tradizione nell'arte negra? Potrebbe un europeo apprezzare l'arte negra?].28. Che cosa sarebbe tradizione nell'arte negra? Che le donne portano sottane di foglie? eccetera, eccetera. Non so. Io non so come la valutazione dell'arte negra di Frank Dobson si accordi con quella di un negro cólto (4). Se dici che l'apprezza, io non so ancora che cosa questo voglia dire. Egli può riempire la sua stanza di oggetti d'arte negra. Dice solo «Ah!»? Oppure fa ciò che fanno i migliori musicisti negri? Oppure concorda o dissente da un certo tale

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in merito? Puoi chiamare questo una valutazione. Del tutto differente da quella di un negro cólto. Il quale può certo avere oggetti d'arte negra nella sua stanza. Quella del negro e quella di Frank Dobson sono valutazioni del tutto diverse. Fai, con esse, cose diverse. Supponi che i negri si vestano al loro modo e io dica di apprezzare una buona tunica di negro - significa, questo, che vorrei farmene una, che direi (come dal sarto) «No, questa è troppo lunga», o significa che io dico «Che delizia!»?29. Supponi che Lewy abbia un cosiddetto gusto cólto in pittura. Questo differisce radicalmente da ciò che era chiamato gusto cólto nel quindicesimo secolo. Si giocava un gioco totalmente diverso. Egli fa, con esso, una cosa interamente diversa da quella che si faceva allora.30. Ci sono molti, benestanti che hanno frequentato buone scuole, che possono permettersi di viaggiare e vedere il Louvre, eccetera, ne sanno parecchio e possono parlare facilmente di dozzine di pittori. C'è un altro che ha visto ben pochi quadri, ma che guarda intensamente uno o due quadri che gli fanno una profonda impressione. Un terzo è aperto, ma non profondo né acuto. Un quarto è molto ristretto, concentrato e circoscritto. Si tratta di generi diversi di valutazione? Possono tutti chiamarsi «valutazione».31. Parli in modo del tutto diverso del costume per l'incoronazione di Edoardo Secondo e di un completo moderno. Cosa hanno fatto, "essi", e detto a proposito dei costumi per la incoronazione? E' stato fatto da un sarto, quel costume? Forse è stato disegnato da artisti italiani che avevano le loro tradizioni; mai visto da Edoardo Secondo prima di indossarlo. Problemi come «Quali criteri c'erano?», eccetera, sono tutti rilevanti per la questione «Potresti tu criticare l'abito così come essi l'hanno criticato?». Tu lo valuti in un modo totalmente diverso; il tuo atteggiamento verso di esso è del tutto differente da quello di una persona che viveva al tempo in cui è stato disegnato. D'altra parte, la frase «Questo è un bel costume da incoronazione» può essere stata pronunciata da un tale, a quel tempo, nello stesso identico modo in cui uno la dice ora.32. Indirizzo la vostra attenzione verso le differenze e dico «Guarda come sono differenti queste differenze!», «Guarda cosa c'è in comune nei diversi casi», «Guarda cosa hanno in comune i giudizi estetici». Rimane una famiglia di casi estremamente complicata, con punti culminanti - l'espressione di ammirazione, un sorriso o un gesto, eccetera.33. [Rhees aveva posto a Wittgenstein alcune domande circa la sua «teoria» del deterioramento].Pensi che io abbia una teoria? Pensi che stia dicendo cosa sia il deterioramento? Ciò che faccio è di descrivere cose differenti chiamate deterioramento. Potrei approvare il deterioramento - «Molto bene, la vostra bella cultura musicale: sono molto lieto che i bambini, oggi, non imparino l'armonia». [Rhees: «Quel che dici, non implica una preferenza nell'usare «deterioramento» in un certo modo?]. Certo, se vuoi, ma questo incidentalmente, - no, non importa. Il mio esempio di deterioramento è un esempio di ciò che conosco, forse di qualcosa che non mi piace - non so. «Deterioramento» si riferisce a un pezzetto che posso conoscere.34. Il nostro modo di vestire è in certo senso più semplice di quello del diciottesimo secolo, ed è adatto, piuttosto, a certe attività movimentate, come l'andare in bicicletta, camminare, eccetera. Supponi che notiamo un mutamento simile nell'architettura e nell'acconciatura dei capelli, eccetera. Supponi che io abbia parlato del deterioramento dello stile di vita. Se qualcuno chiede «Che cosa intendi per deterioramento?», descrivo, fornisco esempi. Tu usi «deterioramento» da una parte, per descrivere un genere particolare di sviluppo, dall'altra per esprimere disapprovazione. Io posso collegarlo con le cose che mi piacciono, e tu con le cose che non ti piacciono. Ma la parola può essere usata senza alcun elemento affettivo; la si usa per descrivere un tipo particolare di cose che sono capitate (5). E' anzi come usare un termine tecnico - forse, benché niente affatto necessariamente, con un elemento di denigrazione. Potresti dire, protestando, quando parlo di deterioramento «Ma questo era molto buono». Io dico «Certo, ma non stavo parlando di questo, l'ho usato per descrivere un tipo particolare di sviluppo».35. Per avere idee chiare sulle parole estetiche bisogna descrivere modi di vita. Pensiamo di dover parlare di giudizi estetici come «Questo è bello», ma troviamo che dovendo parlare di giudizi estetici non troviamo affatto queste parole, ma una parola usata quasi come un gesto, che accompagna un'attività complicata.36. [Lewy: Se la mia affittacamere dice che un quadro è grazioso e io dico che è orrendo, non ci contraddiciamo].In un certo senso [e in "certi esempi" - R] vi contraddite. Lei lo spolvera accuratamente, lo guarda spesso, eccetera. Tu vuoi buttarlo nel fuoco. Questo è proprio lo stupido tipo di esempi che si danno in filosofia, come se cose del genere «Questo è orrendo», «Questo è grazioso», fossero i soli generi di cose che si dicono. Ma è invece una cosa sola nel vasto àmbito di altre cose - un caso speciale. Supponi che l'affittacamere dica «Questo è orrendo», e tu dica «E' grazioso» - certo, è così.

2.

1. Una cosa interessante è l'idea che la gente ha di una specie di scienza dell'Estetica. Mi piacerebbe quasi parlare di cosa si potrebbe intendere per Estetica.

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2. Potresti pensare che l'Estetica è una scienza che ci dice cosa è bello - quasi troppo ridicolo per parlarne. Suppongo che dovrebbe includere anche quale tipo di caffè ha un buon sapore.3. Vedo all'incirca questo - che c'è un àmbito dell'espressione del piacere, quando gusti un buon cibo o annusi un buon odore, eccetera, e poi l'ambito dell'arte, che è del tutto diverso, benché spesso puoi fare la stessa faccia quando senti un pezzo di musica e quando gusti un buon cibo. (Sebbene tu possa piangere per qualcosa che ti piace davvero molto).4. Supponiamo che tu incontri qualcuno per strada che ti dice di aver perduto l'amico più caro, con una voce che esprime intensamente la sua emozione. Potresti dire «Era straordinariamente bello il suo modo di esprimersi». Supponendo che tu abbia allora domandato «Che cosa c'è di simile fra la mia ammirazione per questa persona e il piacere provato mangiando un gelato alla vaniglia?» Istituire un confronto sembra abbastanza disgustoso (Puoi però connetterli con casi intermedi). Supponi che qualcuno dica «Ma questo è un genere abbastanza diverso di piacere». Ma hai forse imparato due significati di «piacere»? Usi la stessa parola in entrambe le occasioni. C'è un qualche nesso fra questi piaceri. Benché nel primo caso l'emozione del piacere conterebbe ben poco nel nostro giudizio.5. E' come dire «Classifico le opere d'arte in questo modo: per alcune, guardo in su, per altre guardo in giù». Questo metodo di classificazione potrebbe essere interessante. Potremmo scoprire ogni sorta di connessioni fra guardare in su o guardare in giù alle opere d'arte e guardare in su o guardare in giù ad altre cose. Se troviamo, per esempio, che mangiare un gelato alla vaniglia ci ha fatto guardare in su, potremmo non attribuire grande importanza al guardare in su. Può esserci un àmbito, un piccolo àmbito di esperienze, che potrebbero farmi guardare in su o in giù, da cui potrei inferire molte cose per il fatto di aver guardato in su o in giù; un altro àmbito di esperienze da cui non si potrebbe inferire nulla dal mio guardare in su o in giù. Conf. l'indossare calzoni blu o verdi potrebbe significare molto, in una certa società, ma in un'altra non significare nulla.6. Come si esprime il nostro gradimento di qualche cosa? E' solo ciò che diciamo, oppure le interiezioni che usiamo o le smorfie che facciamo? No, ovviamente. E', spesso, quanto frequentemente io leggo qualche cosa o quanto frequentemente indosso un vestito. Forse, non direi neppure «E' bello», ma lo indosserei spesso e lo guarderei.7. Supponi che noi costruiamo delle case e diamo alle porte e alle finestre certe dimensioni. Forse che il fatto di "gradire" queste dimensioni necessariamente si mostra in qualche cosa che diciamo? Quel che ci piace si mostra necessariamente in un'espressione di gradimento? [Per esempio - R] supponi che i nostri bambini disegnino delle finestre e che quando le disegnano in modo sbagliato noi li puniamo. Oppure, qualcuno costruisce un certo tipo di casa, e noi ci rifiutiamo di viverci o scappiamo via.8. Prendi il caso delle mode. Come nasce una moda? Per esempio, portiamo i risvolti della giacca più larghi che l'anno scorso. Vuoi dire che i sarti li preferiscono più larghi? No, non necessariamente. Li taglia così, e quest'anno li fa più larghi. Forse, quest'anno li trova troppo stretti e li fa più ampi. Forse non si usa alcuna espressione [di piacere - R].9. Disegni una porta e la guardi, e dici «Più alta, più alta, più alta... oh, adesso va bene». (Gesto). Che cos'è? E' un'espressione di soddisfazione?10. Forse, la cosa più importante in rapporto con l'estetica è ciò che si può chiamare reazione estetica, ad esempio, insoddisfazione, disgusto, disagio. L'espressione di insoddisfazione non è la stessa dell'espressione di disagio. L'espressione d'insoddisfazione è «Falla più alta... troppo bassa!... facci qualche cosa».11. Ciò che chiamo un'espressione di insoddisfazione è forse qualcosa di simile a un'espressione di disagio "più" il sapere la causa del disagio e il chiedere di rimuoverla? Se dico «Questa porta è troppo bassa. Falla più alta», dovremmo dire che conosco la causa del mio disagio?12. «Causa» è usato in molti modi diversi, per esempio:1) «Qual è la causa della disoccupazione?». «Qual è la causa di questa espressione?».2) «Qual era la causa del tuo sobbalzo?». «Quel rumore».3) «Qual era la causa per cui quella ruota girava?» Individui un meccanismo.13. [Redpath: «Far la porta più alta elimina la tua insoddisfazione»].Wittgenstein chiese: «Perché questo è un modo infelice di esprimersi?». E' nella forma sbagliata perché presuppone «elimina».14. Dire che tu conosci la causa del tuo disagio può significare due cose.1) Io predico correttamente che se abbassi la porta, sarò soddisfatto.2) Ma quando in realtà dico «Troppo alta!», «Troppo alta!» in questo caso non è una congettura. Si può paragonare «Troppo alta!» con «Penso di aver mangiato troppi pomodori, oggi»?15. Se domando «Se la faccio più bassa cesserà il tuo disagio?», potresti dire «Sono "sicuro" di sì». La cosa importante è che io dica «Troppo alta!». E' una reazione analoga al mio ritrarre la mano da un piatto che scotta - il che può anche non alleviare il mio disagio. La reazione specifica a questo disagio è dire «Troppo alta!» o qualche cosa di analogo.

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16. Dire «Provo disagio e conosco la causa» è del tutto fuorviante perché «conoscere la causa» significa di solito qualcosa di molto diverso. Quanto fuorviante sia, dipende dal fatto se, quando dici «Conosco la causa», tu intenda così fornire una spiegazione o meno. «Provo disagio e conosco la causa» fa sembrare come se ci fossero due processi mentali, in me: disagio e sapere la causa.17. In questi casi, la parola «causa» non è quasi mai usata. Si usa «perché?» e «poiché», ma non «causa».18. Si ha qui un tipo di disagio che possiamo chiamare «indirizzato», per esempio, se ho paura di te, il mio disagio è indirizzato. Dire «conosco la causa» richiama alla mente il caso della statistica o l'individuazione di un meccanismo. Se dico «Conosco la causa», sembra come se io avessi analizzato le sensazioni (come analizzo la sensazione di sentire la mia voce e, nello stesso tempo, di fregarmi le mani) ciò che, naturalmente, non ho fatto. Abbiamo dato, per così dire, una spiegazione "grammaticale" [nel dire che il sentimento è «indirizzato»].19. Il disagio estetico ha un «perché?», non una «causa». L'espressione di disagio assume la forma di una critica e non di «La mia mente non è in riposo», o qualche cosa di simile. Potrebbe assumere la forma di guardare un quadro e dire «Che cosa c'è di sbagliato?».20. E' molto giusto chiedere «Non possiamo eliminare questa analogia?». Ebbene, non possiamo. Se pensiamo al disagio - causa, sofferenza - causa di sofferenza naturalmente si suggerisce da sé.21. La causa, nel senso dell'oggetto cui è indirizzata, è anche la causa in altri sensi. Quando la elimini, il disagio cessa, eccetera.22. Se uno dice «Possiamo essere subito consapevoli della causa?», la prima cosa che ci viene in mente non è la statistica [(come in «la causa dell'aumento della disoccupazione») - R], ma la individuazione di un meccanismo. E' stato detto molto spesso che se qualche cosa è stata causata da qualche cosa d'altro, è solo una questione di concomitanza. Non è strano? Molto strano. «E' solo concomitanza» dimostra che tu pensi che possa essere qualche cosa d'altro. Potrebbe essere una proposizione sperimentale, ma allora non so cosa sarebbe. Dir questo mostra che tu sai di qualche cosa di diverso, cioè di una connessione. Che cosa negano, quando dicono «Non vi è necessariamente una connessione»?23. Si dicono costantemente in filosofia cose come questa «Alcuni dicono che ci sia un 'super-meccanismo', ma non c'è». Ma nessuno sa cosa sia un «super-meccanismo».24. (L'idea di un super-meccanismo non interviene qui, in realtà: l'idea che interviene è quella di un meccanismo).25. Abbiamo l'idea di un super-meccanismo quando parliamo di necessità logica, per esempio la fisica ha tentato di realizzare l'ideale della riduzione delle cose a meccanismi, o a qualche cosa che spinge qualche cos'altro.26. Diciamo che degli uomini condannano a morte un uomo e poi diciamo che la Legge lo condanna a morte. «Benché i giurati possano perdonarlo [assolverlo?], la Legge non può». (Questo "potrebbe" significare che la Legge non può essere comprata, eccetera). L'idea di un qualche cosa di super-rigido, più rigido di quanto possa esserlo un qualsiasi giudice, una super-severità. Il fatto è che vorreste chiedere «Abbiamo un'immagine di qualche cosa di più rigoroso?». Niente affatto. Ma siamo inclini a esprimerci con un superlativo.27. [figura qui omessa] Conf. il fulcro di una leva. L'idea di una super-durezza. «La leva geometrica è più dura di qualsiasi altra leva possibile. Non può piegarsi». Qui si ha il caso della necessità logica. «La logica è un meccanismo fatto di un materiale infinitamente duro. La logica non può piegarsi». (Certo, non può fare altro). Si arriva in questo modo a un super-qualcosa. In questo modo si giunge a certi superlativi, come sono usati, ad esempio l'infinito.28. Alcuni potrebbero dire che persino nell'individuazione di un meccanismo si ha pure concomitanza. Ma è necessario che ci sia? Mi limito a seguire il filo sino alla persona che sta all'altro capo.29. Supponi ci fosse un super-meccanismo così come c'era un meccanismo all'interno del filo. Anche se ci fosse un tale meccanismo, non avrebbe importanza. Riconosci che individuare un meccanismo equivale a individuare un tipo particolare di reazione causale.30. Vuoi eliminare del tutto l'idea di connessione. «Questo è dunque solo concomitanza». Allora non c'è più nulla da dire. Dovresti specificare quale caso non chiameresti concomitanza. «Individuare un meccanismo è solo trovare una concomitanza. Alla fine, può essere tutto ridotto a concomitanza». Si potrebbe provare che nessuno mai ha individuato un meccanismo senza aver avuto molte esperienze di un certo tipo. Si potrebbe esprimere questo nella forma «Tutto si riduce a concomitanza».31. Conf. «La fisica non spiega nulla. Si limita a descrivere casi di concomitanza».32. Con la frase «Non c'è un super-meccanismo» potresti voler dire «Non immaginare meccanismi fra gli atomi nel caso di una leva. Non ci sono meccanismi di sorta, lì». (Sottintendi la rappresentazione atomistica. A che cosa conduce, questo? Siamo così abituati a questa rappresentazione, che è come se noi tutti avessimo visto gli atomi. Ogni bambino istruito di otto anni sa che le cose sono fatte di atomi. Reputeremmo mancanza di istruzione se uno non pensasse che un bastone è fatto di atomi).33. (Si può considerare il meccanismo come un gruppo di fenomeni causali concomitanti. Ma non si fa, naturalmente). Dici «Dunque, questo muove questo, quest'altro quest'altro, e così via».

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34. Individuare un meccanismo è un modo per trovare la causa; parliamo «della causa», in questo caso. Ma se delle ruote di burro che sembrano di acciaio fossero casi frequenti, potremmo dire «Questa 'questa ruota' non è affatto l'unica causa. Potrebbe solo sembrare un meccanismo».35. Alcuni dicono spesso che l'estetica è una branca della psicologia. L'idea è che quando saremo più progrediti si capirà ogni cosa - tutti i misteri dell'Arte - per mezzo di esperimenti psicologici. Per quanto eccessivamente stupida sia quest'idea, si tratta pressappoco di questo.36. I quesiti estetici non hanno niente a che fare con gli esperimenti psicologici, si risponde a essi in modo totalmente diverso.37. «Cosa c'è nella mia mente quando dico questo e quest'altro?». Scrivo una frase. Una parola non è quella di cui ho bisogno. Trovo la parola giusta. «Cosa voglio dire? Oh sì, volevo dire questo». La risposta, in questi casi, è quella che vi soddisfa, per esempio qualcuno dice (come diciamo spesso in filosofia) «Vi dirò ciò che si trova al fondo della vostra mente...».«Oh, sì, proprio così».Il criterio per stabilire se sia effettivamente quella parola che si trovava nella vostra mente è dato dal fatto che, quando ve la dico, siete d'accordo. Questo non è ciò che si chiama un esperimento psicologico. Ecco un esempio di esperimento psicologico: hai dodici individui, poni lo stesso problema a ciascuno, e ne risulta che ciascuno dice questo e questo, ossia il risultato è qualche cosa di statistico.38. Potresti dire «Una spiegazione estetica non è una spiegazione causale».39. Conf. Freud, "Il motto di spirito e l'inconscio" (6). Freud ha scritto sui motti di spirito. Potresti definire causale la spiegazione data da Freud. «Se non è causale, come fai a sapere che è corretta?». Tu dici «Sì, è giusto» Freud trasforma il motto di spirito in una forma diversa, riconosciuta da noi come un'espressione della catena di idee che ci ha condotto da un capo all'altro di una battuta umoristica. Un modo del tutto nuovo di esprimere una spiegazione corretta, non in accordo con l'esperienza, ma accettata. Devi dare la spiegazione accettata. Ecco in che cosa consiste soprattutto la spiegazione.40. Conf. «Perché dico 'Più alto!'?» con «Perché dico 'Ho un dolore'?».

3.

1. Uno pone una domanda come «Cosa mi ricorda questo?», oppure dice, di un brano di musica «E' come una frase, ma a quale frase somiglia?» Si suggeriscono varie cose: una, come si suoi dire, fa clic. Cosa significa «fare clic»? Significa che da un suono paragonabile a un clic? Si sente lo squillo di un campanello o qualcosa di simile?2. E' come se tu avessi bisogno di un qualche criterio, ossia di quel clic, per sapere che è occorsa la cosa giusta.3. Il paragone è fondato sul fatto che è occorso un certo fenomeno particolare, diverso dal mio dire «Questo è giusto». Tu dici «Questa spiegazione è proprio quella che fa clic». Supponi che qualcuno dica «Il tempo di quella canzone sarà giusto quando potrò sentire distintamente quel particolare passaggio». Ho fatto riferimento a un fenomeno che, se si presenta, mi renderà soddisfatto.4. Potresti definire «suono giusto» la tua soddisfazione. Prendi una lancetta che si sposta in direzione opposta a un'altra. Sei soddisfatto "quando" le due lancette sono in posizione opposta. E avresti potuto prevederlo.5. Stiamo continuando a usare la similitudine di qualche cosa che «fa clic» o «combacia», mentre in realtà non vi è nulla che «faccia clic» o «combaci».6. Mi piacerebbe parlare del genere di spiegazione che uno desidera quando si parla di un'impressione estetica.7. La gente ha ancora l'idea che un giorno la psicologia spiegherà tutti i nostri giudizi estetici, e intende, con ciò, la psicologia sperimentale. Questo è molto buffo, molto buffo davvero. Non sembra esserci connessione alcuna tra il lavoro degli psicologi e un qualsiasi giudizio su un'opera d'arte. Potremmo esaminare che cosa si potrebbe definire una spiegazione di un giudizio estetico.8. Supponi che si fosse trovato che tutti i nostri giudizi derivano dal nostro cervello. Abbiamo scoperto tipi particolari di meccanismi nel cervello, abbiamo formulato leggi generali, eccetera. Si potrebbe mostrare come questa sequenza di note musicali produca questo tipo particolare di reazione: fa sorridere un uomo e gli fa dire «Oh, è meraviglioso». (Meccanismo per la lingua inglese, eccetera). Supponi che si sia fatto questo: potrebbe permetterci di predire cosa piacerebbe o dispiacerebbe a qualcuno. Potremmo calcolarlo. Il problema è se questo è il tipo di spiegazione che ci piacerebbe avere quando siamo perplessi di fronte a delle impressioni estetiche. Ecco, ad esempio, un quesito: «Perché queste battute mi fanno un'impressione così particolare?». Evidentemente, non è questo che vogliamo, ossia un calcolo, un novero di reazioni, eccetera. - a parte l'ovvia impossibilità della cosa.9. Per quanto si possa vedere, la perplessità di cui sto parlando si può risolvere solo con un genere particolare di confronti, per esempio con l'arrangiamento di certe sequenze musicali, confrontando il loro effetto su di noi. «Se noi mettiamo questo accordo, non ha quell'effetto; se mettiamo quest'altro, sì». Puoi avere una certa frase e dire

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«Questa frase suona in qualche modo strana». Potresti indicare che cosa è strano. Quale potrebbe essere il criterio per giudicare che hai indicato la cosa giusta? Supponi che una poesia suoni vecchio stile, quale dovrebbe essere il criterio per giudicare che tu hai realmente trovato ciò che vi era di stilisticamente vecchio? Un criterio potrebbe essere che, quando hai trovato questo qualche cosa, ne sei soddisfatto. Un altro criterio: «Nessuno userebbe questa parola, oggi».2 Qui, puoi riferirti a un dizionario, puoi domandare ad altri, eccetera. Io "potrei" individuare la cosa sbagliata e tuttavia tu potresti esser soddisfatto lo stesso.10. Supponi che uno senta suonare sincopata una musica di Brahms e domandi «Quale è lo strano ritmo che mi fa dondolare?». «E' il tre-quarti». Si potrebbero suonare certe frasi e quello direbbe «Sì, intendevo questo ritmo particolare». D'altra parte, se non fosse d'accordo, questa non sarebbe la spiegazione.11. Il genere di spiegazione cercato quando si è perplessi di fronte a un'impressione estetica, non è quello causale, non è una spiegazione confortata dall'esperienza o dalla statistica su come reagisce la gente. Una delle cose curiose [caratteristiche - R] degli esperimenti psicologici è che devono essere condotti con un certo numero di soggetti. E' la concordanza tra Smith, Jones e Robinson che ti permette di fornire una spiegazione, una spiegazione in questo senso: per esempio puoi provare con un brano di musica in un laboratorio psicologico e ottenere il risultato che la musica agisce in un certo modo particolare sotto l'azione di certe particolari droghe. Non è questo che si vuoi dire o cui si tende con una ricerca nel campo dell'estetica.12. Questo si connette con la differenza fra causa e motivo. In un'aula di tribunale, vi si richiede il motivo di una vostra azione e si suppone che lo sappiate. A meno che mentiate, vi si suppone in grado di dire il motivo della vostra azione. Non si può pretendere che sappiate le leggi che governano il vostro corpo e la vostra mente. Perché suppongono che le sappiate? Perché avete avuto così numerose esperienze di voi stessi? La gente dice talvolta «Nessuno può guardare dentro di voi, ma tu puoi guardare dentro te stesso» come se, essendo così vicino a te stesso, essendo te stesso, tu conoscessi il tuo meccanismo. Ma è così? «Certamente, deve sapere perché lo ha fatto o lo ha detto».13. Un caso particolare è quando fornisci la ragione per cui fai qualcosa. «Perché hai scritto 6249 sotto la linea?». Tu dài la moltiplicazione che hai fatto. «Sono arrivato al risultato con questa moltiplicazione». Questo è paragonabile alla descrizione di un meccanismo. Lo si potrebbe indicare così: dare un motivo per aver scritto i numeri. Significa che sono passato per questo particolare processo di ragionamento. Qui «Perché l'hai fatto?», significa «Come vi sei giunto?». Dai una ragione: la strada percorsa.14. Se uno ci espone un processo particolare per cui è giunto alla cosa, questo ci induce a dire «Solo lui sa il processo che ve l'ha condotto».15. Fornire una ragione talvolta significa «In realtà ho proceduto così», talaltra «Avrei potuto procedere in questo modo», cioè talvolta ciò che diciamo assolve la funzione di una giustificazione, non di un resoconto di ciò che è stato fatto, ad esempio: Io "ricordo" la risposta a una domanda; richiesto del perché avessi dato quella risposta, ho descritto il processo che portava a essa, benché per questo processo io non fossi passato.16. «Perché l'hai fatto?». Risposta «Mi sono detto che...». In molti casi, il motivo è solo ciò che rispondiamo alla domanda.17. Quando chiedi «Perché l'hai fatto», in un numero enorme di casi la gente fornisce una risposta, apodittica, e non si lascia distogliere da essa, e in un numero enorme di casi noi accettiamo la risposta data. Ci sono altri casi in cui la gente dice di aver dimenticato il motivo. Altri casi ancora in cui si è immediatamente perplessi dopo aver fatto qualcosa e ci si chiede «Perché l'ho fatto?». Supponi che Taylor si trovi in questo stato e che io dica «Guarda, Taylor. Le molecole nel sofà attraggono le molecole nel tuo cervello, eccetera... e quindi...».18. Supponi che Taylor e io stiamo camminando lungo il fiume e che Taylor allunghi la mano e mi spinga nel fiume. Quando gli chiedo perché lo ha fatto, dice «Stavo indicandoti qualcosa», mentre lo psicoanalista dice che Taylor subconsciamente mi odiava. Supponi, per esempio, che capiti spesso che, mentre due persone camminano lungo il fiume:1) stiano parlando amichevolmente;2) uno stia evidentemente indicando qualcosa e spinga l'altro nel fiume;3) la persona spinta abbia una somiglianza con il padre dell'altro.Si hanno qui due spiegazioni:1) Odiava inconsciamente l'altro.2) Stava indicando qualcosa.19. Entrambe le spiegazioni potrebbero essere corrette. In qual caso dovremmo dire che la spiegazione di Taylor è corretta? Nel caso che non abbia mai mostrato alcun sentimento di ostilità, che il campanile di una chiesa e io ci si sia trovati nel suo campo visivo, e che si conosca Taylor come sincero. Ma, nelle stesse circostanze, la spiegazione dello psicoanalista può anch'essa essere corretta. Ci sono qui due motivi - conscio, l'uno, l'altro inconscio. I giochi giocati con i due motivi sono del tutto differenti. Le spiegazioni potrebbero, in un certo senso, essere contraddittorie eppure entrambe corrette. (Amore e odio).

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20. Questo si riallaccia a qualcosa che Freud fa. Freud fa qualcosa che mi sembra immensamente errato. Fornisce ciò che egli chiama un'interpretazione dei sogni. Nel suo libro "L'interpretazione dei sogni", Freud descrive un sogno che egli chiama un «bel sogno» [«Ein schöner Traum» - R] (7). Una paziente, dopo aver detto di aver avuto un bel sogno, descrive un sogno in cui essa discende da un'altura, vede fiori e arbusti, spezza via il ramo di un albero, eccetera. Freud mostra ciò che egli chiama il «significato» del sogno. La più volgare materia sessuale, il peggior tipo di oscenità - se volete dire così - oscena dall'A alla Z. Sappiamo cosa si intende per osceno. Un'osservazione sembra innocua al profano, ma l'iniziato, diciamo, quando la sente, fa un risolino. Freud dice che il sogno è osceno. Ma "è" osceno? Egli mostra relazioni tra le immagini oniriche e certi oggetti di natura sessuale. La relazione che Freud stabilisce è all'incirca questa: attraverso una catena di associazioni che si produce naturalmente in certe circostanze, questo conduce a quest'altro, eccetera. Questo prova forse che il sogno è ciò che si dice osceno? Ovviamente no. Se una persona dice cose sconce, non dice qualcosa che le sembra innocuo, e allora viene psicoanalizzata. Freud chiama «bello» questo sogno, scrivendo «bello» fra virgolette. Ma "non era" bello, il sogno? Io direi alla paziente «Queste associazioni rendono il sogno non bello? Era bello. Perché non dovrebbe esserlo?». Direi che Freud ha ingannato la paziente. Conf. profumi fatti di cose dall'odore insopportabile. Potremmo dire allora «Il 'miglior' profumo è in realtà solo acido solforico»? Perché mai Freud ha dato questa spiegazione? Si potrebbero dire due cose:1) Vuole spiegare ogni cosa bella in modo indecente, il che vuol quasi dire che gli piace molto l'osceno. Ovviamente, non è così.2) Le connessioni che stabilisce interessano moltissimo la gente. Hanno un fascino. E' affascinante, distruggere pregiudizi.21. Conf. «Se bolliamo Redpath a 200 gradi, una volta il vapor acqueo sparito rimane solo un po' di cenere, eccetera questo è tutto ciò che Redpath è in realtà». Dir questo, potrebbe avere un certo fascino, ma indurrebbe, a dir poco, in errore.22. L'attrattiva di certi tipi di spiegazione è irresistibile. In un dato momento, l'attrattiva di un certo genere di spiegazione è più forte di quanto puoi immaginare. In particolare, la spiegazione del tipo «Questo, in realtà, è solo questo».23. Vi è una forte tendenza a dire «Non possiamo eludere il fatto che questo sogno, in realtà, è così e così». Forse per il fatto che la spiegazione è estremamente repellente siamo spinti ad adottarla.24. Se qualcuno dice «Perché dici che ciò in realtà è questo? Evidentemente, non è affatto questo», è davvero persino difficile vederlo come qualcosa d'altro.25. Si ha qui un fenomeno psicologico estremamente interessante: questa brutta spiegazione vi fa dire d'aver avuto realmente tali pensieri, mentre, in ogni senso, che sia ordinario, non li avete realmente avuti.1) C'è il processo [«freier Einfall» (= libera associazione) - R] che connette certe parti del sogno con certi oggetti.2) C'è il processo «Allora è questo che intendevo». Abbiamo qui un labirinto dove ci si perde.26. Supponiamo che tu sia stato analizzato perché balbuziente. 1) Potresti dire che è corretta quella spiegazione [analisi - R] che cura la balbuzie. 2) Se la balbuzie non guarisce, il criterio potrebbe essere che la persona analizzata dica «Questa spiegazione è corretta», oppure convenga che la spiegazione datagli è corretta. 3) Un altro criterio è che, secondo certe regole dell'esperienza, la spiegazione fornita è quella corretta, sia o non sia adottata dalla persona che la riceve. Molte di queste spiegazioni sono adottate perché hanno un fascino particolare. Immaginare che la gente abbia pensieri inconsci ha un fascino. L'idea di un mondo sotterraneo, di una cantina segreta. Qualcosa di nascosto, inquietante. Conf. i due bambini di Keller che mettono una mosca viva nella testa di una bambola, seppelliscono la bambola e poi scappano via (8). (Perché facciamo questo tipo di cose? Questo è il tipo di cose che davvero facciamo). Si è pronti a credere molte cose perché sono inquietanti.27. Una delle cose più importanti, in una spiegazione [in fisica - R, T], è che dovrebbe funzionare, dovrebbe permetterci di prevedere qualche cosa [con successo - T]. La fisica è connessa con l'ingegneria. Il ponte non deve crollare.28. Freud dice «Nella mente vi sono molte istanze (conf. Legge)». Molte di queste spiegazioni (cioè della psicoanalisi), non derivano dall'esperienza, come invece succede in fisica. E' importante l'"atteggiamento" che esprimono. Ci danno un'immagine che ha per noi un'attrattiva particolare.29. Freud ha ragioni molto intelligenti per dire ciò che dice, grande immaginazione e un pregiudizio colossale, un pregiudizio che può probabilmente indurre la gente in errore.30. Supponiamo che uno come Freud accentui enormemente l'importanza dei motivi sessuali:1) I motivi sessuali hanno un'immensa importanza.2) Spesso si ha una buona ragione per nascondere un motivo sessuale in quanto motivo.31. Non è dunque questa una buona ragione per "ammettere" il sesso come un motivo di tutto, per dire «Questo è davvero alla base di tutto»? Non è chiaro che un modo particolare di spiegare può condurvi ad accettare un'altra cosa? Supponiamo che io mostri a Redpath cinquanta casi in cui egli accetta un certo motivo, venti casi in cui

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questo motivo è un elemento importante. Potrei farglielo accettare come un motivo in tutti.32. Conf. lo scompiglio creato da Darwin. Una cerchia di ammiratori che dice «Certo», e un'altra cerchia [di nemici - R] che dice «Certamente, no». Perché mai un uomo dovrebbe dire «Certo»? (Si trattava dell'idea di organismi monocellulari che si fanno sempre più complicati, finché diventano mammiferi, uomini, eccetera). Qualcuno ha visto svolgersi questo processo? No. L'ha visto qualcuno accadere adesso? No. La prova dell'ereditarietà è solo una goccia nel vaso. C'erano, però, migliaia di libri in cui si diceva che questa era "la" soluzione ovvia. La gente era "sicura" su basi estremamente scarse. Non avrebbe forse potuto esserci un atteggiamento espresso nella frase «Io non so. E' una ipotesi interessante che potrebbe forse ricevere una sicura conferma»? Questo mostra come si possa essere persuasi di una certa cosa. Alla fine, si dimentica del tutto ogni problema di verifica, si è solo sicuri che doveva esser stato così.33. Se la psicoanalisi ti ha indotto a dire che in realtà hai pensato in un certo modo o che realmente era quello il tuo motivo, non si tratta di una scoperta, ma di una persuasione. Per una via diversa, avresti potuto essere persuaso di qualcosa di diverso. Certo, se la psicoanalisi guarisce la tua balbuzie, la guarisce, e questo è un successo. Si pensa a certi risultati della psicoanalisi come a una scoperta compiuta da Freud, come indipendenti da qualcosa di cui vi ha persuaso uno psicoanalista, e vorrei dire che non è così.34. Hanno la forma della persuasione, in particolare, le frasi come «Questo, "in realtà", è questo». [Il che significa - R] che ci sono certe differenze che sei stato persuaso a trascurare. Mi ricorda quel detto meraviglioso: «Ogni cosa è ciò che è, e non un'altra cosa» (9). Il sogno non è osceno, è qualche cosa d'altro.35. Molto spesso io attiro la vostra attenzione su certe differenze, per esempio, in certe lezioni ho cercato di mostrarvi che l'Infinito non è così misterioso come appare. Anch'io faccio della persuasione. Se uno dice «Non c'è differenza», e io dico «Una differenza c'è», io sto persuadendo, sto dicendo «Non voglio che tu consideri la cosa in questo modo». Supponiamo che io voglia mostrarvi come siano fuorvianti le espressioni di Cantor. Voi chiedete «Cosa vuoi dire, che sono fuorvianti? Dove ti conducono?».36. Jeans ha scritto un libro intitolato "The Mysterious Universe" che io detesto e definisco «fuorviante». Prendiamo il titolo. Basterebbe questo, per definirlo così. Conf. Colui che cerca di afferrare il pollice è tratto in inganno o no? Jeans si ingannava quando ha detto che era misterioso? Potrei dire che il titolo "The Mysterious Universe" contiene una sorta di idolatria, assumendo per idolo la Scienza e lo Scienziato.37. In un certo senso, sto facendo propaganda per un certo stile di pensiero contrapposto a un altro. Sono sinceramente disgustato dell'altro. Cerco inoltre di esprimere quel che penso. Dico, tuttavia «Per amor di Dio, non farlo». Ad esempio: ho ridotto in pezzi la prova di Ursell, ma, dopo che lo ebbi fatto, Ursell disse che la prova aveva per lui un certo fascino. Qui avrei solo potuto dire «Non per me, io la detesto». Conf. l'espressione «Il numero cardinale di tutti i numeri cardinali».38. Conf. Cantor scrisse come fosse meraviglioso che il matematico potesse, nella sua immaginazione [mente - T], trascendere ogni limite.39. Farei l'impossibile per mostrare che è proprio questo fascino che muove uno a farlo. Trattandosi di matematica o di fisica la cosa sembra incontrovertibile, e ciò le da un fascino ancora maggiore Se spieghiamo il contesto dell'espressione, vediamo che la cosa avrebbe potuto essere espressa in modo totalmente diverso. Posso esprimerla in un modo in cui perde il suo fascino per parecchia gente e certamente per me.40. Quanto di quel che facciamo è cambiarcelo stile del pensiero e quanto di quel che io faccio è cambiare lo stile del pensiero, e quanto di quel che io faccio è persuadere gli altri a cambiare il loro stile di pensiero.41. (Molto di ciò che facciamo è una questione di cambiare lo stile di pensiero).

4.(Da appunti di Rhees).

1. Problemi estetici - problemi sugli effetti delle arti su di noi.Paradigma delle scienze è la meccanica. Se la gente immagina una psicologia, loro ideale è una meccanica dell'anima. Se si guarda a ciò che realmente vi corrisponde, troviamo che vi sono esperimenti fisici ed esperimenti psicologici. Vi sono leggi della fisica e vi sono leggi - se si vuol essere gentili - della psicologia. Ma in fisica ci sono quasi troppe leggi; in psicologia non ce n'è quasi nessuna. Così, parlare di una meccanica dell'anima è abbastanza buffo.2. Possiamo però sognare di prevedere le reazioni degli esseri umani, per esempio, di fronte alle opere d'arte. Se immaginiamo realizzato il sogno, non abbiamo risolto per questo i quesiti che sentiamo di carattere estetico, benché potremmo essere capaci di prevedere che un certo verso di una poesia agirà, su una certa persona, in un certo modo. Per risolvere i quesiti estetici, in realtà abbiamo bisogno di certi confronti - di raggruppare certi casi.Vi è una tendenza a parlare dell'«effetto di una opera d'arte» - sensazioni, immagini, eccetera. Viene allora naturale

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di domandare «Perché ascolti questo minuetto?», e c'è una tendenza a rispondere «Per ottenere questo particolare effetto». E il minuetto in se stesso, non ha importanza? - il fatto di ascoltare "questo" minuetto: un altro sarebbe andato altrettanto bene?Puoi suonare una volta un minuetto e ricavarne molto, e suonare lo stesso minuetto un'altra volta e non ricavarne nulla. Ma non ne deriva che ciò che ne ricavi è quindi indipendente dal minuetto. Conf. l'errore di pensare che il significato o il pensiero siano solo un accompagnamento della parola, e che la parola non abbia importanza. «Il senso di una proposizione» è molto simile alla questione di «una valutazione dell'arte». L'idea che una frase sia in una relazione con un oggetto, tale che, qualunque cosa abbia questo effetto, sia il "senso" della frase. «Cosa succede con una frase in francese? - C'è lo stesso accompagnamento, cioè il "pensiero"».Uno può cantare una canzone con espressione e senza espressione. Allora, perché non fare a meno della canzone - potrebbe esserci lo stesso l'espressione?Se un francese dice «Piove» in francese e un inglese dice la stessa cosa in inglese, non è che accada qualcosa in entrambe le menti che è il senso reale di «piove». Immaginiamo qualcosa come l'attività di "pensare per immagini", che è il linguaggio internazionale. Mentre, di fatto:1) Il pensiero (o il linguaggio per immagini) non è un accompagnamento delle parole, così come esse sono pronunciate o ascoltate;2) Il senso - il pensiero «Piove» - non è neppure le parole "con" l'accompagnamento di qualche sorta di immagine mentale."E'" il pensiero «Piove» solo all'interno della lingua inglese.3. Se chiedi «Qual è l'effetto peculiare di queste parole?», in un certo senso commetti un errore. Che cosa accadrebbe, se non avessero alcun effetto? Non sono parole peculiari?«Allora perché ammiriamo questo e non quello?». «Non lo so».Supponiamo che ti dia una pillola1) che ti fa disegnare un'immagine - magari «La creazione di Adamo»;2) che ti dà sensazioni allo stomaco.Quale effetto considereresti più "peculiare"? Certamente quello di aver disegnato proprio quella immagine. Le sensazioni sono abbastanza semplici.«Guarda una faccia - importante è la sua espressione - non il suo colore, le misure, eccetera».«Bene, dacci l'espressione senza la faccia».L'espressione non è un "effetto" della faccia - su di me, o su qualsiasi altro. Non potresti dire che se qualcosa d'altro avesse questo effetto, dovrebbe avere l'espressione di questa faccia.Voglio renderti triste. Ti mostro un'immagine, e tu sei triste. Questo è l'effetto di questa faccia.4. L'importanza della nostra memoria per l'espressione di una faccia. Potresti mostrarmi dei bastoni in tempi diversi - uno più corto dell'altro. Potrei non ricordarmi che l'altra volta uno era più lungo. Ma li confronto, e questo mi fa vedere che non sono uguali.Potrei disegnarvi una faccia. Poi, un'altra volta, disegno un'altra faccia. Voi dite «Non è la stessa faccia» - ma non potete dire se gli occhi sono più vicini o la bocca più lunga [gli occhi più grandi o il naso più lungo - S], o qualcosa di simile. «Sembra diversa, in qualche modo».Questo è di estrema importanza per tutta la filosofia.5. Se disegno una curva senza senso [ghirigoro - S]

[disegno qui omesso]

e poi ne disegno un'altra, qualche tempo dopo, abbastanza simile, non sapreste riconoscere la differenza. Ma se disegno questa cosa particolare che chiamo una faccia, e poi ne disegno un'altra un po' diversa, riconoscerete subito che c'è una differenza.Riconoscere un'espressione. Architettura: disegna una porta - «Un po' troppo larga». Tu potresti dire «Ha un occhio eccellente per le misure». No - vede che non ha l'espressione giusta - che non fa il gesto giusto.Se mi avessi mostrato un bastone di diversa lunghezza, non l'avrei saputo. Inoltre, in questo caso non faccio gesti strani o rumori; mentre li faccio quando vedo una porta o una faccia.Dico, per esempio, di un sorriso «Non era proprio spontaneo».«Accidenti, tra le due labbra c'era solo 1/1000 di decimetro di troppo. Può avere importanza?».«Sì»."( Allora è in ragione di certe conseguenze».Ma non solo: la reazione è diversa.Noi possiamo fornire la storia della cosa: reagiamo così perché è una faccia umana. Ma, a parte la storia, la nostra reazione a queste linee è totalmente diversa dalla nostra reazione a qualsiasi altra linea. Due facce potrebbero avere

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la stessa espressione. Sono, per esempio, entrambe tristi. Ma se dico «Ha esattamente "questa" espressione...»... (10)6. Disegno pochi tratti con la matita su un foglio di carta, e poi chiedo «Chi è?», e ottengo la risposta «E' Napoleone». Nessuno mai ci ha insegnato a chiamare «Napoleone» questi segni.Il fenomeno è simile a quello di pesare con una bilancia.Posso facilmente distinguere tra pochi tratti, da una parte, e il ritratto di un uomo disegnato bene, dall'altra. Nessuno direbbe «Questo è lo stesso di quello», in un unico senso, ma, d'altra parte, diciamo «Questo è Napoleone». Secondo un peculiare [particolare?] sistema di comparazione, possiamo dire «Questo è lo stesso di quello». Secondo un sistema di comparazione il pubblico distingue facilmente la faccia dell'attore da quella di Lloyd George.Tutti hanno imparato l'uso di =. E improvvisamente l'usano in modo peculiare. Dicono «Questo è Lloyd George», benché, in un altro senso, non vi sia somiglianza. Un'eguaglianza che potremmo chiamare l'«eguaglianza d'espressione». Abbiamo imparato l'uso di «lo stesso». Di colpo, usiamo automaticamente «lo stesso» quando non vi è similarità di lunghezza, peso, o nulla del genere.La descrizione più esatta delle mie sensazioni in questo caso sarebbe di dire «Oh, questo è Lloyd George!».Supponiamo che la descrizione più esatta di una sensazione sia «mal-di-stomaco». Ma perché non è la più importante descrizione di una sensazione il dire "( Oh, questo è lo stesso di quello!»?7. Questo è il problema fondamentale del behaviorismo. Non che neghino che ci siano sensazioni, ma dicono che la nostra descrizione del comportamento "è" la nostra descrizione delle sensazioni.«Che cosa ha sentito quando ha detto 'Duncan giace nella sua tomba'?». Posso descrivere le sue sensazioni meglio che descrivendo il modo, in cui lo ha detto? Tutte le altre descrizioni sono rozze in confronto di una descrizione del gesto fatto da lui, del tono di voce con cui lo ha compiuto.Cos'è, in realtà, una descrizione di sensazioni? Cos'è una descrizione di dolore?Discussione di un attore che fa imitazioni, recita scenette. Supponiamo che si voglia descrivere la esperienza degli spettatori - perché non descrivere prima di tutto ciò che essi hanno visto? Poi, forse, che sono scoppiati a ridere, e poi, cosa hanno detto.«Questa non può essere una descrizione delle loro sensazioni». Uno dice questo perché pensa alle loro sensazioni organiche - tensione dei muscoli del torace, eccetera. Ovviamente, questa sarebbe un'esperienza. Ma non sembra avere neppure la metà dell'importanza che riveste il fatto di aver detto certe cose. Si pensa alla descrizione di un'esperienza non come alla descrizione di un'azione, ma come alla descrizione di un dolore o di sensazioni organiche.Conf. cosa abbiamo detto sul modo in cui nascono le mode: se egli sente in un certo modo quando taglia più larghi i risvolti di una giacca. Ma che li "taglia" in questo modo, eccetera, questa è la parte più importante dell'esperienza.8. «L'impressione più importante prodotta da un quadro è un'impressione visiva o no?».[(1] «No, perché puoi operare mutamenti nell'aspetto visivo del quadro senza, tuttavia, che ciò cambi l'impressione». Questo sarebbe come voler dire che non era un'impressione degli occhi: un effetto, ma non un effetto puramente visivo.[(2] «Ma "è" un'impressione visiva». Solo queste sono le caratteristiche importanti dell'impressione visiva e non le altre.Supponi [che qualcuno dica] «Quel che conta sono le associazioni - fai qualche cambiamento e non hai più le stesse associazioni».Ma puoi separare le associazioni dal quadro, e avere la stessa cosa? Tu non puoi dire «E' altrettanto bello dell'altro: mi dà le stesse associazioni».9. "Potresti" scegliere una o l'altra di due poesie per ricordarti, diciamo, della morte. Ma, supponiamo che tu abbia letto una poesia e ti sia piaciuta, potresti dire «Oh, leggi l'altra. Fa lo stesso»?Come usiamo la poesia? Ha questa funzione, che si dica qualcosa come «Ecco qualcosa di altrettanto bello...»?Immaginiamo una civiltà totalmente diversa dove c'è qualcosa che potresti chiamare musica, perché è fatta di note. Trattano la musica così: certa musica li fa camminare così. Per far così, suonano un disco. Uno dice «Ho bisogno di questo disco, ora. Oh, no, prendi l'altro, va bene lo stesso».Se amo un minuetto, non posso dire «Prendine un altro. Fa lo stesso». Cosa vuoi dire? Non "è" lo stesso.Se uno dice sciocchezze, immagina un caso in cui non siano sciocchezze. Il momento in cui lo immagini, vedi subito che non è così nel caso nostro. "Non" leggiamo poesia per avere associazioni. Non lo facciamo, ma potremmo farlo, io. Due scuole:1) «La cosa importante sono le macchie di colore [e linee - S]».2) «La cosa importante è l'espressione di queste facce».In un certo senso, non si contraddicono. Solo che 1) non chiarisce che le diverse macchie hanno diversa "importanza", e che diverse "alterazioni" hanno effetti totalmente diversi: per alcune, la differenza è massima.

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«Un quadro dev'essere bello anche se lo guardi capovolto». Allora, il sorriso potrebbe non essere percettibile.[Supponi di aver detto] «Quel sorriso sottile per cui trasformi il sorriso gentile in uno ironico, non è una differenza puramente visiva» (Conf. un quadro di un monaco che guarda una visione della Vergine Maria). [Supponi di aver detto] «Ciò muta tutto il tuo atteggiamento nei confronti del quadro». Questo può essere assolutamente vero. Come lo si potrebbe esprimere? Forse col sorriso che hai fatto. Uno dei quadri potrebbe essere blasfemo; di fronte all'altro, è come essere in una chiesa. Il tuo atteggiamento potrebbe essere, in un caso, di stargli fisso davanti quasi in preghiera, nell'altro, quasi di sogghignare. Questa è una differenza di atteggiamento.«Bene, eccoci al punto: è tutta questione di atteggiamento». Ma potresti tenere questi atteggiamenti senza un quadro. Sono importanti, certo.11. «Hai dato una descrizione grossolana dell'atteggiamento: ciò che devi descrivere è qualcosa di più sottile». Ma se descriviamo l'atteggiamento più esattamente, come sai che è la cosa essenziale per "questo" quadro - che tutto ciò deve esserci sempre?Non immaginare una descrizione che non hai mai udito, che descrive un atteggiamento con una quantità inaudita di particolari. Infatti, non sai nulla di un tale atteggiamento. Non abbiamo idea di un tale atteggiamento.Un atteggiamento è descritto abbastanza bene dalla posizione del corpo. Questa è una buona descrizione. Ma è accurata? In un certo senso, non è accurata. «Ma se conoscessi tutte le sensazioni muscolari, indicheresti solo quelle che hanno importanza».Io non le conosco e non so cosa potrebbe essere una descrizione del genere. Non è questo che intendiamo con descrizione. Non immaginare un genere immaginario di descrizione di cui in realtà non hai alcuna idea.Se dici «descrizione di atteggiamento», dicci che cosa chiami descrizione di atteggiamento, allora vedrai che l'atteggiamento è importante. Alcuni cambiamenti cambiano l'atteggiamento - diciamo: «E' tutta un'altra cosa».12. Anche le associazioni hanno [enorme] importanza. Sono rivelate soprattutto dalle cose che diciamo. Chiamiamo, questo, «Dio Padre», l'altro «Adamo»; potremmo continuare «Questo accade nella Bibbia, eccetera.». E' questo tutto quello che conta? Potremmo avere tutte queste associazioni con un quadro diverso e tuttavia voler ancora vedere "questo" quadro è l'impressione visiva». Sì, è l'immagine che sembra contare di più. Le associazioni possono variare, gli atteggiamenti possono variare, ma basta che cambi appena qualcosa nel quadro, e non vuoi più guardarlo.La brama di semplicità. [Alcuni amerebbero dire] «Ciò che conta realmente sono solo i colori». Dici questo soprattutto perché vorresti che fosse così. Se la tua spiegazione è complicata, è spiacevole, specialmente se non provi per la cosa stessa una sensazione molto forte.

NOTE.

N. 1. Vi è qui un gioco di parole intraducibile in italiano tra "spring", primavera, e "springy", agile, elastico [N.d.T.].N. 2. Friedrich Gottlieb Klopstock (1724-1803). Wittgenstein si riferisce alle "Odi" ("Gesammelte Werke", Stuttgart, 1886-87). Klopstock riteneva che la dizione poetica fosse distinta dal linguaggio comune. Egli respinse, come volgare, la rima, e introdusse in sua vece i metri dell'antica letteratura. - Ed. ingl.N. 3. "Discours sur le style": discorso pronunciato in occasione del suo ingresso nell'Académie Française, 1753. - Ed. ingl.N. 4. Frank Dobson (1888-1963) pittore e scultore, il primo a diffondere in Inghilterra l'interesse per la scultura africana e asiatica che caratterizzò l'opera di Picasso e degli altri cubisti negli anni attorno alla prima Guerra mondiale. - Ed. ingl.N. 5. «Deterioramento» acquista il suo significato dagli esempi che posso fornire. «Questo è un deterioramento» può essere un'espressione di disapprovazione oppure una descrizione.N. 6. "Der Witz und seine Bezirhung zum Unbewussten". Leipzig und Wien, 1905 («Il motto di spirito e il suo rapporto con l'inconscio») [N.d.T.].N. 7. «Ein schöner Traum» [«Un bel sogno»] di Freud ("Traumdeutung", Wien, 1900), non ha le caratteristiche qui descritte. Wittgenstein commette un errore: il sogno da lui riferito è indicato da Freud come «sogno dei fiori», anche se viene definito «bello» e se commenta «Der schöne Traum wollte der Träumerin nach der Deutung gar nicht mehr gefallen» [«La sognatrice non riuscì più ad apprezzare il bel sogno dopo la interpretazione»]. Ed. ingl.N. 8. Gottfried Keller (1819-90). Conf. "Romeo e Giulietta del villaggio", trad. it. in «Tutte le novelle» di G. Keller, Adelphi, Milano, 1963, tomo 1, p.p. 60-1 [N.d.T.]N. 9. L'espressione è di Joseph Butler (1692-1752), vescovo di Durham, nell'opera "Analogy of Religion, Natural and Revealed, to the Constitution and Course of Nature" (1736) [N.d.T.].N. 10. Il ghirigoro potrebbe avere lo stesso effetto dell'immagine di una faccia? 1) Dei fratelli avevano la stessa

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espressione triste. 2) Aveva questa espressione, fotografia e gesto. - S.In una lezione sulla descrizione, Wittgenstein sollevò un altro problema sulla somiglianza, che merita di essere riportato e inserito a questo punto. - Ed. ingl. «Considera il caso in cui tu noti una caratteristica peculiare nelle poesie di un certo poeta. Puoi talvolta trovare somiglianze nello stile di un poeta e di un musicista che vivevano nello stesso periodo, o di un pittore. Brahms e Keller, per esempio. Ho spesso notato come certi temi di Brahms fossero estremamente kelleriani. Era davvero sorprendente. Per prima cosa l'ho detto a qualcuno. Tu potresti dire «Che interesse avrebbe una simile espressione verbale?». L'interesse sta in parte nel fatto che vivevano nello stesso tempo.Se avessi detto che era shakespeariano o miltoniano, avrebbe potuto non avere interesse alcuno, o presentare un interesse del tutto diverso. Se avessi insistito nel dire «Questo è shakespeariano», di un certo tema, ciò avrebbe avuto un interesse relativo o nullo. Non avrebbe avuto alcuna connessione con qualcosa d'altro. «Questa parola ('shakespeariano') mi si impone». Ho forse in mente una certa scena? Se dico che questo tema di Brahms è estremamente kelleriano, l'interesse di ciò risiede in primo luogo nel fatto che i due vivessero nello stesso tempo, e quindi nel fatto che si possa dire lo stesso tipo di cose per entrambi - la cultura del tempo in cui vivevano. Se dico questo, la cosa presenta un interesse obiettivo. L'interesse potrebbe consistere nel fatto che le mie parole propongono una connessione nascosta.Per esempio: si ha qui in realtà un caso diverso da quello delle facce, dove, di solito, puoi trovare questo qualcosa che ti fa dire «Ecco ciò che li ha resi così simili». Mentre non potrei dire, ora, cosa abbia reso simile Brahms a Keller. Trovo tuttavia interessante quella mia espressione verbale, e l'interesse maggiore deriva dal fatto che essi abbiano vissuto [nello stesso periodo]. «Questo non è stato scritto prima di Wagner». L'interesse di questa affermazione potrebbe risiedere nel fatto che in generale affermazioni del genere sono vere, quando le faccio. Si può in realtà giudicare quando sia stata scritta una poesia, sentendola, dallo stile. Puoi immaginare come ciò sarebbe impossibile se, nel 1850, si fosse scritto come nel 1750, ma puoi lo stesso immaginare che alcuni dicano «Sono sicuro che questo è stato scritto nel 1850». Conf. [Un uomo in treno per Liverpool che dice] «Sono sicuro che Exeter è in questa direzione». - S.

°

DA UNA LEZIONE TENUTA DURANTE UN CORSO SULLA DESCRIZIONE.

Uno dei punti più interessanti cui è connessa la questione dell'incapacità a descrivere [è che] l'impressione prodotta in voi da un certo verso o da una certa battuta musicale è indescrivibile. «Io non so cosa sia... Osserva questo passaggio... Che cos'è?...». Penso vorreste dire che vi da esperienze che non possono essere descritte. Prima di tutto, non è certo vero che, ogni volta che sentiamo un brano di musica o un verso di una poesia che ci impressiona molto, diciamo: «Questo è indescrivibile». E' vero, però, che ci sentiamo più volte portati a dire «Non posso descrivere la mia esperienza». Ho in mente un caso in cui dire di essere incapace di descrivere deriva da uno stato di perplessità e di "voglia" di descrivere, uno stato in cui ci si chiede «Che cos'è? Che cosa sta facendo quell'uomo, che cosa vuoi fare, qui? - Dio, se solo potessi dire che cosa sta facendo ora».Moltissimi hanno questa sensazione «Posso fare un gesto, ma questo è tutto». Un esempio è dato dal dire, di una certa frase musicale, che trae una conclusione «Benché non potrei dire, per tutto l'oro del mondo, perché sia un «quindi»! In questo caso si dice che è indescrivibile, ma ciò non significa che tu non possa dire, un giorno, che qualcosa è una "descrizione". Un giorno potresti trovare la "parola", oppure un verso che vada bene. «E' come se egli dicesse: '...'», e qui, un verso. E ora forse dici «Ora lo capisco».Se dici «Non possediamo la tecnica» (I. A. Richards), come siamo autorizzati a definire una descrizione simile, in un caso come questo? Potresti dire qualche cosa come «Ebbene, se ascoltate questo brano musicale, avete certe impressioni sensoriali, certe immagini, certe sensazioni organiche, emozioni, eccetera.», volendo dire che «non sappiamo ancora come analizzare questa impressione».L'errore, mi sembra, sta nell'idea di descrizione. Ho detto prima che per alcuni, e in particolare per me, l'espressione di un'emozione, diciamo in musica, è un certo gesto. Se compio un certo gesto... «E' del tutto ovvio che tu abbia certe sensazioni cinestetiche. Questa cosa significa, per te, certe sensazioni cinestetiche». Quali? Come puoi descriverle? In nessun altro modo, forse, che con i gesti?Supponi di aver detto «Questa frase musicale mi fa sempre fare un particolare gesto». Un pittore potrebbe disegnarlo. Un tale, invece di fare un gesto, ne disegnerebbe uno. Per lui, disegnare questo gesto, oppure una faccia che corrisponde a esso, sarebbe un'espressione, così come per me lo è fare il gesto. «Wittgenstein, parli come se questa frase ti desse sensazioni che non potresti descrivere. Hai solo sensazioni muscolari». Questo è del tutto scorretto. Osserviamo i muscoli in un libro d'anatomia, premiamo certe parti e diamo dei nomi a queste sensazioni,

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«A», «B», «C», eccetera. Per un brano musicale, sarebbe sufficiente la descrizione «A», eccetera, che fornisce le sensazioni di ciascun muscolo. Sembra quasi, ora, che potresti fare qualche cosa di simile. In generale, si può descrivere ciò che si vede. Nomi di colori, eccetera. Si presume di poter almeno descrivere un'immagine. Si procede oltre e si dice che si può descrivere non solo un'immagine visiva, ma un'immagine di sensazioni cinestetiche.Per inciso, in che senso ciò non è vero per un dipinto? Supponiamo di aver detto di non poter descrivere con le parole l'espressione di Dio nella «Creazione di Adamo» di Michelangelo. «Ma èsolo una questione di tecnica, perché se disegniamo un reticolo, numerato, sulla sua faccia, mi limiterei a scrivere numeri e tu potresti dire «Mio Dio! E' magnifico». Non sarebbe affatto una descrizione. Non diresti niente di simile. Sarebbe una descrizione solo se potessi dipingere (agire?) in modo corrispondente a questo dipinto, il che, naturalmente, è concepibile. Ma questo mostrerebbe che non puoi affatto trasmettere l'impressione con parole, dovresti invece dipingere anche tu.Potresti pensare: è strano che talvolta si imiti qualcuno? Mi ricordo di essermi detto, camminando per strada «Adesso cammino proprio come Russell». Potresti dire che era una sensazione cinestetica. Molto strano davvero.Uno che imita la faccia di un altro non lo fa davanti allo specchio, ma è un fatto che avvenga di poter dire «La faccia è così e così».Supponi che io faccia un gesto che ritengo caratteristico dell'impressione ricevuta e supponi che ne abbia date le coordinate, per volerlo chiarire a Lewy. Egli dovrebbe fare un gesto analogo, ma i suoi muscoli, le mani, eccetera, sono diversi. Quindi, in un certo senso, non può copiare, mentre in un altro senso, sì. Cosa dobbiamo considerare come copia? «Dipenderà dal come si contraggono quei tali muscoli». Ma come farai mai a saperlo? Se faccio un gesto, e voi siete buoni imitatori, i gesti saranno simili ma differenti: diversa è, infatti, la forma delle dita, eccetera. Il criterio per cui quel gesto sarà proprio quel gesto, starà nel suo «suonar giusto» dentro di voi. Voi dite «Ora prova con questo». Dire ciò che è simile è impossibile (a dire). Ognuno fa un gesto, improvvisamente, e dice «Questo è il gesto giusto».Se voglio trasmettere un'impressione a Lewy, potrei farlo in un solo modo: fargli copiare il mio gesto. Ma allora, cosa ne è della tecnica per descrivere le sensazioni cinestetiche? Non si tratta di coordinate, ma di qualcosa d'altro: l'imitazione della persona. «Wittgenstein, se fai un gesto, tu hai solo certe sensazioni cinestetiche». Non è affatto chiaro quale sia il caso in cui diciamo di averle trasmesse, ma potrebbe essere, per esempio, in quel caso che chiamiamo «imitazione».Se è così dipenderà da...C'è un fenomeno, il seguente: se mi dài un brano musicale e mi domandi in quale tempo dovrebbe essere suonato, io potrei essere assolutamente sicuro, oppure no. «Forse così... Non lo so». O invece «Così», dicendoti esattamente quale deve essere il tempo. Insisto sempre su un tempo, non necessariamente lo stesso. Nell'altro caso, sono incerto. Supponi che si trattasse di trasmetterti l'impressione da me ricevuta ascoltando un brano musicale, il che può dipendere dal fatto che alcuni di voi, se ve lo suono, «lo afferrino», «se ne impadroniscano». In che cosa consiste «afferrare», «impadronirsi» di una melodia o una poesia?Potreste leggere una quartina, io la faccio leggere a tutti voi, e ciascuno di voi la legge in modo un po' diverso. Ho la precisa impressione che «nessuno di loro se ne è impadronito». Supponiamo che io la legga a voce alta, dicendo «Ecco, come avrebbe dovuto esser letta». Quattro di voi, poi, leggono la quartina, nessuno esattamente come l'altro, ma in un modo tale da farmi dire «Ciascuno è proprio sicuro di sé». Abbiamo questo fenomeno, di essere sicuri di sé, di leggere in "un modo nuovo". Uno sa con assoluta esattezza quali pause fare. In questo caso, potrei dire che voi quattro vi siete impadroniti della poesia, che vi ho trasmesso qualche cosa, e sarei nel giusto se dicessi di avervi trasmesso esattamente proprio la stessa mia esperienza.Ma allora, la tecnica immaginativa, eccetera? Questa (convenzione/comunicazione/descrizione) non si basa sul copiarmi esattamente. Se avessi un cronometro per misurare esattamente gli intervalli fra le vocali, questi potrebbero risultare non eguali, anzi, del tutto diversi.Se qualcuno dicesse «Non abbiamo questa tecnica», presuppone che, se l'avessimo, avremmo una nuova espressione, un nuovo modo di trasmettere, e non il vecchio modo. Ma come fa a sapere che, se descriviamo nel nuovo modo - supponendo che io abbia un modo per descrivere sensazioni cinestetiche o per descrivere gesti - io ho lo stesso risultato che ho ottenuto trasmettendo un gesto? Supponiamo che io dica «Ho un po' di prurito, qui» [facendo scorrere il dito sulla mano]. Supponiamo che io abbia sei pruriti e abbia un metodo per produrre ciascuno di essi, e che abbia strumenti collegati ai miei nervi in modo tale da misurare la corrente elettrica che passa per essi. Leggete le misure sullo strumento. Ora rappresenterò questo nel signor Lewy. Ma sarebbe la rappresentazione voluta? Potrei leggere una quartina e voi potreste dire «Wittgenstein ovviamente se ne è impadronito, ha afferrato la mia interpretazione». Lewy la legge e voi dite lo stesso. La voce, però, la forza, eccetera sono diverse. «La mia interpretazione è quella che produce le stesse impressioni cinestetiche». Ma come lo sapete? Questa, semplicemente, non è affatto un'analisi. Abbiamo un modo per confrontare e se dici «E potremmo averne anche uno

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scientifico», potrei chiedere «Sì, ma cosa ti fa pensare che procederebbero sempre parallelamente?».

°

CONVERSAZIONI SU FREUD.

In queste discussioni Wittgenstein era critico nei riguardi di Freud, ma rilevava anche con chiarezza l'importanza di quel che Freud dice sulla nozione di «simbolismo onirico», per esempio, o dell'idea che, sognando si stia, in un certo senso, «dicendo qualche cosa». Wittgenstein cercava di separare ciò che in Freud ha valore da quel «modo di pensare» ch'egli voleva combattere.Mi disse che quando si trovava a Cambridge, prima del 1914, aveva ritenuto la psicologia una perdita di tempo. (Benché non l'avesse ignorata: l'ho sentito spiegare a uno studente la legge Weber-Fechner in un modo che non poteva derivare solo dalla lettura dell'articolo di Meinong o dalle discussioni con Russell). «Ma, qualche anno dopo, mi capitò di leggere qualcosa di Freud e fui vivamente sorpreso: ecco uno che aveva qualcosa da dire». Penso fosse subito dopo il 1919, e per tutto il resto della vita Freud rimase uno dei pochi autori che egli pensava valesse la pena di leggere. Avrebbe parlato di se stesso, nel periodo di queste discussioni, come di un «discepolo di Freud» e di un «seguace di Freud».Ammirava Freud per le osservazioni e le suggestioni contenute nei suoi scritti, per «avere qualcosa da dire» anche là dove, secondo Wittgenstein, aveva torto. D'altra parte, riteneva dannosa l'enorme influenza della psicoanalisi in Europa e in America «benché ci vorrà molto tempo prima di perdere la nostra subordinazione a essa». Per imparare da Freud si deve essere critici, e la psicoanalisi, di solito, lo impedisce.Parlavo del danno che essa provoca nella letteratura quando un autore cerca di immettere la psicoanalisi nel racconto. «Certo,» disse «Non c'è niente di peggio». Era disposto a illustrare cosa Freud volesse dire facendo riferimento a un racconto, ma in quel caso il racconto doveva essere stato scritto indipendentemente. Una volta, mentre Wittgenstein stava raccontando qualcosa detta da Freud e il consiglio da lui dato a qualcuno, uno di noi disse che il consiglio non sembrava molto saggio. «Oh, certamente no,» disse Wittgenstein «ma la saggezza è qualcosa che non mi aspetterei mai da Freud. Intelligenza, certo, ma non saggezza». La saggezza era ciò che ammirava nei suoi scrittori preferiti, in Gottfried Keller, per esempio. Il tipo di critica che sarebbe di aiuto nello studio di Freud dovrebbe penetrare in profondità: e non è comune.

Rush Rhees

WITTGENSTEIN (Appunti di R. R. dopo una conversazione dell'estate 1942).

Quando studiamo psicologia, possiamo provare una certa insoddisfazione, un certo imbarazzo nei riguardi dell'intera materia o dello studio, perché consideriamo nostra scienza ideale la fisica. Pensiamo di formulare leggi come in fisica. E poi troviamo di non poter usare lo stesso tipo «metrico», le stesse idee di misura che in fisica. Questo è particolarmente evidente quando cerchiamo di descrivere l'aspetto delle cose: le differenze di colore meno percettibili, le minime differenze di lunghezza, e così via. Ci sembra, qui, di non poter dire «Se A = B, e B = C, allora A = C», per esempio, e questo tipo di difficoltà permea tutta la materia.Supponiamo tu voglia parlare della causalità nel processo delle sensazioni. «Il determinismo si applica alla mente non diversamente che alle cose fisiche». Questo è oscuro, perché in fisica, quando pensiamo a leggi causali, abbiamo in mente "esperimenti", e non abbiamo niente di simile riguardo alle sensazioni e alle motivazioni. Gli psicologi, tuttavia, insistono nel dire «Ci "deve" essere una legge» - benché non si sia trovata legge alcuna. (Freud «Volete dire, signori miei, che i mutamenti nei fenomeni mentali sono retti dal "caso"?»). A me, invece, che non "ci siano" di fatto leggi del genere sembra importante.La teoria freudiana del sogno. Freud sostiene che qualsiasi cosa accada in un sogno risulterà connessa con un desiderio che l'analisi può portare alla luce. Ma questo procedimento di associazione libera, e così via, è strano, perché Freud non chiarisce mai come possiamo sapere dove fermarci, dove sia la soluzione giusta. Talvolta dice che la soluzione giusta, o l'analisi giusta, è quella che soddisfa il malato, talaltra, che il medico sa quale sia la soluzione giusta o l'analisi del sogno, mentre il malato non lo sa: il medico può dire che il malato ha torto.La ragione per cui egli definisce giusta una certa analisi non sembra doversi ricondurre alle prove di cui dispone, e altrettanto la sua asserzione che le allucinazioni, e così i sogni, sono appagamenti di desiderio.Supponiamo che un uomo che sta morendo di inedia abbia un'allucinazione di cibo. Freud sostiene che l'allucinazione di una qualsiasi cosa richiede un'energia tremenda: è un fatto che non potrebbe aver luogo in

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condizioni normali, ma la energia è fornita nelle circostanze eccezionali in cui il desiderio di cibo è irresistibile. Questa è una "speculazione", è il tipo di spiegazione che siamo inclini ad accettare. Non è proposta come risultato di un esame particolareggiato dei vari tipi di allucinazione.Nella sua analisi, Freud fornisce spiegazioni che molti sono disposti ad accettare, e mette in rilievo come si sia "mal"disposti ad accettarle. Ma, se è una spiegazione che si è maldisposti ad accettare, è molto probabile che sia anche una spiegazione che si è "disposti" ad accettare. Ed è proprio quello che Freud aveva mostrato chiaramente. Prendiamo l'idea di Freud che l'angoscia sia sempre, in un certo modo, una ripetizione dell'angoscia provata alla nascita. Freud non lo stabilisce riferendosi all'evidenza - perché non potrebbe farlo. Ma è un'idea che esercita una forte attrazione. Ha l'attrazione delle spiegazioni mitologiche, per cui tutto è una ripetizione di qualche cosa accaduta prima. E per coloro che l'accettano o l'adottano, molte cose sembrano più chiare e più facili. Lo stesso avviene per la nozione di inconscio. Freud pretende sì di trovare delle prove nei ricordi portati alla luce nell'analisi, ma, a un certo stadio, non è chiaro fino a che punto questi ricordi si debbano all'analista. In ogni caso, mostrano forse che l'angoscia era necessariamente una ripetizione dell'angoscia originale?L'uso di simboli nei sogni. L'idea di un linguaggio del sogno. Pensa a riconoscere un quadro come un sogno. Io (L. W.) stavo guardando, una volta, a Vienna, un'esposizione di quadri di una giovane artista. C'era un quadro di una stanza vuota, come una cantina. Due uomini, in cilindro, seduti su delle sedie. Nient'altro. E il titolo «Besuch» («Visita»). Quando lo vidi, dissi subito «Questo è un sogno». (Mia sorella descrisse il quadro a Freud, che disse «Oh, certo, è un sogno abbastanza comune» - connesso con la verginità). Nota che è il titolo a confermarlo come un sogno - anche se non voglio dire, con questo, che la pittrice, dormendo, abbia sognato qualcosa di simile. Non diresti di "ogni" quadro «Questo è un sogno», e ciò mostra davvero che c'è qualcosa di simile a un linguaggio del sogno.Freud menziona vari simboli: i cappelli a cilindro sono, di regola, simboli fallici, cose di legno, come tavole, sono donne, eccetera. La sua spiegazione storica di questi simboli è assurda. Potremmo dire che non è necessaria in alcun modo: è la cosa più naturale del mondo che una tavola possa essere quel tipo di simbolo.Ma il sognare - usando questo tipo di linguaggio - benché "possa" essere usato per far riferimento a una donna o a un fallo, può "anche" essere usato senza alcun riferimento a ciò. Se una certa attività ha spesso un certo scopo - battere uno per fargli male -, si può scommettere cento contro uno, però, che in altre circostanze, "non" ha quello scopo. Uno può voler picchiare un altro senza affatto pensare di fargli del male. Il fatto di essere inclini a riconoscere il cappello come un simbolo fallico non significa che l'artista si riferisse necessariamente a un fallo in ogni caso quando lo dipingeva.Considera la difficoltà presentata dal fatto che, se un simbolo in un sogno non è capito, non sembra essere affatto un simbolo. E allora, perché chiamarlo tale? Supponi, però, che io abbia avuto un sogno e ne accetti una certa interpretazione. "Poi" - quando sovrappongo al sogno l'interpretazione - posso dire: «Oh, sì, la tavola corrisponde evidentemente alla donna, questo a quello, eccetera».Potrei fare dei segni sul muro. Sembra, quasi, una scrittura, ma non è una scrittura che io o qualcun altro potrebbe riconoscere o comprendere. Diciamo, dunque, che sto giocando. Poi, un analista comincia a pormi domande, a scoprire associazioni, e così via, e giungiamo a una spiegazione del perché lo faccio. Potremmo poi correlare vari segni fatti da me con vari elementi nell'interpretazione, e far poi riferimento al gioco come a un genere di scrittura, come all'uso di un particolare linguaggio, anche se non capito da nessuno.Freud pretende sempre di essere scientifico, ma in realtà, offre una "congettura", qualcosa che precede perfino la formazione di un'ipotesi.Egli parla di superare la resistenza. Un'«istanza» è tratta in inganno da un'altra «istanza». (Nel senso giuridico del termine, per cui parliamo di «una istanza superiore» che ha la facoltà di annullare il giudizio espresso da un'istanza inferiore R. R). Si presume che l'analista sia più forte, sia capace di combattere e di superare l'inganno dell'istanza. Non c'è modo, però, di mostrare che il risultato generale dell'analisi non potrebbe essere «inganno». E' qualcosa che la gente è portata ad accettare e che rende loro più agevole seguire certe strade: certi modi di comportarsi e di pensare diventano per loro naturali. Essi hanno abbandonato un certo modo di pensare e ne hanno adottato un altro.Possiamo forse dire di aver messo a nudo la natura essenziale della mente? La «formazione concettuale». L'intera questione non avrebbe potuto essere trattata diversamente?

WITTGENSTEIN (appunti di Rush Rhees da conversazioni del 1943).

SOGNI. L'interpretazione dei sogni. Simbolismo.Quando Freud parla di certe immagini - per esempio l'immagine di un cappello - come simboli, o quando dice che l'immagine «significa» una certa cosa, sta parlando di interpretazione, e di ciò che chi sogna può esser portato ad accettare come un'interpretazione.

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E' caratteristico dei sogni che essi spesso sembrano al sognatore richiedere un'interpretazione. Quasi mai si è portati ad annotare un sogno a occhi aperti, o a raccontarlo a qualcuno o a domandare «Cosa significa?». I sogni, invece, sembrano avere in sé qualcosa di enigmatico e di un interesse tutto particolare - così che vogliamo averne un'interpretazione. (Furono spesso considerati come messaggi).Sembra esserci qualcosa nelle immagini oniriche che presenta una certa somiglianza con i segni di un linguaggio, quale potrebbe avere una serie di tratti sulla carta o sulla sabbia. Potrebbe non esserci un solo tratto riconosciuto come un segno convenzionale in un qualsiasi alfabeto a noi noto, e tuttavia potremmo avere la forte sensazione che essi debbono essere un linguaggio di un qualche tipo: che essi significano qualcosa. A Mosca c'è una cattedrale con cinque cuspidi che hanno, ognuna, una diversa struttura curvilinea. Si ha la forte impressione che queste forme e disposizioni diverse debbano avere un significato.Quando un sogno è interpretato potremmo dire che è inserito in un contesto in cui cessa di essere enigmatico. In un certo senso, il sognatore risogna il proprio sogno in un contorno tale che il suo aspetto muta. E' come se ci venisse mostrato un pezzo di tela su cui fossero dipinte una mano, parte di una faccia e certe altre forme, disposte in modo enigmatico e assurdo. Supponiamo ora che attorno al pezzo dipinto si estenda una larga fascia di tela bianca e che noi vi dipingiamo forme - un braccio, un tronco, eccetera - che si prolungano e si combinano con le forme che già figuravano nel frammento originale. Ne risulterà che diremo «Oh, adesso sì, ora vedo perché è così, e come tutto si disponga in questo modo, e cosa sono questi vari frammenti...», e così via.Frammiste alle forme sul pezzo di tela originale potrebbero esserci certe forme non connesse, diremmo, con le figure aggiuntive della tela più larga: non sono parti del corpo o alberi, eccetera, ma frammenti di scrittura. Potremmo dir questo di un serpente, forse, di un cappello o di qualcosa del genere. (Sarebbero come le figurazioni ornamentali della cattedrale di Mosca).Nell'interpretare i sogni non si opera in un modo solo. Vi è un lavoro di interpretazione che, per così dire, appartiene ancora al sogno stesso. Nel considerare ciò che sia un sogno, è importante notare ciò che gli accade, il modo in cui il suo aspetto muta quando è messo in relazione con altri ricordi, per esempio. Appena svegli, un sogno può destare impressioni diverse, ad esempio terrore e angoscia; oppure, una volta scritto il sogno, si può provare una sorta di eccitazione, di vivo interesse, di curiosità. Se uno ricorda certi avvenimenti del giorno prima e li connette con ciò che ha sognato, questo di già cambia le cose, muta l'aspetto del sogno. Se poi la riflessione sul sogno porta a ricordare certi fatti della prima infanzia, questo darà al sogno un aspetto ancora diverso. E così via. (Tutto ciò è connesso con quanto abbiamo detto a proposito del sognare il sogno una seconda volta: appartiene ancora al sogno, in un certo modo).D'altra parte, si potrebbe formulare un'ipotesi. Leggendo il resoconto del sogno, si potrebbe predire che il sognatore potrà essere portato a rievocare certe particolari memorie. E quest'ipotesi potrebbe avere o meno una verifica. Questo si potrebbe definire un trattamento scientifico del sogno."Freier Einfall" e appagamenti di desideri. Vi sono vari criteri per la retta interpretazione: ad esempio: 1) ciò che l'analista dice o predice, sulla base della sua esperienza precedente; 2) ciò a cui il sognatore è indotto dal "freier Einfall". Sarebbe interessante e importante se questi due criteri di solito coincidessero, ma sarebbe strano pretendere (così come sembra fare Freud) che essi "debbano sempre" coincidere.Ciò che avviene nel "freier Einfall" è probabilmente condizionato da un intero esercito di circostanze. Non sembra ci sia motivo di dire che deve essere condizionato solo dal tipo di desiderio che interessa all'analista e di cui ha ragione di dire che deve aver avuto una parte nel sogno. Se vuoi completare ciò che sembra il frammento di un quadro, potresti esser consigliato ad abbandonare ogni tentativo di capire quali potrebbero esserne i complementi più probabili, e fissare invece attentamente il quadro, tracciando la prima linea che ti venga in mente senza pensarci. In molti casi, potrebbe essere un consiglio molto fruttuoso, ma sarebbe sorprendente se producesse "sempre" i risultati migliori. La linea che tracci è probabilmente condizionata da tutto ciò che accade attorno a te e dentro di te. Se io conoscessi uno dei fattori condizionanti, ciò non basterebbe a indicarmi con certezza quale linea tu stia per tracciare.E' molto importante dire che i sogni sono appagamenti di desideri, soprattutto perché ciò indica il tipo di interpretazione desiderata - che tipo di cosa sarebbe l'interpretazione di un sogno. In confronto, per esempio, con un'interpretazione dei sogni come semplici ricordi di ciò che è accaduto. (Non abbiamo la sensazione che i ricordi richiedano un'interpretazione analoga a quella che proviamo relativamente ai sogni). E alcuni sogni sono evidentemente appagamenti di desideri; i sogni sessuali degli adulti, per esempio. Sembra però confuso dire che tutti i sogni sono appagamenti allucinati di desideri. (Molto spesso Freud da quella che potremmo chiamare un'interpretazione sessuale, ma è interessante notare come fra tutti i resoconti di sogni dati da lui non vi sia un solo esempio di sogno decisamente sessuale. Mentre sono comuni come l'acqua). In parte perché questo non sembra andar bene per i sogni che sorgono dalla paura piuttosto che dal desiderio, in parte perché la maggioranza dei sogni considerati da Freud devono essere intesi come "camuffati" appagamenti di desideri, e, in questo caso, naturalmente non appagano il desiderio. "Ex hypothesi", non è consentito al desiderio di essere appagato, e, al suo

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posto, viene allucinato qualcosa d'altro. Se il desiderio è ingannato in questo modo, difficilmente si potrà chiamare il sogno un suo appagamento. Diventa inoltre impossibile dire se sia il desiderio o il censore a essere ingannato. Apparentemente, tutti e due, e il risultato è che nessuno dei due è soddisfatto. E così, il sogno non è un soddisfacimento allucinatorio di qualcosa.E' probabile che ci siano molti diversi tipi di sogni e che non vi sia una sola linea di spiegazione per tutti. Proprio come ci sono molti, diversi tipi di giochi. O come ci sono molti, diversi tipi di linguaggio.Freud era influenzato dall'idea ottocentesca della dinamica, un'idea che ha influito su tutto il modo di fare psicologia. Freud voleva trovare una qualche, unica, spiegazione che potesse mostrare che cos'è il sognare. Voleva trovare l'"essenza" del sognare. E avrebbe respinto qualsiasi suggestione di avere in parte ragione ma non del tutto. Aver torto in parte, avrebbe significato per lui aver torto del tutto, non aver trovato realmente l'essenza del sogno.

WITTGENSTEIN (appunti da conversazioni del 1943. R. R.).

Se il sogno sia un pensiero. Se sognare sia pensare a qualcosa.Supponiamo di considerare un sogno come un tipo di linguaggio, un modo di dire qualcosa, o un modo di simboleggiare qualcosa. Potrebbe esserci un simbolismo costante non necessariamente alfabetico - potrebbe essere, diciamo, come il cinese. Potremmo poi trovare un modo di tradurre questo simbolismo nel linguaggio quotidiano del discorso comune, del pensiero comune. Ma la traduzione dovrebbe allora essere possibile anche in senso inverso, dovrebbe essere possibile, cioè, usando la stessa tecnica, tradurre in linguaggio onirico i pensieri comuni. Come Freud riconosce, questo non si fa mai e non si può fare. Potremmo dunque porre in dubbio che il sognare sia un modo di pensare qualcosa, che sia un linguaggio.Ovviamente, ci sono certe somiglianze con il linguaggio.Supponi che ci sia una vignetta in un giornale umoristico di poco dopo l'ultima guerra. Potrebbe contenere una figura, che diresti subito una caricatura di Churchill, e un'altra contrassegnata dalla falce e martello, nella quale riconosceresti subito l'intenzione di rappresentare la Russia. Supponiamo che manchi il titolo. Potresti tuttavia esser sicuro, considerando le due figure suddette, che l'intera vignetta volesse ovviamente porre in rilievo qualcosa con riferimento alla situazione politica del momento.Il problema è se avresti sempre ragione nel presumere che vi sia un unico scherzo o un'unica cosa che è "la" cosa posta in rilievo dalla vignetta. Forse, anche tutta la vignetta nel suo insieme non ha «un'interpretazione giusta». Potresti dire «Vi sono indicazioni - le due figure, per esempio - che suggeriscono che ne ha una», e io potrei risponderti che forse queste indicazioni sono tutto ciò che c'è. Una volta interpretate queste due figure, può non esserci ragione di dire che "deve" esserci un'interpretazione corrispondente dell'intera vignetta o di ogni suo dettaglio.Nei sogni la situazione potrebbe essere simile.Freud chiederebbe «Che cosa vi ha fatto allucinare quella situazione?». Si potrebbe rispondere che non era necessario ci fosse qualcosa che me l'ha "fatta" allucinare.Freud sembra avere certi pregiudizi relativamente al problema di quando un'interpretazione possa ritenersi completa, oppure debba essere ancora completata, oppure sia necessaria un'ulteriore interpretazione. Supponi che uno ignorasse la tradizione, fra gli scultori, di scolpire busti. Se allora si imbattesse nel busto, finito, di un qualche personaggio, potrebbe dire che, evidentemente, si tratta di un frammento e che ci devono essere altre parti che gli appartengono, che ne fanno un corpo completo.Supponi di aver riconosciuto in un sogno certe cose che possono essere interpretate al modo freudiano. Vi è una qualche ragione per ritenere che debba esserci anche un'interpretazione di tutto il resto? che abbia senso chiedere quale sia la retta interpretazione delle altre cose che figurano nel sogno?Freud domanda «Mi chiedete di credere che ci sia qualcosa che accade senza una causa?». Ma questo non significa nulla. Se, sotto il nome di «causa» includiamo cose come le cause fisiologiche, allora non ne sappiamo nulla, e in ogni caso esse non sono rilevanti per il problema dell'interpretazione. Certamente, non puoi derivare dalla domanda di Freud l'asserzione che nel sogno ogni cosa deve avere una causa nel senso di un qualche evento passato cui è connessa tramite una associazione di questo tipo.Supponi di considerare il sogno come una sorta di gioco fatto dal sognatore. (Per inciso, non c'è una sola causa o ragione per cui i bambini giocano. E' qui che sbagliano, in generale, le teorie del gioco). Potrebbe esserci un gioco in cui si mettono insieme figure di carta per formare una storia, o si raccolgono per una qualche ragione. Le figure potrebbero essere riunite e conservate in un album, pieno di illustrazioni e di storie. Il bambino potrebbe allora prendere dall'album vari pezzi per metterli nella costruzione; potrebbe scegliere una figura importante perché vi è in essa qualcosa di cui ha bisogno e includere il resto solo perché è lì.Confronta il problema del perché si sogna e del perché scriviamo racconti. Non tutto nel racconto è allegorico. Che

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significato avrebbe cercare di spiegare perché uno ha scritto proprio quel racconto e proprio in quel modo?Non c'è una ragione sola per cui si parla. Un bambino piccolo balbetta spesso solo per il piacere di far rumore. Questa è pure una delle ragioni di parlare per gli adulti. E ve ne sono innumerevoli altre.Freud sembra costantemente influenzato dall'idea che un'allucinazione sia qualcosa che richiede una tremenda forza mentale - "seelische Kraft". «Ein Traum findet sich niemals mit Halbheiten ab» [«Un sogno non si contenta mai di mezze misure»]. E pensa che la sola forza capace di produrre le allucinazioni dei sogni sia da ritrovarsi nei profondi desideri della prima infanzia. Lo si può porre in dubbio. Supponendo che sia vero che le allucinazioni durante lo stato di veglia richiedano una straordinaria forza mentale, perché le allucinazioni oniriche non potrebbero essere del tutto normali nel sonno e non richiedere affatto alcuna forza straordinaria?(Confronta il problema «Perché puniamo i criminali? Per un desiderio di vendetta? Per prevenire una ripetizione del crimine?», e così via. La verità è che non c'è un'unica ragione, c'è l'istituzione di punire i criminali. Persone diverse la sostengono per ragioni diverse, e per ragioni diverse in casi diversi e in tempi diversi. Alcuni la sostengono per un desiderio di vendetta, altri, forse, per un desiderio di giustizia, altri ancora per il desiderio di prevenire la ripetizione del crimine, e così via. E così le punizioni vengono inflitte).

WITTGENSTEIN (appunti da una conversazione, 1946. R. R.).

Ho scorso, con H., l'«Interpretazione dei sogni» di Freud, e ciò mi ha fatto sentire quanto tutto questo modo di pensare meriti di essere combattuto.Se prendo uno qualsiasi dei resoconti di sogni (dei propri sogni) dati da Freud, posso giungere, usando l'associazione libera agli stessi risultati cui egli perviene nella sua analisi - benché non sia un mio sogno. E l'associazione procederà attraverso le mie proprie esperienze, e così via.Il fatto è che qualora tu sia preoccupato da qualcosa, una difficoltà o un problema particolarmente importante per la tua vita - come il sesso, per esempio - da qualunque punto tu parta l'associazione ti riporterà finalmente e inevitabilmente allo stesso tema. Freud mette in rilievo come il sogno, dopo essere analizzato, appaia molto logico. Ed è certo così.Potresti partire da uno qualsiasi degli oggetti che si trovano su questo tavolo - e che certamente non sono messi qui dalla tua attività onirica - e potresti trovare che tutti potrebbero essere connessi in un disegno come questo: il disegno sarebbe logico allo stesso modo.Con questo tipo di associazione libera si potrebbero scoprire certe cose di se stessi, ma esso non spiega perché il sogno sia occorso.A questo riguardo Freud fa riferimento a vari miti antichi e pretende che le sue ricerche abbiano spiegato ora come sia potuto accadere che qualcuno abbia pensato o proposto un mito di quella sorta.In realtà, Freud ha fatto qualcosa di diverso; non ha dato una spiegazione scientifica dell'antico mito: ha proposto un nuovo mito. Per esempio, l'attrattiva che esercita la suggestione di considerare ogni angoscia come una ripetizione dell'angoscia del trauma della nascita è solo l'attrattiva di una mitologia. «E' tutto il risultato di qualcosa accaduto molto tempo fa». Quasi come far riferimento a un totem.Pressappoco lo stesso potrebbe dirsi della nozione di una «Urszene» [scena primitiva]. Questa ha spesso l'attrattiva di dare una sorta di modulo tragico alla propria vita. Tutto è la ripetizione dello stesso modulo stabilito molto tempo fa. Come una figura tragica che adempie i decreti imposti dai fati alla sua nascita. Molti hanno, in un certo periodo, difficoltà gravi nella loro vita, così gravi da indurli a pensare al suicidio. E' probabile che questa situazione appaia a un uomo come un qualcosa di disgustoso, di troppo lurido per costituire l'argomento di una tragedia. Può essere allora di immenso sollievo poter mostrare come la vita di ciascuno rechi invece l'impronta di una tragedia - la tragica elaborazione e ripetizione di un modello determinato dalla scena primitiva.Vi è, certo, la difficoltà di determinare quale sia la scena primitiva - se è la scena che il paziente riconosce come tale, o se è quella il cui ricordo realizza la cura. In pratica, i due criteri si confondono tra loro.L'analisi è probabilmente dannosa. Benché si possano scoprire nel corso di essa varie cose su se stessi, occorre esercitare una critica severa, acuta, continua, per riconoscere e guardare attraverso la mitologia che ci viene offerta o imposta. Qualcosa ci induce a dire «Sì, certo, dev'essere così». Una mitologia che ha molto potere.

°

LEZIONI SULLA CREDENZA RELIGIOSA.

1.

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Un generale austriaco disse a un tale «Penserò a voi, dopo la mia morte, se questo sarà possibile». Ci possiamo immaginare che, per un gruppo di persone, questo sarebbe assurdo, per un altro gruppo, no.(Durante la guerra, Wittgenstein vide portare del pane consacrato in un recipiente di acciaio cromato. La cosa lo colpì per la sua assurdità).Supponiamo che un tale creda nel Giudizio Finale, e io no; questo vuol dire che io credo l'opposto, e cioè che non ci sarà una cosa del genere? Direi «No, proprio no, o non sempre».Supponete che io dica che il corpo marcirà, e un altro dica «No. Le particelle si ricongiungeranno fra mille anni, e ci sarà una tua Resurrezione».Se uno dicesse «Wittgenstein, credi in questo?», io direi «No». «Lo contraddici?». Direi «No».Se dite questo, in questo sta già la contraddizione.Direste «Credo il contrario», oppure «Non c'è ragione per supporre una cosa simile»? Io non direi né l'una cosa né l'altra.Supponete che uno fosse un credente e dicesse «Io credo in un Giudizio Finale», e io dicessi «Bene, io non ne sono così sicuro. Può darsi». Voi direste che vi è un abisso fra di noi. Se egli dicesse «C'è un aeroplano tedesco, lassù» e io dicessi «Può darsi, non ne sono così sicuro», direste che vi è poca distanza fra noi due.Ma non si tratta del fatto di essergli più o meno vicino quanto di essere su di un piano totalmente diverso, il che potresti esprimere dicendo «Tu vuoi dire una cosa del tutto diversa, Wittgenstein».La differenza potrebbe non manifestarsi affatto in una qualsiasi spiegazione del significato.Perché sembra che, in questo caso, mi sfugga del tutto il nodo della questione?Supponiamo che un tale abbia fatto, del credere nel Giudizio Finale, la sua regola di condotta in questa vita. Ogni volta che fa qualcosa, ha questo davanti alla mente. In un certo senso, come si fa a dire che egli crede che questo accadrà oppure no?Chiederglielo non è sufficiente. Dirà probabilmente che ha delle prove. Ha però ciò che potresti chiamare una credenza incrollabile, che non si manifesta nel ragionamento o nel richiamo a normali motivi di credibilità, ma piuttosto nell'ordinare a essa tutta la sua vita. Questo è un fatto molto più rilevante: rinunziare ai piaceri, richiamarsi sempre a questa immagine. In un certo senso la si deve definire la più salda di tutte le credenze, perché quel tale, per causa sua, rischia ciò che non rischierebbe per cose, per lui, molto più fondate. E ciò sebbene egli faccia distinzione fra quel che è ben fondato e quel che non lo è.LEWY: Certo egli direbbe che è estremamente ben fondata.Prima di tutto, potrebbe usare «ben fondato», o non usarlo affatto, considerando questa credenza come estremamente ben fondata e, per un altro verso, come niente affatto ben fondata.Se abbiamo una credenza, in certi casi ci richiamiamo sempre di nuovo a certi motivi e, nello stesso tempo, rischiamo molto poco - se si venisse al punto di rischiare la nostra vita sulla base di questa credenza.Vi sono occasioni in cui si ha una fede - in cui si dice «Io credo» - mentre, d'altra parte, questa credenza non riposa sullo stesso fatto su cui si basano di solito le nostre normali credenze quotidiane.Come potremmo confrontare tra di loro le credenze? Che significato avrebbe confrontarle?Potreste dire «Confrontiamo stati mentali».Come confrontiamo gli stati mentali? Ovviamente, non sarebbe sempre possibile. Prima di tutto, quanto dite non sarebbe forse preso a misura della saldezza di una credenza? Ma, per esempio, che rischi assumereste?La forza di una credenza non è confrontabile con l'intensità di un dolore.Un modo del tutto diverso di confrontare le credenze è di vedere quali tipi di motivi si addurranno.Una credenza non è come uno stato d'animo momentaneo. «Alle cinque ha avuto un fortissimo mal di denti».Supponiamo che ci fossero due individui: uno, quando doveva decidere quale via intraprendere, pensava alla retribuzione, l'altro, no. Una persona potrebbe, per esempio, essere incline a considerare tutto ciò che gli accade come una ricompensa o una punizione, mentre un'altra persona non ci pensa affatto.Se è malato, penserà «Cosa ho fatto per meritarlo?». E', questo, un modo di pensare alla retribuzione; un altro modo è di pensare genericamente, quando uno si vergogna di sé «Questo sarà punito».Prendete due individui: uno parla del proprio comportamento e di ciò che gli capita in termini di retribuzione, l'altro no. Questi due pensano in modo interamente diverso. Non puoi ancora dire, però, che essi credano cose diverse.Supponete che uno sia malato e dica «Questa è una punizione», mentre io dico «Se sono malato, non penso affatto a un castigo». Se voi dite «Credi il contrario?» - potete certamente chiamarlo credere il contrario, ma è totalmente diverso da ciò che chiameremmo di solito credere il contrario.Io penso in modo differente, io la penso diversamente, dico a me stesso cose diverse, ho immagini diverse.E' così: se uno dicesse «Wittgenstein, tu non prendi la malattia come un castigo, e allora cosa credi?» - Direi «Non ho alcun pensiero di castigo».

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Ci sono, per esempio, questi modi totalmente diversi di pensare, prima di tutto - che non sono necessariamente espressi da uno che dice una cosa e un altro che ne dice un'altra.Quello che chiamiamo credere o non credere in un Giorno del Giudizio - L'espressione della credenza può avere una parte del tutto trascurabile.Se mi chiedete se credo o meno in un Giudizio Finale, nel senso in cui vi credono le persone religiose, io non direi «No, io non credo che ci sarà una cosa simile». Mi sembrerebbe del tutto folle, dir questo.E do poi una spiegazione «Io non credo in...», ma allora il religioso non crede mai ciò che io descrivo.Non so dire, non posso contraddirlo.In un certo senso, capisco tutto ciò che dice - le parole inglesi «Dio», «separato», eccetera, io le capisco. Potrei dire «Non credo in questo», e sarebbe vero, nel senso che non ho avuto questi pensieri o qualcosa che vi si connette. Ma non che io possa contraddire la cosa.Potreste dire «D'accordo, ma se non puoi contraddirlo, vuol dire che non lo capisci. Se lo capissi, potresti». Anche questo è greco, per me. La mia normale tecnica del linguaggio mi abbandona. Io non so dire se si capiscono reciprocamente o no.Queste controversie appaiono abbastanza diverse da quelle normali, le ragioni appaiono interamente diverse dalle ragioni normali.Esse sono, in certo modo, del tutto inconcludenti.Il fatto è che se ci fosse una prova, questo in realtà distruggerebbe tutta la questione.Niente di ciò che normalmente chiamo prova, avrebbe la minima influenza su di me.Supponiamo, per esempio, di conoscere qualcuno che ha predetto il futuro. Costui ha fatto previsioni per anni e anni a venire, e ha descritto qualcosa come un Giorno del Giudizio. E' alquanto strano, ma anche se si desse una cosa simile, e anche se fosse più convincente di quanto ho descritto, ebbene, credere in questo accadimento non sarebbe affatto una credenza religiosa.Supponi che io dovessi rinunciare a tutti i piaceri a causa di una simile previsione. Se agisco in un certo modo, qualcuno mi getterà nel fuoco fra mille anni, eccetera. Io non farei un passo. La migliore prova scientifica non conta niente.Una credenza religiosa potrebbe di fatto rifiutare una simile previsione e dire «No, in quel caso non reggerà».Per così dire, la credenza, se formulata in base a una prova, può essere solo il risultato finale in cui si cristallizzano e si congiungono un certo numero di modi di pensare e di agire.Un uomo farebbe l'impossibile per non essere trascinato nel fuoco. Nessuna induzione. Terrore. Questa, per così dire, è parte della sostanza del credere.Questa è, in parte, la ragione per cui non si interviene nelle controversie religiose: la forma di controversia in cui uno è "sicuro" della cosa e l'altro dice «Può darsi».Potreste stupirvi che non siano stati opposti a coloro che credono nella Resurrezione coloro che dicono «Può darsi».Qui, ovviamente, il credere esercita la sua funzione in misura molto maggiore: supponiamo di aver detto che una certa immagine potrebbe avere la funzione di una ammonizione costante per me, oppure che io la penso sempre. Ci sarebbe qui una enorme differenza tra coloro per cui l'immagine è sempre in primo piano e gli altri che semplicemente non ne fanno alcun viso.Coloro che hanno detto «Bene, può darsi che accada e può darsi che no» sarebbero su di un piano del tutto diverso.Questo, in parte, perché si sarebbe riluttanti a dire «Costoro nutrono rigidamente l'opinione (o l'idea) che ci sia un Giudizio Finale». «Opinione» suona strano.E' per questa ragione che si usano parole diverse: «dogma», «fede».Non parliamo di ipotesi, o di alta probabilità. Né di conoscenza.In un discorso religioso, usiamo espressioni come «Io credo che accadrà questo e quello», e le usiamo in modo diverso che nella scienza.Benché vi sia una grande tentazione a pensare il contrario. Perché parliamo di prova, e parliamo di prova per esperienza.Potremmo persino parlare di eventi storici.E' stato detto che la Cristianità riposa su una base storica.E' stato detto mille volte da persone intelligenti che l'indubitabilità, in questo caso, non è sufficiente. Anche se si hanno altrettante prove che per Napoleone. Perché l'indubitabilità non sarebbe sufficiente a farmi cambiare tutta la mia vita.Non riposa su una base storica nel senso che la normale credenza nei fatti storici potrebbe servire da fondamento.Abbiamo qui una credenza nei fatti storici diversa da una credenza nei fatti storici normali. Anzi, essi non sono trattati come proposizioni storiche, empiriche.Coloro che avevano fede non hanno applicato il dubbio che si applicherebbe di solito a "ogni" proposizione storica.

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Specialmente a proposizioni di un tempo molto lontano, eccetera.Qual è il criterio dell'attendibilità! Supponiamo che voi abbiate dato una descrizione generale delle occasioni in cui dite che una proposizione ha un ragionevole grado di probabilità. Quando lo chiamate ragionevole, è "solo" per dire che ne avete una certa prova che non avete per altre?Per esempio, non prestiamo fede alla descrizione di un evento fatta da un ubriaco.Padre O'Hara (1) è di quelli che ne fanno una questione di scienza.Sono, costoro, delle persone che trattano questa prova in un modo diverso. Essi basano le cose su una prova che, presa in un certo senso, sembrerebbe eccessivamente debole. Basano su di essa cose enormi. Devo dire che sono irragionevoli? Non li direi irragionevoli.Direi che non sono certamente "ragionevoli", questo è ovvio.«Irragionevoli» implica, per tutti, rimprovero.Voglio dire: essi non trattano ciò come una questione di ragionevolezza.Chiunque legga le "Epistole" troverà scritto: non solo non è ragionevole, ma è follia.Non solo non è ragionevole, ma non pretende di esserlo.Quel che mi sembra ridicolo in O'Hara è la sua volontà di farlo apparire "ragionevole".Perché una forma di vita non dovrebbe culminare in una espressione di fede in un Giudizio Finale? Non potrei tuttavia dire «Sì» o «No» all'affermazione che ci sarà una cosa simile. E neppure «Forse», neppure «Non sono sicuro».E' un'affermazione che potrebbe non consentire nessuna di queste risposte.Se il signor Lewy è religioso e dice di credere in un Giorno del Giudizio, io non saprei neppur dire se lo capisco o no. Ho letto le stesse cose che ha letto lui. In un certo senso, importantissimo, io so cosa vuol dire.Se un ateo dice «Non c'è un Giorno del Giudizio», e un altro dice che ci sarà, intendono la stessa cosa? Non è chiaro quale sia il criterio per giudicare se sia la stessa cosa. Potrebbero descrivere le stesse cose. Voi potreste dire che già questo mostra che essi intendono la stessa cosa.Giungiamo su un'isola e vi troviamo delle credenze, alcune delle quali siamo portati a chiamare religiose. Voglio arrivare a dire che le credenze religione non... Hanno delle frasi, e ci sono anche affermazioni religiose.Queste affermazioni non differirebbero soltanto per il loro contenuto. Connessioni del tutto diverse le muterebbero in credenze religiose, e si possono facilmente immaginare dei passaggi per i quali non arriveremmo mai a sapere se considerarle credenze religiose o considerarle credenze scientifiche.Potreste dire che ragionano male.In certi casi direste che ragionano male, intendendo così che ci contraddicono. In altri, direste che non ragionano affatto, oppure che «E' un modo del tutto diverso di ragionare». Direste la prima cosa nel caso in cui essi ragionassero in modo simile al nostro e facessero errori che corrispondono ai nostri.Che una cosa sia un errore o meno - dipende dal sistema particolare cui appartiene, così come una cosa è un errore in un certo gioco e non in un altro.Potreste anche dire che dove noi siamo ragionevoli, loro non lo sono, intendendo che, lì, non usano la "ragione".Se essi fanno qualcosa di molto simile a uno dei nostri sbagli, direi che non lo so. Dipende da quel che vi sta intorno.E' difficile capirlo, nei casi in cui vi è tutta l'apparenza di cercare di essere ragionevoli.Chiamerei definitivamente O'Hara irragionevole. Direi che se questo è una credenza religiosa, allora è solo superstizione.Ma la porrei in ridicolo, non però dicendo che si basa su prove insufficienti. Direi: ecco uno che inganna se stesso. Potete dire: quest'uomo è ridicolo perché crede, e basa il suo credere su deboli ragioni.

2.

La parola «Dio» è tra le prime che si imparano - immagini e catechismi, eccetera. Ma non ha le stesse conseguenze che hanno le immagini delle zie. Non mi facevano vedere [ciò che l'immagine rappresentava].La parola è usata come una parola che rappresenta una persona. Dio vede, ricompensa, e così via.«Quando ti mostrarono tutto questo hai capito il significato di quella parola?». Direi «Sì e no. Ho imparato ciò che non significava. Mi sono sforzato di capire. Potevo rispondere a domande, capire domande anche se poste in modi diversi - e in questo senso si potrebbe dire che capivo».Se sorge il problema dell'esistenza di un dio o di Dio, esso ha un ruolo totalmente diverso da quello dell'esistenza di una qualsiasi persona o oggetto di cui io abbia mai sentito. Si diceva, si doveva dire, di "credere" nella sua esistenza, e se non ci si credeva, ciò era considerato come qualcosa di male. Normalmente, se io non credessi nell'esistenza di qualcosa, nessuno penserebbe che ci fosse qualcosa di male.

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Inoltre, ecco questo uso straordinario della parola «credere». Si parla di credere e nello stesso tempo non si usa «credere» al modo solito. Potreste dire (nell'uso normale). «Tu credi solo - oh, bene...». Qui è usato in modo totalmente diverso; d'altra parte, non è usato nel modo in cui di solito usiamo la parola «conoscere».Se mi ricordo anche vagamente quello che mi è stato insegnato di Dio, potrei dire «Qualunque cosa sia credere in Dio, non può essere credere in qualcosa che si può verificare o per cui si possono trovare strumenti di verifica». Potreste dire «Questa è una sciocchezza, perché alcuni dicono di credere sulla base di "prove" o di esperienze religiose». Direi «Il semplice fatto che qualcuno dichiari di credere sulla base di "prove" non mi dice abbastanza perché io sia in grado di sapere ora se posso dire, della frase 'Dio esiste', che la vostra prova è insoddisfacente o insufficiente».Supponete che io conosca un tale, un certo Smith. Ho sentito dire che è stato ucciso in battaglia, durante questa guerra. Un giorno tu vieni da me e mi dici «Smith è a Cambridge». Io mi informo, e sento che ti trovavi al Guildhall e hai visto in fondo alla strada un uomo e hai detto «E' Smith, quello». Direi «Senti. Questa non è una prova sufficiente». Se avessimo abbastanza prove che è stato ucciso, cercherei di farti ammettere che sei un credulone. Supponete che non se ne sia saputo più nulla. Inutile dire che è impossibile fare delle ricerche «Chi, alle 12,05 è passato per Market Place in direzione di Rose Crescent?». Supponete di dire «Lui era là». Io sarei estremamente imbarazzato.Supponete che ci sia una festa di mezza estate, al villaggio. Molta gente sta in cerchio. Supponete che ci sia una festa del genere ogni anno e che poi ciascuno dica di aver visto uno dei propri parenti morti nell'altra parte del cerchio. In questo caso, potremmo informarci presso tutti coloro che si trovavano nel cerchio, «Chi tenevi per mano?». Ciononostante, tutti noi diremmo che in quel giorno vediamo i nostri morti. Potresti dire in questo caso «Ho avuto un'esperienza straordinaria, che posso esprimere dicendo 'Ho visto mio cugino morto'». Diremmo che dici questo sulla base di prove insufficienti? In certe circostanze, lo direi, in altre, no. Quando quel che è detto suona un po' assurdo, direi «Sì, in questo caso la prova è insufficiente». Se assurdo del tutto, allora non lo direi.Supponete che io sia andato in un qualche posto come Lourdes, in Francia. Supponete che vi sia andato insieme con una persona molto credula. Vediamo venir fuori del sangue, da qualcosa. Lui dice «E adesso, Wittgenstein, come puoi dubitare?». Direi «Può forse spiegarsi solo in un modo? Non potrebbe essere questo, o quest'altro?». Cercherei di convincerlo che non ha visto nulla che abbia una qualche rilevanza. Mi domando se farei questo in ogni occasione. So però che lo farei in circostanze normali.«Non si dovrebbe prendere ciò in considerazione, dopo tutto?». Direi «Eh, via!». Tratterei il fenomeno, in questo caso, proprio come tratterei un esperimento di laboratorio che pensassi eseguito male.«La bilancia si muove quando io voglio che si muova». Io metto in risalto che non è al riparo, una corrente d'aria può muoverla, eccetera.Potrei immaginare che qualcuno mostri una credenza estremamente appassionata in un tal fenomeno, e non potrei affatto abbordare la sua credenza dicendo «Questo avrebbe potuto esser prodotto altrettanto bene da quest'altra causa» perché lui potrebbe ritenerla una bestemmia da parte mia. Oppure potrebbe dire «Può darsi che questi preti ingannino, ma nondimeno, in un senso diverso, qui avviene un fenomeno miracoloso».Ho una statua che sanguina in un determinato giorno, ogni anno. Ho dell'inchiostro rosso, eccetera. «Sei un impostore, ma tuttavia la Divinità si serve di te. Inchiostro rosso, in un senso, ma non in un altro».Conf. Fiori con l'etichetta in una seduta spiritica. Alcuni dicono «Sì, i fiori si materializzano con l'etichetta». Quali circostanze dovrebbero darsi perché una storia di questo tipo non fosse ridicola?Io ho una certa istruzione, come tutti voi, e so quindi cosa si intende per una previsione non fondata a sufficienza. Supponiamo che qualcuno abbia sognato del Giudizio Finale e dica che ora sa come sarà. Supponete che qualcuno dica «Non è una prova sufficiente». Io direi «Se vuoi paragonarla alla prova che domani pioverà, non è affatto una prova». Egli può farla apparire tale che tu possa, per estensione, chiamarla una prova; ma, come prova, potrebbe essere più che ridicola. Ma ora, sarei disposto a dire «Tu fondi il tuo credere su prove, a dir poco, estremamente esili». Perché dovrei considerare questo sogno una prova, misurandone la validità come se stessi misurando la validità dei dati riguardanti gli eventi meteorologici?Se lo confrontate con qualsiasi cosa nella scienza si chiami prova, non potete credere che qualcuno possa mai argomentare tranquillamente «Dunque, ho fatto questo sogno... quindi... Giudizio Finale». Potreste dire «Come errore, è troppo grossolano». Se uno, improvvisamente, scrivesse dei numeri sulla lavagna, e dicesse «Adesso addiziono», e poi «21 più 2 fanno 13», eccetera, io direi «Questo non è uno sbaglio».Ci sono casi in cui direi che quello è matto o che scherza, ci possono poi essere casi in cui cerco un'interpretazione del tutto diversa. Per vedere quale sia l'interpretazione, devo vedere la somma, vedere come è fatta, cosa ne fa seguire, quali sono le circostanze in cui opera, eccetera.Voglio dire che se un tale mi dicesse, in seguito a un sogno, di credere nel Giudizio Finale, cercherei di scoprire che tipo di impressione questo ha suscitato in lui. Un atteggiamento potrebbe essere «Avverrà fra circa 2000 anni. Sarà brutto per coloro che, eccetera». Oppure potrebbe essere un atteggiamento di terrore; e nel caso che ci siano

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speranza, terrore, eccetera, direi forse che non vi è una prova sufficiente se egli dice «Io credo...»? Non posso considerare queste parole alla stessa stregua di espressioni come «Io credo questo e quest'altro». Sarebbe del tutto fuori proposito, così come sarebbe del tutto fuori proposito se egli dicesse che il suo amico tal dei tali e suo nonno hanno avuto lo stesso sogno e hanno creduto.Io non direi «Se uno dicesse di aver sognato che accadrà domani, prenderebbe forse il suo cappotto?», eccetera.Caso in cui Lewy ha visioni del suo amico morto. Casi in cui non cercate di localizzarlo. E caso in cui cercate di localizzarlo in modo sistematico. Un altro caso in cui direi «Possiamo presupporre di avere una larga base di accordo».In generale, se uno dice «E' morto» e io dico «Non è morto», nessuno chiederebbe «Intendono forse per 'morto' la stessa cosa?». Nel caso in cui uno ha delle visioni non direi subito «Egli intende dire qualcosa di diverso».Conf. uno che ha la mania di persecuzione.Qual è il criterio per l'intendere qualcosa di diverso? Non solo ciò che egli prende per prova, ma anche come reagisce, se è in preda al terrore, e così via.Come posso capire se questa proposizione deve essere considerata empirica «Vedrai di nuovo il tuo amico morto»? Direi forse «E' un po' superstizioso»? No, certo.Può averlo detto con tono di scusa. (L'uomo che ne ha fatto un'affermazione categorica era più intelligente di colui che ne ha parlato con tono di scusa).«Vedere un amico morto», di nuovo non significa molto per me. Io non penso in questi termini. Io non dico mai a me stesso «Io vedrò di nuovo quella determinata persona».Lui lo dice sempre, ma non fa alcuna ricerca, fa un sorriso strano. «Il suo racconto aveva quel carattere che è del sogno». La mia risposta, in questo caso, sarebbe «Sì», e una spiegazione particolare.Per esempio «Dio ha creato l'uomo». Immagini di Michelangelo che mostrano la creazione del mondo. In generale, nulla esprime il significato delle parole meglio di una immagine e io suppongo che Michelangelo fosse bravo quanto lo si può essere e che abbia fatto del suo meglio, ed ecco l'immagine della Divinità che crea Adamo.Se mai la vedessimo, non penseremmo certo così la Divinità. L'immagine deve essere usata in modo del tutto diverso, se dobbiamo chiamare «Dio» l'uomo rivestito di quella strana coperta bianca, e così via. Potreste pensare che la religione sia stata insegnata per mezzo di queste immagini. «Certo, possiamo esprimerci solo per mezzo della immagine». Questo è abbastanza strano... Io potrei mostrare a Moore le immagini di una pianta tropicale. Vi è una tecnica di confronto fra immagine e pianta. Se gli avessi mostrato il dipinto di Michelangelo, dicendo «Certo, non ti posso mostrare la cosa reale, ma solo l'immagine...». La cosa assurda è che non gli ho mai insegnato la tecnica per usare questa immagine.E' abbastanza chiaro che le immagini di soggetto biblico e l'immagine di Dio che crea Adamo abbiano un ruolo totalmente diverso. Potresti fare questa domanda: «Michelangelo pensava che Noè nell'arca fosse così e che Dio mentre crea Adamo apparisse così?». Egli non avrebbe detto che Dio o Adamo avessero l'aspetto che hanno in questo dipinto.Può sembrare quasi che, avendo posto una simile domanda «Quando dice che il tale è vivo, Lewy vuol dire la stessa cosa, "realmente", che vuol dire il tal dei tali?» ci siano due casi totalmente distinti, in uno dei quali egli direbbe di non averlo voluto dire in un senso letterale. Sostengo che non è così. Ci saranno casi in cui differiremo, ma dove non sarà affatto una questione di conoscenza maggiore o minore, e quindi possiamo incontrarci. Talvolta sarà una questione di esperienza, così che potrete dire «Aspetta altri dieci anni, e vedrai». E io vorrei dire «Scoraggerei questo modo di ragionare» e Moore direbbe «Io non lo scoraggerei». Cioè, uno vuol "fare" qualcosa. Vorremmo prender posizione, e questo andrebbe tanto oltre che si darebbe davvero una grande diversità fra noi, che potrebbe esprimersi nella frase di Lewy «Wittgenstein cerca di sminuire la ragione», e questo non sarebbe falso. E' qui, in realtà, che sorge questo tipo di problemi.

3.

Oggi ho visto un manifesto che diceva «Parla lo studente 'morto'».Le virgolette significano «Egli non è davvero morto». «Egli non è ciò che la gente chiama morto. Lo chiamano 'morto' in modo improprio».Non parliamo di «porta» fra virgolette.Poi mi è venuto in mente d'improvviso «Se qualcuno dicesse 'Non è morto davvero, benché, stando ai normali criteri, è morto' - non potrei forse dire 'Non solo è morto, secondo i criteri normali, ma è quello che tutti diciamo "morto"'?».Se ora lo dici «vivo», usi il linguaggio in un modo strano, perché, quasi deliberatamente, crei degli equivoci. Perché non usi una qualche altra parola, e lasci che «morto» conservi il significato che ha di già?

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Supponete che uno dica «Non ha avuto sempre questo significato, lo studente non è morto secondo il vecchio significato del termine» oppure «Non è morto, secondo la vecchia idea».Cosa vuol dire avere idee diverse della morte? Supponete di dire «Ho l'idea che sarò una sedia dopo la morte» oppure «Ho l'idea che fra mezz'ora sarò una sedia» - tutti sappiamo in quali circostanze diciamo che qualcosa è diventato una sedia.Conf.: 1) «Quest'ombra cesserà di esistere».2) «Questa sedia cesserà di esistere». Voi dite di sapere cosa sia il cessare di esistere di questa sedia. Ma dovete pensarci. Potreste trovare che questa frase non può avere un uso. Pensate all'uso.Immagino me stesso sul letto di morte. Immagino voi tutti guardare in aria sopra di me. Si dice «avere un'idea».Vi è chiaro quando direste di aver cessato di esistere?Voi avete sei idee diverse [di «cessare di esistere»] in momenti diversi.Se dite «Posso immaginarmi di essere uno spirito disincarnato. Wittgenstein, puoi immaginare te stesso come uno spirito disincarnato?» - direi «Mi dispiace ma [finora] non connetto nulla con queste parole».Io connetto ogni sorta di cose complicate con queste parole, penso a quanto è stato detto sulla sofferenza dopo la morte, eccetera.«Ho due idee diverse, una di cessare di esistere dopo la morte, l'altra di essere uno spirito disincarnato».Cosa vuol dire avere due idee diverse? Qual è il criterio per cui uno ha un'idea e un altro ne ha un'altra?Mi avete dato due frasi «cessare di esistere», «essere uno spirito disincarnato». «Quando dico questo, penso che avrò una certa serie di esperienze». Cosa vuol dire pensare a questo?Se pensi a tuo fratello in America, come fai a sapere che quel che pensi, che il pensiero, dentro di te, riguarda tuo fratello in America? E' un fatto d'esperienza?Conf. Come fai a sapere che quel che vuoi è una mela? [Russell].Come fai a sapere di credere che tuo fratello è in America?Ti saresti potuto accontentare di una pera. Ma non avresti detto «Quello che io volevo era una mela».Supponiamo di dire che il pensiero è un certo tipo di processo nella propria mente o nel dire qualcosa, eccetera, - allora potrei dire «Va bene, tu chiami questo un pensiero di tuo fratello in America, certo, ma qual è la sua connessione con tuo fratello in America?».LEWY: Potresti dire che è una questione di convenzione.Perché non dubito che sia un pensiero di tuo fratello in America?Un processo [il pensiero] sembra essere un'ombra o un'immagine di qualcos'altro.Come so che un'immagine è un'immagine di Lewy? - Di solito, per la sua rassomiglianza con Lewy, oppure, in certe circostanze, un'immagine di Lewy può non assomigliare a lui, ma a Smith. Se lascio da parte la questione della somiglianza [come criterio], mi inoltro in un terribile pasticcio, perché qualsiasi cosa potrebbe essere il suo ritratto, dato un certo metodo di proiezione.Se aveste detto che il pensiero era in qualche modo un'immagine di suo fratello in America, vi avrei detto - Sì, ma rispetto a qual metodo di proiezione ne è un'immagine? E' strano come non ci sarebbero dubbi sul fatto che sia un'immagine di lui.Se vi chiedessero «Come sai che è un pensiero di una tal cosa?», vi verrebbe subito in mente il pensiero di un'ombra, un'immagine. Non pensate a una relazione causale. Il tipo di relazione a cui pensate è meglio espresso da «immagine», «ombra», eccetera.La parola «immagine» è anzi giustissima - in molti casi è una immagine anche nel senso più normale. Potreste tradurre le mie stesse parole in un'immagine.Ma, supponete che l'abbiate disegnato, come so che è mio fratello in America? Questo è il punto. Chi dice che è lui, a meno che non ci sia una normale somiglianza?Qual è la connessione fra queste parole, o qualsiasi cosa si sostituisse a esse, e mio fratello in America?La prima idea [che vi viene in mente] è di stare guardando il vostro stesso pensiero, e di essere del tutto sicuri che sia un pensiero che, eccetera, eccetera. Guardate un certo fenomeno mentale e dite a voi stessi «è chiaro, questo è un pensiero di mio fratello in America». Sembra una super-immagine. Lo sembra, per il pensiero, senza dubbio di sorta. Per una immagine, dipende ancora dal metodo di proiezione, mentre, qui, sembra che vi sbarazziate della relazione proiettiva, e che siate del tutto certi che questo sia pensiero di quello.La confusione di Smythies si basa sull'idea di una super-immagine.Abbiamo parlato una volta di come sia sorta nella logica l'idea di certi superlativi, l'idea di una super-necessità, eccetera.«Come so che questo è il pensiero di mio fratello in America?» - che quel "qualcosa" è il pensiero?Supponete che il mio pensiero consista nel "dire" «Mio fratello è in America» - come so di "dire" che mio fratello è in America?Come è fatta la connessione? - Immaginiamo dapprima una connessione come di corde.

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LEWY: La connessione è una convenzione. La parola designa.Devi spiegare «designa» con esempi. Abbiamo appreso una regola, una pratica, eccetera.Pensare qualcosa è come dipingere o sparare a qualcosa?Appare come una connessione da proiezione, il che sembra renderla indubitabile, benché non vi sia affatto una relazione di proiezione.Se dicessi «Mio fratello è in America» - potrei immaginare come dei raggi che si proiettano dalle mie parole su mio fratello in America. Ma se mio fratello non è in America? - allora i raggi non colpirebbero nulla.[Se dite che le parole si riferiscono a mio fratello esprimendo la proposizione che mio fratello è in America - essendo, la proposizione, un anello intermedio tra le parole e ciò cui si riferiscono] - Cosa ha a che fare la proposizione, l'anello di mediazione, con l'America?La cosa più importante è questa - se parlate di pittura, eccetera, la vostra idea è che la connessione esiste "ora", così che sembra come se, per tutto il tempo in cui ho questo pensiero, essa esista.Se invece dicessimo che è una connessione di convenzione, non avrebbe senso dire che esiste mentre pensiamo. C'è una connessione per convenzione - Che cosa vogliamo dire? - Questa connessione si riferisce a eventi che si producono in tempi diversi. Soprattutto, si riferisce a una tecnica.[«Il pensare è qualche cosa che avviene in un certo momento particolare, o si estende su tutte le parole?». «Viene in un lampo». «Sempre?». - Talvolta viene in un lampo, certo, benché ciò possa essere inteso in vari modi].Se si riferisce a una tecnica, allora può non essere sufficiente, in certi casi, spiegare quel che vuol dire in poche parole, perché c'è qualcosa che si può pensare essere in contrasto con l'idea che dura dalle 7 alle 7,05, e cioè la pratica di usarla [la frase]. Quando abbiamo parlato del «tale che è un automa», la forte presa di quell'opinione era [dovuta all'idea] di poter dire «So che cosa intendo...», come se steste guardando qualcosa che accade mentre parlate, del tutto indipendente dal prima e dal dopo l'applicazione [della frase]. Sembrava come se poteste parlare di capire una parola senza alcun riferimento alla tecnica del suo uso. Come se Smythies dicesse di poter capire la frase, e noi, allora, non avessimo nulla da dire.Come era il fatto di avere idee diverse della morte? Avere un'idea della morte è forse - questo volevo dire - come avere una certa immagine, così da poter dire «Ho un'idea della morte dalle 5 alle 5,01, eccetera?». «In qualsiasi modo si userà questa parola, ora ne ho una certa idea» - se, per questo, intendi «avere un'idea», non è certo quello che si intende per solito, perché «avere una idea» di solito implica un riferimento alla tecnica della parola, eccetera.Stiamo qui tutti usando la parola «morte», che è uno strumento comune, e ha un'intera tecnica [di uso]. Poi uno dice che ha un'idea della morte. Qualcosa di strano, perché potresti dire «Stai usando la parola 'morte' che è uno strumento che funziona in un certo modo».Se la tratti come qualcosa di privato [la tua idea], con che diritto la chiami una idea della morte? - Lo dico perché anche noi abbiamo diritto di dire cosa sia una idea della morte.Uno potrebbe dire «Ho la mia idea privata della morte» - ma allora perché chiamarla un'«idea della morte» se non è qualcosa di connesso con la morte. Benché questo [la sua «idea»] potrebbe non interessarci affatto, [e allora] non apparterrebbe al gioco giocato con la «morte», quale tutti conosciamo e comprendiamo.Per divenire importante, quella che lui chiama la sua «idea della morte», deve diventare parte del nostro gioco.«La mia idea della morte è la separazione dell'anima dal corpo» - purché si sappia cosa fare di queste parole. Può anche dire «Connetto con la parola 'morte' una certa immagine - una donna che giace sul suo letto» - il che potrebbe essere, o meno, di un certo interesse.Se connette

[figura qui omessa: la curva senza senso ("ghirigoro") di cui sopra]

con la morte, e se questa è la sua idea, la cosa potrebbe essere interessante psicologicamente.«La separazione dell'anima dal corpo [ha solo un interesse generale]. Potrebbe operare come una cortina nera, oppure no. Dovrei trovare quali siano le conseguenze [della tua affermazione]. Per ora, almeno, non mi è affatto chiaro. [Tu dici questo] - «E allora?». - Io so queste parole, ho certe immagini. Ogni sorta di cose si accompagna a queste parole.Se uno dice questo, non saprei ancora quali conseguenze ne vorrà trarre, non so a cosa lo contrapponga.LEWY: «Lo contrapponi all'essere estinto».Se mi dici «Cessi di esistere?» - potrei esser meravigliato e non saprei esattamente cosa significa. «Se non cessi di esistere, soffrirai dopo la morte», qui sì che comincio ad associare idee, forse idee etiche di responsabilità. Il fatto è che, sebbene siano parole ben conosciute e io possa passare da una frase all'altra, o a immagini [io non so quali conseguenze tu tragga da questa affermazione].Supponi che uno dicesse «Cosa credi, Wittgenstein? Sei uno scettico? Sai se sopravviverai alla morte?». Io veramente, questo è un fatto, direi «Non lo so, non lo so dire», perché non ho una chiara idea di cosa io stia

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dicendo quando dico «io non cesso di esistere», eccetera.

Gli spiritisti fanno un certo tipo di connessione.Uno spiritista dice «apparizione», eccetera. Benché mi dia un'immagine che non mi piace, ne ho un'idea chiara. So almeno che alcuni connettono questa frase con un tipo particolare di verifica. So che altri non lo fanno - le persone religiose, per esempio - essi non si riferiscono a una verifica, hanno idee del tutto diverse.Un grande scrittore ha detto che, quand'era bambino, suo padre gli affidò un compito ed egli sentì improvvisamente come nessuna cosa, neppure la morte, gli avrebbe potuto togliere la responsabilità [di assolvere quel compito]; far questo era il suo dovere, e neppure la morte avrebbe potuto far sì che non fosse più il suo dovere. Quello scrittore disse che era, in un certo modo, una prova dell'immortalità dell'anima - perché se l'anima continua a vivere [la responsabilità non muore]. L'idea è data da quello che chiamiamo la prova. Bene, se questa è l'idea, [allora va bene].Se uno spiritista vuol dare "a me" un'idea di ciò che intende o non intende per «sopravvivenza», può dire ogni sorta di cose -.[Se gli chiedo che idea abbia, ne potrò ottenere ciò che dicono gli spiritisti, oppure l'uomo da me citato, eccetera, eccetera].Al minimo, avrei un'idea [nel caso dello spiritista] di ciò cui questa frase si connette e ne capirei sempre di più vedendo l'uso che ne fa.Così com'è, io non connetto proprio nulla con essa.Supponete che un tale, prima di andare in Cina, nell'eventualità di non rivedermi più, mi dicesse «Potremmo vederci di nuovo dopo la morte» - direi io, necessariamente, che non lo capisco? Potrei dire [vorrei dire] semplicemente «Sì. Lo "capisco" del tutto».LEWY: «In questo caso, potresti solo voler dire che egli ha espresso un certo atteggiamento».Osserverei «No, non è lo stesso che dire 'Tu mi piaci molto'» - e potrebbe non essere lo stesso che dire un qualcos'altro. Dice quel che dice. Perché dovresti essere in grado di sostituirvi qualcosa d'altro?Supponete che io dica «L'uomo ha fatto uso di un'immagine».«Forse ora vede di aver sbagliato». Che tipo di osservazione è questa?«L'occhio di Dio vede tutto» - Voglio dire, di questo, che fa uso di un'immagine.Non lo voglio sminuire [la persona che dice questo].Supponete che io gli avessi detto «Tu hai usato un'immagine», e lui dicesse «No, questo non è tutto» - non potrebbe avermi frainteso? Cosa voglio dire [dicendo questo]? Quale sarebbe il vero segno del disaccordo? Quale potrebbe essere il vero criterio del suo essere in disaccordo con me?LEWY: «Se egli dicesse 'Sto facendo preparativi' [per la morte]».Sì, questo potrebbe essere un disaccordo - se lui stesso usasse la parola in un modo in cui non mi sarei aspettato, o traesse conclusioni da me inattese. Volevo solo attrarre l'attenzione verso una particolare tecnica d'uso. Saremmo in disaccordo, se egli stesse usando una tecnica che non m'aspettavo.Noi associamo un uso particolare con un'immagine.SMYTHIES: «Associare un uso con un'immagine: egli non fa solo questo».WITTGENSTEIN: Sciocchezze! Volevo dire: che conclusioni stai per trarne? eccetera. Si sta forse per parlare di sopracciglia, in connessione con l'occhio di Dio?«Avrebbe potuto dire altrettanto bene così e così» - questa [osservazione] è già adombrata nella parola «atteggiamento». Non avrebbe potuto dire una qualsiasi altra cosa.Se dico che ha usato un'immagine, io non voglio dire nulla che lui stesso non vorrebbe dire. Voglio dire che egli trae queste conclusioni.Non è altrettanto importante di qualsiasi altra cosa, quale immagine egli usa?Di certe immagini diciamo che potrebbero essere sostituite da altre - per esempio, potremmo, in certe circostanze, avere disegnata una proiezione di un'ellisse invece di un'altra.[Egli "potrebbe" dire] «Sarei stato disposto a usare un'altra immagine, avrebbe avuto lo stesso effetto...».Tutta la "carica" potrebbe essere nell'immagine.Diciamo, negli scacchi, che la forma esatta dei pezzi non conta. Supponiamo che il maggior piacere consistesse nel veder la gente muovere i pezzi; allora, giocare per iscritto non sarebbe giocare lo stesso gioco. Qualcuno potrebbe dire «Si è limitato a cambiare la forma della testa» - cosa potrebbe fare di più? (2)Quando dico che usa un'immagine mi limitò a fare un'osservazione "grammaticale": [ciò che dico] può essere verificato solo dalle conseguenze che ne trae o meno.Se Smythies non è d'accordo, io non prendo nota di questo suo disaccordo.Io volevo solo caratterizzare le convenzioni che voleva trarne. Se avessi voluto dire qualcosa di più, sarei solo stato filosoficamente arrogante.

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Normalmente, se dici «Egli è un automa» trai delle conseguenze, se gli dai una coltellata [sentirà dolore]. D'altra parte, puoi non desiderare di trarre alcuna di queste conseguenze, e ciò è tutto - a parte ulteriori confusioni.

pezzi. Se io dico: 'Adesso mi procurerò una regina con degli occhi terribili, che metterà in fuga tutti', voi ridete... E' chiaro che nel gioco degli scacchi non hanno importanza i movimenti reali. I movimenti sulla scacchiera non sono i movimenti della fisica. Se io dico: 'Il cavallo "può" muoversi soltanto con un triplice salto, l'alfiere soltanto obliquamente, la torre soltanto in linea retta', la parola "può" indica la possibilità grammaticale. Ciò che è contro le regole è offesa alla sintassi» [N.d.T.].

NOTE.N. 1. Contributo al simposio "Science and Religion", London, Gerald Howe, 1931, p.p. 107-16.N. 2. Il significato alquanto oscuro di questo paragrafo può essere chiarito dalla lettura della conversazione di Wittgenstein con Waismann sul «Formalismo», contenuta nella succitata opera «Ludwig Wittgenstein un der Wiener Kreis», p.p. 103-4, di cui riportiamo qui due passi: «Mi hanno domandato a Cambridge se allora io credo che la matematica abbia qualcosa a che fare con i tratti d'inchiostro sulla carta. A ciò rispondo: Esattamente nello stesso senso in cui il gioco degli scacchi ha a che fare con le immagini dei vari pezzi. Se io dico: 'Adesso mi procurerò una regina con degli occhi terribili, che metterà in fuga tutti', voi ridete... E' chiaro che nel gioco degli scacchi non hanno importanza i movimenti reali. I movimenti sulla scacchiera non sono i movimenti della fisica. Se io dico: 'Il cavallo "può" muoversi soltanto con un triplice salto, l'alfiere soltanto obliquamente, la torre soltanto in linea retta', la parola "può" indica la possibilità grammaticale. Ciò che è contro le regole è offesa alla sintassi» [N.d.T.].