#12 Settembre 2011

12
anno I feedback fanzine di musica indipendente numero 12 SETTEMBRE 2O11 IN QUESTO NUMERO: St. Vincent . Tiger & Woods . Arca Puccini 2011 . Beirut . RHCP . Fennesz . Alan Stivell . Björk . Ovo . Jay Z & Kaney West issuu.com/feedbackmagazine.it SIMON REYNOLDS

description

Settembre 2011

Transcript of #12 Settembre 2011

Page 1: #12 Settembre 2011

anno I

feedbackfanzine di musica indipendente

numero 12SETTEMBRE 2O11

IN QUESTO NUMERO: St. Vincent . Tiger & Woods . Arca Puccini 2011 . Beirut . RHCP . Fennesz . Alan Stivell . Björk . Ovo . Jay Z & Kaney West

issuu.com/feedbackmagazine.it

SIMONREYNOLDS

Page 2: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011 feedback - SETTEMBRE 2011

SIMONREYNOLDS

ARTISTA DEL MESE

TRA IL TAMIGI E L’EAST VILLAGESimon Reynolds nasce nel 1963 a Londra; è conosciuto sopratutto per i suoi scritti sull’EDM e per aver coniato il termine “post-rock”.Ancora studente di storia a Oxford, inizia a scrivere sulla fanzine Monitor, per poi passare a Melody Maker, una delle maggiori riviste musicali inglesi del tempo. Pur continuando a collaborare, nel 1990 lascia la redazione e inizia a lavorare come freelance, vivendo tra Londra e New York. Nello stesso anno pubblica il suo primo libro, Blissed Out, una raccolta di scritti dal 1980; oltre a rock, punk e derivati, inizia ad occuparsi anche di electronic dance music e di cultura rave, divenendo ben presto uno tra i massimi esperti.Dopo essersi trasferito definitivamente nell’East Village, pubblica The Sex Revolts : Gender, Rebellion and Rock ‘N’ Roll, seguito cinque anni dopo da Generazione ballo/sballo. L’avvento della dance music e il delinearsi della club culture, lavoro con il quale racconta l’evoluzione della rave music, affrontando anche il ruolo delle droghe (ecstasy in particolare) in questa (sotto)cultura. Nel 2006 esce Post-punk 1978-1984, un’approfondita analisi della scena musicale internazionale all’indomani del tramonto del punk. Reynolds evidenzia come le esperienze più interessanti del periodo ‘78-84 siano figlie proprio di una breve parabola come quella del punk; soltando due anni dopo pubblica Hip-hop-rock 1985-2008, con il quale si interroga sul rapporto tra la musica “bianca” e la musica “nera”, tra il rock underground dei Sonic Youth e il rap di Snoop Dogg. Del 2010 è invece Totally wired. “Post-punk”. Dietro le quinte, che propone le trentadue interviste che hanno rappresentato il cuore del suo lavoro di qualche anno primo. È uscito in questi giorni Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato.

Trascorso quasi un anno dal primo numero di Feedback Magazine è spontaneo voltarsi indietro e riflettere sul percorso che abbiamo intrapreso, sul suo significato e sui risultati ottenuti. Chi ci conosce ha presente il nostro modus operandi e il nostro interesse per le più svariate forme dell’arte, per quanto la musica (e quindi la critica musicale) rimanga l’oggetto principale della nostra ricerca. La nostra rivista nasce dalle domande e dagli interrogativi che naturalmente sorgono dalla percezione dell’arte, nel nostro caso, soprattutto nel momento dell’ascolto, nel rapporto che si crea tra la realtà (s)oggettiva dell’ascoltatore e quella soggettiva del creatore dell’opera. È proprio dall’incontro-scontro tra il mondo del fruitore e quello dell’artista che spontaneamente prende forma il lavoro di critica.

L’obiettivo di questo articolo sarà quello di continuare a porsi domande (che non necessariamente troveranno una risposta), interrogarsi sul senso e su un’eventuale necessità del lavoro critico, sui presupposti e le basi sui quali questo si debba fondare.Ha quindi senso, ancora oggi, la critica musicale? Da cosa è mosso il desiderio di fare una rivista? Rispetto a ieri che cosa è cambiato?Il grande cambiamento che ha investito la critica musicale è avvenuto negli anni ‘90; è in questo periodo infatti che l’arrivo dell’era digitale ha ampliato a dismisura lo scenario musicale, dilatandolo e portando alla nascita un’infinità di nicchie e sottoculture, a tal punto da non riuscire più a definirne confini e limiti. Risulta evidente quindi la difficoltà nel riuscire a focalizzare, analizzare ed orientarsi in una scena globale così vasta

e capillare.Gli effetti di questa rivoluzione hanno portato profondi cambiamenti (positivi e negativi) sia per l’ascoltatore, che per l’artista; la difficoltà nello scoprire e nel venire a contatto con nuove esperienze nate dall’altra parte del mondo non esiste più. I limiti geografici e la limitatezza delle risorse finanziarie non rappresentano più un ostacolo alla “fame” di musica dell’ascoltatore; l’unico limite rimasto è il tempo, mai sufficiente per l’ascolto dell’ingente quantità di musica prodotta e disponibile con un solo click. Da ciò deriva un forte disorientamento per l’ascoltatore, incapace quindi di approfondire e comprendere a fondo i molteplici input che riceve.Tutto questo incide in maniera pesante anche sul lavoro dell’artista; sebbene, adesso l’infinita disponibilità di musica faccia nascere in lui un desiderio di innovazione e originalità, costituendo quindi uno stimolo intellettuale importante, d’altra parte questi stessi l’approfondimento di un “discorso musicale”, lo studio e una ricerca vera e propria diventano abitudini sempre

La verità scoraggiante è questa: il decennio pop che volge al termine

è stato un passaggio a vuoto.

Se gli anni Settanta hanno avuto la disco music e il punk, gli anni

ottanta l’hip hop e gli anni Novanta il rave e il grunge, qual è stato

l’imprescindibile fenomeno musicale che ha dominato il mondo della

musica pop negli Anni Zero?

meno frequenti per l’artista, perso nel seguire i bpm di nuovi suoni e le tendenze dell’ultim’ora. Ed è chiaro quindi, come scrive Reynolds, il perchè non si riesca (o perlomeno fino ad adesso non siamo riusciti) a capire per quale corrente, tendenza o movimento verranno ricordati i cosidetti Anni Zero, dominati da fenomeni musicali effimeri

e stagionali, che (salvo rare eccezioni) non lasciano il segno; è quanto Reynolds definisce come “passaggio a vuoto”. In questo scenario si pone la figura del critico, che deve aver la capacità di orientarsi, saper selezionare, riuscire a capire ciò in cui si può investire tempo ed energie e ciò che, invece, non le merita. Si capisce quindi che l’importanza del suo ruolo sia fondamentale, perché è dal lavoro critico (sempre che venga fatto con metodo e possa essere utile non solo agli addetti ai lavori) che parte l’esperienza dell’ascoltatore, che così può scegliere di farsi guidare nella scoperta, nell’esplorazione e quindi nello studio. E proprio la critica aiuta a reagire allo stato di inerzia che investe la musica oggi, per porsi in contro-tendenza rispetto all’atrofizzazione del pensiero e del desiderio di ricerca.Il lavoro di Reynolds parte da questi intenti.

L’INFILTRATO

Nell’era delle webzine, in cui siti e blog di recensioni nascono come funghi, un critico come Reynolds diventa un interlocutore estremamente interessante. Con una rara capacità di analisi e sintesi, ha compiuto studi approfonditi, pubblicando libri che

2

Page 3: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011 feedback - SETTEMBRE 2011

Se tutto attorno a noi sta subendo un’inversione di tendenza, perchè

il caro vecchio pop dovrebbe restarne immune?

L’eccesso di musica potrebbe essere in realtà l’aspettosignificativo che definisce i tardi Anni Zero:

la sensazione di saturazione del suono, di totale sovraccarico.

hanno fatto scuola e storia, “frugando” e “infiltrandosi” nelle esperienze che hanno segnato gli ultimi 25 anni di storia musicale.Il mestiere del buon critico prevede di prendersi un tempo per scavare dei buchi il più possibile profondi e un tempo per provare a riportare l’esito della ricerca e per scoprire se le “bestioline” che hai trovato (che nessuno aveva mai osservato prima) sono coscienti del fatto che in un buco vicino ci sono altre bestioline che stanno suonando. Esistono dei tunnel che mettono in collegamento questi mondi sotterranei? Il passo successivo è quello di provare a scremare e riportare al lettore/ascoltatore/musicista ciò che merita ed il perchè di questa scelta. Se quel che si trova è semplicemente curioso e non è collegato a qualche altra realtà, cioè è fine a sé stesso, perchè dovrebbe essere di valore? Sta realmente compiendo una ricerca? Se sì, questa ricerca ha senso di esistere o no? Se mi rendo conto che esistono altre realtà, situazioni simili mi inizio a far delle domande per giungere poi a delle conclusioni. Nel caso di Reynolds, le conclusioni sono i libri che ha scritto e, probabilmente, Post-punk 1978-1984 ne è l’esempio migliore.Il lavoro del critico si basa quindi su quell’estenuante lavoro di ricerca ed attenta osservazione che alla fine porta (o perlomeno dovrebbe portare) alla scoperta di “forme di vita musicali” autentiche e valide.Ma in che posizione, o meglio, da quale postazione il buon critico dovrebbe lavorare? Come ha operato Reynolds nella sua ricerca? Leggendo i suoi scritti, la parola chiave che può venire in mente è “infiltrato”.Il riferimento è soprattutto (ma non solo) a Energy Flash: A Journey Through Rave Music and Dance Culture, libro in cui tratta delle sottoculture elettroniche emergenti in Inghilterra, dalla house alla rave; il

il quale un trentacinquenne cresciuto nell’Hertfordshire con i gruppi punk consigliati dal fratello, riesce a studiare il mondo dei rave e a riportarlo all’adolescente che, nella sua cameretta dietro lo schermo di un MacBook, è figlio ti tutt’altra cultura (musicale e non solo).Significa farsi intermediario, dare al lettore/ascoltatore/musicista i mezzi di capire, proporre una chiave per entrare in un giardino ancora inesplorato.

RETROMANIA: EMANCIPARSI DALLA NOSTALGIANel passaggio a vuoto degli Anni Zero, la tendenza alla celebrazione del passato, l’ossessione del vintage e la nostalgia di una belle époque della musica pop non possono passare inosservate. L’ultima fatica reynoldsiana tratta proprio di questo.Perchè nell’ultimo decennio sono nati un’infinita di musei, celebrazioni, cover band e rockumentari sul quel passato che tanto rimpiangiamo? Cosa spinge una generazione di artisti a ripescare, citare e ispirarsi quasi manieristicamente ai mostri sacri della storia della musica?Proprio il passaggio a vuoto, risponde Reynolds.

Bibliografia di Simon Reynolds:Blissed Out (1990)▪ The Sex Revolts : Gender, Rebellion and Rock ‘N’ Roll (1995)▪ Generazione ballo/sballo. L’avvento della dance music e il delinearsi della club culture. (2000)▪ Post-punk 1978-1984 (2006)▪ Hip-hop-rock 1985-2008 (2008)▪ Totally wired. “Post-punk”. Dietro le quinte. (2010)▪ Retromania. Musica, Cultura Pop e la nostra ossessione per il passato (2011)

Perché non sappiamo più essere originali? Cosa succederà quando

esauriremo il passato a cui attingere? Riusciranno gli artisti di domani a emanciparsi dalla

nostalgia e a produrre qualcosa di nuovo?

percorso intrapreso dal critico londinese lo “costringe” ad attraversare regioni a lui sconosciute, per lui estranee e lontane. Si sceglie quindi di analizzare con occhio esterno, infiltrandosi e cercando di entrare con delicatezza, quasi in punta di piedi, di mescolarsi per comprendere a fondo, pur rimanendo “altro”.È il metodo, decisamente efficace, attraverso

L’attuale mancanza di originalità della cultura popolare porta a cercare quelle certezze che non vedi all’orizzonte, nel passato. Il libro si sviluppa in tre sezioni: oggi, ieri, domani; dal revival della cultura hipster, l’era di Youtube e il maniacale collezionismo vintage alle aspettative e alle possibili vie di fuga, i possibili antidoti.“I still believe the future is out there”, recita l’ultima frase di Retromania, lasciando tutto un po’ in sospeso, tra la presa di coscienza della situazione attuale e la speranza che la vera novità sia là fuori, in attesa di essere scovata.

- matmo e fragorcon la collaborazione di manfo

3

Page 4: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011 feedback - SETTEMBRE 2011

Warm-House/Future Boogie

TIGER & WOODS Through The Green[RBCD02, 2011]

Avant Pop

ST. VINCENT Strange Mercy[4AD, 2011]

DISCO DEL MESE

Nel duemilasei la ventiquattrenne Annie Clark presentò il suo primo lavoro solista, con l’alias St Vincent. Questo nome enigmatico si riferisce al Saint Vincent’s Catholic Center, l’ospedale dove il poeta gallese Dylan Thomas passò i suoi ultimi giorni di vita. “It’s the place where poetry comes to die, that’s me”. Nata artisticamente alla corte di Sufjan Stevens, con all’attivo due dischi, collaborazioni illustri (come quella con Bon Iver per la soundtrack del secondo capito-lo della saga di Twilight) e un indiscusso succes-so, presenta al pubblico il suo nuovo Strange Mercy. La copertina non è un bluff, questo dis-co è realmente dotato di denti affilati che usa per mordere, con una presa leggera ma salda, fino alle ultime note. Rispetto al lavoro prece-dente, Actor, la strada che St Vincent percorre la sta conducendo verso una musicalità sem-pre più intima e orientata verso la solarità, pur mantenendo quella componente nervosa che da sempre la caratterizza. “You are all legs, I’m all nerves” così apre Chloe In The Afternoon, il primo spiazzante brano con i suoi improvvisi assoli flash di chitarra elettrica. Segue Cruel, in linea con la St. Vincent a cui siamo abituati. Un’orchestrazione stratificata e complessa con archi che sembrano presi in prestito da una col-onna sonora Disney, su uno sfondo di batteria galoppante e synth. Surgeon e Northern Lights guardano benevolmente verso la pista da ballo delle discoteche pur mantenendosene debita-mente a distanza grazie a una serie di prezio-sismi e ricercatezze. É facile immaginare Annie Clark mentre esegue le sue canzoni con un sor-risetto compiaciuto, certo non con l’intento di sottolineare un qualche fine umoristico dei tes-

ti. Piuttosto, tutta l’intelligenza che traspare dai suoi grandi oc-chi costantemente spalancati, viene trasmessa a versi, che, pur nella loro semplicità, richiedono sempre una seconda occhia-ta per comprenderne piena-mente le tematiche e il pensiero dell’artista. Hysterical Strength è un titolo che riassume molto bene l’atmosfera nevrotica che pervade l’intero disco. Questa sorta di isteria motrice non sem-pre viene messa in primo piano, più spesso resta nascosta nei dettagli, come i beat incalzanti o le distorsioni spigolose e mai banali delle chitarre. Dilettante ci trascina in un ecosistema di sonorità, piccolo ma assoluta-mente autosufficiente. Progre-dendo nella sua carriera St Vin-cent sta senza dubbio ampliando il numero di strumenti di cui si serve. Forse dobbiamo inda-gare nei suoi inizi alla Sufjan Stevens’ Band o alla Polyphonic Spree per rispondere a questa sua ricerca di una massiccia pluralità di suoni nella sua musica. La Clark, da abile polistru-mentista, confessa però che il suo primo amore rimane la chitarra, in particolare elettrica, che infatti ha in tutto il disco uno spazio maggiore rispetto agli altri strumenti. Il tutto è supportato da una grandissima abilità tecnica (confermata dai musicisti di cui si contorna: Bobby Sparks per la parte elettronica, il batterista dei Mid-lake Mackenzie Smith, il violinista Daniel Hart

e il tastierista Brian LeBarton, collaboratore di Beck) che non intacca mai la capacità evocativa dei suoni. In una recente intervista Annie Clack, paragonando i tre album che ha prodotto fino ad oggi ai suoi figli, ha dichiarato: «Il primo lo vuoi controllare in ogni suo aspetto, essere si-cura che non abbia nemmeno un capello fuori posto quando va via per scuola. Con il terzo, invece, è più qualcosa come: vuoi metterti per sette giorni una t-shirt dell’Hard Rock Cafè mac-chiata di tempera e non pettinarti i capelli? Va bene. Sii ciò che vuoi essere».

8- comyn

Sono in due, sono di Roma, nessuno conosce la loro identità e il loro simbolo è una tigre di plastica. L’anonimato e il mistero che circonda questi due producer ha sicuramente aumentato la loro appetibilità e l’ormai celebre hype. Ma questo hype non esisterebbe se la loro musica non fosse veramente calda: una miscela di disco-house americana con un occhio sempre rivolto all’immortale italo-disco, specie per la produzione. L’album è un concentrato di tutto questo e molto di più. I pezzi sono percorsi da una vena electro nei suoni delle tastiere e soul nelle voci, mentre le ritmiche non disprezzano un taglio funky a metà tra Detroit e Chicago. La musica è sociale e socievole, è il ripetersi per ottanta minuti dell’attimo in cui il DJ/producer si sente in simbiosi con chi ascolta e regala all’ascoltatore il momento in cui essere felice di stare in mezzo alla gente, il momento in cui diventare generoso. Attraverso l’utilizzo di particolari ritmi spesso inusitati, i due misteriosi personaggi cercano di reinterpretare e reinventare un suono troppe volte dimenticato, soprattutto in Italia. L’apertura è da paura con Dr. Burner, un insistente loop acceso come un faro nell’oscurità più profonda, con Don’t Hesitate,

un basso ipnotico sostenuto dalla meravigliosa voce dell’altrettanto fantomatica EM (che non può mancare in nessun progetto boogie che si rispetti) apre a squarci di tastiera di altri tempi, e Love In Cambdogia, costruita anch’essa su un basso da paura, buono per spaccare il dancefloor. La bomba del disco Gin Nation celebra dentro di sé lo status di hit underground suonata su una crociera italo, con la voce e le tastiere che si rispondono senza esitazioni e il basso che quando entra frantuma il cervello. Un pezzo con un tiro capace di ribaltare un locale, creato su un edit del celebre Music & Lights degli Imagination. La potenza di questo duo è esorbitante. Ne è prova la conclusiva Speed Of Light, sempre con la voce della magnifica EM, dove la linea vocale è trattata come uno strumento su cui lavorare, che con il suo calore dopo un’ora e un quarto di musica ti fa premere play per un altro giro.Noi di Feedback l’abbiamo recensito nel numero di Settembre, ma è fortunato chi è riuscito a passare l’estate in compagnia di questo disco. Un disco che sarà ricordato nei prossimi tempi - ne siamo sicuri - come un faro per il genere. Se gli occhi e le orecchie cercheranno tra le grinze di questi beat, di questi suoni caldi e

di questa voce indimenticabile, troveranno musica capace di fare dimenticare il luogo in cui ci si trova. La questione centrale è: “Potremmo mai essere sazi di una cosa buona?”. E mentre ci convinciamo che la risposta è probabilmente “sì”, Through The Green continua a girare sull’impianto.

8matmo

4

Page 5: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011 feedback - SETTEMBRE 2011

RECENSIONIIndie Pop

THE DRUMS Portamento[Island, 2011]

Noise/Doom/Avant-Rock

OVO Cor Cordium[Supernatural Cat, 2011]

Elettro-Acustica/Emotional Drone

FENNESZ Seven Star EP[Touch, 2011]

Pop/Rock/Funk

RED HOT CHILI PEPPERS I’m With You[Warner Bros, 2011]

Alt-Pop

BEIRUT The Rip Tide[Pompeii Records, 2011]

Gli OvO, al secolo Stefania Pedretti (Allun, ?alos) e Bruno Dorella (Bachi da Pietra, Ronin, Wolfango, nonché titolare dell’etichetta Bar La Muerte che ha lanciato tra gli altri artisti come Bugo e Bologna Violenta) assomigliano ad un cantiere in continua evoluzione, un vulcano che ribolle costantemente. Il loro sesto album, Cor cordium (“Cuore dei cuori”), ricalca l’epitaffio tombale dell’ombroso poeta romantico Percy Bysshe Shelley, e incentra contemporaneamente l’attenzione sul pulsare lavico che guida i due artisti mascherati. Mascherati sì, e anche piuttosto inquietanti, non solo nell’impostazione scenica di forte impatto (basta controllare su YouTube il video del singolo Marie, irresistibile e macabra cantilena), ma anche a causa delle cineree calate di sperimentazione doom metal e delle litanie proto-sataniche (da prendere con la dovuta

distanza) che segnano i gorgheggi canori, vere e proprie esplorazioni dello strumento-voce femminile. I rimandi potrebbero essere tanti: dai frastornanti ex-colleghi in casa Load Records Lightning Bolt passando per lo sludge metal dei Melvins fino alla cupa solidità degli Zu. La ricetta in realtà è quanto mai originale e borderline: un turbine di piatti, tamburi, stridii e corde slabbrate confluiscono in un vero e proprio affronto al gusto comune che si concretizza nella ruvidità di Nosferatu o nell’aggressività di Lungo computo e Penumbra y caos. L’esperimento OvO è ormai sempre più una conferma, destinato a riscuotere credito e ammirazione da quella coraggiosa parte di pubblico che non si lascia spaventare da ascolti difficili.

7/8- fp

John Frusciante è uscito dal gruppo. Per la seconda volta, forse quella definitiva, e per dedicarsi interamente a progetti personali. Tuttavia il disco non risente tanto della sua mancanza,

Se ancora non sapete chi siano i Beirut né che genere di musica facciano, provate a immaginarvi un gruppo indie pop prodotto da Goran Bregovic. Lo sforzo è notevole, ma il risultato non dovrebbe scostarsi molto dalla proposta artistica di Zach Condon e soci, che sin dall’uscita del loro primo album si sono imposti all’attenzione soprattutto per le fanfare di ottoni e gli innesti dal sapore balcanico. La formula di base è quella dei vari Wild Nothing, Washed Out, Memory Tapes: nostalgia a pacchi, armonie agrodolci, nostalgia a pacchi, vocalizzi caldi e pastosi, nostalgia a pacchi. E poi quelle trombe e quelle fisarmoniche che alimentano da più di cinque anni un’ondata di consenso quasi unanime e che proiettano la band nell’iperuranio dell’attuale scena indipendente, dove il loro disco “definitivo” si chiama The Rip Tide. Beh, in effetti, è proprio dalla quarta uscita sulla lunga distanza che ci rendiamo conto della vera cifra stilistica dei Beirut, è proprio adesso che possiamo affermare in definitiva che le tante belle parole spese erano un po’ fuori luogo. Condon decide tutt’a un tratto di eliminare le eccedenze e di proporre una forma più scarna dei pezzi, ma per lui lavorare di sottrazione vuol dire calare un poco la maschera, ed è così che l’ascoltatore si trova davanti ai problemi oggettivi di un’ispirazione non sempre fervida. Eccezion fatta per gli episodi di A Candle’s Fire e Vagabond, che tutto sommato inscenano abbastanza bene la nostalgia di qualche estate lontana, la musica di The Rip Tide non colpisce né il cuore né il cervello. Quindi, se ancora non sapete chi siano i Beirut, non fatene un dramma.

5-visjo

A distanza di ben tre anni dal suo ultimo lavoro solista (ovvero Black Sea), l’austriaco Christian

Fennesz ha deciso di rilasciare un 10” per la storica etichetta Touch. Nel mezzo una collaborazione riuscitissima tra il nostro, David Daniell e Tony Buck, registrata live nel 2009 e recensita nel primo numero di Feedback (Ottobre 2010), che ha fortemente influenzato il sound di questo EP. Nella prima traccia, la splendida Liminal, assistiamo infatti a un progressivo passaggio di chitarra trattata da un sound a là Endless Summer (probabilmente il capolavoro del compositore viennese) ad una folktronica cruda ma ripulita da quasi tutti gli effetti. I pezzi seguenti ritornano su eteree coordinate drone ambient: July è il suono del vuoto del cosmo, un pacifico freddo puntellato prima da piccoli detriti lontani e poi da improvvise e grumose nebulose di noise chitarristico, mentre Shift ci tiene in costante sospensione grazie ad un cinematico drone di religiosa intensità. L’effetto sorpresa lo riserva la conclusiva Seven Stars con un placido e leggero innesto di spazzole di batteria, marchiato da Steven Hess, mentre il sound torna sui conosciuti lidi da estate senza fine fennesziana. Ciò che ha reso Fennesz un maestro indiscusso degli ultimi dieci anni, dalla intensa e prolifica ricerca tra musica sinfonica, glitch e ambient, è la sensibilità compositiva, capace di accostare spesso suoni dissonanti o addirittura rumore bianco per creare sinfonie emozionali. Questo EP è probabilmente un lavoro di transizione, ma certo degno del suo talento.

7/8mr.potato

decisamente attenuata dal buon lavoro del sostituto Josh Klinghoffer, quanto piuttosto di una totale mancanza di coraggio e freschezza, ormai sempre più palese. È infatti da Californication in avanti (e sono circa dodici anni!) che seppur con ponderata lentezza i RHCP continuano a sfornare dischi per famiglie, senza spina dorsale: un rock-pop né carne né pesce da distribuire su larga scala ad un pubblico di ragazzini e casalinghe disperate. Non che ci sia da discutere sulle rinomate qualità strumentali della band, ineccepibili con o senza Frusciante. Vero è invece che la banalità vocale del frontman Anthony Kiedis, passato da un funk-rap sopra le righe a linee melodiche sempre più reazionarie, ha ormai superato i livelli di guardia. Fatto sta che all’incirca da One Hot Minute i RHCP sono impantanati in una piatta prevedibilità: l’innocua vacuità del singolo The adventures of Rain Dance Maggie

Nel 2005 la Columbia pubblica Apart, un singolaccio synth-pop buono per le radio tedesche. Una roba pesa che ci riporta agli anni ‘80 più melensi e singhiozzati (Human League, A-Ha, Erasure). Il brano finisce in un videogioco, tuttavia i newyorkesi Elkland non sfondano. Il cantante, frangetta e vitino di vespa, fonda i The Drums e punta dritto al nostalgico pubblico inglese. Cambiano coordinate e san-tini: il suono è malinconico ma le armonie vo-cali solari, in una riedizione balneare dell’indie chitarristico degli Smiths (con poco dell’estro di Marr ma una selva di calchi di Morrissey e Rourke) e delle ritmiche dei New Order. Il NME li coccola e i singoli sono cliccatissimi (Let’s Go Surfing e Best Friend). L’omonimo esordio (2010) entra però in avaria dopo una manciata di pe-zzi. La nuova raccolta dei Drums esce in questi primi giorni di autunno: tanto il gruppo è perso nella Manchester di metà anni ‘80 che dello spiritaccio estivo che fu non c’è traccia. L’hype è sfumato e la stampa arretra, eppure si tratta di un lavoro vagamente più robusto. Book of Revelation fa sorridere ed è incalzante, l’ottima Days è una sintesi scheletrica di The Wake e Field Mice, il singolo Money azzecca un ritor-nello coi fiocchi (“I want to buy you something/ but I don’t have any money”) e la gag I Need a Doctor (con striature di XTC) ci fa rifiatare. Al-cuni pezzi emergono e altri imbarazzano (su tutti la ballata per synth Searching for Heaven e la superflua Please Don’t Leave). Le idee sono poche ma salde, e proprio per questo qualche sassata arriva a bersaglio. Trattasi di musica per smartphone, accontentiamoci.

5/6 - bobiraspati

5

Page 6: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011 feedback - SETTEMBRE 2011

Psichedelia Aborigena

SNOWMAN Absence[Dot Dash, 2011]

Elettronica/Ambient

JÜRGEN MÜLLER Science Of The Sea[Digitalis, 2011]

Rock

THE HORRORS Skying[XL, 2011]

Psych-Rock

THE FLAMING LIPS WITH LIGHTNING BOLT S/T[Columbia/Sony Music, 2011]

la dice lunga sul deprimente stato di forma del gruppo, che si aggrappa ai riff funky di Ethiopia e Goodbye Hooray per rievocare i bei vecchi tempi di sperimentazione e improvvisazione. Non si discute sulla credibilità della produzione, guidata dal solito Rick Rubin, ma sin dal primo minuto di Monarchy of roses si sa già fin troppo bene cosa aspettarsi: sempre grandi sì, per non dire piuttosto vecchi ed esausti. Insomma, una noia mortale.

4- fp

Proprio come nel caso di Alan Stivell (per il quale vi rimandiamo alla sezione Rovistando in Soffitta), ascoltando Absence si ha la sensazione di trovarsi di fronte a degli artisti particolarmente legati alla propria terra di origine. Stavolta non si tratta di attaccamento sentimentale, però (tant’è vero che gli Snowman, originari di Perth, si sono trasferiti a Londra ormai da tre anni): sono esclusivamente le radici del loro sound ad essere ben piantate nel terreno arido dell’outback australiano. Che in questo caso risulta estremamente fertile. In questa loro terza opera mi sembra infatti che i quattro mettano a punto un progetto quantomai ambizioso (e forse persino involontario). Creare un nuovo canone di musica per l’Australia, ridisegnare l’immaginario sonoro della propria terra, renderlo appetibile ai nostri gusti musicali: questo vuole fare Absence. Il punto è: ci riesce? La risposta l’abbiamo subito al primo brano, forte e chiara: semplice e quadrata, Snakes and Ladders (dal titolo emblematico) è una degna introduzione al mood generale dell’opera: batteria secca e basso a guidare la sfilata, voci effettate mandate in loop e chitarra a svolgere il tema principale, violino e synth sullo sfondo col compito di creare atmosfera. La prima parte del disco è prevalentemente legata a questa struttura. Con Hyena e White Wall, allucinate e ipnotiche cavalcate nel deserto, il disco ci regala alcuni dei suoi momenti migliori e ci prepara ai due pezzi successivi: Seance e A sono il cuore sciamanico dell’album. Rarefatte e esoteriche (la ritmica perde importanza, synth e violino la acquistano), le tracce si snodano danzando ritualmente e instancabilmente: gli Snowman giungono a ricordare dei Deadcandance fatti di acido. Giunto al colmo, il disco frena quindi leggermente ripiegando su un sound etereo più convenzionale e non regala più vere e proprie perle fino alla conclusiva title track, estenuante immersione nella barriera corallina dal finale catartico e liberatorio. Il viaggio è finito. Siamo ustionati dal sole, abbiamo le palme dei piedi ferite, la radice magica degli aborigeni ci ha lasciato storditi. Ma siamo assai soddisfatti.

7/8- samgah

I Flaming Lips sono in età da semolino ma la cosa non gli va giù, e così ingollano l’ennesimo

gerovital di una carriera quasi trentennale. Se gli anni ‘90 avevano dato luogo ai concerti per tubi di scappamento e autoradio nonché all’opera Zaireeka (quattro CD da suonare assieme), il 2011 offre ben cinque variazioni sul tema - una sinfonia per dodici cellulari, un EP racchiuso dentro un teschio di marzapane commestibile e ben tre collaborazioni eccellenti. Dopo la catastrofe di At War With the Mystics (2006), i Lips sono infatti diventati i più grandi vampiri del rock contemporaneo. La loro carriera, già costellata di plagi e ruberie (Take Meta Mars era Mushroom dei Can, Fight Test la Father and Son di Cat Stevens, i primi tre dischi un collage di riff fregati a Who e Led Zeppelin), mò è come abbrancata alle giovinezze altrui: Karen O e gli MGMT in Embryonic, Stardeath and White Dwarfs per la cover integrale di Dark Side of the Moon, qualche mese fa la psichedelia retrò di Neon Indian, l’hip-hop astratto di Prefuse 73 e adesso il frenetico duo basso-batteria Lightning Bolt. Sebbene nata da un’improvvisazione durante un soundcheck, la musica racchiusa in questo dischetto è stata registrata dai due gruppi in separata sede. Nel lato A è il gruppo di Oklahoma City a tirare le redini: I’m Working at NASA on Acid è una litania per chitarre acustiche, metà Morricone e metà Pink Floyd, che al terzo minuto deraglia in un marasma di distorsioni e rullate, I Want to Get High But I Don’t Want Brain Damage è uno scherzetto rumoroso attorcigliato su un giro di basso rotondo. Il lato B, condotto stavolta dai Lightning Bolt, stupra le melodie vocali di quei pezzi: NASA’s Final Acid Bath è un consueto free-jazz del duo, qui accerchiato dallo spettro di Wayne Coyne e inebetito da drone assortiti, mentre I Want to Get Damaged, But I Won’t Say Hi è come un remix demenziale e poliritmico di quanto sparato nell’altro lato. L’ascolto può divertire ma non esalta (l’integrazione non pare granché riuscita), tuttavia certifica una vivacità artistica invidiabile.

6- bobi raspati

E’ interessante quando la leggenda/finzione si confonde con la realtà: esce infatti per Digitalis il disco Science of The Sea di un tale Jürgen Müller, caratterizzato da forti sonorità ambient synth-driven, ripescaggi new-age e kosmische muzik. Fin qui tutto bene; questa particolare miscela di musica strumentale ben si presta a un concept album sui fondali marini, anzi è quasi spontaneo immaginarsi onde, schiuma, bolle e delfini durante l’ascolto. Poi ti accorgi che il disco è considerato come ristampa. Il mistero si infittisce: ma chi è questo Müller? Da dove salta fuori? L’etichetta discografica ci “racconta”: compositore autodidatta che sul finire degli anni settanta stava studiando oceanografia

e biologia marina all’università di Kiel, in Germania. Dopo aver comprato molti strumenti elettronici (che a quel tempo erano tutt’altro che abbordabili economicamente), gli venne la brillante idea di stiparli nella sua casa-barca e salpare per l’oceano aperto. Durante il viaggio compose vari pezzi e al suo ritorno il desiderio era rivendere la musica per documentari o film, ma non ci riuscì. Stampò allora un centinaio di vinili (forse dopo essersi accorto di aver speso tantissimo, risparmiò sulla distribuzione) regalandoli a parenti e amici.Dopo trent’anni, finisce nelle mani della Digitalis, che decide di rimasterizzarlo e pubblicarlo.Ma sarà vero poi? Musicalmente i suoni e le composizioni sono tremendamente attuali (come se la polifonia dei synth ci fosse sempre stata), per niente inferiori a quelle Emeralds-iane, il cui disco (Does It Look Like I’m Here?), che contribuì alla (ri)nascita di questo sottogenere, è però di un anno fa.Ideale per chi soffre il caldo (o la fine dell’estate), desideroso di immergersi, musicalmente e non, in reconditi fondali marini o insolubili misteri.

7- mr.potato

Esaurita l’ispirazione dark che aveva indirizzato nome, taglio di capelli e due album, gli Horrors provano a spaventarci a morte con 54 minuti di noia. I ragazzi, adorati dalla stampa inglese, si erano vestiti da zombie per quattro anni. Il vivace esordio Strange House era un garage-rock infarcito di riferimenti al post-punk più cadaverico (Cramps e Bauhaus su tutti) e il seguito Primary Colours tentava una variante ombrosa dello shoagaze. La virata estetica di questo album è evidente, la metafora scontata. Laddove era tutto nero, un cielo denso di nuvole eppur luminoso schiarisce gli orizzonti musicali del quartetto. A star sotto il sole le idee sgocciolate nei primi due dischi evaporano tra le suddette nuvole. Il metodo rimane invece lo stesso: buttarsi a peso morto su un marchio della storia recente del pop-rock e profanarne l’immaginario (stavolta si rinvengono le albioniche patacche di Psychedelic Furs, Stone Roses, Chamaleons e Slowdive). L’inespressivo vocione di Faris Badwan, un Ian Curtis di terza mano, tenta di adeguarsi soffice alle nuove atmosfere dream-pop. I riff secchi degli esordi sono mutati in dilatazioni ariose (Dive In banalizza i primi Verve), il synth arpeggia stucchevole come nei tardi Echo & The Bunnymen (I Can See Through You si spinge ben oltre) e la batteria ricalca tutti i ritmi della Manchester che fu (e dai di charleston in levare, vedi la neworderiana Wild Eyes). Abbassati i volumi e rallentati i tempi, i limiti compositivi del gruppo saltano però all’occhio. Arrivati in capo al disco si constata che in versione technicolor le segrete degli Horrors sono solo scantinati fetidi di muffa. Tenetevene alla larga, e piuttosto rintracciate un po’ dei gruppi citati.

4/5- bobi raspati

6

Page 7: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011 feedback - SETTEMBRE 2011

Crossover

THUNDERCAT The Golden Age Of Apocalypse[Brainfeeder, 2011]

Disco/Punk/Funk, Rinascita DFA

THE RAPTURE In The Grace Of Your Love[DFA Records, 2011]

Drone/Post-Rock

BARN OWL Lost In The Glare[Thrill Jockey, 2011]

Accolito del maestro Flying Lotus, possessore d e l l ’ e t i c h e t t a Brainfeeder e co-produttore di questo disco, Stephen Bruner, aka Thundercat, appariva difatti nel singolo Mmmhmm contenuto nel calderone Cosmogramma. Adesso arriva la prova solista su lunga distanza. Ascoltare il disco è come essere proiettati di peso in un appartamento vintage misto ‘70/’80, con la tipica carta da parati, poltrone di plastica dura dai colori sparati, lampade lava e un tappeto finto persiano, tutto peloso, tanto kitch. Il nostro è lì, vestito da indiano pellerossa seduto a gambe incrociate con il telecomando in mano, pronto ad accendere la tv. La sua ragazza, una stangona afroamericana, con la caratteristica capigliatura, con addosso paillettes e stivali argentati, ci invita a metterci comodi. Il disco inizia e la tv viene accesa: è la sigla di Thundercats, cartone animato ripescato da quei ruggenti anni: Thunder! Ooohhh! Dopo quest’intro, inizia Daylight, pezzo forte che parte sghembo in pieno stile: si capisce subito che la musica è un mash up di mutanti beat hip hop contemporanei e superficiali melodie soul, ove spesso vengono aggiunti anche vocalizzi in falsetto, Is It Love? Fleer Ultra o Walkin’ sono pezzi strumentali volutamente pacchiani, costruiti con divertita maestria, in cui si mescolano fusion jazz e il funky progressive più ignorante. C’è spazio pure per una cover: For Love I Come di George Duke, e chi sennò? Un disco che è un cortocircuito continuo da gustare con leggerezza e sorriso sornione, ma che sa rivelare un complicato e serio gusto per gli ibridi, così come piacciono a FlyLo.

6/7- mrpotato

Hip Hop

JAY Z & KANYE WEST Watch The Trone[Roc-a-fella/Roc Nation/Def Jam, 2011]

Non serve più a niente nascondersi: oramai è chiaro a tutti, io amo Kanye West. Attendevo ansiosamente l’uscita di questo disco da un bel po’ perchè volevo confermare la

tesi che avevo maturato dopo l’annuncio di questa collaborazione stellare, e cioè che la monumentale opera dei due rapper di colore più ricchi e megalomani degli Stati Uniti sarebbe stata un clamoroso buco nell’acqua. Mi ero però dimenticato che Kanye prende tutto molto seriamente ed in meno di un anno eccoti il disco buono per sconquassarti le casse della macchina con stile. Le due personalità dei rapper si incontrano alla perfezione senza mai pestarsi i piedi (difficle considerando l’ego di entrambi) e anzi, mentre uno fa della ricerca sonora e dell’innovazione un marchio di fabbrica riuscendo e creare sempre nuovi sample e beat dannatamente barocchi ed esagerati, l’altro scrive ed interpreta alla perfezione tutti i percorsi musicali che gli vengono affidati. Molte le tracce degne di merito, come Ni**as

in Paris, That’s my Bitch, Welcome to the Jungle e il grande tributo Otis, che fa riaffiorare le origini black rappando sopra un vecchio disco del grande Otis Redding. Queste e altre tracce compongono un disco solido, divertente e innovativo che deve però scontrarsi con la solita dose di commercialità e scontatezza richiesta dalle etichette nelle collaborazioni importanti che della musica, quella vera, se ne fregano. Si cade così un po’ in basso con tracce come Lift Off, H.A.M, Made in America,che più che divertire pensano a vendere. Maledetti soldi.

7 - w

L’etichetta DFA di James Murphy aveva bisogno di un disco come questo e i Rapture avevano bisogno della DFA per tornare ad alti livelli. Nel 2003 in molti gridarono al miracolo quando l’etichetta di LCD Soundsystem licenziò Echoes, disco d’esordio del gruppo, un concentrato di post-punk a tinte fortemente funky modellato sul suono di gruppi come i Gang of Four e reso ancora più potente dalle scorie new wave per basso e tastiera. Il successo fu grande e il disco successivo, Pieces Of The People We Love, uscì per la Universal. Il risultato non avrebbe potuto essere peggiore: la carica più aggressiva del gruppo si era affievolita, rifugiandosi in un indie-rock molto scarno e poco interessante. In The Grace Of Your Love torna ai livelli del loro primo lavoro. In cabina di regia si siede Philippe Zdar, metà di Cassius e ingegnere del suono dei Phoenix; ciò che c’è da aspettarsi è quindi un suono pieno di synth analogici e circolari, suoni che escono da tempi passati. Gli undici brani del disco sono forti, stentorei, abbaglianti e rabbiosi. Basti la Sail Away d’apertura, quasi urlata da Luke Jenner, squarciata poi dall’ingresso dei synth, per capire quale sarà l’andazzo del disco. Nella parte centrale si sente l’apporto di Zdar in pezzi-bomba come la title-track e Never Die Again, schegge disco-club aggressive al punto giusto, inebriate da tocchi di concreta musica dance. Si sfila così fino alla conclusiva How Deep Is Your Love, un tour de force ripetitivo che non trova mai una chiusura e che vola direttamente in Paradiso con l’ingresso del sax nella parte finale. I ragazzi hanno messo la testa a posto, si sono ripresi dalla superbia del secondo disco e ne hanno confezionato uno che commuove per la sua sincerità e fa sognare per la sua potenza. Welcome Back!

7/8- matmo

Memori della Kosmische Musik dei Tangerine Dream e del post-rock d’ambiente à la Earth, i Barn Owl di Lost in the Glare ci offrono la loro personale i n t e r p r e t a z i o n e

dell’universo. Tra delay infiniti, spunti minimalisti e moderate sferzate distorte, la formula si rinnova a stento rispetto al precedente Ancestral Star. Mentre il raga in slow-motion di Devotion lascia aperti spiragli interessanti, le altre canzoni si rifugiano spesso, infatti, in soluzioni già ampiamente sviscerate: chitarra sognante, basso e fiati dove capita, batteria a suggellare i momenti più drammatici. Che il duo californiano si sia preposto un obiettivo troppo alto lo si intuisce andando avanti con gli ascolti: la coltre di delay sembra celare una sostanziale piattezza d’idee, il ricorso alle sonorità orientaleggianti (con tanto di tanpura e gong), a conti fatti, un forzato tentativo di far proprie le atmosfere mistiche e spirituali dei Popol Vuh. Un discorso a parte merita invece Temple of the Winds, nella quale i momenti di sospesa drammaticità e i crescendo dronici trovano il giusto equilibro, lasciando spazio alla disincantata malinconia di uno scenario post-apocalittico. A rompere le (poche) uova nel paniere ci pensa però la conclusiva Devotion II, la cui dissonante scarica di distorsioni finale, in assoluto contrasto con l’estetica di tutto il lavoro, pare un patetico tentativo di chiudere il disco in solennità: il capolinea di un viaggio che, ahinoi, non è mai cominciato.

5- zorba

Rap/Electro Hop

CUNNINLYNGUIST Oneirology[QN5, 2011]

album, Oneirology, preannunciato per mesi da una copertina accattivante, una specie di Edward Hopper scolorato, più notturno e onirico del solito. L’eco di Biggie Small e qualche scratch sono l’ultima traccia di vero hip hop rimasta in faretra al trio. Lontani i tempi di quando Deacon the Villain e Natti rappavano con Masta Ace, ora preferiscono la compagnia di Anna Wise dei Sonnymoon. Al produttore KNO, abbandonati i campionamenti di Digable Planets, sono rimasti i tappeti sonori electro hop, consoni a un deciso movimento verso un pubblico indie-kids. La citazione del prologo serve a introdurre l’originalissimo tema sul quale si tesse l’album, il mondo dei sogni, con tanto di progressione da Predormitum a Hypnopomp e chiusura con citazione di Shakespeare (“life is but a dream”!). Voci femminili e coretti intimistici, arpeggi di chitarra e testi accattivanti, atmosfere come-ve-le-immaginate. Il tema nasconde, e la copertina tradisce, l’intento di parlare di desiderio sessuale (femminile, of course), nell’abbandono dei freni inibitori proprio del sonno (ma il nome stesso del gruppo era già un programma). I CunninLynguists si confermano abili scrittori di rap e veramente astuti nel confezionare un prodotto che forse aprirà loro il pubblico dell’ascolto da camera ma che, mancando di quel tantino di cattiveria («nothing is good unless you play with it and all that is good is nasty», diceva George Clinton), li condanna a perdere contatto con il mondo di strada che ha tenuto in vita l’hip hop per più di trent’anni. Persa la forza del flow, del mondo dei sogni rimane il senso ultimo, il sonno.

5 - ghostwriter

“It was all a dream”, recitava Notorious B.I.G. raccontando da dove era partito per arrivare dove era arrivato. E’ il verso campionato dai CunninLynguists per il prologo del quinto

7

Page 8: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011 feedback - SETTEMBRE 2011

ROVISTANDO IN SOFFITTA Celtic Folk Revival

ALAN STIVELL Live À L’Olympia[Fontana, 1971]

Hardcore Punk/Alternative Rock

THE MINUTEMEN Paranoid Time[SST, 1980]

Avant Slo Electronic/Bjork’s Personal Vocal Style

BJÖRK Vespertine[Universal, 2001]

l’infaticabile Björk Guðmundsdóttir tornava con un disco inedito dopo quell’ Homogenic del 1997 che l’aveva trasformata da ragazzina pixie dei primi dischi a donna sicura di sé. Non era semplice andare avanti dopo quel disco esuberante che l’aveva consacrata come artista stellare, e aveva regalato ben cinque singoli estratti dalle dieci tracce del disco. L’attenta artista islandese ne era consapevole e sceglieva quindi la via opposta, dando vita a un disco introspettivo, crepuscolare se non oscuro, e visivamente, oltre che musicalmente, impressionante e curato. Come d’abitudine uno stuolo di collaboratori (sapientemente scelti): da Mark Stent al missaggio a Matthew Helbert e al duo Matmos alla programmazione, dall’arpista Zeena Parkins a Vince Mendoza, fino ai designer parigini M/M. «I was bored of big beats. I’d listened a lot of it, to drill’n’bass, a lot of Rephlex stuff, the most mental cut-up shit that you could find. This is more electronic folk music, music for the home» - diceva al tempo. L’avvio lo dà Hidden Place con il suo iniziale fare placido, salvo poi schiudersi con un vertiginoso coro, il tutto in salsa trip hop. Segue uno dei pezzi più intimi, personali ed emblematici: Cocoon, letteralmente “bozzolo”. Una sottile e fragile ballata, più che cantata sussurrata, sotto un tappeto musicale/manto di neve di marchio Matmos (in Unison ancora più preponderanti). E’ oltre la semplice forma canzone in quanto non possiede un preciso ritornello ma vive delle parole e dei respiri di Björk, come una religiosa confessione. Tutto il disco è sottovoce, ogni traccia un micromondo sepolto sotto la neve. E’ erroneo parlare di minimalismo poiché il disco è pieno di particolari e dettagli. E’ richiesta infatti una particolare attenzione, se non sensibilità, durante l’ascolto, per poter godere appieno le lievi sfumature disseminate. Parlare di tracce singole è riduttivo, la magia che il disco sprigiona è superiore alla somma delle parti singole, anche se pezzi come Pagan Poetry potrebbero tranquillamente camminare sulle proprie gambe; assolutamente da vedere il video che accompagna la canzone, controverso ed elegantissimo, come l’abito di Alexander McQueen. “For so long I wanted to whisper. It was a watercolour as opposed to an oil.” Nell’attesa del suo prossimo disco, intitolato Biophilia e in dirittura d’arrivo (10 ottobre), colmo di patologica e spasmodica aspettativa, quale migliore occasione per rispolverare o ascoltare ex novo questa brillante e fredda gemma?

- mr. potato

dell’autunno, anche se noi esausti giullari con l’odore d’estate ancora in circolo facciamo finta di non accorgercene- ci permettono di prolungare ancora le nostre vacanze, almeno nella dimensione dei sogni. Basta poco, uno spiffero di vento gelato, un cucù rapido di sole dalle nubi, prima di essere da loro inglobato di nuovo: la mente può allora oltrepassare il continente d’un balzo e correre alla Bretagna, alla Cornovaglia, all’Irlanda, a strani druidi con le barbe bianche, a file e file di misteriose pietre infitte nel terreno, agli acquazzoni che lasciano dietro di sè silenzi tombali dai quali solo un cinguettio affannato ha il coraggio di riemergere. Se volete poi accompagnare alla vostra esperienza onirica un adeguato corredo sonoro il consiglio è quello di munirsi dell’opera omnia di Alan Stivell, bretone, arpista, cantante, innovatore e tradizionalista. A Stivell va soprattutto il merito di esser stato tra i primi a dare nuovo impulso alla diffusione internazionale della tradizione musicale celtica, fino ad allora perlopiù confinata nel triangolo atlantico dov’è nata. La prima uscita che lo pone sotto la luce dei riflettori è Renaissance de l’Harpe Celtique (1971), che contiene e due lunghe suite medievaleggianti Ys e Gaeltacht. La contaminazione con il rock è qui ancora inesistente e verrà attuata, ancor prima e ancor di più che su Chemins de Terre (1973), nel concerto-capolavoro del ‘72 Live a l’Olympia. Nel celeberrimo teatro di Parigi Alan compie la scelta che lo renderà inviso a molti, ma adorato da molti di più. Fa entrare sul palco, accanto a se, chitarra batteria tastiere e chipiùnehapiùnemetta e, dopo la meravigliosa intro per arpa e archi The Wind of Keltia, attacca la spina. Da allora in poi sarà tutto un cavalcare attraverso una Keltia mai così vivida. Non ci si confonda, però: malgrado l’elettrificazione, il merito è ancora soprattutto di Stivell. Se come arpista avevamo già avuto modo di apprezzarlo nelle opere precedenti, è infatti solo in questo concerto che decide di mostrarci le sue doti di cantore. La deformazione delle parole in mugolii esoterici, la pronuncia strascicata, il tono grave e druidico che ai nostri orecchi rende i versi simili a formule magiche sono marchi di fabbrica di questo bardo dell’era moderna. Alcuni pezzi sono lirici (The Trees they Grow High, Telenn Gwad/The Foggy Dew, Tri Martolod), altri quasi tribali (Tha Mi Sgith, An Alarch, Kost Ar C’hoad), altri ancora celestiali e trasognati (An Durzhunel, The Wind of Keltia): tutti però contribuiscono a farci fare un passo avanti nel nostro tour onirico della Keltia, segno dell’immenso amore per la sua terra che Stivell è riuscito a infondere in questa serata parigina.

- samgah

in the house. Econo childcare». Influenze jazz? «We never heard jazz until punk. We had no idea». A diciott’anni l’amore per il punk dei Wire e a 22 il gruppo con George Hurley (batteria). Primo disco extra-Black Flag della STT di Greg Ginn, Paranoid Time esce nel 1980. Una perla, minuta come tutto all’intorno, a cominciare dal nome: Minutemen, le milizie ad azione veloce che combatterono contro le truppe del re nella guerra d’indipendenza americana. Truppe veloci perché minute, taglienti come il punk hardcore. Piccolo il disco, un sette pollici. Brevi i brani, sette per 6 minuti e mezzo, alla faccia dell’«Extended Play». Ristretto l’organico, basso-chitarra-batteria. Il titolo è indicativo del clima che si respirava quando la terza guerra mondale era nuovamente alle porte, vent’anni dopo la Baia dei Porci. Cosa capivano i giovani di San Pedro ascoltando il disco? Che era punk hardcore. Che i tre si conoscevano bene. Che la musica stava in piedi da sola, senza prime donne tra gli strumenti. Che diversamente dai Black Flag potevano trasmettere inquietudine, insaziabilità, ironia e consapevolezza anche solo usando le parole. Si comincia con Validation e The Maze, 40 secondi ciascun brano, tanto per scaldare gli amp. Poi Definitions che per i primi 40 secondi propone solo parole incomprensibili, almeno quando non attacca il bum-cha-bum-cha di Harley e il “Tired of your dictionary!” urlato da D. Boon. Il primo brano memorabile è la strumentale Sickles and Hammers, dove il basso di Mike Watt detta la linea come un serpente che balla la tarantella, e la chitarra acida di D. Boon fa da controcanto. Sulla B-side più politica, Fascist è il secondo grande protagonista, ma con un testo comprensibile: “Don’t preach their structure, their society, perverted ideas of reality... The state relies on the working man, they praise the party and the fatherland, they all reel to the party elite, all enslaved to the fascists”. Si può persino intuire che Watt e Boon abbiano ascoltato Woody Guthrie e Bob Dylan. A giudicare dalle voci di sottofondo, Joe McCarthy’s Ghost sembra esser stata scritta all’ultimo momento, ma quando parte conferma che i tre possono suonare a occhi chiusi. “Can you see the enemy? Can you point your finger? Can you prove your loyalty?” - i testi non sono meno potenti della sezione ritmica. Chiude Paranoid Chant, a spiegare il titolo: “I keep thinking of World War Three!”. Ma era solo il primo EP, grazie a Dio.

- ghostwriter

Le giornate incerte di nuvole e sole, di temporali e sudate improvvise che ci a c c o m p a g n a n o lungo quest’inizio settembre -e che certamente sono degno preludio

Come comincia la musica. Racconta Mike Watt (basso) che era stata la madre di D. Boon (chitarra) a proporre ai ragazzini di formare una band: «The whole idea of the band was to keep us

Reduce da u n ’ e s p e r i e n z a sofferta come Dancer In the Dark del regista Lars Von Trier, quale protagonista e autrice delle musiche (raccolte in Selmasongs),

8

Page 9: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011 feedback - SETTEMBRE 2011

9

DEEP INSIDEARCA PUCCINI

CALIGARI 2011Dal 11 al 18 settembre si terrà a Pistoia la quarta edizione di Arca Puccini, come ogni anno ricco di eventi e appuntamenti interessanti; il programma del festival è disponibile su www.nevrosi.org/arcapuccini.Alle 21.00 di sabato 17 settembre, presso il teatro “Bolognini” di Pistoia (ingresso libero), è in programma piccolo esperimento produttivo che vedrà coinvolti alcuni musicisti italiani, che nei due giorni precedenti si concentreranno in una breve residenza presso il teatro “Il Moderno” di Agliana per definire insieme il programma musicale della serata del 17, guidati dall’immaginario innescato dalla visione del classico Il Gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene (1920). Il concerto andrà in scena all’interno di un allestimento luminoso e visivo al quale lavoreranno Marco Smacchia, il disegnatore-grafico che da due anni cura la produzione dei materiali del festival e con i videomaker InFlux.Vediamo di conoscere meglio chi saranno i componenti del “super-gruppo”.

JEALOUSY PARTY

Non sense, ironia, poutpourry vocale, melting pot sonoro, uno, zero, x. Elettronica da citofono. Frullatori e shaker mescolano testi e suoni decoupati. Da Firenze arriva il nucleo principale dei Jealousy Party composto da Roberta WJM aka WJ Meatball con mixer, JP Set (cd, md, microfoni, percussioni), Mat Pogo con mixer, voci reali e voci registrate, Edoardo Ricci al sassofono contralto e soprano, clarinetto basso, trombone; negli anni hanno contribuito al progetto anche Jacopo Andreini batteria e percussioni, Andrea Caprara basso, Alessandro Boscolo mixer, suono, registrazioni, missaggio, master, Gimmy Gelli con laptop e mix, Stefano Bartolini al sassofono baritono e tenore. Attivi dal 1995, pubblicano Now nel 2006 e Again nel 2008 sempre per Burp Enterprise. Nel 2009 lanciano il progetto Plus, che offre al pubblico il disco dal titolo JP+Eugenio Sanna, prodotto da Burp Publications e Setola di Maiale, e seguito da un breve tour nel 2010. Mercato Centrale è la loro fatica più recente.

http://www.myspace.com/thejealousyparty

ALESSANDRO FIORI

Alessandro Fiori canta, suona il violino, recita, diplomatosi all’accademia di arte drammatica Piccolo Teatro Città di Arezzo, dipinge e scrive (sul suo sito si possono trovare poesie e racconti); Fiori si avvicinò giovanissimo alla musica e insieme a Michele Orvieti e Gianluca Giusti è membro fondatore dei Mariposa. Violinista di Andrea Chimenti e Paolo Benvegnù, dopo l’esperienza a fianco del compositore Enzo Brusci all’interno di TIMET, fonda il supergruppo Amore nel 2004. Da qualche anno collabora con Alessandro Stefana e con Marco Parente, con quest’ultimo nel 2009 forma il duo Betti Barsantini. Attento a me stesso, edito per Utrovox Records, è il suo primo lavoro solista, album nel quale tornano sia Stefana come chitarrista, sia Parente come batterista, con l’aggiunta di Enrico Gabrielli ai fiati. L’ascolto libera l’orecchio dai luoghi comuni e con morbidezza barocca lascia a bocca aperta e labbra fredde.

http://www.alessandrofiori.net

FATHER MURPHY

Pop psichedelico, lamenti e preghiere, questo è lo stile dei Father Murphy, band trevigiana attiva dal 2003.I Father Murphy sono Freddie Zanatta (voce, chitarra), Chiara Lee (voce, keyboards, percussioni), Vittorio Demarin (batterie, viola, voce). Si muovono all’interno della Madcap Collective, un’etichetta indipendente nata a Treviso otto anni fa, che raccoglie anche Comaneci, Figliotucano, Franklin Delano, Gomma Workshop (progetto parallelo di Vittorio Demarin), altri. La discografia dei Father Murphy è composta da otto album, loro brani sono presenti in varie compilation Madcap; con il regista Alessandro Aronadio (autore del loro primo videoclip) hanno collaborato alla realizzazione della soundtrack del film Due vite per caso. No room for the weak è il loro ultimo album, musica per l’apocalisse: non c’è salvezza.

http://www.myspace.com/reverendmurphy

RICORiccardo Gamondi alias Rico è un tecnico del suono e titolare dello studio di registrazioni Fiscerprais (www.fiscerprais.com); ha lavorato per OVO di Bruno Dorella e Stefania Pedretti (seguendoli durante il loro tour europeo), Bugo, Miss Violetta Beauregarde, Eterea Post Bong Band, solo per citarne alcuni. Inoltre concepisce i beat sui quali si sviluppa il flow di Napo, col quale fonda Laze Biose nel 2002 e Uochi Toki successivamente. Come Uochi Toki infatti ha curato e realizzato sei album, prodotti dal 2003 al 2010. In veste di beatmaker ha collaborato pure con Zona MC. Si diletta nel far urlare un campionatore korg.

http://www.myspace.com/uochitokibiografie a cura di Bernardo Brogi

foto

di L

oren

zo Ca

ppel

li

Page 10: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011

BRUNO MADERNAUN CORPO DI NASTRO MAGNETICO PER UNA VOCE UMANABruno Maderna (cognome che prese dalla madre nubile, quello paterno era Grossato) nasce a Chioggia il 21 Aprile del 1920. Fin dalla più tenera età manifesta una notevole predisposizione per la musica. Si diploma al conservatorio di Roma sotto la supervisione di Alessandro Bustini (docente comune a Goffredo Petrassi). Si perfeziona con Gianfrancesco Malipiero. Nel 1952 partecipa ai corsi estivi di musica a Darmstadt in compagnia di Boulez, Nono, Messiaen, Cage, Stockhausen, Pousseur. A metà degli anni ’50 fonda insieme a Luciano Berio lo Studio di Fonologia Musicale a Milano. Morirà a Darmstadt il 13 Novembre 1973. Bruno Maderna è stato un musicista che ha saputo ricoprire ruoli diversi nei vari ambiti della musica colta: compositore (e su questo suo ruolo mi concentrerò nel breve articolo) e direttore d’orchestra (esecuzioni di Mahler, Wagner, Debussy). Egli ha saputo mettere in primo piano la propria umanità, epicentro delle sue coltivate esperienze di studio e di sperimentazioni: musica elettronica, musica concreta, dodecafonia e musica seriale. Ha abitato una moltitudine di generi senza stabillizzarvisi definitivamente per divenire lui stesso la loro casa. Uno dei suoi più grandi contributi è stato nell’ambito della musica elettronica. Queste sue composizioni saranno per me l’oggetto d’ispirazione in questo articolo. Facciamo un breve passo indietro quando a Venezia nel ’64 è stata presentata ed eseguita per la prima volta l’opera Iperione (tratta dal testo di Hoelderlin). Qui Maderna si avvale del grande flautista Severino Gazzelloni. La rappresentazione lirica simboleggia la lotta tra il Poeta (l’ Uomo) e il Mostro-Macchina (la civiltà della Tecnica, del Calcolo, della

Razionalizzazione). Questa lotta trasposta esplicitamente in Opera altro non è che il passo successivo della lotta implicita durante il lavoro di composizione dell’autore. L’interrogativo maderniano, in breve, può essere espresso così: come avvalersi della tecnica compositiva, musicale, strumentale, senza lasciare che l’uomo che vi sta dietro passi in secondo piano rispetto alle nuove tecnologie e strumentazioni (composizione aleatoria, effetti, clusters, ecc.)? Pezzo celebre è il brano Musica su due dimensioni (1952) per flauto, percussioni, e nastro magnetico. Avvalendosi ancora una volta (e molte altre ancora) della bravura di Gazzelloni otterrà un brano composto con metodo semi-improvvisato: registrare l’esecuzione del flauto che suona sopra i solchi scelti

studio della sintassi musicale è il risultato dell’opera dal titolo più che chiaro nelle sue intenzioni Syntaxis (1957): un pezzo di musica elettronica. Una prova compositiva, e non tanto di qualia sonori: la grammatica maderniana oscilla tra la dodecafonia, l’alea di Xenakis e la serialità di Boulez dando prova di un vero e proprio eclettismo. Ricordiamo anche altre pezzi come Dimensioni III (1965), il Quadrivium (1969) per quattro percussionisti e quattro gruppi orchestrali, e la meravigliosa Serenata per un satellite (1969), uno dei pezzi in cui la scrittura sullo spartito si àncora nell’atteggiamento umano (costituita non da diminuendo ma da bisbigliando, nascondendo; non da crescendo, ma da urlando, lottando). Voglio concludere con una riflessione: Maderna è sempre stato alla ricerca della musica originaria, dell’ Ur-Ton, ispirandosi, attraverso il suo Concerto per due pianoforti e strumenti, al più antico esempio valido di musica dell’Occidente: l’Epitaffio di Sicilo, la musica dell’origine, l’Ur-Sprung, come lo definisce Mila, “l’ombelico storico della musica”. Ha voluto ricercare la nota tonale silente che sarebbe poi emersa come un’istantanea sub specie aeternitatis. Scrutava il frammento per l’eterna totalità, la voce umana singola che cantasse nel frastuono delle grida.Dedicato al professore di Musicologia e Musica elettronica dell’ Università di Venezia Giovanni Morelli mancato il 12 Luglio 2011. Un maestro che mi ha aiutato a comprendere il domandare dell’ascolto.

-gorot

registrati in precedenza sul nastro. Emergerà così l’ispirazione in tempo reale del musicista, lo slancio musicale-interpretativo che darà forma al brano. Un altro pezzo per nastro è il Notturno (1956) di grande respiro elegiaco in cui gli echi del silenzio sono lo sfondo in cui riverberano i suoni computazionali ormai tramontanti con una grande escalation in stile romantico. Esempio di umanità è il brano grottesco e delirante Le Rire (1962) per nastro magnetico con grande preponderanza di sovraincisioni di voce (Cathy Berberian dà il suo grande contributo). Lo

10

Page 11: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011 feedback - MARZO 2011

VIAGGI EXTRASONORI

“E cos’è che volevi dalla vita? Potermi dire amato, sentirmi amato sulla terra”

Raymond Carver è considerato il capofila di quella ondata di scrittori e scrittrici americani che optava per tematiche intimistiche e parlava dei vecchi valori della famiglia immergendo il tutto in uno stile letterario asciutto. La generazione è stata definita “minimalista” da un critico francese che si rifaceva al minimalismo nell’arte e nella musica (John Cage, LaMonte Young, Philip Glass, Bob Wilson). Tuttavia questa definizione, come tutte quelle che vogliono inscatolare un gruppo di artisti, non è precisa, in particolare per uno scrittore come Carver. La scrittura di Carver è infatti più che minimalista metafisica, con riferimenti evidenti all’opera di Kafka, all’essenzialità linguistica di Hemingway e al genio di Cechov, del quale scrisse anche un’autobiografia. Rifacendosi forse ad una massima di Waldo Emerson; “la società consiste nella cospirazione contro l’individualità”, Carver e questi “minimalisti” hanno riportato la letteratura nel realismo degli ambienti domestici, dove si sviluppano i drammi personali ed esistenziali di semplici abitanti d’America. Di un’America, però, fuori dal tempo, dal fervore tecnologico e dalle tensioni razziali, come in una bolla del passato. Carver parla di questo perchè la sua vita sembra uno dei suoi racconti; nato in una famiglia umile (padre falegname, madre cameriera), visse per tutta la giovinezza in una cittadina di provincia con la passione della lettura, fino a quando, a 18 anni si sposò con Maryanne Burk, che aspettava un figlio da lui. Fu per il giovane Carver una grave mancanza: “Non abbiamo avuto giovinezza. Ci siamo trovati in ruoli che non sapevamo come recitare”. Carver continuò la sua vita lavorando tra i corridoi d’ospedale, raccogliendo tulipani, facendo il benzinaio e lavando latrine, finchè non ricevette una borsa di studio che comunque non gli bastava. Fece quindi il portiere notturno, lavorando di notte e scrivendo di giorno, in automobile, per evitare le urla dei bambini in casa. Tornato da Israele, dove la moglie aveva tentato fortuna, non resse il colpo e per la frustrazione, a neanche 30 anni compiuti, cominciò la sua discesa all’Inferno dell’alcool. Continuò per nove anni, fino al 1977 quando, in concomitanza con l’uscita della sua prima raccolta, smise di bere. I suoi luminari erano oramai Hemingway, dato che scriveva di cose semplici, in modo semplice, e di cose che conosceva, e Cechov, non parlando di gente straordinaria che compie azioni straordinarie. I suoi personaggi sono immersi nella loro vita smorta, svolgendo lavori smorti, in luoghi smorti. Ma il loro cuore, la loro anima, il loro cervello, non è mai smorto, ed è proprio lì che Carver costruisce la sua poesia tanto ricca di umanità quanto la sua prosa è povera di parole. Queste anime doloranti sono l’immaginario carveriano, anime che soffrono di incomunicabilità e che

L’ESTETICA DELLA SEMPLICITÀ DELLE ANIME DOLENTI

sono mangiate dai tarli di una incomprensibilità kafkiana: l’incapacità di non capire perché quella cosa è successa, l’incapacità di rendersi conto di quello che accade. Questi poveri diavoli viaggiano nei luoghi carveriani per eccellenza (le cucine, i salotti con la televisione, etc.) muniti di alcool e bistecche, persi tra questi props, questi oggetti teatrali, quasi sempre ubriachi, celati in un’esistenza squallida che non riescono a respingere. Sono personaggi che rispecchiano le persone che l’autore aveva incontrato nella sua vita (portieri dei motel, padri imperfetti, operai), tragedie che non hanno nulla che fare con la tragoidìa greca, quella cioè che Aristotele aveva definito “imitazione di un’azione seria e compiuta in se stessa, che abbia una certa ampiezza, un linguaggio ornato”. Reinterpretata alla luce della cultura moderna americana, i personaggi sono ora gente modesta che guarda la televisione, ascolta e balla musica popolare in vecchi dischi gracchianti, legge romanzi di massa che spesso non capisce, beve, molto, ed è circondata da cameriere, cassiere, operai, che parlano un linguaggio piatto, poco ornato, ma ricco di poesia. L’essenza delle pagine di Carver, può essere trovata non nelle parole, ma nei silenzi che sottendono quest’ultime, nelle omissioni. I personaggi sono rifiniti con una parsimoniosità di immagini incredibile: non c’è spazio per le metafore o per altre forme retoriche; in un’intervista Carver disse che se avesse tagliato ancora non sarebbe rimasto niente e, successivamente, che lui non tagliava fino all’osso, ma fino al midollo. Il mondo descritto è nei fragili avvenimenti di persone umili, modeste, a volte nevrotiche, quasi sempre rassegnate, le storie si caricano di drammaticità per questa scrittura scarnificata, per la carica kafkiana che li circonda, perchè l’incomunicabilità porta al non capire il senso

della vita. La sua grandezza è stata, a livello formale, rilanciare, insieme a John Cheever, anche lui scrittore alcolizzato, il genere del racconto. Dopo la prima raccolta del 1977 scrisse “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” nel 1981, “Cattedrale” nel 1983 e “Voi non sapete cosa è l’amore” sempre nello stesso anno. Nel 1987 scrisse “Errand” per celebrare Cechov, morto di tubercolosi in quel periodo. La sua vita non facile fu resa ancor più difficile dal cancro, proprio nel momento in cui iniziava ad essere riconosciuto per la sua importanza (si prenda ad esempio la nomina all’Accademia Americana Delle Arti e Lettere, che lo portava a guadagnare 350mila dollari l’anno). Si trasferì a Port Angels dove amava guardare dall’alto il mare all’orizzonte. Quando la fatica per arrivare in cima alla collina non era più sostenibile scese più in basso in un appartamento con giardino dove coltivava delle rose.Le rose, i fiori più dolci per il poeta più dolce di una vita che dolce non era stata per lui.

“Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori, finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente, ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto o letto; magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, “creature di sangue caldo e nervi”, come dice un personaggio di Cechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita.” (dalla prefazione a Da dove sto chiamando)

- matmo

11

Page 12: #12 Settembre 2011

feedback - SETTEMBRE 2011

Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Andrea Lulli, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Jacopo Incani, Lorenzo Maffucci, Federico Pozzoni, Stefano Dominici, Bernardo Brogi.Grafica e impaginazione a cura di Francesco Gori.Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel Settembre 2011.Per informazioni, critiche e consigli: [email protected] Magazine è consultabile e disponibile in download gratuito all’indirizzo http://issuu.com/feedbackmagazine.it.

IL METODO DI

EDMOND JABÈS«L’ebreo ha cercato d’essere, del libro, l’incondizionato decifratore e il testimone morale. Seme e cenere. La morte è crescita.»

Edmond Jabès percorre la sua strada dell’interrogazione del libro. Il libro, costituito da infiniti libri, è il luogo in cui lo scrittore si vede straniero: «Uno scritto non è uno specchio./Scrivere è affrontare un volto sconosciuto». Il libro si dimentica della condizione di libro come lo scrittore si dimentica della sua condizione di

poterla fare propria, l’edera che sale verso l’alto, la radice (némein, ovvero “radice comune”, che trova per analogia il nomos, la Legge) rovesciata frutto dell’Interrogazione: «Se l’ombra è un’interrogazione alla luce, essa è anche un’interrogazione all’ombra; se la luce è risposta all’ombra, essa è anche una risposta alla luce. Oh! anello dentro l’anello!» diceva. E l’interrogazione sta proprio nello scrivere all’interno della scrittura, nel dire all’interno del detto per poter accogliere il non-detto. Lo scrivere è «il ritrarsi dalla scrittura stessa»

scrittura. Infatti la scrittura è una scommessa con la solitudine. Dalla mancanza del libro parte il percorso di Jabès. Non si interroga sul come essere giunto al termine di un cammino ma su come avere iniziato tale cammino (“il fondo dell’acqua è disseminato di stelle”). Se all’interrogazione l’ebreo risponde con l’interrogazione, all’assenza risponde con un’ulteriore assenza che non elimina il problema: «Sovversivo è il foglio su cui la parola crede d’accamparsi; sovversiva è la parola attorno alla quale il foglio dispiega il suo bianco». La scrittura stessa è il movimento della sovversione. La sovversione che si conduce solitaria, poiché non siamo mai soli. Nella teologia ipernegativa di Jabès Dio non può essere l’Uno dal momento in cui, se l’Uno è l’impensato dell’Unico, e se si pensa non è più tale, allora è anche l’Altro. Questa è uno dei paradossi della ribellione di Jabès nella sua scrittura: le Tavole della Legge spezzate sul terreno del solitario estraneo a sé. Derrida nota che, come Kafka diceva: «Noi siamo dei pensieri nichilisti che sorgono nel cervello di Dio», così la stessa interrogazione in Dio di Dio è l’inesistenza della semplicità di Dio, e così si fa presente l’Altro di ognuno. Lo scrittore è colui che rovescia la Legge a cui appartiene per

(Derrida). Ogni lettera, che è testamento è un’interrogazione, non un porsi. Il ritrarsi è uno dei modi della presenza stessa nel suo presentificarsi. Grazie alla perdita nella totalità vi è la possibilità di trovarsi nel niente e sentire di fronte a sé l’ente come tale. La

meta-fisica di Heidegger si ritrova nella lettera di Jabès: per essa lo scrittore è come Dio – tutto e niente. Il bianco non scritto è la possibilità di fare emergere la lettera, la lettera è la delimitazione e il risultato dell’ospitalità della pagina: «…Tutte le lettere formano l’assenza…». Tra la pagina e la lettera non ci potrà mai essere coincidenza, come non ci potrà mai essere la coincidenza tra sé e sé: l’identità inesistente dell’Ebreo. L’incomprensibilità e l’illeggibilità non sono nella logica della contrapposizione

(razionale/irrazionale, Bene/Male, logico/illogico), né si schierano dalla parte di uno degli opposti, ma stanno prima, sono antecedenti, originari.Non stanno, né al di fuori del Libro, né dentro: è forse un fraintendimento credere nel Libro come formazione, scrittura e identità? E’ forse un fraintendimento considerare solo il Libro come testo? La verità di cui Jabès ha parlato è quella della non-verità. Il raggiungimento non è il fine della strada: è il suo essere strada per altre strade, il suo metodo (methodos) è essere-oltre-la-via, oltre la strada, meta-hodos. Il continuare a trascendersi è il vero intento della metafisica, l’oltrepassarsi che non è il varcare la linea, ma lo stare spaesato tra il tutto e il niente. Il continuare ad interrogarsi è varcare il confine ponendo esso stesso, e una volta posto è già un averlo varcato: «L’infinito non dà la misura del Tutto o del Nulla, del compiuto o del vuoto, ma dell’incompiuto» diceva…

Le varie citazioni sono prese da Le petit livre de la subversion

hors de soupçon e da Un Étranger avec, sous le bras, un livre de petit format di E. Jabès. Di J. Derrida sia preso in considerazione il saggio Edmond Jabès e l’interrogazione del libro.

- gorot

12