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12 Momenti di Vita nasce nell’ambito del progetto “Scuola Viva”dalla partnership tral’Istituto Comprensivo Giovanni XXIII, Santa Maria a Vico, e l’Associazione di Promozione Sociale “Patatrac”.

Hanno collaborato al progetto in qualità di esperti: dott.ssa Rosa piscitelli (Psicoterapeuta)dott.ssa Rossella Cesaro (Grafico)dott.ssa Roberta Mormando (Scrittrice)dott.ssa Maria Rosaria Iaderosa (Editor)

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12 MOMENTI DI VITA

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…Sogna, ragazzo sogna  Non cambiare un verso della tua canzone  Non lasciare un treno fermo alla stazione 

Non fermarti tu…

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C’era una volta un libro…ed eccolo qua, su carta stampata!I ragazzi che hanno frequentato il Laboratorio di Scrittura Cre-ativa, progetto Scuola Viva” potranno annusare le pagine intrise del loro impegno, dello stare sereni insieme e delle diversità che hanno accompagnato e colorato di emozioni i pomeriggi a scuola.Condividono con i lettori dodici brevi racconti, dodici stili e ge-neri letterari, dodici tematiche,dodici modi di pensare...12 Momenti di Vita.

Rosa Piscitelli

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Resti? di Osvaldo Parente

Sarà complicato raccontare questa storia, ma… sarà necessario.Purtroppo, molti ragazzi, ai giorni nostri, sono costretti a la-

vorare per la criminalità organizzata spacciando droga e perciò, viene tolto loro il diritto di andare a scuola, e di conseguenza quello di costruire il loro futuro.

I ragazzi in questione, sono detti a Napoli “moschilli” cioè piccoli camorristi.

Ora vi racconterò una storia in particolare, quella di Genna-ro, detto Genny, un ragazzo di dodici anni che vive a Scampia.

È alto, magrolino, ha una voglia sul braccio sinistro, intel-ligente e curioso, forse troppo, ed è un ragazzo povero, i suoi vendono fazzoletti per strada e perciò è difficile tirare avanti.

Genny è molto sveglio, frequenta la seconda media ed è un ragazzo che difficilmente si arrende, per lui non esistono ostaco-li, solo obiettivi.

A causa della sua situazione economica e sociale, un giorno fu costretto ad intraprendere la strada dei cosiddetti “moschilli”, per aiutare economicamente i suoi, così cominciò a rubacchiare

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qua e là: portafogli, orologi e borsette, insomma tutto ciò che portasse guadagno.

Dopo alcuni mesi di pratica, iniziò ad occuparsi anche della droga. Ogni notte preparava i “panetti”, per poi venderli ai suoi “clienti” a scuola; in queste notti, Genny aveva molte ore per riflettere.

In una di queste capì che ciò che stava facendo, non era as-solutamente ciò che realmente voleva, e cioè una vita felice e un posto sicuro in cui crescere figli sereni.

Pensò e ripensò e alla fine arrivò alla conclusione che avreb-be dovuto smettere di fare ciò che non voleva... ma non sapeva come. Il problema era che i suoi erano poveri e lui non riusciva ad accettarsi per come era realmente.

Giorno dopo giorno iniziò a trascurare sempre più il suo la-voro. Il suo comportamento però, non piacque alla camorra, e soprattutto a Michel ‘o boss, che in passato gli aveva dato lavoro.

In circa tre mesi, Genny, realizzò il suo sogno; attaccò volan-tini per le strade di Scampia, in cerca di un adulto che potesse aiutarlo nel suo intento: formare un “rifugio” per tutti i ragazzi del quartire. Un posto che avesse una palestra, delle panchine e molto verde, che a Scampia era assolutamente assente.

Dopo vari giorni, conobbe un uomo di nome Antonio, det-to Totò ‘o funtanar; era un quarantenne alto e robusto, portava le stesse scarpe da dieci anni ormai, ed era sempre simpatico e solare.

Non era sicuramente la persona più intelligente di Scampia, ma se la cavava...

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Totò e Genny, divennero subito amici e, in poco tempo riu-scirono a trovare una catapecchia da ristrutturare da cima a fon-do. Genny, chiese aiuto anche ai suoi amici più fidati, che lo sostennero con le spese.

Contemporaneamente, però, i soldi a casa di Genny inizia-vano a scarseggiare, perché lui aveva smesso di lavorare e per questo ogni sera, al ritorno dal rifugio, veniva picchiato dal pa-dre, che inoltre conosceva le conseguenze del comportamento del figlio e temeva delle ritorsioni...

Ma il ragazzo rimaneva indifferente e continuava per la sua strada.

Ci volle poco… Era mattina presto e Genny stava andando a controllare il ri-

fugio, alzò lo sguardo e rimase pietrificato, era sotto shock, non sentiva più le gambe e la vista era offuscata.

Nello stesso momento Totò, che era ormai il miglior amico di Genny, stava portando la vernice al rifugio, quando, tutto d’un tratto fu scaraventato a terra e pestato da uomini incappucciati.

Tutti lì attorno videro cosa stava succedendo ma nessuno si intromise per aiutarlo.

Ora però, Genny… beh lui era sconvolto, il rifugio era com-pletamente distrutto, era tutto sottosopra. Prese subito l’autobus, corse sotto casa di Totò e gli raccontò tutto.

Totò, fece lo stesso, solo che quest’ultimo aveva anche qual-cos’altro da dirgli: voleva andare via, trasferirsi al nord.

Inutile dire che Genny provò a farlo ragionare, ma lui im-perterrito non cambiò idea... sarebbe partito quella stessa sera.

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Tornato a casa Genny passò la notte a riflettere su cosa avrebbe potuto fare col rifugio e con gli amici.

Quella notte anche Totò ripensò alla sua decisione. La mat-tina seguente e andò al rifugio per dargli una sistemata, dopo qualche ora che era lì sentì dei passi, qualcuno era entrato e se ne stava immobile dientro di lui. Totò non si mosse, non sapeva se era il suo amico o quelli che l’avevano aggredito qualche ora prima.

Aveva pensato a lungo... e alla fine aveva deciso di tornare, risistemare tutto e continuare a lottare per quel posto e per i ra-gazzi. Sapeva che sarebbe stato difficile ma pensò che era la cosa più giusta da fare.

Si fece coraggio, tirò un sospiro e si voltò per vedere chi ci fosse alle sue spalle..

Era Genny, che aveva capito la decisione del suo amico... e che gli disse sorridendo: ...Resti?!

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Il diario dei sogni

di Francesca di Vico e Anna Nuzzo

In una casetta di campagna viveva un’adolescente di nome Aurora. I suoi genitori avevano molte difficoltà economiche.

Per procurarsi il cibo allevavano mucche – ne guadagnavano anche del latte per le colazioni – e coltivavano campi di grano che al mulino poi sarebbe diventato farina con cui poter impa-stare il pane e la pasta.

Questa vita per loro era molto stancante, ma avrebbero fatto di tutto per accontentare la loro figlia.

Lavoravano notte e giorno, giorno e notte, ma il loro lavoro sembrava non essere mai abbastanza.

Aurora aveva 14 anni, era timida e passava spesso il suo tempo in casa. Stare sola non le piaceva e si sentiva triste. Per esprimere i sentimenti che aveva dentro di sé preferiva scrivere un diario dei sogni.

Desiderava trovare l’amore di un fidanzatino ma…Alle pagine affidava anche il suo sogno più grande: avere una

camera tutta per sé.

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Dormiva in un letto piccolino accanto a quello dei genitori. Nella stanza non c’era null’altro, neanche uno specchio dove po-tersi guardare. In realtà i suoi genitori, presi dalle mille faccende, non avevano neanche il tempo per specchiarsi.

La mamma non aveva i soldi per comprare vestiti né per sé né per sua figlia, così passava le sue notti a cucirli.

In questo modo trascorrevano il loro tempo. Tra casa e cam-pagna.

Un giorno, però, sua mamma ebbe una brutta notizia: la ma-dre aveva avuto un malore.

Preoccupata delle condizioni cardiache della nonna decise in-sieme al marito ed Aurora di raggiungerla in città. Arrivarono più in fretta possibile, ma la nonna era già in ospedale, stava malissimo, tanto che sua madre volle rimanere là per la notte, mentre il resto della famiglia tornò a casa.

L’indomani, seppero che la nonna era venuta a mancare. Aurora scoppiò in lacrime, disperata si abbandonò nelle brac-

cia del papà che la tranquillizzò un pochino. Nei giorni seguenti nulla fu uguale a prima. Sua mamma si

rese conto che Aurora si sentiva sola, la figlia gli svelò il suo so-gno facendole leggere le pagine del suo diario. Voleva una came-ra tutta sua dove poter incontrare amici e poter attaccare le foto dei Youtuber e cantanti preferiti.

Dopo un annetto circa, le condizioni della famiglia di Aurora erano cambiate.

Il padre trovò lavoro in una fabbrica, la mamma diventò una sarta professionista.

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Andarono a vivere nella villa in città della nonna. Riuscivano a pagare tutte le tasse, finalmente.

La mamma vide Aurora felice. Aveva la sua cameretta, si sen-tiva anche più allegra con i suoi nuovi amici e soddisfatta dei risultati che raggiungeva a scuola.

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Una vita nell’8 capovolto

di Francesca Piscitelli

Aurora ha trent’anni e lavora nella grande città di Roma, vive sola in un appartamento molto elegante a Napoli: perciò ogni mattina alle 05,30 è già sveglia, beve in fretta il caffè e si avvia in stazione. Lì prende sempre lo stesso treno, e si siede sempre in fondo alla cazzorra da sola.

È una di quelle ragazze chiuse a cui non piace parlare con gli altri, perché da quando ha avuto il lavoro come guida nella grande basilica di San Pietro ogni giorno le sembra uguale, un loop: deve girare per tutta la basilica almeno sei volte ogni quat-tro ore, fermarsi a ogni singola colonna per spiegare la storia, e magari anche sgridare qualche ragazzino maleducato che tenta di deturpare le statue.

Una notte alle ore 03,49 riceve una telefonata da un numero che non conosce, ma non risponde. Alle 04,00 lo stesso numero richiama e allora Aurora risponde. La voce che la saluta dall’al-

tra parte del telefono le è familiare. È la voce che da piccola la rassicurava.

Mamma, sei tu? le dice felicissima.

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Parlano del più e del meno, ma solo quando la madre (che vive negli Stati Uniti e per questo le telefona solo a notte fonda) le chiede se la sua vita e il suo lavoro andassero bene, lei rispode che è un disastro e che la vita per lei è diventata quasi inutile…

La madre allora le consiglia di prendere tutto con ottimismo, come lei stessa aveva fatto prima di trasferirsi in Francia, quando da giovane era malata: l’ottimismo l’aveva aiutata a guarire.

Aurora accetta il suggerimento e da quel momento la sua vita diviene più rosea e lei più aperta e socievole.

Dopo poco tempo incontrò l’uomo della sua vita, si sposò e si trasferirono in Francia, lavorando insieme come guide turistiche a Notre Dame de Paris.

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Non identificato

di Sergio D’Addio e Mario Iuliano

Nel 3020 fu avvistato dalla terra un pianeta non identificato. Dopo un anno di ricerche vennero inviati tre astronauti di nome Dirk Erimut, Julie Payette e Edvin Aldrin per esplorarlo, ma non fecero più ritorno.

Successivamente furono mandati dei soldati di nome Simo Hayha, Jack Churchill e Alvin York.

Sul pianeta trovarono delle uova, ma mentre tornavano alla navicella vennero accerchiati da alcuni extraterrestri. Videro tra quegli alieni delle forme umane che assomigliavano ai loro amici astronauti scomparsi. Dopo giorni gli umani fecero costruire un ponte fino al pianeta, restando sempre in allerta per i possibili attacchi nemici. Alla fine della costruzione scoppiò una guerra.

La Terra schierò un milione di soldati tra uomini e donne, dalla parte nemica vennero schierati centomila alieni e cento armi da guerra. La battaglia continuò aggressivamente, le due fazioni persero entrambe soldati ma la Terra era avvantaggiata grazie alla sua esperienza.

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Gli umani videro giorno per giorno gli alieni moltiplicarsi, decisero di allentare la guerra perché rimasero in pochi uomini. Ma dopo anni e anni scoppiò ancora più violenta.

Gli alieni costruirono delle basi militari nascoste, crearono delle armi con un materiale streptiochimicoinfiammabile e dei te-letrasporto.

I terrestri aumentarono la loro popolazione con una macchina rubata ai nemici chiamata punto di nascita, che qualche giorno dopo venne distrutta in una imboscata.

A questo punto gli alieni finsero di non avere più risorse per combattere e fecero arrivare i terrestri sul loro territorio, ma appena attraversarono la soglia del pianeta scoppiarono cento bombe. Tantissime persone morirono e la popolazione della ter-ra diminuì notevolmente. Dopo molto tempo la Terra fu defi-nitivamente sconfitta e tutti gli uomini si spostarono, grazie al teletrasporto, sul pianeta alieno. Gli umani scavarono un bunker, per fabbricare armi letali. Alcuni scienziati costruirono un mega robot alto 9,77 m per annientare gli avversari.

Gli alieni con le loro armi colpirono il robot annientandolo, ma la potenza dell’esplosione demolì il loro pianeta e li trasportò su Marterius un pianeta nato da circa 200 anni. Su questo piane-ta ci furono altre guerre, ma la battaglia finale scoppiò nel 3097. Alla fine vinse la Terra grazie al colonnello Giorgiorico che piaz-zò una bomba esplosiva nella parte avversaria.

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Super Max

di Alessandro Vigliotti

In un futuro molto lontano precisamente nel 3200 il 12 di-cembre nella città di New York nacque Max Smith. Un ragazzi-no abbastanza semplice.

Il suo unico sogno era lavorare nel settore della tecnologia, ma gli sarebbe piaciuto anche aiutare gli altri perché era un appas-sionato degli eroi dei fumetti.

Svolgeva una vita normale basata sullo studio, gli amici, la tecnologia e i film di supereroi.

Un giorno incontrò uno ostacolo nella sua vita: a scuola arrivò un nuovo Prof che lo interrogò subito, perché pensava che non fosse preparato, invece Max, avvicinatosi alla cattedra dimostrò di essere super pronto, e da quel giorno il professore di scienze e tecnologia cominciò a provare un forte astio nei suoi confronti.

Max non si fece fermare e continuò a studiare quella materia e da lì nacque la sua passione. Cominciò a lavorare ad un suo pro-getto: un’armatura con dei bracciali laser che da grande avrebbe usato per sconfiggere i numerosi malfattori della città.

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Lavorò duramente a quel progetto e alla fine venne fuori un vero capolavoro, cioè un’armatura super protettiva.

Un giorno controllando dalle sue telecamere si accorse che c’era una rapina in corso in una gioielleria, arrivato sul posto fer-mò il criminale, lo smascherò, e vide che era il professore che odiava da bambino che gli promise che prima o poi si sarebbe vendicato.

Dopo qualche anno si rincontrarono ma questa volta il Prof non era da solo, perché nel tempo passato in prigione aveva riu-nito una gang, e quindi Max si dovette arrendere.

Mentre fuggiva, incontrò una donna anziana che gli diede un cerchio magico che avrebbe potuto usare per intrappolare la ban-da, lui lo fece, e li rinchiuse in una prigione speciale da dove non sarebbero mai potuti evadere.

Da quel momento New York rimase per sempre in pace.

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Alla ricerca del tempo

di Giuliano Calcagno

California: anno 2031A nord-est di Los Angeles c’è una scuola per geni, la High

School Univerisity. Quando andai lì il mio primo giorno la trovai bellissima, fuori

c’erano dei campi da tennis, da calcio, da basket, da pallavolo e anche una piscina, alle sue spalle un giardino immenso con una grande fontana al centro.

La prima persona che incontrai quando entrai nella struttura fu il professore di tecnologia avanzata, lui mi fece vedere le altre classi, erano enormi e piene di oggetti per studiare e fare espe-rimenti.

La campanella ci avvertì che stavano per iniziare le lezioni, e il professore mi disse che sarei dovuto andare con lui.

Nella sua classe era tutto tecnologico, mi fece fare coppia con un ragazzo che mi sembrava molto familiare, mi presentai e lui disse di chiamarsi Luke Johnson e ricordai di averlo già incon-trato alla middle school. Anche Luke si ricordò di me. A lezione ci diedero il compito di costruire una piccola macchina del tele-

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trasporto, avremmo dovuto far arrivare un oggetto da una parte all’altra della stanza. A noi andò bene! e infatti il professore si stupì. Alla fine della lezione l’insegnate si avvicinò a noi due e ci chiese di partecipare ad un concorso di tecnologia avanzata. Io e Luke eravamo nello stesso tempo indecisi ma entusiasti e dopo 5 minuti prendemmo la nostra decisione e dicemmo di si. L’incontro ci sarebbe stato dopo 4 giorni.

Quando arrivò il giorno del concorso eravamo euforici e allo stesso tempo ansiosi e impauriti. Ci accompagnò mio padre. Lì era pieno di studenti, quando entrammo per prima cosa vedem-mo dei cartelloni con scritto i nomi dei partecipanti e dei giudici.

Salutammo mio padre e ce ne andammo per la nostra stra-da. Camminando qua e là per vedere meglio come tutto quanto fosse disposto, incontrammo il nostro professore che dette un in bocca al lupo. Dopo circa 10 minuti andammo al nostro posto e mettemmo la macchina del teletrasporto sopra al bancone.

Quando iniziò il concorso i giudici passarono per tutte le po-stazioni per esaminare i macchinari: alcuni erano bellissimi altri erano inutili. Io e Luke eravamo preoccupati, i giudici erano qua-si da noi, ma prima di avvicinarsi si fermarono da Evan Smith, il mio compagno di classe delle middle school che avevo sempre odiato.

Proveniva da una famiglia molto ricca ed era sempre riuscito ad ottenere tutto.

Anche lui aveva una macchina del teletrasporto ma quando la accese l’apparecchio iniziò a fare fumo. Evan però spiegò lo stes-so come funzionava ma quando la usò, la macchina fece ritornare

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l’oggetto dov’era prima, il steletrasporto non avvene e i giudici gli assegnarono un punteggio basso. Evan si arrabbiò molto e guar-dò il padre negli spalti che li convinse ad alzargli il voto.

Quando i giudici arrivarono da me e Luke ci guardarono in modo sorpreso. Provammo la macchina e fortunatamente andò tutto bene, eravamo sollevati e contenti. Scoprimmo dopo che ci avevano dato il massimo dei punti!

Alla fine del concorso proclamarono il vincitore e con una sorpresa pazzesca, eravamo noi! Al secondo posto c’era Evan e al terzo posto una concorrente che aveva creato un prototipo in mi-niatura di un auto che andava ad acqua. Ci diedero una coppa in oro, una di argento a Evan e all’altra concorrente una coccarda.

Quando tornammo a casa eravamo contentissimi e stanchi, allora proposi a Luke di dormire a casa mia e lui disse di si.

Il giorno dopo a scuola il professore ci informò che era stato contattato da una persona che gli aveva chiesto se eravamo in-teressati a lasciare la scuola per andare a lavorare in un’agenzia di tecnologia avanzata insieme agli altri geni dell’ umanità per costruire una grande macchina del teletrasporto che riuscisse a teletrasportare le persone da una dimensione all’altra.

Io e Luke accettammo e il professore ci disse che ci avrebbe informato più tardi sul dove si trovasse quel posto, così lo salu-tammo e andammo nella classe di storia.

Alla fine di quella lezione ritornammo dal professore: il posto dove ci saremmo dovuti recare era a New York.

Dicemmo al professore che eravamo d’accordo, ma non sa-pevamo se arrivarci prendendo la metro o un altro mezzo, lui ci

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interruppe e ci informò che c’era una limousine in arrivo tutta per noi, e che arrivati lì avremmo dovuto vivere all’interno della struttura. Dopo scuola andammo ad informare i nostri genitori ed erano realmente entusiasti. L’unica cosa che mi dissero fu: se è quello che desideri allora vai... perché mai dovremmo ostacolare il tuo sogno ?

Il giorno seguente preparai le valigie e nel pomeriggio arri-vò l’auto; era enorme e bellissima. Giungemmo alla sede, era un palazzo immenso, quando entrammo era quasi tutto automatico, all’entrata c’era la reception e un ragazzo che ci stava aspettando e che ci disse che il capo dell’agenzia si chiamava Erik.

Prima di andare ci diede la chiave della stanza con il numero 211, ringraziammo Elmer (così si chiamava il ragazzo) e rag-giungemmo la stanza. Giunti lì la trovammo stupenda.

All’improvviso qualcuno bussò alla porta, aprimmo ed era Erik che ci stava cercando e che ci accompagnò al laboratorio di costruzione.

Nel laboratorio c’era un computer con un’interfaccia olografi-ca e lo scienziato che stava lavorando al progetto della macchina del teletrasporto. Ci informò che avrebbe avuto bisogno del no-stro aiuto e in quel momento si aprì una porta che ci condusse in una stanza gigantesca al cui centro vi era una piattaforma per esperimenti. Lo scienziato cominciò a dirci cosa dovevamo fare, insieme a noi c’era Evan e la ragazza che era arrivata terza alla competizione scientifica. Io chiesi quale fosse il nome della ra-gazza e lo scienziato mi rispose che il suo nome era Amanda Nelson, mi avvicinai e la salutai, le feci alcune domande e dopo

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una lunga chiacchierata incominciammo a costruire la macchina. Nel farlo scoprii nuovi oggetti e materiali che non conoscevo. Era difficile e pensante però Husley Crocker, ossia lo scienziato che lavorava con noi, ci riferì che potevamo usare delle appa-recchiature che erano in grado sollevare enormi pesi, lui ne usò un’altra e collegò tutti i pezzi in poco tempo.

Quando finimmo eravamo stanchi morti ma era venuta benis-simo, Husley ci disse che aveva bisogno di persone per provarla.

Io e gli altri ci offrimmo come volontari però chiedemmo che fosse prima testata, egli accettò e ci rispose che per rendere l’ap-parecchiatura sicura, ci saremmo rivisti dopo 4 giorni.

Passati questi giorni tornammo al laboratorio e dopo essere stati istruiti su cosa fare, indossammo delle tute spaziali.

Husley ci disse che avremmo dovuto cercare un materiale molto raro di nome templasium che sarebbe servito per costruire un orologio per viaggiare indietro nel tempo.

Dopo aver ascoltato tutte le spiegazioni entrammo nella cella del teletrasporto. Ci avvertì che il materiale si sarebbe potuto tro-vare su due pianeti, uno fantastico, pieno di natura aliena, l’altro abitato da dinosauri robotici che avevano il doppio della forza di quelli esistiti in passato. Iniziò il count down per il teletrasporto e cademmo in un sonno profondo. Quando arrivammo Husley ci avvertì di stare in guardia perché c’era stato un problema ed eravamo stati spediti nel secondo pianeta.

Lo scienziato ci informò che dietro alle cabine c’era una pic-cola stanza e che al suo interno erano contenute delle armi al plasma, le raccogliemmo e andammo.

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Dissi a Luke, Amanda e Evan che sarebbe stato meglio se ci fossimo divisi in due gruppi: io e Luke, Amanda ed Evan.

La mia squadra si diresse a ovest l’altra a est, nel cammino vedemmo molti luoghi di colore verde fosforescente e in lonta-nanza uno dei dinosauri robot, per la precisione era un tricerato-po, restammo alla larga da quella bestia, ma eravamo preoccupati per l’altra squadra. Ricordai che nelle tute c’erano dei microfoni, e contattai Amanda e sentii che era affaticata.

Le dissi impaurito: Amanda cosa sta succedendo? mi rispose che erano appena sfuggiti a un gigantosauro robot, e che avevano avvistato il templasium all’interno della tana dell’animale.

In quel momento mi sentii fregato e dissi ad Amanda che ci saremmo ritrovati vicino alla macchina del teletrasporto.

Quando vennero Amanda ed Evan esposi loro il piano che avevo escogitato: in due avrebbero fatto da esca ed altri due avrebbero preso il templasium. L’unico problema era: chi distra-eva e chi avrebbe dovuto prendere il materiale?

Luke propose me e lui, mentre Amanda ed Evan avrebbero dovuto fare da esca. Ma pensai che era meglio se lui ed Aman-da avessero distratto il dinosauro, così io e Evan (nonostante ci odiassimo) avremmo potuto prendere il templasium.

Luke chiese il perchè di questa decisione e gli dissi che lui e Amanda erano molto più veloci e combattivi, a dispetto di me ed Evan che eravamo più agili.

Deciso il da farsi partimmo, arrivati lì dopo aver ripetuto il piano, Luke e Amanda incominciarono a urlare e provocare il gigantosauro.

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Il robot si svegliò e incominciò a seguire i ragazzi mentre io ed Evan scendemmo nella tana, ma quando cercammo di salire il gigantosauro si accorse di noi, lasciò stare Luke ed Amanda e iniziò a venirci in contro correndo.

Diedi la mano a Evan per farlo salire e corremmo verso i ra-gazzi, andammo lontano per sfuggire al dinosauro che ci insegui-va perchè si era accorto che gli avevamo sottratto il templasium, che gli serviva per rimanere possente e non arrugginirsi.

Quando dopo 200 metri seminammo il mostro ci rendemmo conto che eravamo vicini ad un branco di triceratopi robot.Sco-primmo che se si disturba il branco diventano molto aggressivi per proteggere i loro cuccioli.

Come? I Triceratopi robot erano vicini ad un pezzo di quel verde fluorescente, noi ci avvicinammo per osservarli. Un cuc-ciolo si fece avanti, dirigendosi verso Evan, che scontroso come sempre lo allontanò. Gli altri del branco riconobbero che voleva aggredirlo e cominiciarono a caricare.

In quel momento ci sentimmo davvero in trappola, l’unica cosa da fare era buttarsi in quella melma che non avevamo anco-ra esaminato e questo ci preoccupava.

Ci buttammo, passarono 5 minuti e tornammo su vedendo che i triceratopi non c’erano più...ma non c’era nemmeno Evan!

Incominciammo a cercarlo per 5, 10, 20 minuti ma di lui nes-suna traccia.Allora, decidemmo di tornare al teletrasporto.

Lungo il cammino sentivamo una strana sensazione. Arrivati, entrammo e ci teletrasportammo nello studio.Cademmo a terra, Husley ci chiese di Evan, noi raccontammo quello che era ac-

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caduto. Ci disse che solo dei pazzi avrebbero potuto pensare di buttarsi in quella melma, perché era radioattiva e avrebbe potuto ammazzarci. Ci fece entrare in una cella di isolamento e chiamò il capo dell’area 51.

Io cominciai a sentirmi diverso, più leggero, la mia mano scomparve, presto capii che il mio corpo stava subendo una mu-tazione e che il mio potere era quello dell’invisibilità e del volo.

Chiamai i ragazzi, Luke mi rispose con una voce molto pro-fonda, mi raccontò che la sua pelle era tutta squamata e che era cresciuta la sua massa muscolare; Amanda, invece, disse che sen-tiva un gran freddo e riusciva a congelare le cose.

Passata un’ora i militari ci vennero a prendere per portarci all’area 51... qualcuno voleva esaminarci.

Luke era troppo grande, non passava dalla porta. Allora con la sua forza buttò a terra dei muri per uscire. All’aria 51 ci fecero allenare per monitorare i nostri poteri e verificare se era possibile per noi vivere ancora in città.

Dopo qualche giorno, potemmo tornare a cercare Evan, sa-limmo sulla macchina del teletrasporto e in un attimo eravamo sul pianeta dei Robot.

Lo trovammo, era cambiato, era diventato tutto un fuoco e aveva acquisito il potere di controllarlo.

Husley, prima di partire ci aveva avvisato che aveva costrui-to una nuova macchina dotata di una gabbia tridimensionale, la usammo per incastrare Evan.

Lui cadde nella nostra trappola e finì nella gabbia.Io, Amanda e Luke spegnemmo le fiamme del pianeta.

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Luke, creò con la sua forza montagne e colline; Amanda, si occupò dei ghiacciai e di tutti i bacini d’acqua. Io scoprii che i dinosauri avevano usato le armature per sopravvivere al calore e alla scarsità di cibo, e con il mio potere li liberai.

Grazie a noi ci fu una nuova Era. Husley ci volle in città per aiutare la gente, noi accettammo.

Passati 20 anni diventammo conosciuti come i Fantastici 3, i su-pereroi amati da tutti.

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In equilibrio su un filo di Filomena Pesce e Giorgia Valentino

Vi racconterò una storia che non ho mai rivelato a nessuno. Siete Pronti? Era una notte buia e tempest…

Ah no, quella è un’altra storia.Avevo solo 4 anni quando mio padre e mio fratello gemello

ebbero un incidente, Vincenzo perse la memoria. Mia madre super arrabbiata con papà, sia per la sua condizio-

ne di alcolista sia per questo incidente, decise di divorziare. E indovinate chi andò a vivere con papà? IO! Mi lasciava ogni sera a casa di “zia Priscilla”; in realtà non era

mia zia, ma semplicemente la vecchia che abitava nel palazzo af-fianco. L’appartamento era piccolo, composto solo da tre stanze: il salotto, la cucina e il bagno. In tv trasmettevano solo Il Segreto e il TG5, e quindi non potevo vedere nulla che mi interessasse.

L’unica cosa che mi era concessa fare era vedere le foto di Artù e Salem, i suoi stupidi gatti.

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Papà nel frattempo andava al bar nella piazzetta di Napoli. Zia Priscilla mi ripeteva sempre: Nun te preoccupà cà papà mo torn.

Eh… Ok, ma dovevo sempre aspettare ore e ore.Nel 2015, giorno del mio quattordicesimo compleanno, ero

a casa dalla vecchia, quando ebbe uno spasmo al braccio mentre aveva il rasoio in mano per tagliarmi i capelli. Mi ritrovai parte dei capelli rasati a forma di saetta. Quella stessa sera decisi di andare al bar a farmi un “autoregalo”.

Una birra e poi un’altra, corsi in bagno, mi sentivo veramente strano. Mi guardai allo specchio… come per una brutta magia il fumo passivo di quel posto mi aveva rovinato il viso.

Dopo sere e sere che frequentavo quel locale mi assunsero come barista notturno e BOOM! La mia vita cambiò.

All’inizio non riuscivo a gestire i numerosi compiti per la scuola e il lavoro, ma pian piano mi ci abituai. Riuscivo ad ad-dormentarmi alle 5.00 e a svegliarmi alle 7.30.

Una sera, mentre ero a lavoro il capo mi disse che si sarebbe esibito un gruppo musicale abbastanza famoso: The Dreamers. Ci sarebbero state più persone del solito. Tra gli spettatori notai mio fratello Vincenzo e mia madre che bevevano due lattine di Coca Cola.

Loro, ovviamente, non mi riconobbero. Dopo seppi da Gerar-do, il cameriere del bar, che quella era l’ultima serata che avreb-bero trascorso in città, poiché si sarebbero trasferiti a Cagliari.

I giorni passavano ed io avevo sempre più paura che papà si fosse ammalato gravemente. Chissà se l’alcool era complice di tutto questo!

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Cominciai ad avere paura anche per me. Sarei rimasto con zia Priscilla o sarei tornato con mamma e Vincenzo?

La risposta me la diedi subito! Papà dopo poche settimane non ce la fece, morì. Ritornai da zia Priscilla che finalmente im-parò a lasciarmi i miei spazi.

Ora che ci rifletto mio padre era l’unico che mi capiva vera-mente… ormai sono passati due anni…

Ragazzi, una piccola riflessione. Io ho sbagliato, perché ho fatto tutto troppo in fretta. In questa vita mi stanno accompa-gnando alcool, ore notturne e il vuoto dentro.

Godetevi la vita per quella che è, non complicatevela. Il mio penso di averlo perso, ma voi restate… In Equilibrio come Su Un Filo.Ah, e il mio nome? Non lo saprete mai...

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Stretto come un abito

di Diana De Lucia

Nella vita è importante fare delle scelte, anche se ci portano dall’altra parte del mondo e lontano dalle persone che amiamo. Questa è la storia di Pantly, una ragazza irlandese che oggi vive a Milano.

Pantly visse a Dublino fino all’età di 7 anni, poi la sua vita fu stravolta. Una sera di agosto i suoi genitori uscirono senza di lei. Per il loro anniversario scelsero un ristorante nei pressi di Merrion Square.

Durante la loro cena il locale fu preda di una rapina, e la cop-pia non fece più ritorno a casa….

Il bacio sulla fronte è l’ultima cosa che ricorda Pantly della sua mamma e del suo papà.

Così, fu adottata da zia Titina, una zia paterna, che la portò con sé in Italia e le assicurò cure amorevoli.

Per Pantly, tutti questi cambiamenti, non furono semplici. Ma andando a scuola con i nuovi amichetti, ci mise poco ad adattarsi ad una nuova realtà.

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Sedici anni dopo è nel suo appartamento di Milano e si guar-da allo specchio con in mano la foto che ritrae i suoi genitori. Vede il ritratto della madre in se stessa, con i suoi capelli rossi, i suoi occhi verdi e la carnagione chiara e spruzzi di lentiggini sul naso. Poi rivolge lo sguardo verso il padre.

Da quel che ricorda, i loro caratteri erano molto simili. Lei estroversa, testarda, gentile con tutti, determinata e forte, sin da piccola nutre la passione che i suoi genitori le hanno trasmesso: la passione per la moda.

Pantly, si accorge che è tardi, deve raggiungere l’accademia, mette le scarpe, chiude dietro di sé la porta di casa e corre via con il suo caffè in mano. Fa due passi e, senza accorgersene si scontra con un ragazzo, rovesciandogli il caffè addosso.

Imbarazzata alza lo sguardo e incrocia quello di lui. Ne ri-mane colpita, occhi verdi bellissimi, ciglia lunghe e viso perfetto, alto e con una corporatura muscolosa. Rimane immobile per al-cuni attimi, poi ritorna in sé. Chiede scusa. Lui con voce profon-da risponde di non preoccuparsi. Lei insiste, vuole che lui gli dia la giacca per pulirla e il numero di cellulare per poterla restituire. Si presentano, lui è Marco.

Alcuni giorni dopo, Pantly gli dà appuntamento in un bar di piazza Duomo, e gli riporta la giacca. Un incontro che dura davvero poco.

Dopo una settimana, i due si ritroveranno per caso ad una cena casa di amici che non sapevano di avere in comune.

Lì parlano molto di loro, degli studi che fanno: ingegneria lui e moda lei, la passione in comune per il trekking e gli animali.

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Marco con il suo carattere introverso, generoso e affidabile ha fatto colpo nel cuore della ragazza, allo stesso modo Pantly ha fatto breccia in quello di Marco.

Alla fine dell’anno accademico, entrambi sono laureati. Pantly riceve dopo qualche giorno dalla sua laurea, una telefonata.

Il suo Prof sta per darle una notizia importante. Una presti-giosa casa di moda le propone una grossa opportunità: uno stage nella loro sede a New York.

È divisa tra due fuochi, l’Amore e la Passione. Dopo tanti dubbi e discussioni con il suo ragazzo, decide di

partire per il nuovo continente, dispiaciuta di lasciare Marco, che non avrebbe accettato una storia a distanza, ma tanto felice per sé stessa.

Dieci anni più tardi…

Pantly è una stilista affermata e possiede una casa di moda. Non ha più voluto legami a lungo termine con un uomo.

Decide di spostare la sede legale del suo Atelier in Italia, a Milano.

Si torna al punto di partenza. Da alcuni amici viene a sapere che Marco è diventato un fa-

moso ingegnere informatico, ed è molto ricercato dalle donne. Un giorno uscendo per una passeggiata, trasportata dai ricor-

di si ferma a prendere un caffè nello stesso bar dove aveva dato il primo appuntamento a Marco.

Si gira e si accorge che anche lui è lì.

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Capiscono che la loro storia d’amore non è mai finita.Pantly e Marco sono la prova che l’amore vero e profon-

do resiste a tutto e che se abbiamo dei sogni non dobbiamo metterli da parte.

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Piccolo Monaco

di Francesca Piscitelli C’era una volta, nell’antico e affascinante regno del Siam, oggi Thailandia, una

bellissima donna di nome Ratana. Ella sposò un uomo molto ricco, Channarong, entrambi era-

no buddisti molto devoti. Quando la donna fu incinta, Buddha le ordinò di partorire a

Bangkok nel tempio più bello e sfarzoso della capitale, perché il bambino nascesse lontano dai peccati.

Si misero in viaggio ma Ratana non ce la fece ad arrivare nella capitale, e quindi fu costretta a partorire con dolore fra le rovine di un antico tempio abbandonato.

Venne alla luce un bambino maschio. Sembrava così piccolo ed esile, come un leggero petalo di sof-

fione che il vento avrebbe potuto sperdere nell’aria. Ma i suoi occhi corvini, grandi, scintillanti e curiosi come

quelli di uno scoiattolo ammaliarono subito la giovane coppia. Sembra che il firmamento sia caduto tutto nei suoi occhi diceva

Channarong. Ratana, che era molto viziata sosteneva invece As-

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somiglia a una canna di bambù, ma prevaleva in lei l’affetto che ogni madre dà ai propri figli, qualunque aspetto essi abbiano.

Poche ore dopo, una voce agghiacciante si fece sentire: Queste rovine sono maledette, come il bambino che vi è nato! Fuggite, anda-tevene! E lasciate qui il neonato!

Channarong posò il neonato ai piedi di un salice piangente e tirò la moglie per la mano. Non posso lasciare mio figlio tra fram-menti di pietra! disse Ratana.

Avrai un altro figlio insistette Channarong, e trascinò fuori dalle rovine la giovane che piangeva e pensava a che fine avrebbe fatto il suo bambino, lasciato da solo nel tempio abbandonato.

Il neonato non morì, perché fu nutrito dalle scimmie con il latte dolce di cocco e cullato dalla vegetazione e dai fiori dal pro-fumo esotico che crescevano attorno a lui.

Un miracoloso giorno passarono due giovani danzatrici per le rovine e trovarono il bambino.

Una delle danzatrici lo prese dicendo: Che meraviglioso bam-bino, che begli occhi ha. Sembrano due grandi stelle.

L’altra lo tirò dalla braccia della compagna e rispose: Portia-molo al Monastero Minore sulla collina, così i giovani monaci si po-tranno prendere cura di lui e crescerà sotto il regno del Buddha.

L’altra annuì sorridendo.Le due giovani arrivarono ai piedi della collina dove giaceva il

monastero, che era circondata da coltivazioni di riso e comincia-rono a salire lungo i fertili versanti terrazzati. Quando furono in cima, videro il grande Monastero Minore. Questo era chiamato così non per le sue misure, ma perché lì vivevano tutti i monaci

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più giovani e i bambini; infatti si chiamava anche “Monastero degli Sramanera.”

Ecco, dal grande ingresso dorato, sbucare tre monaci: uno alto, uno medio, e uno basso.

Salve disse il monaco più alto portandosi le mani giunte alla fronte, che era il capo di tutti i piccoli bonzi.

Le danzatrici imitarono il gesto del giovane e una rispose: Salve, abbiamo trovato questo bambino tra i frammenti di un tem-pio.

Vorremmo lasciarlo a voi monaci perché cresca sotto la guida del grande Buddha. Continuò l’altra.

Il monaco medio lo prese in braccio e sorrise: Somiglia molto a Siddharta Gautama. I suoi occhi brillano come le stelle nella notte nel deserto.

Il monaco più basso, che era un bambino, accarezzò con de-licatezza la testa nera e ricciuta del piccolo, chiedendo come si chiamasse.

Il monaco alto, quasi con vergogna, disse alle danzatrici: Non fategli caso, è solo un bambino. Non sa ciò che dice.

Il bambino ribatté più violentemente: Ma io ho solo chiesto il suo nome!

Sei piccolo, e di conseguenza ignorante: disse il monaco medio, Vai dentro, e sta zitto, parlerai quando sarai più grande, moscerino!

Gli occhi di Atid si riempirono di lacrime, e lentamente, col capo abbassato, entrò nel monastero.

A quel punto, le due ragazze si inchinarono e andarono via ridendo dalla felicità, sperando che il cammino di quel bambino,

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abbandonato tra le rovine, minuto, gracilissimo e sottile come una canna di bambù, ricciuto, con i mani e piedi gradi come far-falle e occhi corvini stellati, venisse illuminato da pace e saggezza.

Due anni dopo, il bambino venne rasato, come ogni monaco buddhista e i suoi riccioli caddero al suolo uno ad uno; fu quin-di vestito come un monaco. Tutti nel monastero lo chiamavano “Piccolo Monaco”, perché era il più piccolo di tutti.

Piccolo Monaco non fu così geniale come sosteneva il capo dei monaci. Quando gli altri piccoli bonzi si sedevano nella posi-zione del loto, in file ordinate, in silenzio a meditare, lui correva, urlava o dormiva.

Come poteva un bambino di soli tre anni diventare già un monaco, sempre silenzioso, che mangia un solo chicco di riso al giorno?

Il capo dei monaci lo rinchiuse in una celletta buia e gli disse: Se ora non copi tre volte l ’intero Tripitaka, io ti bandirò dal mona-stero. E ordinò ad Atid di controllare che non cercasse di fuggire. Era quello stesso Atid che quando Piccolo Monaco fu consegna-to al monastero, fu il primo a chiedere come si chiamasse... Ora aveva dieci anni.

Ciao bambino disse Atid O mi ubbidisci, o io ti prendo a pugni. Chiaro?

Piccolo Monaco si infilò un dito in bocca e succhiò.Allora ti decidi a leggere o no? Lo sgridò Atid, No, sussurrò Pic-

colo Monaco, poi lanciando il libro sacro, colpì la faccia di Atid che s’infuriò e lanciò un verso d’isterismo, contrasse le dita delle mani e urlò: Questo è un oltraggio!

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E cercò di porgergli uno schiaffo, ma per sbaglio colpì una statua di Buddha, che sbattè sul pavimento di pietra.

Il capo dei monaci si affacciò esclamando: Ho sentito un rumo-re.Proveniva da qui?

No! Rispose balbettante Atid, Non si è rotto nulla!Piccolo Monaco indicò ridendo la statuetta del giovane

Siddhartha Gautama decapitata, schiantata al suolo.Atid! Guarda di che sei responsabile! Disse il monacoCosa? Ma è lui che mi ha spinto a rompere quella stupida statua!Hai decapitato una statua del tuo dio e l ’hai chiamato stupido.

Ignorante! Concluse, e Atid e Piccolo Monaco furono cacciati dal monastero a colpi di frusta.

Fuori da lì c’era una vallata immersa nella nebbia: non si vede-va altro che un paesaggio completamente bianco.

Atid sospirò dicendo addio alla meditazione nel grande giar-dino, tra il profumo inebriante dei fiori di loto, un profondo si-lenzio e tanta pace, addio ai canti melodiosi di preghiera, al suono dolce, glorioso e allegro delle campane.

Grazie, bambino! Per colpa tua io sono finito in questa valle deso-lata e nebbiosa. Non ci ospiteranno mai più nel monastero.

Piccolo Monaco indicò un tempio imponente e maestoso sul-la cima nuvolosa di un’alta montagna.

Quello è il Tempio di Giada! È più bello di come me lo descrive-vano nel monastero! Esclamò Atid guardando meravigliato l’ele-gante struttura.

È là che Buddha mi donerà la voce. Andiamoci! Disse Piccolo Monaco.

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Atid scoppiò a ridere. Che ironia, se tu fossi muto ora non avresti parlato, bambino ingenuo!

Io sono nato senza voce, Atid. Buddha ha mandato un angelo che vive affianco a me e parla al posto mio.

Sei inquietante, bambino. Concluse Atid, e si avviò verso il sen-tiero che portava alle risaie ai piedi della collina.

Piccolo Monaco lo seguì. Un fulmine squarciò il cielo, e si udi un tuono, poi una goccia d’acqua e infine tante gocce che cade-vano sempre più forti, sempre più numerose.

Piccolo Monaco si coprì il capo con la sua tunica e si sedette sotto una grande roccia.

Riparati, disse, Mai rispose Atid Io devo sapere per quanto tem-po pioverà.

Non puoi prevedere il futuro, se non sai neppure ciò che succederà tra un’ora.

Non prevederò il futuro, ma guarderò le nuvole e capirò per quan-to durerà quest’acquazzone come fanno gli scienziati. Io non sono un ingnorante!

E rimase per tutta la notte a fissare il cielo convinto di “legge-re le nuvole”. Quando tornò il sole, i fianchi del colle erano colmi di fango e le risaie a valle sembravano piscine.

Atid cominció a scendere per primo, ma scivolò e rotolò lun-go i versanti fangosi del rilievo, si fermò solo ai suoi piedi.

Dovresti vedere la tua faccia, rise Piccolo Monaco, sei tutto in-fangato! Atid ringhiò come un cane, e reggendosi sul suolo con le mani, prese Piccolo Monaco per il collo e coi piedi e quindi lo scaraventò in aria, cadde e anche lui fu zuppo di fango.

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Guarda chi è pieno di fango! Ora tocca a me ridere. Disse Atid.Non lontano Piccolo Monaco scorse una spiaggia. È la Spiag-

gia delle scimmie! Esclamò Atid.La Spiaggia delle scimmie è era una riserva naturale, e viveva-

no parecchi esemplari di Macaca Mulatta. Una delle spiagge più belle della Thailandia.

Atid corse in acqua per lavarsi dal fango. Piccolo Monaco osservò la fitta vegetazione che ricopriva

gran parte della spiaggia, il contrasto tra la riva fatta di sotti-li granelli bianchi e il turchese cristallino dell’Oceano Indiano, ascoltò il melodioso canto degli uccelli tropicali, il suono delle piccole onde e il fruscio delle foglie fra le quali si nascondevano le numerose scimmie dell’isola, sentì l’odore dell’aria, profumosa di fiori di tiaré. Immerse la punta del piede nell’acqua cristallina, poi lo mise tutto intero e infine bagnò anche l’altro.

Atid uscì dall’acqua, si vestì, e si sedette sulla sabbia a me-ditare. Piccolo Monaco rimase a sguazzare tra le acque limpide dell’oceano.

Smettila di giocare bambino. Non vedi che mi serve silenzio?Atid, la vita è fatta anche di divertimento. Non sei un ignorante.

Rispose il piccolo. Sei sciocco bambino.Concluse Atid e, nascostosi nella fitta ve-

getazione, si sedette nella posizione del loto e continuò a medi-tare, abbandonandosi nelle regioni del silenzio.

Quando riaprì gli occhi sospirò e prese il sentiero che portava fuori dalla spiaggia, scordandosi casualmente di Piccolo Mona-co, che lo seguì; Non puoi sbarazzarti me ripeteva.

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Il sentiero era tortuoso e roccioso. Atid si arrampicò su un masso: si vedeva sempre più vicino il Tempio di Giada.

Dove mi hai portato? Chiese Piccolo Monaco.Non farmi ridere bambino, io so ciò che faccio. Tu devi solo se-

guirmi e sopratutto fare silenzio. Rispose Atid, e con un agile salto scese dalla roccia.

Non dimenticarti che io sono grande e saggio, tu sei piccolo e in-genuo. E continuò a camminare, non sapendo neppure lui quello che luogo fosse.

Per fortuna sentì in lontananza il suono di una cascata. Se-guendo il rumore, i due monaci sbucarono in una bellissima oasi, nella quale scorreva un fiume, che grazie alla luce dei pochi raggi del sole che penetravano, sembrava una distesa di diamanti.

Un po’ più lontano, dove il piccolo lago finiva, scorreva un fiu-me molto lungo e torbido; vi galleggiava solo una barca che so-migliava a una gondola, nella quale c’era una donna alta e magra, con un vestito bianco e dai lunghi capelli neri, che bisbigliava tra sé e sé misteriose parole.

Atid si avvicinò alla barca e salutò portandosi alla fronte le mani giunte e dicendo Salve. Piccolo Monaco lo imitò. Atid chiese alla donna dove andasse con la sua barca.

Sulla sponda sinistra del fiume: oltre la giungla c’è una città, la provincia di Chiang Rai.

Rispose la donna con voce sinistra.Sul volto di Atid comparse un sorriso bellissimo: La provincia

di Chiang Rai è dove si trova il Tempio di Giada?La donna annuì.

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Evviva! Esclamò il giovane monaco, Io sono Atid e vivo sotto il regno del Buddha, signora. Le chiedo cortesemente di far salire me e il mio compagno sulla sua barca.

La donna rispose solo Sali, e i bonzi salirono sull’imbarca-zione. La donna cominció a remare con un bastone sospirando e gemendo. La sua faccia era completamente avvolta dall’ombra del grande cappello, e si scorgeva solo il mento che era bianco, così come le sue mani.

Voi siete bonzi? Chiese la donna.Si. Veniamo dal Monastero Minore, nella provincia di Phayo.Il corso d’acqua diventò più chiaro solo quando su un tratto

del fiume Ruak la vegetazione cominció a diminuire, il veicolo arrivò in un bacino illuminato con acque trasparenti

Si fermò su una spiaggia, sulla cui riva vi erano altre imbar-cazioni come quella. Quando scese, Atid ringraziò la donna. Lei non rispose e sparì velocissima come un’ombra al tramonto, gui-dando la sua barca nella penombra, sussurrando a se stessa tra gemiti e sospiri.

Atid si strinse nelle spalle camminò verso la giungla con Pic-colo Monaco al suo fianco. Oltre la foresta di palme c’era una fila di enormi Buddha di pietra vestiti come i bonzi seduti nella posizione del loto.

Davanti a questi c’era un lago artificiale su cui galleggiava-no delle bellissime ninfee; le sue acque lasciavano poi specchiare un’altra statua di Buddha più grande delle altre.

I monaci seguirono la linea di statue perfettamente identiche fra loro: portava ad un altro tratto di giungla, che nascondeva

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frammenti di antichi templi. Inaspettatamente apparve davanti agli occhi di Atid e del Piccolo Monaco un’esplosione di colori, suoni, profumi. Era la provincia di Chiang Rai. La città era mol-to affollata. Tra le bancarelle si sentiva il profumo delle spezie che si mischiava con l’odore più forte dell’acqua di un piccolo angolo di Oceano Indiano dove c’era un mercato galleggiante, fatto di barche coloratissime sulle quali era esposta la merce.

Molte donne e bambine portavano al collo anelli dorati che lo allungavano, una tipica usanza della Thailandia, del Laos, della Cambogia e di altri Paesi dell’Estremo Oriente. In Birmania; vengono chiamate “donne giraffa” o in lingua birmana “Kayan.”

Da lontano spiccavano i templi e le punte delle pagode do-rate. Tra queste, anche la punta del Tempio di Giada.

Appena la vide, Atid sorrise e corse facendosi spazio tra la folla trascinando per la mano Piccolo Monaco.

Superato il mercato colorato e rumoroso della città e incon-trando i villaggi rurali tornava il silenzio. Oltre le risaie si ci ritro-va davanti al bellissimo tempio di Rong Khun. E dietro di esso il misterioso Tempio di Giada.

Atid e Piccolo Monaco entrarono e ammirarono con bocche spalancate la bellezza e il fascino del tempio: i giardini pacifici e bellissimi, le pareti ricamate d’oro, le statue del Buddha in piedi dipinte d’oro, i serpenti di guardia, anch’essi dorati, nella posi-zione del morso scolpiti sui tetti e davanti ai cancelli del tempio.

Al centro del tempio c’era una piccola pagoda dorata e in fon-do alla stanza si scorgeva solo una gigantesca statua d’oro del Buddha

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Piccolo Monaco restò in piedi a fissarla finché inspiegabil-mente la statua prese vita, sorrise e disse: Piccolo Monaco, sei stato saggio e perciò ecco la voce. Atid, l ’ignorante è colui che ignora, che non sa niente. Poi tornò una statua.

Atid si girò verso Piccolo Monaco sorridendo. Ti odierò per il resto dei miei giorni bambino, e neanche io stesso so

il perché. Ma non posso non dirti che avevi ragione. Sei grande. Anche i piccoli possono diventare grandi. Concluse lui.

Piccolo Monaco si svegliò di colpo: il suo viaggio verso il mi-sterioso Tempio di Giada era un sogno.

Esiste quel tempio così bello? È la domanda che continuò a porsi per tutta la sua vita. Ogni volta che raccontava del suo sogno ai suoi compagni nel monastero essi gli rispondevano che era solo una leggenda. Invece quando si poneva questo enigma nella sua testa sentiva un sussurro, una voce simile a quella del Buddha nel suo sogno.

Ma l’esistenza di quel palazzo sfarzoso e affascinante rimase per sempre un mistero.

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…Sogna, ragazzo sogna  Piccolo ragazzo  Nella mia memoria Tante volte tanti  Dentro questa storia Non vi conto più Sogna, ragazzo, sogna Ti ho lasciato un foglio  Sulla scrivania Manca solo un verso  A quella poesia

Puoi finirla tu…

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Indice

Introduzione pag 7

Resti?... Osvaldo Parente pag 9

Il diario dei sogni Francesca di Vico e Anna Nuzzo pag 13

Una vita nell ’8 capovolto Francesca Piscitelli pag 17

Non identificato Sergio D’addio e Mario Iuliano pag 19

Super Max Alessandro Vigliotti pag 23

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Alla ricerca del tempo Giuliano Calcagno pag 25

In equilibrio su un filo Filomena Pesce e Giorgia Valentino pag 35

Stretto come un abito Diana De Lucia pag 39

Piccolo MonacoFrancesca Piscitelli pag 43

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L’APS PATATRAC nasce nel 2012 ed è composta da professionisti dell’a-rea psicologica, educativa e artistica, esperti di educazione non formale, di conduzione di gruppi, di mediazione, facilitazione di processi e progettazione sociale. PATATRAC comincia il proprio percorso attraverso l’attuazione di due progetti europei orientati alla promozione della lettura ad alta voce e della lettura animata:• 1,2,3, leggo quando le storie per gioco escono dai libri, azione 1.2 nazionale• Ready to read. Azione 1.2 transnazionaleFormalmente costituita, Patatrac riceve finanziamenti europei attuando i se-guenti progetti:• X: I.C.S. Inter Cultural Stories. Azione 1.2 transnazionale• R.E.C. Rights, Education and Cinema. Azione 1.2 transnazionale.• G.A.P. Gender and Power. KA1 - Erasmus+. Patatrac fa parte di reti di enti no profit e scuole e partecipa a PON, progetti europei e Fondi ministeriali. In particolare siamo stati partner dei seguenti progetti, in cui abbiamo gestito percorsi laboratoriali di educazione non for-male (lettura, giochi cooperativi, scrittura creativa, creativi digitali, orienta-mento, sportello psicologico, ecc):2016-2017: Progetto “Scuola Viva”. risorse POR Campania FSE. 2015-1016: Progetto “Attivarci” . Fondazione Missione bambini.2014-1016: Progetto “LINKED-IN. Generazioni e istituzioni in rete per un patto educativo territoriale”. Avviso Giovani Per Il Sociale2013-2014: PON F3 Crescere in Coesione: “La formazione fa la forza” . At-traverso un lavoro sinergico in rete, lo scopo è quello di effettuare interventi educativi e di cittadinanza attiva con obiettivi plurimi quali quelli di promuo-vere la partecipazione giovanile, sensibilizzare la collettività, stimolare l’incon-tro e il confronto tra persone, l’espressione culturale e la crescita civile in tutte le sue molteplici espressioni

Associazione di promozione sociale Patatrac Sede legale: via Alfonso I d'Aragona, 20 Aversa CEC.F. [email protected]

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