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Bruno Zanon - Università di Trento Territorio, ambiente, città Cap XII - 1 12. La pianificazione. Teorie e metodi 12.1. Pianificazione e piano Il problema della pianificazione si pone, in termini generali, quando devono essere prese delle decisioni relativamente all’assetto futuro di un contesto fisico o socio-economico, in condizioni di incertezza, per fini che possono in qualche modo riferirsi al concetto di interesse collettivo, all’interno di un quadro istituzionale, in presenza di soggetti diversi che possono agire, nel perseguimento dei propri obiettivi, secondo modelli di cooperazione o di conflittualità. La pianificazione riguarda quindi metodi e strumenti orientati ad affrontare problemi presenti da sempre nella attività dell’uomo, strettamente connessi al senso e alla struttura della organizzazione politico-sociale (chi e come decide quali sono le scelte migliori per la collettività?) ed a quella economica (uso appropriato di risorse scarse). Sono coinvolte questioni relative alla conoscenza (per la determinazione degli usi appropriati delle risorse, ma anche per gli aspetti connessi alla previsione del futuro), alla definizione della razionalità, in particolare della razionalità sociale (connessa all’interesse collettivo, anziché a quello individuale, Friedmann, 1993), ai modelli e agli strumenti della pianificazione, alla capacità di attuazione e controllo delle scelte. La pianificazione è, in sintesi, il processo di applicazione dell’insieme di strumenti per il governo di problemi complessi e il piano ne rappresenta il prodotto. In tale senso la pianificazione va intesa come un processo decisionale che presenta aspetti strettamente connessi alle questioni più ampie relative al governo della società. L’azione tecnica propria del piano vede così legami stretti con l’azione politica, imponendo non tanto delle distinzioni apodittiche tra tecnico e politico quanto un ragionamento sull’organizzazione sociale e sulla razionalità dell’azione di piano. Senza pretendere di entrare in un dibattito complesso, è opportuno comunque porre dei punti fermi di natura teorica per poter comporre un quadro efficace della strumentazione di piano. Da quanto osservato si può rilevare come, intuitivamente, il pregio della pianificazione sia quello di assicurare prestazioni migliori di un dato sistema rispetto al suo comportamento spontaneo. In realtà, esistono numerosi strumenti, ormai consolidati, per regolare i comportamenti e l’uso delle risorse: le leggi dell’economia, le norme giuridiche o sociali, le procedure previste dalle specifiche istituzioni politiche, ma spesso tutto questo non è sufficiente a garantire buoni risultati. L’esigenza della pianificazione emerge pertanto quando un determinato assetto giuridico, normativo, di intervento non appare sufficiente o entra in crisi. E’ il caso della città industriale e della nascita dell’urbanistica moderna, della grande crisi del 1929 e dell’intervento pubblico nell’economia e così via. La pianificazione può riguardare, da quanto detto, oggetti e settori di attività diversi e nella realtà essa è applicata in modo sempre più esteso. Pochi sono i campi dove non siano presenti forme di pianificazione. Molti aspetti metodologici ed alcuni strumenti operativi possono così riguardare filoni di intervento diversi (ad es., la pianificazione territoriale e quella dei servizi, la programmazione della spesa pubblica e l’organizzazione del sistema scolastico). Per quanto riguarda le discipline territoriali, il piano appare uno strumento ormai tradizionale, essendo questo il campo dove tale pratica ha avuto origine. La complessità della strumentazione in vigore, l’interazione sempre più frequente con momenti diversi di intervento, la rapida evoluzione disciplinare richiede tuttavia un chiarimento sulle finalità, sulle metodologie, sui contenuti della pianificazione.

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Cap XII - 1

12. La pianificazione. Teorie e metodi

12.1. Pianificazione e piano Il problema della pianificazione si pone, in termini generali, quando devono essere prese delle decisioni relativamente all’assetto futuro di un contesto fisico o socio-economico, in condizioni di incertezza, per fini che possono in qualche modo riferirsi al concetto di interesse collettivo, all’interno di un quadro istituzionale, in presenza di soggetti diversi che possono agire, nel perseguimento dei propri obiettivi, secondo modelli di cooperazione o di conflittualità. La pianificazione riguarda quindi metodi e strumenti orientati ad affrontare problemi presenti da sempre nella attività dell’uomo, strettamente connessi al senso e alla struttura della organizzazione politico-sociale (chi e come decide quali sono le scelte migliori per la collettività?) ed a quella economica (uso appropriato di risorse scarse). Sono coinvolte questioni relative alla conoscenza (per la determinazione degli usi appropriati delle risorse, ma anche per gli aspetti connessi alla previsione del futuro), alla definizione della razionalità, in particolare della razionalità sociale (connessa all’interesse collettivo, anziché a quello individuale, Friedmann, 1993), ai modelli e agli strumenti della pianificazione, alla capacità di attuazione e controllo delle scelte. La pianificazione è, in sintesi, il processo di applicazione dell’insieme di strumenti per il governo di problemi complessi e il piano ne rappresenta il prodotto. In tale senso la pianificazione va intesa come un processo decisionale che presenta aspetti strettamente connessi alle questioni più ampie relative al governo della società. L’azione tecnica propria del piano vede così legami stretti con l’azione politica, imponendo non tanto delle distinzioni apodittiche tra tecnico e politico quanto un ragionamento sull’organizzazione sociale e sulla razionalità dell’azione di piano. Senza pretendere di entrare in un dibattito complesso, è opportuno comunque porre dei punti fermi di natura teorica per poter comporre un quadro efficace della strumentazione di piano. Da quanto osservato si può rilevare come, intuitivamente, il pregio della pianificazione sia quello di assicurare prestazioni migliori di un dato sistema rispetto al suo comportamento spontaneo. In realtà, esistono numerosi strumenti, ormai consolidati, per regolare i comportamenti e l’uso delle risorse: le leggi dell’economia, le norme giuridiche o sociali, le procedure previste dalle specifiche istituzioni politiche, ma spesso tutto questo non è sufficiente a garantire buoni risultati. L’esigenza della pianificazione emerge pertanto quando un determinato assetto giuridico, normativo, di intervento non appare sufficiente o entra in crisi. E’ il caso della città industriale e della nascita dell’urbanistica moderna, della grande crisi del 1929 e dell’intervento pubblico nell’economia e così via. La pianificazione può riguardare, da quanto detto, oggetti e settori di attività diversi e nella realtà essa è applicata in modo sempre più esteso. Pochi sono i campi dove non siano presenti forme di pianificazione. Molti aspetti metodologici ed alcuni strumenti operativi possono così riguardare filoni di intervento diversi (ad es., la pianificazione territoriale e quella dei servizi, la programmazione della spesa pubblica e l’organizzazione del sistema scolastico). Per quanto riguarda le discipline territoriali, il piano appare uno strumento ormai tradizionale, essendo questo il campo dove tale pratica ha avuto origine. La complessità della strumentazione in vigore, l’interazione sempre più frequente con momenti diversi di intervento, la rapida evoluzione disciplinare richiede tuttavia un chiarimento sulle finalità, sulle metodologie, sui contenuti della pianificazione.

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12.2. La costruzione del piano tra tecnica e politica Quali sono le finalità dell’attività di pianificazione, qual è la natura del piano e come viene costruito? Alcune definizioni intuitive, che segnalano le attese nei confronti di questo strumento, possono essere le seguenti: - “quadro di previsione”: sottolinea l’esigenza di affrontare l’incertezza sul futuro mediante delle proiezioni e l’articolazione di forme di intervento conseguenti; - “quadro di coordinamento”: individua la compresenza di settori di intervento diversi ma in mutua relazione. La complessità delle interazioni richiede un raccordo delle azioni; - “quadro delle regole”: le azioni sono condotte da una pluralità di soggetti che devono essere orientati da una serie di norme prescrittive o indicative. In generale, si ha pianificazione quando si attua un processo nel quale vi sia la formulazione di obiettivi, la valutazione di possibili alternative, la scelta e l’attuazione. Le definizioni proposte descrivono la pianificazione nei termini di una attività socialmente rilevante ed utile ma, allo stesso tempo, fanno emergere aspetti contraddittori, in quanto con tale attività si devono affrontare questioni di natura e di livello molto diverso, che intrecciano in particolare aspetti specificamente tecnici con altri di tipo politico. Questa doppia natura è propria della pianificazione e deve essere tenuta nella dovuta considerazione. Da un primo elenco delle componenti (delle fasi, dei momenti) della pianificazione emerge con chiarezza l’ampiezza del campo di intervento e l’intreccio tra questioni di livello diverso. Esse non vanno pertanto intese come fasi in successione ma come momenti in qualche modo individuabili e strutturabili autonomamente, seppure in stretta relazione con gli altri fattori. Come si vedrà in seguito, le diverse concezioni della pianificazione e del piano, i differenti modelli di azione ed il ruolo assegnato alla sfera tecnica rispetto a quella politica definiscono in modo molto diverso tali componenti, prevedendo relazioni reciproche assai differenziate. In breve si possono distinguere: - percezione e costruzione del problema; - decisione di intervenire (precisazione degli obiettivi); - previsione (analisi/conoscenza/informazione); - Proposta/progettazione (formulazione di alternative); - valutazione; - scelta; - attuazione; - verifica. Quando inizia il processo di piano? Non necessariamente secondo l’ordine indicato. Inoltre, mentre alcune delle fasi individuate hanno carattere strettamente politico, altre sono di tipo tecnico. La percezione del problema e la decisione di intervenire avviene generalmente entro processi politico-sociali, anche se molte volte è proprio l’apporto tecnico a fornire informazioni o modelli di intervento che mettono in evidenza i problemi e inducono all’azione. Per questo non appare importante la percezione di una esigenza, ma la “costruzione del problema” - che è processo politico-sociale, pur con apporti tecnici -. Spesso, infatti, i problemi di pianificazione (non solo quelli, veramente) vengono costruiti a partire dalle “rappresentazioni” dei problemi stessi (nel nostro caso, del territorio). Le “rappresentazioni”, come vengono definite da alcuni geografi culturali francesi, sono immagini della realtà che intrecciano modi della conoscenza e processi di comunicazione attorno alle quali si costruiscono strategie politiche, alleanze, consenso: “una rappresentazione è una creazione sociale e/o individuale d’uno schema pertinente del reale” (Guérin, 1989, Gumuchian, 1991). E G. Dematteis (1995) precisa “...pertinente alle finalità da raggiungere”. Sono quindi un “progetto implicito” (Dematteis (1995). Le rappresentazioni sono spesso sostanziate da immagini forti definite sulla base di ipotesi precise di intervento, sollecitate da attori che hanno interessi

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specifici da sostenere. In questi casi (molto frequenti, per altro), i problemi vengono costruiti a partire dalle soluzioni. Ad esempio, non si affrontano le questioni relative al traffico (o meglio, alla mobilità), ma ad una certa circonvallazione o al tale parcheggio, oppure non si affrontano le esigenze abitative della popolazione ma le proposte di sviluppo sostenute dal mercato immobiliare. In questo, la pianificazione può costituire un momento importante di definizione corretta del problema o, almeno, di confronto tra un’impostazione ben strutturata dei problemi e la loro rappresentazione. Un’altra formulazione, esplicitamente progettuale, si ha nella costruzione di “visioni”, vale a dire immagini di un futuro desiderato e che traccia una prospettiva condivisa, che mobilita risorse e che sollecita azioni orientate. Insomma, gli obiettivi della pianificazione non sono dei dati, anzi: “... assumere gli obiettivi come un dato comporta l’introduzione indebita, in un processo che vede la partecipazione di molti attori, della logica strumentale fini/mezzi che è la logica della razionalità individuale” (Balducci, 1991). Quanto ai metodi e agli strumenti, vi sono esperienze ed approcci molto diversi, che corrispondono non solo a ipotesi e tradizioni tecnico-operative differenti ma a rapporti con la sfera politica diversificati, lasciando trasparire spesso precise ispirazioni politiche ed istituzionali (in particolare diverse ipotesi di struttura dello Stato).

12.3. Un discorso di metodo La pianificazione si pone come una attività definita da tempo attorno ad un proprio corpo disciplinare, che fa propri saperi settoriali e si connette a tradizioni diverse: quella del progetto (architettonico, di ingegneria), quella del governo delle organizzazioni -specie aziendali, ma anche pubbliche e militari -, del governo dell’economia, della definizione giuridica di regole e norme. Certamente nella concezione e nella tradizione del progetto (inteso in senso etimologico come proiezione e quindi risposta a una previsione) sono individuabili i fondamenti delle esperienze di pianificazione. La capacità di prefigurazione di un futuro diverso e di costruzione di modalità differenziate di attuarlo (disegno di spazi fisici, città ideali, società utopiche, ecc.) segna senza dubbio un momento importante di crescita intellettuale e sociale, anche se non implica la definizione di qualcosa che sia un piano. La pianificazione affonda quindi le radici da un lato nella tradizione della progettazione fisica della città e del territorio, dall’altro nella regolamentazione dei comportamenti individuali rispetto all’interesse collettivo, con particolare riguardo al governo delle attività economiche. E’ in particolare in questo filone che si sono sviluppati teorie, metodi e procedure. L’esperienza della pianificazione fisica, che è propria dell’urbanistica in senso stretto, rappresenta un patrimonio estremamente esteso di esperienze e di casi di intervento secondo un metodo fortemente formalizzato (il piano come progetto, come disegno). E’ però un approccio che non consente di dare risposta a problemi più ampi rispetto allo stesso oggetto di intervento, in quanto l’azione è finalizzata alla strutturazione di soluzioni specifiche (un certo assetto urbano o territoriale, una grande opera) e non riesce a dare conto pertanto del perché debba essere intrapresa una certa azione piuttosto che un’altra (quella particolare operazione urbana o territoriale) impiegando a tale fine determinate risorse (che vengono sottratte ad usi alternativi). Per questo, l’analisi delle esperienze urbanistiche può condurre a definire la pianificazione, in modo tautologico, come “quello che fanno i pianificatori”, vale a dire l’applicazione di un sapere tecnico ai fini dell’attuazione di una decisione presa altrove (una autorità superiore) oppure per soddisfare i requisiti normativi (il rispetto delle prescrizioni di legge) od ancora come un’azione che assume una configurazione solo grazie alla presenza di una forte personalità, che può intervenire anche sul sistema degli obiettivi (l’urbanistica dei maestri).

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Se si vuole invece affrontare il problema di quali possano essere il senso e il ruolo della pianificazione indipendentemente dall’oggetto concreto di intervento, intendendola come un metodo strutturato di analisi, scelta ed azione, è necessario ampliare l’orizzonte per considerare, almeno in una prima fase, l’insieme dei campi entro i quali si opera secondo procedure strutturate. L’ampliamento dell’orizzonte non viene proposto in modo generico considerando quali siano in teoria tutti i momenti del genere ma prendendo atto, in primo luogo, che vi è stato un ampliamento enorme dell’uso dello strumento di piano, sia nel campo urbanistico/territoriale sia in quello ambientale e nella gestione di processi di settore (uso delle risorse, servizi, trasporti, ecc.). Il caso delle questioni ambientali è, a questo proposito, emblematico, in quanto la diffusione del piano ha corrisposto alla necessità di fare fronte alla moltiplicazione delle dispute su molteplici aspetti, di scala e valenza diversa. Il concetto di piano e i modelli di azione che emergono sono tuttavia assai lontani da quelli della tradizione dell’urbanistica fisica e riguardano sempre più il processo decisionale in condizioni di incertezza e in presenza di una pluralità di soggetti che specifiche soluzioni organizzative di spazi ed oggetti. “La teoria della pianificazione è un campo eclettico, delimitato dalla filosofia politica, dall’epistemologia, dalla macrosociologia, dall’economia neoclassica e istituzionale, dall’amministrazione pubblica, dalla costruzione delle organizzazioni, dalla sociologia politica, dalla letteratura anarchica, marxista e utopistica. E’ dalla ricca miniera di queste variate tradizioni intellettuali che dobbiamo trarre le risposte alle nostre domande sulla pianificazione” (Friedmann, 1993). Le teorie e le esperienze di pianificazione rinviano infatti da un lato a tematiche generali relative al rapporto tra individuo e collettività, in particolare al problema della razionalità dell’agire sociale e quindi alle concezioni dello stato e del sistema economico, dall’altro a questioni operative, in quanto la pianificazione è un processo di conoscenza, valutazione, scelta e azione che richiede non solo criteri e metodi puntuali per ciascuna di queste fasi quanto un metodo fondato che consenta di strutturare il processo e di valutare gli esiti. Per quanto riguarda i riferimenti generali, relativi alle grandi opzioni (che peraltro tornano ricorrentemente anche nelle scelte operative), Friedmann ha tracciato un quadro sintetico che mette in relazione gli apporti teorici e pratici dell’analisi dei sistemi, dell’economia (neoclassica e del benessere), della teoria politica, della amministrazione pubblica e della teoria delle organizzazioni, della sociologia e di filoni di pensiero e politici che vanno dal pragmatismo al socialismo alla scuola di Francoforte. A parte le grandi elaborazioni filosofico-politiche del secolo scorso, la pianificazione si afferma a partire dalla prima guerra mondiale come uno strumento per “guidare il progresso sociale” (Friedmann, 1993). La pianificazione, da allora, è stata impiegata in contesti politici segnati da intenzioni sociali (i paesi socialisti, ad esempio, ma anche quelli con una tradizione forte di intervento statale e dove pesa la dottrina sociale della Chiesa). Tuttavia, a partire dalla Grande depressione anche nei paesi liberisti è cambiato il ruolo dello stato e si sono affermati metodi di intervento pianificati. Nel complesso, ambito privilegiato di applicazione del piano è quello dell’organizzazione del territorio e della città. Indipendentemente dalle grandi scelte, si tratta di un settore che comporta in ogni caso obblighi pressanti di regolamentazione entro un quadro strutturato, che rinvia sempre più spesso a problematiche di ampio respiro. Perché i problemi da affrontare, pur partendo da intenzioni concrete, sono di tale ampiezza? Esaminando un qualunque problema di pianificazione appare subito evidente come non sia facile distinguere tra una sfera di azione puramente operativa ed un’altra relativa alle grandi scelte politiche. In primo luogo non è semplice identificare degli ambiti dove si possa operare in assenza di giudizi di valore (anche la tecnica opera attraverso dei parametri che esprimono preferenze sociali: soglie di accettazione dei rischi, standard qualitativi e quantitativi, ecc.) oppure applicando una razionalità sociale (che si richiama ad obiettivi comuni e condivisi definiti a priori dalla sfera politica). I singoli soggetti, inoltre, non solo intervengono per affermare i propri interessi entro il quadro dato delle regole e delle responsabilità, ma operano per

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modificare tale quadro, vanificando così i confini posti all’azione. Ed ancora, va ricordato il problema dell’informazione sulla quale si basano le decisioni, che rinvia a quello più ampio della conoscenza e del sapere tecnico: quasi mai è possibile disporre di tutte le informazioni necessarie ed il loro controllo rappresenta quindi un fattore determinante del potere.

12.4. Alcuni nodi concettuali Uno dei nodi fondamentali della pianificazione consiste, come è stato notato, nella sua doppia natura, politica e tecnica, che significa stretta connessione di aspetti relativi al sapere specialistico da un lato e a giudizi di valore dall’altro. I problemi non si limitano tuttavia a questo, in quanto vi sono altre questioni cruciali - connesse alla struttura tecnica - che influiscono sull’efficacia di tale pratica e quindi sul suo stesso senso (il valore della pianificazione risiede infatti nella capacità di dare risposte qualificate). Si tratta di aspetti che devono essere tenuti ben presenti, perché rappresentano elementi costitutivi del problema e non fatti distorsivi di una realtà che potrebbe essere altrimenti ben governata. I soggetti La pianificazione entro una società pluralista vede intervenire diversi soggetti (singoli, ma anche gruppi sociali, di interesse o di pressione) che agiscono in modo consapevole (attori) o meno per conseguire determinati obiettivi. Questi obiettivi non sono necessariamente comuni all’intera società, anzi, molto spesso sono in conflitto con quelli di altri soggetti. Il confronto deve trovare uno spazio strutturato non solo nella sfera politica ma anche all’interno del processo di piano. La questione del conflitto non è infatti un mero accidente che si insinua in un meccanismo ben congegnato facendolo inceppare o deviare, ma una componente strutturale di tutto il processo. La presenza di una pluralità di attori richiede quindi, nei momenti della decisione (e quindi nel corso del processo di pianificazione) l’attivazione di meccanismi di interazione sia per garantire il rispetto dei principi democratici, sia per rendere efficiente il processo (partecipazione). La conflittualità riguarda peraltro non solo singoli soggetti privati ma anche quelli istituzionali (enti preposti a funzioni differenti o i diversi settori di uno stesso ente). Il richiamo all’interesse collettivo, anche in questi casi, appare quanto mai inefficace, in quanto non solo i singoli ma anche i diversi responsabili della cosa pubblica rispondono a logiche e ad interessi variegati: l’uomo politico cerca il riconoscimento a breve termine del suo operato da parte del gruppo di elettori che possono assicurargli la rielezione, il funzionario cerca di minimizzare le proprie responsabilità (e quindi di evitare decisioni scomode) o di conservare la sua fetta di potere (e quindi di evitare la modificazione dell’assetto istituzionale). E’ in questo processo di esplicitazione degli interessi, della loro organizzazione (i gruppi di pressione, le associazioni, i movimenti, ecc.) e della loro rappresentanza nella sfera politica che agisce la pianificazione, segnata sempre più dal ruolo della mediazione e della negoziazione. Queste fasi devono essere presenti in modo trasparente e strutturato nella pianificazione, sottraendole alle distorsioni della contrattazione occulta. Le scelte di piano creano infatti vincoli e valori che possono mettere in moto pressioni di difficile controllo. Il diverso ruolo della partecipazione segna infine i diversi stili di pianificazione (ad esempio: piano partecipato).

La partecipazione Gli attori, all’interno di un processo decisionale, possono assumere un atteggiamento di tipo conflittuale o di tipo cooperativo. Il primo tende ad ottenere dei vantaggi mettendo in campo i propri punti di forza. Il secondo assume che la collaborazione possa portare, se ben strutturata, ad una soluzione che sia di vantaggio per tutti gli attori. Per conseguire tale risultato devono essere naturalmente condivisi i valori di fondo e debbono essere messi in campo degli strumenti di valutazione da un lato e di mediazione dall’altro.

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Mentre i metodi di valutazione e di scelta (di tipo economico, ambientale, multicriterio, ecc.) rappresentano gli strumenti di “ausilio alla decisione” spesso impiegati (valutazione dell’impatto ambientale, analisi costi-benefici, ecc.), la partecipazione rappresenta lo strumento per modificare gli atteggiamenti di tipo conflittuale in atteggiamenti di tipo cooperativo.

La partecipazione rappresenta in ogni caso un problema delicato, in quanto riguarda il cuore della relazione tra tecnica e politica, che sempre emerge nella pianificazione. E’ un processo non solo di ascolto della comunità, ma di “costruzione” delle stesse relazioni sociali. Per questo, spesso, la sfera politica ritiene inutile un processo strutturato di partecipazione, in quanto è visto come un depotenziamento del ruolo del politico. Per contro, l’attivazione in modo non strumentale ma sostanziale di pratiche di partecipazione rappresenta sempre più non solo una scelta di democrazia ma anche di efficienza delle procedure, in quanto i risultati conseguiti sono condivisi e socialmente riconosciuti e possono evitare una successiva conflittualità al momento della attuazione delle scelte. Inoltre, se la pianificazione è intesa - come in molte esperienze straniere e sempre più spesso anche nel caso italiano - come intervento da un lato su un piano strutturale nel quale devono essere individuate e fissate le grandi opzioni (definizione delle strategie di lungo periodo) e costruite delle visioni che richiedono l’applicazione di valori, dall’altro su un momento operativo, nel quale non si attua semplicemente quanto previsto dal primo livello ma si operano delle scelte nella direzione stabilita (piano operativo), sapendo valutare nel concreto il valore della proposta ed i vantaggi conseguiti dai singoli attori e dalla collettività, la partecipazione diventa elemento nodale dell’azione, che assicura trasparenza e contribuisce alla valutazione e alla scelta. Con questo la comunità può partecipare a pieno alla “costruzione dei problemi” e non solo alla interlocuzione su temi e prospettive decise altrove. Per conseguire una vera partecipazione è tuttavia indispensabile che vi sia una adeguata informazione che consenta a tutti gli attori di operare su un piano di parità. La conoscenza La conoscenza rappresenta un momento importante in tutte le fasi della pianificazione, consentendo l’individuazione dei problemi, la formulazione di previsioni e la costruzione delle soluzioni. Alla base della conoscenza si pone l’informazione da un lato e le capacità tecnico-scientifiche dall’altro. Il primo aspetto riguarda la gestione di dati e informazioni con gli aspetti di tipo istituzionale, tecnologico e normativo connessi. Il secondo aspetto è strettamente legato al ruolo del tecnico nel processo di piano. La gestione dell’informazione costituisce in ogni caso un momento formidabile di potere e di assegnazione quindi di un ruolo privilegiato ad uno o ad alcuni dei soggetti in campo. Per questo, la partecipazione può avvenire solo sulla base di una adeguata diffusione dell’informazione. L’incertezza Uno dei concetti più importanti introdotti nel dibattito e nella prassi della pianificazione economica e territoriale è quello della scelta in condizioni di incertezza, che precisa la definizione di piano come processo decisionale. Tale acquisizione è estremamente importante perché parte dalla constatazione del non funzionamento dei meccanismi di mercato come base per operare delle scelte ed introduce una razionalità nuova, che comporta nuovi criteri e nuovi strumenti di scelta. Secondo la teoria neoclassica il comportamento del mercato (dei decisori che in esso operano) è descritto dalle curve della domanda e dell’offerta e su questa base è possibile prevedere e scegliere le operazioni migliori. In realtà, molti fattori modificano questo quadro: comportamenti psicologici, scarsa informazione (in questo caso la conoscenza è una risorsa economica ben riconoscibile!), obiettivi che non corrispondono al principio della massimizzazione del profitto (in particolare si può perseguire la minimizzazione dei rischi o la semplice permanenza sul mercato). Una distinzione importante è stata introdotta nel 1921 da Knight tra rischio e incertezza. Se disponiamo di informazioni sufficienti a giustificare l’assegnazione di probabilità ai differenti

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risultati possiamo parlare di rischio, nel caso contrario di incertezza. I metodi che ne derivano sono quello oggettivo (si occupa degli eventi ripetuti: è la disciplina statistica) e quello soggettivo, che riguarda il caso dell’incertezza, nel quale i risultati non possono neppure essere previsti in termini probabilistici (teoria delle decisioni). Nel campo della pianificazione l’introduzione del concetto di incertezza (Friend, Jessop, 1969) comporta da un lato l’attivazione di azioni conoscitive e dall’altro una strutturazione flessibile del piano, in modo che esso possa adattarsi alle necessità future. Il piano si configura così come un sistema ciclico ed elastico, che affronta i vari tipi di incertezza al fine di ridurne gli effetti. E’ richiesto pertanto un flusso continuo di informazioni ed una successione di valutazioni e decisioni. Il piano così inteso è però cosa molto diversa da quello della tradizione architettonica. Altr i metodi ed altre pratiche impiegati entro questo filone sono indirizzati a valutare l’influenza dei parametri scelti sulle decisioni (analisi di sensitività), il “costo dell’errore” dovuto alle carenze previsive (analisi del rischio), il numero di decisioni lasciate aperte in vista di un miglioramento delle condizioni della decisione (analisi di robustezza). La razionalità La razionalità costituisce un concetto ampio, sul quale sono intervenuti molti pensatori in ambiti diversi, che occupa un ruolo importante nella pianificazione in quanto riguarda il senso stesso dell’agire con un piano ed in quanto connette gli aspetti operativi a piccola scala con quelli relativi al sistema sociale. I motivi di questo rilievo risiedono nell’assunzione, fin dal ragionamento di base della pianificazione e più accentuatamente in alcuni indirizzi, che un approccio razionale porta al conseguimento di risultati migliori all’interno delle condizioni date (ma, tautologicamente, è razionale proprio l’iter che consegue i risultati migliori). La valutazione che un cambiamento, parziale o radicale, delle condizioni date porterebbe a risultati di gran lunga migliori, segna il passaggio dal livello tecnico a quello politico, con tutte le implicazioni relative al rapporto tra queste due funzioni. Le proposte di definizione della razionalità mirano a circoscriverne il campo di validità e di azione facendo riferimento al sapere tecnico: “La pianificazione mira a collegare la conoscenza scientifica e tecnica alle azioni in un dominio pubblico” (Friedmann 1993); “La razionalità tecnica è limitata a selezionare i mezzi per conseguire fini definiti”, (Faludi 1987). “Nella sua forma più semplice, la razionalità è il modo di scegliere i mezzi migliori per ottenere un dato fine. Questo tipo di razionalità, chiamato ‘razionalità strumentale’, consente di scegliere i mezzi ottimali per raggiungere gli scopi dati… In una visione più generale, comunque, la razionalità include la valutazione e la scelta tra diversi obiettivi così come il problema di relazionarli ai valori ultimi degli individui, delle organizzazioni o della società. Questo genere di razionalità è stata chiamata ‘sostanziale’ o ‘razionalità valutativa’” (Alexander, 1997). Inoltre, al fine di non entrare nel merito della valutazione del sistema politico-sociale ed economico, si richiama la necessità di non fare riferimento a valori (razionalità limitata). Ma è proprio la difficoltà ad operare in tale modo e il riemergere continuo di elementi di valutazione del sistema sociale che conducono politica e pianificazione ad incontrarsi spesso, pur rappresentando in qualche modo approcci antagonisti (segnato da giudizi di valore e da valutazioni soggettive il primo, da scelte fondate su cognizioni scientifico-tecniche il secondo, si è detto). E’ inoltre evidente che nella pianificazione, dovendo far prevalere le finalità operative, la valutazione dell’azione può essere fatta solo in relazione ai risultati, in termini quindi di efficacia (in rapporto ai fini) e di efficienza (in rapporto ai mezzi impiegati per raggiungere lo scopo). Ma questo comporta il riferimento agli obiettivi, con le questioni connesse al concetto di bene comune e agli aspetti concreti della loro definizione operativa. Anche per quanto riguarda i mezzi, si deve considerare che nei diversi contesti normativi e sociali il piano trova una diversa strutturazione ed un ruolo diverso quanto a strumento tecnico, amministrativo, politico.

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L’affermazione di una razionalità sociale appare a questo punto un elemento forte, che riconduce tuttavia la pianificazione ad un ambito che non può essere che tecnico-politico. “Il perseguimento incontrollato dei rispettivi interessi da parte di individui e corporazioni venne riconosciuto quale razionalità di mercato. (l’individuo è sovraordinato alla società). La dottrina della razionalità sociale (19° secolo) pose l’assunto opposto: le formazioni sociali erano logicamente anteposte all’individuo, la cui identità di persona derivava dall’appartenenza a un particolare gruppo. Poiché gli interessi collettivi precedevano sempre gli interessi individuali, cessava di valere il principio di Pareto [che definisce come condizione di ottimo del sistema economico quella nella quale nessuno individuo può migliorare la propria posizione senza che qualcun’altro peggiori la propria]. Dopo la Grande Depressione, una terza posizione veniva via via adottata in tutto il mondo capitalistico. Alla razionalità di mercato doveva consentirsi piena libertà di movimento, ma solo entro vincoli legislativi progettati per la tutela dell’interesse collettivo. Dunque, per mitigare le conseguenze negative della razionalità di mercato per la popolazione e le sue comunità, lo stato dovrebbe intervenire nei mercati con gli strumenti della pianificazione per una progressiva redistribuzione dei redditi, basilari programmi di servizi sociali, ecc...” (Friedmann, 1993). Infine, un aspetto che riconnette incertezza, razionalità, agire sociale, è quello del ruolo effettivo della pianificazione. Si tratta, in breve, del “Paradosso della fattibilità” (Lindblom, Wildavsky, Friedmann), citato da Friedmann (1993): “dove la pianificazione per il futuro è fattibile (basata su buoni dati e abilità analitiche, essendo estrapolata la continuità nella tendenza e mezzi efficaci per controllare i risultati), allora la pianificazione non è necessaria - è semplicemente ridondante rispetto a quello che già sta andando avanti. Per contro, dove la pianificazione è maggiormente richiesta (dove c’è assenza di dati e controllo in presenza di condizioni sociali primitive o turbolente) la pianificazione è meno fattibile”. Due esempi Sulla razionalità dell’intervento di pianificazione si possono citare due esempi. Il primo, che probabilmente viene presentato in tutti i corsi di pianificazione del mondo, è quello del gelataio sulla spiaggia. Su una spiaggia affollata di bagnanti e ben delimitata (può essere descritta come il segmento A-B) arriva un gelataio. Come sceglierà la sua collocazione? Dopo avere bene riflettuto, si posizionerà esattamente a metà dell’estensione della spiaggia (punto C) in modo da servire nel modo migliore i bagnanti, inducendo il numero maggiore di essi a comperare i gelati. A questo punto arriva un secondo gelataio. Dove si collocherà? Dopo aver valutato diverse alternative, si posizionerà in prossimità del primo (punto C’). Perché? Perché in qualsiasi altra posizione egli coprirebbe una estensione inferiore a quella del suo concorrente e quindi venderebbe meno gelati. Cosa farebbe il pianificatore? Applicando una visione “razionale” collocherebbe d’autorità i due gelatai ad un terzo ed a quattro terzi dell’estensione della spiaggia, assicurando così una copertura equa della sua lunghezza e garantendo ai due gelatai un numero eguale di clienti. 1a ipotesi A__________________________C_C’____________________________B 2a ipotesi A_____________C____________________________C’______________B

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L’esempio dovrebbe concludersi qui, avendo dimostrato senza ombra di dubbio che l’intervento di piano migliorerebbe la situazione, eliminando i comportamenti distorti del mercato o comunque dei soggetti che operano secondo una logica individuale. In realtà, a meno che i due gelatai non vendano esattamente la stessa merce, il consumatore probabilmente prima di acquistare vorrebbe vedere cosa vende l’altro e quindi nella seconda ipotesi si sobbarcherebbe un percorso più lungo rispetto alla prima. Non solo, la presenza di più venditori produrrebbe un minimo di “agglomerazione”, un certo movimento di gente, che attirerebbe di più che non un singolo gelataio. In termini urbanistici si potrebbe definire questo un “effetto città” e quindi è dubbio che sia una risposta razionale evitarlo. Un altro esempio, che sottolinea quale sia la difficoltà di perseguire un comportamento razionale - anche per un singolo con obiettivi e valori ben precisi, quando vi sia una pluralità di soggetti ed una condizione di incertezza - è quello del “dilemma del prigioniero”. Sono stati presi due prigionieri, accusati di un delitto che richiede una dura condanna. Si sa che uno solo è responsabile ma non vi sono prove e si persegue pertanto la confessione o la defezione. Ad ogni prigioniero, tenuto in isolamento senza possibilità di comunicazione con l’altro, viene proposta l’alternativa tra confessare, ricevendo una pena più leggera (ad esempio un certo numero di anni di prigione), oppure dichiararsi innocente e venire scarcerato. Se però si dichiara innocente pur essendo colpevole, allora verrà giustiziato. Il comportamento di ciascuno è influenzato in modo determinante dai possibili effetti del comportamento dell’altro. In particolare, si può tracciare il seguente quadro, sulla base dello schema (modificato) di Zeppetella (1996).

B

D C

A C

+ 2

-2

1

1

D

- 1

-1

-2

+2

Per ogni prigioniero A e B vi sono due posizioni: Defezione (si dichiara innocente e accusa il compagno) e Collaborazione (si dichiara colpevole), riportate rispettivamente nelle righe e nelle colonne. L’incrocio delle decisioni è il seguente: Collaborazione di A e Defezione di B: B è liberato (punteggio +2) e A riceve una pena pesante (-2). Defezione di A e Defezione di B: entrambi mentono. Tutt’e due ricevono una pena abbastanza severa (-1) per la mutua defezione. Collaborazione di A e Collaborazione di B: entrambi sono inaffidabili ma ricevono un compenso per la mutua collaborazione (+1). Defezione di A e Collaborazione di B; è la posizione simmetrica rispetto alla prima: A viene liberato (+2) e B riceve una pena pesante (-2).

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Qual è l’esito finale? Il rischio di venire condannati è molto elevato, vista l’incertezza del comportamento dell’altro prigioniero. Il vantaggio maggiore si ha, del resto, quando uno si dichiara innocente mentre l’altro accetta la colpevolezza. Un premio apprezzabile si otterrebbe per la mutua collaborazione, ma questo non può essere deciso di comune accordo e comunque varrebbe la pena di perseguire il vantaggio massimo. In questo caso si rischia la pena per la mutua defezione. L’esito probabile è quello dello stallo: entrambi rinviano la decisione. Questo è un esempio classico della Teoria dei giochi, disciplina che critica le teorie dell’equilibrio della economia neoclassica definito come problema di massino in un contesto di perfetta conoscenza del mercato ed in assenza di coalizioni, collaborazioni o interventi esogeni. La rilevanza di questo ragionamento appare chiara se si riflette alle molte situazioni reali di grande incertezza nelle quali si trovano ad operare i soggetti economici e quelli attivi sul territorio. Difficilmente è perseguibile la massimizzazione dei propri benefici e pertanto si sceglie una soluzione meno rischiosa anche se di esito meno soddisfacente. Un caso tipico è quello del rinnovo edilizio in un’area degradata: l’operatore che per primo prende l’iniziativa corre un grosso rischio, in quanto se l’operazione va in porto i vicini vengono premiati (incremento del valore degli immobili, possibilità di estendere il rinnovo), ma se nessuno segue l’esempio, difficilmente un edificio riqualificato che rimane in un’area degradata incrementerà di valore in modo significativo. E’ poco probabile quindi trovare qualcuno disposto a intervenire per primo, ma se nessuno interviene, tutti subiranno dei danni. Casi analoghi si hanno nel settore ambientale. Ad esempio, chi si accolla l’onere della depurazione migliorando la qualità delle acque del fiume consentendo agli altri di scaricare liberamente?

12.5. Verso una definizione Da quanto detto, la pianificazione riguarda la gestione dell’intero processo, complesso e conflittuale, relativo alla definizione degli obiettivi, alla scelta delle azioni da intraprendere, alla attuazione, alla valutazione degli esiti. Quello che emerge, da questo breve discorso introduttivo, è che il problema riguarda in primo luogo la decisione (il processo di pianificazione), non tanto lo strumento (il piano). E’ un approccio procedurale, quindi, non sostantivo (relativo alle conoscenze e azioni finalizzate ad un particolare campo) quello che si vuole proporre. La definizione di un metodo nella pianificazione riguarda inoltre la precisazione delle modalità di relazione tra le fasi del processo e tra i diversi soggetti, evitando di desumere da un concetto astratto di razionalità approcci autocratici (il “principe” decide per tutti) o tecnocratici (chi conosce, cioè il tecnico, decide) ma anche evitando di costruire un processo entro il quale il pianificatore può fornire solo un contributo basato semplicemente sulla conoscenza del sistema di pianificazione o sull’adeguamento ad un sistema normativo o ad una prassi che prevedono in ogni caso qualcosa che si chiama piano: “...c’è l’ente preposto, c’è la legge, c’è l’assessore, bisogna fare il piano!” (Thomas, Healey, 1991). “Escludendo il caso della pianificazione totalitaria, dove una mente direttrice governa l’intero sistema sociale ed economico, la pianificazione per sé costituisce un concetto astratto, una forma teorica - definibile, ad esempio, come il legame tra la conoscenza e i processi di trasformazione sociale -. Le forme di pianificazione parziale e settoriale (pianificazione dell’uso del suolo, pianificazione sanitaria, ecc.) - e cioè le forme di pianificazione che conosciamo nella pratica - rinviano, potenzialmente, alla pianificazione come forma teorica. Perché la pianificazione possa sempre funzionare, ogni forma di pianificazione deve rispettare tre condizioni: definire i propri fini; essere legata a specifiche attività di pianificazione; avere standard di valutazione orientati alla risoluzione delle contraddizioni tra la razionalità sociale e quella di mercato, alla riconciliazione di utilità e diritti.

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Storicamente, unico criterio comune alle differenti forme di pianificazione è stato l’interesse pubblico. ... Senza un criterio utilitarista la pianificazione è cieca. Diviene, allora, un mero strumento di sviluppo di politiche basate su di un sistema di valori rispetto al quale non ha nulla da proporre o opporre. Se l’interesse pubblico è definito come scelta di maggioranza la condizione della pianificazione non migliora, poiché il sistema di valore su cui le politiche si basano è il sistema di valore della maggioranza che governa, e la pianificazione di nuovo perde autonomia e identità di fronte ai valori della maggioranza.” (Mazza, in Friedmann, 1993). Ed ancora, una definizione teorica della pianificazione la possiamo trovare in Friedmann: “In ognuna delle aree sostantive della pianificazione, come la difesa nazionale, la pianificazione sociale, lo sviluppo economico, la progettazione urbana, i pianificatori allestiscono particolari teorie cui riferire il loro lavoro. ...assumerò che ogni specifica applicazione della pianificazione deve fronteggiare alcuni problemi metodologici comuni, come quello di fare previsioni, conseguire forme appropriate di partecipazione dei cittadini, costruire modelli utili per l’esplorazione di strategie alternative di azione. Ma assumerò anche che tutta la pianificazione deve misurarsi con il problema metateorico del come rendere la conoscenza tecnica della pianificazione efficace nel perseguimento di azioni pubbliche...”.

12.6. Teorie e tradizioni della pianificazione Il punto di partenza per le teorie attuali può essere stabilito nella Grande depressione successiva alla crisi del 1929, quando apparve chiaro che il mercato richiedeva interventi forti di regolamentazione. Da allora anche nei paesi improntati al più ampio liberismo quasi ogni attività economica è soggetta a regolamentazioni, a forme di indirizzo e di governo e l’azione pubblica è inquadrata in procedure che tendono a controllarne l’efficacia e l’efficienza. In questo quadro si colloca la messa a punto di principi, di metodi e di strumenti che intendono individuare gli obiettivi e mettere a punto procedure di valutazione dei risultati. Gli esempi operativi tratti dalle esperienze successive alla Grande Depressione, quando il ruolo dello Stato nei confronti del mercato ha assunto un ruolo decisivo (e in questo va ricordato l’apporto di economisti quali M. Keynes) si configurano non solo per un peso inconsueto del pubblico in termini di regolamentazione e di investimento ma anche per la formulazione di obiettivi, la valutazione di possibili alternative, la scelta. Tra le esperienze applicative, va citata in particolare quella che, nell’America del “New Deal” roosveltiano, venne intrapresa con la Tennessee Valley Authority, ente che, a partire da un grandioso progetto di valorizzazione territoriale (centrali idroelettriche, insediamenti produttivi, valorizzazione di risorse ambientali), sviluppò un’esperienza di intervento pubblico inquadrato in strumenti di pianificazione di grande rilievo. L’economia del benessere rappresenta l’orizzonte teorico ed operativo più importante a questo proposito, in particolare per l’assunzione normativa della definizione di configurazione ottima di un’economia (nel senso paretiano della posizione verso la quale si tende migliorando la condizione di almeno un individuo senza peggiorare quella degli altri, come si è detto). Si consolidava così la proposizione già avanzata da Walras (in un suo libro del 1920 intitolato Economia del benessere) secondo la quale la configurazione concorrenziale coincide con una configurazione ottima. L’assunzione a valore normativo (è necessario ricercare la configurazione ottima) comporta interventi pubblici al fine di rimuovere le cause che impediscono il raggiungimento di tale stato (assicurando, in particolare, la libera concorrenza). Il concetto di bene comune, che in tale contesto è definito come una funzione sommatoria del grado di benessere dei singoli individui, ha tratto non solo un rafforzamento ma anche una definizione più operativa da questo principio. Un ulteriore sviluppo è stato definito dal criterio di Kaldor-Hicks, che consente la compensazione tra le situazioni migliorate e quelle peggiorate dei singoli individui. Insomma, può essere considerato un miglioramento delle condizioni complessive

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quello nel quale non solo c’è stato un miglioramento delle posizioni di tutti ma anche quello che ha visto migliorare solo una parte della società, purché tale miglioramento consenta di compensare la rimanente parte. Il mercato non è preso più, a questo punto, a riferimento della razionalità, essendo introdotti altri criteri, anche di natura operativa, per indirizzare le azioni pubbliche. Entro questo filone si colloca l’elaborazione della “Analisi Costi Benefici”, strumento finalizzato alla valutazione di ipotesi alternative di investimento pubblico ed altre tecniche che avrebbero costituito in seguito la base per procedure di valutazione come la valutazione dell’impatto ambientale (V.I.A.). In parallelo a queste esperienze proprie delle economie di mercato si sono sviluppate quelle dei paesi socialisti, dove il piano è stato assunto a strumento di governo e a paradigma della razionalità del nuovo stato. Le ragioni del fallimento di queste esperienze risiedono, tra l’altro, nella convinzione che gli aspetti tecnici potessero essere gestiti separatamente da quelli politico-sociali. Attualmente, nei paesi ad economia di mercato la pianificazione riguarda campi diversi, come l’economia, gli aspetti sociali, quelli ambientali, urbani, dello sviluppo regionale. Secondo Friedmann (1993) in tale contesto il ruolo della pianificazione può essere definito da alcune considerazioni: - nelle società di mercato il coordinamento centralizzato di tutte le attività di piano è con ogni evidenza impossibile; - la stessa attività di piano può tagliare trasversalmente numerosi livelli di organizzazione territoriale, dai livelli nazionali e statali al livello locale; - la pianificazione fisica o progettazione è ora solo una piccola area della pianificazione; - la pratica moderna della pianificazione è un processo sociale e politico che vede la partecipazione di numerosi attori. Tali concetti riflettono da un lato l’evoluzione del ruolo dello stato, l’ampliamento dei campi di azione e la complessificazione del processo della pianificazione, dall’altro i modelli, teorici e operativi, che sono stati sviluppati nel corso degli ultimi decenni. Questi possono essere ricondotti ad alcuni filoni. Una prima distinzione di fondo va però fatta tra le teorie e le pratiche sostantive e quelle procedurali o, in altri termini, tra la concezione del piano-progetto e quella del piano-processo. Le prime riguardano la natura dei problemi e dei processi sociali che risiedono al di fuori della professione, ai quali i pianificatori si indirizzano (Hudson, 1979). Le seconde si riferiscono alle tecniche e ai modelli procedurali che definiscono il lavoro degli stessi pianificatori. Altre definizioni, che possono in parte sovrapporsi, riguardano il piano come strumento progettuale relativo all’assetto fisico (pianificazione fisica) che si pone in alternativa al processo decisionale (pianificazione delle decisioni, pianificazione strategica); gli esiti si hanno in relazione al diverso prodotto: il piano disegnato (la mappa, la norma) nel primo caso, il processo nel secondo. Rispetto alla dimensione temporale possiamo avere un piano statico o uno dinamico. Relativamente all’esito normativo (la “cogenza” dello strumento) si può così avere un piano prescrittivo (rigido, che presume di poter soddisfare le esigenze future) o indicativo (che si basa sul principio di demandare, a tempi successivi e a soggetti decentrati, l’attuazione delle previsioni di massima). Questo aspetto si connette a sua volta a quello della relazione con gli altri piani, che può svolgersi secondo uno rapporto di tipo gerarchico (sovra o sotto-ordinato) o non gerarchico (pari ordinato). Quanto alle esperienze e ai metodi, il riferimento principale è quello della “pianificazione razionale”, paradigma che ha segnato il dibattito e che, pur aspramente criticato, permane spesso, in carenza di altre definizioni più efficaci, come riferimento per l’azione. “Per molti anni, la pianificazione è stata definita come l’arte dell’assunzione razionale di decisioni sociali (Robinson, 1972, Faludi, 1973). La razionalità era definita come una procedura standard per l’assunzione di decisioni (identificazione degli obiettivi, considerazione di tutte le alternative rilevanti o più importanti, definizione delle principali conseguenze di ogni corso di azione, ecc.). Si trattò di quella che venne definita pianificazione “sinottica”, ma che come

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meccanismo risultò di difficile applicazione. Charles Lindblom propose, quale modello decisionale alternativo, una strategia di “adattamento progressivo” (Lindblom, 1959, 1979). Il contenuto teorico di entrambe le concezioni venne presto messo in discussione, comunque. Alcuni autori, come Etzioni (1968), proposero dei miglioramenti al meccanismo della pianificazione razionale. I fautori dell’“adattamento”, sull’altro versante, segnarono a proprio vantaggio pochi punti teoretici. Le loro proposte per un processo decisionale incrementale, per un “mutuo aggiustamento delle posizioni in conflitto”, per un “soddisfacimento”, rappresentarono il modello economico di mercato (Simon 1976; Lindblom 1965). L’implementazione del loro modello avrebbe lasciato le cose esattamente al punto di prima. Questa fu la teoria della pianificazione nella sua forma più apologetica. Il modello pianificatorio della scelta razionale ha ristagnato per quasi due decenni. Ai primi fondamentali contributi di Simon, Banfield (Meyerson and Banfield 1955), Lindblom, Etzioni, è stato aggiunto poco di nuovo. E malgrado l’ampia e talora virulenta critica (Caiden and Wildavsky, 1979), il modello continua a essere in voga, può sospettarsi, solo dal momento che nulla di migliore è apparso fin qui all’orizzonte. I tempi sarebbero perciò maturi per un nuovo approccio concettuale.” (Friedmann, 1993).

12.7. Gli approcci alla pianificazione In breve, i diversi approcci impiegati nella pianificazione, o che hanno assunto un certo rilievo nel dibattito, possono essere tratteggiati nel modo seguente, sulla base dell’apporto di alcuni autori, in particolare Hudson (1979), ma anche Faludi (1973 e 1987), Friedmann (1993), Baum (1995). Le differenze si possono identificare in base al peso diverso assegnato all’interesse pubblico, ai valori dell’individuo, alla fattibilità, alla capacità di proposta, alla processualità, alla capacità di apprendere (Hudson, 1979). Pianificazione razionale La pianificazione razionale (o sinottica, o razional-comprensiva), è la tradizione dominante e il punto di partenza per la maggior parte degli altri approcci. Ha, grosso modo, quattro elementi classici: 1) definizione degli obiettivi 2) identificazione delle politiche alternative 3) valutazione dei mezzi rispetto ai fini e 4) implementazione delle decisioni. Il processo non è sempre intrapreso in questa sequenza e ciascuna fase consente multiple iterazioni, anelli di retroazione e elaborazione di sotto-processi. “I critici hanno formulato modelli alternativi che danno riconoscimento a certi aspetti di realtà pur cercando di conservare le virtù del modello razionale. Noti esempi sono l’incrementalismo disarticolato (Braybrooke e Lindblom, 1963), l’esplorazione mista (mixed scanning, Etzioni, 1968), la pianificazione contingente (Alexander, 1984) e il pragmatismo critico (Forester, 1989)” (Baum, 1995). Il modello razionale è nato dalla “scuola di Chicago” (l’Università di Chicago) negli anni ‘40-’50, quando venne organizzato un corso di laurea in educazione e ricerca in pianificazione che recuperava l’esperienza del New Deal e connetteva le scienze sociali con la pianificazione. H. Baum (1995), citando l’apporto di Banfield, descrive sinteticamente l’approccio razionale nel modo seguente: 1. il decisore considera tutte le alternative (corsi di azione) che gli si aprono... 2. identifica e valuta tutte le conseguenze che dovrebbero seguire all’adozione di ciascuna alternativa...; e 3. seleziona quelle alternative le cui probabili conseguenze sarebbero preferibili nei termini degli obiettivi cui attribuisce maggior valore. La critica mossa a questo approccio sottolinea alcune incongruenze teoriche e le conseguenti difficoltà attuative, dovute ad una idealizzazione dello schema del processo decisionale reale.

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“Perché i pianificatori dovrebbero prendere decisioni razionalmente? Faludi (1973) sosteneva che “la pianificazione razionale produce sviluppo e... lo stesso processo di pianificazione razionale può essere visto come un veicolo per il vero e proprio processo di sviluppo”.... Da un punto di vista empirico (il modello razionale) non descrive come i pianificatori, gli amministratori o i politici prendono le loro decisioni. L’attenzione e l’informazione sono limitate e gli interessi restringono le alternative praticabili. Spesso gli obiettivi sono confusi e i criteri per valutare le conseguenze sono in conflitto tra di loro. Le previsioni sono difficili. Infine, tutte queste difficoltà sono combinate quando, come normalmente avviene, molti attori partecipano alle decisioni.” (Baum, 1995). “Come guida per raccogliere e analizzare informazioni, il modello razionale ha delle virtù. Interpretato in senso generale, invita i pianificatori a raccogliere una grande quantità di informazioni per comprendere un tema. Dice loro di fissare obiettivi in termini di problemi identificati. Richiede ai pianificatori di giustificare le raccomandazioni nei termini degli obiettivi a cui ci si aspetta debbano rispondere e di scegliere tra le alternative sulla base di criteri espliciti. I problemi del modello razionale sorgono dagli assunti a proposito di chi lo pratica, che accompagnano quel modello e che fanno parte delle sue origini culturali e della sua storia. Il modello incoraggia i pianificatori a pensare di vivere in un mondo di informazioni senza esseri umani, dove il compito è di organizzare l’informazione logicamente, ma non di organizzare politicamente le persone (che hanno informazioni, idee e interessi)” (Baum, 1995). Nonostante le critiche non mancano gli apprezzamenti: “... l’obsolescenza di questo modello razionale è uno dei dogmi uditi più di frequente. E’ stato detto che è basato sull’assunzione della certezza, su una visione consensuale della società, su una visione tecnocratica del ruolo del pianificatore... Ma il “modello razionale di pianificazione” soffre realmente di questi problemi? ... La formulazione originale del modello anticipa praticamente tutte le critiche che gli sono state rivolte da allora; i suoi critici non sono stati capaci di aggiungere molto alla sua originale formulazione” (Faludi, 1987). Lo stesso autore sottolinea però il ruolo di alcune innovazioni, che cambiano sostanzialmente gli assunti iniziali (il concetto di “scelta strategica” della scuola IOR, il ruolo delle decisioni operative, il ruolo del modello razionale non come norma ma come regola per verificare le decisioni (Faludi, 1987). Pianificazione incrementale Si tratta di un approccio che individua la pluralità dei soggetti e la loro forte carica individualistica. Un esponente di rilievo di questo indirizzo è C. Lindblom, che lo descrive come “incrementalismo sconnesso” (disjointed incrementalism) – affrontando i problemi per piccoli passi piuttosto che per grandi passi verso obiettivi importanti – (Healey, 1997). Più tardi ha formulato la sua proposta come “aggiustamento mutuo di parte” (partisan mutual adjustment). I risultati si ottengono attraverso l’azione di istituzioni definite con forme di contrattazione decentrata adatta al libero mercato e alla politica economica democratica. E’ la pianificazione come “la scienza di arrangiarsi” (the science of muddling through). Pianificazione transattiva La pianificazione non è condotta rispetto ad una anonima comunità obiettivo ma in contatto faccia a faccia con la gente interessata alle decisioni. La pianificazione non consiste tanto in inchieste sul campo e analisi di dati quanto in un dialogo interpersonale segnato da un processo di mutuo apprendimento. Advocacy planning Il movimento dell’Advocacy planning è cresciuto negli anni ‘60 attorno a procedure di contrapposizione modellate sulla professione legale e usualmente applicate alla difesa di interessi deboli contro quelli forti. Si profila in tale modo il ruolo dell’”l’urbanista di parte”, secondo il titolo del libro di P. Crosta. “Paul Davidoff, nel famoso articolo ‘Advocacy and pluralism in planning’ sostenne che è impossibile per il pianificatore essere completamente libero da valori rispetto ai fini,

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poiché i pianificatori - in quanto persone - hanno valori… Egli perseguì quindi una modalità di pianificazione che evidenziò la diversità dei valori presenti entro la pluralità degli interessi propri di una comunità politica. In questo contesto, sostenne che i pianificatori non dovrebbero essere neutrali rispetto ai valori… ma dovrebbero diventare consci dei valori, dichiarare quali sono i propri e rendersi disponibili a clienti che desiderino perseguire tali valori” (Healey, 1997). L’Advocacy Planning si è dimostrato efficace nel bloccare piani poco sensibili ai problemi sociali e ha messo alla prova la tradizionale visione dell’interesse pubblico unitario. In teoria, esso richiede lo sviluppo di una pluralità di piani piuttosto che di un piano unitario (Davidoff). Per contro, è stato criticato per aver posto blocchi senza essere in grado di mobilitare egualmente un supporto efficace per costruire alternative. Radical planning E’ una tradizione ambigua con due correnti di pensiero che occasionalmente confluiscono assieme. Una versione (tornare alle radici) è associata con l’attivismo spontaneo, guidato da una visione idealistica ma spontanea di auto aiuto e mutuo intervento (Schumacher, Goodman, Illich, Turner..). Il secondo filone assume uno sguardo più critico e olistico ai processi sociali a grande scala: gli effetti delle strutture di classe e delle relazioni economiche, il controllo esercitato dalla cultura e dai media, le dinamiche storiche dei movimenti sociali (teoria dello stato, più che problem-solving). Pianificazione strategica “Il termine strategic planning associato a politiche e strumenti di pianificazione spaziale contraddistingue una storia ormai pluridecennale: risale infatti alla metà degli anni ‘60 quando in alcuni paesi europei vengono definiti strategici piani sovra-locali di indirizzo socioeconomico e di inquadramento territoriale, proiettati in una prospettiva temporale di medio-lungo periodo. Dagli anni ‘60 ad oggi è mutato il contesto spaziale da governare attraverso i piani, e sono di conseguenza mutati approcci, contenuti e strumenti della pianificazione strategica” (Gibelli, 1996). I carattere precipui della pianificazione strategica, pur entro un processo evolutivo, sono quelli della decisione come centro del processo di piano, dell’uso di metodi e strumenti di valutazione e scelta che intrecciano aspetti territoriali, socio-economici e politici, della dimensione territoriale ampia come spazio privilegiato di intervento, in sintonia con una organizzazione dei piani urbanistici secondo un livello “strutturale” ed uno “operativo”. M.C. Gibelli individua tre generazioni di piani strategici: “La prima ... è quella, ben nota e consolidata, della pianificazione sistemica; la seconda è quella che si è venuta impostando, dapprima negli Stati Uniti e successivamente in alcuni paesi europei, che si caratterizza per l’applicazione dello strumento della pianificazione strategica in uso nelle grandi imprese alla pianificazione e alla gestione della città; la terza, che si annuncia negli anni ‘90, è quella che ho definito tentativamente “reticolare” e “visionaria”“ (Gibelli, 1996). Pianificazione come scelta strategica (IOR school) Questo approccio, sviluppato in particolare da J. Friend e N. Jessop all’interno dell’Institute of Operational Research di Londra negli anni ‘60 e ‘70, sottolinea il ruolo della pianificazione come momento decisionale riguardante problemi rilevanti entro un orizzonte di incertezza (relativa alla realtà e alle sue modificazioni future, ai valori, alle scelte in altri campi interconnessi). Fornisce degli strumenti per strutturare l’analisi del problema come composto da un insieme di aree decisionali per ognuna delle quali vi sono delle opzioni alternative che sono poste in relazione di compatibilità o contrasto con le altre opzioni delle diverse aree decisionali. La sintesi deriva dalla valutazione delle combinazioni delle opzioni compatibili.

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Pianificazione sistemica Strettamente connesso al modello della pianificazione razionale si pone quello della pianificazione sistemica (sviluppata in particolare da J. B. Mc Loughlin e Chadwick), che sostiene anch’essa la generazione e la valutazione di alternative prima di fare una scelta (cfr. Faludi, 1987) e che costituisce una concezione “non sulla città come sistema ma sulla pianificazione come un meccanismo di controllo sociale per gestire sistemi di città” (M. Batty, cit. in Faludi, 1987). Tuttavia tale filone ha accentuato spesso la formalizzazione del processo (attraverso la modellizzazione matematica, ad esempio) alla ricerca di una improbabile “scientificità” di scelte che, per loro natura, sono di tipo tecnico-politico. Quali sono i principi e i metodi della pianificazione sistemica? In breve si possono riconoscere le seguenti fasi, che identificano i momenti del processo di piano come sistemi e sottosistemi governabili in modo autonomo, anche se con delle precise relazioni reciproche e della fasi di retroazione che configurano un processo ciclico (cfr. Mc Loughlin, 1973). 1) analisi dell’ambiente 2) formulazione degli obiettivi 3) identificazione dei possibili indirizzi di azione 4) comparazione e valutazione delle alternative 5) azione 6) controllo e revisione del piano Quanto al concetto di sistema, esso può essere definito come “insieme di elementi connessi o di parti connesse, oppure corpo organizzato di elementi materiali ed immateriali od, ancora, gruppo di oggetti connessi tra loro o che interagiscono in modo tale da formare un’unità”. Anche le relazioni dell’uomo con l’ambiente possono venire identificate in termini di sistema: sistema ecologico o eco-sistema. Il procedimento deve partire dalla identificazione delle parti del sistema e delle sue connessioni o interazioni attraverso i canali di comunicazione. “I piani di tipo sistemico rappresentano la descrizione della traiettoria che vorremmo che un sistema dinamico seguisse: combinando insieme uso del suolo e comunicazioni in ogni istante della sequenza temporale e indicano in che direzione la città dovrebbe svilupparsi e in che modo questo può avvenire”. Altri concetti che assumono rilievo sono quelli del controllo: “modo di contenere entro limiti tollerabili le variazioni rispetto agli obiettivi del sistema, e della “regolazione controllata dell’errore”, vale a dire: confronto tra lo stato effettivo e lo stato desiderato”. Il ciclo della pianificazione si basa sull’assunto che il piano è un processo che si sviluppa nel tempo. 1) viene analizzato l’ambiente; vengono determinate le necessità ed espressi i desideri; 2) Vengono formulati gli obiettivi (generali e specifici); 3) Vengono esaminati possibili indirizzi di azione per raggiungere gli obiettivi; 4) Si valutano gli indirizzi possibili, facendo riferimento ai mezzi disponibili, ai costi, ai benefici; 5) L’azione viene intrapresa. L’ambiente continua ad essere esaminato. Il ciclo si chiude. Il rilievo che assume questo approccio deriva dal supporto fornito allo sviluppo di una grande quantità di metodi e strumenti di previsione e valutazione, in termini soprattutto di modelli matematici. In questo contesto sono stati applicati anche molti strumenti relativi alla ricerca operativa e alla valutazione di tipo economico (ACB). Naturalmente non è necessario aderire a questo filone per sviluppare l’impiego di tali “ausili alla decisione”, anzi, negli anni recenti la messa a punto di metodi di valutazione che derivano direttamente dalle tecniche sviluppate entro tale esperienza si sono collocate, in grande autonomia, entro contesti operativi diversi. E’ il caso, ad

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esempio, della VIA, sviluppata per problemi di natura ambientale, o di altre tecniche e metodi della decisione.

12.8. Fini, obiettivi e strumenti della pianificazione Una definizione operativa di pianificazione la ritroviamo in Friedmann, che elenca le fasi e i compiti seguenti. - Definizione del problema, che deve essere trattato in modi che lo rendano padroneggiabile da parte dell’azione o dell’intervento di governo. - Modellazione e analisi della situazione ai fini dell’intervento con specifiche strumentazioni di governo, innovazioni istituzionali o forme di mobilitazione sociale. - Progettazione di una o più di una potenziale soluzione in forma di politiche, piani oggettivi di azione, innovazioni istituzionali e così via. Queste soluzioni si esprimono tipicamente in termini di: a. Futuro: specificazione di fini e obiettivi, oltre che previsioni, giudizi di probabilità, sequenze di azioni, e così via. b. Spazio: localizzazione, organizzazione spaziale, progetto fisico. c. Esigenza di risorse: stime di costi e altre necessità di risorse scarse, come scambi con l’estero, lavoro qualificato, e così via. d. Procedure di implementazione. e. Procedure di retroazione e valutazione. - Perseguimento di una dettagliata valutazione delle soluzioni alternative proposte in termini di fattibilità tecnica, costi-efficacia, effetti probabili sui differenti gruppi della popolazione, accettabilità politica, e così via. I diversi soggetti che intervengono in un processo decisionale perseguono contemporaneamente una pluralità di fini, tradotti in obiettivi sulla base delle rispettive conoscenze e di un diverso “grado di fiducia” nel futuro (oltre che, naturalmente, di altri fattori culturali e sociali). Questo dà luogo ad azioni che configurano modelli diversi di pianificazione ai quali sono associati strumenti operativi differenziati. Si può sintetizzare questo quadro nel modo seguente, anticipando alcune considerazioni che verranno approfondite in seguito, sulla base soprattutto del contributo fornito da L. Mazza in vari testi.

fini obiettivi tipo di pianificazione

strumenti

mantenimento attuale distribuzione dei vantaggi

conservazione

conservativa /allocativa

tecnico/normativi

miglioramento dei vantaggi di qualcuno senza penalità per altri

innovazione

allocativa

tecnico/politici

miglioramento dei vantaggi di qualcuno anche con penalità per altri

trasformazione

distributiva

politici

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In questo contesto il termine allocazione fa riferimento alla assegnazione di risorse date a determinati usi, mentre distribuzione comporta lo spostamento delle risorse tra i soggetti. L’agire tecnico appare quindi fortemente segnato e limitato dal contesto politico ma pone anche con evidenza come dal sapere possano scaturire indicazioni per intervenire sul piano politico al fine di conseguire risultati significativi. Tra le due sfere permangono tuttavia delle differenze di rilievo: per Hirschmann (cit. da Friedmann), la pianificazione che tende a ridurre le incertezze sul futuro “porterebbe a una minore - piuttosto che maggiore - innovazione sociale, e perciò anche a un minore cambiamento economico e sociale complessivo”. Il coordinamento dei diversi soggetti rinvia alla concezione dello Stato e della democrazia, facendo emergere sostanzialmente due visioni diverse, alle quali sono connessi due tipi di razionalità: da un lato uno Stato verticistico, che implica una razionalità tecnico/giuridica, dall’altro uno Stato a rete che comporta una razionalità negoziale (L. Mazza). Lo stesso autore afferma che, in ogni caso, la natura della pianificazione è intrinsecamente tecnico/politica, potendo tuttavia riconoscere tre “gradi” diversi di coinvolgimento tra gli aspetti tecnici e quelli politici. Per quanto riguarda la pianificazione territoriale/urbanistica (che, in ultima analisi ha come effetto più importante il controllo degli usi del suolo) si può tracciare il seguente schema sintetico.

funzioni specifiche

natura scopi

regolativa, conservativa

ordinamento tradizione

trasformativa progettazione cambiamento

strategica strutturazione innovazione

I termini ordinamento, progettazione e strutturazione fanno riferimento alle seguenti definizioni delle tre funzioni principali, alle quali va aggiunta quella, generale, dell’attuazione. L’ordinamento (regolazione) fa delle scelte relative alla riconoscibilità dei diritti di uso e proprietà dei suoli, impiega come strumento la zonizzazione e si pone come obiettivo quello di regolare e garantire i diritti e i valori. La progettazione fa delle scelte su delle ipotesi di trasformazione, usa degli strumenti di tipo progettuale ed ha come obiettivo la definizione di un nuovo ordinamento. La strutturazione fa delle scelte in merito ai valori, agli scopi, usa degli strumenti di tipo strategico ed ha come obiettivo il conseguimento del consenso, della cooperazione. Ed ancora, mentre l’ordinamento opera mediante il riconoscimento dei diritti, la progettazione definisce delle ipotesi al fine della trasformazione e la strutturazione, che si basa su valori e scopi, ricerca il consenso e la cooperazione. Per questo, ad ogni funzione specifica corrisponde un contenuto prevalente molto diverso: l’ordinamento ha un contenuto tecnico, la progettazione tecnico/politico e la strutturazione politico. Da questo emerge non tanto una differenza tra un approccio positivo (privo di giudizi di valore) ed un approccio, all’opposto, normativo, quanto una diversificazione dei compiti tra il tecnico e il politico. Questo non significa, peraltro, che la distinzione possa essere operata in modo netto, anzi, il perseguimento di funzioni di progettazione o di strutturazione comporta, inevitabilmente, contenuti di tipo politico nonché il fatto che spesso sia

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proprio compito del tecnico individuare e segnalare la necessità di operare su tale piano. Infatti, “Le tre funzioni non possono... essere svolte all’interno di un processo a cascata e di una sequenza gerarchica che muova, ad esempio, dalla strutturazione alla regolazione, perché processo e sequenza sono contraddittori con l’autonomia e asimmetria delle tre funzioni. Esse sono legate da un rapporto in cui non esistono precedenze necessarie, ma sono distinguibili ruoli e tempi diversi, propri delle diverse finalità e obiettivi e del diverso contributo di politici e tecnici nello svolgerle” (Mazza, 1996). Nella pianificazione funzionale “...il pianificatore assume gli obiettivi come dati nella situazione ed è razionale rispetto solo ai mezzi...”. “La pianificazione normativa è principalmente interessata ai fini delle azioni di un sistema sociale. Gli obiettivi della pianificazione normativa sono quelli del sistema sociale stesso”. (Friedmann, cit. in Faludi, 1973).

12.9. Pianificazione, territorio e città Come si connettono le concezioni e gli strumenti della pianificazione descritti alla prassi urbanistica? Vi sono delle regole, spesso molto precise, che indicano cosa, quando, e talvolta come fare i piani; spesso sono precisati contenuti e scale dei diversi strumenti e le loro reciproche relazioni. Molto resta in ogni caso ancora da definire e ad ogni passo ci si imbatte in questioni che relazionano aspetti minuti, spesso apparentemente secondari, alle grandi questioni fondamentali. L’apposizione di un vincolo, la scelta tra la realizzazione di opere alternative, la contrazione del diritto di azione di un singolo cittadino (ad esempio perché il suo terreno deve essere espropriato per la realizzazione di una strada o di un’opera pubblica) sono azioni che sollevano immediatamente questioni connesse alla natura dello Stato, alla sua legittimazione, alla efficacia della scelta, al fondamento del criterio dell’interesse collettivo, agli strumenti adottati per valutarlo concretamente. Per questo nel piano urbanistico/territoriale si intrecciano aspetti di tipo strategico ed aspetti di ordinamento passando per fasi di progettazione di livello diverso. L. Mazza ha proposto uno schema che intreccia i quattro momenti (e i rispettivi strumenti operativi) secondo un modello che non vede una gerarchia ma una circolarità. Questo approccio, che sottolinea l’inefficacia dell’impostazione gerarchica propria della normativa italiana, implica la conseguenza della pluralità dei fini e degli strumenti compresenti nei piani.

progettazione (poli tiche/progetti)

regolazione (piani

regolatori)

(progetti esecutivi)

attuazione

strutturazione (piani

strutturali)

(da Mazza, 1996, ridis.)

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“La difficoltà di cogliere queste differenze [tra le pratiche di pianificazione rivolte alla regolazione degli usi del suolo e le pratiche che perseguono progetti di trasformazione] è determinata sia dalla continuità che esiste tra le pratiche di regolazione e quelle di trasformazione, sia dal fatto che i piani urbanistici sono di solito una mescolanza di politiche di regolazione e quelle di trasformazione” Mazza, 1996). Nel concreto dell’azione dei soggetti, il comune interviene ai fini dell’ordinamento (attraverso i piani regolatori) mentre comune, provincia, regione e gli altri attori pubblici e privati intervengono tutti nella progettazione e nella elaborazione di strategie. Quanto al livello della pianificazione strategica, esso rimane in misura privilegiata collocato alla dimensione territoriale e quindi connesso al livello regionale.

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strategico

pianif. strategicapianif. strutturale

pianif. incrementalista

progetti urbani pianif. territoriale

progetto processo

piano regolatore

piano attuativo

progetto edilizio

pianif. razionale

pianif. sistemica

operativo

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